Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti su Caravaggio e per ulteriori articoli sul tema di Andrea Lonardo, cfr. le sotto-sezioni Michelangelo e Caravaggio nella sezione Roma e le sue basiliche (cfr. in particolare Caravaggio e le storie di San Matteo nella Cappella Contarelli: un'introduzione alla visita, di Andrea Lonardo).
Il Centro culturale Gli scritti (31/5/2016)
In un precedente studio abbiamo già dato notizia della scoperta: Michelangelo come dopo di lui Caravaggio - che cita il grande maestro che portava il suo stesso nome di battesimo - dipingono san Pietro che, nell’istante nel quale la croce viene innalzata, si volge verso l’eucarestia e non verso chi entra nelle rispettive cappelle, la Paolina e la Cerasi.
Cappella Paolina, Michelangelo, San Pietro crocifisso
si volge a guardare l’eucarestia
Vogliamo ora aggiungere un’ulteriore riflessione che ha conseguenze significative nella comprensione della duplice versione dei dipinti della Cerasi.
La Cappella Paolina è a navata unica. La posizione dei due affreschi michelangioleschi non è pertanto decisiva, perché chi vi entra e chi è all’altare li osserva da una posizione centrale.
Cappella Paolina, totale con la Crocifissione di Pietro a destra
e la Conversione di Paolo a sinistra
La Cappella Cerasi, invece, è a sinistra dell’altare principale di Santa Maria del Popolo, motivo per il quale chi vi entra vede prima la tela a sinistra e solo dopo, avvicinandosi, quella di destra.
Caravaggio nella prima versione delle due opere si limitò a ripetere la disposizione degli affreschi michelangioleschi con Pietro a destra e Paolo a sinistra, come appare evidente dal confronto fra le due attuali tele e la pala Odescalchi superstite in coppia con la presunta copia della Crocifissione di Piero conservatasi in Spagna. Le figure appaiono disposte in maniera opposta nella prima e nella seconda versione.
Cappella Cerasi, Caravaggio, prima versione con la
Crocifissione di Pietro a destra e la Conversione di
Paolo a sinistra (elaborazione di Bruno Brunelli per Gli scritti)
Caravaggio ripensò la sua opera nella Cappella, dopo che - come ritengono giustamente gli studi più significativi - le due prime versioni non vennero rifiutate dal committente, ma più semplicemente non poste in opera. La prima versione delle opere non venne posta in situ o perché la Cappella era ancora in fase di completamento, oppure perché non reggevano il confronto con l’Assunta del Carracci o ancora perché Caravaggio stesso le ritenne non ben fatte[1].
Probabilmente fu Caravaggio stesso a mutare la disposizione della seconda versione delle opere perché la Crocifissione di san Pietro venisse posto a sinistra. Se “scandalizza” il posteriore di un crocifissore che si vede in primo piano – e che, d’altronde, ripete la postura dell’analoga figura michelangiolesca che scava la buca dove piantare la croce – è vero d’altro canto che l’opera da quel “particolare” conduce via via a “salire” fino al volto di Pietro che guarda all’Eucarestia che il celebrante consacra nel punto dove lo sguardo del primo degli apostoli si volge[2].
Cappella Cerasi, Caravaggio, seconda versione con la
Crocifissione di Pietro a sinistra e la Conversione di
Paolo a destra (foto di Bruno Brunelli)
Come è abituale in Caravaggio, l’umano è posto in relazione al divino: è la realtà cristiana.
Caravaggio, Conversione di Paolo (I versione),
Pala Odescalchi Baldi
Copia di Caravaggio, Crocifissione di Pietro (I versione)
Note al testo
[1] Cfr. su questo, i testi di A.Paolucci, T. Verdon e A. Lonardo nel volume Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose, A. Rodolfo (a cura di), Edizioni Musei Vaticani, Città del Vaticano, 2014, pp. 129ss. Cfr. anche R. Longhi, Caravaggio, Editori Riuniti, Roma, 2006, I edizione del 1982, p. 55 («I due dipinti, che il committente voleva condotti su tavola di cipresso e anticipati da modelli, ebbero, com’è noto, una prima redazione, subito passata in altre mani e ciò non già perché non piacessero al committente, come pur si è voluto insinuare (ché anzi chi li vide < li > dichiara quasi identici agli odierni), ma perché, è da credere, fu il pittore stesso a poterli sostituire con altri nella sua tecnica preferita “ad olio su tela”. E, del resto, chi potrebbe immaginare altra versione coeva in cui il Caravaggio potesse rendere pensieri più spinti di questi? La “Conversione di San Paolo” Balbi-Odescalchi, che pure si è voluta inserita nel problema, è tanto distante da questa quanto il primo “San Matteo” lo è dal secondo. Di mezzo, fra i due casi, vi è quasi tutto lo svolgimento dell’artista dalla primissima giovinezza alla piena maturità»), M. Marini, Caravaggio «pictor praestantissimus», Newton Compton, Roma, 2015 (I edizione 1987), p. 447 («Le prime versioni, realizzate come da contratto su tavole di cipresso, trovarono qualche ostacolo all’atto della messa in opera (forse per ragioni di convenienza estetica e di squilibri nell’illuminazione), per cui (verosimilmente in accordo con gli eredi del committente, monsignor Tiberio Cerasi, nel frattempo venuto a mancare), il Caravaggio le sostituisce con le tele a tutt’oggi nella cappella»), M. Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Einaudi, Torino, 1990, pp. 311-312 («Anche in San Luigi, come abbiam visto, oltre che da motivazioni iconografiche la sostituzione del dipinto fu certo dettata dall'esigenza di migliorare l'inserimento, in questo caso di aumentare il formato, ai fini dell'ambientazione nella cappella. E simili 'rifiuti' non è detto che non fossero incoraggiati proprio dai collezionisti, desiderosi di entrare in possesso dei capolavori 'scartati'. Insomma, essi sembrano in ultimo testimoniare il successo del Caravaggio, piuttosto che il contrario. Le presunte trasgressioni iconografiche della prima Conversione Balbi non sono tali») e più recentemente R. Vodret, Caravaggio. L’opera completa, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo, 2009, pp. 126-128 (p. 127 («Dal punto di vista sia dello stile sia della composizione, le due Conversioni di San Paolo sono lontanissime tra loro. La tavola Odescalchi è ancora profondamente legata ai moduli manieristici, mentre le due tele sono inserite pienamente nella nuova straordinaria visione della realtà elaborata da Caravaggio»).
[2] Si potrebbe forse proporre un’analogia con la disposizione della Cappella Contarelli, dove per primi si vedono a sinistra Matteo e gli altri gabellieri, ma lo sguardo giunge poi al Cristo che chiama con la luce simbolica che scende dal cielo e che proviene dal fondo della Cappella e non dal lato dei fedeli che ne vengono invece raggiunti. Sul lato opposto, a destra, è Matteo riverso a terra al momento del martirio dove, nuovamente, la luce che lo raggiunge viene dal lato più vicino all’altare della Contarelli.
Riprendiamo da La stampa del 29/5/2016 un articolo di Giulio Gavino. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (30/5/2016)

«L’imminente sgombero con la forza deve essere scongiurato, i migranti saranno ospitati nei terreni del seminario vescovile di Bordighera». Il colpo di scena è arrivato poco fa, al tramonto, alla vigilia dell’intervento delle forze dell’ordine che i bene informati davano per l’alba di domani. Il vescovo della diocesi Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta è sceso in campo per evitare il blitz, contro la prospettiva dello scenario traumatico di corpi trascinati via a forza. Un’azione congiunta, con in campo anche la Caritas e il rettore del seminario Ferruccio Bortolotto. Contrattazioni febbrili con il Comune di Ventimiglia, mentre i No borders in serata stavano iniziando ad accompagnare i migranti verso Camporosso, sempre sulla spiaggia. La decisione è maturata mentre i primi 19 migranti arrivati da Genova, assegnati al Seminario dalla Prefettura, disfavano le valige. «Tra questi e quelli non c’è differenza, vivono lo stesso incubo, le porte sono aperte» - è stato il commento della Curia che ha confermato un’azione per evitare il blitz.
Il seminario ha messo a disposizione il campo di calcio, in grado di ospitare da 70 a cento persone nelle tende. I servizi igienici esistono, anche se hanno bisogno di una sistemata. Questione di giorni e di quella «divina provvidenza» che in queste occasioni il Ponente non ha mai fatto mancare alla Curia. Le condizioni poste alle Istituzioni sono due: gestione del «campo» delegata alla Caritas e un presidio di sicurezza da parte delle forze dell’ordine (nell’arco delle 24 ore).
«Le porte sono aperte anche ai No borders - dicono dal Seminario - a patto che intervengano come volontari e a titolo personale. Per chi vuol fare del bene non esistono mura o cancelli». Parole che ribadiscono l’impegno concreto sul fronte dell’emergenza migranti e in linea con la posizione di papa Bergoglio.
Certo è che l’azione della Curia è arrivata in un clima incandescente, tra le voci dello sgombero forzato fissato per questa mattina e le polemiche politiche per il fallimento, almeno parziale, del piano-Alfano.
Il vescovo e i suoi collaboratori hanno promosso un gesto, teso una prima mano, che nella giornata di domani potrebbe essere seguito da quello della prefettura che prendendo atto dell’allestimento del campo al seminario di Bordighera potrebbe in via di urgenza «legittimarlo» facendo in modo di mobilitare anche la protezione civile (con tende decorose al posto di quelle squarciate dal vento usate oggi dai migranti). «Ma noi siamo in grado anche di farcela con le nostre forze - hanno detto i seminaristi. La nostra è una scelta di servizio. Siamo qui per pregare, studiare, ma anche e soprattutto servire».
Riprendiamo dal blog di Fabrizio Falconi http://fabriziofalconi.blogspot.it/ un testo tratto da F. Falconi, Monumenti Esoterici d’Italia, Newton Compton, Roma, 2013 e pubblicato on-line il 20/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
Dieci anni della mia vita pur d’essere lo scultore del Cristo Velato! La celebre esclamazione, frutto di una sconfinata ammirazione unita alla irrefrenabile invidia degli artisti, suole essere attribuita nientemeno che ad Antonio Canova quando nel 1780, in visita a Napoli, alla Cappella dei principi di Sansevero, si trovò di fronte l’incredibile ritratto scolpito del Cristo morto velato, adagiato su di un giaciglio, la testa reclinata su due cuscini, ai piedi gli strumenti del supplizio.
Lo stupore di Canova, però, come anche il nostro oggi, era pienamente giustificato: come aveva fatto un giovane scultore di soli trentadue anni, Giuseppe Sanmartino, ancora poco conosciuto, a realizzare un’opera di tale virtuosismo ? Il Cristo, sotto il velo minutamente realizzato in ogni piega, in ogni spessore, come forse mai prima di allora, sembrava davvero appena cristallizzato dopo il supplizio e la morte, ancora palpitante, come se la vita l’avesse appena lasciato.
Com’era possibile un tale prodigio? Se lo continuarono a chiedere in tanti, anche dopo la visita di Canova, e riuscirono anche a darsi una spiegazione: quella magia, quella straordinaria esibizione di bravura, non era tutta farina del sacco del giovane scultore, non era opera sua l’invenzione di una simile tecnica di lavorazione del marmo. No, c’era di mezzo qualcuno di molto più sapiente, nello studio e nell’utilizzo delle più segrete tecniche alchemiche. Era stato lui, era stato sicuramente il principe Raimondo de Sangro, l’erudito colto studioso misantropo, che aveva commissionato l’opera dapprima al veneziano Antonio Corradini e poi alla morte di questo proprio al Sanmartino e che a quest’ultimo aveva insegnato le segreti arti di trasformazione dei materiali, per permettergli di realizzare un’opera unica al mondo.
A questo proposito c’è da dire che le leggende a proposito del Principe Raimondo sono fiorite e hanno prosperato con il passare dei decenni a Napoli, città dove lo scambio e la tradizione orale hanno potere come in pochi altri posti al mondo, e c’è da capirlo vista la fama che circondò in vita l’artefice della Cappella.
Raimondo proveniva, per nascita, dall’alta aristocrazia dei Grandi di Spagna. La sua famiglia vantava estesi possedimenti nelle Puglie, ed è proprio qui, nel feudo di Torremaggiore che nacque Raimondo, nel 1707. I suoi genitori erano Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, membro di una delle casate patrizie più antiche d’Italia, e Antonio di Sarno, duca di Torremaggiore.
La madre Cecilia, morì pochi mesi dopo il parto. Al suo ricordo, Raimondo rimase per sempre devoto, e nel suo Pantheon personale, che è la Cappella di cui ci stiamo occupando, a lei dedicò la statua della Pudicizia velata, che fece realizzare da Antonio Corradini nel 1752, dove già si evidenziano i prodigi della lavorazione del velo che copre il corpo della donna, sostenuto da una lapide spezzata, a simboleggiare proprio la prematura scomparsa della madre.
Il padre, Antonio di Sangro, era invece un nobile dal carattere vanesio e libertino. Troppo preso dalle sue tresche, pensò bene di affidare il figlio, orfano di madre, alla cura dei nonni paterni. Nel frattempo, invaghitosi di una giovane ragazza, ne fece uccidere il padre che si opponeva alla relazione. Il fattaccio avvenne in Puglia, nella città di Sansevero, dove i duchi avevano sempre goduto di fama e rispettabilità. Stavolta però il delitto fu talmente sfacciato da non poter essere perdonato: il sindaco di Sansevero impugnò un procedimento penale contro il principe Antonio, che fu costretto a fuggire e a rifugiarsi presso la Corte di Vienna, da dove cercò di difendersi dalle accuse grazie alla protezione dell'Imperatore. Quando il Tribunale pugliese, su pressione diplomatica, archiviò il caso, Antonio poté rientrare nei suoi feudi ma ancora non pago, decise di vendicarsi ordinando l’uccisione di quello che era stato il suo principale accusatore. Una nuova fuga lo portò stavolta a Roma, dove però Antonio di Sangro trovò il modo di convertirsi, dopo essersi pentito dei suoi misfatti, prese i voti e si ritirò in convento.
A questa vicenda, che c’è da immaginarlo segnò non poco la personalità del piccolo Raimondo – avere un padre assassino – il Principe dedicò una delle più famose opere presenti nella Cappella, la statua detta del Disinganno: Raimondo di Sangro la commissionò allo scultore Francesco Queirolo e rappresenta un uomo che si libera dal peccato, quest’ultimo simboleggiato da una fitta rete che ne avvolge il corpo e dal quale la figura tenta di districarsi. Anche qui siamo di fronte a una tecnica prodigiosa, e per alcuni versi, perfino inspiegabile. A questo proposito si racconta che gli artigiani ai quali fu affidata l’opera, per la rifinitura del marmo, si rifiutarono di eseguirla proprio per il terrore che la fitta maglia della rete potesse spezzarsi sotto le loro mani. Di conseguenza, il Queirolo stesso dovette passare a mano, personalmente, la pietra pomice.
Nella dedica, predisposta da Raimondo per il padre, si legge: mirabile per eloquenza, intelletto e innumerevoli virtù che, avendo perso in gioventù la moglie, fu molto asservito, ormai celibe, alle giovanili brame e per tale motivo viaggiò per tutta l’Europa lontano dalla Patria, ma infine, riconosciute le proprie colpe, ritornato in patria, divenne sacerdote e abate di questo tempio... In tal modo indicò come non sia possibile alla fragilità umana mostrare grandi virtù senza debolezze.
Una specie di epitaffio, dunque, che tentava di restituire l’onore a un padre da parte di un figlio molto presto abbandonato.
Avevamo lasciato Raimondo affidato alla cura dei nonni, i genitori di Antonio. Questa fu, in un certo modo, la fortuna del giovane Principe. All’età di dieci anni infatti, e fino al compimento dei venti, fu mandato a Roma, a causa della soverchia vivacità del suo spirito, che il nonno Paolo, aveva intuito in lui, presso il Collegio Clementino dei Padri Gesuiti.
Qui, Raimondo, ricevette – grazie ad insegnanti come Domenico Quarteironi e Carlo Spinola – quella educazione che, sulla base di uno spirito già molto predisposto, ne fecero uno delle personalità più erudite e geniali del Settecento non soltanto italiano. Filosofia, diritto, araldica, geografia, letteratura, alchimia, idrostatica, prospettiva, matematica, pirotecnica, ingegneria idraulica: non c’era un solo campo del sapere che non fosse terreno di conquista per il giovane Principe, avido di conoscenza.
Le sue molte e precoci imprese sono raccontate in quell’almanacco che è la principale fonte biografica del Principe di Sansevero: Istoria dello Studio di Napoli, scritto da Gian Giuseppe Origlia nel 1754.
Il ritorno a Napoli, a vent’anni, coincise con la sua investitura ufficiale: nel 1730 infatti, morto il nonno, Raimondo di Sangro diveniva ufficialmente il VII Principe di Sansevero.
Oramai, ad un giovane, dotato di così prodigiosi doni, nessun traguardo era precluso: sposata la cugina (per ramo materno) Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona, di soli 14 anni, all’ingresso a Napoli di Carlo di Borbone, fu subito nominato Gentiluomo di Camera con Esercizio e insignito del titolo di Cavaliere del Reale Ordine di San Gennaro, e insieme alla consorte stabilì la sua residenza nell’antico palazzo di famiglia, nella Piazza San Domenico Maggiore. Circostanza questa destinata ad alimentare la futura fama esoterica di Raimondo, visto che proprietario dello stesso palazzo era stato alla fine del ‘500 il celebre Carlo Gesualdo Principe di Venosa, geniale musicista, e assassino della moglie[1].
Furono questi gli anni di un lavorio instancabile, di mille affari e mille occupazioni. Raimondo, che era stato riconosciuto membro prima della Accademia de’ Ravvivati (col nome de plume di Precipitoso) e poi della Accademia della Crusca (col nome di Esercitato) si dedicò alla compilazione di un monumentale Gran Vocabolario della Arte di Terra, compendio di architettura e costruzioni e di una Pratica più agevole e più utile di esercizi militari per l’infanteria, un trattato di arti militari. Ma non solo: esercitò la sua inventiva per creare macchinari straordinari nei più disparati campi. Tra le innumerevoli invenzioni a lui attribuite – e che in molti casi fu egli stesso ad attribuirsi nella sua Lettera apologetica, scritta nel 1750 – una macchina idraulica capace di far risalire acqua a qualunque altezza; un fenomenale teatro pirotecnico; un archibugio ad una sola canna che poteva sparare a polvere o a vento; un cannone di materiale leggero ma capace di sparare proiettili a gittata superiore alla norma; e poi il cosiddetto lume eterno, sorta di combustibile ricavato da una mistura di fosfato di calcio e di fosforo altamente concentrato; e poi ancora, carta ignifuga, impermeabilizzazione dei tessuti, stampa simultanea e a colori ad una sola pressione di torchio e a un medesimo tempo, un sistema per desalinizzare e rendere potabile l’acqua di mare e chi più ne ha più ne metta.
E’ chiaro poi, che sul conto del Principe, furono ancor di più le leggende attribuite, rispetto ai suoi meriti reali che pure, come è facile accertare, furono molti e nei campi più diversi.
Così ad esempio sono ancora in molti oggi ad essere convinti che il celebre miracolo del Sangue di San Gennaro, che si ripete ogni anno nella Cattedrale di Napoli, sia anch’esso una invenzione del Principe di San Severo [N.B. de Gli scritti Ovviamente il miracolo ha una tradizione di gran lunga precedente alla vita di Raimondo di Sangro], il quale, nel suo laboratorio avrebbe creato anche, grazie alle sue capacità alchemiche, una sostanza con capacità coagulanti e anticoagulanti capaci di attivarsi con il movimento.
Cosa ci sia di vero in questo è molto difficile dire, proprio perché su molte delle presunte invenzioni del Di Sangro ci sono pervenute soltanto testimonianze frammentarie, oppure i risultati auto-attribuiti e non certo documentati scientificamente, nella sua Lettera apologetica, scritto che tra l’altro fu messo all’indice e fu il preludio della successiva scomunica papale.
E’ certo comunque che il Principe di San Severo sempre di più decise di chiudersi al mondo, coltivando i suoi studi e gli interessi che ormai lo prendevano come una febbre estrema. Il 1744 è l’anno della svolta: dopo aver partecipato alla battaglia di Velletri contro gli austriaci ed essersi particolarmente distinto, il Principe chiude la sua carriera militare e comincia a dedicarsi totalmente al restauro e alla cura definitiva della sua opera, ovvero la cappella Gentilizia che oggi tutto il mondo ammira.
Anche questo luogo, dobbiamo dire, come il resto del Palazzo nobiliare, vantava nobili origini, addirittura ancora più lontane e legate in realtà ad un episodio leggendario narrato nella celebre Napoli Sacra, l’opera scritta da Cesare d’Engenio Caracciolo nel 1624.
Qui si raccontava la storia di un uomo innocente che, negli ultimi anni del ‘500, era stato portato in catene in procinto di essere incarcerato e condannato a morte. Costui, però, passando proprio di fronte al giardino del Palazzo de Sangro, vedendo crollare improvvisamente un costone del muro e apparire dal retro un’icona della Vergine Maria, aveva fatto voto di apporre in quell’esatto posto una lapide d’argento se fosse stato riconosciuto innocente dal Tribunale, cosa che era poi avvenuta. Quella prima lapide preziosa era poi diventata una cappelletta allorquando Giovan Francesco Paolo de Sangro – un lontano antenato del Principe – ammalato, era tornato a chiedere la grazia alla Vergine dell’immagine.
Sorse così il piccolo tempio denominato Santa Maria della Pietà, che popolarmente divenne Pietatella. I discendenti di Giovan Francesco si dedicarono poi all’ampliamento di quel luogo, fino a Raimondo, appunto, per il quale la Cappella divenne una vera e propria ossessione, il lavoro di una vita, sorta di Pantheon personale dedicato al personale culto della immortalità, per sé e per i propri antenati e congiunti.
In effetti era stato Alessandro, il figlio di Giovan Francesco, il primo ad utilizzare il tempietto come luogo di sepoltura per gli antenati di famiglia. Ai tempi di Raimondo, le tombe erano già numerose. Egli però pensò di disporle secondo un preciso piano armonico, contestualizzandole all’interno di quel che doveva essere un vero e proprio Museo delle meraviglie.
Nello stesso anno in cui diede inizio ai lavori per il restauro della Cappella, il Principe di Sansevero si iscrisse alla Massoneria. E questa fu davvero una svolta per lui. Le logge massoniche avevano cominciato a radicarsi a Napoli all’inizio del Settecento e si diffusero con grande rapidità. Bisogna a questo proposito considerare che questi erano gli anni delle grandi scoperte archeologiche, in Campania, patrocinate e finanziate proprio dal sovrano spagnolo, Carlo III di Borbone. E mano a mano che i picconi e le vanghe degli operai riportavano alla luce i tesori classici di Paestum, di Ercolano e di Pompei, i muratori massonici ricavavano nuova linfa per la riscoperta di quei valori dell’antichità che andavano studiati e riproposti – insieme ai misteriosi riti magici – agli iniziati.
Il Principe di Sansevero, perfetto prodotto di questo clima, trovò terreno fertile per coltivare al meglio i suoi interessi: formò una officina insieme ad altri confratelli appartenenti alla migliore nobiltà partenopea, assumendo l’appellativo di Rosa d’Ordine Magno, geniale anagramma del suo nome, scalò uno ad uno tutti i gradini più importanti della gerarchia fino ad essere nominato Gran Maestro delle Logge di Napoli, fino ad avere l’ardire addirittura di proporre allo stesso Re Carlo III l’iscrizione nell’Ordine.
Quel che l’animava era sicuramente il fascino del potere personale, ma anche la necessità di trovare continuamente nuovi fondi per i lavori del suo Pantheon, la Cappella di Sansevero, che con tutte le opere che andava commissionando ai migliori e più blasonati artisti del Sud Italia, si stava trasformando per lui in una specie di pozzo di San Patrizio.
Ma anche questo non bastava. L’onta maggiore arrivò con l’inesorabile scomunica da parte di Papa Benedetto XIV, insieme a quella di tutti gli appartenenti alla Fratellanza. Quel che si stava rischiando era un vero caso politico, e per evitare di alimentare le tentazioni belliche del Pontefice, anche Re Carlo III fu costretto a prendere provvedimenti e a fare piazza pulita, decretando, con un editto, lo scioglimento di tutte le logge di Napoli e la messa al bando della massoneria dal Regno. Lo stesso Raimondo, pressato dal Re, fu costretto a collaborare, rivelando pubblicamente la lista degli affiliati, con la promessa che non sarebbero stati perseguiti penalmente e che avrebbero potuto continuare a coltivare i loro occulti interessi, privatamente. Cosa che toccò anche allo stesso Principe. La collaborazione, infatti, gli valse la revoca della scomunica e la possibilità di ritirarsi a vita privata occupandosi unicamente dei suoi studi e degli esperimenti di laboratorio che ormai erano le uniche cose a stargli veramente a cuore.
La necessità continua e impellente però di finanziare i lavori e gli esperimenti magici - intorno ai quali saliva il mormorio del popolino che immaginava ogni sorta di prodigio e di magia nera si compisse dietro i muri di quel Palazzo – lo mise nuovamente nei guai: giunse infatti al punto, non solo di chiedere prestiti a destra e manca, ma anche di affittare il suo palco al teatro San Carlo e le stanze del suo Palazzo ai giocatori di azzardo. Atteggiamenti sempre meno tollerati, soprattutto dai suoi nemici personali, primo fra tutti quel Bernardo Tanucci, Ministro della Real Casa, che iniziò a perseguitarlo finché, approfittando del ritorno in Spagna di Carlo III, non riuscì a farlo arrestare e rinchiudere per qualche mese nel carcere di Gaeta.
Liberato grazie all’intercessione di alcuni nobili amici, fu arrestato ancora – con un pretesto – dal Tanucci e sempre a causa dei suoi debiti, che ormai ammontavano a cifre spaventose e che furono ripianati solo con il matrimonio di convenienza combinato per il suo primogenito Vincenzo.
La ricca dote della futura moglie scongiurò il crac finanziario e permise finalmente a Raimondo di trovare quella pace che inseguiva, per poter completare l’opera della Cappella delle meraviglie.
Cosa che fece fino alla morte, avvenuta il 22 marzo del 1771, quando aveva sessantuno anni e ormai era rimasto poco di quel giovane di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, com’era stato descritto dal suo amico Antonio Genovesi, il grande umanista campano protagonista della scena settecentesca.
In realtà, con il passare degli anni e con l’incalzare della vecchiaia, il Principe s’era trasformato in un misantropo, quasi sempre nascosto al riparo delle mura del suo Palazzo, scostante nei modi, cupo e misterioso, come erano le attività alle quali si diceva continuasse sempre più intensamente a dedicarsi.
L’aristocratico illuminato, inebriato dalla vita sociale e dalla mondanità, era diventato un vecchio ossesso, minato da quel difetto di aver troppa fantasia (sempre per citare Genovesi) che lo stava portando su sentieri di ricerca sempre più avventurosi .
Se oggi si conosce molto poco di quel che veramente realizzò il Principe con i suoi esperimenti, e soprattutto della maniera con cui vennero realizzati, il motivo è proprio nella stessa volontà di Raimondo, che considerava le arti esoteriche nel suo senso più pieno, come verità non disponibili a tutti, ma riservate soltanto a chi fosse capace di tradurre l’esperienza in un cammino iniziatico.
Qualcosa in più avrebbero potuto rivelare i suoi molti collaboratori, ma nei loro confronti il Principe era molto munifico e il carisma personale gli assicurava, evidentemente, la fedeltà personale degli adepti.
La sua mente comunque non si fermava mai. Per avere un idea della fertilità del suo genio basta guardare il campione della incredibile pavimentazione della Cappella – purtroppo andata perduta nell’Ottocento – che è conservato nel passetto antistante la tomba del Principe. Il motivo a labirinto, rinvio alla tradizione classica della conoscenza nascosta, viene qui reinterpretato in maniera unica e straordinaria: una linea di marmo bianco, senza soluzione di continuità, forma motivi alternati di croci uncinate e quadrati concentrici sullo sfondo di tarsie policrome. Secondo alcuni, la testimonianza definitiva che Raimondo di Sangro aveva trovato il modo di liquefare il marmo, di renderlo sintetico e plasmabile, in questo caso incanalando il flusso del prezioso materiale attraverso appositi scomparti.
Nella impossibilità oggi di dar credito ad una ipotesi come questa, si preferisce pensare semplicemente alla evidenza di un genio, quello del Principe di Sansevero, che non conosceva limiti e che era capace di progettare e realizzare le opere più diverse anche nel campo della geometria, con l’invenzione di figure sempre più complesse.
Ma non v’è dubbio che ciò che contribuì maggiormente allo sviluppo e al consolidamento della leggenda nera intorno al Principe, furono sicuramente quelle che vengono chiamate comunemente macchine anatomiche, e che ancora oggi atterriscono non pochi visitatori quando dal piano superiore della Cappella accedono alla Cavea sotterranea, pensata originariamente come luogo di sepoltura anch’esso, e poi invece diventata, secondo alcuni, il vero e proprio laboratorio dove si compivano gli esperimenti di natura alchemica.
Le macchine anatomiche si presentano oggi come due scheletri – uno di un uomo, l’altro di una donna – all’interno di bacheche, in posizione eretta, la donna con il braccio destro alzato, che si presentano come cadaveri completamente scarnificati, che hanno in vista l’intero sistema circolatorio, formato da vasi, arterie, capillari e – nel caso dello scheletro femminile – perfino i bulbi oculari.
Non è difficile immaginare quali dovessero essere lo sconcerto e il terrore provati dai primi visitatori ai quali il Principe mostrò questi reperti. Certamente Raimondo si guardò bene dal pubblicizzarli, dal mostrarli cioè il pubblico. Ma la leggenda di quel che accadeva nelle stanze del Palazzo ci mise poco ad uscire per le strade e a diffondersi per i vicoli di Napoli accrescendo l’aura negativa che circondava il Principe di Sansevero.
A distanza di tanti anni poi, è ancora difficile stabilire esattamente come e con quali procedure sia stato possibile realizzare le macchine. Anche perché le informazioni certe al riguardo sono poche. Si sa soltanto che Raimondo si avvalse della consulenza e della collaborazione materiale di un anatomista palermitano, un certo Giuseppe Salerno e che le due macchine sono costituite di due scheletri autentici. Ma nessuno sa chi fossero le due persone cristallizzate dal Principe.
La leggenda ci mise poco a impadronirsi del racconto e a farlo proprio, stabilendo che gli scheletri fossero i resti dei corpi di due servitori del Principe, un nano ed una donna incinta, nei quali sarebbe stato iniettato un assai misterioso liquido capace di pietrificare le vene e le arterie.
Peccato che all’epoca non esistessero, non fossero stati ancora inventati aghi venosi, e che quindi sia difficile immaginare come sia stato possibile inserire il liquido di cui si parla.
Ciò che sorprese parecchio gli anatomisti nei decenni seguenti, fu soprattutto il fatto che il sistema circolatorio fosse stato riprodotto – ammesso che si trattasse di un’opera artificiale – con tanta precisione, visto che le conoscenze anatomiche dell’epoca erano ben lungi dall’arrivare a tanta minuzia.
E poi: qual era lo scopo esatto di queste macchine? A cosa servivano esattamente? Possedevano un intento didattico, o erano solo un bizzarro esperimento antesignano di quelli fantasticati un secolo e mezzo dopo da Mary Shelley in Frankenstein? C’era di mezzo, insomma, il folle tentativo di ridare vita a un corpo dopo la morte?
In realtà le spaventose macchine non fecero altro che arricchire la già corposa vulgata secondo la quale le attività stregonesche del Principe si svolgevano con rituali sadici o macabri: c’era chi sosteneva che nel laboratorio di Palazzo Sansevero fossero portati, nottetempo, sbandati e vagabondi, i cui corpi venivano usati per inimmaginabili esperimenti; c’era chi era sicuro che la passione per il bel canto del Principe, arrivasse al punto tale da indurlo a rapire giovanetti dalla bella voce e dopo averli fatti castrare, ad avviarli alla carriera di cantores; e c’era chi addirittura si diceva sicuro che Raimondo di Sangro avesse fatto uccidere sette cardinali, e a guisa di sfregio, avesse utilizzato le loro ossa e la pelle dei loro corpi per fabbricare poltrone.
In un clima di questo tipo, non è allora strano che, a proposito delle macchine anatomiche, si fosse diffusa in breve tempo la voce che l’esperimento era stato compiuto su persone viventi e che il nano in questione fosse un servo traditore del Principe e la donna che gli si negava e che aspettava un figlio da un altro uomo. Sembra a questo proposito, che in effetti la macchina femminile presentasse in origine anche lo scheletro di un feto, poi misteriosamente scomparso negli anni successivi alla morte di Raimondo.
La realtà sulla identità dei due corpi, non la sapremo mai. Quello che invece appare oggi più chiaro è il procedimento attraverso il quale il Principe insieme ai suoi collaboratori riuscì a realizzare le macchine. Innanzitutto l’analisi minuziosa, compiuta in tempi recenti [2] ha permesso di stabilire che i circuiti sanguigni riprodotti sulle macchine presentano degli errori. Il che ha fatto escludere l’ipotesi che il procedimento sia consistito in una cristallizzazione di vene, arterie e vasi realmente esistenti.
E’ probabile invece, e anzi certo, secondo l’esame degli ultimi studi da parte dei tecnici americani, che Raimondo di Sangro abbia, insieme al Salerno, realizzato, sui due scheletri una riproduzione dei vasi, utilizzando filo metallico e cera, il che avvalorerebbe l’ipotesi di una funzione didattica delle due macchine che sarebbero servite a dimostrare la perfetta conoscenza del corpo umano da parte del Principe.
Anche sulla base di queste nuove teorie, resta comunque la meraviglia di come abbia potuto Raimondo, per le acquisizioni dell’epoca, costruire modelli così realistici, così perfetti come mai era stato possibile prima di allora.
Cosa che appare ancora più sorprendente se si valutano gli strumenti adoperati dal Principe e dai suoi collaboratori, esposti sempre all’interno della Cavea e che furono ritrovati durante i lavori di consolidamento e di restauro del monumento, nel 1990.
La cosa che, in conclusione, colpisce, della intera vicenda, è comunque quella specie di ossessione del Principe per il sangue (del resto inscritta nel suo stesso nome visto il nome del casato, di origine spagnola, al quale apparteneva, ovvero de Sangro) che gli è valsa perfino, come abbiamo visto, l’associazione presunta al miracolo del sangue di San Gennaro.
Qualunque siano state le reali acquisizioni del Principe di Sansevero, qualunque sia stata la sua reale capacità in fatto di esperimenti alchemici (da un punto di vista scientifico impossibili da realizzare) resta il fatto che Raimondo di Sangro, segnando una intera epoca, si dedicò e dedicò l’intera opera della sua vita al compimento di un lucido sogno di immortalità come si può leggere ancora molto chiaramente nella stessa iscrizione dedicatoria posta proprio all’ingresso della Cappella di Sansevero:
Chiunque tu sia, o viandante, cittadino o provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero Don Raimondo de Sangro, per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri… Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne.. e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati[3].
Breve nota in appendice di Andrea Lonardo (29/5/2016)
Riprendiamo in appendice una breve nota di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
È straordinario che, fra tutte le opere che Raimondo di Sangro principe di Sansevero fece realizzare, la più famosa è certamente il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino.
Certo Raimondo di Sangro si occupò innanzitutto di armi ed eserciti. Come ricorda Alessandro Cutolo nell’Enciclopedia Italiana della Treccani (1936) il principe inventò nuovi tipi di archibugi e di cannoni, un nuovo sistema di fortificazione, e prese a redigere, dal 1742 al 1750, un Dizionario militare, del quale compose sei grossi volumi in-folio, giungendo alla lettera O. Della sua esperienza militare è frutto la Pratica più agevole e più utile di esercizi, per l'infanteria, ecc. (Napoli 1747), altamente lodata da Federico il Grande.
Certo si fece massone e forse - così affermano alcuni autori moderni - la sua abiura alla Massoneria non fu sincera: può darsi che l’aristocratico Sansevero preferisse mentire per non incorrere in sanzioni che avrebbero compromesso il suo desiderio di arricchire di finiture l’erezione della Cappella di famiglia che oggi si ammira.
Certo Raimondo di Sangro fu un uomo che, ben più della massoneria, fu preda di un narcisismo veramente peculiare, tutto teso a conquistarsi un’immortalità nella memoria dei posteri che avessero visitato i luoghi da lui arredati.
Eppure l’opera che tutti vengono ad ammirare, la più amata, commentata, citata, contemplata è il Cristo velato.
Si potrebbe dire che, come sempre avviene, anche il principe scrisse la sua vita con righe storte che la provvidenza o il destino piegarono poi affinché il suo operato narrasse ciò che è bello e vero.
L’opera in marmo di Giuseppe Sanmartino voluta dal principe Raimondo indirizza, infatti, il visitatore al più grande mistero del mondo, ben più alto di quello della ricostruzione di due scheletri con sistema arterioso e venoso: il Cristo e la sua passione. Il Cristo velato ripresenta la morte di Gesù e la sua Sindone, quel velo che, avvolgendolo, divenne la reliquia più appassionante del Signore. Reliquia unica, perché di Gesù, risorto e asceso al cielo, non si danno reliquie di carne e ossa. Ne resta però impresso in quel velo, che nella Cappella è ancora posto sul corpo del Signore, il sangue e, misteriosamente, i lineamenti del viso e del corpo che la Sindone mostra perché vi lasciarono traccia, in un modo che resta a tutt’oggi inspiegato, dopo che già il sangue lo aveva macchiato.
Il principe aveva pensato il Cristo velato non per la Cappella stessa, bensì per la cripta, dove probabilmente intendeva essere sepolto. Perché quel Cristo gli stesse vicino in morte, quando i visitatori fossero venuti ad ossequiarlo.
Certo è che, dove ora è posto il Cristo velato, tutti i cappellani nei secoli sono venuti a celebrare messa come credenti, a partire dal padre che fattosi sacerdote vi celebrò l’eucarestia, come ricorda Falconi.
Certo è che vi è venuto anche ogni turista non credente, soprattutto per contemplarvi il Cristo morto per la salvezza. Certo è che vi è entrato anche ogni turista agnostico per contemplare l’immagine più interessante ed appassionante della Cappella stessa: l’immagine del crocifisso, il vero “mistero” che abbraccia la nostra vita, il vero “mistero” che pretende di parlare sensatamente del “mistero” della vita umana. Il mistero di Dio nel Cristo ed il mistero della vita umana: i due “segreti”, i due “misteri”, dinanzi ai quali gli altri sono solo bazzecole di secondaria importanza.
Il principe - e con lui chi dispose al centro della Cappella Sansevero il Cristo velato - dovette almeno intuire che quell’opera sarebbe stata la grande attrazione, il piatto forte della visita, l’opera delle opere. Essa riporta ai nostri occhi il grande “spettacolo” del mondo e pone le domande chi sia il Cristo e perché sia stato necessario il suo amore fino a morirne.
N.B. Sammartino (o Sanmartino), Giuseppe. - Scultore (Napoli 1720 - ivi 1793). Attivo a Napoli, mostrò un accentuato realismo: notevole il Cristo velato (1753, cappella Sansevero). Eseguì figure di santi e sculture allegoriche (1757, cappelle dell'Assunta e di S. Martino, chiesa della certosa di S. Martino; 1763-64, Foro Carolino; 1775-92, chiesa dei Gerosolimini; 1781, chiesa dell'Annunziata). Particolarmente abile nel modellare la creta, realizzò ritratti, figure presepiali e modelli per gli argentieri (Tobia e l'angelo, realizzato da Giuseppe e Gennaro Del Giudice, 1797, Cappella del Tesoro di S. Gennaro).
Note al testo
[1] Gesualdo da Venosa, nel 1590 aveva sorpreso la moglie, Maria d’Avalos, in compagnia del suo amante, il Duca Fabrizio Carafa, e li aveva uccisi entrambi, esponendone poi i corpi pubblicamente sullo scalone di quello stesso Palazzo, poi di proprietà dei Principi di Sansevero.
[2] I nuovi rilievi sono stati compiuti nel 2008 da archeologi inglesi coordinati dalla professoressa Renata Peters, dell’ULC (University College London), su autorizzazione degli attuali proprietari della Cappella di Sansevero e pubblicati sul Journal of Conservation and Museum Studies.
[3] Per i testi delle iscrizioni all’interno della Cappella e per la descrizione dettagliata del monumento, vedi Fazio Macci, Museo Cappella Sansevero, Alos, Napoli, 1999.
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista di Benedetta Frigerio pubblicata il 20/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezione Dialogo fra le religioni e libertà religiosa, Islam e La libertà religiosa e le persecuzioni delle minoranze.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
Negli ultimi anni si sente parlare di un numero crescente di catecumeni cristiani provenienti dalla religione di Maometto. Una analis dell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion parla addirittura di un incremento globale nel mondo di circa 10 milioni di convertiti dall’islam al cristianesimo. Dudley Woodbury, studioso della materia, conta 20 mila battesimi all’anno solo negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Europa, invece, a Pasqua si è diffusa la notizia di 196 conversioni nella diocesi di Amburgo. Camille Eid, scrittore e giornalista libanese, coautore del libro I cristiani venuti dall’Islam, spiega a tempi.it quello che è «un fenomeno sicuramente incalcolabile ma, altrettanto certamente, in crescita costante».
Recentemente si sente parlare di conversioni dall’islam al cristianesimo come di una vera e propria tendenza. Di cosa si tratta precisamente?
È troppo difficile avere statistiche precise, perché c’è sempre un margine che sfugge. I dati disponibili sono quelli delle Chiese che comunicano la percentuale annuale di battezzati provenienti dall’islam. Se si guarda a questi indici si riscontra ovunque un incremento costante, sia in Europa sia nei paesi a maggioranza musulmana. Eppure questa non può essere che la punta dell’iceberg, visto che in alcuni Stati la conversione dall’islam è vietata dalla legge e non esistono registri di questo tipo, eppure sappiamo che anche lì le conversioni al cristianesimo sono in aumento.
Come lo sappiamo se non sono registrate?
In Algeria la stampa conduce da tempo una battaglia contro le conversioni al cristianesimo sempre più pressante, che fa pensare che siano in crescita. Padre Pierre Humblot, sacerdote recentemente espulso dall’Iran dopo 45 anni di missione e ora residente in Francia, ha parlato di 300 mila iraniani convertiti, un fenomeno di massa. Il che è incredibile, dato che nel paese le celebrazioni cristiane in lingua locale sono vietate. In Tunisia, invece, la figlia dell’ex presidente Moncef Marzouki ha addirittura scritto una tesi sul fenomeno delle conversioni al cristianesimo nel suo paese. Un altro tassello del mosaico è rappresentato da quello che avviene durante una trasmissione della tv cristiana nordafricana Al Hayat, condotta da un marocchino convertito dall’islam e figlio di un imam: durante il suo programma vengono raccontate le storie di ex musulmani e arrivano chiamate dal pubblico di persone convertite o che addirittura si convertono grazie alla trasmissione. Sono giordani, egiziani, tunisini, marocchini, ma anche francesi. Il conduttore confuta poi le basi dell’islam. Commovente la puntata in cui il conduttore ha raccontato della propria esclusione da parte della famiglia e della rabbia del padre, il quale, però, prima di morire, gli ha inviato una lettera in cui ha scritto la preghiera del Padre Nostro. Le puntate caricate su YouTube circolano parecchio anche in rete.
Se alla luce di quanto dice è ragionevole credere che il fenomeno sia in aumento, come si fa a capire quale sia la sua incidenza?
Non si può dire, ma da quanto si evince le cifre che ci sfuggono potrebbero essere davvero importanti. Anche perché un tempo i regimi riuscivano a frenare con successo la diffusione della Buona Novella, impedendo il proselitismo e la vendita del Vangelo, mentre oggi con internet è molto più facile scoprire i contenuti del cristianesimo.
Secondo lei cosa spinge un musulmano a convertirsi?
Fino un decennio fa, molti musulmani convivevano con i cristiani nei loro paesi d’origine, ma senza avere accesso alla Bibbia. Insieme alla scoperta del Vangelo dell’amore e della verità, sono spinti a cercare risposte altrove rispetto a un islam sempre più repressivo. Scoprire che Dio è amore è rivoluzionario.
Un bel paradosso: l’Occidente si arrende all’ideologia nichilista islamista e gli islamici si convertono al cristianesimo. Come mai?
È doppiamente paradossale: molti occidentali sono attratti dall’ideologia della morte fino al punto di lasciare tutto per andare a combattere con l’Isis, mentre chi ha subìto la violenza del fondamentalismo islamico e la sottomissione senza ragioni agli ordini della legge coranica, di fronte ai comandamenti dell’amore cambia. Ma molti lo fanno proprio a partire dal Corano. Infatti, intuendo che Gesù non può essere solo un profeta si incuriosiscono e lo riscoprono come Dio nel Vangelo.
Recentemente ha fatto notizia il caso della diocesi di Amburgo che quest’anno ha accolto nella chiesa 196 catecumeni provenienti dalla religione islamica. È un nuovo trend?
Sicuramente l’immigrazione massiccia, dovuta alla guerra in Siria e Iraq e accolta dai tedeschi, è uno dei fattori di questo trend crescente. Ma non basta a spiegarlo, dato che in Germania la maggioranza dei convertiti è di origine iraniana o afghana, ma anche marocchina. Inoltre si è parlato della diocesi di Amburgo ma non bisogna dimenticare i catecumeni delle altre città tedesche che non sono stati conteggiati. In Europa ci sono poi i registri francesi che parlano di 4 mila battezzati all’anno di cui il 4 per cento circa si converte dall’islam. I dati più recenti dell’Austria, che risalgono allo scorso aprile, ci parlano invece del battesimo di circa 40 siriani, afghani e iraniani.
Nel caso di Amburgo qualcuno sospetta che gli immigrati chiedano il battesimo per essere registrati come convertiti al solo fine di ottenere asilo politico.
Chi lo sostiene ignora i rischi che corrono le persone che si convertono. Inoltre fra i convertiti francesi, per esempio, ci sono storie di uomini che dopo il battesimo sono diventati sacerdoti oppure hanno cominciato a parlare della loro fede agli altri.
Che ostacoli può trovare un musulmano che vuole convertirsi?
Da una parte tante famiglie che misconoscono i propri membri che abbandonano l’islam. Ricordo la storia di un marocchino convertito, di cui la famiglia celebrò il funerale con una bara vuota. Successivamente lui divenne un sacerdote. In ogni caso la legislazione islamica di diversi paesi mediorientali è un grande freno alla libertà religiosa, perché prevede per i convertiti la perdita dell’eredità o anche la condanna per apostasia, punita con il carcere o anche con la morte.
La Chiesa può porre dei limiti rispetto a chi chiede il battesimo?
Ci sono sacerdoti che hanno una giusta cautela, chiedono prima la lettura di alcuni testi e poi cominciano il cammino catecumenale. Altri tendono a nascondere i battesimi per salvaguardare i catecumeni, sapendo c0he ci sono persone battezzate in Occidente, mandate nei loro paesi di origine con la scusa di passare lì le vacanze estive e mai più ritornate. Esiste però il problema delle Chiese cattoliche di alcuni paesi mediorientali che impediscono le conversioni per non avere problemi con i rispettivi governo. So di persone rifiutate dalla Chiesa cattolica e accolte da quella protestante, che non ha relazioni istituzionali con i governi: questo è gravissimo perché il battesimo non va mai rifiutato.
C’è altro che sfugge alle statistiche?
Sì, i battezzati attraverso il sangue e quelli battezzati attraverso la bramosia [N.B. de Gli scritti: il cosiddetto battesimo di desiderio]. I primi sono i martiri uccisi perché scoperti prima di poter ricevere il battesimo, i secondi sono quelli che hanno desiderato fortemente di entrare nella Chiesa, ma che per circostanze non hanno potuto farlo. Anche questi non sono calcolabili.
Riprendiamo da Il Sole 24 Ore del 22/5/2016 un articolo di Maria Bettetini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
Lo hanno definito «dottore illuminato», ma anche christianus arabicus, di sé diceva di essere phantasticus, che allora significava pazzo, folle, anche un po’ idiota. Era Ramon Llull, maiorchino contemporaneo di Tommaso, di poco più anziano di Dante e Giotto. La sua vita, come si intuisce dagli aggettivi che lo hanno definito, fu un’esplosione di intuizioni, studi, viaggi, libri, contatti con i mondi più diversi, con momenti altissimi, come la composizione della sua arte combinatoria, ed altri che ci lasciano perplessi, come l’istigazione a un’altra crociata, dopo il fallimento delle ultime. Richiamo inascoltato, per fortuna. Dalla sua morte sono passati sette secoli esatti, molte sono le iniziative di questo anno “lulliano” che si concluderà il 27 novembre.
Il rischio è dunque quello di perdersi tra una vita ricca e brillante, forse chiusa con un martirio che avrebbe motivato la sua beatificazione, tra duecentottanta opere, tra i suoi studiosi che spesso sono veri e propri fans: per evitarlo, prendiamo in considerazione solo due aspetti del beato Raimondo Lullo. Il primo, l’intuizione che ancora oggi fatichiamo a comprendere – della necessità di studiare le lingue e le culture del mediterraneo per poter raggiungere pace e unità. Il secondo, la sua ars, oltre pregiudizi e incomprensioni.
Un valido aiuto viene dalla pubblicazione del primo di tre volumi di magistrale fattura, in cui Pere Villalba i Varneda, lullista di fama, ha trascritto la vita di Raimondo, inserendo documenti, immagini, e brani o sunti delle opere, tutto in ordine cronologico, tutto in catalano (che non è così astruso per chi si muove tra italiano, francese, latino e qualche dialetto del nord Italia).
Una sorta di database di carta, ottima carta, nato grazie all’appoggio di Elsa Peretti, che proprio a Barcellona ha mosso i primi passi nel mondo della moda e del design, prima di diventare disegnatrice per Tiffany, che le ha chiesto l’esclusiva fino al 2033, quando la signora sarà quasi centenaria. Il volume contiene anche un dvd italiano (con sottotitoli in molte altre lingue), in cui i professori Tessari (Padova) e Rigobon (Venezia) ricostruiscono le vicende della vita e delle opere di Lullo.
Raimondo nacque nel 1232 a Maiorca, dove da pochi mesi si erano trasferiti dei coloni catalani, in seguito alla vittoria di Giacomo I contro i Saraceni. Il ragazzo frequentò la bella società, fu apprezzato e premiato a corte, si sposò ed ebbe due figli: non perdette mai lo stato di laicità, solo dopo i quarant’anni si fece terziario francescano (e questo già è un elemento di grande modernità, se si pensa che è solo con l’ultimo Concilio che i laici hanno iniziato ad aver sempre più voce nelle questioni ecclesiastiche). A trent’anni, in età matura per quei tempi, riceve un’illuminazione e ha delle visioni di Cristo in croce, ma solo dopo diversi mesi e un colloquio con un santo domenicano si risolve ad abbandonare i beni e la famiglia (quest’ultimo un elemento non proprio moderno e positivo), per dedicarsi a una sola missione: l’unificazione dei tre monoteismi. Tutti discendenti dall’unico padre nella fede Abramo, a Ebrei e musulmani manca poco per arrivare alla verità, pensa Lullo. Un cammino da percorrersi non con forzature o prediche, ma seguendo la logica che non può portare se non al vero. La buona logica, naturalmente: un’«arte» che Lullo studia in Aristotele (nei testi tornati in Europa proprio attraverso gli arabi), in Cicerone, ma non solo nel pensiero occidentale.
Il novello missionario infatti ritiene fondamentale conoscere la lingua e la cultura di chi deve essere accompagnato verso la vera religione, ed eccolo chiedere a un servo saraceno di insegnargli l’arabo, studiare il provenzale, l’ebraico, senza trascurare greco e latino e ancora altre lingue.
Le sue opere sono in catalano, latino, arabo, spesso da lui tradotte da una lingua all’altra. Temendo di essere travisato, ogni opera contiene l’indice delle precedenti: anche così però non si poté evitare, alla sua morte, la contemporanea comparsa di decine di libri a suo nome, quasi tutti di alchimia, la passione che avrebbe attraversato i due secoli successivi. Accadde così che Giordano Bruno nel 1598 pubblicò a Strasburgo un’antologia del Lullo vero e di quello spurio, commentando tutto dalla sua particolare visione panteista, la stessa che gli costò il rogo in Campo de’ Fiori. Su Lullo, come fosse stato maestro di Bruno, cadde il silenzio, rotto solo secoli dopo. In teoria. Nella pratica l’ars lulliana rimaneva come punto di riferimento per tutti quelli che cercavano il «linguaggio universale», una mathesis, una clavis che consentisse la lettura dell’universo intero, spirito e materia, scienza e mistica.
Pertanto le «ruote» in cui Lullo collocava le nove dignitates divine e poi attraverso altre cinque o dodici ruote concentriche garantiva di poter esprimere tutte le possibili combinazioni dell’universo, ecco questa sorta di vecchio disco orario, in cui noi si combinavano solo giorno, mese, ora, esercitò un fascino enorme su Descartes, su Leibniz, su Newton, sui matematici del Novecento, su Turing.
Tutti uomini tesi a scrivere il libro migliore del mondo, in cui si leggono tutte le domande possibili e tutte le risposte. E come Turing, coi suoi cilindri, per trovare la combinazione cifrata dei messaggi militari tedeschi doveva provarne tantissime, così dalle ruote di Lullo uscivano anche combinazioni false, da escludere come i mucchi di lettere senza senso, ma necessarie per trovare le combinazioni giuste. Descartes, che un po’ per prudenza un po’ per vanità non citava mai nessuno, nel Discorso intorno al metodo nomina Lullo, e in sintesi afferma: io non faccio come lui, che cerca cose che non ci sono attraverso cose che non servono. Ed ecco come una grande mente può farsi scappar dalle mani il metodo scientifico, che procede, come sappiamo ormai, per tentativi ed errori, per esperimenti “inutili” alla ricerca di qualcosa che non sa, ancora, se mai esista.
In occasione del centenario a Roma presso la Biblioteca Wadding – che assieme alla Biblioteca Ambrosiana di Milano conserva importanti manoscritti delle opere lulliane – per tutto il mese di giugno 2016 è allestita la mostra L’inventario di p. Josep Hernández e il fondo lulliano della Biblioteca Wadding – nei giorni e orari di apertura della medesima, indicati nell’indirizzo http://www.stisidoresrome.com/it/biblioteche.
Riprendiamo dalla rivista Tracce (numeoro 8 del settembre 2004 versione on-line) un articolo di Gianni Aversano e Angela Calzone. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)

Napoli non si scuote di dosso i vari processi e le varie successioni di tempi che, invece, si sovrappongono e si stratificano. Un’immobilità ricca di anime che si compenetrano. Il popolo napoletano sta a mezz’aria e il suo non-movimento è verticale: attaccato allo scoglio, ma in continua risalita o discesa, proprio come la raffigurazione delle “anime del Purgatorio” tanto venerate. La stessa Napoli fisico-geologica è come sospesa a mezz’aria, si appoggia su di un vuoto “pieno” di una città parallela, percorribile attraverso cordoni che la legano ai greci, ai romani, ai bizantini e ai primi cristiani. Strade, mercati, ipogei e catacombe risuonano di un’eco che dal primo mitico canto della sirena Partenope si è codificata nel 1500 con le “villanesche alla napoletana” di Orlando Di Lasso e di altri illustri musici. Da questo momento, fino agli inizi dell’Ottocento, una schiera di musicisti ha reso la musica napoletana un modello universale di ispirazione per la produzione di motivetti classici ma popolari. Pergolesi, Paisiello, Cimarosa, sono tra i grandi che hanno rivestito di una musica sublime quelle parole che ancora oggi, in tutta la loro “carnalità esasperata”, risuonano per i vicoli poveri di Napoli.
Voce di popolo
È però dalla metà dell’800 che anche i versi della canzone napoletana assumono un rilievo degno delle pur bellissime melodie che esimi musicisti come Donizetti, Tosti, Denza, continuano a scrivere.
Sono queste le poesie di Di Giacomo, Russo, Bovio e altri, voce di un popolo che, attraverso il canto e la naturale teatralità, esprime se stesso. Versi che rivelano immediatamente una loro intrinseca musicalità, tanto da portare la canzone napoletana alle proporzioni di vero e proprio fenomeno culturale. Estranei alle tendenze letterarie del periodo (con il classicismo professorale di Carducci, il decadentismo rurale di Pascoli, lo snervante estetismo di D’Annunzio, che pure a Napoli era di casa), per portare a estrema perfezione quel dialetto che ha assorbito nella sua matrice popolare suggestioni ed echi antiche di letteratura alta, questi poeti realizzano un’originale sintesi che, pur nella struttura colta, ha l’immediatezza della lingua parlata.
Il cd Mandulinata a Napule, che raccoglie le canzoni napoletane interpretate da Tito Schipa, abbraccia una produzione che va appunto dal 1885 fino al 1950.
Sarebbe impossibile sintetizzare più di mezzo secolo di poesie di autori vari se non attraverso la descrizione di un filo rosso composto da poche immagini, che ricorrono frequentemente e che caratterizzano tante liriche: l’amore come sguardo spalancato sulla realtà, l’invito a destarsi dal sonno, l’inevitabile sacrificio come condizione di un amore vero (un aiuto nel riconoscere questi spunti ci è stato offerto da una lezione che don Giussani tenne nell’ottobre 1990, «Un inizio e una storia di grazia», pubblicata in Un avvenimento di vita cioè una storia, pp.453-459, ed. Il Sabato).
Contro il lezioso D’Annunzio
A uno sguardo d’insieme risulta subito sorprendente che, in un momento come gli inizi del Novecento, in cui è tutto labile, le certezze vacillanti, i cuori e le menti disarmati, ci sia chi descrive l’esperienza d’amore in un modo così anomalo, perché profondo, e soprattutto abbia una percezione così concreta e vera della realtà. Contro il lezioso D’Annunzio, legato a un parossismo estetico, alla ricerca del fugace effimero, c’è chi grida il bisogno di una bellezza che non tradisca, la verità di un amore che tiene dentro tutto, la consapevolezza del sacrificio come condizione inconfutabile e necessaria per una vita vera.
Il tempo e l’attesa
Così, in Era de maggio, la più vecchia delle canzoni del cd, c’è un uomo che deve lasciare la sua amata ma è certo che, nonostante tutto cambi e si stravolga, «il tempo può solo rafforzare un’attesa che non resta delusa, perché l’amore vero non cambia strada»; e infatti, ritornato dalla sua donna, le dichiara che la sua «ferita d’amore non si è sanata, altrimenti non starebbe lì a “guardarla” nell’aria profumata di maggio, che, allo stesso modo, fedelmente è ritornato.
Anche i due, abbracciati sulla collina di Posillipo in Mandulinata a Napule, nel contemplare quell’armonia che a sua volta li abbraccia, dicono: «Stanotte Amore e Dio sono una sola cosa». È sorprendente poter dire “Dio” guardando la propria amata. Ed è proprio quest’Amore che genera quell’armonia “lontana e vicina”, e che fa più tenera la voce di chi la contempla e cantando dice te voglio bene. In questa canzone è appunto racchiusa la percezione della vita che pervade la produzione napoletana di questo periodo. È una sintesi di bellezza, anche estetica (basta notare quante volte ricorrono nelle canzoni notazioni sensoriali ed elementi suggestivi come le stelle, il sole, la luna, i fiori, le rose, il mare, i profumi), ma strettamente correlata al destino. C’è un legame indissolubile tra le bellezze della natura, lo splendore di un amore, la passione di un rapporto, e le stelle, il destino (vedi, per esempio, il suono delle campane che richiamano l’Ave Maria, in Me so ’mbriacato ’e sole).
Guarda e svegliati!
Così, la malinconia che spesso vela la canzone napoletana (anche se si tratta piuttosto di una nostalgia: «Quando il sole scompare mi viene quasi una malinconia», dice ’O sole mio) è piena di uno struggimento che suggerisce di alzare lo sguardo. Chi ti vuol bene dice: “guarda”. Quante volte nelle canzoni, anche del disco di Schipa, si ripete l’esortazione scétate, “svegliati”. Su un campione delle 100 più famose canzoni napoletane, le parole che più ritornano sono il verbo “guardare” e l’esortazione “svegliati”. Svegliarsi dal sonno è riprendere coscienza della responsabilità della vita, che consiste anche nel riconoscere la Bellezza di cui tutto è gravido (come chiede chi canta sotto la finestra in Marechiare, lasciando intendere che è un peccato dormire mentre tutto intorno è una festa). C’è sempre, in chi ama, il desiderio di una corrispondenza nel godere della bellezza della realtà, oppure, come in Guapparia, il desiderio che gli altri partecipino del suo dolore. Il dormire di fronte alla «bella montagna di stanotte», in Tu, ca nun chiagne, è assimilato alla morte, mentre «l’amore fa vegliare». Solo quando il sonno è un riposo beato, non si può fare a meno di invocare questa pace. Così, in I’te vurria vasà, il protagonista, che guarda la sua Rosa dormire beatamente in un giardino, non la sveglia, sacrificando anche quel naturale istinto di baciarla. Commentando Mia giovinezza di Ada Negri, don Giussani afferma: «Ami il fiore non perché lo annusi, non perché lo strappi, ma perché c’è: questo è il possesso più grande che possa esistere». È proprio questo sacrificio di un distacco “tonale” più che metrico-decimale, che fa dire: «Più lontana mi stai, più vicina ti sento» nell’incipit della canzone Passione. E, sicuramente, lo stesso titolo richiama la Passione di evangelica memoria, visto che il protagonista a un certo punto afferma: «Non mi pesa questa croce che trascino per te».
La levità della fatica
Dice Agostino: «Quando si ama, non si fa fatica, o, se si fa fatica, questa stessa fatica è amata». Se l’amore concede la levità del sacrificio, il sacrificio, amato, dona la verità dell’amore. In Canzone appassionata, il frutto del sacrificio è un fiore inaspettato («da questo vaso innaffiato dalle lacrime sboccia una bella rosa»), che non viene afferrato e trattenuto dall’amante, ma nuovamente e gratuitamente donato, per un amore assoluto, senza pretese: «Ti voglio bene nonostante tu mi faccia soffrire». E il frutto di un sacrificio può coincidere con quello che ci si aspetta (vedi Piscatore ’e Pusilleco), o meno; ma certo coincide con un fiore di bellezza, che fa amare ancora di più e in modo vero. L’uomo giunge a preferire la donna a sé: non potendola possedere, la adora; non ottenendo di esser corrisposto, implora, nell’ira, la felicità per lei (Voce ’e notte); struggendosi di angoscia e di gelosia, aspetta discretamente il suo ritorno (Torna). Questo è uno degli aspetti più belli della canzone napoletana, ancora più affascinante se si pensa al tormentato, contraddittorio, confuso momento storico-culturale in cui è inserita. Amore e sacrificio; il tutto in una carnalità, che fa ripetutamente affermare la necessità di un rapporto per non morire («Vivere con te, sempre con te, per non morire», recita Anema e core; «Fammi vivere», conclude Torna a Surriento).
Così, l’eco del canto delle Sirene di 2.500 anni fa, già ammaliante e suggestivo, ma ancora effimero, è suggellata da una poesia, e quindi una canzone, di carne, sangue, lacrime, passione.
Una poesia di desiderio e non di sogno; di realtà, lieta o atroce, ma non di finzione; di sguardo e non di fuga; di eternità e non di istinto. Questo fa della canzone napoletana una vibrazione universale, in ogni tempo: uno scoglio saldo nel burrascoso e inquietante mare dagli esordi del Novecento fino al nostro oggi.
Riprendiamo dal Corriere della sera del 20/5/2016 un articolo scritto da Matteo Persivale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'etica dei media e sulle unioni civili, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
È cominciato tutto in modo normalissimo, con la copertina di un tabloid (americano) da supermercato e un titolo strillato: «Elton John tradito dal marito fedifrago». Secondo il settimanale, David Furnish, 53 anni, canadese, da 11 marito di sir Elton, avrebbe avuto incontri sessuali con una coppia di uomini, sposati tra loro. Il National Enquirer, scavando nella notizia con il consueto entusiasmo, procedeva a fornire particolari dettagliati sulle modalità dell’incontro sessuale.
Niente scoop, siamo inglesi
Scoop clamoroso? Probabilmente no: sir Elton in passato aveva già spiegato che lui e il marito hanno stabilito una modalità di «matrimonio aperto» che prevede anche la possibilità di occasionali relazioni con altri uomini. Eppure, la notizia – nonostante la fama globale di Elton e la sua nazionalità inglese – non è mai apparsa sui media inglesi e gallesi. Perché l’immediata ingiunzione di un giudice, confermata l’altro giorno dai supremi giudici londinesi, mette la privacy della coppia, e quella dei loro figli, al sicuro: nominare su giornali, radio o tv sir Elton e il marito e il presunto «triangolo» è un crimine – oltraggio alla Corte – in Inghilterra e Galles (la Scozia, nel quadro della sua parziale autonomia all’interno del Regno Unito, ha un sistema di tribunali separato). Si rischia un anno di reclusione.
Nominare Elton e Furnish è un reato
E qui il problema è diventato clamoroso: nominare Elton e Furnish in relazione a questa vicenda anche su Internet, se ci si trova in Inghilterra o Galles, collegati a un provider – o a una rete mobile – inglese o gallese, è un crimine. Stessa punizione a un private, con il suo smartphone, che toccherebbe, per dire, a un giornalista del «Daily Telegraph». Perfino Twitter si è allineata, mandando un richiamo a utenti inglesi e gallesi che avessero nominato nei loro tweet Elton, Furnish e quel «triangolo» pericoloso. Proprio Twitter, azienda americana che gode come tutti negli Usa di una liberalissima applicazione del primo emendamento che garantisce pressoché assoluta libertà di parola: un personaggio famoso che volesse far causa per diffamazione in Usa si troverebbe un onere della prova impossibile sulle spalle: il risultato è che non ci prova nessuno.
I magistrati hanno oscurato la notizia
Un blogger inglese ha ricevuto una mail minacciosa da uno studio legale potentissimo, lo studio Carter-Ruck che difende da decenni l’establishment britannico nei casi di vera o presunta diffamazione. La risposta: il suo server è negli Stati Uniti, il post era stato scritto in Irlanda. La legge è stata fatta ai tempi delle tipografie dei giornali e delle antenne tv, che hanno una collocazione fisica. Ma dove sta Internet? Nei nostri telefoni e computer? Nei nostri provider di servizio? Nei server? E i dati? Nella «nuvola»? Nel dubbio, i supremi magistrati inglesi hanno di fatto oscurato la notizia, si può soltanto citare la situazione usando delle sigle fittizie per descrivere le parti in causa. Facendo però un danno alla già traballante soglia di credibilità dei social media: chi si è ritrovato incapace di fare una semplice ricerca su Google che in trenta secondi fa scoprire a chiunque – grazie a siti extra-britannici – chi sia la misteriosa «celebrity» dello scandalo (se di scandalo si tratta), ha finito per fare ipotesi a tentoni.
La pista Beckham
I vincitori di questa sorta di caccia al tesoro al contrario – caccia alla bufala, più che altro – sono ovviamente i sempre popolarissimi e sempre molto discussi coniugi Beckham, David e Victoria sposati nel millennio scorso (1999) e da allora regolarmente indicati sul presunto orlo del divorzio. David amante del triangolo (non quello calcistico tra ala e centravanti in area di rigore, ovviamente) e Victoria decisa a lasciarlo? Ecco allora che il polso di lei fotografato sul tappeto rosso dai teleobbiettivi dei paparazzi, il polso senza più le iniziali «DB» tatuate come una volta, diventa la prova della rottura: «Ha cancellato il tatuaggio!». Certo, magari era celato dal make-up per far risaltare meglio il bracciale prezioso. Magari l’ha cancellato col laser per altri motivi. Ma il gusto di immaginare i Beckham – indubbiamente più giovani e mediatici di sir Elton e del marito, siamo pur sempre nella civiltà dell’immagine – protagonisti di questa vicenda era più forte di tutto. Anche, per l’appunto, di una semplice ricerca su Google.
Se un avvocato può fermare le rotative
La questione legale però rimane: nel Regno Unito basta uno studio legale organizzato e agguerrito (e ovviamente costosissimo) per fermare letteralmente le rotative di un giornale, e da oggi, anche per fermare i pixel dello schermo di un computer, per oscurare il display di uno smartphone. Nel 1988 Margaret Thatcher decise che i politici nordirlandesi vicini all’Ira come per esempio Gerry Adams dello Sinn Fein, andavano oscurati. E varò una legge in vigore fino al 1994 che costrinse tv e radio inglesi a «doppiare» le dichiarazioni degli attivisti di ben undici organizzazioni nordirlandesi con la voce di uno speaker. Con la consueta sintesi, la signora Thatcher spiegò che «così si toglie ossigeno ai terroristi». Abituati agli spaventosi video dell’Isis, ci sembrano ormai notizie da un’altra galassia. Ma i media britannici restano estremamente vulnerabili all’editto di un singolo giudice: una posizione non più realistica, dicono in molti, oltre Manica. Un sistema obsoleto come un vecchio cellulare primi anni ’90 grande come un ferro da stiro, viene da pensare, assistendo al bizzarro teatrino inscenato da una rivista tabloid, da un baronetto ricco e irritabile e dai suoi costosi avvocati, teatrino nel quale decine di milioni di cittadini inglesi e gallesi si sono sentiti, semplicemente, sudditi di un sistema antistorico.
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Riprendiamo sul nostro sito l’intervista rilasciata da papa Francesco ai giornalisti Guillaume Goubert e Sébastien Maillard e pubblicata sul numero de la Croix del 17/5/2016. La traduzione è tratta dal sito www.finesettimana.org. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
«Bisogna integrare i migranti»
Nei suoi discorsi sull'Europa, lei parla delle “radici” del continente senza però mai definirle cristiane. Definisce piuttosto l'identità europea “dinamica e multiculturale”. Secondo lei, l'espressione “radici cristiane” non è appropriata per l'Europa?
Bisogna parlare di radici al plurale, perché ce ne sono molte. In questo senso, quando sento parlare di radici cristiane dell'Europa, ne temo talvolta il tono, che può essere trionfalistico o vendicativo. E allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L'Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di “irrorarle”, ma in uno spirito di servizio, come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l'Europa, è il servizio. Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, ce lo insegna: l'apporto del cristianesimo ad una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, cioè il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista.
Lei ha fatto un gesto forte, portando con sé dei rifugiati da Lesbo a Roma il 16 aprile scorso. Ma l'Europa può accogliere così tanti migranti?
È una domanda giusta e responsabile, perché non si possono spalancare le porte in maniera irrazionale. Ma la domanda di fondo da porsi è perché ci sono così tanti migranti oggi. Quando sono andato a Lampedusa, tre anni fa, quel fenomeno cominciava già. Il problema all'origine, sono le guerre in Medio Oriente e in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se ci sono guerre, è perché ci sono fabbricanti di armi – cosa al limite giustificata per la difesa – e soprattutto ci sono trafficanti di armi. Se c'è tanta disoccupazione, è a causa della mancanza di investimenti che possono procurare lavoro, di cui ha tanto bisogno l'Africa. Questo solleva più in generale il problema di un sistema economico mondiale caduto nell'idolatria del denaro. Più dell'80% delle ricchezze dell'umanità sono nelle mani di circa il 16% della popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. Il mercato in sé è una buona cosa, ma ci deve essere un terzo, lo Stato, per controllarlo ed equilibrarlo. È ciò che si chiama economia sociale di mercato. Torniamo ai migranti. L'accoglienza peggiore è quella di ghettizzarli, al contrario occorre integrarli. A Bruxelles, i terroristi erano belgi, figli di migranti, ma venivano da un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco ha prestato giuramento in una cattedrale e sarà sicuramente ricevuto dalla regina. Questo dimostra quanto sia importante per l'Europa la capacità di integrare. Penso a Gregorio Magno, che ha negoziato con quelli che venivano chiamati barbari e che si sono poi integrati. Tale integrazione è tanto più importante oggi perché l'Europa conosce un grave problema di denatalità, a causa di una ricerca egoistica di benessere. C'è un vuoto demografico. In Francia, tuttavia, questa tendenza è meno forte, grazie alla politica familiare.
Il timore di accogliere dei migranti si alimenta in parte con la paura dell'islam. Secondo lei, la paura che suscita questa religione in Europa è giustificata?
Non credo che ci sia oggi una paura dell'islam in quanto tale, ma di Daesh e della sua guerra di conquista, in parte tratta dall'islam. L'idea di conquista è inerente all'anima dell'islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare con la stessa idea di conquista la fine del Vangelo di Matteo, in cui Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni. Davanti all'attuale terrorismo islamista, sarebbe opportuno interrogarsi sul modo in cui è stato esportato un modello di democrazia, troppo occidentale, in paesi in cui c'era un potere forte, come in Iraq. O in Libia, che ha una struttura tribale. Come diceva un libico, qualche tempo fa: “Un tempo avevamo Gheddafi, adesso ne abbiamo 50!”. In linea di principio, la coesistenza tra cristiani e musulmani è possibile. Vengo da un paese in cui coabitano in buona familiarità. I musulmani vi venerano la Vergine Maria e san Giorgio. In un paese africano, mi hanno detto, per il Giubileo della misericordia i musulmani fanno a lungo la coda alla cattedrale per passare la porta santa e pregare la Vergine Maria. In Centrafrica, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e devono reimparare a farlo oggi. Anche il Libano dimostra che è possibile.
«Uno Stato deve essere laico»
Il peso che ha oggi l'islam in Francia, così come il legame storico del paese al cristianesimo sollevano problemi ricorrenti sul posto delle religioni nello spazio pubblico. Qual è, secondo lei, una buona laicità?
Uno Stato deve essere laico. Gli Stati confessionali finiscono male. È una cosa contro la storia. Credo che una laicità basata su una solida legge che garantisce la libertà religiosa offra un quadro per proseguire. Siamo tutti uguali, come figli di Dio o con la nostra dignità di persona. Ma ognuno deve avere la libertà di esteriorizzare la sua fede. Se una donna musulmana vuole portare il velo, deve poterlo fare. Lo stesso se un cattolico vuole portare una croce. Si deve poter professare la propria fede, non accanto, ma all'interno della cultura. La piccola critica che rivolgerei alla Francia a questo riguardo è di esagerare la laicità. È una cosa che deriva dal considerare le religioni come una sottocultura e non come una cultura a tutti gli effetti. Temo che questo approccio, che si comprende come eredità dell'Illuminismo, sia ancora presente. La Francia dovrebbe fare un passo avanti a questo riguardo per accettare che l'apertura alla trascendenza è un diritto per tutti.
In un quadro laico, come dovrebbero porsi i cattolici per difendere le loro posizioni su temi etici, come l'eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?
È nel Parlamento che occorre discutere, argomentare, spiegare, ragionare. In questo modo cresce una società. Una volta che la legge è votata, lo Stato deve rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica, deve esserci l'obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Anche per un impiegato statale, che è una persona umana. Lo Stato deve anche rispettare le critiche. Questa è una vera laicità. Non si può non tener conto degli argomenti dei cattolici, dicendo loro: “Lei parla come un prete”. No, si basano sul pensiero cristiano, che la Francia ha sviluppato in maniera notevole.
Che cosa rappresenta per lei la Francia?
La fille aînée de l'Église... mais pas la plus fidèle! [la figlia maggiore della Chiesa... ma non la più fedele!] (ride). Negli anni 50 del secolo scorso, si diceva anche “Francia, terra di missione”. In questo senso, è una periferia da evangelizzare. Ma bisogna essere giusti con la Francia. La Chiesa lì ha una capacità creativa. La Francia è anche una terra di grandi santi, di grandi pensatori: Jean Guitton, Maurice Blondel, Emmanuel Levinas – che non era cattolico -, Jacques Maritain. Penso anche alla profondità della sua letteratura. Apprezzo anche come la cultura francese abbia impregnato la spiritualità gesuita rispetto alla corrente spagnola, più ascetica. La corrente francese, che è iniziata con Pierre Favre, pur insistendo sempre sul discernimento dello spirito, dà un altro sapore. Con i grandi spirituali francesi: Louis Lallemand, Jean-Pierre de Caussade. E con i grandi teologi francesi, che hanno tanto aiutato la Compagnia di Gesù: Henri de Lubac e Michel de Certeau. Gli ultimi due mi piacciono molto: due gesuiti che sono creativi. Insomma, ecco ciò che mi affascina della Francia. Da un lato, la laicità esagerata, l'eredità della Rivoluzione francese e, dall'altro, così tanti grandi santi.
Qual è quello o quella che lei preferisce?
Santa Teresa di Lisieux.
Lei ha promesso di venire in Francia. Quando immagina di poter fare questo viaggio?
Ho ricevuto da poco una lettera di invito del presidente François Hollande. Anche la Conferenza episcopale mi ha invitato. Non so quando avverrà questo viaggio, perché l'anno prossimo è elettorale in Francia e, in generale, la pratica della Santa Sede è di non fare un viaggio in tale periodo. L'anno scorso si era cominciato a fare delle ipotesi in vista di quel viaggio, che potrebbe comprendere un passaggio a Parigi e nella sua periferia, a Lourdes e in una città in cui nessun papa si è recato, Marsiglia, ad esempio, che rappresenta una porta aperta sul mondo.
La Chiesa in Francia vive una grave crisi di vocazioni sacerdotali. Come fare oggi con così pochi preti?
La Corea offre un esempio storico. Quel paese è stato evangelizzato da missionari venuti dalla Cina e poi tornati in Cina. In seguito, per due secoli, la Corea è stata evangelizzata da laici. È una terra di santi e di martiri che oggi ha una Chiesa forte. Per evangelizzare, non c'è bisogno necessariamente di preti. Il battesimo dà la forza di evangelizzare. E lo Spirito Santo, ricevuto al battesimo, spinge ad uscire, a portare il messaggio cristiano, con coraggio e pazienza. È lo Spirito Santo il protagonista di ciò che fa la Chiesa, il suo motore. Troppi cristiani lo ignorano. Al contrario, un pericolo per la Chiesa è il clericalismo. È un peccato che si commette in due, come il tango! I preti vogliono clericalizzare i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati, per facilità. A Buenos Aires ho conosciuto tanti buoni parroci che, vedendo un laico capace, esclamavano subito: “Facciamone un diacono!”. No, bisogna lasciarlo laico. Il clericalismo è particolarmente importante in America Latina. Se la devozione popolare vi è forte, è proprio perché è l'unica iniziativa dei laici che non è clericale. E resta incompresa dal clero.
La Chiesa in Francia, in particolare a Lione, è attualmente colpita da scandali di pedofilia risalenti al passato. Che cosa deve fare in questa situazione?
È vero che non è facile giudicare su determinati fatti dopo decenni, in un contesto diverso. La realtà non è sempre chiara. Ma per la Chiesa, in questo ambito, non ci può essere prescrizione. Per quegli abusi, un prete che ha vocazione di condurre verso Dio un bambino, lo distrugge. Semina il male, il risentimento, il dolore. Come aveva detto Benedetto XVI, la tolleranza deve essere zero. In base agli elementi di cui dispongo, credo che a Lione il cardinal Barbarin abbia preso i provvedimenti necessari, che abbia preso le cose in mano. È un coraggioso, un creativo, un missionario. Adesso dobbiamo attendere la prosecuzione della procedura davanti alla giustizia civile.
Quindi il cardinal Barbarin non deve dimettersi?
No, sarebbe un controsenso, un'imprudenza. Si vedrà dopo la conclusione del processo. Ma adesso, sarebbe come dichiararsi colpevole.
«Siamo tutti usciti differenti dal Sinodo»
Il 1° aprile scorso, lei ha ricevuto Mons. Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X. È di nuovo in previsione il reintegro dei lefebvriani nella Chiesa?
A Buenos Aires, ho sempre parlato con loro. Mi salutavano, mi chiedevano una benedizione in ginocchio. Amano la Chiesa. Mons. Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così con altri elementi un po' strani, come Mons. Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso, come avevo già detto in Argentina, che siano dei cattolici in cammino verso la piena comunione. Durante un Anno della misericordia, mi è sembrato di dover autorizzare i loro confessori a perdonare il peccato d'aborto. Mi hanno ringraziato per quel gesto. Prima, Benedetto XVI, che rispettano molto, aveva liberalizzato la messa secondo il rito tridentino. Si dialoga bene, si fa un buon lavoro.
Sarebbe disposto a concedere loro uno statuto di prelatura personale?
Sarebbe una soluzione possibile ma, prima, bisogna stabilire un accordo di fondo con loro. Il Concilio Vaticano II ha il suo valore. Si procede lentamente, con pazienza.
Lei ha convocato due sinodi sulla famiglia. Quel lungo processo, secondo lei, ha cambiato la Chiesa?
È un processo iniziato con il concistoro introdotto dal cardinal Kasper, prima di un Sinodo straordinario nell'ottobre dello stesso anno, seguito da un anno di riflessione e da un Sinodo ordinario. Credo che siamo tutti usciti da questo processo differenti da come ci siamo entrati. Anch'io. Nell'esortazione post-sinodale ho cercato di rispettare al massimo il Sinodo. Non vi troverete delle precisazioni canoniche su ciò che si può o si deve fare o non fare. È una riflessione serena, pacifica, sulla bellezza dell'amore, su come educare i figli, come prepararsi al matrimonio... Valorizza delle responsabilità che potrebbero essere accompagnate dal Pontificio Consiglio per i laici, sotto forma di orientamenti di fondo. Al di là di questo processo, dobbiamo pensare alla vera sinodalità, almeno a ciò che significa la sinodalità cattolica. I vescovi sono cum Petro, sub Petro. Questo differisce dalla sinodalità ortodossa e da quella delle Chiese greco-cattoliche, dove il patriarca conta per un solo voto. Il Concilio Vaticano II dà un ideale di comunione sinodale ed episcopale. Bisogna ancora farlo crescere, anche a livello parrocchiale tenuto conto di ciò che è prescritto. Ci sono parrocchie non dotate né di un consiglio pastorale, né di un consiglio degli affari economici, mentre il codice di diritto canonico lo richiede espressamente. La sinodalità si gioca anche a questo livello.
Riprendiamo da Avvenire del 22/5/2016 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
L’università di Azhar ha una storia millenaria. È stata, infatti, fondata come moschea nell’anno 972 dal generale Gawhar al-Siqilly (ossia il Siciliano) agli ordini dei Fatimidi, appena tre anni dopo la loro conquista dell’Egitto. Il suo nome in arabo significa «la fiorita», in onore di Fatima, la figlia di Maometto, dalla quale quella dinastia pretendeva di discendere.
In pochissimi anni, nel 988, al-Azhar diventa un centro di studio delle discipline religiose e giuridiche, prima sciite (i Fatimidi appartenevano infatti a questo ramo dell’islam e più precisamente al credo ismailita), poi, due secoli dopo con l’avvento del Saladino e dei suoi successori ayyubidi, di quelle sunnite.
Con l’abolizione del califfato nel 1924, l’università è finita per diventare il principale punto di riferimento dell’islam sunnita nel mondo. Un prestigio che conserva ancora oggi, dato che l’autorità del suo grande imam oltrepassa i confini dell’Egitto. Inoltre, l’università gioca un ruolo di arbitro del pensiero islamico moderno dopo essere stata minacciata, a partire dal XIX secolo, dalla concorrenza dei sistemi educativi occidentali.
La sua influenza all’interno dell’Egitto è enorme. L’università comprende 55 collegi che totalizzano circa 400mila studenti tra cui circa 15mila stranieri e 9mila insegnanti, senza parlare di oltre un milione di allievi iscritti alle circa 5mila scuole affiliate all’ateneo.
Fuori dall’Egitto, al-Azhar conta oltre 50 istituti “azhariani” sparsi tra l’Africa, l’Asia e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Più specificamente, la Facoltà di Dawa (la missione islamica, ndr) si occupa della formazione di imam e predicatori musulmani, molti dei quali vengono inviati all’estero. Inoltre, l’ateneo è impegnato nella traduzione del Corano nelle diverse lingue straniere e la pubblicazione di libri islamici. Un impegno, questo, che è valso nel 2000 ad al-Azhar l’assegnazione del prestigioso premio saudita dedicato al re Faisal «per i servizi resi all’islam».
Grande imam dell’università oggi è lo sceicco Ahmed al-Tayyeb, succeduto nel 2010 allo sceicco Muhammad Sayyed Tantawi, noto per l’impulso dato agli incontri tra il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e il Comitato permanente di al-Azhar per il dialogo.
Tayyeb, già rettore dell’università dal 2003 e prima ancora Gran mufti d’Egitto, aveva svolto un dottorato in filosofia presso la Sorbona di Parigi e proveniva – fatto inaudito per al-Azhar – dagli ambienti del sufismo, il misticismo popolare islamico. La sua nomina è avvenuta, come è consuetudine da decenni, con un decreto presidenziale firmato dall’allora presidente egiziano Hosni Mubarak.
Dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011, al-Azhar ha cercato di ricollocarsi sulla scena pubblica egiziana producendo insieme ad alcuni intellettuali egiziani di varia estrazione culturale e religiosa una serie di documenti sul futuro del Paese, sulle libertà fondamentali, sulla concordia nazionale e sul ruolo della donna. La logica che li guidava era sempre la stessa: portare allo stesso tavolo esponenti di diverse sensibilità e trovare dei punti comunisu cui costruire.
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 18/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
Pubblichiamo il XIII capitolo del libro Tre giorni all’Inferno. In viaggio con Dante, Ares edizioni.
In un’epoca come la nostra in cui sembra concretizzarsi il disinteresse per la politica profetizzato dall’intellettuale francese Alexis de Tocqueville (1805-1859), in cui si è spesso persa la consapevolezza che l’impegno politico è per il bene comune, giova ricordare la lezione di Dante, quale emerge non solo dalla sua azione indefessa e imparziale all’interno del comune fiorentino prima dell’esilio di cui si è già trattato, ma anche dall’opera principale che dedicò all’attività politica, ovvero il De monarchia.
Composto probabilmente durante la discesa di Arrigo VII in Italia (quindi tra il 1311 e il 1313) o negli anni successivi alla sua morte, il De monarchia è scritto in latino e strutturato in tre libri che rispondono a tre domande: se l’Impero sia necessario al buon ordine del mondo, se il popolo romano abbia acquisito il diritto all’Impero per una visione provvidenziale, se l’autorità dell’imperatore derivi direttamente da Dio o da un suo ministro. A differenza del Convivio e del De vulgari eloquentia, il trattato è completato.
All’epoca della sua diffusione l’opera venne strumentalizzata dai sostenitori delle tesi filo imperiali oppure fu considerata anacronistica, perché rilanciava le due istituzioni tipicamente medioevali, Impero e Chiesa, ormai pienamente in crisi nei primi decenni del Trecento. Fu persino bruciata al rogo nel 1329. Più tardi, nel Cinquecento, venne posta all’indice per secoli, fino al 1881. Da altri venne interpretata e asservita a fini politici.
Ora, al di là delle strumentalizzazioni che ne sono state fatte, gioverà riflettere su alcune considerazioni del trattato per giudicare più correttamente e senza pregiudizi il valore della posizione di Dante.
La necessità dell’Impero è giustificata dal fatto che l’unità imperiale permette la pace che è, a sua volta, la condizione indispensabile perché ciascun uomo possa perseguire il fine della vita umana, la felicità. In pratica l’Impero (oggi noi potremmo dire lo Stato) appare come strumento dell’uomo e della persona, non certo il fine. Dante insiste sul fatto che due sono i fini della vita umana, la felicità di questa terra e la beatitudine nell’altro mondo, ovvero la felicità per sempre. In questo contesto Dante sottolinea l’importanza della presenza di un’autorità morale e religiosa cui far riferimento, da lui identificata nel papato. Quindi, unità territoriale in una realtà politica unica e riferimento morale appaiono come la possibilità di garanzia di una condizione che permetta la crescita dell’uomo.
A distanza di settecento anni la storia dell’Europa, segnata ininterrottamente da guerre, insegna che l’unificazione economico-politica europea ha comportato sessanta anni di pace. Nel contempo, questi ultimi decenni sottolineano, però, come in Europa ci siano più volti ed anime, non si sappia a chi far riferimento nelle scelte importanti e sia necessaria un’autorità morale. Ora più che mai è evidente che non è possibile realizzare un’unità territoriale su basi economiche e politiche laddove non vi siano dei riferimenti ideali comuni e condivisi. La teoria dei due soli, giudicata così frettolosamente come anacronistica, illumina invece il passato dell’Europa come il presente. Non si deve credere che Dante volesse proporre una realtà politica su basi teocratiche. Dante ha sempre voluto evidenziare la divisione tra potere temporale e potere spirituale, il primo gestito dall’autorità imperiale, il secondo affidato alla Chiesa. Ai suoi tempi, l’Alighieri venne addirittura additato come acceso oppositore della tesi teocratica assai diffusa tra fine del Duecento e inizio del Trecento.
La posizione di Dante è chiaramente espressa nel canto centrale di tutta la Commedia, il XVI del Purgatorio, in cui Marco Lombardo così si esprime: «Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo,/ due soli aver, che l’una e l’altra strada/ facean vedere, e del mondo e di Deo./ L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada/ col pasturale, e l’un con l’altro insieme/ per viva forza mal convien che vada;/ però che, giunti, l’un l’altro non teme». Ovvero, Roma aveva due soli, due riferimenti, l’uno mondano e politico, l’altro religioso. Quando i poteri temporale e religioso sono affidati ad una sola figura non procedono bene. Ma stiamo attenti ad interpretare correttamente le parole di Dante. Ai nostri giorni Dante criticherebbe certamente con toni aspri la posizione laicista odierna secondo la quale le riflessioni religiose possano essere espresse solo in uno spazio privato, mentre in ambito pubblico non si possa esporre la propria convinzione di fede. Per Dante, infatti, l’uomo è sempre integrale, mai disunito, e porta sempre con sé in ogni ambito le proprie convinzioni e i propri ideali. Non esiste una settorializzazione degli ambiti, ma l’unità della persona investe ogni aspetto della vita, dalla cultura alla politica alla letteratura. La coerenza dell’agire, non l’infallibilità, proviene da questo convergere dello sguardo sempre e solo al bene di sé e dell’altro. Nella visione dantesca, potremmo asserire con espressione sintetica, che la politica è eteronoma, non autonoma, non è un ambito separato dagli altri, ma afferisce agli altri ambiti, alla cultura, all’etica, alla religione, all’antropologia.
Nei secoli successivi avrà, però, un peso determinante il modello politico proposto da Machiavelli. Il codice di comportamento e di riferimento etico sembra, infatti, mutare in relazione al fatto che ci si trovi in una dimensione privata o politica. Convinzioni religiose e ideali possono aver valore solo nella dimensione privata. Nella sfera politica sembra vigere un codice deontologico differente, unico, permesso, tollerato. Machiavelli è l’ipse dixit sottaciuto, di cui si misconosce magari il valore, ma che invece si applica in ogni ambito. L’uomo politico, il principe, può essere simulatore e dissimulatore, fingere e, nel contempo, fingere di non aver finto. Le azioni da lui compiute saranno sempre giustificate se buone per lo Stato. Il principe dovrà, invece, guardarsi dal compiere azioni che possano ledere in qualche modo la grandezza dello Stato, mentre potrà compiere o meno quelle azioni, anche immorali, che sono insignificanti per lo Stato. In poche parole la legge dell’agire è la ragion di Stato, cioè il suo mantenimento o ingrandimento, ovvero il fine giustifica i mezzi nell’ambito politico, cioè qualsiasi azione è consentita per conservare il potere o per ottenerlo.
Nella prospettiva di Dante, invece, l’uomo non è mezzo e strumento finalizzato all’Impero, bensì quest’ultimo ha come fine garantire la libertà della persona e permettere che il singolo possa ricercare la felicità. La politica contemporanea sembra aver dimenticato questa funzione dello Stato sorto dopo l’uomo, dopo la persona e fondata dalle persone per favorire la garanzia dei diritti inalienabili dell’uomo. I diritti e il valore della persona non sono certo per questo fondati sullo Stato, ma sono connaturati all’uomo.
Riprendiamo da Avvenire un testo del cardinale Angelo Scola pubblicato il 14/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
In «Dio ha bisogno degli uomini. Preti per il terzo millennio» (Rizzoli, pp. 230, euro 13), il cardinale Angelo Scola raccoglie una serie di interventi, omelie e discorsi pronunciati in questi anni per i seminaristi e i sacerdoti della diocesi di Milano. In appendice sono trascritti (senza revisione dell’autore) anche gli incontri colloquiali dell’arcivescovo con i giovani delle comunità vocazionali ambrosiane; ne proponiamo in questa pagina uno. Il volume, curato dal rettore del seminario di Venegono Inferiore (Varese) monsignor Michele Di Tolve, viene offerto in occasione del 25° dell’ordinazione episcopale di Scola, avvenuta il 21 settembre 1991 nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.

Ho avuto occasione di imparare cosa sia il sacramento della riconciliazione accostando un libro che considero, ancora oggi, uno strumento fondamentale e che consiglio sempre a tutti i sacerdoti. Il libro è La confessione di Adrienne von Speyr. Adrienne von Speyr fu una mistica svizzera, convertitasi dopo aver incontrato Hans Urs von Balthasar, con il quale diede vita a una comunità speciale di triplice consacrazione: per le donne, per gli uomini e anche per i sacerdoti che, pur restando incardinati nella loro diocesi, vivono un’esperienza di questo tipo. Il libro sulla confessione è impressionante per profondità e per attualità, benché sia stato scritto per la prima volta nel 1960.
La lettura di questo testo (da non farsi in maniera corsiva dalla prima all’ultima pagina) è un consiglio che vi lascio per il futuro, qualunque sia ciò che Dio vi riserva, perché in esso sono sviluppati tutti gli elementi della confessione e, soprattutto, quello che è impressionante è che il tema del sacramento è preceduto da quello che lei chiama «l’atteggiamento della confessione» e che fa risalire addirittura all’interno della Trinità, per poi spostarlo sul Crocifisso.
Adrienne von Speyr dice che Dio, nella Trinità, non può stare davanti a sé se non come Dio: il Padre è Dio, il Figlio è eternamente Dio, lo Spirito è Dio. Lì, allora, si vedrebbe l’atteggiamento di confessione, così come lo si vede nelle braccia allargate del Crocifisso, e che consiste nel mostrarsi così come si è. Questo è il valore della confessione: mostrarsi come si è, perché per poter fare un’esperienza di salvezza, di conversione, di liberazione radicale e di pace bisogna avere il coraggio di mostrarsi come si è.
Noi viviamo in un tempo in cui tutti parlano di dialogo, di importanza del dialogo, ma raramente il dialogo giunge fino a questo vertice. Spesse volte il dialogo è un mono-logo, un monologo mascherato, un monologo sotto mentite spoglie; oppure, spesso, il dialogo è da noi usato come uno strumento di conferma di ciò che si pensa di sé e di ciò che si vorrebbe essere. Non come la grande occasione del mostrarsi come si è.
Questo atteggiamento di confessione è ciò che manca di più nell’esperienza comune di vita di tutte le nostre comunità. Di qualunque natura: parrocchie, comunità religiose, associazioni, movimenti, gruppi... di tutti! Manca dappertutto. Mi ricordo, al Sinodo sui laici nell’87, un intervento del padre gesuita Georges Chantraine nel quale, davanti a tutti i cardinali e i vescovi del Sinodo, disse di aver sentito tanti ragionamenti e tanti discorsi (lui era uno degli esperti e anch’io lo ero), ma di non aver visto nessun atteggiamento di confessione nel dialogo tra noi, come se uno non avesse avuto il coraggio di stare di fronte al Padre che è nei cieli, di stare di fronte al Crocifisso, mostrandosi per quello che è.
Tutti avevano da dire su come bisogna fare A, come bisogna fare B... Era necessario questo, sarebbe stato necessario quello (come avviene spesso nei nostri incontri)... Ma questo atteggiamento mancava. E quindi l’assemblea sinodale, da assemblea ecclesiale, si trasformava in una sorta di riunione come se ne possono fare tante altre, anche nella società civile.
Questo è il primo elemento che intendo sottolineare. Ed è anche la radice della bellezza, perché, come ci insegna san Tommaso, la bellezza è lo splendore della verità. Laddove non c’è verità, non c’è bellezza. C’è artificio, ci può essere qualcosa che colpisce, ci può essere una forma che colpisce o, come in certa pittura contemporanea, un accostamento di colori o un gioco di movimenti, ma bellezza in senso pieno non c’è. Bellezza in senso pieno non c’è nemmeno in certe forme perfette: ci sono dei Raffaello che sono, formalmente parlando, bellissimi, tecnicamente bellissimi, ma non ti dicono niente del dramma dell’uomo, della verità dell’uomo. Mi spiego? Invece ci sono nature morte di Cézanne che sono religiosissime, perché dicono la verità della mela, della pera, della pesca che è lì secondo una genialità attraverso la quale tu vedi che il pittore si è giocato con la realtà e ha cercato di dire cosa la realtà comunicava a lui. La radice della bellezza è la verità.
La confessione, allora, da questo punto di vista, è il grande dono dell’amore permanente di Dio. Questa esperienza straordinaria di amore è il culmine della verità che dà pace e dà felicità, perché è la possibilità di mostrarsi senza infingimenti, fino in fondo, come si è.
È una domanda di verità di sé, a cui l’uomo anela in ogni istante della sua vita ma che non riesce mai compiutamente a perseguire: ha bisogno dell’iniziativa di amore di un altro, soprattutto di un Altro, con la «A» maiuscola, per aprirsi e per spalancarsi a questa esperienza di verità che dà bellezza, dà bontà, dà gioia, dà pace. Così io sento la bellezza: non la posso dissociare da questa domanda, da questo grido di verità che abbiamo nel cuore, che subito si infrange come un’onda forte contro gli scogli di tutte le nostre resistenze e di tutti i nostri scantonamenti che possono diventare anche menzogna, perché il nostro peccato ci fa paura. Voi avete parlato della difficoltà della confessione.
Vi leggo una frase di Adrienne von Speyr per aiutarvi a capire bene la differenza tra il peccato e la confessione. Lei dice a un certo punto: Dio sta davanti a se stesso nell’atteggiamento di Dio, quindi si mostra così come è. Il Padre si svela totalmente al Figlio al punto che si dà tutto al Figlio, gli passa tutta la sostanza divina; il Figlio, nello stesso istante, eternamente gliela rende. È così perfetto lo scambio di amore tra i due che genera lo Spirito che è esso stesso Dio: è lo scambio e il dono tra i due.
Quindi, Dio sta davanti a se stesso nell’atteggiamento di Dio, in un atteggiamento di fiducia, di ringraziamento, di donazione e di accettazione, totalmente spalancato. Istituendo a Pasqua, sulla croce, la confessione, il Figlio vorrebbe far comprendere agli uomini, cioè a noi, l’atteggiamento divino (non ho mai trovato nessun teologo che abbia portato la radice della confessione nella cristologia e nella trinitaria), vorrebbe far partecipare ad essi qualche cosa della vita trinitaria. Nella confessione partecipiamo a qualcosa della vita trinitaria (si può dire misericordia, se la si intende, però, in tutta la sua ampiezza: non soltanto come il piegarsi di Dio verso di me, ma come la vita stessa che è in Dio trinitario che viene verso di me).
Riprendiamo dal sito Linkiesta http://www.linkiesta.it/it/article/2015/12/05/nessuno-in-italia-pensa-al-futuro-tra-40-anni-sara-un-disastro/28468/ un’intervista a Alessandro Rosina pubblicata il 5/12/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (25/5/2016)
Pensare al futuro non è lo sport più amato dagli italiani. Siamo puntualmente travolti dalle “emergenze”, dall’immigrazione al dissesto idrogeologico alla precarietà. Che vuol dire che non siamo in grado (o non vogliamo) prevederle, anche quando i sintomi sono sotto gli occhi di tutti. Ogni annuncio o decisione sono fatti per avere effetti elettorali immediati. Qui e ora. Che ce ne frega dell’Italia tra dieci anni. Altrimenti non si spiegherebbe perché diamo 500 euro ora a una mandria di 18enni, dei quali quattro su dieci non troveranno un lavoro.
Guardare le dinamiche demografiche in corso, però, aiuta a capire dove stiamo andando. E l’immagine dell’Italia che ci arriva dal futuro è quella di un Paese dominato dai capelli grigi. Entro il 2030 ci sarà una regione in più, grande quanto la Toscana, composta solo da over 65. Che saranno ancora al lavoro, mentre i 40enni manderanno ancora curriculum. «La popolazione italiana diventa anziana. E anche l’immigrazione, che finora ha in parte bilanciato l’invecchiamento, va via via diminuendo per via della crisi economica», diceAlessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica di Milano. «Qui nessuno pensa al futuro. Non ci pensano i politici, e i giovani per forza di cose hanno sospeso il giudizio. Ma tra quarant’anni sarà un disastro».
Professore, quali sono le principali tendenze demografiche in corso in Italia?
La popolazione italiana invecchia. Questo è il frutto di due fattori. Da un lato, viviamo sempre più a lungo: insieme al Giappone siamo tra i più longevi al mondo. Dall’altro, assistiamo a un declino costante delle nascite (1,39 bambini per donna nel 2014, ndr).
E in Europa?
Nel panorama europeo siamo i più vecchi insieme alla Germania. I Paesi più giovani sono quelli scandinavi e la Francia, dove la fecondità è vicina ai due figli. Questo significa che c’è un equilibrio generazionale: due figli ogni due genitori. In Italia invece si fa meno di un figlio e mezzo. Così la popolazione tende non solo a ridursi, ma soprattutto a sbilanciarsi sui più vecchi, che per giunta vivono più a lungo.
Perché invecchiano tanto anche in Germania, dove stanno meglio di noi?
Il numero di figli desiderato in Italia è elevato. Si vorrebbero avere due figli o più, ma poi ci si accontenta di averne uno o nessuno perché si riesce a costruire una famiglia troppo tardi, o perché ci si stabilizza con il lavoro troppo avanti con l’età. In Germania, al contrario, non si fanno figli perché sono poco interessati a farli, non c’è un alto numero di figli desiderati. Ma ora anche in Germania ci si sta accorgendo della pericolosità dell’invecchiamento della popolazione. Da un lato si sta puntando sulla immigrazione di qualità, non solo aprendo ai rifugiati ma anche attraendo talenti da ogni parte del mondo. Inclusi quelli italiani. E poi si stanno creando maggiori servizi per la famiglia e la conciliazione tra vita privata e lavoro per incentivare le nuove nascite.
E in Italia stiamo pensando a come far fronte all’invecchiamento della popolazione?
L’unica cosa che abbiamo fatto in Italia è stato far andare le persone in pensione più tardi, senza pensare a diversi ruoli per i lavoratori anziani in azienda. Li abbiamo lasciati lì dove sono, senza alcuna forma di age management, senza investire nella produttività. Il risultato è che aumenta la popolazione in età lavorativa over 50 nei luoghi di lavoro, mentre mancano i 30-40enni più produttivi. In questa fascia l’occupazione cresce pochissimo.
Questo cosa comporterà?
Aumenterà la popolazione inattiva, i giovani saranno sempre meno. Negli Stati Uniti i millennial sono una delle generazioni più consistenti, quindi hanno un peso politico ed elettorale. In Italia i giovani sono pochi, quindi non hanno peso elettorale. Di conseguenza non ci sono politiche forti che siano indirizzate a loro. Se ci sono meno politiche giovanili e più politiche rivolte agli anziani, ci sarà meno innovazione e minori investimenti per contare nel sistema produttivo alla pari con altri Paesi. Questo genererà un impoverimento del Paese, producendo grossi sprechi nella fascia più produttiva della società. Non a caso abbiamo il numero di Neet più alto d’Europa: 2,4 milioni. E il 47% dei giovani dichiara di fare un lavoro per il quale servirebbe un titolo di studio più basso. Meno forza lavoro produttiva significa meno crescita.
Quale sarà il futuro da vecchi di questi giovani? Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha già detto che si rischia la povertà dilagante...
Sarà un disastro. Le riforme pensionistiche hanno posticipato l’età pensionabile, legando la pensione ai contributi versati. Ma la crisi economica, la precarietà del lavoro e i redditi bassi fanno prospettare un futuro economico tutt’altro che roseo per i più giovani, con pensioni molto basse. I lavoratori precari del presente saranno precari anche nel futuro. Finora l’assicurazione sono state le famiglie, e del futuro dei 30enni non se ne è occupato nessuno. Tra 40 anni, quando non ci saranno neanche più le famiglie, sarà un disastro. La politica italiana non pensa al futuro dei giovani, perché quello che importa è sempre solo la prossima tornata elettorale. Intanto i giovani sul futuro sospendono il giudizio perché non hanno gli strumenti per farlo. Tutti dicono che dovrebbero farsi una pensione integrativa. Ma come fanno, se già fanno fatica a pagare l’affitto di casa con gli stipendi bassi che si ritrovano?
E l’immigrazione? Quale può essere l’apporto dei nuovi cittadini?
I nuovi arrivi per lavoro in Italia stanno diminuendo per via della crisi economica. Non abbiamo investito in politiche di integrazione. E l’immigrazione più preparata si sta spostando verso altre mete. Noi prendiamo un po’ quello che ci capita, che di solito sono lavoratori destinati a fare lavori poco qualificati. E anche gli immigrati più istruiti li mettiamo a fare lavori scarsamente qualificati. Chi ha ambizioni andrà in Paesi che offrono maggiori opportunità. Ci prendiamo la peggiore immigrazione e non attraiamo talenti.
Come si sposterà la popolazione nel prossimo futuro?
La parte Nord del Mediterraneo sarà composta da Paesi vecchi, la parte Sud da Paesi molto giovani in forte crescita. Nell’Africa subsahariana si registra una grande espansione demografica. Il che genererà sia spostamenti all’interno dei Paesi stessi dalle campagne alle città, sia al di fuori di questi Paesi. Secondo le ultime previsioni delle Nazioni Unite, in quest’area nella fascia 20-39 anni ci saranno oltre 200 milioni di individui in più nei prossimi vent’anni. Tutti giovani alla ricerca di lavoro. Se i governi non creeranno occasioni di lavoro in questi luoghi, gli spostamenti si dirigeranno verso l’Italia e verso l’Europa. A questo si aggiunge l’instabilità politica che renderà tutto più complicato.
Siamo avvisati.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito due articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti su Caravaggio e per ulteriori articoli sul tema di Andrea Lonardo, cfr. le sotto-sezioni Michelangelo e Caravaggio nella sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2016)
1/ Punti di vista: il san Pietro crocifisso di Michelangelo guarda all’eucarestia, di Andrea Lonardo
Nella Cappella Paolina, la Crocifissione di Pietro è sulla parete destra.
Rispetto alla foto, quindi, l'ingresso è a destra e l'altare a sinistra
Antefatto
Dopo aver guidato un gruppo di sacerdoti nella visita della Paolina, mi viene offerto il dono di concelebrare nella Cappella stessa. Mentre il celebrante predica, levo lo sguardo. Pietro mi sta guardando mentre viene crocifisso. Non me ne accorgo da critico d’arte, ma da concelebrante. Non stavo studiando quel quadro, semplicemente l’ho guardato distrattamente, perché la mente era rivolta ad ascoltare le parole dell’omelia. Non c’è dubbio. Pietro guarda verso l’altare, verso chi celebra, verso l’eucarestia. Solo al termine della messa vado vicino. Le sue pupille sono rivolte indietro. Fissano l’altare. In fondo è normale che un critico d’arte non si accorga del particolare. Perché è un laico e guarda l’affresco dal suo punto di vista, che è quello del fedele seduto nella navata. Ma Michelangelo dipinge quell’affresco pensando all’eucarestia e al papa che la celebra. Continuando a fissare entrambi gli affreschi dall’altare ci si accorge poi che quello è il punto di vista corretto per contemplare entrambi gli affreschi. Anche l’affresco della Conversione di Paolo deve essere visto da quel punto peculiare di vista.
Solamente guardando dall’altare della Cappella Paolina la Crocifissione di Pietro, dipinta da Michelangelo, ci si accorge che il primo degli apostoli si volge, prima di morire, a contemplare l’eucarestia. In realtà il Buonarroti conferì all’affresco una duplice leggibilità da due opposti punti di vista, quello di chi vi accede dalla porta di accesso e quello di chi guarda dall’altare papale.
Volle così che chi fosse entrato nella Cappella si sentisse sotto lo sguardo dell’apostolo. Ma soprattutto dipinse gli occhi di Pietro crocifisso che si rivolgono all’altare, al papa celebrante e all’eucarestia. Le sue pupille non fissano chi entra, ma piuttosto il cuore della Cappella, dove si celebra e si conserva l’eucarestia.
Il punto di vista “liturgico” è per Michelangelo il punto di vista più importante: Pietro muore guardando alla celebrazione eucaristica ed al papa vivente che la celebra o la adora nella Paolina.
La Cappella Paolina o Cappella Parva – per distinguerla dalla più famosa Cappella Magna o Cappella Sistina – venne consacrata da papa Paolo III Farnese nel 1540: costruita da Antonio da Sangallo il giovane, venne dedicata al santo di cui il papa portava il nome. La Cappella venne eretta per le celebrazioni private del papa ed, in particolare, per le Quarant’Ore, l’adorazione eucaristica protratta per la lunghezza del tempo nel quale Gesù morto rimase nel sepolcro. Fra l’altro fu proprio papa Paolo III ad approvare questa pratica con un Breve apostolico del 1537.
Lo sguardo di Pietro che si rivolge alla Custodia del Sacramento – in età barocca verrà appositamente costruita una vera e propria “macchina” predisposta per le Quarant’Ore nella Paolina – esprime così la fede del committente, ma anche quella dell’artista stesso.
Il legame di Michelangelo con Paolo III (1534-1549) è strettissimo. Il papa, che già gli aveva commissionato il Giudizio Universale della Cappella Magna, la Sistina, gli richiese nel 1542 la realizzazione dei due affreschi con la Conversione di Paolo e la Crocifissione di Pietro per la Cappella Parva. Il Buonarroti la iniziò ultrasessantacinquenne e la terminò ultrasettantenne, poiché l’opera richiese più di sette anni, dal 1542 al 1550 – l’affresco con Pietro crocifisso che guarda all’eucarestia venne iniziato per secondo, nel 1546. Michelangelo, appena sceso dai ponteggi della Sistina vi risaliva immediatamente per i due affreschi della Paolina. Contemporaneamente aveva firmato nel 1542 l’ultimo contratto per la sepoltura di papa Giulio II, con la sola statua a grandi dimensioni di Mosè, oltre a quelle minori della Vergine col Bambino, di Lia e Rachele e del papa che si solleva sul sepolcro. La tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli venne definitivamente sistemata nel 1545, lo stesso anno nel quale Michelangelo concluse la Conversione di San Paolo. Il corpo di Giulio II, che aveva reso famoso Michelangelo con la commissione delle Storie della Genesi e che l’artista tanto amava, non venne mai traslato nel nuovo sepolcro e tuttora riposa nella basilica Vaticana, ma il Buonarroti con la sistemazione del Mosè realizzò finalmente il suo personale omaggio al papa defunto, chiudendo quella che chiamò la “tragedia” della sepoltura.
Nel 1546, proprio nell’anno in cui cominciò l’affresco della Crocifissione di Pietro, morì Antonio da Sangallo il giovane che aveva costruito la Cappella Paolina, ma che, soprattutto, era responsabile della Fabbrica della nuova basilica di San Pietro in costruzione. Michelangelo venne designato al suo posto e si trovò così a lavorare contemporaneamente agli affreschi della Paolina, alla tomba di Giulio II ed alla basilica con la sua cupola – lavorò alle absidi della basilica, giungendo a costruire per intero il meraviglioso tamburo della cupola, ma non la cupola stessa di cui progettò solo un modello ligneo nel 1557. La cupola doveva essere ancora iniziata quando Michelangelo morì quasi novantenne nel 1564 nella sua casa a Macel de’ Corvi, dove oggi è piazza Venezia - la facciata della sua casa venne trasferita in età moderna al Gianicolo. Venne infine realizzata da Giacomo della Porta durante il pontificato di Sisto V.
La dedizione alla basilica di San Pietro, ai papi e l’affrescatura della Cappella per le Quarant’Ore, con il primo degli apostoli che morendo si rivolge fiducioso a Cristo presente nell’eucarestia, dicono molto, nella loro oggettività, di quella fede che l’artista voleva servire. La tradizione vuole che il Buonarroti addirittura rifiutasse di essere pagato per i lavori alla basilica, perché offerti per la gloria di Dio.
Il dipinto della Crocifissione di Pietro, osservato dalla giusta prospettiva dell’altare e della custodia eucaristica, presenta come un movimento processionale che inizia a sinistra di Pietro con i soldati che salgono e, girando intorno all’apostolo che viene innalzato sulla croce a testa in giù, ridiscendono dal lato opposto. Le donne che sono alla destra di Pietro quasi si uniscono ai fedeli presenti nella Cappella, discendendo nel popolo di Dio che, con il papa vivente, adora l’eucarestia nella Paolina.
Alla sommità dell’affresco una figura invita al silenzio, ponendo il dito dinanzi alla bocca. La morte di Pietro rimanda al sepolcro di Cristo che le Quarant’Ore veneravano e venerano, invitando al silenzio ed al raccoglimento. Ogni sguardo, a partire da quello di Pietro, si volgerà nel silenzio alla presenza eucaristica del Signore.
Quando Caravaggio decorerà la Cappella Cerasi, in Santa Maria del Popolo, vorrà, dopo avere a lungo contemplato i due affreschi dell’anziano Michelangelo, ripeterli, in quella che potremmo chiamare la “Paolina in piccolo”. Anche il Pietro crocifisso di Caravaggio non si rivolgerà a guardare chi entra nella Cappella, bensì si solleverà per rivolgersi ancora una volta all’eucarestia.
2/ Punti di vista: il San Pietro crocifisso di Caravaggio guarda all’eucarestia, di Andrea Lonardo
Nella Cappella Cerasi, la Crocifissione di Pietro è sulla parete sinistra.
Rispetto alla foto, quindi, l'ingresso è a sinistra e l'altare a destra.
Foto di Bruno Brunelli
Antefatto
Il giorno dopo aver scoperto che Pietro guarda verso il cuore della cappella, verso l’eucarestia, telefono al parroco di Santa Maria del Popolo. Sono sicuro prima di sapere la sua risposta. Lo prego – ci conosciamo bene – di andare nella Cappella Cerasi, di mettersi di spalle all’altare e di dirmi se Pietro fissa l’altare ed il tabernacolo. E, se possibile, di scattare una foto da quell’angolatura. Sono sicuro della risposta. Mi ritelefona dopo pochi minuti: “Come facevi a saperlo? È vero, guarda verso l’altare, non me n’ero mai accorto. Tutte le guide ripetono accompagnando i gruppi che Pietro crocifisso è posto da Caravaggio in quella postura per guardare chi entra nella Cappella. Non è così, guarda l’eucarestia”.
La Crocifissione di Pietro della Cappella Cerasi mostra da sola che senza una forzatura ideologica non si può presentare il Caravaggio come un pittore che avrebbe ignorato la tradizione pittorica precedente. Il Merisi, nel dipingere il martirio di Pietro cita l’affresco di Michelangelo nella Cappella Paolina e fa voltare anche lui, come il grande maestro che portava il suo stesso nome di Battesimo, lo sguardo di Pietro verso l’eucarestia. Anche per Caravaggio il punto di vista è determinante: Pietro non si volge a chi entra nella Cappella, bensì al sacerdote che consacra l’eucarestia.
Questo solo particolare basterebbe a screditare chiunque ripeta che il realismo è l’unica chiave di lettura dell’opera di Caravaggio. La pittura del Merisi è, infatti, impastata di simbolismo e riflette continuamente l’oggettività della fede cristiana, come nell’altare e nel fonte battesimale del Martirio di San Matteo, dove i neofiti si affollano nudi per il Battesimo appena ricevuto ed un ministrante in vesti liturgiche bianche fugge impaurito, così pure nella luce di grazia che accompagna la Vocazione di Matteo e, prima ancora, la Maddalena penitente.
Dalla Contarelli alla Cerasi è la stessa luce che manifesta la chiamata di Paolo – resa ancora più simbolicamente con la scomparsa della figura del Cristo – ed è la stessa realtà sacramentale testimoniata dallo sguardo di Pietro che non ha altro da contemplare prima di morire che il Cristo nascosto nell’eucarestia consacrata sull’altare.
Nella rappresentazione di Pietro, Caravaggio è debitore a Michelangelo, ne avverte il debito e lo dichiara, mentre a suo modo cerca di superarlo. Prima del Buonarroti era abitudine dipingere l’uno a fianco dell’altro il martirio dei due apostoli: la decapitazione di Paolo e la crocifissione di Pietro, Paolo decapitato in quanto cittadino romano e Pietro martirizzato con la pena più infamante riservata a coloro che non godevano di tale cittadinanza. Ritroviamo i due martiri nella stessa basilica Vaticana, nella Porta bronzea del Filarete o precedentemente nel polittico Stefaneschi dipinto da Giotto per l’altare maggiore della basilica, ora nei Musei Vaticani.
Michelangelo innovò, rispetto a questo schema, cessando di dipingere nella Cappella Paolina i due martiri affiancati: alla Crocifissione di Pietro contrappose simmetricamente la Conversione di Paolo. Ma l’originalità di Michelangelo si spinse oltre, fino a rappresentare l’apostolo nel momento in cui la croce viene eretta. L’opera presenta la crocifissione in movimento, mentre la croce non è ancora stata totalmente innalzata e fissata al suolo. La figura di Pietro viene caratterizzata da Michelangelo con un ulteriore particolare impressionante: Pietro si volge all’altare, alla custodia eucaristica, al celebrante. Testimonia il suo Signore e Maestro non solo morendo, ma insieme volgendosi al Cristo per l’ultima volta in terra.
Ebbene Caravaggio riprende da Michelangelo nella Cappella Cerasi non solo la simmetria della conversione dell’apostolo delle genti e della crocifissione del primo degli apostoli, ma anche la postura dei due. Ciò mostra a sufficienza quanto Caravaggio fosse un frequentatore abituale del Palazzo papale. Lo sappiamo con sicurezza per il fatto che ritrasse papa Paolo V Borghese, un’opera già nota dalle fonti e recentemente riconosciuta dalla critica in occasione della mostra “Caravaggio a Roma. Una vita dal vero”.
Ma lo vediamo ancor più dalle stesse opere che citano gli affreschi della Sistina e della Paolina. Il braccio con cui Gesù chiama Matteo nella Vocazione in San Luigi dei Francesi è un’evidente rimando al braccio di Adamo nella Creazione dell’uomo della Sistina.
Lo vediamo ancor più nelle due tele della Cerasi.
È commovente immaginare Caravaggio nella Cappella Paolina che studia l’opera di Michelangelo, avendo vicino il papa o i suoi amici cardinali, nel desiderio di reinterpretarla in piccolo nella Cerasi. Caravaggio si accorse che il San Pietro michelangiolesco, morendo, si volgeva all’altare. E decise che il suo San Pietro crocifisso doveva guardare similmente nella medesima direzione.
Nella Cerasi, data la ristrettezza del luogo, la torsione del capo di Pietro verso l’altare è ancora più evidente che nella Paolina. Solo il confronto con l’affresco michelangiolesco permette di collegare la postura di Pietro anche con un volgersi verso chi entra nella Cappella, perché in Santa Maria del Popolo il primo degli apostoli si volge solamente all’altare.
Fu certamente lo stesso Cerasi a volere per la cappella di famiglia il doppio riferimento ai santi Pietro e Paolo. Tiberio Cerasi era cardinale e tesoriere della Camera apostolica, l’organismo della Curia pontificia addetto allora alla gestione economica dei beni: era – si potrebbe dire – colui che di fatto amministrava i conti dello Stato pontificio.
Nell’anticamera della Cappella fece scolpire sul lato sinistro il proprio busto e sull’altro quello del padre, Stefano Cerasi, che aveva esercitato la professione di medico chirurgo presso l’Ospedale di Santa Maria della Consolazione, ai piedi del Campidoglio. L’iscrizione lo dichiara, con la terminologia del tempo, physicus. L’iscrizione che il cardinale fece comporre ricorda anche la madre che era et corporis et animi bonis.
Il Cerasi morì prima della sistemazione della Cappella e non vide quindi la versione definitiva delle due tele del Merisi. La critica ha, comunque, chiarito che le due tavole su legno che Caravaggio aveva in origine dipinto non furono rifiutate né per motivi teologici, né di decoro. Probabilmente fu lo stesso Caravaggio a ritenerle non più adatte alla Cappella per la quale, nel frattempo, Annibale Carracci aveva dipinto la pala con l’Assunta. La prima Crocifissione di Pietro è scomparsa e ne esiste solo una copia abbozzata, ma certamente la prima versione della Conversione di Paolo è molto più manierista dell’attuale che è, invece, decisamente più innovativa nello stile che il Caravaggio andava affinando e maturando. Scompare l’affollamento di figure della prima versione e si stagliano invece solamente Paolo, lo stalliere ed il cavallo, illuminato dalla luce radente dell’apparizione di Cristo che resta invisibile.
Fu, quindi, certamente l’artista a perfezionare l’opera, di modo che anche nella Crocifissione Pietro fissasse l’altare dell’eucarestia. Caravaggio, fra l’altro, nel passaggio dalla prima alla seconda versione, invertì la posizione delle due raffigurazioni, che risultano così opposte rispetto alla Paolina: a sinistra la Crocifissione di Pietro e a destra la Conversione di Paolo. L’inversione si evince chiaramente dalla disposizione delle figure nelle due versioni.
Il fatto di porre a sinistra quella di Pietro che guarda l’eucarestia – la tavola che appare per prima allo sguardo di chi entra nella Cappella – forse venne determinato proprio dal voler mettere in rilievo quel punto di vista. Il visitatore vede in primo piano il posteriore di uno dei personaggi che crocifigge l’apostolo, ma lo sguardo di Pietro lo indirizza subito alla presenza del Cristo.
La peculiare poetica di Caravaggio che sottolinea sempre l’incontro dell’oscura materialità dell’uomo con la misteriosa e illuminante presenza di Dio nella storia è così anche qui confermata. Anche qui è Michelangelo ad essere maestro del Merisi: Buonarroti, infatti, non esitò a rappresentare addirittura il posteriore di Dio nella Creazione del sole, della luna e della vegetazione nella Sistina. Solo una meditazione profonda dell’Incarnazione permette di comprendere la vertigine di raffigurazioni cristiane delle terga divine ed umane, poiché gli antropomorfismi e la carnalità nella rappresentazione del divino e dell’umano hanno senso nella fede cristiana e solo in essa.
La Crocifissione di Pietro del Caravaggio allora è pienamente in linea con ciò che conosciamo delle sue devozioni. Si conserva, infatti, il documento della partecipazione del Merisi all’adorazione eucaristica delle Quarant’Ore per la Madonna di San Luca, patrona dei pittori, così come il “Precetto” che certifica la sua Confessione e Comunione per la Pasqua del 1605, nello Stato delle anime della parrocchia di San Nicola dei Prefetti.
Ma l’opera pittorica aggiunge a questi dati noti la vivezza della raffigurazione artistica. Caravaggio era una “testa calda” come la maggior parte dei pittori dell’epoca – si conservano notazioni dei tribunali anche su Orazio Gentileschi, Prospero Orsi, il Cavalier d’Arpino, Annibale Carracci e altri – ma contemporaneamente partecipava con convinzione alla vita cristiana della sua Roma che oggi chiamiamo con termine quasi ”dispregiativo” controriformistica, ma che Caravaggio riteneva invece degna e bella, adatta alla libera espressione artistica, tanto da aspirare a tornarvi nel 1610 non appena avuta l’assicurazione della grazia papale imminente.
Riprendiamo dal sito www.vatican.va uno studio di Joseph Sievers con la nota introduttoria che lo accompagnava. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Ebraismo.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Questa è una versione aggiornata di un articolo apparso precedentemente su Nuova Umanità 64/65 (luglio-ottobre 1989) 125-136 e, in forma abbreviata, su Unità e Carismi 6 (novembre/dicembre 1996) 33-38.
È stato notato tempo fa che giudaismo e cristianesimo hanno in comune una grande riluttanza: accettare pienamente e apertamente il fatto che Gesù era un ebreo. Noi cristiani spesso ci siamo creati un'immagine di un Cristo sradicato dalla sua terra, dal suo tempo, e dal suo popolo. Per gli ebrei invece, per molti secoli, Gesù è stato colui nel cui nome essi sono stati perseguitati e quindi era difficile considerarlo uno di loro.
Ciò non vuol dire che non ci sia stata tutta una letteratura, di carattere a volte polemico, spesso apologetico, su Gesù visto da ebrei. Bisogna anche affermare subito che non tutti gli autori ebrei che si sono interessati dell'argomento lo hanno voluto fare specificamente da ebrei, e che nessun autore può parlare a nome de "gli ebrei". Infatti, in genere ogni autore esprime solo delle opinioni sue personali, basate sulle sue ricerche e sul suo punto di vista personale, che può essere condiviso da un numero più o meno grande di altre persone. Delle vedute ebraiche su Gesù si sono interessati alcuni libri e molti articoli[1].
Rinviamo a questi studi per un esame più dettagliato di vari aspetti dello sviluppo delle vedute di ebrei su Gesù. Qui ci limitiamo ad un cenno ad alcuni libri che sono stati influenti nella prima metà del nostro secolo e a una selezione più ampia, seppur per niente completa, degli ultimi decenni[2]. Quindi non consideriamo tutte le opere che non trattano principalmente di questo argomento, benché negli scritti filosofico-religiosi di Rosenzweig e Buber, in varie pitture di Chagall, e in tante opere della letteratura ebraica si trovino delle espressioni molto interessanti su Gesù.
Claude Montefiore, un esponente del giudaismo liberale in Inghilterra, fu uno dei primi a scrivere un commento ai Vangeli da un punto di vista ebraico, ma simpatetico al cristianesimo[3]. La sua opera non presenta tanto delle idee originali quanto dà una propria sintesi degli studi fatti sui Vangeli, in quell'epoca, da studiosi cristiani. Il Montefiore parlava con tono tanto irenico che a volte venne accusato di essersi avvicinato troppo al cristianesimo, anche se egli stesso rimase sempre fedele al giudaismo.
Più conosciuta dell'opera di Montefiore è quella del Klausner, il quale, più che rifarsi agli studi neotestamentari di autori cristiani, ha cercato di capire e presentare Gesù nel suo contesto storico[4]. L'originalità del suo libro non sta però nelle singole affermazioni, ma nel presentare uno studio su Gesù a un pubblico ebraico in lingua ebraica. Klausner sottolinea l'ambiente ebraico in cui Gesù è vissuto e nel quale si situa il suo insegnamento. Afferma: «Gesù di Nazareth... era esclusivamente un prodotto della Palestina, un prodotto del giudaismo puro, senza alcuna aggiunta estranea. C'erano molti Gentili in Galilea, ma Gesù non era affatto influenzato da loro... Senza eccezione il suo insegnamento è interamente spiegabile attraverso il giudaismo biblico e farisaico del suo tempo»[5]. Mentre vede l'origine di tutti gli insegnamenti di Gesù nel giudaismo, Klausner giudica duramente la - secondo lui - eccessiva e pericolosa radicalità dell'etica di Gesù. Secondo Klausner ciò avrebbe portato a una deleteria scissione tra ideale religioso e prassi quotidiana[6]. Anche se non seguiamo Klausner nelle sue polemiche, che hanno più a che fare con una millenaria storia di antisemitismo da parte cristiana che con la figura di Gesù, forse può essere utile vedere Gesù collocato interamente, "fino all'ultimo respiro", nel giudaismo del suo tempo.Per più di una generazione l'opera di Klausner è rimasta il libro più influente di questo tipo, anche se è stata criticata per il suo approccio "dilettantistico" alle fonti rabbiniche e cristiane.
Durante il periodo più buio della storia di questo secolo, tra il 1943 e il 1946, Jules Isaac scrisse il suo libro "Jésus et Israël"[7]. In esso cerca di evidenziare l'ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli. Si sofferma sulla inesattezza dell'accusa di deicidio fatta per secoli agli ebrei. Il libro si articola in una serie di proposizioni per combattere l'antisemitismo nelle sue radici cristiane. Questo libro programmatico ha avuto ampia risonanza, non tanto nel campo dello studio del Gesù storico quanto per un ripensamento dei rapporti fra ebrei e cristiani.
Negli anni Sessanta vediamo il riapparire di tutta una serie di libri su Gesù, scritti da ebrei. Il primo da notare è "We Jews and Jesus" ("Noi ebrei e Gesù") di Samuel Sandmel[8]. Fino alla sua morte nel 1979 il rabbino Sandmel è stato professore di Sacra Scrittura e letteratura ellenistica al famoso Hebrew Union College di Cincinnati negli Stati Uniti. Il suo è un lavoro molto sobrio, indirizzato primariamente a ebrei, ma evidentemente è stato ricevuto molto favorevolmente anche da altri. L'autore traccia lo sviluppo storico della comprensione di Gesù da parte di cristiani ed ebrei. La sua intenzione è di informare e di aiutare per una migliore comprensione reciproca tra ebrei e cristiani. L'interesse principale non è tanto rivolto al Gesù storico quanto alla situazione di ebrei e cristiani oggi.
Anche Schalom Ben-Chorin ha la stessa ansia di promuovere una migliore comprensione fra ebrei e cristiani. Nato e cresciuto in Germania, dal 1935 vive a Gerusalemme. Ha scritto ormai più di venti libri (in tedesco, alcuni tradotti anche in altre lingue), in cui il rapporto tra ebrei e cristiani è la nota fondamentale. Soprattutto vuole far capire ai cristiani le loro radici nel giudaismo. Qui ci interessa particolarmente uno dei suoi primi libri, sulla figura di Gesù di Nazareth[9]. L'autore parte dal presupposto che Gesù era un ebreo del suo tempo, da capire - e da riscoprire - soltanto nel suo contesto ebraico, anche se era una persona eccezionale. Ben-Chorin fa sue le parole ormai famose di Martin Buber:
«Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello. Che la cristianità lo abbia considerato e lo consideri come Dio e Redentore, mi è sempre sembrato un fatto della massima serietà, che io devo cercare di comprendere per amore suo e per amore mio... Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e più puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero»[10].
Nel tentativo di collocare Gesù più esattamente nel suo contesto, Ben-Chorin afferma: «In questo senso, crediamo di non sbagliare nel far rientrare Gesù stesso tra i farisei, naturalmente all'interno di un sottogruppo di opposizione. Gesù stesso insegnava come un rabbino fariseo, per quanto con un'autorità maggiore, la cui eccessiva sottolineatura va tuttavia senz'altro considerata come tradizione kerigmatica»[11].
Tale tesi, che Gesù faceva parte del gruppo dei farisei, viene proposta ormai da vari studiosi, e non solo ebrei[12]. Gesù fariseo: forse è un'idea scioccante per molti lettori. Infatti, non può essere comprovata da nessuna delle nostre fonti, neotestamentarie o altre. Però indica una verità spesso trascurata: che molti degli insegnamenti di Gesù non sono lontani da quelli di certi farisei o di rabbini, loro successori più o meno diretti. Infatti, seppur Gesù ha avuto polemiche con dei farisei, in nessun modo il suo insegnamento di per se stesso lo mette al di fuori del giudaismo.
La tesi fondamentale di Ben-Chorin è «che sotto la veste greca dei Vangeli si nasconde per così dire una tradizione originaria ebraica, in quanto Gesù e i suoi discepoli erano ebrei, prettamente eunicamente ebrei»[13]. Seguendo l'esempio di Klausner ed altri, è ormai un fatto abbastanza acquisito tra gli esegeti sia cattolici che protestanti, fare attenzione allo sfondo ebraico dei vangeli. Però non è così facile, come lascerebbe intendere Ben-Chorin, essere sicuri dell'entità dell'influenza di tale sfondo. Naturalmente per un cristiano è impossibile affermare che Gesù era unicamente ebreo.
Spesso Ben-Chorin va troppo lontano nelle sue affermazioni su Gesù, come quando, per esempio, desume che Gesù era sposato dal fatto che non è mai accusato di non esserlo[14]. Nonostante ciò, fra le opere di carattere popolare è forse ancora la migliore sul mercato italiano.
Un autore che ha avuto molto successo tra il pubblico, specialmente nei Paesi di lingua tedesca, ma ormai anche altrove, è Pinchas Lapide. Sono in commercio oltre venti libretti suoi in tedesco, di cui alcuni tradotti anche in italiano. Molti di essi sono nati da conferenze o programmi alla radio o alla televisione, a volte in dialogo con dei teologi famosi come Rahner, Moltmann e Küng. Il libro più provocatorio è intitolato "La resurrezione: un'esperienza di fede ebraica"[15]. In esso sostiene che l'idea della resurrezione individuale era presente nel giudaismo del tempo di Gesù e che quindi Gesù potrebbe essere stato risuscitato (per poi morire di nuovo), come egli stesso aveva risuscitato Lazzaro. Purtroppo qui si tratta di una interpretazione tendenziosa delle fonti giudaiche che porta a una apparente vicinanza a posizioni cristiane. Sembra che tale affermazione non serva né alla conoscenza migliore del Gesù storico, né all'approfondimento del dialogo fra ebrei e cristiani. Anche se Lapide ha fatto e continua a fare molto per sensibilizzare un vasto pubblico cristiano al rapporto essenziale tra cristianesimo e giudaismo, bisogna distinguere tra affermazioni sue basate su una buona conoscenza delle fonti e intese a contribuire a una migliore comprensione di esse e altre affermazioni fatte piuttosto per il loro possibile effetto pubblicitario. Fra le sue altre pubblicazioni, Lapide dedica un volume assai utile a una rassegna di vedute ebraiche su Gesù. Di particolare interesse un capitolo dedicato al trattamento di Gesù nei testi scolastici israeliani[16].
Molto diversa si presenta invece l'opera di David Flusser, professore emerito all"Università Ebraica di Gerusalemme, famoso per i suoi lavori sui Manoscritti del Mar Morto e su altri testi giudaici, oltre che sul Nuovo Testamento. Il suo primo libro su Gesù fu un grande successo editoriale, con traduzione in varie lingue[17]. In esso Flusser tentò di far capire meglio la figura di Gesù, che egli vede come rappresentante di un giudaismo genuino, vicino al fariseismo ma critico di esso. Flusser combatte su due fronti: da un lato vuole liberare i cristiani da quello che considera uno scetticismo troppo spietato degli esegeti, specialmente causato dall'influenza di Bultmann; dall'altro lato, tra le righe, nel fare sue certe critiche di Gesù ai farisei, vuole anche criticare alcune correnti del giudaismo moderno. Quindi vede Gesù come un personaggio importante non solo per il suo, ma anche per il nostro tempo.
Queste vedute Flusser le ha ampliate e in certi aspetti modificate in una sua opera più recente sulle parabole di Gesù[18]. In uno studio che si estende per oltre 300 pagine fitte, cerca di analizzare quale sia l'essenza delle parabole di Gesù e quale sia il loro rapporto con le parabole rabbiniche. Afferma che «capiamo le parabole di Gesù in modo corretto soltanto quando le consideriamo appartenenti al genere letterario delle parabole rabbiniche» (p. 279).
L'autore insiste poi giustamente sul fatto che molti esegeti del Nuovo Testamento, anche quando sono consci di paralleli rabbinici a testi neotestamentari, spesso non ne conoscono abbastanza il contesto letterario e storico. Quindi Flusser cerca con tutti i mezzi, inclusa una polemica a volte dura, di far notare la necessità di leggere l'insegnamento di Gesù nel suo contesto giudaico.
Tra gli esegeti del Nuovo Testamento è stata elaborata una serie di criteri per stabilire con più sicurezza quali detti nei Vangeli si possono attribuire a Gesù stesso. Non c'è unanimità su quali possano essere questi criteri, ma uno che appare praticamente in ogni elenco è il cosiddetto "criterio di dissomiglianza", vale a dire: se un detto è "dissimile" dagli interessi sia delle primitive comunità cristiane sia del giudaismo del tempo, è da considerare autenticamente di Gesù.
Flusser va proprio nella direzione opposta: considera autentici di Gesù quei testi che più riflettono un pensiero consono a quello dei rabbini e dei farisei del tempo. Con questo mette il dito su un problema che molti esegeti hanno già superato, ma che si trova ancora in molti testi di teologia, anche recenti: spesso si mette l'accento soltanto sul fatto che Gesù era diverso da tutti gli altri, e non sul fatto che il Verbo si è fatto carne come ebreo ed è vissuto, ha insegnato ed è morto come un figlio del suo popolo, del suo tempo e della sua terra.
Molto diverso dall'approccio di Flusser è quello del Vermes. Anch'egli ha una conoscenza profonda sia del Nuovo Testamento che della letteratura ebraica del periodo. Il Vermes ha scritto un libro dal titolo semplice ma provocatorio: "Gesù l'ebreo"[19]. In esso cerca di analizzare prima il contesto della vita e dell'insegnamento di Gesù e poi i vari titoli dati a Gesù. La sua intenzione non è di esporre un punto di vista specificamente ebraico. Infatti il sottotitolo dell'edizione originale era "Lettura dei Vangeli da parte di uno storico". Tuttavia suggerisce, citando Martin Buber, che «noi ebrei conosciamo Gesù negli impulsi e nelle emozioni della sua essenza giudaica, in una maniera che rimane inaccessibile ai gentili a Lui sottomessi»[20]. Il Vermes cerca di evitare, in quanto gli è possibile, i preconcetti ideologici o teologici. Afferma che «ai Vangeli ci si avvicina per lo più con idee preconcette. I cristiani li leggono alla luce della loro fede, gli ebrei mossi da vecchi sospetti, gli agnostici pronti a scandalizzarsi e gli studiosi del Nuovo Testamento con i paraocchi del loro mestiere»[21]. Tali generalizzazioni naturalmente dicono al massimo una parte della verità, ma può risultare utile l'essere coscienti della varietà dei punti di vista.
Tra i suggerimenti più interessanti del Vermes è quello di vedere Gesù in legame particolarmente stretto con l'ambiente della Galilea e con un tipo di giudaismo carismatico di cui conosciamo alcuni esponenti galilei[22]. Anche se il Vermes non esaurisce l'argomento, ci induce a prendere più sul serio la domanda: in che tipo di ambiente giudaico Gesù è cresciuto?
La seconda parte del libro di Vermes è dedicata ad alcuni titoli cristologici di Gesù (profeta, signore, Messia, figlio dell'uomo, figlio di Dio). In contrasto con molti esegeti che attribuiscono la maggior parte di questi titoli alla comunità cristiana postpasquale, egli accetta tutti come storicamente attendibili, soltanto che Gesù non avrebbe mai usato o accettato il titolo di Messia quando altri glielo attribuivano. Il Vermes adopera un metodo di per sé molto valido, cioè l'analisi di che cosa significavano questi termini per un ebreo del primo secolo. Afferma che profeta, signore, figlio di Dio erano termini applicati a una varietà di persone, e ne cita esempi soprattutto dalla letteratura rabbinica. La controversia più grande si è accesa attorno all'interpretazione del termine "figlio dell'uomo" data da Vermes ( in questo libro e in altri suoi studi sin dal 1965). Egli ritiene che "l'espressione figlio dell'uomo seguendo un uso armonico serve alla persona che parla per alludere velatamente a se stessa per motivi di timore, modestia o umiltà"; in altre parole, nella bocca di Gesù essa sarebbe stata semplicemente una circonlocuzione per il pronome personale "io"[23]. Qui non è il luogo per discutere questa affermazione controversa, ma notiamo solo che anche se è attestato l'uso di essa in senso di circonlocuzione, ciò non toglie l'importanza, nella stessa epoca, della figura escatologica del "figlio dell'uomo", conosciuto dal libro di Daniele (7, 13) e dalla seconda parte del libro di Enoch (cc. 37-71).
Evidentemente, per comprendere pienamente le problematiche toccate dal Vermes ci vuole una base di conoscenza del Nuovo Testamento e del giudaismo contemporaneo ad esso, ma l'autore scrive sia per lo specialista (con ampia documentazione nelle note a piè di pagina) sia per un pubblico più vasto. Certamente la sua non è l'ultima parola sull'argomento: anche il Vermes stesso vede il suo libro come l'inizio di una serie di tre volumi[24]. Ma forse finora il suo è il tentativo più riuscito per collocare Gesù nel giudaismo del suo tempo.
Negli ultimi anni, specialmente in Nord America, dove sempre di più gli ebrei sono una minoranza accanto a altre minoranze, di cui varie di stampo cristiano, il dialogo fra ebrei e cristiani ha fatto dei progressi notevoli anche se rimane sempre molta strada da fare. Le persone coinvolte in questo dialogo a vari livelli sono sempre una piccola minoranza nella minoranza, sia da parte ebraica sia da parte cristiana. Un frutto di questo clima è anche tutta una serie di libri sul nostro argomento.
Uno è quello di Harvey Falk, dal titolo "Gesù il fariseo"[25]. L'autore è un rabbino ortodosso, con una conoscenza delle fonti ebraiche molto vasta, seppur tradizionale piuttosto che scientifica. Falk prende spunto dalla affermazione di un suo famoso antenato, il rabbino Jacob Emden (1697-1776), che Gesù sarebbe venuto a fondareuna religione nuova per i Gentili, basata sui cosiddetti sette comandamenti dati a Noè[26]. Seppure l'atteggiamento molto positivo di Emden verso Gesù, Paolo e il cristianesimo in generale vada visto nel contesto della sua polemica durissima con altri gruppi di ebrei (specialmente i seguaci di un falso Messia, Sabbatai Zevi), i suoi scritti sul rapporto fra cristianesimo e giudaismo rimangono dei documenti importanti, adesso più facilmente accessibili grazie al lavoro del Falk.
Abbiamo già notato che il tentativo di collocare del tutto Gesù all'interno del fariseismo è destinato a fallire; ma nonostante ciò il lavoro del Falk, che usa le fonti secondo metodi tradizionali e non in modo storico-critico, è molto interessante. Cerca di dimostrare come in molti casi Gesù si trovasse in accordo sostanziale con la scuola farisaica di Hillel, che allora rappresentava una minoranza ma diventò più tardi la forza determinante. Al di là dei dettagli, è davvero segno di un clima nuovo se una tale opera può essere scritta da un rabbino ortodosso e pubblicata da una casa editrice cattolica.
Se un clima di dialogo, nato dopo la tragedia indescrivibile dell'era nazista, ha dato la possibilità a ebrei di avvicinare Gesù più serenamente, va anche detto che in molti autori ebrei ancora l'ansia di prevenire un possibile antisemitismo cristiano è un elemento importante nel trattare l'argomento.
Se soprattutto nelle opere di Flusser e Vermes vediamo un dibattito a volte acceso con posizioni di esegeti cristiani, il Borowitz va un passo più in là. In un clima influenzato da qualche decennio di dialogo fruttuoso fra studiosi ebrei e cristiani, egli ha deciso di studiare come alcuni teologi cristiani di oggi vedono Gesù. Non cerca tanto di arrivare al Gesù storico, ma di fare una valutazione di vari studi di cristologia. Dice:
«Sentivo che una investigazione dettagliata di un'area teologica in cui cristianesimo e giudaismo hanno delle vedute radicalmente diverse offrirebbe molti esempi interessanti per la logica della discussione interreligiosa... Se colloqui fra ebrei e cristiani devono avere un significato, si dovranno affrontare senza ambiguità le questioni inerenti nella dottrina cristiana del Cristo»[27].
Aiutato nella selezione dei testi da alcuni teologi cattolici e protestanti, cerca di vedere quanto queste cristologie diano un'immagine adeguata del contesto giudaico di Gesù e soprattutto che atteggiamento esprimono verso gli ebrei e il giudaismo. Le sue conclusioni sono che anche se nei testi scelti non trova antisemitismo, spesso ancora il giudaismo in generale o il fariseismo in particolare servono come sfondo negativo per la novità del Vangelo e l'unicità di Gesù. Alcuni autori sono sensibili al fatto di Gesù, ebreo del suo tempo, ma anche nelle loro opere questo elemento sembra dimenticato poi in altri contesti. Troppo spesso ancora vale il titolo di una recente opera del noto esegeta cattolico Norbert Lohfink: "La dimensione ebraica nel cristianesimo: dimensione perduta"[28].
Si è parlato molto della differenza tra il Gesù storico e il Cristo della fede cristiana. Spesso autori cristiani vedono solo "il Cristo", o perché danno meno importanza al fatto storico o perché, come Bultmann, ritengono pressoché impossibile giungere al Gesù storico attraverso il doppio filtro degli autori del Nuovo Testamento e della comunità cristiana del primo secolo. Autori ebrei invece riconoscono con più facilità un Gesù "storico" e riconoscono in esso dei lineamenti molto familiari dalla letteratura rabbinica e da altri scritti di origine ebraica.L'esegesi neotestamentaria, nel desiderio di trovare il Gesù autentico, ha troppo spesso sottolineato solo ciò che è unico nel suo insegnamento e quindi tendenzialmente lo ha separato sia dal giudaismo del suo tempo che dalla Chiesa primitiva. Anche se questa operazione è metodologicamente necessaria in certi momenti, non ci dà il Gesù autentico, ma o un genio di creatività o una persona eccentrica (a seconda del proprio punto di vista), comunque un personaggio staccato dal suo ambiente.
Dall'altro lato, molti autori, e non solo ebrei, cercano di vedere Gesù esclusivamente nel suo contesto ebraico e attribuiscono quasi ogni conflitto con esso agli evangelisti o allo sviluppo della Chiesa primitiva. Tendenzialmente quindi in questa visione si vede Gesù solo come un ebreo pio, fondamentalmente leale e osservante, con forse qualche idea eccezionale[29].
Da un punto di vista storico non sembra che ci sia una soluzione facile a questo dilemma di un Gesù o totalmente separato o totalmente inglobato nel suo ambiente. Per questo anche da un punto di vista soltanto storico, è importante il dialogo costante fra queste due tendenze. Questo poi ha effetti non solo per lo studio di Gesù, ma anche per lo studio del giudaismo. Infatti, forse ancora timidamente, si sta facendo strada l'idea, espressa per esempio da Alan Segal, che né cristianesimo né giudaismo «possono essere compresi pienamente in isolamento l'uno dall'altro. La testimonianza dell'uno è necessaria per dimostrare la verità dell'altro e viceversa»[30].
L'interesse nel Gesù storico in questi ultimi anni sembra in continua crescita, sia fra cattolici e protestanti sia fra persone di altre fedi o convinzioni. Nel catalogo della Library of Congress dal 1975 in poi si riscontrano 66 titoli sotto la sola voce "Jesus Christ-Jewish Interpretations". Quindi è impossibile tentare qui un quadro anche approssimativamente completo.
Ma vorrei concludere questa rassegna con riferimento almeno a due volumi. Jacob Neusner, prendendo spunto da vari testi matteani, si propone di rispondere a Gesù, con rispetto, esprimendo il proprio dissenso[31]. Per lui, il dialogo deve iniziare dal riconoscimento esplicito della alterità dell'altro. Non ha paura di mettere sul tavolo subito le differenze fra l'insegnamento di Gesù e quello dei rabbini, come egli le percepisce. A parte possibili critiche a punti particolari di questo libro divulgativo, può essere rinfrescante per il dialogo sottolineare non soltanto ciò che accomuna Gesù ad altri ebrei del suo e del nostro tempo ma anche ciò che lo differenzia da essi.
Un progetto che sarebbe stato considerato impossibile ancora pochi anni fa ha trovato espressione in un piccolo ma sostanzioso volume intitolato "Ebrei e cristiani parlano di Gesù"[32]. Esso contiene i contributi di otto studiosi, ebrei e cristiani, a una serie di colloqui su questo tema, colloqui a cui secondo la prefazione hanno partecipato ogni volta circa mille persone. Quindi, almeno in alcuni ambienti, oggi è possibile parlare insieme di Gesù, senza remore o forzature, e senza falsi irenismi.
Forse oggi possiamo riaffermare con convinzione che Gesù di Nazareth appartiene a ebrei e cristiani. La valutazione teologica su chi egli sia rimane naturalmente un fatto che ci divide. Però possiamo insieme riconoscere in lui un maestro e la vittima di un'oppressione. C'è una lunga tradizione ebraica, attualizzata in modo speciale durante la Shoah (la persecuzione nazista), che riconosce in Gesù un ebreo perseguitato: a volte dai cristiani stessi[33]. Se in qualche modo possiamo fare nostra questa nozione, non solo riportiamo Gesù nel suo contesto ebraico ma la sofferenza che in passato troppo spesso ha diviso ebrei e cristiani, forse può diventare sempre più profondamente un elemento di solidarietà e un nuovo punto di partenza[34].
Note al testo
[1] Gösta Lindeskog, Die Jesusfrage im neuzeitlichen Judentum, Uppsala 1938; 2a ed. Darmstadt 1973. Pinchas Lapide, Ist das nicht Josephs Sohn?- Jesus im heutigen Judentum, Kösel, München 1976. Donald A. Hagner,The Jewish Reclamation of Jesus: An Analysis and Critique of the Modern Jewish Study of Jesus, Zondervan, Grand Rapids 1984 (purtroppo quest'ultimo autore mantiene un atteggiamento polemico, perché non riesce ad accettare il giudaismo contemporaneo come realtà religiosa positiva). Werner Vogler,Jüdische Jesusinterpretationen in christlicher Sicht, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1988. Emilio Fermi, Che cosa pensano di Gesù i non cristiani: Il punto di vista di ebrei, islamici, induisti , in Dialogo, Milano 1995 (include stralci da libri di Klausner, Ben-Chorin, Flusser e Lapide). Tra gli articoli più significativi citiamo: Johann Maier, Gewundene Wege der Rezeption: Zur neueren jüdischen Jesusforschung, "Herder-Korrespondenz", 30 (1976), pp. 313-319; Clemens Thoma, Jüdische Zugänge zu Jesus Christus, "Theologische Berichte", vol. 7, Benziger, Zürich 1979, pp. 149-176; Lea Sestieri, Gli ebrei di fronte a Gesù, in Gesù Ebreo. Provocazione e Mistero (IV Colloquio ebraico-cristiano), "Vita Monastica", n. 158, Luglio/Settembre 1984, pp. 40-63.
[2] Per un complesso di tradizioni ebraiche medioevali, da capire in un contesto molto diverso dal nostro, si veda Riccardo Di Segni, Il Vangelo del Ghetto: Le "Storie di Gesù": leggende e documenti della tradizione medioevale ebraica, Newton Compton, Roma 1985.
[3] Claude G. Montefiore, The Synoptic Gospels, 1909, 2a ed. 1927, ristampa KTAV, New York 1968. Dello stesso autore si veda anche Gesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo, Formiggini, Genova 1913.
[4] Joseph Klausner, Gesù di Nazareth, 1922 (originale ebraico, tradotto in inglese, francese, tedesco).
[5] Edizione inglese, p. 363.
[6] Ibid., pp. 393-397.
[7] Originariamente pubblicato nel 1948, 2a ed. ampliata Fasquelle Editeurs, Paris 1959; traduzione italiana: Gesù e Israele, Nardini, Firenze 1976.
[8] Oxford University Press, New York 1965; 2a ed. 1973.
[9] Schalom Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985 (1a ed. tedesca 1967).
[10] Fratello Gesù, cit., p. 27, citando Martin Buber, Zwei Glaubensweisen, Wer-ke, vol. 1, p. 657.
[11] Fratello Gesù, cit., p. 41.
[12] 12) P. es., Harvey Falk, Jesus the Pharisee. A New Look at the Jewishness of Jesus, Paulist Press, New York 1985. William E. Phipps,Jesus, the Prophetic Pharisee, "Journal of Ecumenical Studies", 14 (1977), pp. 17-31.
[13] Fratello Gesù, cit., p. 305.
[14] Ibid., p. 173.
[15] Pinchas Lapide, Auferstehung - Ein jüdisches Glaubenserlebnis, Kösel, München 1977, 5a ed, 1986.
[16] Pinchas Lapide, Ist das nicht Josephs Sohn? Jesus im heutigen Judentum, Calwer Verlag, Stuttgart/Kösel Verlag, München 1976.
[17] David Flusser, Jesus. In Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt, Hamburg 1968. Purtroppo l'edizione italiana (Lanterna, Genova 1976) è esauritada alcuni anni.
[18] David Flusser, Die rabbinischen Gleichnisse und der Gleichnisserzähler Jesus. 1. Teil: Das Wesen der Gleichnisse, Peter Lang, Bern 1981. Dello stesso autore esiste anche una collezione di articoli, pubblicati precedentemente in varie riviste, sulla figura di Gesù e la tradizione dei suoi insegnamenti: Entdeckungen im Neuen Testament. Vol I. Jesusworte und ihre Uberlieferung, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1987. In italiano è stata pubblicata recentemente una collezione di articoli di Flusser, Il Giudaismo e le origini del Cristianesimo, Marietti 1995.
[19] Geza Vermes, Gesù l'ebreo, Edizione italiana a cura di V. Grossi e E. Peretto, Borla, Roma 1983 (1a ed. inglese, 1973).
[20] Ibid., p. VI.
[21] Ibid., p . 19.
[22] Ibid., pp. 48-95, specialmente pp. 91-93.
[23] Ibid., pp. 187-223, cito p. 217. Si veda anche Paolo Sacchi, Gesù l'ebreo "Henoch" 6 (1984) pp. 361-367 (una recensione molto dettagliata del libro di Vermes); Geza Vermes, Jesus and the World of Judaism, SCM, London 1983, pp. 89-99 (capitolo intitolato "Lo stato attuale del dibattito sul Figlio dell'Uomo").
[24] Vermes ha portato avanti il suo progetto in tre conferenze, intitolate"Il Vangelo di Gesù l'ebreo" e pubblicate come cap. 2-4 nel suo volume Jesus and the World of Judaism, cit. Si veda anche il contributo del Vermes, La religione di Gesù l'ebreo, in Il "Gesù storico". Problema della modernità, a cura di Giuseppe Pirola SJ e Francesco Coppellotti, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 19-35, id. The religion of Jesus the Jew, Fortress Press, Minneapolis 1993.
[25] Harvey Falk, Jesus the Pharisee. A New Look at the Jewishness of Jesus, Paulist Press, New York 1985.
[26] Citato da Falk, ibid., p. 19.
[27] Eugene Borowitz, Contemporary Christologies - A Jewish Response, Paulist Press, New York 1980.
[28] Norbert Lohfink, Das Jüdische am Christentum. Die verlorene Dimension, Herder, Freiburg 1987, specialmente pp. 48-70.
[29] Un esempio abbastanza recente di questo modo di vedere è Irving M. Zeitlin, Jesus and the Judaism of His Time, Polity Press, Cambridge 1988. Un'immagine di Gesù zelota invece, difficilmente riconciliabile con la totalità delle fonti, viene offerta fra gli altri da Riccardo Calimani,Gesù ebreo, Rusconi, Milano 1990, 1995. Cf. Daniel J. Harrington, SJ, The Jewishness of Jesus: Facing Some Problems, "Catholic Biblical Quarterly" 49 (1987), p. 10.
[30] Alan F. Segal, Rebecca's Children Judaism and Christianity in the Roman World, Harvard Univ. Press, Cambridge, MA/London 1986, p. 179.
[31] Jacob Neusner, A Rabbi Talks with Jesus: An Intermillennial Interfaith Exchange, Doubleday, New York 1993.
[32] Jews and Christians Speak of Jesus, a cura di Arthur E. Zannoni, Fortress Press, Minneapolis 1994.
[33] Vedi Clemens Thoma, Jüdische Zugänge zu Jesus Christus, "Theologische Berichte", vol. 7, Benziger, Zürich 1979, pp. 151-154.
[34] Su questo punto vedi anche Daniel J. Harrington, op.cit. p.12.
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Rodolfo Casadei pubblicato il 18/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr. la sotto-sezione Dialogo fra le religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Quando le campane dell’Università cattolica di Lovanio rintoccano le note di Imagine per commemorare le vittime degli attacchi di Bruxelles, e quando preti e suore francesi si mettono insieme per creare Ennéacath, rete di esperti cristiani per diffondere l’utilizzo dell’enneagramma, perché come scrive suor Marie Dolores Marco, questa pratica psicologica di origine esoterica permette di «riscoprire con piacere la facilità di rivolgersi allo Spirito Santo quando si prega», si capisce al volo che l’islam non è l’unico monoteismo malato ai nostri giorni.
Certo, le malattie sono molto diverse: se in Oriente l’islam sbrana se stesso in guerre di religione interne ed esterne, in Occidente mentre le cellule cancerogene del male jihadista si moltiplicano il cristianesimo si annacqua e si scioglie in forme di spiritualità eclettiche e sincretiste, che non vanno più da Che Guevara a Madre Teresa come cantava vent’anni fa Jovanotti, ma piuttosto da John Lennon al Dalai Lama. Se ne preoccupano ormai anche pensatori laici, per nulla compiaciuti della piega che stanno prendendo le cose. Dal loro punto di vista dovrebbero essere contenti che ogni persona costruisca da sé il proprio percorso spirituale e non sia più la trascendenza, organizzata dalle grandi Chiese, a strutturare la società. Invece scorgono nel fenomeno una patologia sociale: ci vedono un’altra manifestazione dell’individualismo che mette in pericolo la civiltà occidentale e il suo prodotto politico più pregiato, la democrazia.
È il caso di Jean-Pierre Le Goff, filosofo e sociologo di sinistra che nel suo ultimo libro Malaise dans la démocratie scrive, all’interno di un suggestivo capitolo dedicato alle nuove forme di religiosità diffusa: «Questa libertà per l’individuo di scegliersi la spiritualità che gli conviene può essere considerata come un progresso della democrazia. Ma si può rovesciare la prospettiva: queste nuove religiosità diffuse sono sintomatiche di un malessere nelle democrazie e di un individualismo privo di appartenenza e autocentrato».
Malaise dans la démocratie (non ancora tradotto in italiano) descrive i fenomeni che secondo l’autore hanno reso fragile la società francese, sull’orlo della disgregazione interna e incapace di difendersi dalle aggressioni esterne: il giovanilismo che ha trasformato gli adulti in eterni adolescenti e che non permette a bambini e adolescenti di diventare adulti, il “festivismo” che propone un mondo fittizio e deculturato, la disoccupazione e la precarietà del lavoro che inducono destrutturazione antropologica, l’angelismo del discorso politico che non sa come affrontare le crisi del terrorismo islamista endogeno, delle migrazioni di massa, del rapporto nazione-integrazione europea. Per Le Goff tutto questo è il riflesso di una tendenza tipica del mondo moderno e delle democrazie che già Alexis de Tocqueville aveva evidenziato quasi due secoli fa, e che oggi è integrato all’egemonia culturale dominante, quella del conformismo di sinistra: l’individualismo.
Con maestria paragonabile al grande pensatore liberale, Le Goff descrive il nuovo individualista in questi termini: «Il nuovo individualista è un “falso gentile” che non sopporta la contraddizione e il conflitto, così come il tragico inerente alla condizione umana e alla storia. Egli si costruisce un mondo a parte dove vive, si protegge dalla sfida della realtà e trova conforto nei suoi alter ego. Egli si vuole al riparo dai disordini del mondo e non vuole avere nemici, e quando il fanatismo islamista viene a bussare alla sua porta e lo prende a bersaglio senza chiedere il suo parere, non capisce cosa gli succeda e si chiede perché tanto odio e tante uccisioni quando è così aperto e gentile. Detto in parole semplici, questo individualista considera il mondo e la società come i prolungamenti di se stesso, dei suoi sentimenti e delle sue relazioni affettive. I rapporti sociali e politici non sono più inseriti e strutturati in una dimensione che è insieme collettiva, storica e istituzionale, ma ridotti a relazioni interindividuali mosse da buoni o cattivi sentimenti (l’amore contro l’odio), che egli confonde con la morale» (p. 38).
Una esaltazione confusa
Per Le Goff la nuova religiosità occidentale non è la cura di questa malattia, ma uno dei suoi sintomi ed effetti. Tutto ruota attorno all’individuo e ai suoi bisogni “spirituali”. E perciò alla fine essa sostituisce definitivamente, senza nemmeno rendersene conto, l’uomo a Dio: niente male, detto da un non credente. Alle stesse conclusioni era giunto qualche tempo fa un altro pensatore francese, stavolta cattolico: Rémi Brague. Le sue osservazioni sull’argomento le si ritrova nelle pagine di Contro il cristianismo e l’umanismo – Il perdono dell’Occidente, il libro scritto con Elisa Grimi e apparso qualche mese fa. Non solo Le Goff e Brague convergono nelle conclusioni, anche i passaggi del discorso sono gli stessi. Entrambi individuano in quello che una volta si chiamava sincretismo, e che oggi è piuttosto una religiosità individuale à la carte, la caratteristica della vita spirituale europea odierna.
Scrive Le Goff: «Tutte le religioni non hanno valore che per la loro mistica, rivista secondo la misura dell’individualismo che trascende ogni cultura e religione particolare, ed erige la sua soggettività in criterio di verità. L’individuo ormai ha libero accesso a tutte le religioni del mondo; può estrarre degli elementi dalle une e dalle altre, comporre in qualche modo il suo “menù spirituale” come preferisce (…). La nuova religiosità non si presenta sotto la forma di una religione trascendente strutturata attorno a dogmi, considerati come ostacoli a un’autentica spiritualità. Essa lascia la libertà a ciascuno di inserirsi o meno in questa o quella tradizione, di recuperare all’interno delle differenti religioni ciò che al singolo meglio conviene: l’unica cosa importante è che l’individuo giunga a trovare la sua felicità» (p. 228 e 233).
Aveva scritto Brague: «Quasi tutte le religioni sono presenti in quasi tutti i paesi. Nel mondo occidentale, la presenza di queste religioni multiple assume l’aspetto di un mercato. Su questo mercato sono offerti diversi prodotti. Per soddisfare i suoi bisogni religiosi, l’individuo sarà libero di scegliere. E non sceglierà solo fra religioni diverse, ma anche all’interno di ciascuna religione, per comporre à la carte un bouquet di elementi a suo piacimento. In altri termini, nulla impedisce di costruirsi una religione “fai-da-te” (…). Di fronte a una tale situazione, invece di porre la questione “Dio e le religioni”, sarebbe forse opportuno invertire i numeri delle parole e mettere “religione” al singolare e “dio” al plurale. Il termine religione non indicherà più l’una o l’altra religione costituita, ma piuttosto la religiosità in generale, il sentimento o il bisogno religioso dell’uomo. Sarà la religione a scegliere quale dio o quali dèi desidera tra quelli che si dividono il mercato» (p. 271 e 272).
È davvero sorprendente la lucidità con cui il laico Le Goff mette in evidenza come la nuova religiosità, nella quale è sempre più assorbito anche il cristianesimo, rimandi all’essere umano molto più di quanto rimandi a Dio e alla trascendenza: «Questa nuova spiritualità concilia relativismo, eclettismo ed ecumenismo religioso intorno a un divino naturale e universale. A quel che si legge e si sente dalla bocca degli interessati, il numero di coloro che dicono di avere incontrato Dio attraverso questo tipo di esperienza sembra essere in costante aumento. Ma di che Dio esattamente si tratta? Il mistero resta intero, o più precisamente c’è qualcosa di divino nel mondo e nell’universo, ma si fa fatica a capire di che cosa si tratti. Questa religiosità gira su se stessa. Non è l’autenticità dell’esperienza in oggetto che si vuole mettere in dubbio, ma la sua caratterizzazione affermata come evidenza che questo sentimento umano è esperienza di contatto col divino» (pp. 226-227). «Questa religiosità si apparenta al “sublime” come stato psicologico fatto di esaltazione più o meno confusa. Come Scrive Alain Besançon: “Il sublime è un narcisismo: un salto al di sopra di sé, al di là del quale si scopre un altro sé, sovradimensionato, di cui non ci si credeva capaci, e che abbaglia”. La nuova religiosità diffusa è come una musichetta di sottofondo alla quale non si fa molta attenzione, talmente bene s’inserisce nel nuovo spirito dei tempi democratico riempito di terapie di ogni genere, di ecologia e di buoni sentimenti. Essa fa prima di tutto appello alla sensibilità e al buon cuore di ciascuno cortocircuitando la ragione, e si vuole all’ascolto della sofferenza offrendo il balsamo per dare sollievo e per giungere, in dolcezza e profondità, all’armonia universale» (pp. 234-235).
Siamo tornati alla religione “oppio dei popoli” di marxiana memoria? In un certo senso. «Questa religiosità permette di sfuggire mentalmente ai disordini del mondo, al tragico dell’esistenza e alle situazioni difficili di fronte alle quali si trovano gli individui. Ma a differenza dell’alienazione religiosa del passato come la intendeva Marx, questa religiosità intende pervenire alla felicità senza attendere, qui e ora, nell’immanenza del mondo e di un presente liberato da ogni storicità e da ogni trascendenza. Questa religiosità rinvia l’uomo a se stesso e a un universo naturale come sorgente del divino» (p. 235).
Il monoteismo del soggetto
È la stessa diagnosi che aveva fatto Brague, il quale ha pure sostenuto che oggi si è infine realizzata la “religione dell’umanità” che aveva preconizzato il positivista Auguste Comte: «Molti fra i nostri contemporanei non chiedono alla religione di convertirli e santificarli, ma semplicemente di soddisfarli. Il modo stesso di porre il problema implica la risposta. Se è il soggetto a decidere quale dio gli conviene, egli si situa più in alto di ogni dio possibile. Perché dunque non fare di questo soggetto la divinità stessa? Il soggetto collettivo al quale Comte pensava non poteva che scegliere se stesso come oggetto del suo culto. Ciò che, a prima vista, si presenta come un politeismo che permette la scelta, si traduce alla fine in un monoteismo del soggetto, collettivo o individuale» (p. 274). Brague, filosofo e credente, coglie il dramma cosmico di questa posizione: «Dopo la morte di Dio non viene il regno dell’uomo, ma quello dell’ultimo dio che è la Morte. Se l’uomo è il solo abilitato a pronunciarsi sull’uomo, perché dovrebbe pronunciare un giudizio positivo su se stesso?».
Le Goff non affronta direttamente questa questione, ma senza saperlo offre una risposta quando evidenzia che la nuova religiosità può essere definita un neo-buddhismo. Già, il buddhismo, la religione senza Dio il cui obiettivo è l’annullamento dell’uomo come essere senziente. Il successo della versione più aggiornata del buddhismo non sta solo nella generalizzazione delle sue tecniche di meditazione, che hanno conquistato territori che vanno dai libri per l’infanzia scritti da psicoterapeuti ai corsi per manager d’azienda. Sta nella sua inavvertita infiltrazione in ambito ecclesiale. Molte parole d’ordine che si credono genuinamente cristiane, come quelle sull’atteggiamento da avere rispetto ai desideri degli esseri umani o sul fatto che i conflitti sono sempre da evitare, sono in realtà di antichissima origine buddhista. «Per il Dalai Lama – scrive Le Goff – non si devono prendere in considerazione gli atti da un punto di vista strettamente morale, considerandoli cattivi o buoni, ma considerare coloro che compiono tali atti come degli esseri viventi che soffrono e vogliono la felicità, dato di base che è “fermo e permanente”. È in questo quadro che si forma la compassione per l’altro».
Davanti a un torturatore di tibetani, il Dalai Lama reagisce così: «Non mi concentro sul cattivo atteggiamento o sul comportamento negativo di questo individuo. Al posto di ciò, rifletto sul fatto che si tratta di un essere umano che, come me, vuole la felicità e rifiuta la sofferenza». La stroncatura di Le Goff è solenne: «Questa religiosità è l’immagine invertita del fondamentalismo religioso. Essa si integra alla democrazia, ma il suo sentimentalismo, il suo pacifismo e il suo umanitarismo disincarnati sono propriamente sconcertanti. Integrando una versione angelica dei diritti umani, questa religione dell’amore universale forma un grande discorso moralizzatore al di fuori della storia e della realtà».
Riprendiamo dal sito della Fondazione Treccani un articolo di Federica Favino edito per Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Scienze (2013). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Lo studio della scienza negli ordini religiosi in età moderna è stato a lungo trascurato. La storiografia di matrice illuminista e positivista, che ha contribuito a forgiare la nostra identità nazionale, ha misconosciuto la partecipazione all’attività scientifica degli ordini, in quanto articolazioni di un’astratta ma compatta entità nota come Chiesa controriformistica che avrebbe condannato, con Giordano Bruno e Galileo Galilei, l’intera scienza moderna.
Negli ultimi vent’anni, la storia degli ordini religiosi ha conosciuto in Italia un crescente e rinnovato interesse, risultato dell’osmosi tra lo studio delle più vaste trasformazioni politiche e culturali della prima età moderna e quello delle strutture e delle articolazioni interne della Chiesa («Cheiron», 2005, 43-44). Anche la storia della scienza ha partecipato a questo rinnovamento: le nuove ricerche hanno sfumato la visione della Chiesa come un’entità schierata compattamente contro i percorsi di evoluzione del pensiero e delle pratiche della scienza; un confronto con la ‘tesi di Merton’ sul rapporto privilegiato tra puritanesimo e scienza moderna ha prodotto una legittimazione della scienza cattolica come oggetto di ricerca; la sociologia ha restituito la scienza al suo contesto culturale, rivalutandone gli attori e i prodotti di ogni luogo e di ogni tempo (Romano, in Rome et la science moderne entre Renaissance et Lumières, 2008).
Anche in questo campo, ha avuto un ruolo trainante la crescita degli studi sulla Compagnia di Gesù («Revue de synthèse», 1999, 120, 2-3), motivata a sua volta da una assai ampia disponibilità di fonti e dall’oggettiva poliedricità dell’impegno pastorale, politico e intellettuale dispiegato dai suoi membri nel periodo che ci interessa (Identità religiose e identità nazionali in età moderna, 2005). Ancora più di recente, la rivalutazione del contributo dei gesuiti alla ‘modernità’ ha stimolato una tendenza ‘comparativista’ tra la loro azione e quella degli altri ordini, sottratti anch’essi a uno studio esclusivamente apologetico e agiografico, alla ricerca di consonanze e differenze nelle strategie e nei caratteri identitari anche sul terreno dell’attività scientifica. Le ricerche sono ancora solo agli inizi, ma vale la pena provare a proporre uno sguardo d’insieme.
La Ratio gesuitica delle scienze
Benché la Compagnia di Gesù nella prima età moderna non abbia avuto come scopo l’attività scientifica in quanto tale, l’impegno profuso dall’istituzione in questo campo – uno dei molti aspetti della sua ‘modernità’ – è di certo superiore a quello di qualunque altra congregazione religiosa coeva. Questa circostanza si spiega con la precocità e la lucidità con cui – unico tra gli ordini precedenti alla Controriforma o nati nella sua scia – quello ignaziano si è posto il problema della formazione di docenti specializzati nell’insegnamento delle scienze e in particolare della matematica. L’insegnamento non fu l’obiettivo iniziale del progetto ignaziano, ma ne divenne ben presto l’attività principale, sia per formare confratelli intellettualmente all’altezza del progetto del fondatore, sia per rispondere alla domanda di formazione da parte delle élites nei Paesi cattolici in lotta contro l’eresia. Questo impegno si concretizzò, da una parte, in una massiccia politica di insediamento di istituti di formazione superiore e di università – 625 collegi sparsi su tutto il globo nel primo secolo di vita (Romano 1999, p. 40) –, dall’altra, nell’elaborazione di un programma di studi normativo per tutte le realtà locali, che impose a sua volta una riflessione di fondo sulle discipline da insegnare e sui loro rapporti reciproci. Nutrita dalle prime pratiche concrete di insegnamento, la riflessione sul testo normativo, iniziato con la quarta parte delle Costitutiones, si concretizzò nella promulgazione e nella pubblicazione della Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu che, dopo anni di intensi dibattiti, vide finalmente la luce nel 1599. Nella sua versione definitiva, la Ratio prevedeva un insegnamento specifico di matematica per gli studenti del corso di fisica (al secondo anno di filosofia), dunque un’istruzione primaria per ogni gesuita in formazione. Il programma includeva la lettura di Euclide, elementi di geografia e di sfera; ripetizioni pubbliche settimanali e dispute mensili in presenza di filosofi e teologi dovevano servire a integrare l’insegnamento e a rappresentare anche visivamente l’importanza della materia nel curriculum.
Lo spazio istituzionale che la Ratio studiorum riconosceva alla matematica – fenomeno, lo ripetiamo, tutt’altro che ovvio nel contesto delle istituzioni monastiche – fu soprattutto l’esito dell’attività ‘militante’ svolta dal gesuita tedesco Cristoforo Clavio in difesa della presenza dell’ordine anche sul terreno della scienza. Merito di Clavio fu anche quello di chiedere e ottenere (1593) la creazione presso il Collegio romano di un’accademia superiore di matematiche riservata a un’élite di studenti provenienti da tutte le province della Compagnia, che si rinnovava ogni anno. L’accademia offriva un ciclo annuale di formazione specializzata – la geometria, l’astronomia soprattutto di osservazione, l’aritmetica e l’algebra – da seguire tra la fine del ciclo di filosofia e l’inizio di quello di teologia, complementare al corso ordinario e riservato ai futuri lettori di matematiche interni alla Compagnia.
La cattedra di Clavio al Collegio romano e più ancora il suo cubiculum, ovvero la cella dove impartiva le lezioni straordinarie di matematica, furono il centro da cui si sprigionarono forze e saperi capaci, grazie alle strutture e alle dinamiche dell’organizzazione interna della Compagnia, di penetrare capillarmente nella società di ancien régime a scala nazionale, europea e perfino globale già nel corso di una generazione. L’accelerazione e l’organizzazione impresse da Clavio all’attività dei gesuiti nel campo della ricerca e della didattica delle scienze fece del Collegio romano, ancora lui vivente, un centro riconosciuto di eccellenza e il polo più avanzato della ‘Chiesa’ nel campo. Testimonia di questo credito il fatto che Galilei, subito dopo la pubblicazione del Sidereus nuncius (1610), si recò proprio al Collegio romano per patrocinare la causa delle proprie scoperte astronomiche: a suo giudizio, evidentemente, la competenza scientifica della scuola gesuitica e il grande prestigio personale di Clavio costituivano allora le fonti più autorevoli per condividere, come avvenne non senza qualche iniziale esitazione, l’attendibilità dei suoi riscontri telescopici.
D’altro canto, il carattere itinerante del personale gesuitico – i seminaristi del Collegio romano provenivano da tutte le province della Compagnia, per poi farvi ritorno ed esserne redistribuiti in base alle strategie di intervento dell’ordine – produsse una disseminazione di saperi destinata a moltiplicarsi con le generazioni. Un esempio per tutti, quello del gesuita fiammingo Grégoire de Saint-Vincent (1584-1667), noto per i suoi studi sulla quadratura del cerchio e come precursore del calcolo infinitesimale. Fu allievo al Collegio romano dal 1605 al 1612, e a sua volta professore di matematica ad Anversa (dal 1618 al 1620, dove creò anche un’accademia di matematica), e a Lovanio. Ad Anversa fu insegnante di Jean-Charles de La Faille (1697-1652), il quale divenne a sua volta professore di matematica al Collegio imperiale di Madrid (1629), professore privato di matematiche e fortificazioni ai membri della nobiltà, precettore di Don Giovanni d’Austria e cosmografo del Consiglio delle Indie (1638). A Lovanio, insegnò a Théodore Moret (1602-1667), il quale lo seguì al collegio Clementinum di Praga, per poi iniziare una peregrinazione in molti collegi dell’area centro orientale dell’impero (Olomutz, Praga, Bratislava, Znojmo, Jihlava, Březnice, Klatovy, e Nisa Głogów).
Al di là del profilo intellettuale del singolo, non sempre di prim’ordine, il caso specifico rende bene la dinamica spaziale e temporale di espansione esponenziale dell’insegnamento di Clavio che, peraltro, non ebbe solo una dimensione europea. Al gruppo dei suoi allievi, infatti, appartenne anche il gesuita maceratese Matteo Ricci (1552-1610), allievo del Collegio romano tra il 1573 e il 1577, il quale, come noto, fu il primo a utilizzare la trasmissione di conoscenze scientifiche – matematiche, astronomiche, cartografiche – in Cina come strumento sicuro di evangelizzazione, oltreché a iniziare nel 1595 il lavoro di traduzione nella lingua cinese di opere scientifiche europee. Il caso cinese, che non esaurisce i modelli e le strategie di trasferimento della scienza europea verso altri continenti messi in atto dagli ordini religiosi missionari, è però il caso più eclatante del modo in cui i saperi matematici comuni alla tradizione della Compagnia si modificassero a seconda del luogo in cui venivano trasferiti e impiantati, in modo da adattarsi alle particolari esigenze teoriche e pratico-operative delle diverse realtà economico-sociali.
Accanto alla Ratio, strumento propulsivo per lo studio delle scienze, la Compagnia si dotò di un rigido sistema di controllo interno – facente capo al collegio teologico dei revisori – che doveva vigilare sull’ortodossia e sull’uniformità dottrinale dei confratelli. L’esame della ricca documentazione prodotta da questa complessa macchina di censura interna ha mostrato come né la forza normativa di questi documenti, né l’autorità coercitiva degli esecutori furono in grado di fare della Compagnia un fronte davvero compatto sul terreno della cultura filosofica e scientifica. Nel 1611, ad es., mentre alcuni confratelli (come Odo von Maelcote, Christopher Grienberger e il vecchio Clavio) diedero la loro approvazione alle osservazioni galileiane, benché solo dal punto di vista fenomenologico, senza entrare cioè nel merito delle implicazioni fisiche e cosmologiche dei riscontri telescopici, Mario Bettini a Parma attaccava duramente Galileo in merito alla questione delle montagne lunari. Più avanti nel secolo, mentre Giovanni Luigi Confalonieri assunse atteggiamenti severamente critici nei confronti della filosofia naturale aristotelica e non dissimulava un’inclinazione per le concezioni atomistiche, Giovanni Battista Riccioli (1598-1671) attaccava con veemenza la dottrina galileiana del movimento, denunciandone apertamente sia i fondamenti atomistici sia l’ispirazione copernicana.
Tra Sei e Settecento molti furono gli episodi di tensione interna alla Compagnia tra i custodi dell’ortodossia e coloro che, tra i membri dell’ordine, accettarono il confronto con gli sviluppi del pensiero scientifico, pur nel rispetto della gerarchia dei saperi dominata dalla teologia e connotata da una netta distinzione epistemologica tra la matematica (ipotetica) e la fisica (realista). I censori intervennero a più riprese contro gli zenonisti, ovvero i sostenitori dell’atomismo matematico (1651, 1666), e contro le proposizioni di derivazione cartesiana e leibniziana, diffuse in maniera allarmante nei collegi soprattutto nei primi anni del Settecento (1706). Nel 1731 e poi nel 1751, le congregazioni generali concessero l’insegnamento della ‘fisica particolare’ (quella che mostra per via sperimentale le proprietà fisiche dei corpi specifici), ma ribadirono il vincolo inderogabile alla fisica generale aristotelica, vietando peraltro il ricorso alle quaestiones che, nel presentare una teoria per confutarla, finivano comunque per farla conoscere; nel 1757 Ruggero Giuseppe Boscovich venne di fatto allontanato dalla cattedra di matematica che occupava dal 1740 per le sue tesi teoriche newtoniano-leibniziane.
L’intervento dei gesuiti sul terreno della scienza aveva sì lo scopo di offrire una risposta adeguata alla ‘domanda di istruzione’ che proveniva dalla società, ma al tempo stesso anche quello di controllarne e orientarne l’andamento. Anche solo guardando ai numeri, il peso della Compagnia nella formazione dell’opinione colta fu imponente: nella prima metà del Settecento quasi l’intera classe dirigente può dirsi formata in più di cento collegi attivi sul territorio nazionale.
Anche per questo, e non solo in vista del progresso della ricerca (in cui, pure, i gesuiti diedero pregevoli contributi alle scienze sperimentali e di osservazione, con Nicola Cabeo, Paolo Casati, Riccioli e altri), il confronto con i membri della Compagnia fu sempre così importante per i ‘novatori’: l’egemonia sulla cultura delle future classi dirigenti era infatti un elemento centrale per proiettare nel futuro quella rigenerazione anche civile e morale di cui la scienza positiva non costituiva che un aspetto. È per questo che il Collegio romano e l’Accademia dei Lincei furono rivali anche nel contendersi l’adesione esclusiva dei giovani letterati più promettenti della loro generazione, come Virginio Cesarini o Pietro Sforza Pallavicino. Ed è per questo che il granduca Ferdinando de’ Medici, erede della tradizione galileiana, patrocinò negli anni Trenta del Seicento l’istituzione a Firenze di un seminarium nobilium retto dall’ordine ‘rivale’ degli scolopi.
La scienza degli ‘altri’
Tra Cinque e Seicento, la Ratio studiorum gesuitica rappresentò un modello pedagogico per tutte le altre congregazioni religiose insegnanti: i chierici poveri della madre di Dio (scolopi), i chierici regolari di s. Paolo Decollato (barnabiti), la congregazione di Somasca. Nate all’incirca tra gli anni Trenta del Cinquecento e i primi del Seicento, ma sviluppatesi a partire dal primo cinquantennio del 17° sec., queste congregazioni coprono circa il novanta per cento della rete di istituzioni educative maschili tra collegi-convitti, seminari-collegi, seminaria nobilium e semplici scuole comunali o di fondazione privata (Sangalli, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2005, 1, p. 29). In generale, esse modellano la propria identità in relazione ai gesuiti: sotto il profilo della loro presenza e diffusione, della strategia di insediamento, del bacino d’utenza. Mentre i gesuiti si rivolgono all’educazione dei ceti dirigenti più elevati e alla creazione dei seminaria nobilium, gli scolopi nascono con l’intento di creare scuole popolari gratuite, i barnabiti si rivolgono al ceto medio, i somaschi al clero, agli orfani e agli strati medio-bassi della popolazione. Malgrado il rapporto spesso conflittuale con la Compagnia, in materia di pedagogia e di didattica la Ratio fu per tutte «un faro e un punto di riferimento» (Sangalli, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2005, 1, p. 32): un corso di studi distinto in due livelli progressivi (classi di grammatica, umanità, retorica e corsi superiori di filosofia e teologia per gli interni), uso del latino, avvicendamento di dispute e ripetizioni, presenza del teatro scolastico.
Tra tutti, solo gli scolopi di s. Giuseppe Calasanzio prevedevano fin dalla fondazione uno spazio dedicato espressamente all’insegnamento della matematica nelle scuolette per i poveri. Si tratta di un elemento di originalità, dato che le nozioni di calcolo facevano parte in genere dell’apprendistato artigiano, che ha fatto buon gioco a una storiografia agiografica interna all’ordine per costruire l’immagine dei calasanziani come di un ordine ‘galileiano’ fin dalla fondazione (Bucciantini 1989, p. 387). Ad alimentare questo fraintendimento hanno concorso anche altre circostanze: il fatto che il direttore della scuola matematica scolopica sorta a Firenze nel 1638, Clemente Settimi, avesse assistito il vecchio Galileo ad Arcetri; la chiusura della casa (e poi la riduzione dell’ordine nel 1646) in seguito alla denuncia da parte di Mario Sozzi al Santo Uffizio dei confratelli ‘galileiani’.
Si tratta, in realtà, di un giudizio storiografico da riconsiderare alla luce delle più recenti conoscenze: se le accuse di Sozzi furono una copertura per conflitti personali e l’insegnamento delle matematiche volute dal fondatore si limitava all’insegnamento pratico dell’aritmetica, praticamente nulli furono gli investimenti del Calasanzio in libri, strumenti e personale per l’insegnamento della scienza e tutto sommato modesta la produzione scientifica perfino degli ‘scolopi galileiani’. Un esempio per tutti: Angelo Morelli (1608-1685), incaricato da Giovanni Alfonso Borelli di affiancare Abramo Ecchellense nella traduzione dall’arabo del manoscritto della Coniche di Apollonio redatto da Abul-Fath al Iṣfahānī, non fu in grado di sostenere l’incarico perché ignaro delle precedenti versioni latine delle Coniche e impossibilitato a procurarsene a causa della sua povertà monastica.
Se non nell’eccellenza dei prodotti, però, l’esperienza fiorentina segnò comunque l’identità della congregazione, radicandovi una sensibilità per la ‘nuova’ scienza che nel lungo periodo finì per incidere anche a livello normativo. Nel 1681, la filosofia venne introdotta nel corso di studi superiori dello studentato romano di S. Pantaleo, garantendo così un potenziamento e un ammodernamento delle competenze in filosofia naturale di tutto il futuro corpo docente, per volontà del generale Carlo Pirroni (1645-1685), che era stato allievo di Morelli nello studentato di Chieti.
Nel 1718, la filosofia era stata definitivamente introdotta anche nella ratio dei convittori laici dei collegi, una prerogativa duramente contestata loro dai gesuiti e ratificata solo per decisione papale (1731 e 1733), e nel 1748 la nuova ratio delle scuole pie prevedeva esplicitamente un insegnamemto di fisica-matematica. La ‘svolta pirroniana’ ci fu anche nella qualità degli studi: Pirroni, infatti, accolse a S. Pantaleo il vecchio e povero Borelli il quale, a sua volta, vi inaugurò una ‘accademia’ di matematica in aggiunta al programma regolare dei corsi interni ed esterni, in cui si insegnavano la geometria euclidea e la meccanica galileiana (Montacutelli, in Conflicting duties: science, medicine and religion in Rome, 1550-1750, 2009). Mentre Pirroni usava il De motu animalium, edito postumo a sua cura nel 1680, per ‘inventare’ la tradizione galileiana dell’ordine proprio mentre l’accademia di matematica dei gesuiti finiva soffocata dalla censura interna, la ‘leva’ scolopica del biennio 1677-79 diffondeva poi questa fisico-matematica di stampo galileiano nelle province (italiane, ma anche dell’Europa centro-orientale).
Nella prima metà del Settecento, almeno tre procuratori generali, Giuseppe Agostino Delbecchi (1697-1777), Domenico Chelucci (1681-1754) e Odoardo Corsini (1702-1765), avevano avuto una formazione matematica. Chelucci, matematico al Nazareno, introdusse l’analisi nella manualistica a uso delle scuole (Institutiones arithmeticae, 1733; Institutiones analyticae earumque usus in geometria, 1738) e si interessò agli sviluppi del calcolo infinitesimale. Nelle Institutiones philosophicae ac mathematicae ad usum Scholarum Piarum (6 voll., 1731-1734) Corsini rivendicò alle scuole scolopie l’antidogmatismo e l’eclettismo nel campo della filosofia naturale, anche se i suoi autori ‘moderni’ (come del resto a questa data per lo più in tutti i collegi della congregazione) erano ancora solo René Descartes e Pierre Gassendi. La figura di Corsini, che fu soprattuto insigne epigrafista e grecista, documenta inoltre il dilagare anche tra i calasanziani di quell’atteggiamento fatto di «fastidio per esercitazioni scolastiche aride e vuote, ricerca di nuove sintesi in campo filosofico e teologico, curiosità per metodi e risultati delle scienze sperimentali e delle matematiche» (Barzazi 2004, p. 488) che si diffuse tra Sei e Settecento nel mondo dei regolari sulla scorta della grande filologia dei benedettini di Saint-Maur e delle istanze curiali di riforma del clero in senso rigorista; un atteggiamento che determinò una saldatura durevole, in tutte le congregazioni regolari più avvertite, tra scienza (poi soprattutto newtoniana) ed erudizione.
Malgrado le differenze e le rivalità, gesuiti e scolopi sembrano dunque condividere una dinamica analoga: l’insorgenza di ‘uomini chiave’ all’interno della congregazione (Clavio, Pirroni, Borelli), spesso formati al suo esterno, capaci di indirizzare l’insegnamento e la ricerca, in deroga agli statuti, nella direzione imboccata dalle punte di eccellenza fuori dai chiostri; la presenza di spinte antitetiche, più o meno violente, più o meno sfalsate nel tempo, tra i ‘religiosi scienziati’ formati variamente a queste scuole e gli organi interni di controllo sull’ortodossia. Dei gesuiti si è detto; nel 1725 Corsini fu accusato di eterodossia e sospeso dall’insegnamento per avere incoraggiato gli studenti alla lettura di autori recentiores.
Nel caso dei somaschi, dei quali si sa ancora troppo poco su scala nazionale, ‘l’uomo chiave’ potrebbe essere stato Antonio Santini (1577-1662). Lucchese, Santini aveva scelto il convento – prima dei leonardini e poi dei somaschi – proprio per potersi dedicare agli studi matematici, che aveva appreso da autodidatta nel mondo veneziano della mercatura del primo Seicento, in ambienti influenzati da Galileo. Interessato alla geometria analitica, con esiti per la verità incerti, a lui potrebbe in qualche misura risalire la tradizione scientifica delle case di Venezia, che espressero, nel primo Settecento, ‘religiosi scienziati’ di spicco all’interno della cultura scientifica dell’ordine. Santini era stato maestro a Roma di Stefano Cosmi (1629-1703), lettore particolarmente apprezzato dal patriziato veneziano e poi generale dell’ordine, al quale si deve un manuale di Physica universalis (1659) in cui si perseguiva espressamente un programma di conciliazione tra la dottrina di Democrito, la filosofia aristotelico-tomistica e quella cristiana. Il magistero di Cosmi aveva a sua volta istruito a Venezia una generazione di somaschi, quelli nati tra l’ultimo decennio del Seicento e il primo del Settecento – tra cui Giovanni Crivelli, Giovanni Bernardo Pisenti, Jacopo Stellini – nel cui orizzonte culturale «circolano la scienza newtoniana e le sue interpretazioni più o meno ortodosse, filtrano influenze deistiche, massoniche e libertine, si diffondono testi illuministici» (Barzazi 2004, p. 192).
L’esperienza veneziana fu poi determinante anche per Giovanni Maria Della Torre (1710-1782), che arrivava in laguna dopo una prima formazione ricevuta a Roma al Clementino (somaschi) e al Nazareno (scolopi). Trasferitosi nel 1741 a Napoli, fu lettore di matematica al collegio-convitto dell’ordine e di matematica e fisica sperimentale nei due seminari napoletani (urbano e diocesano). Poiché il seminario urbano era aperto ai laici, Della Torre «poté essere per circa un quarantennio il protagonista, accanto ai gesuiti del collegio dei nobili, della diffusione della nuova scienza nell’insegnamento secondario della città», contribuendo in maniera decisiva al «rinnovamento culturale del medio Settecento nel Regno di Napoli» (Baldini 1989, pp. 573-74).
Benché «i somaschi – a causa della tradizionale autonomia dei singoli insediamenti – rimasero sempre estranei all’idea di un rigoroso controllo sulle opinioni né aderirono mai ad una precisa linea dottrinale» (Barzazi 2002, p. 81), anche nel loro caso la pratica della didattica appare meno reticente della norma: nel 1708, il definitorio riunito a Milano vietò ai religiosi di insegnare l’atomismo quando già il democritismo cristianizzato era diventato quasi una linea ufficiale della congregazione. A dispetto dell’impegno specifico dei singoli, nel 1741 la Methodus studii principalis «si limitava a raccomandazioni generiche ed evasive: cauta apertura nei confronti dei recentiores, neutro eclettismo, attenzione ad aspetti sperimentali», totale indifferenza verso l’algebra (Barzazi 2004, p. 169).
Per i barnabiti, infine, la scienza moderna ha senz’altro il nome di Paolo Frisi (1728-1784). Nella Exterarum scholarum disciplina, redatta nel 1666 dal padre Melchiorre Gorini sul modello della ratio gesuitica, la scienza aveva un ruolo decisamente marginale: assente uno spazio dedicato alla formazione curriculare di matematica, la filosofia naturale vi veniva insegnata entro gli schemi concettuali dell’epistemologia e dell’enciclopedia scientifica aristoteliche. Nel primo Seicento, l’unica voce dissonante risulta quella di Redento Baranzano (1590-1622), peraltro attivo in Francia, autore di una Uranoscopia seu de coelo (1617) in cui si dava spazio alla teoria copernicana, subito censurata dai revisori interni. Secondo la testimonianza di Pietro Verri, ancora negli anni Quaranta del Settecento la filosofia insegnata in S. Alessandro, il seminario milanese che formava i vertici della congregazione, era un misto di «opinioni aristoteliche e immaginazioni cartesiane» (l’insegnamento del cartesianesimo verrà condannato ancora nel 1737 dal Capitolo generale dell’ordine) e la penetrazione delle fisiche del Seicento non si estendeva a quella newtoniana (Baldini 1998, p. 559).
Nel corso del secolo ‘filosofico’, nella didattica della congregazione un ruolo di freno era stato poi svolto dal savoiardo Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802). Professore nel collegio barnabita di Macerata, poi presso le scuole di filosofia pratica all’Università di Torino (1749) dopo la riforma del 1720, precettore del futuro Carlo Emanuele IV di Savoia e poi cardinale, Gerdil fu un duro oppositore delle teorie sensistiche di John Locke (1632-1704) e delle idee illuministiche in generale. Sostenitore di un cartesianesimo letto alla luce di Nicolas de Malebranche (1638-1715), si opponeva alla verità fisica del newtonianesimo.
Stante questo quadro, la comparsa all’interno dell’ordine di un ‘religioso scienziato’ del calibro di Frisi fu il frutto di circostanze particolari. Solo il fatto che, dal 1744, la fisica fosse insegnata nelle Arcimbolde di Milano (così dette dal nome del loro primo finanziatore) da Francesco Re, a sua volta matematico e idraulico di vaglia, garantì al giovane Frisi un ciclo ordinato di studi e una bibliografia aggiornata. Fisico, matematico e astronomo, sempre fortemente eccentrico rispetto al suo ordine, Frisi fu l’interprete più lucido dell’Illuminismo scientifico lombardo. Lettore a sua volta di filosofia alle Arcimbolde (dal 1753), fece evolvere la filosofia insegnata dai barnabiti a Milano, ma anche a Lodi dove insegnò dal 1750 al 1752, dall’eclettismo aristotelico-cartesiano verso una fisica matematica e sperimentale.
Oltre all’imitazione della Ratio studiorum gesuitica, un altro aspetto della ‘osmosi’ prodotta dalla condivisione da parte degli ordini di obiettivi comuni (Sangalli, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2005, 1, p. 32) è rappresentato dallo scambio intercongregazionale delle scuole matematiche di eccellenza e dalla contaminazione di conoscenze che ne seguì. In mancanza di scuole istituzionalizzate, come fu per tutto il Seicento quasi ovunque a eccezione dei gesuiti, non era infrequente che i ‘religiosi-scienziati’ di un ordine cercassero il magistero o il confronto con i membri di un altro. È il caso di Santini, che a Genova, somasco, fa scuola a Famiano Michelini e a Salvatore Grise, scolopi; ma è anche il caso di Benedetto Castelli, che si avvicina all’algebra a Roma, frequentando i gesuiti algebristi del Collegio romano, come Confalonieri o Anton Maria Costantini.
La storiografia ‘moderna’ – né interna né agiografica – ha ancora solo lambito la questione della cultura scientifica delle congregazioni religiose non insegnanti di più antica o più recente fondazione. I pochi studi ancora esistenti a riguardo – molto diseguali per il livello della documentazione e per la distribuzione geografica – segnalano però in alcuni casi un interesse per la scienza che potrebbe non essere rapsodico, legato cioè al singolo individuo, ma radicato nell’identità del gruppo. Le due figure chiave della diffusione del newtonianesimo in Italia, Celestino Galiani e Guido Grandi, appartenevano a congregazioni religiose pretridentine, rispettivamente quella dei celestini e quella dei camaldolesi cenobiti; i caracciolini, che prevedevano fin dalla fondazione l’insegnamento della filosofia nei seminari provinciali, non elusero i problemi posti al sistema aristotelico-tolemaico-tomistico dalla ‘nuova’ scienza (Favino 2010). Per i minimi di s. Francesco di Paola, il cui seminario romano era stato stabilito dal 1623 a Trinità dei Monti, la residenza di Emmanuel Maignan (1601-1676) e dei suoi confratelli esperti di prospettiva geometrica negli anni Quaranta del Seicento fu decisiva per dare un’impronta ‘moderna’ alle successive generazioni di confratelli (Romano, Dubourg-Glatigny 2004). Inoltre, la soluzione da lui proposta in merito al corpuscolarismo nel suo Cursus philosophicus (1651) – la materia sarebbe composta da particelle qualitativamente differenti tra di loro e fisicamente indivisibili, aggregate da forze intrinseche ‘simpatetiche’ (Romano, in Conflicting duties: science, medicine and religion in Rome, 1550-1750, 2009, p. 173) – offrì una via di uscita a molti regolari di altre congregazioni, stretti come lui nella scelta tra scienza e fede, tra atomismo e interpretazione del mistero eucaristico.
Scienza, ordini e ‘opinione pubblica’
Nell’arco di circa un secolo e mezzo, l’impegno del clero regolare nel campo della scienza moderna compie una parabola che si rispecchia anche nella fisionomia delle biblioteche scientifiche dei conventi, un tema che attende ancora di essere indagato in profondità. Lo spoglio dei permessi di lettura di libri proibiti rilasciati dalla Congregazione del Santo Uffizio dell’Inquisizione per il periodo 1561-1600, come anche l’esame dei cataloghi delle biblioteche dei conventi veneziani redatti in occasione dell’Inchiesta della Congregazione dell’Indice del 1596 (Barzazi 1995), concordano sul fatto che, sul finire del 16° sec., l’interesse dei regolari «gravitava ancora sul binomio astrologia-medicina» (Baldini 2001, p. 196). Si tratta di un rapporto destinato a mutare profondamente man mano che, con l’affermarsi della vocazione erudita degli ordini ‘colti’, le biblioteche conventuali assursero a emblema culturale.
Una presenza pur minima di conoscenze scientifiche all’interno del clero regolare post-tridentino non insegnante, del resto, non poteva non essere salvaguardata, considerando che fino a tutto il Settecento proprio dalle sue fila proveniva una buona parte dei lettori di matematica e filosofia naturale nelle pubbliche università statali, un dato che, peraltro, contribuiva a tenere al mimino statutario le retribuzioni dell’insegnamento. Se non le lezioni ex cathedra, peraltro spesso deserte e regolamentate da norme statutarie rigide e antiquate, l’insegnamento privato dava la possibilità ai regolari di incidere sulla cultura scientifica dei giovani universitari laici, anche indirizzandola verso i suoi sviluppi più originali. Ancora una volta, è esemplare il caso di Benedetto Castelli, monaco benedettino cassinese e allievo di Galilei a Padova. Sia a Pisa (1613-26), sia a Roma (1626-44), dove fu lettore pubblico di matematiche, associò le lezioni ordinarie a libere discussioni tra studenti nei giorni di vacanza. Mentre in aula leggeva gli Elementi di Euclide, in privato introduceva gli studenti alle opere di Galilei, come fece con Evangelista Torricelli e con Borelli.
Grazie alla fortuna di cui già godeva da tempo nelle congregazioni religiose la tradizione scientifica sperimentale, la riqualificazione degli studi universitari nel campo delle scienze che dagli anni Trenta-Quaranta del Settecento interessò tutti gli atenei italiani avvenne proprio attraverso lo sfruttamento delle eccellenze prodotte nel frattempo dai collegi-convitti degli ordini religiosi. In qualche modo, le università finirono per assorbire quelle punte di cultura scientifica monastica avanzate quasi a dispetto della disciplina interna ai rispettivi ordini, una circostanza che rende meno paradossale la presenza di regolari in posizioni chiave all’interno di istituzioni riformate proprio per sottrarre il controllo dell’istruzione agli ordini religiosi. A Torino, per es., la figura del rinnovamento fu lo scolopio Giovan Battista Beccaria (1716-1781), formatosi nel seminario di S. Pantaleo a Roma, insieme a quelle dei minimi Joseph Roma e Francesco Antonio Garro, istruiti alla scuola romana di Trinità dei Monti inaugurate da Maignan. Da Trinità dei Monti provenivano anche i francesi François Jacquier (1711-1788) e Thomas Le Seur (1703-1770), autori dell’edizione standard dei Principia di Isaac Newton sul continente (1739-1742), ai quali Benedetto XIV affidò gli insegnamenti rispettivamente di fisica sperimentale e di matematica sublime nel riformato ateneo romano della Sapienza (Favino, in Rome et la science moderne, 2008). In area emiliana, allora epicentro geografico dell’attività scientifica italiana, l’aperta preferenza accordata al sistema newtoniano e il rigetto delle dottrine aristoteliche e cartesiane coincidono con l’arrivo del gesuita Lazzaro Spallanzani, che fu lettore di fisica e matematica nella neoistituita Università di Reggio Emilia (1757-62), e lettore di logica e metafisica e fisica al S. Carlo di Modena (1763-69). A Parma, il teatino Paolo Maria Paciaudi (1710-1785), bibliotecario ducale e ispiratore della riforma dell’istruzione promossa da Guglielmo Du Tillot, chiamò Le Seur e Jacquier per istruire gli allievi della Scuola dei paggi e del Collegio dei nobili alla fisica sperimentale e alla geometria analitica (1766). A Napoli, dove l’impulso ai progetti di riforma dell’Università di Carlo III di Borbone venivano dal newtoniano Celestino Galiani (1681-1753) nella sua veste di cappellano maggiore, la lettura dell’Archiginnasio regio, improntata al metodo induttivo reso celebre da Willem Jacob ’s Gravesande e Pieter van Musschenbroek, fu retta per primo da Giuseppe Orlandi (1712- 1776), monaco celestino come Galiani formatosi nel Collegio romano di S. Eusebio, mentre la cattedra omologa presso la scuola del seminario arcivescovile, riformata dal cardinal Giuseppe Spinelli, venne assunta dal somasco Della Torre.
La diffusione nei collegi e nei seminari degli ordini religiosi di uno sperimentalismo di marca newtoniana implicava la presenza di infrastrutture adeguate, fenomeno anche questo quasi ovunque in anticipo rispetto alle istituzioni pubbliche. Al Nazareno degli scolopi, per es., dove la didattica sperimentale della fisica venne introdotta nel 1747 dal padre Urbano Tosetti (1714-1768), i convittori avevano a disposizione un attrezzato gabinetto di macchine che utilizzavano durante le ‘accademie’ di fisica sperimentale e che da allora venne sempre costantemente accresciuto. A Napoli, Joseph-Jérôme Lalande (1732-1807) poté ammirare la macchina parallattica conservata presso il collegio Massimo dei gesuiti, dotata di telescopio munito di micrometro obiettivo, mentre Della Torre costruiva miscroscopi e obiettivi a sfera di sua invenzione che limitavano il problema delle aberrazioni cromatiche. La presenza nei chiostri di cabinets di curiosità e di fisica, segno tangibile della loro partecipazione alla ‘rivoluzione scientifica’ oltre che luoghi di sociabilità erudita, era un fenomeno che datava, almeno a Roma, già dalla metà del Seicento. Entro le mura del Collegio romano, il gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) aveva allestito un museo di naturalia e artificialia riconosciuto come uno dei più avanzati e forniti centri di ricerca scientifica di tutta Europa. Il museo sopravvisse al suo inventore; negli anni Trenta del Settecento fu arricchito da Orazio Borgondio (1675-1741), allora suo conservatore, con una sala di strumenti astronomici, mentre il neoeletto Benedetto XIV diede allora impulso alla costruzione di una specola. Negli anni Quaranta del Seicento, quelli della residenza di Maignan a Roma, il convento dei minimi di Trinità dei Monti divenne un luogo di sperimentazione nel campo delle matematiche applicate: gnomonica, ottica, prospettiva (Romano, in Conflicting duties…, 2009, pp. 164-66; Romano, Dubourg-Glatigny 2005).
Gli strumenti e le macchine che servivano per insegnare, ricercare o stupire il pubblico dei visitatori venivano spesso pure fabbricati all’interno dei chiostri. Di certo lo furono quelle di Kircher. Negli anni Sessanta del Seicento, le poche macchine realizzate tra quelle progettate per il povero museo della Sapienza saranno il frutto della collaborazione tra il lettore matematico e i suoi confratelli monaci silvestrini del convento di S. Stefano del Cacco (Favino 2004, pp. 440-41). Si tratta di una tradizione di cultura materiale della scienza che ha la sua espressione forse più nota negli atlanti e nei globi di Vincenzo Maria Coronelli (1650-1718), minore conventuale, le cui carte venivano incise nell’attrezzatissima officina del convento veneziano dei Frari.
Esiste poi almeno un altro aspetto che contraddice una lettura esclusivamente conflittuale dei rapporti tra scienza e ordini religiosi. Prima dello sviluppo di società istituzionali esclusivamente dedicate a questioni scientifiche in Europa, il mondo dei regolari fornì agli ‘scienziati’ modelli di condotta per perseguire e presentare il loro lavoro. Federico Cesi mutuò dalla Compagnia di Gesù la struttura organizzativa e normativa interna alla sua Accademia dei Lincei e sembra trasferisse all’Accademia l’affinità spirituale con l’Oratorio dei filippini alla Chiesa Nuova, che era stata della propria famiglia. Nel secondo Seicento, la condizione monastica non impedì ai regolari di partecipare attivamente ad accademie fisico-matematiche modellate sul Cimento, come quella della Traccia riunita a Bologna attorno a Geminiano Montanari – di cui fu membro, ad es., il gesuato Urbano Davisi (1618-1686), un frate allevato alla ‘scuola’ del matematico galileiano Bonaventura Cavalieri presso il convento dei SS. Eustachio e Girolamo – o l’Accademia fisico-matematica (1677-98) fondata a Roma da monsignor Giovanni Giustino Ciampini (1633-1698).
La distanza tra i gesuiti e gli ‘altri’ sul terreno della ‘politica culturale’ della scienza si misura anche con il grado di consapevolezza con cui i primi usavano questi spazi pubblici di sociabilità erudita per egemonizzare e controllare gli eventuali prodotti della ricerca. Gli atti dell’Accademia fisico-matematica ciampiniana non videro mai la luce per l’opposizione del gesuita ‘novatore’ Francesco Eschinardi (1623-1703), che ne monopolizzò le adunanze distogliendo i suoi membri dai dibattiti sul vuoto e coinvolgendoli in una dura polemica contro la meccanica galileiana.
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Rome et la science moderne entre Renaissance et Lumières, a cura di A. Romano, Rome 2008 (in partic. A. Romano, La science moderne, ses enjeux, ses pratiques et ses résultats en context catholique, pp. 3-41; L. Giard, A. Romano, L’usage jésuite de la correspondance: sa mise en pratique par le mathématicien Christoph Clavius (1570-1611), pp. 51-98; F. Favino,Università e scienza: la grande riforma della Sapienza di Benedetto XIV, pp. 491-526).
Conflicting duties: science, medicine and religion in Rome, 1550-1750, ed. M.P. Donato, J. Kraye, London-Torino 2009 (in partic. A. Romano, Mathematics and philosophy at Trinità dei Monti: Emmanuel Maignan and his legacy between Rome and France, pp. 157-80; S. Montacutelli, Da Galileo a Borelli e oltre: la filosofia naturale delle Scuole Pie a Roma nel Seicento, pp. 181-210; P. Findlen, Living in the shadow of Galileo: Antonio Baldigiani (1647/1711), a jesuit scientist in late seventeenth-century Rome, pp. 211-54).
F. Favino, I Chierici regolari minori fra teologia e nuova scienza: Giovanni Guevara e il caso Galileo, in L’ordine dei Chierici regolari minori (Caracciolini): religione e cultura in età posttridentina, Atti del Convegno, Chieti (11-12 aprile 2008), a cura di I. Fosi, G. Pizzorusso, «Studi medievali e moderni», 2010, 1, pp. 209-25.
Riprendiamo da Avvenire del 15/5/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj. Pwr approfondimenti. cfr. la sotto-sezione Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
In questo periodo dell'anno – o della nostra vita – è tempo di trovare un job, uno vero, che abbia prospettive brillanti. Per orientarci in questa ricerca non c'è bussola migliore del sito americano careercast.com.
Ci svela i due «mestieri» top dell'anno 2016, quelli cioè che sono i più pagati e che allo stesso tempo hanno l'aria che tira in poppa e sono rivolti al futuro. Li avrete indovinati – o forse no. Al primo posto c'è il mestiere di «data scientist», con un stipendio medio annuo di 128.240 dollari e una previsione di crescita del 16%; al secondo posto lo «statistico», con 79.990 dollari all'anno, il che è molto di meno, ma con in compenso un growth outlook del 34%.
Un po' me lo aspettavo di non trovare sul podio il falegname o il poeta. Non immaginavo tuttavia che lo statistico corresse davanti all'ingegnere, all'avvocato, al medico ed anche all'agente di borsa.
Quando poi si scopre che al terzo posto della hit parade c'è l'«analista della sicurezza» ci si accorge che le tre nuove professioni più ambite costituiscono di fatto un'unica professione che riguarda l'analisi dei dati. La loro promozione è legata alla crescita dell'informatica e di conseguenza a quella esponenziale dei data che produciamo ogni giorno (dati dal nome ingannevole, notiamolo en passant): non sono esattamente dell'ordine del «dono», ma dell'emissione, della secrezione, della traccia captabile da un apparecchio elettronico e al tempo stesso quantificabile sotto forma di byte – così che attraverso questi dati si tratta precisamente di non dare niente, nel senso di un'offerta generosa, ma di lasciarsi quantificare, nel senso di un potere utilitaristico.
Ora la cosa più interessante è che questa evoluzione proviene della scienza, ma, lungi dall'esserne il trionfo, è la sua capitolazione. La scienza fino ad oggi si era posta due domande: perché e come. Gli antichi si erano concentrati soprattutto sulla prima questione, i moderni sulla seconda scivolando dalla ricerca delle cause alla ricerca delle leggi – ovvero dalla causalità alla funzionalità. Questo funzionalismo sta all'origine del computer.
Ma, con esso e con l'aver delegato la ricerca ai motori di ricerca siamo ormai andati oltre. E dunque siamo usciti dalla modernità. Un calcolatore non pensa né valuta. Calcola. Macina dati con un potere che supera completamente il nostro.
E così, per sfruttarlo a fondo, conviene ridurre qualunque scienza alla statistica: non cercare più una causalità né cogliere una funzionalità, come fa il pensiero umano, ma, a partire da un algoritmo stabilire una correlazione.
In alcuni ospedali dell'Ontario l'Ibm ha di recente messo a punto un protocollo di monitoraggio dei nati prematuri. Sei flussi di dati provenienti da un insieme di sensori sono registrati continuamente e simultaneamente: pulsazione cardiaca, saturazione respiratoria, tensione arteriosa, eccetera. Un'analisi statistica di questi dati ha permesso di stabilire che, paradossalmente, quando le spie luminose sono tutte verdi troppo a lungo, quasi sempre si produce un'infezione. Lo si sa, senza saperne il come né il perché. Non è stata determinata alcuna concatenazione causale, nessun meccanismo funzionale è stato individuato, solamente una successione temporale convalidata da un calcolo di probabilità.
Tali antecedenti producono quasi sempre tali conseguenze, ecco tutto, e il senso o la logica non hanno importanza: il software permette già di esercitare una migliore prevenzione e di salvare delle vite. Lo nota Coline Tison nel suo libro Internet, ciò che non sappiamo: «Perché i bambini sono infettati? Come si verifica l'infezione? Domani queste domande saranno superflue. I ricercatori disporranno di una grande quantità di dati e stabiliranno delle correlazioni. Queste ultime saranno presto più importanti della conoscenza e della comprensione. […] Il Big Data poco a poco trasformerà il nostro rapporto con la conoscenza, la scienza, e dunque il nostro rapporto con il mondo».
Per il Socrate 2.0 la conoscenza di sé si trasforma in «quantificazione di sé». Alcuni individui vivono ormai con elettrodi attaccati un po' dovunque sul loro corpo e possono scoprire, senza saperne la ragione, che il martedì e il giovedì va sempre molto meglio mentre la domenica è generalmente più deprimente. Sanno così quando mettere in agenda un colloquio di lavoro o un appuntamento galante. E a quali parametri stare attenti per prolungare i loro giorni e continuare a tenere sotto controllo la loro vita con gli istogrammi.
Beninteso, se il perché e il come cedono sempre più il passo al quanto, questo lascia intravedere il rapporto tra numerico e il contabile, tra l'informatica e il denaro. La conoscenza di sé non è una merce. La quantificazione si paga cara (bisogna acquistare gli smart clothes da Wearable Tech per esempio). Essa d'altronde serve ad essere inquadrati meglio dalla prospezione commerciale. Ecco l'estensione del dominio del calcolatore: una Pentecoste della statistica dove le lingue di fuoco sono sostituite dal data processing e dai pop-up pubblicitari.
Riprendiamo da Il Foglio del 6/4/2016 un articolo scritto da Samir Khalil Samir. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni Islam e Dialogo fra le religioni e libertà religiosa.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
"Nel quartiere di Molenbeek, io ho visto
scene con uomini che dicevano alla polizia:
‘Che venite a fare qui?’” (foto LaPresse)
Vorrei partire da un dato di fatto, come premessa. Siamo in presenza di un fenomeno sociologico “normale”: le città sono già occupate. Trovare un posto nel cuore dei grandi agglomerati urbani è difficile per chiunque, se non è già installato lì. Man mano che arrivano, gli immigrati vanno a stabilirsi attorno alla città e la conseguenza più banale è che si formano dei quartieri abitati solo da immigrati: cercano una casa dove hanno un parente, un amico, una persona del proprio luogo. Così si costituiscono, ovunque nel mondo, dei quartieri che sono contraddistinti da una certa prevalenza culturale. Può essere un quartiere di spagnoli, di italiani. Negli ultimi tempi, l’emigrazione massiccia – e la più diffusa – è quella che ha come luogo d’origine i paesi musulmani. Il problema è che questi sono oggi più di 16 milioni nell’Unione europea, secondo l’Istituto centrale tedesco degli archivi sull’islam (Zentralinstitut Islam Archiv Deutschland). Ecco perché esistono molti quartieri massicciamente musulmani. Ecco perché dico che è un fenomeno culturale. Questo è un primo fatto, sociologico.
Poi però, c’è un secondo problema. Dobbiamo capire che l’islam non è una religione nel senso cristiano della parola. Almeno, non è solo questo. Per noi, la religione è un rapporto personale tra me e Dio, con annesso qualche legame religioso spirituale con altre persone. Nel sistema islamico, la religione è tutto. E’ un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è un campo che sia esterno all’islam. Pensiamo al modo di relazionarsi agli altri: se parlo con un uomo o con una donna, è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam. La religione penetra ogni aspetto.
Dunque è normale che, trovandosi tutti assieme, man mano la libertà personale venga a essere limitata, perché ci saranno sempre persone – diciamo “specialisti” (imam o semplicemente persone che pretendono di aver studiato l’islam) – che verranno a dire “tu ti comporti male, devi agire così”. C’è una propaganda che porta a dire che un determinato quartiere deve essere gestito in modo islamico. Si pensi, poi, che c’è anche un modo “islamico” di vendere e comprare le cose. La conseguenza di questo sistema è che, con l’andare del tempo, si creano delle unità a se stanti, isole dove è più facile indottrinare la gente.
Inoltre, negli ultimi tempi, la tendenza – che esiste da decenni nel mondo islamico, almeno dagli anni Sessanta – è quella di una diffusione di una visione dell’islam sempre più integralista, fondamentalista, collettiva; una visione della vita che si impone lentamente alla maggioranza. E’ il sistema wahhabita o salafita, o dei Fratelli musulmani. Tutti vanno nella stessa linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi. Al centro di questa isola si metterà la moschea. Si dirà: “Ci sono tante chiese e noi non abbiamo neanche un piccolo luogo di preghiera”. Si faranno pressioni sui comuni cittadini, per dire “rispettateci”. Allora, o l’amministrazione pubblica dice “va bene, vi regaliamo quel terreno”, oppure loro lo acquisteranno, aiutati dai paesi petroliferi.
Costruiranno allora un piccolo centro, che pretenderebbe di essere solo per la preghiera, ma che subito vedrà sorgere librerie con volumi fatti a mero scopo propagandistico. Nascono così i centri islamici. Il fatto è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica. Forse, una volta se ne faceva un po’, ma oggi chi va in chiesa lo fa per pregare. Nella moschea no. Il discorso ufficiale durante la preghiera del venerdì è solo in parte religioso. La parte preponderante, invece, è socio-politica. Questo è il sistema stabilito e chi lo pratica fa bene, è un buon musulmano e un buon imam.
La Francia “laicarda”
In Francia, i comuni hanno il diritto di concedere un terreno o una costruzione per 99 anni in cambio di 1 euro simbolico: è ciò che si chiama un bail emphytéotique. Questo sistema risale a una decisione di secoli fa, ma ora è divenuto il metodo più diffuso in Francia per dare ai musulmani un terreno per costruire una moschea. E questo perché il diritto che lo permette risale al diritto romano, benché esso sia molto cambiato nel frattempo. Le comunità si presentano dicendo: noi siamo poveri, non abbiamo luoghi decenti per pregare, mentre i cristiani hanno da secoli delle chiese, e noi non abbiamo niente. Allora dateci questo, visto che la legge vi autorizza a farlo. La conseguenza? I comuni e i governi si lasciano convincere da tali motivazioni e regalano il terreno. Solo dopo, quando ormai è troppo tardi, si scopre che lì si fa propaganda islamista, jihadista, e si crea così un quartiere islamico, dove la polizia non ha sempre la possibilità di accedere.
La Francia è sempre più non solo laica, ma (come si dice in francese) laicarda. Ha cioè un progetto laico, che è in realtà anti religioso e anti cristiano. Anzi, essenzialmente anti cattolico. Basta vedere l’atteggiamento dell’attuale Primo ministro Manuel Valls, e quello di Vincent Peillon (ex ministro dell’Istruzione) che diceva in televisione “dobbiamo uccidere la chiesa cattolica”. Per lui, “non si potrà mai creare un paese di libertà con la chiesa cattolica” . Ma la chiesa non ha mai usato, nella nostra epoca, mezzi politici e illegali. La chiesa dice la sua, come ogni uomo ha il diritto di fare. Non ha possibilità concrete di fare pressione sulla gente. La prova è che ogni anno ci sono sempre meno persone che si dichiarano cristiane. Ma Valls e Peillon ritengono che il cristianesimo ha un influsso troppo forte. Al contempo, il governo francese ha bisogno di voti e cerca i musulmani, dando loro piccoli o grandi vantaggi in cambio di consenso.
Penso alla preghiera musulmana del venerdì, fatta per strada: è inammissibile, qualunque sia il motivo. Se voglio utilizzare il luogo pubblico (la strada) per un atto religioso, anche io cattolico devo chiedere il permesso. Penso a un caso eccezionale, la processione per la festa del Corpus Domini: non si può fare senza prima ottenere il via libera delle autorità, non si può decidere di scendere liberamente in strada. Se non c’è il permesso, lo Stato ha il diritto di impedire che si blocchi la strada. Invece, ogni settimana, ogni venerdì, lo si fa. Con il pretesto che – dicono – non hanno moschee o che le moschee sono troppo piccole. Io l’ho visto a Parigi: fanno venire i musulmani dalle periferie nel centro della città per dire “vedete, le moschee sono troppo anguste”. C’è una sorta di ricatto, uno scambio: usano tutto a fini politici. Ed è per questo che l’islam si “arrangia” bene con lo stato.
Anche a Milano, in viale Jenner, lo rivendicavano come diritto. La verità è che siamo incoscienti: se si impedisce di occupare le strade, passa l’idea che si sia anti musulmani. Invece è solo una norma di buon senso. Gli islamisti, i fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi per imporsi. Poniamoci per un attimo su un piano più profondo, andiamo a vedere come un quartiere si trasforma in un quartiere più islamista (non dico islamico). I gruppi radicali hanno come scopo principale di diffondere la loro visione dell’islam, perché per loro è quello l’autentico islam, il più veritiero, e quindi va imposto a tutti i musulmani. Di conseguenza, questi quartieri che un tempo erano misti, diventano quartieri musulmani radicali, dove i non musulmani – oppure i musulmani moderati – se ne vanno. Così il quartiere non è più integrato nella città.
Accoglienza e falsa tolleranza
Spesso si critica lo stato accogliente. A mio giudizio, dobbiamo accogliere lo straniero che si trova in estrema difficoltà (come spesso accade di questi tempi). Ma dobbiamo anche aiutarlo a integrarsi realmente. Lo stato deve spiegare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima fra tutte la necessità d’imparare la lingua nazionale. Si dovrebbe spiegare che non si può rimanere qui, in Europa, se non ci si comporta non solo conformemente alle nostre leggi, ma anche secondo le norme e le usanze delle nostre società. Ma cosa significa “integrare”? Significa far sì che l’altro sia uno di noi. Perché se l’altro non si integra, per esempio con la lingua, avrà difficoltà a trovare anche determinate occupazioni. C’è troppa falsa “tolleranza” e disorganizzazione, mancanza di riflessione su ciò che significa “accogliere”. E’ un compito molto delicato e impegnativo. Ma si deve aggiungere che, se i flussi migratori rappresentano un peso per lo stato e per le comunità, si deve riconoscere anche che l’Europa, con la sua demografia estremamente bassa, ha bisogno anche di loro, persone dal valore umano indispensabile a questo continente.
E’ banale ricondurre l’ondata integralista nelle banlieue a problemi socio-economici. Riflettiamo sulla disoccupazione: sono disoccupati perché non hanno imparato un mestiere in modo corretto, in modo da essere ricercati e non rigettati. L’ho notato in Francia: i ragazzi di questi quartieri, anziché studiare, facevano chiasso per le strade, andando in giro per gruppi alla sera, anzichè studiare. La gente, anche musulmana, aveva paura. Invece le ragazze erano a casa, facendo i compiti, lavorando. Personalmente l’ho constatato nella banlieue di Parigi, dove andavo ogni sabato sera a riflettere con una ventina di giovani musulmani: che tutte le ragazze avevano un lavoro. I ragazzi invece molto di meno, con anche poche possibilità di avere un buon lavoro. Perché non erano stati seri a scuola. Perché il ragazzo è libero, mentre la ragazza è controllata, e questo è un principio islamico. C’è la volontà di marginalizzarsi.
Bisogna confrontarsi con un fatto chiaro: l’europeo (generalmente di tradizione, se non di fede, cristiana) è diverso dal musulmano nella sua mentalità. La causa di ciò non è lo stato: la causa sono io, giovane musulmano che rifiuta l’integrazione in nome della fede. Ecco perché le famiglie dovrebbero aiutare in questo senso, favorendo l’integrazione; dire “voi siete responsabili di voi stessi, ma per questo dovete integrarvi a tutti i livelli”, non andando a intaccare la fede musulmana, ben radicata nel profondo del cuore e nei comportamenti.
Molenbeek spiega le bombe di Bruxelles
Quanto avvenuto a Bruxelles non è una sorpresa. Nel quartiere di Molenbeek, ma non solo in questo, io ho visto scene con uomini che dicevano alla polizia: “Che venite a fare qui? Questo non è campo vostro”. E la polizia, trovandosi in tali situazioni, preferivano andarsene. Uomini che, pure non intenzionati a fare uso della forza, avevano un aspetto intimidatorio. Non si deve accettare nessuna eccezione, mai: sia italiano da mille anni o da un anno. Ci sono delle norme, e devono essere rispettate. I tedeschi hanno un’espressione molto bella e sempre applicata: Ordnung muss sein!, cioè “l’ordine deve esistere, tutto deve essere fatto secondo l’ordine previsto!”. Per questo sono più avanzati in questo campo. In Germania non ho mai visto, in trent’anni, un gruppo di musulmani come ho visto a Birmingham o a Parigi, che vanno in giro a fare pressione sulla popolazione musulmana. In Germania hanno infatti imparato che ognuno può ottenere diritti solo se rispetta le norme comuni del paese dove vive e che ha scelto per se stesso.
Riprendiamo da Avvenire del 17/5/2016 un articolo di Roberto Festorazzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
La vulgata storica ha sempre dipinto la Turchia contemporanea come uno Stato moderno, fondato su principi di laicità, lontano quindi da ogni residua tentazione di restaurazioni teocratiche. La repubblica kemalista, in realtà, oltre ad avere trescato a lungo con i modelli delle tirannidi fasciste (le nuove statolatrie pagane), ebbe tra i suoi atti fondativi veri e propri genocidi etnici a lungo rimossi. Prima lo sterminio degli armeni, su cui soltanto negli ultimi anni si è osato sollevare il velo, poi quello dei cristiani greci del Ponto, sulle coste del Mar Nero: episodio poco noto, quest’ultimo, e riguardo al quale ancora oggi la Turchia rifiuta di riconoscere le proprie storiche responsabilità.
Una giornalista italiana di origini greche, Maria Tatsos, racconta il martirio del popolo del Ponto vittima, oltre che della violenza cieca, anche del silenzio. Tutto ciò in un libro in uscita in questi giorni: La ragazza del Mar Nero (Paoline, pagine 224, euro 15,00). Tatsos soltanto negli ultimi anni, ha scoperto di discendere, per parte del ramo paterno della sua famiglia, da un ceppo di greci di religione ortodossa del Ponto, scacciati dalla loro terra natale, e approdati nel 1923 come profughi in Macedonia, a Giannitsa. Questo dramma, sepolto come il trauma di una ferita dell’anima nell’intimo di chi lo aveva vissuto, è così rimasto nascosto e a lungo precluso allo sguardo indagatore di Maria. La quale così spiega: «Solo una volta, quando avevo sette anni, la nonna si era lasciata sfuggire che Ordu, in Turchia, era la sua “patria”, e non Giannitsa. “Lì, bambina mia, avevamo una casa bellissima, vicina alla chiesa e a pochi metri dal mare. Andavo a nuotare tutti i giorni, era meraviglioso. È quella la nostra terra, e non qui, ricordatelo”».
La bambina di allora non ebbe mai a dimenticare quella confidenza della nonna, Eratò Espielidis, figura che è diventata il filo conduttore della sua narrazione di oggi. Un cammino a ritroso che assume i toni di un viaggio apocalittico nell’orrore di una delle prime pulizie etniche del Novecento. I nonni di Maria Tatsos abitavano poco lontano dalla città di Trebisonda, sul Mar Nero, dove nel febbraio del 2006 il sacerdote italiano don Andrea Santoro venne assassinato da un musulmano fanatico. Dopo il massacro degli armeni, nel giro di pochi anni, tra il 1916 e il 1923, anche la nobile comunità greca del Mar Nero fu cancellata per sempre dalla storia. Dei settecentomila cristiani ortodossi del Ponto che vivevano all’inizio della persecuzione, ne sopravvissero meno della metà, costretti a raggiungere la Grecia per non finire macellati.
Una parte sconfinò in Russia, dove a tragedia si aggiunse tragedia: in piena epoca del terrore staliniano, nel 1937, i maschi greci furono arrestati e deportati in Siberia, Kazakistan e Uzbekistan, ove sopravvissero in pochi. Ma la Turchia fece, se possibile, ancora di peggio: sottopose la popolazione greca, donne, vecchi e bambini compresi, a spaventose marce forzate invernali. Racconta infatti Tatsos: «I deportati venivano condotti in un bagno turco, con la scusa di ripulire i loro corpi e i loro vestiti per motivi d’igiene. In realtà, dopo un bagno bollente, i malcapitati venivano costretti a restare all’aperto svestiti ed esposti alle temperature invernali, che nel Ponto potevano giungere fino a meno venti gradi. Dovevano attendere per ore, seminudi, di essere rasati e vaccinati contro il tifo, operazione che avveniva usando lo stesso ago per tutti, agevolando così la trasmissione di malattie.
I sopravvissuti dovevano rivestirsi con i loro abiti umidi e rimettersi a marciare per dodici ore in mezzo alla neve. Inutile dirlo, la decimazione funzionava a meraviglia. Ovviamente simili misure limitavano la diffusione di epidemie fra i deportati, perché questi morivano di freddo ben prima di svilupparle».
Per i poveri profughi ammassatisi nelle accoglienti terre della Macedonia, si trattò di cominciare un’esistenza completamente nuova, dopo aver perduto tutto: casa, proprietà, campi, affetti.
Tatsos conclude il suo racconto con una pagina sorprendente. È il 1989. Nonna Eratò sta per morire, a 93 anni. È ormai completamente cieca. Ha un ultimo desiderio, quasi un sussulto di nostalgia: rivedere la perduta terra. Il figlio Pigmalion l’accompagna nell’immaginario viaggio di congedo: «Lui la prese sottobraccio e la portò sulla balconata della sua abitazione, dove era vissuta per sessant’anni sentendosi sempre, nel fondo del cuore, una profuga scacciata dalla sua terra. “Ecco, mamma, sei a Ordu, a casa. Lo vedi, il mare?”, disse lo zio, cercando di rivolgersi agli occhi della sua memoria. “Sì, lo vedo”, rispose la nonna, in lacrime. Sono certa che Eratò l’abbia visto davvero, il suo mare. La sua casa, i noccioleti, l’orto. La chiesa di Ypapantis. La montagna di Boz Tepe e la scuola Psomiadis, le cui finestre guardavano il Mar Nero».
Il libro di Maria Tatsos è toccante anche per le premesse da cui parte, che costituiscono un monito a voler coltivare, sempre e comunque, propositi di pace, nella verità: «La storia di mia nonna Eratò è una goccia nel mare di un’immane tragedia. Questo libro vuole essere un tributo alla memoria, per non dimenticare e per capire quanto siano simili le stragi di ieri a quelle di oggi. Ma è anche un inno alla speranza, perché una società che sa essere accogliente può diventare più ricca. Perché anche i nostri nonni o bisnonni sono stati profughi, immigrati, stranieri e, se hanno fatto fortuna in terre lontane, è perché qualcuno ha offerto loro un’opportunità. E perché l’ospitalità, praticata come facevano i miei antenati, è un dovere sacro, come esseri umani e come cristiani, per non lasciare vincere l’odio, mai».
Riprendiamo sul nostro sito il di papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale 2016, pubblicato il 15/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Chiesa missionaria, testimone di misericordia
Cari fratelli e sorelle,
il Giubileo Straordinario della Misericordia, che la Chiesa sta vivendo, offre una luce particolare anche alla Giornata Missionaria Mondiale del 2016: ci invita a guardare alla missione ad gentes come una grande, immensa opera di misericordia sia spirituale che materiale. In effetti, in questa Giornata Missionaria Mondiale, siamo tutti invitati ad “uscire”, come discepoli missionari, ciascuno mettendo a servizio i propri talenti, la propria creatività, la propria saggezza ed esperienza nel portare il messaggio della tenerezza e della compassione di Dio all’intera famiglia umana. In forza del mandato missionario, la Chiesa si prende cura di quanti non conoscono il Vangelo, perché desidera che tutti siano salvi e giungano a fare esperienza dell’amore del Signore. Essa «ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo» (Bolla Misericordiae Vultus, 12) e di proclamarla in ogni angolo della terra, fino a raggiungere ogni donna, uomo, anziano, giovane e bambino.
La misericordia procura intima gioia al cuore del Padre quando incontra ogni creatura umana; fin dal principio, Egli si rivolge amorevolmente anche a quelle più fragili, perché la sua grandezza e la sua potenza si rivelano proprio nella capacità di immedesimarsi con i piccoli, gli scartati, gli oppressi (cfr Dt 4,31; Sal 86,15; 103,8; 111,4). Egli è il Dio benigno, attento, fedele; si fa prossimo a chi è nel bisogno per essere vicino a tutti, soprattutto ai poveri; si coinvolge con tenerezza nella realtà umana proprio come farebbero un padre e una madre nella vita dei loro figli (cfr Ger 31,20). Al grembo materno rimanda il termine usato nella Bibbia per dire la misericordia: quindi all’amore di una madre verso i figli, quei figli che lei amerà sempre, in qualsiasi circostanza e qualunque cosa accada, perché sono frutto del suo grembo. È questo un aspetto essenziale anche dell’amore che Dio nutre verso tutti i suoi figli, in modo particolare verso i membri del popolo che ha generato e che vuole allevare ed educare: di fronte alle loro fragilità e infedeltà, il suo intimo si commuove e freme di compassione (cfr Os 11,8). E tuttavia Egli è misericordioso verso tutti, il suo amore è per tutti i popoli e la sua tenerezza si espande su tutte le creature (cfr Sal 145,8-9).
La misericordia trova la sua manifestazione più alta e compiuta nel Verbo incarnato. Egli rivela il volto del Padre ricco di misericordia, «parla di essa e la spiega con l’uso di similitudini e di parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifica» (Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia, 2). Accogliendo e seguendo Gesù mediante il Vangelo e i Sacramenti, con l’azione dello Spirito Santo noi possiamo diventare misericordiosi come il nostro Padre celeste, imparando ad amare come Lui ci ama e facendo della nostra vita un dono gratuito, una segno della sua bontà (cfr Bolla Misericordiae Vultus, 3). La Chiesa per prima, in mezzo all’umanità, è la comunità che vive della misericordia di Cristo: sempre si sente guardata e scelta da Lui con amore misericordioso, e da questo amore essa trae lo stile del suo mandato, vive di esso e lo fa conoscere alle genti in un dialogo rispettoso con ogni cultura e convinzione religiosa.
A testimoniare questo amore di misericordia, come nei primi tempi dell’esperienza ecclesiale, sono tanti uomini e donne di ogni età e condizione. Segno eloquente dell’amore materno di Dio è una considerevole e crescente presenza femminile nel mondo missionario, accanto a quella maschile. Le donne, laiche o consacrate, e oggi anche non poche famiglie, realizzano la loro vocazione missionaria in svariate forme: dall’annuncio diretto del Vangelo al servizio caritativo. Accanto all’opera evangelizzatrice e sacramentale dei missionari, le donne e le famiglie comprendono spesso più adeguatamente i problemi della gente e sanno affrontarli in modo opportuno e talvolta inedito: nel prendersi cura della vita, con una spiccata attenzione alle persone più che alle strutture e mettendo in gioco ogni risorsa umana e spirituale nel costruire armonia, relazioni, pace, solidarietà, dialogo, collaborazione e fraternità, sia nell’ambito dei rapporti interpersonali sia in quello più ampio della vita sociale e culturale, e in particolare della cura dei poveri.
In molti luoghi l’evangelizzazione prende avvio dall’attività educativa, alla quale l’opera missionaria dedica impegno e tempo, come il vignaiolo misericordioso del Vangelo (cfr Lc 13,7-9; Gv 15,1), con la pazienza di attendere i frutti dopo anni di lenta formazione; si generano così persone capaci di evangelizzare e di far giungere il Vangelo dove non ci si attenderebbe di vederlo realizzato. La Chiesa può essere definita “madre” anche per quanti potranno giungere un domani alla fede in Cristo. Auspico pertanto che il popolo santo di Dio eserciti il servizio materno della misericordia, che tanto aiuta ad incontrare e amare il Signore i popoli che ancora non lo conoscono. La fede infatti è dono di Dio e non frutto di proselitismo; cresce però grazie alla fede e alla carità degli evangelizzatori che sono testimoni di Cristo. Nell’andare per le vie del mondo è richiesto ai discepoli di Gesù quell’amore che non misura, ma che piuttosto tende ad avere verso tutti la stessa misura del Signore; annunciamo il dono più bello e più grande che Lui ci ha fatto: la sua vita e il suo amore.
Ogni popolo e cultura ha diritto di ricevere il messaggio di salvezza che è dono di Dio per tutti. Ciò è tanto più necessario se consideriamo quante ingiustizie, guerre, crisi umanitarie oggi attendono una soluzione. I missionari sanno per esperienza che il Vangelo del perdono e della misericordia può portare gioia e riconciliazione, giustizia e pace. Il mandato del Vangelo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20) non si è esaurito, anzi ci impegna tutti, nei presenti scenari e nelle attuali sfide, a sentirci chiamati a una rinnovata “uscita” missionaria, come indicavo anche nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (20).
Proprio in questo Anno Giubilare ricorre il 90° anniversario della Giornata Missionaria Mondiale, promossa dalla Pontificia Opera della Propagazione della Fede e approvata da Papa Pio XI nel 1926. Ritengo pertanto opportuno richiamare le sapienti indicazioni dei miei Predecessori, i quali disposero che a questa Opera andassero destinate tutte le offerte che ogni diocesi, parrocchia, comunità religiosa, associazione e movimento ecclesiale, di ogni parte del mondo, potessero raccogliere per soccorrere le comunità cristiane bisognose di aiuti e per dare forza all’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini della terra. Ancora oggi non ci sottraiamo a questo gesto di comunione ecclesiale missionaria. Non chiudiamo il cuore nelle nostre preoccupazioni particolari, ma allarghiamolo agli orizzonti di tutta l’umanità.
Maria Santissima, icona sublime dell’umanità redenta, modello missionario per la Chiesa, insegni a tutti, uomini, donne e famiglie, a generare e custodire ovunque la presenza viva e misteriosa del Signore Risorto, il quale rinnova e riempie di gioiosa misericordia le relazioni tra le persone, le culture e i popoli.
Dal Vaticano, 15 maggio 2016, Solennità di Pentecoste
FRANCESCO
Riprendiamo da Avvenire del 7/5/2016 un articolo di Mauro Magatti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Con il suo magistrale discorso di ieri, svolto davanti ai vertici europei, è come se papa Francesco avesse preso per mano l’Europa intera, con affetto e insieme fermezza, invitandola ad avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: senza dimenticare la propria storia e insieme aprendosi al domani. Proprio come in una famiglia, quando il padre ha la pazienza di chinarsi sui figli senza giudicarli, ma spronandoli ad affrontare la vita nel solco della tradizione a cui appartengono, ma con tutta la ricchezza e l’originalità delle loro persone.
Mai come in questo momento si può dire che Francesco è padre in questa Europa disorientata. Un padre capace di far percepire il valore di una eredità che non è morta, ma che può essere fuoco ardente capace di ri-animare la vita. Un rovesciamento clamoroso: il capo della Chiesa cattolica, troppo a lungo percepita come un baluardo della conservazione, diventa così, di fatto, il soggetto che più di ogni altro, nel Vecchio Continente (e non solo), è capace di parlare di futuro. Non additando promesse più o meno irraggiungibili, bensì avendo il coraggio, da un lato, di dire apertamente quello che non va nel nostro modello sociale, e, dall’altro, di indicare le vie di una vera e propria conversione. Politica, economica, sociale, culturale. In una parola, spirituale.
Europa famiglia di popoli. Espressione straordinaria che dovremmo tenere a mente e imparare a usare perché è proprio questa l’ambizione del progetto politico che dobbiamo sviluppare negli anni a venire. Non un Superstato o una tecnocrazia; ma uno strumento al servizio della convivenza delle diversità, una forma politica nuova capace di generare collaborazione e integrazione fra diversi.
Un’Europa, continua Francesco, che è quella che è perché ogni volta di fronte alle sfide che ha incontrato nella sua storia ha saputo rinascere. Viene in mente l’espressione del filosofo francese Remi Brague, secondo il quale è proprio la «rinascenza» il tratto caratteristico del Vecchio Continente: società stratificata, come una torta millefoglie, perché storicamente in grado di integrare i nuovi arrivi e le diverse culture, senza però mai perdere la propria anima. Che è poi quella (cristiana) del riconoscimento del valore immenso di ogni singola persona, immagine del Creatore, indipendentemente dal proprio stato sociale, dalla propria cultura, dalla propria origine. È in questa cornice che si capiscono appieno i tre verbi che Francesco regala all’Europa come viatico per camminare verso il suo futuro.
Integrare: perché l’Europa non è più se stessa se smette di fare quello che ha sempre fatto. C’è qui un’idea profonda di identità non come il patrimonio rigido e chiuso, ma come un talento che si spende e si moltiplica. È in questo senso che l’Europa deve chiedere a tutti i propri popoli così come a tutti i propri cittadini – vecchi e nuovi – di diventare "europei", cioè protagonisti a pieno titolo di questo cammino secolare. Dimostrando nei fatti che, a differenza di quanto avviene altrove, qui nessuno è dimenticato.
Dialogare, che nel suo significato etimologico (dia-logos) significa un attraversamento grazie alla parola. Un dialogo che non è semplicemente scambio intellettuale, ma percorso che si accetta di fare insieme. Non si tratta qui di essere buonisti, o peggio ancora pavidi di fronte a chi usa violenza o intimorisce i cittadini. Al contrario, si tratta di saper esercitare la fermezza che, attraverso la parola, sa accompagnare quella crescita senza la quale non ci potrà essere pace.
Generare: un verbo inusuale, ma oggi assolutamente fondamentale. Termine che ci permette di cogliere la sterilità di un individualismo che alla fine distrugge se stesso demograficamente ed economicamente. Non ci sarà nessuna nuova crescita se non supereremo il dominio della finanza e del consumo, rimettendo al centro del nostro modello sociale il lavoro nella sua accezione più ampia: libero, creativo, partecipativo, solidale.
Perché alla fine, come dice Amartya Sen, sviluppo e libertà costituiscono un binomio inseparabile: solo riconoscendo e valorizzando la capacità di ogni persona di contribuire alla costruzione del futuro con la sua intelligenza, la sua creatività, la sua affettività si potrà aprire una nuova stagione di crescita. In tutto questo suona dolcissimo l’invito di Francesco all’Europa a tornare a essere madre generativa. Capace cioè di prendersi cura dei propri figli e della terra su cui alberga, così come di essere ospitale nei confronti di chi fugge dalle bombe e dalla fame. In una grande speranza di futuro.
Riprendiamo da Avvenire del 7/5/2016 un articolo di Rosita Copioli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Anna Lindup è Madame Aupick in
"The pimp: The life of Baudelaire" di Dic Edwards
Nel 1857, dopo la morte del generale Jacques Aupick, Caroline Archenbaut Dufayis, già vedova Baudelaire, si era ritirata a Honfleur nella sua casa-giocattolo bianca e cioccolato, appollaiata in un giardino spettacolare sulla falesia del Calvados, che l’oceano sgretolava. Il figlio pensò che avrebbe potuto riappropriarsi della madre, vivere con lei finalmente come due vecchi coniugi, in quella casa piccola ma tranquilla, dove l’Eden era minacciato solo dai vicini Émon e dal parroco. Erano nemici meno temibili dei due uomini che l’avevano posseduta: il proprio vecchio padre che l’aveva lasciato orfano a sei anni, congeniale perché letterato e forse un po’ artista; il patrigno tutto superego, l’emblema della borghesia pompierche era un dovere d’onore combattere con tutta la forza della propria autodistruzione. La data era fatidica, perché in giugno erano uscite le Fleurs du mal, che gli erano costate un duro processo. Sarebbe ritornato il verde paradiso degli amori infantili / L’innocente paradiso dei piaceri furtivi…
In attesa dei brevi momenti di serenità e di lavoro quieto che Baudelaire avrebbe trascorso accanto alla madre - il 1859, l’anno centrale dove le due vite si riavvicinano - si snoda l’emozionante surprise di Storia di Madame Aupick, già vedova Baudelaire (Castelvecchi, pagine 94, euro 12,50). Franca Zanelli Quarantini l’ha costruita scientificamente come «uno dei romanzi possibili», concedendosi quella «fantasia storica » che è la qualità indispensabile per cogliere il respiro vitale del passato. Accedere alla poesia di Baudelaire omettendo la madre è impossibile. Se per Adelaide Antici Leopardi ci si può accontentare del poco, per la madre di Baudelaire no. Tanto dipende da lei la poesia del figlio, che a sedici anni la definì il suo «libro perpetuo». Ma se occuparsi di lei è necessario e inevitabile, è soprattutto frustrante. Poco trapela dalle sue lettere (non sono pervenute le sue risposte alle centinaia che le invia Charles), dai documenti, dalle testimonianze, e pochissimo si sa delle famiglie di origine.
Franca Zanelli piega l’invenzione dell’incontro con il vecchio compagno del padre, fucilato a Quiberon, dove i realisti sono stati trucidati, perché serva alla storia reale di Caroline Archenbaut Dufayis. Con l’eccezionale competenza che possiede degli anni rivoluzionari - non ha portato lei in Italia l’opera di Olympe de Gouges, la Musa barbara che per prima difese i diritti delle donne e degli schiavi con gli scritti politici (Medusa, 2009) e il suo teatro (Aracne, 2013), lasciando la testa sotto la ghigliottina a due mesi di distanza da Maria Antonietta? - Zanelli racconta gli eventi tragici che costrinsero una bambina a strapparsi dal petto il cuore e a buttarlo lontano, e con lievi mani li intesse con la storia presente di un conflitto memorabile, inestricabile.
Non è solo la resa di giustizia a una piccola borghese che non capiva o non accettava il mostro che aveva generato («Quando, per un decreto delle forze supreme, / Il Poeta compare in questo mondo annoiato / Sua madre, piena di spavento e maledizioni, / Mostra i pugni al Signore, che ha pietà del suo stato: / “Avessi partorito un groviglio di vipere / Piuttosto che nutrire questa derisione! / Maledetta la notte dai fugaci piaceri / In cui il mio ventre concepì la mia espiazione!”). È molto di più: da un lato il riconoscimento delle corrispondenze che legano vite lontane: il padre di Caroline, armatore di navi, che comunica con gli alberi della foresta di Brotonne e sceglie un destino eroico leggendo Agrippa d’Aubigné, l’ebbrezza del martirio e del sangue per la Francia condivisi con il conte di Sombreuil e la sua amitié, che si trasmettono nella conchiglia rara della figlia, e diversamente corrispondono in Baudelaire. Dall’altro, dissimulato nel racconto, è un esercizio critico eccellente.
In ogni caso, tutto parte da una folgorazione fatale. Per Franca Zanelli innamorarsi a tredici anni delle Oeuvres complètes di Baudelaire nell’edizione Pléiade, significò subito proiettarsi di slancio al di là dell’estate dove leggeva - l’elegante Riccione anni Sessanta - in un sogno prolungato dell’adolescenza che è letteratura: i francesi romantici che le saranno debitori di tante cure editoriali e dell’insegnamento universitario: le loro fonti segrete. Fino ad oggi cercherà di capire il mistero delle Oeuvres, come intuiva allora: «un mondo immenso, [...] potrei leggere questo libro tutta la vita e scoprire sempre qualcosa». Vorrà andare alla fonte: il libro dei libri di Baudelaire pieno di pagine bianche, che nessuno ha mai osato scrivere: «O madre dei ricordi, regina delle amanti, / Tu, tutti i miei piaceri! Tu, tutti i miei doveri!».
1/ L'alba della poesia italiana: ecco il testo ritrovato di 800 anni fa, di Marco Roncalli
Riprendiamo da Avvenire del 5/3/2015 un articolo di Marco Roncalli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
Dopo i ritrovamenti degli ultimi tempi che già avevano rimesso in discussione le tesi di Francesco De Sanctis o questioni ritenute definitive circa le origini della lirica in volgare sul modello provenzale (si pensi alla canzone trascritta su una pergamena ravennate tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo Quando eu stava in le tu’ cathene, ma anche al frammento zurighese Resplendiente stella de albur di Giacomino Pugliese, o a quello piacentino Oi bella), la poesia italiana delle origini si arricchisce di una nuova testimonianza. La scoperta si deve al filologo Nello Bertoletti, docente di linguistica all’Università di Trento, che ne rende conto nel primo volume dei Quaderni delle Chartae vulgares antiquiores (Edizioni di Storia e Letteratura), e, sin dal titolo, ci esplicita genere letterario e dipendenza di questo componimento custodito sul verso dell’ultima carta di un codice della Biblioteca Ambrosiana.
Si tratta infatti di Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil, documento di una precoce ricezione della cosiddetta “alba provenzale”: uno dei generi più longevi e diffusi – teso a manifestare in versi l’amor sacro e l’amor profano – che trovò fra i maggiori interpreti il limosino Giraut de Borneil, lodato da Dante nel De vulgari eloquentia come «poeta della rettitudine» (giudizio però ridimensionato dallo stesso Alighieri nel Purgatorio).
Un primo elemento di novità circa questa ignota traduzione dell’alba di Giraut sta nella sua datazione. La versione scoperta infatti è stata vergata su una carta dove appare la data 1239: che per Bertoletti è stata scritta in un momento successivo alla trascrizione dell’alba, precedendo così di parecchi decenni i più antichi manoscritti del testo provenzale (l’alba di Giraut, infatti, è stata sin qui trasmessa da sei canzonieri, nessuno dei quali anteriore al XIV secolo).
Un secondo elemento si ritrova nell’area italiana di provenienza, localizzabile tra l’Oltregiogo ligure, le Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato, particolare che ne fa un documento autonomo rispetto anche alle testimonianze dei Siciliani e, per usare le parole di Bertoletti, «un notevole esperimento di trasposizione poetica dalla lingua d’oc in un volgare italoromanzo, compiuto in quell’area cisalpina occidentale, che ha conosciuto la prima e la più radicata acclimatazione della letteratura trobadorica».
Ma, questioni specialistiche a parte, fermiamoci un momento sul contenuto di questi venti versi, articolati in cinque quartine. Nonostante l’incipit orante «Aiuta de’, vera lus et gartaç, / rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz, / ch’a mon conpago sê la fedel aiuta. / E’ nun lu vite, po’ la note fox veiota» (“Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista la notte”), l’alba pare rappresentare un amore clandestino tra uomo e donna, fissando il momento in cui, prima del levare del sole, l’amante – avvertito da un “guardiano” al “cantare gli uccelli” e al primo “chiarore del cielo” – deve congedarsi dall’amata e fuggire.
Non pare però infondato ipotizzare qui interpretazioni meno mondane, cogliendo metafore spirituali. Come ha fatto – proprio per il testo di Giraut – un grande esperto di filologia occitana come Costanzo Di Girolamo. Sino a indicare dietro l’amico guardiano che si rivolge al «bè conpagnó» (il “caro compagno”), un angelo. Che reclama la leale compagnia («leà conpagia»), o meglio il ritorno della persona affidatagli. Che nella sua affermazione «ston en pagora nun l’om çiloso v’asaia» (cioè “ho paura che il marito geloso vi assalga”), in realtà si riferisce all’assalto del demonio.
Insomma qualcosa che ricorda la relazione fra l’angelo e l’anima descritto da san Bernardo, l’abate di Chiaravalle contemporaneo di Giraut de Borneil. E qui basterà qui ricordare con Di Girolamo che, se è dopo il Mille che l’eros si afferma decisamente quale luogo di conoscenza, di riconoscimento di Sé e dell’Altro, è pure questo il periodo in cui fra i teologi l’attenzione dal Padre si sposta verso il Figlio, l’Incarnazione: ovvero, per così dire, anche all’essere dentro il corpo.
IL TESTO
Aiuta De’, vera lus et gartaç,
rex glorïoso, segnior, set a vu’
platz,
ch’a mon conpago sê la fedel
aiuta.
E’ nun lu vite, po’ la note fox veiota.
[Bè] conpagnó, po’ me partì de vo’,
e’ nun dormì, ma stete [e]n çenoiion
et prega’ De’, lu fi’ santa Maria,
che me rendese ma leà conpagia.
Bè conpagon, dormì-vox o veià?
nun dormì tantu, ché lu çorno est
aproçato:
in l’orïento la stela n’è paruta
chi adux lu çorno, ch’e’ l’a’ ben
cognovuta.
Bè conpagnó, in ça[n]tare vox apelo:
sursé vos, ch’e’ òo canta[re] i oxele
chi van criiando lo ço[r]no per la
boschaça;
ston en pagora n[u]n l’om çiloso
v’asaia.
Bè conpagnó, fa’ vox a fenestrela
et rega[r]dé ver lo seren de celo:
porì savere s’e’ sun fêle conpag[no];
set sì nun fa’, vostre serà lo damaio.
LA TRADUZIONE
Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate (sii) il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto,
da quando si è vista la notte.
Caro compagno, da quando mi sono separato da voi io non ho dormito, anzi sono rimasto sempre in ginocchio e ho pregato Dio, il figlio di Santa Maria, che mi restituisse la mia leale compagnia.
Caro compagno, dormite o vegliate? Non dormite tanto a lungo, poiché il giorno si è fatto prossimo: in Oriente è apparsa la stella che reca il giorno, io l’ho ben riconosciuta.
Caro compagno, cantando vi chiamo: ridestatevi, poiché io odo cantare gli uccelli che vanno cercando il giorno per la foresta; ho paura che il marito geloso
vi assalga.
Caro compagno, affacciatevi alla finestra e guardate verso il chiarore del cielo: potrete sapere se io sono compagno fedele; se così non fate, vostro sarà il danno.
(traduzione di Nello Bertoletti)
2/ La lirica siciliana e la prima poesia amorosa in Italia, di Giovanni Fighera
Riprendiamo da La Nuova Bussola quotidiana del 22/11/2015 un articolo di Giovanni Fighera. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
In Italia la prima esperienza poetica in volgare riguardante temi profani nasce nel Sud e prende il nome di lirica siciliana. Non può essere considerata una vera e propria scuola, perché mancano un maestro riconosciuto e un manifesto che propone la poetica e i temi salienti del gruppo.
Senz’altro il poeta più significativo del gruppo è quel Giacomo da Lentini, che si firma con il nome di “Notaro” nei suoi componimenti, ricordato con questo epiteto anche da Dante quando nel canto XXIV del Purgatorio Bonagiunta Orbicciani riconosce la superiorità del Dolce Stil Novo rispetto alla lirica precedente: ««O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo/ che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne/ di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!»». In questi versi Giacomo da Lentini diventa addirittura rappresentante emblematico della lirica siciliana così come Guittone d’Arezzo è il più significativo poeta di quella siculo-toscana.
Oltre che per le poesie scritte, il poeta siciliano è ricordato anche come il creatore della forma metrica del sonetto. Costituito da due quartine e da due terzine, caratterizzato quindi da una brevità che ben si presta a piccoli quadretti o a rapidi squarci lirici o ancora a poche riflessioni, nei secoli successivi il sonetto diverrà la forma metrica più utilizzata. Nel Canzoniere del Petrarca su trecentosessantasei poesie addirittura trecentodiciassette sono sonetti.
La lirica siciliana nasce probabilmente tra il 1232 e il 1233, ovvero nei dieci mesi che Federico II trascorre in Sicilia, dopo essersi fermato a Treviso e aver attraversato la penisola. Proprio in quel soggiorno l’Imperatore sprona i propri funzionari, i notai, i giudici e le personalità della Magna Curia a farsi promotori della scrittura poetica sulla falsariga di quella provenzale. Per questo i poeti siciliani sono tutti personaggi impegnati nella corte, possono scrivere soltanto nel tempo di svago, libero dalle attività lavorative e delimitano il tema poetico soltanto all’amore, escludendo sia l’argomento morale che quello politico, entrambi, invece, presenti nella poesia provenzale.
Nei mesi del soggiorno in Sicilia Federico II conosce anche la nobildonna Bianca Lancia da cui nasce Manfredi, re di Sicilia dal 1258 che trova la morte giovanissimo nel 1266 a Benevento combattendo contro i Guelfi.
Proprio nel ristretto arco temporale, delimitato tra il 1233 e il 1266, trova spazio l’esperienza della poesia siciliana. Tra i suoi esponenti dobbiamo annoverare anche Pier della Vigna, Petrus de Vinea, segretario di Federico II, a conoscenza di tutti i segreti dell’Imperatore, se dobbiamo dar credito a Dante che lo colloca tra i suicidi nel canto XIII dell’Inferno. Accusato di aver congiurato contro l’Imperatore nel 1248, imprigionato e accecato, si darà la morte nel 1249, l’anno prima della morte di Federico II. Sarà la Commedia a ripristinarne la fama. Il discorso del segretario della Magna Curia federiciana, costruito con abile perizia retorica, trasmetterà l’impressione di una vera e propria perorazione tenuta di fronte a Dante, perorazione di cui il segretario non poté avvalersi in vita.
Tra gli altri poeti della lirica siciliana non possiamo dimenticare Giacomino Pugliese, che nel nome ci ricorda che a questo gruppo appartengono anche poeti provenienti da altre regioni del Sud Italia, e Stefano Protonotaro, primo notaio di corte, l’unico di cui ci sia rimasto un testo nel volgare siciliano, non toscanizzato. Il titolo è «Pir meu cori alligrari». Leggiamo solo la prima stanza per cogliere la distanza tra il siciliano colto e i testi toscanizzati giunti fino a noi: «Pir meu cori alligrari,/chi multu longiamenti/ senza alligranza e joi d’amuri è statu,/ mi ritornu in cantari,/ ca forsi levimenti/ da dimuranza turniria in usatu/ di lu troppu taciri;/ e quandu l’omu ha rasuni di diri,/ ben di’cantari e mustrari alligranza,/ ca senza dimustranza/ joi siria sempri di pocu valuri:/ dunca ben di’ cantar onni amaduri».
Tutti gli altri componimenti pervenutici sono toscanizzati: le vocali strette siciliane sono state riportate nel sistema di sette vocali che sarà tipico dell’italiano provocando quindi profondi cambiamenti al testo. Si pensi che la rima «amurusi/usi» in forma toscana viene trascritta «amorosi/usi». Nel tempo si diffonderà l’idea che i siciliani avessero resa lecita la rima imperfetta, che verrà per questo definita siciliana.
La canzonetta Meravigliosamente di Giacomo da Lentini è emblematica per capire alcuni dei caratteri fondamentali della lirica siciliana. Un amante timido e introverso è così travagliato per l’amore che prova nei confronti della donna amata che non riesce in alcun modo a comunicarle il suo sentimento e la guarda di nascosto. Può, però, dedicarsi alla contemplazione della figura della donna che porta impressa nel suo cuore. Rivolgendosi a lei, così scrive: «e quando voi non vio/ guardo ‘n quella figura,/ e par ch’eo v’aggia davante;/ come quello che crede/ salvarsi per sua fede,/ ancor non veggia inante». Il riferimento alla fede è formale e assolve il compito di elevare il linguaggio e il contesto in cui è avvolta l’immagine dell’amata, non ha di certo un valore religioso e sacrale.
Del resto, nella produzione siciliana la modalità di rappresentazione della donna è del tutto profana, la figura di lei è assai distante dalla donna-angelo che diventerà centrale nella poesia stilnovista. Il fuoco d’amore, nascosto nel petto del poeta, quanto più è tenuto nascosto nel cuore tanto più divampa. L’amore così diventa sempre più evidente all’esterno dai segni che l’amante porta impressi sulla sua persona. In accordo con la produzione provenzale precedente il poeta non tratteggia i lineamenti fisici della donna, apostrofata nei versi più volte con l’espressione «bella».
Soltanto nel congedo della canzonetta scopriamo che l’amante è da identificarsi nel Notaro: «Canzonetta novella,/ va’ canta nuova cosa;/ lèvati da maitino/ davanti a la più bella,/ fiore d’ogn’amorosa,/ bionda più c'auro fino:/ ”Lo vostro amor, ch’è caro,/ donatelo al Notaro/ ch'è nato da Lentino”». In linea con la tradizione cortese la donna ha i capelli biondi come l’oro, tratto che rimarrà caratteristico per molti secoli nella poesia occidentale e che sarà immortalato dal celeberrimo sonetto petrarchesco «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi».
Il poeta invita la canzonetta a recarsi dall’amata per raccontarle quell’amore che lui non riesce ad esprimerle a parole. Se la poesia provenzale mostrava tratti fortemente carnali, i versi siciliani esprimono un amore profondamente interiorizzato e deprivato della componente erotica. In un certo senso la visione dell’amata nella lirica siciliana si pone sulla linea di transizione tra la donna carnale provenzale e l’immagine spiritualizzata stilnovista.
Ad ogni modo l’amore di cui il poeta scrive non è certo rivolto alla moglie amata. La linea della tradizione cortese occidentale che approda in Italia alla poesia petrarchesca che avrà un’influenza decisiva sulla poesia d’amore e lirica fino a Leopardi e oltre, raramente canterà l’amore di un uomo per la propria moglie (fatte salve le eccezioni di Umberto Saba, di Eugenio Montale e di pochi altri). Ha preferito, in genere, raccontare o descrivere l’amore lontano, irraggiungibile, impossibile, o tormentato, ostacolato, reso difficile da mille impacci. Ha cantato l’amore per una donna che è già di altri, trascurando di soffermarsi su quell’amore quotidiano che permette di vedere tutti i limiti dell’altro, ma anche di abbracciarli con una tenerezza che tutto rispetta.
Si è allontanata, in genere, dal realismo nella descrizione dell’amore e si è fondata su quella che Leopardi definisce poetica del vago, dell’indefinito e della rimembranza. La rappresentazione realistica, pur tanto presente nella linea poetica e novellistica più popolare, o in monumenti della nostra letteratura come il Decameron o la Divina commedia, raramente sarà presa come modello da imitare nella tradizione illustre.
Riprendiamo da Avvenire del 7/5/2016 una lettera al direttore Marco Tarquinio con la sua risposta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Solidarietà e sussidiarietà.
Il Centro culturale Gli scritti (18/5/2016)
Caro direttore,
in questi giorni di dichiarazioni dei redditi e di pubblicità per avere l’otto per mille e il cinque per mille, mi hanno colpito gli spot che vengono mandanti in onda. Mi hanno colpito quelli della Chiesa Cattolica, e, soprattutto, quello della Chiesa Valdese. Risulta evidente il tentativo di coinvolgere e dare emozioni allo spettatore contribuente mostrando immagini di povertà e deprivazione della persona, verso la quale sarebbero convogliati i proventi della scelta di destinazione. Scelta giusta e, da parte mia, condivisibile. Però, le istituzioni religiose da sempre si sono occupate anche del culto a Dio, oltre che del soccorso all’uomo che soffre. Personalmente provo un certo disagio nel constatare che ormai l’unica modalità pubblica e politicamente corretta di essere cristiani sia devolvere una parte del proprio denaro e tempo al pronto soccorso delle persone indigenti, quasi fosse una vergogna impegnarsi a tutti i livelli nelle liturgie e nelle devozioni tradizionali popolari. Il vertice, a mio parere, è raggiunto dallo spot della Chiesa Valdese, che specifica inequivocabilmente che «Non un solo euro sarà usato per il culto». Cordiali saluti.
Renato Ceres, Reggio Emilia
Per la verità, caro signor Ceres, sono tra quanti apprezzano gli spot che in pochi attimi consegnano il senso della vasta e articolata opera di bene che grazie all’otto per mille (e, su un piano diverso e con diverse modalità, grazie al cinque per mille) di tutti noi contribuenti viene realizzata in Italia e nel mondo. E sono orgoglioso - lo so che non ce lo diciamo spesso… - di essere cittadino di un Paese che si è dato e ci ha dato questi strumenti per indirizzare risorse al servizio di un «bene comune» che non è solo materiale e che, comunque, non coincide con l’azione esclusiva dello Stato.
Detto questo, con il massimo rispetto per scelte e sensibilità altrui, ammetto di fare fatica anche io, proprio come lei, a capire la "garanzia" contenuta nella frase «Non un solo euro sarà usato per il culto». Come se le «spese per il culto» fossero un lusso, un impiego insensato e antireligioso di fondi che lo Stato saggiamente destina alle Chiese e alle confessioni religiose che "abitano" il nostro Paese e concordano sui valori fondanti - e infatti scolpiti nella Costituzione - della convivenza civile.
Ma c’è anche un risvolto per così dire pratico delle «spese di culto» che è stato efficacemente sottolineato, pochi giorni fa, dal vescovo Nunzio Galantino. «Vorrei ricordare - ha detto il segretario generale della Cei in un’intervista a Radio Vaticana - che nelle "spese di culto" vanno contemplati i tanti cantieri di edilizia di culto, e di restauro dei beni culturali. Sa quanti sono i cantieri aperti oggi? 920! Migliaia di persone mantengono la loro famiglia, lavorando in questi 920 cantieri. Vengono conservati, custoditi e resi fruibili veri e propri tesori di arte e di cultura altrimenti destinati ad andare in malora. Vengono, poi, costruiti luoghi di aggregazione. Se si spiegasse bene che "spese di culto" sono anche queste, forse la gente capirebbe meglio quanto pretestuose siano certe prese di posizione di chi identifica il culto con l’incenso e le candele...». Anche per questo quella frase – «Non un solo euro sarà usato per il culto» – non mi suona proprio.
Tra l’altro, anche se non penso che fosse questa l’intenzione di chi ha costruito l’espressione, essa finisce per mettere in competizione l’amore per Dio con l’amore per i fratelli e soprattutto per i poveri, mentre per tanti credenti, e in particolar modo per i cristiani, quei due amori sono uno stesso amore. In ogni caso "culto" non è una parolaccia, non evoca atti disdicevoli. Culto, direi, è il gesto di amore, di devozione e di fedeltà che il credente offre a Dio. Da un punto di vista cristiano è la Memoria che aiuta a sperimentare la contemporaneità con Gesù e che insegna riconoscerlo nel volto di ogni uomo e di ogni donna e, appunto, a servirlo nei poveri, nei piccoli, nei deboli. «La Chiesa non è una Ong», ci ha avvertito spesso papa Francesco, che pure ci invita incessantemente a dare concretezza e solare continuità alla scelta preferenziale per i poveri, «carne di Cristo». E anch’io, che come tanti altri sono stato educato a considerare ogni gesto di carità una preghiera vissuta e non solo detta, continuo a intendere questo insegnamento del Papa come un appello a non "disanimare" l’impegno con gli altri e per gli altri, schiacciandolo su una terra senza più cielo e riducendolo a pura meccanica del soccorso e della restituzione sociale. Compiere atti di giustizia e di bontà è però indubbiamente un modo per «rendere culto a Dio», sul piano della testimonianza pubblica è forse "il" modo. San Giovanni Paolo II ci ha ricordato, e dimostrato, quanto sia vero che alla Chiesa intera e a ognuno di noi che si dice credente «gli uomini del nostro tempo chiedono non solo di parlare di Cristo, ma di farlo loro vedere».
Riprendiamo sul nostro sito, la relazione tenuta dal prof. Carlo Cardia presso il Senato della Repubblica nella Sala Koch in occasione del Convegno del 5 maggio 2016 “Libertà religiosa, diritti umani e globalizzazione” che ha visto la partecipazione, fra gli altri, del presidente emerito Giorgio Napolitano, del presidente del Senato Pietro Grasso, del prof. Giuliano Amato, del ministro degli esteri Paolo Gentiloni e del Segretario di Stato di papa Francesco cardinale Pietro Parolin. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per uteriori testi dell'autore, cfr. il tag carlo_cardia. Cfr. anche la sotto-sezione La libertà religiosa e le persecuzioni delle minoranze.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
Un giovane fondamentalista islamista arrestato sul cui cellulare sono
state trovate foto nelle quali mostra il dito medio dinanzi ad
un poster che ritrae Malala Yousafzai,
da La Repubblica, edizione barese, del 10/5/2016
PREMESSA
Non mi soffermo sulle motivazioni che sono alla base di questo nostro Convegno. Segnalo solo il consenso immediato registrato da Giuliano Amato e da me quando abbiamo interpellato i diversi interlocutori. Un consenso che deriva in primo luogo dalle notizie scioccanti che da tempo ci giungono per la violenza, gli atti di terrorismo, le persecuzioni che si abbattono in diverse aree del mondo, e in Europa, contro persone, gruppi, popolazioni intere, per motivi di religione. E quindi dai cambiamenti epocali cui stiamo assistendo avendone una percezione limitata. Il consenso s’è riversato sull’obiettivo del Convegno, che è di riuscire a gettare uno sguardo lungo su questi eventi, interrogarci sul loro significato: siamo di fronte ad uno dei tanti sussulti storici dei rapporti tra Stato e Chiese, o ad un forte arretramento, un regresso rispetto a una delle conquiste più preziose del cammino dell’umanità, la libertà religiosa, uno tra i traguardi decisivi dell’epoca dei Diritti umani del Novecento.
Voglio, all’inizio, offrire una breve riflessione storica, perché la libertà religiosa si afferma in Occidente attraverso un lungo cammino di cui conserviamo tracce vistose, anche se a volte non ce ne accorgiamo. Un cammino che raggiunge il punto più alto con le Dichiarazioni dei diritti umani del Secondo Novecento, dopo che l’inferno dei totalitarismi aveva provocato quasi un deserto culturale e spirituale in Europa, e la libertà religiosa diviene diritto universale, valido per tutti gli uomini e i popoli.
IL CAMMINO VERSO LA LAICITA’ DELLO STATO.
L’affermazione della libertà religiosa non è opera esclusiva del legislatore, sia pure illuminato, né riguarda solo i rapporti con le Chiese. È frutto di un complessivo progresso della civiltà, investe le Chiese e la loro evoluzione, nonché l’assetto dello Stato a cominciare dai diritti di libertà e cittadinanza riconosciuti a tutti, il diritto alla conoscenza che eleva la cultura della persona.
L’evoluzione storica inizia con il cristianesimo che crea istituzioni religiose per la prima volta autonome rispetto a quelle civili, quando la cultura giudaico-cristiana proclama che lo Stato non è onnipotente ma deve fermarsi di fronte alla coscienza dei cittadini. Si rovesciano i valori della società antica. La religione si spiritualizza, l’uomo di rivolge a Dio con la mente e la parola, non sacrifica più esseri viventi, sono bandite le attività che uccidono esseri umani, si tutela la vita sin dagli inizi, si radica il matrimonio monogamico. Infine, s’introduce il più grande ideale: il principio di eguaglianza di tutti gli esseri umani fatti a somiglianza di Dio che impegnerà secoli di storia per realizzarsi. Gli apostoli Pietro e Paolo portano a Roma la voce di una Chiesa che si rivolge a tutte le genti, con un messaggio universale che non conosce confini se non quelli dell’umanità. Inizia così la trasformazione del mondo, la religione invoca l’autonomia dell’ordine spirituale da quello temporale, pone le basi per una cultura europea comune. Libertà religiosa e Stato laico Stato non sono solo assenza di costrizioni (con quel che accade oggi, questo dato, introdotto dall’editto di Costanttino, sarebbe una grande conquista per tutti noi), ma frutto di un grumo di valori che ebraismo e cristianesimo introducono nella società antica, sancendone la fine.
Questo cammino conosce evoluzione e regressi, traguardi e insuccessi, fino alle soglie della modernità. Quelle che ho richiamato sono, infatti, le radici più nobili e antiche della libertà di coscienza e della laicità dello Stato, ma altre radici sono più ruvide, drammatiche, risalgono alle guerre di religione che sconvolgono l’Europa nella modernità. Il cristianesimo ha già costruito l’uomo europeo, l’ha reso adulto, ha fatto lievitare i suoi talenti. Gli studi di grandi storici come Christopher Dawson, Paul Veyne, Jacques Le Goff, hanno portato alla luce questa costruzione dell’Europa cristiana in tutte le sue implicazioni etiche, giuridiche, di costume. Ma proprio l’Europa adulta non accetta e non metabolizza in un superiore quadro pluralista le divisioni che scaturiscono dalla Riforma del XVI secolo, le respinge e le esorcizza in un caleidoscopio di guerre e persecuzioni che mettono a ferro e fuoco le terre tedesche, si allargano a quasi tutta l’Europa, si depositano come una delle peggiori eredità della storia del nostro continente.
Per questa sciagurata eredità tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, gli Stati, le Chiese e i loro esclusivismi, gli egoismi di Dinastie e Regnanti, ma certo sono state guerre di religione, e dimostrano (oltre il proprio orizzonte temporale) che la religione può essere fonte di divisione tra gli uomini, di violenza contro chi la pensa diversamente. Le guerre di religione provocano danni mai del tutto esauriti, perché conficcano nell’animo europeo una logica amico-nemico che supera a un certo momento la dimensione confessionale, s’insinua, si sedimenta e avvelena la modernità in tanti campi dell’agire umano, anche nella lotta politica che diviene sempre più aspra, a tratti apocalittica. E l’avvio della tolleranza, poi della libertà religiosa, è lento, inizia con un balbettio, pieno di limitazioni, passa attraverso la pace di Augusta del 1555 e di Westfalia del 1648.
Rispetto all’età della violenza, Westfalia è una porta che si apre sul futuro, ma reca con sé i veleni del passato: determina la grande spartizione confessionale della società, stabilisce il principio del cuis regio eius et religio che permette a ciascun sovrano, ciascuno Stato, di reprimere ciò che vuole in casa sua, entro i propri confini, pur rispettando i Trattati e le norme internazionali. La violenza si attenua, ma si radica l’idea che la religione è instrumentum regni, sostegno del potere. Per essa e con essa si reggono gli Stati, si fa politica, la persona conta poco, a essa spetta obbedire.
LA RIVOLUZIONE DELLA LAICITA’. I TOTALITARISMI, LA TERRA PROMESSA DEI DIRITTI UMANI
Sempre più anacronistico diviene questo diritto dello Stato di reprimere ciò che vuole, e solo un’autentica rivoluzione può segnare il passaggio dalla tolleranza alla libertà religiosa. La rivoluzione inizia sulle due sponde dell’Atlantico con la formazione delle prime grandi democrazie della modernità, quella americana e quella francese, e con due grandi luci che affermano i principi universali della libertà religiosa e della laicità dello Stato: lo Stato è la casa comune per tutti, e tutti sono liberi di coltivare la religione e le opinioni che preferiscono, anche perché la qualità di fideles non incide più sulla vita pubblica.
Attenzione, non solo l’uomo è libero, ma ha diritti che riguardano la sua crescita nell’istruzione, nella cultura, nel lavoro, nella vita familiare. Quindi, la libertà religiosa non è mai variabile indipendente di un ordinamento che per il resto va per conto suo, è il tassello decisivo di un progetto più ampio costellato dei primi diritti umani. Insomma, è una svolta che dà un’anima alla modernità, perché dove c’è libertà religiosa e laicità cresce la libertà di pensiero, di cultura, cresce la dignità umana, e viceversa.
Il cammino di questo Stato laico non è lineare, segue due strade diverse. La strada più ampia, tracciata dalla cultura anglosassone, e di matrice americana, con il pensiero di Roger Williams e di John Locke, in cui la religione è libera insieme a tante altre cose, anima la società, sostiene l’uomo. E c’è la strada più stretta, quella illuminista ed europea, dove si annidano i germi di una malattia, erede di quella logica amico-nemico che vive, si nasconde, alimenta in Europa la cultura del razzismo e di quella vera e propria malattia dell’animo che è l’antisemitismo, del dominio degli uni sugli altri. Questa logica amico-nemico, di cui non ci siamo mai liberati del tutto, si accumula e produce la catastrofe dei totalitarismi che con il comunismo al potere propone per decenni le peggiori persecuzioni religiose, con il fascismo inaugura un nuovo strumentalismo confessionale soprattutto nei Paesi cattolici.
Torna, nella Russia staliniana l’avversione totale alla religione, alle religioni, che provoca persecuzioni delle Chiese (in specie, quella Ortodossa) fino al loro annientamento. Si realizza nell’orrore del nazismo la shoa che annienta un popolo, quello ebraico, la cui religione e cultura è a fondamento della nostra civiltà e identità spirituale.
Voglio ricordare quasi un apologo di questa logica amico-nemico, che però è un evento realmente accaduto, ma forse conosciuto da pochi. Nella notte del 4 settembre 1943, alcuni metropoliti della Chiesa ortodossa russa furono prelevati dalla polizia segreta e condotti al Cremlino. Essi pensarono, naturalmente, fosse giunta la loro ultima ora, perché fino ad allora la repressione staliniana aveva quasi annientato la Chiesa ortodossa con una persecuzione che dette vita ad un martirologio ortodosso senza fine, aveva eliminato il Patriarcato, chiuso la gran parte delle Chiese, messo a morte una parte consistente del clero. Invece, i metropoliti sono condotti alla presenza di Stalin e di Molotov, sono trattati e intrattenuti a lungo con molto garbo e affabilità, e Stalin si mostra interessato a conoscere le condizioni della Chiesa Ortodossa, incoraggia i metropoliti a ricostituire il Patriarcato, riaprire le Chiese, qualche seminario e andare in mezzo al popolo. Propone, insomma, la ricostituzione della struttura ecclesiastica, e le sue promesse di Stalin sono in parte mantenute. Finiscono le persecuzioni più violente, si riaprono numerose Chiese, si ricostituisce il Patriarcato, si svolge un solenne Concilio nel 1945, e il Patriarca fu insignito di decorazioni sovietiche.
Cosa era successo? Stalin, il grande persecutore, sapeva che l’anima russa era rimasta profondamente cristiana e ortodossa, voleva che la Chiesa svolgesse di nuovo le sue funzioni essenziali per sorreggere, animare, le popolazioni contro l’invasione hitleriana che stava facendo terra bruciata. Il grande persecutore, come spesso avviene nella storia, comprende che non avrebbe vinto contro la religione, cerca di mostrarsi amico dell’ortodossia, riservandole naturalmente una condizione di “ordinario totalitarismo” che dura quanto dura il comunismo. Per sé l’episodio sembra uscito da una pagina di Kafka, se pensiamo all’atmosfera irreale e allucinata dell’incontro al Cremlino, ma anche da una pagine di Dostoevskij se pensiamo al tumulto di pensieri e sentimento dei metropoliti portati alla presenza di Stati. Due esponenti di una Chiesa martire si trovano di fronte al gran persecutore che stende la mano quasi in segno di amicizia. Il senso dell’apologo? Questa è spesso la condizione della Religione, inerme di fronte ai persecutori che portano al martirio, blandita a volte da chi vuole utilizzarla per fini propri. Ma alla fine è più forte di tutti perché la fede è un fiume carsico che non si estingue.
Noi abbiamo avuto questa storia, siamo figli di questa storica, ed evoluzione, in cui si mischiano e si alternano i principi più nobili della libertà religiosa e della laicità dello Stato, e quelli più aspri della guerra alla religione, della guerra all’altro, della logica amico-nemico portata allo stremo.
Il multiforme inferno dei totalitarismi, nei quali l’uomo riesce a macchiarsi di tutte le colpe immaginabili contro i propri simili, e ne inventa di nuove in termini di ferocia, crudeltà, personale e collettiva, ha un effetto imprevisto: sconvolge l’Occidente, provoca una catarsi delle coscienze, illumina il passato di una nuova luce, spinge tutti i protagonisti a un esame di coscienza radicale, spinge, secondo le parole di Hannah Arendt ad una nuova legge sulla terra, ad un Nuovo Sinai, nel quale i diritti umani dispiegano la propria forza e vengono proclamati come diritti universali. Sembra quasi realizzarsi il sogno Kantiano sulla Pace perpetua, segnato però non dall’assenza di guerra ma dalla crescita di tutti gli uomini. Le Chiese cristiane, quella cattolica in particolare con il Concilio Vaticano II e la grande opera riformatrice di Paolo VI, il più grande papa riformatore della modernità, cancellano antichi errori, si aprono agli altri, diventano protagoniste dei diritti umani, costruiscono con gli altri soggetti sociali e politici l’Europa, unita dopo secoli.
Per decenni, le nuove Costituzioni, le Carte internazionali dei diritti umani, trasformano l’Occidente nelle terre della tolleranza e della libertà religiosa. Al punto che quando nell’’89 cade il Muro di Berlino, e con esso il comunismo, in pochi mesi, quasi d’incanto, si ricostituisce nell’Est europeo un primo tessuto di norme, istituzioni, strutture, che riattivano le libertà fondamentali e prende slancio l’unità dell’Europa basata sui principi fondativi del secondo dopoguerra e su una identità più antica. Leggiamo bene le Carte dei diritti umani. V’è scritta l’immagine di un’umanità stremata, ma pacificata, di un ordinamento internazionale che s’apre a tutti i popoli, che non concede privilegi ma libertà, eguaglianza dei culti e d’opinioni in ambito religioso, eguaglianza dei cittadini, a cominciare dalla parità tra uomo e donna. Non sono diritti autonomi gli uni dagli altri, costituiscono un insieme nel quale libertà religiosa e laicità dello Stato sono parti non separabili. Sono le carte della speranza, ci dicono che gli eventi della storia precedente non sono inutili, hanno costituito tappe di un cammino che giunge ora, nel secondo Novecento, nella terra Promessa della società dei diritti per tutti gli uomini. Sembra che gli uomini abbiano bisogno, ogni tanto, di credere di aver raggiunto traguardi definitivi.
Nascono qui, in questa temperie culturale i rapporti di reciproca fiducia tra Stato italiano e Confessioni religiose, che hanno portato a un nuovo Concordato, a oltre 10 Intese con i culti, a tante relazioni a livello centrale e locale tra istituzioni pubbliche e istituzioni religiose.
LE NUOVE SFIDE. IL SECOLARISMO SENZA ETICA.
Tuttavia, proprio quando con i diritti umani e la caduta del comunismo, Europa e Occidente raggiungono il punto più alto di realizzazione dei valori di laicità e di libertà religiosa, si manifestano i sintomi di nuovi malesseri, nuove sfide, che prendono corpo sul crinale dei due millenni, sono oggi in pieno svolgimento. Da un lato si affaccia la sfida di un secolarismo senza confini che detta una nuova definizione di laicità, estende l’indifferenza dello Stato alla dimensione etica; e dall’altro con la globalizzazione si mischiano per la prima volta sotto i nostri occhi (e nelle nostre terre) le epoche della storia, e insieme popolazioni, tradizioni e religioni che fino ad oggi avevano vissuto lontane le une dalle altre. Sono sfide diverse, asimmetriche, ma entrambe finiscono per mettere in crisi quegli equilibri che avevamo raggiunto dopo un’evoluzione storica così intensa, e mettono a rischio alcuni diritti umani che costituivano il vanto di un Occidente aperto ai valori dell’eguaglianza e dell’universalismo.
La sfida del secolarismo non investe i temi classici delle relazioni ecclesiastiche, è più sottile, meno visibile, coinvolge quell’intreccio tra antropologia, scienza e religione, incide su un tessuto etico di base che alcuni vogliono liquidare. Oggi non esistono più i grandi conflitti religiosi che facevano cadere governi, o rafforzavano regimi con la religione le grandi proprietà ecclesiastiche, la scuola, il matrimonio. Pensiamoci un attimo. Dove troviamo più la grande proprietà ecclesiastica che possedeva il 30-40 per cento del patrimonio immobiliare nazionale? Oggi, gli istituti di vita consacrata hanno il problema opposto, non hanno più religiosi sufficienti per la custodia e la cura di grandi spazi, non hanno risorse per la manutenzione degli immobili, spesso devono alienare quello che resta loro di antiche proprietà. Alcuni enti sono l’ombra del passato, con una patologia che s’è immiserita anch’essa. Oggi alcuni enti accettano eredità che creano problemi, esercitano attività che spesso vanno incontro al fallimento. E qui una riflessione va fatto, perché alcuni religiosi o ecclesiastici si trasformano a volte in manager, ma spesso falliscono, perché il prete-manager non funziona, è un ossimoro.
In realtà, i veri enti ecclesiastici sono altri, quelli territoriali che hanno cura d’anime, anche cura d’anime per i nostri militari impegnati nelle missioni di pace nel mondo, sono quelli che assistono moralmente, spesso materialmente, i poveri che aumentano, gli immigrati e gli abbandonati che non hanno nulla, e trovano nelle strutture religiose assistenza, cura, sostegno. Sono gli enti delle Chiese pentecostali che assistono le vittime di Boko Haram, gli enti ebraici che assistono gli anziani e le persone in difficoltà, luterani che assistono i rifugiati e i minori, quelli avventisti che difendono dall’usura, la Caritas che assiste tutti. Questi enti non falliscono mai, sono anzi l’asse portante di uno Stato laico, laico e solidale con i deboli e con le religioni.
I problemi veri della libertà religiosa sono oggi quelli della tenuta etica della società, la formazione delle nuove generazioni, l’attenzione ai più deboli, a cominciare da chi nasce e chiede di avere i propri genitori, l’impegno contro nuove umiliazioni delle donne. Sono quelli di una società che sappia resistere nei confronti di una cultura che diffonde egoismo e individualismo a piene mani, con ripercussioni sulla famiglia, sul rapporto con gli altri, sulla solidarietà necessaria per tenere insieme una società complessa come la nostra. E il secolarismo sta facendo terra bruciata nei confronti di ogni concezione etica, di ogni impegno che renda migliore la persona. Siamo di fronte ad un vortice culturale che inghiotte tutto, che teorizza il politeismo etico come l’altra faccia del politeismo religioso realizzato dall’illuminismo. Il punto filosofico deriva da un vortice di postulati di sapore dogmatico. Per H. Tristan Engelhardt, “il politeismo della post-modernità è il riconoscimento della radicale pluralità delle visioni morali e metafisiche”; analogamente per Maurizio Mori, il pluralismo etico è sinonimo di pluralismo religioso, che s’è “affermato con la Riforma”. Charles E. Larmore compie un passo decisivo quando afferma che l’uomo non deve più realizzare una vita buona, come dice Aristotele, perché una vita vale l’altra, mentre Max Charlesworth individua il valore supremo nella volontà individuale del singolo che agisce come sovrano di sé stesso. L’esito è inevitabile, e Umberto Scalpelli può affermare che l’etica è al di là del bene e del male perché “nell’etica non c’è verità. I valori di vero e falso convengono alle proposizioni del discorso destrittivo-esplicativo”, non hanno nulla a che vedere con l’etica che di fatto non c’è più.
E’ l’esatto contrario di ciò che la tradizione filosofica occidentale ha elaborato da Aristotele a Kant, passando per il rigoroso cammino illuminista, il pensiero liberale contemporaneo, le tradizioni religiose. Ne deriva un laicismo estremo, che priva l’individuo, la società, lo Stato, di quell’afflato proprio della tradizione anglosassone, cancella l’eredità americana, riconduce la religione alla fenomenologia di sottoprodotti delle società arretrate. Infatti, essa può essere espunta dalla società, criticata, beffata, irrisa, fino allo stremo, all’inverosimile: al diritto di libertà religiosa si sostituisce il diritto alla blasfemia. E’ una crisi interna alla nostra cultura occidentale, che provoca i primi segni di regresso rispetto alle Carte internazionali. La libertà religiosa è sempre stata fonte di cultura, dialettica, confronto, e la prima base di ogni autentica democrazia. Dove non c’è libertà religiosa, si appanna la ricerca del vero, del giusto, prevale il pensiero unico. Parafrasando Tocqueville se una vera democrazia ha bisogno della religione, la libertà religiosa non esiste se non c’è vera democrazia. Ma Tocqueville è una delle prime e più illustri vittime del secolarismo a-etico. E quando parlo di etica, parlo di cose attualissime, della corruzione che cresce nel vuoto dei valori, dell’egoismo che rifiuta gli altri, di un degrado di cui abbiamo notizia tutti i giorni.
Non oso pensare, come professore anziano, cosa diverrebbe l’educazione delle nuove generazioni privata d’ogni base morale. Comporterebbe, in primo luogo, la liquidazione dell’intera tradizione pedagogica e umanistica che, in un contesto pluralista, ha animato la classicità, il pensiero cristiano, il liberalismo moderno, una specie di cupio dissolvi rivolto contro uno dei più preziosi patrimoni della cultura europea e occidentale. E poi, per i nostri giovani vorrebbe dire privarli del più grande mezzo di crescita individuale e collettiva a loro disposizione: la ricerca libera e positiva del bene e della vita buona, che ogni persona sviluppa per realizzarsi secondo le proprie inclinazioni e doti naturali. Dire a un giovane che può fare ciò che vuole perché l’etica non esiste, non contiene verità, vuol dire spegnere la luce proprio quando la vita gli si apre davanti. Dirgli che è inutile costruire una vita buona, come diceva Aristotele, significa negargli il futuro mentre questo ha inizio, togliergli la capacità di cercare e di fare il bene, il bello, realizzarli per sé e per gli altri.
ALTRI SEGNI DI REGRESSO. ANTISEMITISMO, GUERRA AI SIMBOLI RELIGIOSI
Guardiamo da vicino altri tasselli di questo regresso, un declino che si manifesta a tratti, e che spesso non vediamo. E’ riemerso, ma forse non s’era era mai consumato, l’antisemitismo, questa autentica malattia dell’animo umano, che l’uomo però ha inventato e alimentato prima con l’antigiudaismo (di cui molte chiese portano responsabilità), poi con le ideologie razziste che nella modernità hanno portato all’olocausto, a infinite persecuzioni in tante parti d’Europa. Molti della nostra generazione, ritenevamo che l’antisemitismo fosse stato sconfitto dopo aver fatto tutto il male possibile, il male assoluto. L’espiazione di questa colpa sembrava aver purificato l’umanità, fatto evolvere le Chiese, ridando all’ebraismo quel ruolo che gli spetta nella nascita, nella storia, nella identità della nostra civiltà.
Non è così. Attraverso dimenticanze interessate, ambigue distinzioni/confusioni politiche tra israeliani ed ebrei, nuovi vessilli antisemiti sbandierati su vaste aree del Medio Oriente, tante, troppe cose, permettono a questa malattia di mettere nuove radici in culture politiche di diversa estrazione della nostra società. Lo denunciano da tempo intellettuali come Alain Finkielkraut, Bernard Kouchner, Georges Bensoussan, Harold James, che richiamano l’attenzione sul perdurare di una radice antisemita che resiste in Europa nonostante i progressi civili, culturali, dei diritti umani. Fa male nel profondo sentir dire che stiamo in un’epoca post-hitleriana, ma “gli ebrei hanno il cuore affaticato, per la prima volta dopo la guerra hanno paura”; stringe il cuore vedere le nuove forme acquisite dall’antisemitismo, in un certo orizzonte multiculturale, e verificare che la perdita della memoria della shoa può diventare un male oscuro per le nuove generazioni.
Un altro segno di regresso lo ritroviamo nella guerra ai simboli religiosi che da tempo viene fatta in ordinamenti che sentono ancora il fascino di quella corrente illuministica che vede nella religione un versante negativo della storia. Io non voglio parlare molto della guerra ai simboli, la considero una malformazione secondaria della tradizione separatista europea, ma indico due aspetti che fanno riflettere. La strada intrapresa in alcuni Paesi ha portato a risultati paradossali, al limite dell’autolesionismo culturale. In Francia s’è giunti al punto di proibire il velo, il crocifisso, la stessa di David e ogni altro simbolo religioso, a scuola e perfino nelle gite scolastiche, si inibisce a funzionare pubblici di partecipare a riti dai quali possa arguirsi la loro scelta religiosa. L’insegnamento scolastico è stato a tal punto privato di contenuti religiosi, che un Rapporto commissionato dal Governo (1989), e steso da Philippe Joutard, ha denunciato l’ignoranza di ragazzi e ragazzi su aspetti centrali della storia dell’arte, della cultura. Visitando il Louvre, dice Joutard, molti giovani hanno chiesto alle insegnanti chi fossero tutte quelle Babysitter con il bambino in braccio che figurano nelle grandi opere dell’arte figurativa; oppure, vedendo il San Sebastiano del Mantegna nella posa classica del martirio, hanno creduto che le frecce che lo colpiscono provenissero dagli Indiani d’America. Sembra uno scherzo, è una cosa tremendamente seria.
Inoltre, poiché l’Italia ha vinto la sua giusta battaglia per salvare la presenza del Crocifisso nella nostra scuola che è aperta a diverse presenze confessionali e ideali, pensiamo alle conseguenze che avrebbe avuto, o avrebbe, l’oscuramento del simbolo della Croce in Europa. Nel 2010 lo capirono subito molti Stati europei, a cominciare da quelli dei Paesi nordici, che videro messa a rischio la presenza della Croce nelle scuole, nelle bandiere nazionali, in riti e cerimonie pubbliche, e sostennero così (insieme con i Paesi a tradizione ortodossa) le tesi dell’Italia di fronte alla Grande Chambre, ottenendo una sentenza equilibrata e saggia. Ma farei un’altra riflessione: osteggiare il simbolo della Croce in Europa, spegnerlo in ogni spazio pubblico, senza criterio e ragione, ci ricondurrebbe a una dimensione provinciale, ci farebbe perdere quell’ispirazione universalista che ha prodotto storia e cultura per secoli, quella capacità di parlare agli altri, che ci ha reso attivi a livello planetario: pensiamo per un attimo di estendere la guerra ai simboli di altri continenti, abbattiamo in tutta l’Asia le statue di Buddha, o i segni dell’induismo, spegniamo in America Latina i simboli delle sue tradizioni, nel resto d’Occidente i segni ebraico-cristiani, Dieci Comandamenti, Bibbia, Croce. Pensiamoci, compiremmo il più ottuso atto di oscuramento religioso e culturale che si possa immaginare contro le radici e tradizioni cui s’ispira ciascun popolo. Un qualcosa di cui vergognarci davvero.
Facciamo un’altra riflessione. In Italia non abbiamo mai fatto nessuna guerra al velo, ad alcun simbolo, e non abbiamo avuto alcuna tensione sociale. E d’altra parte, come faremmo noi a fare guerra ai simboli religiosi se nella nostra storia, nell’arte, nelle nostre città e paesi, ne abbiamo conosciuti e conosciamo a decine e centinaia? Se guardo alla mia infanzia vedo un mondo simboli, anche negli spazi pubblici, dai frati con sai d’ogni colore, ai diavoli dei giudizi universali, agli angeli che riempievano un immaginario collettivo, a sculture e opere d’altre d’ogni tipo, alle suore c.d. “cappellone”, sui cui cappelli noi bambini lanciavamo piccoli aeroplani di carta. Se pensiamo alla nostra esperienza possiamo renderci conto che il pluralismo, anche nei simboli religiosi, porta tolleranza, accoglienza, soprattutto libertà.
IL MISCHIARSI DELLA STORIA, IL CONFONDERSI DI RELIGIONI, POPOLI, CULTURE
A questa crisi interna della laicità corrisponde una crisi esterna determinata da quel mischiarsi delle pagine della storia, delle popolazioni, delle religioni e delle culture, che è in pieno svolgimento e segnerà le generazioni future, inciderà più d’ogni altro evento sull’evoluzione delle nostre società. Noi non abbiamo piena consapevolezza di questo processo senza precedenti (salvo esempi storici limitati nel tempo e nello spazio), che ci porta a contatto diretto con costumi, tradizioni, religioni, che conoscevamo solo tramite i libri di storia e geografia, ma che oggi vediamo affermarsi e radicarsi nel nostro habitat, nei nostri ordinamenti, che hanno storia diversa ed hanno raggiunto diversi livelli evolutivi. E’ come se un’epoca storica entrasse improvvisamente in un’altra, o viceversa, e facesse incontrare nella stessa polis popolazioni distanti e lontane nel tempo.
Per comprendere il carattere inedito della sfida del multiculturalismo voglio collegarmi all’analisi svolta da Henri-Benjamin Constant nel celebre saggio del 1819 sulla libertà degli antichi e la libertà dei moderni. Noi stiamo forse agli inizi di un confronto tra la libertà religiosa tipica degli antichi perché legata all’identità del gruppo, alla sua tutela ed espansione, che limita i confini della cittadinanza e non riconosce la libertà della persona che è parte del gruppo, e la libertà religiosa dei moderni che è apertura, dialogo, movimento, universalismo, dilata il concetto di cittadinanza peri ricomprendervi i diritti umani, l’eguaglianza tra le persone, tra uomo e donna dentro e fuori la famiglia.
Il riferimento alla lettura profetica di Benjamin Constant dei fatti del suo tempo, ci aiuta a non perderci in polemiche spicciole o micro-conflittualità quotidiane, a guardare invece ai macrofenomeni che ci coinvolgono direttamente. Ci aiuta anzitutto a dare risposta ragionevole a chi prevede, e non riesce a parlar d’altro, uno scontro tra civiltà, evocando conflitti del passato, senza valutare che una cosa del genere oggi porterebbe a un unico risultato, far scoppiare il pianeta senza che prevalga una civiltà ma s’abbia solo un declino senza fine.
Guardiamo alle contraddizioni vere, che possiamo individuare, tra libertà degli antichi e libertà dei moderni, e facciamolo in spirito di verità, senza pregiudizi. Il concetto stesso di libertà religiosa che la nostra tradizione liberale (di matrice illuminista, anglosassone, o d’altro genere) riconosce la dignità della persona, il diritto della coscienza di conoscere, cercare, farsi un’opinione, scegliere e mutare, appartenenza e religione. I nostri Maestri, storici e giuristi, Francesco Ruffini, Carlo Arturo Jemolo, Pietro Agostino d’Avack, hanno radicato nella cultura italiana questa concezione della libertà religiosa che viene dalle grandi correnti del pensiero moderno. La libertà degli antichi non ha questo spessore, è riduttiva, prevede una scelta che si cristallizza, un’appartenenza che limita la cittadinanza, non permette il mutamento, o lo consente a prezzo di isolamento, anatemi, o qualcosa di peggio. Torneremmo a qualcosa di molto brutto che abbiamo conosciuto in passato, daremmo un colpo mortale al principio stesso di libertà religiosa come definita nelle Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Il passaggio successivo può essere esiziale. Perché con il prevalere della libertà religiosa degli antichi, l’appartenenza confessionale tornerebbe a limitare gli spazi della cittadinanza, oggi aperti ed eguali per tutti, e potrebbe finire per colpire quell’unicità di giurisdizione, unicità di principi in materia di famiglia e di rapporti uomo-donna, che costituiscono il substrato più prezioso della nostra laicità. Pensiamo alla tolleranza in alcuni Paesi occidentali per i tribunali islamici che, sotto la forma sommamente ipocrita dell’arbitrato, non fanno altro che introdurre pezzi di sharia nei nostri ordinamenti. Oggi sono pezzi piccoli, domani non lo sappiamo. Potremmo tornare al sistema dei millet (o Statuti personali), che aveva un senso nei grandi imperi multireligiosi, ma che oggi costituirebbe un regresso epocale rispetto alla modernità. O a una Westfalia planetaria, in cui ciascun gruppo può esercitare il dominio sui propri membri. Se abbiamo conquistato l’eguaglianza tra le persone, non si può tornare a essere sottomessi o inferiori per contratto, o per arbitrato. Toccheremmo il cuore della libertà religiosa, che non è solo libertà di credere o non credere, ma è anche libertà di fruire dei diritti pieni della cittadinanza, senza tornare indietro ad antiche diseguaglianze, soggezioni, asservimenti.
Qui troviamo un singolare punto di congiunzione tra il secolarismo relativista di cui parlavo prima e la libertà degli antichi, perché il relativismo, avendo abolito l’etica, il fondamento dei principi morali, non poteva non investire, per negarla, l’universalità stessa dei diritti. Per alcuni Autori, ad esempio Danilo Zolo, “la tesi del fondamento filosofico e della universalità normativa dei diritti dell’uomo è un postulato dogmatico del giusnaturalismo e razionalismo etico che manca di conferma sul piano teorico”, e anche il consenso che i diritti umani ottengono nel mondo “non giustifica alcuna pretesa universalistica e intrusività missionaria”. Non sono mancati intellettuali che di fronte all’esigenza di tutelare i diritti delle donne del mondo dall’immigrazione da soggezioni che noi conosciamo bene, hanno sostenuto che un tale compito di emancipazione spetta a loro, solo a loro, non può essere supplito da altri. Uno splendido esempio di solidarietà con i più deboli. Che s’è meritata la risposta tagliente, insuperabile, di Luigi Ferrajoli, per il quale “sarebbe un segno di eurocentrismo” negare i diritti umani “in danno di quanti hanno la ventura di appartenere a popoli che non hanno compiuto il nostro percorso storico (…); sicché frattanto le donne afghane dovrebbero attendere, per la liberazione, che padri e mariti compiano la loro “rivoluzione francese””, magari, aggiungo, con l’inevitabile periodo del terrore, quando si tagliavano teste senza alcuna ragione se non per il gusto di tagliarle.
Mi soffermo su questo punto per ribadire ciò che considero decisivo, e percorre un po’ tutta la mia Relazione, e cioè che laicità dello Stato e libertà religiosa non sono variabili indipendenti del complessivo assetto della società. Al contrario, sono stati, e lo sono ancora di più oggi di fronte al mischiarsi della storia e delle popolazioni, la misura di un progresso (o regresso) complessivo dei diritti e della libertà personale a cominciare dall’eguaglianza tra uomo e donna. Per questo ho dato centralità alla riflessione di Benjamin Constant. Non siamo di fronte ad un passaggio difficile della storia della laicità dello Stato, ma a una sfida inedita che mette a rischio il carattere universale della libertà religiosa, postula un regresso storico sui diritti della persona appena conquistati, inerenti l’eguaglianza tra uomo e donna, la struttura familiare, l’educazione delle nuove generazioni. Perché su un punto ci deve essere chiarezza. Non esiste libertà religiosa se per motivi di religione la donna è soggetta all’uomo. E’ un traguardo dell’evoluzione umana dal quale non possiamo tornare indietro.
Sta qui, la forza e la preziosità delle Carte dei diritti e dei principi della nostra Costituzione. Essi chiedono di dare a chiunque si trova sul nostro territorio tutto ciò di cui fruiamo noi stessi, praticando un’accoglienza materiale, ma ricca dei diritti che spettano alla persona, dando loro quanto di più prezioso abbiamo costruito nella nostra storia, una pienezza di dignità umana che diviene allora un valore davvero universale, senza confini. All’opposto, noi non praticheremmo l’accoglienza, ma solo un’ipocrita ospitalità che nasconde antiche sottomissioni.
E qui devo toccare un punto delicato ma importante per il nostro Paese. Noi stavamo nel 2008, dopo l’approvazione della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’immigrazione, per raggiungere un traguardo storico: la formazione di una Confessione islamica che riconoscesse pienamente i principi costituzionali, e le Carte dei diritti umani, in primo luogo la piena libertà religiosa e l’eguaglianza tra uomo e donna. Si trattava di un traguardo unico nel suo genere in Europa, sottoscritto pubblicamente dai principali esponenti dell’Islam italiano, e lo Stato era pronto a sostenere, giuridicamente ed economicamente, come fa con tutte le confessioni, anche questa nuova organizzazione. Poi tutto s’è fermato. Lo Stato s’è ritratto, le comunità islamiche non si sono più aggregate. Oggi, c’è come una terra di nessuno verso la quale nessuno fa il primo passo. Ma allora, prendiamo coraggio, vorrei dire in questo nostro incontro, facciamolo questo primo passo, lo faccia lo Stato invitando i musulmani a compiere quel cammino chiarificatore. E lo facciano i musulmani completando loro quella organizzazione e chiedendo allo Stato di essere riconosciuti. Non è difficile, non è impossibile, abbiamo la migliore Costituzione del mondo, rendiamola operativa anche in questo campo.
LA BESTEMMIA DELLA VIOLENZA RELIGIOSA
Ho lasciato per ultimo il grande e terribile tema della violenza religiosa, che periodicamente sta squassando le nostre società, insanguina le strade del mondo, come mai avvenuto prima. Altri Relatori ne parleranno, io voglio solo evocare le più aspre contraddizioni che viviamo oggi tra le solenni proclamazioni delle Carte dei diritti umani e la realtà che in alcuni Paesi riduce la libertà religiosa ai margini del diritto, e colpisce la dignità della persona, per usare le parole di Papa Francesco, con la bestemmia della violenza praticata in nome di Dio.
Al massimo d’espansione del processo di globalizzazione che stiamo vivendo corrisponde l’impazzimento dei signori della guerra, dei seminatori d’odio. Ormai lo sanno tutti: è tornata l’era dei martiri. Ma registriamo anche che al massimo d’esplosione della violenza corrisponde il minimo di reazione a livello internazionale, quasi una dolorosa indifferenza anch’essa più volte denunciata da Papa Francesco. Posso ricordare solo alcune delle tragedie degli ultimi mesi e anni. Dalle stragi in Iraq e in Siria alle follie in Nigeria di Boko Haram, agli attacchi terroristici di Parigi, Bruxelles, Pakistan, e tanti, tanti, nomi di luoghi e Paesi, dove le comunità cristiane, di ebrei, credenti in altri culti, sono attaccate, e alcune a rischio di estinzione. Rischio però di non ricordare tante vittime uccise con decapitazione, nel rogo, con la crocifissione, o vendute e comprate nei nuovi mercati di schiavi, con immagini che credevamo consegnate nei libri della storia antica a monito della modernità. Credevamo, ma non è così, la storia può tornare indietro, e ci poniamo domande drammatiche.
Pongo quindi delle domande in conclusione di Relazione. E’ possibile che non si dia una strategia internazionale d’intervento rapido contro organizzazioni che seminano attentati, fanno terra bruciata uccidendo, violentando e schiavizzando donne e ragazzi come nei secoli passati? E’ possibile che sullo snodo cruciale dell’odio religioso si debba andare a ritroso nella storia senza fruire di alcune difesa, personale e collettiva? Più volte, esponenti religiosi e comunità intere, dopo i più gravi eccidi, hanno dichiarato di aver perso speranza, di sentirsi abbandonati anche a livello internazionale dall’ONU, dalle istituzioni di tutela, dagli Stati che pure potrebbero intervenire? Si sentono abbandonati di tutti! Da anni il Patriarca dei Caldei Louis Sako lo grida al mondo.
Infine, la domanda decisiva, che vuole essere anche una proposta: si può dichiarare la libertà religiosa un’“emergenza internazionale”, e predisporre meccanismi d’intervento non appena si vedono i segnali delle prime violenze, ovunque si manifestano? Facciamo uno sforzo eccezionale per promuovere il diritto di libertà religiosa dentro i confini di ogni Stato, ricorrendo a tutti i mezzi possibili. Riprendiamo l’idea di una Convenzione internazionale che impegni gli Stati a rispettare l’incolumità, la vita, e la libertà religiosa, dei propri cittadini e di chiunque si trovi nel proprio territorio. Avviamo una nuova riflessione sul concetto di reciprocità; che certo non vuol dire immaginare alcun limite sulla libertà religiosa degli stranieri che vivono da noi, perché nessuno è straniero da noi nel godimento delle libertà, ma significa – come più volte ribadito dal Parlamento europeo - inserire nei Trattati internazionali, compresi quelli commerciali, clausole di rispetto per la libertà religiosa (e dei diritti umani) all’interno degli Stati contraenti, con meccanismi veri di controllo. Riflettiamo su queste, e altre misure che possono essere adottate, e che possono determinare un circuito virtuoso di cambiamenti per gli Stati in tutto il mondo.
Di qui la prima considerazione conclusiva. La libertà religiosa ha ormai una dimensione interstatuale e internazionale che esige l’impegno e l’intervento di tutti i soggetti interessati. Non possiamo non chiedere a tutti di farsi carico della libertà di chiunque, a cominciare dalle proprie minoranze confessionali, della loro tutela. Esistono cristiani, ebrei, che non sono più cittadini del proprio Stato. Ci sono Paesi in cui gruppi fondamentalisti, fiancheggiatori di terroristi, sono attivi, organizzati, agiscono per bande, fino a provocare assassini individuali, o attentati che colpiscono 10, 20, 40, 100 persone determinando una situazione di ordinario terrore da cui non si riesce ad uscire.
Quando dico “chiedere a tutti” mi riferisco anche alle Chiese, alle Religioni. Ho ricordato prima che il momento più alto dell’espansione della libertà religiosa l’abbiamo avuto, in Europa e in Occidente quando le Chiese hanno abbandonato antiche posizioni esclusiviste, e sono diventate sostenitrici e promotrici dei diritti umani. E’ iniziato da lì quel dialogo interreligioso nel quale sono riposte tante speranze. Ma occorre porre il problema anche all’Islam, secondo le parole di Abdennour Bidar, perché anche nell’Islam, altre religioni, emerga e prevalga quella “libertà spirituale” che trasfigura ogni fede, e sostituisca la “sottomissione agli uomini” che spinge indietro, guasta tutto; ed occorre che emergano i tesori contenuti nella fede di ciascuno. Poiché è un tesoro quel “non c’è costrizione nella religione”, esaltiamolo, facciano valere per tutti gli uomini.
Il dialogo interreligioso è oggi all’altezza delle esigenze dei tempi della violenza e dell’odio confessionale? E’ una domanda lecita, perché senza il contributo di tutte le religioni non ci sarà quell’evoluzione verso il rispetto dell’altro, non ci sarà la fine di quel concetto di “infedele” che è l’anticamera dell’odio religioso, non ci sarà la fine dell’odio religioso, che è l’anticamera della violenza e della barbarie. Si considera quasi normale – e infatti non ne parliamo quasi più - che persone, intellettuali, giornalisti, siano nascosti e protetti per anni per sfuggire a fatwa di minacce per la loro vita, ma non è normale. Queste fatwa altro non sono altro che forme quotidiane di inquisizione, che però incutono timore a tutti. Non dobbiamo cedere ai signori delle fatwa, perché qui la religione non c’entra nulla, essi vogliono dominare con la paura sugli altri e sulla coscienza degli altri, e la libertà dalla paura è la prima libertà che va garantita.
Ecco dunque, la seconda considerazione conclusiva sul concetto di evoluzione, con cui ho iniziato. Le nostre generazioni si considerano fortunate perché hanno vissuto la caduta dei totalitarismi, hanno assaporato la prima grande stagione dei diritti umani. Per molti di noi, la vita personale, accademica, scientifica, istituzionale, s’è svolta all’insegna della tutela e dell’affermazione della libertà religiosa, dell’affinamento della laicità dello Stato, con una fiducia nel futuro che era grande, senza confini. Oggi, i fatti che ho appena citato provocano quasi una stretta al cuore, e se sbagliassimo? Abbiamo come la sensazione che la freccia dell’evoluzione potrebbe fermarsi, deviare; temiamo si possa tornare indietro di secoli, alla violenza cieca, a guerre di religione.
L’ho accennato prima, neanche uso il concetto di “scontro di civiltà”, che farebbe scoppiare il pianeta, preferisco affermare che dobbiamo invertire la tendenza dei tempi segnati dalla violenza, e ridare alla libertà religiosa il posto che le compete nell’evoluzione dell’uomo, e della società. Libertà religiosa è rispetto e amicizia per l’altro, per tutti gli altri; al tempo stesso, la religione si evolve con l’evolversi e il crescere dell’uomo e della società che vogliamo costruire. Dobbiamo credere in questa evoluzione, favorirla, spingerla in avanti. E nessuno Stato, nessuna istituzione internazionale, nessuna Religione e nessuna Chiesa può tirarsi fuori da questo impegno: far sì che ogni cultura religiosa coltivi e diffonda il rispetto degli altri, respinga i violenti e gli intolleranti, coltivi i semi dei diritti umani dovunque, dovunque, respinga chi vuole assoggettare gli altri, chi vuole discriminare le donne, o imporre il proprio credo. Occorre prendere un solenne impegno in questo senso.
La libertà religiosa cresce e si radica solo se crescono e si radicano nelle leggi e nei costumi i diritti umani fondamentali, che testimoniano e tutelano ovunque la dignità della persona. Noi supereremo le sfide di cui ho parlato, se concepiremo la libertà religiosa come la sintesi dei diritti fondamentali, dei valori che integrano la dignità della persona, se faremo in modo che questa concezione ispiri le leggi degli Stati e nel suo insieme il diritto internazionale, quello jus gentium che non esclude nessuna persona dai suoi benefici, dai progressi delle leggi e dei costumi. Ma dobbiamo farlo, se posso dirlo, con quella passione della libertà, di cui parlano con singolare assonanza Georges Bernanos e Charles Peguy, che in certo modo assomiglia alla fede, perché sposta le montagne: noi per primi sappiamo che quando si fruisce dei diritti che ci spettano non si vuole tornare più indietro, e questo capita a tutti, a qualunque religione appartengano.
Riprendiamo sul nostro sito il testo di una relazione tenuta il 30 aprile da Andrea Lonardo al Convegno di Pietre vive, organizzato presso la Cappella Universitaria de La Sapienza di Roma. La traduzione inglese è stata curata da Nicola Tassinari. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr le sezioni Arte e fede e Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
I/ Andrea Lonardo. Narrare la storia dell’arte - Narrare la storia della Chiesa
1/ Che rapporto c’è tra la storia dell’arte e la storia (della Chiesa). L’opera d’arte e l’opera d’arte cristiana è strumento di potere o espressione di vita?
Quali narrazioni vengono fatte oggi dalle guide che accompagnano turisti e pellegrini? Quale visione emerge dalle loro parole del rapporto fra storia dell’arte e storia della Chiesa?
A/ Esiste certamente una narrazione spiritualistica dell’arte, quando alcune comunità cristiane preparano strumenti molto “bigotti” che invitano a passare dal battistero di San Giovanni al Laterano al ricordo del Battesimo e alla professione di fede, dalla Cattedra petrina al ringraziamento per la presenza del pontefice.
B/ Ma esiste ancor più una presentazione artistica tutta basata su datazioni storiche e considerazioni filologiche, secondo i criteri della cultura dominante che rifiuta di affermare che cosa è un “classico” e quali sono i “valori” umanistici. Per paura di non essere scientifica, spesso una guida oggi si limita a presentare cronologie di edifici ed opere dai tempi della Roma imperiale al presente.
Spesso, però, queste narrazioni così scientifiche per divenire interessanti, per toccare in qualche modo l’immaginazione del pellegrino o del turista, narrano poi risvolti sessual-piccanti (come le favole sulle modelle di Caravaggio o, in età barocca, i racconti su Olimpia Maidalchini, la Pimpaccia) o narrano moralisticamente la corruzione dei papi (da Alessandro VI a Giulio II a Urbano VIII o Alessandro VII), con riferimenti continui all’Inquisizione o insinuando l’idea che l’arte cattolica sia una propaganda, ad esempio, in età barocca utilizzata per una “reconquista” delle perdite avute con la Riforma protestante.
Il passaggio inconscio da un linguaggio scientifico ad uno moralistico è indice del predominio di una visione ideologica scientista e moralista allo stesso tempo.
C/ Esiste anche una narrazione che vede l’artista singolo come libero pensatore, come genio ribelle incompreso in un’epoca oppressiva (così vengono presentati abitualmente, ad esempio, Michelangelo o Caravaggio). Esiste cioè una narrazione che, ancora una volta, separa l’opera d’arte dalla vita del proprio tempo perché non vuole riconoscere la grandezza e la bellezza di una data epoca (sia essa il medioevo o l’età controriformista o l’età barocca).
Spesso dietro questa visione emerge un’idea mai apertamente confessata e cioè che la storia della Chiesa sia stata bella solo fino a Costantino e solo dopo il Concilio: il resto sarebbe un vuoto senza Cristo e senza Spirito.
Ma, ancora più profondamente, dietro questo modo di narrare la storia dell’arte è evidente la dipendenza da una lettura materialista della storia. Tutto viene riferito a questioni di potere, di “propaganda”, con punti di vista imposti dalla classe dirigente ed ecclesiastica del tempo. Tutto viene riletto in una dinamica di conquista dello spazio pubblico tramite l’arte.
La via pulchritudinis implica che si rinunci a questa considerazione dell'opera d'arte come mera sovra-struttura di una sottostante struttura economica o comunque di potere che ne sarebbe il significato portante. Come è noto, questa è l'impostazione materialista, secondo la quale non si darebbe nemmeno la possibilità di una “via della bellezza”, poiché la cultura sarebbe semplicemente la copertura ideologica che verrebbe creata in ogni epoca ad avvallare un determinato rapporto di potere.
Non avrebbe, infatti, alcuna bellezza un'opera d'arte che celasse semplicemente, anche se non intenzionalmente, finalità diverse dalla bellezza stessa. In particolare è stato Ricoeur a classificare sotto il titolo di “maestri del sospetto” i tre grandi maîtres à penser del nostro tempo, Marx, Freud e Nietzsche. Essi sono stati capaci, ognuno dal proprio punto di vista, di “sospettare” di ogni espressione umana, scandagliando in essa ciò che deriva da una lotta di potere soggiacente – così Marx –, da un inconscio che si radica nei rapporti parentali primari, in particolare nel vissuto sessuale – così Freud –, o ancora da una creatività super-ominica che cerca di conferire significato all'universo intero che ne è invece in se stesso nihilisticamente privo – così Nietszche. Se la loro critica decostruttiva rimane un compito ineludibile, resta nondimeno la questione se tutto possa essere ridotto a tali intenzioni spurie e, ancor più, se l’opera dell’uomo – e l’opera d’arte in specie – non nasca piuttosto da un desiderio di bene e di bellezza originari.
Se, nella presentazione di singole opere d'arte o di interi periodi artistici, prevalgono impostazioni che si rifanno a visioni similari, l'opera d’arte verrà allora scandagliata alla ricerca di indizi che mostrino come essa sia stata uno strumento di potere, oppure un oggetto volto a manifestare la vanità del committente, laico od ecclesiastico che l’ha ordinata: l'intera produzione artistica di un dato periodo verrà conseguentemente connotata come propaganda adatta per imporre una determinata visione del mondo ai contemporanei.
La narrazione della “bellezza” postula, invece, un differente presupposto. Il Vangelo si mostra nelle opere d’arte, siano esse capolavori o manufatti più popolari, perché la fede personale ed ecclesiale ha l’esigenza nativa di esprimersi.
La bellezza si produce perché l’incontro con il Cristo non può non manifestarsi, divenendo non solo parola, ma anche affresco, composizione musicale, edificio, suppellettile liturgica, che rimandi creativamente alla fede. Non vi è altra radice ultima della produzione artistica cristiana. Certo possono intervenire nella storia fattori sovra-strutturali, come quelli denunciati dai “maestri del sospetto”, ma essi non potranno mai essere l’elemento determinante dell’iconografia cristiana ed in posizione relativa dovranno restare nella presentazione storico-artistica e nell’utilizzo catechetico delle opere stesse.
Con grande sapienza F. Boespflug ha affermato in merito: «Non ho mai creduto alla teoria del bisogno, fondata su un'opposizione fra autorità e fedeli. [...] Credo molto più a ciò che definirei il dinamismo espressivo delle forti intuizioni. Una religione vissuta in modo intenso da una civiltà deve essere espressa. E dopo le parole, il cristianesimo ha conquistato in modo logico altri registri espressivi, dalle arti plastiche al teatro, dalla musica alla letteratura».
Si vede, già da questo primo accenno, che ogni “guida” deve padroneggiare la storia della Chiesa, per presentarne la grandezza, altrimenti il suo messaggio resterà incompreso.
Si potrebbe dire che, spesso, la fede non si annunzia in maniera diretta: la fede si annunzia in maniera indiretta, nella visione di vita che sorge da essa. La verità della fede si manifesta nella sua capacità di generare, di fecondare. L’espressione artistica è una delle prove della verità del cristianesimo, insieme alla liturgia, alla teologia, alla carità, al matrimonio, all’more che educa i figli, alla passione per il cosmo e così via.
2/ Il momento fondativo: i primi secoli, l’arte paleocristiana e Costantino
La centralità di questa questione appare con evidenza nell’analisi – e nelle diverse interpretazioni - del momento fondativo dell’arte cristiana.
L’esigenza espressiva della fede è così nativa che si manifesta ben prima della svolta costantiniana. Basti pensare che già agli inizi del III secolo – un secolo prima di Costantino - è documentato il possesso di cimiteri da parte della comunità cristiana. A Roma, dove le fonti soccorrono in questo caso la ricerca, Callisto, allora diacono, venne incaricato da papa Zefirino della custodia delle catacombe oggi dette di San Callisto. La comunità, pur essendo perseguitata da pubbliche leggi statali, possedeva già delle proprietà comuni. L’iconografia cristiana dei sarcofagi e degli affreschi catacombali si andava già formando.
Pur essendo difficile datare il passaggio dalle domus ecclesiae alle prime vere e proprie chiese, la costruzione e la decorazione di edifici appositamente cristiani è già un fatto alla metà del III secolo, come è attestato dall’Editto di Gallieno del 262 detto anche Editto di restituzione, proprio perché l’imperatore stabilì che fossero restituite ai cristiani le proprietà che ovviamente dovevano già aver posseduto precedentemente. Un solo edificio cristiano di quel periodo è sopravvissuto, conservato pressoché integralmente: è la famosa chiesa di Dura Europos, nell’odierna Siria. Quella città fu abbandonata nel 256, a motivo dell’arrivo dei Sassanidi e, quindi, tutti i suoi monumenti superstiti sono anteriori a quella data.

Le fonti letterarie mostrano che il caso di Dura Europos non era certamente l’unico. In Eusebio di Cesarea si ha notizia dell’imperatore Aureliano (270-275) che, alla deposizione del vescovo scismatico Paolo di Antiochia, assegnò la chiesa che era sede episcopale a Domno, vescovo cattolico. In documenti dell’Africa latina relativi alla persecuzione di Diocleziano è attestato che ad Abthugni (oggi in Tunisia) e Cirta (nell’antica Numidia, oggi in Algeria) c’erano già, prima del 303, basilicae cristiane.
Nella stessa Roma, quando vi arrivò dall’Africa Vittore, primo vescovo donatista inviato nell’urbe tra il 314 ed il 320, le fonti attestano che, mentre questi non aveva alcuna basilica nella quale riunire i fedeli, la chiesa cattolica ne aveva ben quaranta.
Nell’opera di Lattanzio si afferma addirittura che, al momento dello scatenarsi della persecuzione di Diocleziano, esisteva già da tempo una basilica che era visibile dal palazzo imperiale di Nicomedia, segno che la presenza di edifici cristiani era un fatto ormai normale.
Se la cura degli edifici cristiani e della loro decorazione precede certamente la svolta costantiniana, non meno interessante è il fatto che essa non venga mai a decadere, nemmeno in movimenti ecclesiali che vollero sottolineare il carisma della povertà. È noto, ad esempio, che non solo Francesco d’Assisi si dedicò al restauro architettonico di chiese abbandonate e in rovina - vedi San Damiano in primis - ma anche che volle che le suppellettili liturgiche fossero di materiale prezioso e non vile: «Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici che debbano venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo. I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa. E se in qualche luogo il santissimo corpo del Signore fosse collocato in modo troppo miserevole, secondo il comando della Chiesa venga da loro posto e custodito in un luogo prezioso, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione».
Questi fatti attestano che l’esistenza di un’arte cristiana ha una radice diversa dall’aspirazione al potere.
3/ Ogni artista esprime non solo se stesso, ma l’intero suo periodo: parlare della grandezza di un artista vuol dire anche parlare della grandezza della Chiesa del suo tempo che lo apprezzava
Sempre si ripete ciò che avvenne fin dalle origini, prima di Costantino, e poi con lui. Nel medioevo, in maniera suprema, le grandi chiese romaniche o gotiche sono opera di un popolo.
Un autore anti-cristiano, Dario Fo, ha cercato di dimostrare che il Duomo di Modena sia sorto in un periodo in cui non c’era né il re, né un vescovo, per cercare di nascondere il fatto che sempre il popolo ha amato le sue cattedrali e che sempre nel medioevo nelle cattedrali si ponevano attori e buffoni, santi e letterati, uomini e donne, sibille e profeti, cavalieri e dame, segni zodiacali e ricerca scientifica dell’uomo, diavoli e draghi, e così via.
Per questo parlare del Duomo di Modena non vuol dire parlare di un’eccezione, bensì della bellezza del medioevo, non di una eccezione anti-cattolica!
Allo stesso modo parlare di Michelangelo Buonarroti vuol dire parlare di un uomo che, fino al giorno della sua morte, ha lavorato per onorare la memoria di Giulio II (la tomba che è il Mosè), per onorare l’importanza della Legge e dei ministri inviati da Dio (i comandamenti e Mosè stesso), così come ha lavorato al tamburo della cupola di San Pietro, senza voler essere pagato, così come ha lavorato alla decorazione della Cappella Paolina, la Cappella destinata all’adorazione eucaristica dei papi.
Allo stesso modo parlare di Caravaggio vuol dire esaltare l’età della controriforma. Il Merisi amava Roma e, fuggito per l’omicidio, fece di tutto per ritornarvi. A Malta si fece cavaliere crociato, con l’assenso del papa, firmandosi frater “consacrato”.

Eppure, ingannando gli ascoltatori, le guide continuano a ripetere del rifiuto delle sue opere (cfr. la Madonna della serpe, con la sua centralità mariana), attribuiscono ogni dato cattolico a contingenze politiche (cfr. l’inserzione della figura di Pietro nella Vocazione di San Matteo), tacciono della centralità della Scrittura nella Chiesa controriformista (l’evangelista Matteo), dimenticano di ricordare delle devozioni che egli ritraeva (la casa di Loreto nella Vergine dei Pellegrini), trascurano le evidenti citazione non solo di Michelangelo Buonarroti (cfr. la Cappella Cerasi, che è una Cappella Paolina in miniatura), ma anche dei maestri dell’umanesimo e del rinascimento (cfr. la Vergine del Parto di Jacopo Sansovino in Sant’Agostino in Campo Marzio).
Allo stesso modo nel trattare il barocco le guide omettono di spiegare la sua funzione ed il perché delle sue scelte artistiche. Evidente è, a questo riguardo, il senso del colonnato di San Pietro (ma, in fondo, dell’utilizzo insistito della linea curva, concava o convessa). Alcuni schizzi coevi mostrano la consapevolezza degli uomini dell’età barocca del suo significato simbolico. Lo stesso papa Alessandro VII che commissionò il colonnato scrisse che esso voleva ricordare due braccia che «accolgono i cattolici per confermarli nella fede, gli eretici per riunirli alla Chiesa, gli infedeli per illuminarli» (cfr. il bellissimo Lo spirito del barocco di Olivier de la Brosse O.P. su www.gliscritti.it ).
4/ Ogni opera trae luce dalla sua posizione storico-geografica e dalla sua funzione liturgica
La collocazione storica dell’opera d’arte si fonda a sua volta sulla narrazione di ciò che non caratterizza solo una determinata epoca della storia della Chiesa, ma permane nel tempo come una costante nella fede e nella vita della Chiesa.
La Chiesa, infatti, è una realtà pubblica fatta di uomini e donne che comunicano fra di loro e con gli uomini attraverso segni: senza l’utilizzo di segni adeguati la salvezza si ridurrebbe ad evento privato senza alcuna consistenza ecclesiale.
Nell’utilizzare la via pulchritudinis, dobbiamo affrontare la grande obiezione che l’uomo moderno rivolge al cristianesimo. L’allora cardinale Ratzinger l’ha enunziata in questi termini:
«Per noi uomini di oggi lo scandalo fondamentale dell’essere-cristiano è rappresentato innanzitutto dall’esteriorità in cui l’esperienza religiosa sembra finita. Ci scandalizza il fatto che Dio debba esser comunicato mediante apparati esteriori: tramite la chiesa, i sacramenti, il dogma, o anche solo tramite la predicazione (kerygma), dietro la quale ci si ripara volentieri per attenuare lo scandalo, ma che resta egualmente qualcosa di esterno. Di fronte a tutto ciò, ci si chiede: Dio abita proprio nelle istituzioni, negli eventi o nelle parole? L’Eterno non tocca forse ciascuno di noi interiormente? Orbene, a questo interrogativo bisogna rispondere subito e con semplicità in maniera affermativa e aggiungere: se esistesse soltanto Dio e una somma di singoli, il cristianesimo non sarebbe necessario. [...] Per la salvezza del singolo semplicemente non ci sarebbe stato bisogno né di una chiesa, né di una storia della salvezza, né di una incarnazione e passione di Dio nel mondo».
L’uomo è una persona dotata non solo di una natura spirituale, ma anche di una corporeità che lo costituisce come essere in relazione. Per questo non avrebbe alcun senso per lui una religione che fosse puramente interiore. Lo stesso Ratzinger così affronta la questione:
«L’essere nella corporeità include necessariamente anche la storia e la vita comunitaria, giacché, se il puro spirito può essere pensato come rigorosamente a sé stante, la corporeità attesta il derivare da altri: gli uomini vivono l’uno dell’altro, in un senso quanto mai reale e al contempo pluristratificato».
L’arte ci mostra in maniera peculiare tutto questo. Le grandi realizzazioni artistiche sono quasi sempre avvenute con il concorso dell’intero popolo di Dio. Si pensi, solo per fare un esempio, ai grandi cantieri delle cattedrali romaniche e gotiche. Recenti studi sugli archivi della Fabbrica del Duomo di Milano, ad esempio, hanno evidenziato come al suo finanziamento contribuirono non solo le grandi famiglie del tempo, ma ancor più i singoli fedeli, finanche le categorie apparentemente più marginali della comunità, come molte prostitute del tempo che, liberamente, versarono le loro offerte per l’erezione della cattedrale ambrosiana.
Non dobbiamo mai dimenticare che i turisti/pellegrini vedono le nostre chiese nei momenti in cui esse sono vuote e non ne percepiscono l’utilizzo nelle grandi liturgie.
Raccontare del colonnato di San Pietro vuol dire allora raccontare delle elezioni e dei funerali dei pontefici, delle benedizioni e delle udienze. Dove potremmo altrimenti, senza il colonnato o la basilica, ricevere l’annunzio dell’Habemus papam e la prima benedizione? Dove potremmo ordinare i nuovi preti? Dove celebrare il Battesimo dei catecumeni? Ma, allo stesso modo, come sarebbe stato possibile salvare tanti ebrei e rifugiati senza quei luoghi? E chi ancora avrebbe potuto mediare fra nazisti e alleati perché non si combattesse a Roma, senza l’esistenza stessa dello Stato della Città del vaticano (cfr. il 4 giugno 1944)?
Similmente quel Baldacchino del Bernini, che viene sempre stupidamente ricordato con la pasquinata Quod non fecerunt Babari fecerunt Barberini, non dovrebbe essere ricordato, invece, per la straordinaria modalità con la quale attesta per il popolo di Dio la centralità dell’eucarestia (ed anche del Battesimo)?
Si pensi anche all’importanza di “narrare” la collocazione liturgica delle opere stesse. Caravaggio, ad esempio, volle dipingere, “citando” Michelangelo, San Pietro che mentre viene crocifisso si volge a guardare l’eucarestia (Cappella Cerasi e Paolina).
5/ L’importanza dell’immaginazione
Compito della guida è quello di narrare facendo immaginare i luoghi al momento della loro fondazione, o al tempo degli eventi che lì si sono verificato. Gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio e l’esperienza del pellegrinaggio in Terra Santa o nei luoghi francescani hanno creato una tradizione consolidata in questo campo, mostrandoci quale cammino seguire.
Dinanzi a piazza San Pietro, ad esempio, narrare vuol dire assumersi il compito di far immaginare la morte di Pietro e la sua sepoltura, per mostrare la straordinaria bellezza e verità della sua testimonianza. Omettere tale “immaginazione” vuol dire misconoscere tutto il significato del luogo stesso.
In www.giubileovirtualtour.it abbiamo provato ad utilizzare anche le tecniche 3D per dare forza a questa esigenza di immaginare (cfr. anche La basilica di San Pietro in Vaticano: guida per la visita. I testi di www.giubileovirtualtour.it, di Andrea Lonardo).
La piazza di San Pietro è il luogo per fare “immaginare” il suo martirio, ma anche l’elezione del papa che da essa trae vita e senso. Per un pellegrino straniero è decisivo “capire immaginando” ciò che tante volte ha già visto in televisione, passando dal virtuale al reale. Il luogo aggiunge a ciò che egli già sa l’hic: qui, in questo luogo, dinanzi a te.
Non dobbiamo dimenticare che siamo chiamati a raccontare l’origine del cristianesimo, o l’annuncio del Vangelo in un dato luogo, o la storia di un santo (l’“antico” Agostino o le “moderne” santa Teresa del Bambino Gesù o Madaleine Delbrel).
Io presento in Roma la storia del cristianesimo attraverso i Fori Romani e il Palatino, senza limitarmi alle semplici chiese (cfr. Spiegare il Nuovo Testamento passeggiando per il Palatino ed i Fori imperiali. Una guida per la visita, di Andrea Lonardo).
6/ Vincere la tentazione del politicamente corretto e dire una parola su come la storia di cui parliamo ha cambiato la storia dei paesi dove viviamo
Una narrazione della storia dell’arte secondo i criteri del politicamente corretto vigente nasconde molti elementi storici per paura di sembrare intollerante verso i non cattolici o comunque verso i non credenti. Solo del cristianesimo è abitudine parlare male!
Si tace addirittura che Van Gogh fu un predicatore protestante e che si conserva la sua prima omelia.
Si tace che Johannes Vermeer fosse un fervente cattolico costretto ad abitare nel ghetto papista di Delft e che a lui, come ai membri della Chiesa cattolica, fosse proibito al tempo celebrare la messa in pubblico, disconoscendo il valore “cattolico” di molte sue opere (cfr. il Trionfo della fede”). In Svezia la messa cattolica sarà permessa solo a partire dal 1951.
Si tace che, mentre si sviluppava il teatro dell’età barocca in Italia, l’Inghilterra puritana vietasse i teatri, radendoli al suolo, e distruggesse gli strumenti musicali (il teatro e la musica erano ritenuti demoniaci), o che nei Paesi Bassi fosse vietato dalla sinagoga di Amsterdam agli ebrei di parlare con Spinoza dichiarato eretico dai rabbini (1656).
Andando più indietro nella storia si tace del fatto che in Inghilterra, a partire da Enrico VIII, tutti i conventi ed i monasteri siano stati requisiti e distrutti, con l’eccezione di Westminster Abbey, solo perché lì venivano sepolti i grandi della nazione. Basti pensare all’abbazia di Canterbury, decisiva nel sorgere della nazione e distrutta del re per appropriarsi di pietre e travi.
Andando più indietro nella storia, si pensi ancora alla distruzione della cattedrale di San Vincenzo di Cordoba (la Catedral-Mezquita-Catedral) o alle sinagoghe di Toledo e Cordoba costruite solo dopo che i musulmani furono sconfitti.
Ma, anche in positivo, nel “narrare” il passaggio dalla cultura latina a quella inglese si deve mettere in rilievo che la “fondazione” dell’Inghilterra e della stessa Londra è dovuta non ai “romani” pagani, bensì ai “monaci romani”, inviati da papa Gregorio Magno con sant’Agostino di Canterbury, che permisero il travaso dei due mondi e che fondarono le due abbazie di San Pietro (oggi Westminster) e di San Paolo (oggi St Paul’s Cathedral) quando i romani da decenni avevano abbandonato Londinium (interessantissimo è il fatto che la bandiera inglese rechi oltre alla croce di Cristo la croce di Sant’Andrea le cui reliquie vennero portate dai monaci). Lo stesso si deve dire della Germania, evangelizzata dai monaci, a partire da San Bonifacio, e integrata in una cultura ben più umanistica di quella dei suoi antenati.
Si pensi al silenzio assoluto sul periodo altomedioevale che è taciuto in ogni narrazione storica. L’emergere del potere temporale della Chiesa fu un evento provvidenziale e decisivo per Roma e per tutta l’Europa.
7/ Ricondurre la narrazione di un artista al suo tempo evidenziando la sua collaborazione con altri artisti ed il comune background
Importantissimo è che la “narrazione” mostri le relazioni esistenti fra i pittori della stessa epoca, così come il fatto che la committenza li obbligasse a lavorare insieme. I biografi di Caravaggio, ad esempio, si limitano a dire che al tempo c’erano diverse scuole pittoriche, tutte tese ad emergere una sull’altra. Ma di nessuna di esse gli autori antichi dicono che fosse disprezzata o sovra-esaltata per ragioni confessionali.
È interessantissimo che Caravaggio divenne famoso al grande pubblico per aver realizzato la Vocazione di Matteo il cui taglio di luce, provenendo non si da dove, cioè dalla grazia, giunge in un vicolo ad illuminare il volto di San Matteo, conferendo forza espressiva al braccio di Gesù che chiama.
Ebbene quella luce che irrompe nell’opera è in realtà una citazione – anche se una citazione per opposizione perché luce ed oscurità si invertono di posto - dell’affresco che il Cavalier d’Arpino aveva realizzato pochi anni prima nella stessa cappella Contarelli e che è visibile ancora oggi nella volta della Cappella. Anzi a quell’affresco potrebbe aver lavorato lo stesso Merisi come apprendista, poiché a Roma, in un primo momento, fu a servizio proprio del Cavalier d’Arpino.

Non solo, ma egli realizzò all’inizio solo le due tele laterali della Cappella, perché Jacob Cobaert, orafo e scultore, era stato incaricato contestualmente di realizzare la statua dell’evangelista che doveva essere posta sopra l’altare. Se l’opera non venne mai posta in opera nella Cappella Contarelli fu solamente perché la statua stessa non piacque al suo autore, oltre che ai committenti, e fu infine posta nella chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini, motivo per il quale venne infine commissionata a Caravaggio anche la pala d’altare. Si vede subito che Caravaggio lavorò alla Contarelli in un programma iconografico la cui realizzazione era affidata, oltre che a lui, al Cavalier d’Arpino ed al Cobaert.
Se la Cappella Contarelli venne modificata in corso d’opera, portando alla presenza “casuale” di ben tre opere di Caravaggio nello stesso ambiente, diversamente avvenne nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, che restituisce bene l’idea della collaborazione pittorica di artisti diversi e per altri aspetti rivali.
Nella Cerasi, la pala d’altare, cioè l’opera più importante, è di Annibale Carracci, mentre a Caravaggio, esattamente come nella Contarelli, venne affidata la decorazione delle due pareti laterali.
L’opera del Carracci, l’Assunta (1600-1601) è splendida e, probabilmente, fu anche il confronto con un opera così degna che dovette indurre Caravaggio ad abbandonare la prima versione della Conversione di San Paolo e della Crocifissione di Pietro, impari nel confronto, per realizzare quelle che sono attualmente in situ.
Interessantissimo è il caso della Deposizione dipinta da Caravaggio per la Chiesa Nuova – Santa Maria in Vallicella. Qui l’impianto iconografico venne deciso dallo stesso San Filippo Neri, ancora vivente, e dai suoi primi compagni . La pala d’altare di ognuna delle cappelle laterali doveva rappresentare uno dei “misteri”, cioè degli episodi più importanti della vita di Cristo, nei quali era stata presente Maria che doveva anch’essa essere rappresentata in ogni tela. Chiunque avesse deciso di acquistare una delle Cappelle laterali e di farle decorare – come usava allora – non si sarebbe potuto allontanare dalla serie stabilita dai Padri dell’Oratorio.
San Filippo Neri ebbe modo di vedere alcune delle opere già poste nelle Cappelle – è noto che l’opera da lui preferita era la Visitazione di Federico Barocci che venne realizzata nel 1586.
Nella Chiesa Nuova Caravaggio lavorò alla Cappella acquistata dalla famiglia Vittrici realizzando la Deposizione. Le pale d’altare dell’intero ciclo vennero realizzate dal 1578 al 1627 (senza contare le copie o le sostituzioni a programma completato, come avvenne proprio per la Deposizione che venne sostituita con una copia nel 1797 dopo il furto delle truppe napoleoniche).
Seguendo l’ordine iconografico, a partire dalla cappella del transetto sinistro, questo è l’elenco degli autori con le date proposte dagli studiosi:
- Presentazione al Tempio di Maria Bambina del Barocci (1603)
- Annunciazione del Passignano (1591)
- Visitazione del Barocci (1586)
- Natività di Durante Alberti (precedente al 1590)
- Epifania del Nebbia (1578)
- Presentazione al Tempio di Gesù (detta anche Purificazione della Vergine) del Cavalier d’Arpino (1627)
- Crocifissione del Pulzone (1586)
- Deposizione del Caravaggio (1602, originale presso i Musei Vaticani, mentre nella cappella è presente una copia del 1797)
- Ascensione del Muziano (precedente al 1587)
- Pentecoste di pittore fiammingo (originale del 1607 sostituito nel 1689)
- Assunta del Ghezzi (sostituita a metà seicento)
- Incoronazione della Vergine del Cavalier d’Arpino (1615).
Si vede qui chiaramente come la Deposizione del Caravaggio faccia parte di un intero ciclo pensato dai padri dell’Oratorio in pieno contesto controriformistico. Se ogni autore lavorò esclusivamente all’opera o alle opere che gli furono affidate, nondimeno doveva essere loro chiaro il lavoro d’insieme.
La serie della Chiesa Nuova permette di vedere come si regolassero i committenti e come si instaurasse un dialogo fra l’acquirente della Cappella, i Padri che officiavano la Chiesa Nuova e gli artisti.
È noto il caso della Crocifissione del Pulzone che venne realizzata ancora vivente San Filippo Neri. Uno dei primi compagni del Santo, il Padre Agnolo Velli, si lamentò per la presenza eccessiva di sangue che era rappresentato nell’opera, in particolare eccependo “una gocciola di sangue che cade sopra il volto del crocifisso”. I Padri dell’Oratorio misero democraticamente ai voti il particolare dell’opera, d’accordo con San Filippo Neri che non impose una propria scelta: la maggioranza approvò il modo in cui la tela era realizzata, motivo per cui non venne chiesto al Pulzone di modificarla.
L’episodio rivela come fosse stretto il rapporto fra committenza e artisti (fra l'altro il ciclo non si arresta alla serie delle dodici cappelle laterali, ma prosegue poi con la rappresentazione barocca dell'Assunzione di Maria nell'abside e nella cupola, ad opera di Pietro da Cortona, in una sequenza iconografica che travalica dal periodo controriformista appunto all'età barocca).
La critica moderna tende in maniera ideologica ad isolare dalla sua epoca Caravaggio, quasi come un unicum nel suo tempo, mentre egli dipingeva certamente conscio delle sue capacità, ma anche inserito pienamente con un suo stile particolare nella pittura della Roma controriformista del tempo.
Ciò è evidente anche dal lavoro dei suoi discepoli come da quello dei discepoli degli altri maestri di età controriformista. Negli anni seguenti la morte della generazioni di pittori cui apparteneva il Merisi, la nuova generazione si ispirò all’uno o all’altro dei maestri vissuti a cavallo fra la fine del cinquecento e gli inizi del seicento, fino all’esplodere dell’arte barocca.
Interessante è, per un diverso motivo, il caso della Madonna della serpe dove Caravaggio si attenne assolutamente alla presentazione dogmatica cattolica della figura di Maria. L’opera (che venne venduta solo perché nel 1605 iniziò la demolizione della navata costantiniana che allora era ancora in piedi) riprende modelli preesistenti e ben noti.
8/ Ricondurre ancora più radicalmente l’artista a quella narrazione voluta dalla committenza e chiarificatasi nei secoli per via della Tradizione
Non pochi pittori hanno dipinto le loro opere immaginandole in una serie. Famoso è il caso di Munch (Studio per una serie evocativa chiamata Amore, scelto per l’esposizione di Berlino del 1893 dove si descrive, infatti, la mutazione dell’amore dalla prima fase piena di speranza alla sua penosa fine. Il titolo viene poi mutato in Fregio: motivi della via di un anima moderna, per l’esposizione del 1904 a Kristiania, l’odierna Oslo, fino al più semplice Fregio della vita per Kristiania 1918).
Per le committenze ecclesiastiche l’unità è data non solo dalle scelte del singolo autore, ma molto più dall’unità della storia della salvezza (secondo quel principio di “unità” chiarificato dalla Dei Verbum al Concilio Vaticano II).
L’esempio più evidente in Roma è quello della Sistina dove la volta presenta la creazione, le pareti (dipinte precedentemente) la storia della salvezza e la parete d’altare il giudizio finale e la parousia. La Sistina – come la decorazione di ogni edifico antico – avvolge l’uomo con una narrazione globale. Se il post-moderno viene caratterizzato – a partire da Lyotard – come l’epoca della fine delle grandi narrazioni, ecco che invece la rappresentazione cristiana è ancorata in maniera irremovibile ad una narrazione talmente grande da abbracciare la storia intera.

A sua volta tale grande narrazione implica il principio interpretativo biblico della tipologia, uno dei principi più disattesi dalla catechesi oggi, ma saldo nella liturgia. Per la tipologia Isacco non è solo Isacco, ma è anche Cristo in figura, Mosè non è solo Mosè, ma è Cristo in ombra e così via. La “narrazione” biblico-artistica vive della tipologia, che ha fondamento nel popolo ebraico stesso e poi in Gesù. (cfr. «Il fatto che la liturgia abbia fatto sue e conservate lungo i secoli determinate esegesi tipologiche costituisce una specie di "consacrazione" di esse, tanto da poter essere considerate interpretazioni tradizionali e ufficiali della Chiesa». Al cuore della catechesi non c’è solo la Scrittura, ma anche la liturgia: solo la liturgia è in grado di “spiegare” la Scrittura attraverso la lettura tipologia della Bibbia. Tre riflessioni capitali di Sofia Cavalletti e gli altri articoli al tag tipologia).
La dimenticanza del senso complessivo delle immagini porta ad abbagli come quello cui spesso si assiste in San Francesco ad Assisi, dove nulla viene mai detto degli affreschi dell’abside o dei registri superiori della basilica, perché ci si sofferma unicamente sulle storie francescane (con danni per la presentazione del vero significato di Francesco d’Assisi e per la comprensione dell’effettiva evoluzione storico-artistica (il Maestro delle Storie di Isacco è molti più moderno di Giotto, pur essendogli precedente).
9/ La narrazione dei “misteri” come completamento offerto all’esegesi storico-critica
Anche da un altro punto di vista la rappresentazione iconografica ripresenta la prospettiva tipicamente teologica dell'unità della Scrittura. Mentre la lettura di un episodio neotestamentario può soffermarsi sulla prospettiva peculiare di un singolo evangelista, la rappresentazione dello stesso obbliga ad una sua riproposizione unitaria. Se si rappresenta il Battesimo di Gesù passa in secondo piano come lo descrivono i diversi evangelisti: l'artista si trova a dover essenzializzare l'evento.
Similmente Michelangelo non si pose il problema, nel rappresentare la creazione di Adamo, di mostrare le differenze fra il racconto di Genesi 1 e quello di Genesi 2, bensì elaborò un'immagine sintetica che non rispecchiava la lettera di nessuna delle due versioni, bensì le ricreava, fornendone un'interpretazione che è più toccante di qualsiasi studio biblico scientifico.
Questa prospettiva è particolarmente rispondente alla formazione di uno sguardo sintetico del credente, mentre la sottolineatura delle diverse sfumature è più pertinente per uno studio accademico.
In questa maniera l'iconografia mostra, a suo modo, la perenne validità della presentazione dei cosiddetti “misteri” di Cristo e, più in generale, dei “misteri” della storia della salvezza. Essa ricorda che, per chi vuole “vedere” la fede, non è pressante tanto la domanda sulla prospettiva che caratterizza, ad esempio, le diverse versioni dell’Ultima cena, quanto piuttosto la questione del significato intrinseco di quell'evento. Lo stesso dicasi perGenesi dove la grande questione che ogni persona porta in cuore riguarda la verità del racconto, se Dio abbia veramente creato l'uomo oppure no, se l'uomo abbia una dignità diversa dall'animale o no, cosa annunzi di incomparabilmente bello il fatto della creazione e come questa possa completare le moderne ricerche scientifiche. Un approccio puramente letterario alla questione sarebbe da un punto di vista artistico e catechetico assolutamente insufficiente.
10/ Narrare la storia della Chiesa
Abbiamo cercato di mostrare come sia non solo impossibile concretamente, pena l’abbandono di un atteggiamento oggettivo e scientifico, ma anche controproducente e pedagogicamente inefficace, separare l’arte dalla Chiesa e dalla sua storia.
Ma abbiamo sottolineato come la storia di cui qui si tratta non è l’attualità del tempo sempre cangiante – chi dipinge o costruisce in maniera troppo aderente alla moda ed ai problemi del tempo non è comprensibile nei secoli a venire – bensì l’attualità di un messaggio che tocca sempre i cuori, permanendo attuale.
È per questo che, ad esempio, una lettura troppo “contemporanea” – motivato dalla conversione al cattolicesimo, come si usa dire, del re francese Enrico IV - dell’inserzione di Pietro nella Vocazione di Matteo di Caravaggio non è credibile, sia perché darebbe adito ad ipotizzare un’ipocrisia del pittore, sia perché meschina e povera, rispetto al valore “eterno” della rappresentazione artistica. Molto più sensata è una lettura che inviti a superare la distanza fra il Cristo e i contemporanei di Caravaggio seduti al banco delle imposte.
II/ Andrea Lonardo. “Narrating the History of Art - Narrating the History of the Church”
(traduzione di Nicola Tassinari)
1/ What is the connection between History of Art and History (of the Church). Is artwork, and Christian artwork, a power instrument or an expression of life?
What narrations are told nowadays by guides accompanying tourists and pilgrims? What vision of the connection between History of Art and History of the Church emerges from their words?
A/ Certainly there is a spritualistic narration of art, when some christian communities set up very “self-righteus” instruments inviting to pass through St. Giovanni al Laterano in memory of Baptism and Profession of Faith, or pass through St. Peter’s Chair to thank for the Pope presence.
B/ But, even more, there is an introduction to art that’s wholly based on historical datings and philosophical considerations, according to mainstream culture’s criteria, refusing to say what a “classic” is, and which ones are the “values” of liberal arts. Fearing not to be scientific, often nowadays a guide just presents chronologies of buildings and works from Roman Empire to today.
Yet, often, in order to become interesting, and reach the imagination of pilgrims or tourists, such scientific narrations need to tell of spicy/sexual implications (as fairy-tales on Caravaggio’s models, or, in Baroque Age, tales on Olimpia Maidalchini, the so-called “Pimpaccia”); or they describe moralistically the corruption of Popes (from Alexander the Sixth to Julius the Second and Urban the Eighth or Alexander the Seventh), with continuous references to Inquisition, or insinuating the idea of Catholic Art as a propaganda, being used, for example, during Baroque Age as a “reconquista” of those losses due to protestant Reformation.
The unconscious passing from a scientific language to a moralistic one testifies the predominance of an ideological vision that is scientist and moralist at the same time.
C/ There is also a narration that sees the single artist as a free thinker, a rebel and misunderstood genius in an oppressive age (as Michealangelo or Caravaggio are usually introduced, for example). Indeed, there’s a narration that, once again, separates the work of art from the life of its own time because it doesn’t want to acknowledge the greatness and beauty of a certain epoch (being it the Middle Age, or Counter-Reformation, or Baroque).
A never openly-confessed idea often emerges behind such vision, and it’s that the history of the Church was nice just until Constantine, and then just after the Council: all the rest would be some kind of emptiness without Christ nor Spirit.
However, and even more deeply, behind this kind of approach in narrating the history of art, it’s evident the dependence on a materialistic reading of history. Everything is related to power issues, “propaganda”, with points of view that are imposed by establishment, ruling class, and members of the clergy in their own time. Everything is re-read in a dynamic of conquer of the public space through art.
The path of beauty (via pulchritudinis) implies that one should give up this perception of the artwork just as a super-structure of an underlying economical structure, or of power in any way, that would rather be its supportive meaning. As known, this is the materialistic conception, according to which a “path of beauty” shouldn’t even be possible, because culture would simply be the ideological cover created in each epoch to validate a certain power structure.
Indeed, a work of art that should simply hide different purposes from beauty itself, even if unintentionally, wouldn’t have any sort of beauty of its own. Particularly, it was Ricoeur that classified under the title of “masters of suspicion” the great three maîtres à penser of our time, Marx, Freud and Nietzsche. They’ve been able to be suspicious of every human expression, testifying in each what comes from an underlying fight over power - as for Marx -, from an unconscious that’s rooted in close parental relationships, particularly in sexual experience - as for Freud -, or yet from a super-man creativity that tries to give some meaning to the whole universe, which is in itself nihilistically lacking of it instead - as for Nietzsche. If their de-constructive critique still is an unavoidable task, nonetheless the question if everything may be reduced to such spurious intents still applies, and, even more, if the work of man - and artwork in specie - may not come from an original wish for good and beauty.
If, introducing single works of art or whole artistic periods, statements inspired by such visions do prevail, the artwork will then be analyzed in search of clues showing how it has been an instrument of power, or an object meant to manifest the vanity of the customer, layman or member of the clergy, that commissioned it: all of the artwork of a given period will consequently be characterized as propaganda suitable for imposing a specific vision of the world to contemporaries.
The narration of “beauty” assumes a different requirement. The Gospel shows itself in artworks, whether in masterpieces or in more popular products, because both personal and ecclesiastical faith bear the innate need to express themselves.
Beauty yields because the meeting with the Christ cannot help displaying, becoming not just word, but also fresco, music composition, building, liturgical furnishing, that creatively brings back to faith. There’s no other ultimate root in Christian artwork. Of course, super-structural influences, such as those reported by “masters of suspicion”, may intervene into history, even though they may never be the decisive element of Christian iconography, and they’ll have a limited place in historical-artistic introduction and in catechistic use of the works themselves.
With great wisdom F. Boespflug said about it: «I never believed in the theory of the need, based on an opposition between authority and believers. [...] I believe much more in what I would call the expressive dynamism of strong intuitions. A religion that is experienced in a deep manner by a society must then be expressed. And after the words, Christianity has conquered in a logical way different expressive deeds, from plastic arts to theatre, music and literature».
One can see, yet by this first hint, that each “guide” has to handle the history of the Church, in order to introduce its greatness, otherwise his/her message will be unappreciated.
One might say that, often, faith isn’t to be announced in a straight manner: faith is to be announced in an indirect way, through the vision of life that arises from it. The truth of faith is displayed in its ability to beget, to fecundate. Artistic expression is one of the truth-tests for Christianity, together with liturgy, theology, charity, marriage, love that brings children up, passion towards cosmos, and so on.
2/ The basic grounds: early Centuries, early Christian art and Constantine
The centrality of this issue emerges clearly from the analysis - and different interpretations - of the basic grounds of Christian art.
Faith’s expressive need is so innate that it appears quite earlier than Constantine turning point. It’s enough to see how records show that at the beginning of the Third Century - one Century before Constantine - Christian community already owned cemeteries. In Rome, where sources help the research, Callistus, deacon at that time, was charged with the care of catacombs, now named after St. Callistus, by Pope Zephirine. Community, even though persecuted by state public law, already owned common properties. Christian iconography of sarcophagus and catacomb frescos was already taking shape.
Even if it’s hard dating the transition from domus ecclesiae to first real churches, the building and decorating of specifically Christian buildings already was a fact halfway through the Third Century, as testified by Gallieno’s edict (in 262), also known as Restitution Edict, just because the Emperor decided upon giving back to Christians those properties they obviously had to have already owned previously. Only one Christian building of that period still survives, almost entirely preserved: it’s the famous church of Dura Europos, in today’s Syria.
The city was abandoned in 256, because of the coming of Sassanids and, then, all of its surviving monuments are earlier then that date.
Literary sources show that the case of Dura Europos certainly wasn’t the only one. We know from Eusebius of Caesarea that Emperor Aurelian (270-275), after the deposition of schismatic bishop Paul of Antioch, gave the church that was an Episcopal see to catholic bishop Domno. By documents of latin Africa relating Diocletian’s persecution it’s confirmed that in Abthugni (in today’s Tunisia) and in Cirta (in ancient Numidia, and today’s Algeria) there already were, earlier than 303, Christian basilicae.
When first donatist bishop Victor got to Rome itself from Africa, being sent there between 314 and 320, sources testify that, while he had no basilica where to gather his believers, Catholic Church had forty.
In Lactantius’ work it is even said that, when Diocletian’s persecution burst out, a basilica that was visible from Nicomedia’s Imperial Palace already existed, signalling that the existence of Christian buildings was by then an ordinary fact.
If the taking care and decorating of Christian buildings come first of Constantine turning point, it’s not less interesting the fact that they never come to a fall, not even in ecclesiastical movements that aimed to underline the charisma of poverty. It is well-known, for example, that not only did Francis of Assisi commit himself to the restoration of ruined and abandoned churches - San Damiano in primis - but he also wanted liturgical ornaments to be of a precious and not cheap material: «I beg you, more than if it was pertaining to myself, that, when it seems convenient and useful to you, you should supplicate the clerics that ought to venerate above all the holiest body and blood of Our Lord Jesus Christ and the holy names and His written words that sanctify the body. The chalices, corporals, ornaments of the altar and anything necessary to the sacrifice, ought to be of a precious material. And if in any place the Lord’s holiest body was to be put in a too miserable way, according to the Church’s command be it put in custody in a precious place, and be it carried with great veneration and administrated to others with discretion».
These facts testify that the existence of a Christian art has a different root from the aim to power.
3/ Every artist expresses not just himself, but his whole period: speaking of the greatness of an artist means also speaking of the greatness of the Church of his own time that appreciated him
History keeps on repeating itself since its beginning, before Constantine, e then with him. During the Middle Ages, in a supreme manner, big romanesque and gothic churches are due to people’s action.
An anti-christian author, Dario Fo, attemped to demonstrate that the Duomo of Modena has risen up in a period where there wasn’t any king nor bishop, to hide the fact that people always loved their own cathedrals, and yet that during the Middle Ages inside cathedrals there were actors and clowns, saints and scholars, men and women, sibyls and prophets, devils and dragons, and so on.
That’s why speaking of the Duomo of Modena doesn’t mean speaking of an exception, rather of the beauty of the Middle Ages, and not of any anti-catholic exception!
In a same way speaking of Michaelangelo Buonarroti means speaking of a man that, until the day of his death, worked to honour the memory of Julius the Second (the tomb that is “the Moses”), to honour the importance of the Law and of ministers sent from God (the Commandments and Moses himself), as well as he worked to St. Peter’s dome, without wanting to be paid, or to the decoration of Pauline Chapel, destined to popes’ Eucharistic adoration.
Same as above speaking of Caravaggio means exalting the Counter-Reformation age. Merisi loved Rome and, once he escaped because of a murder he committed, he did anything to get back there. In Malta he became Knight of the Cross, with the Pope’s consent, signing himself as frater “consacrated”.
Yet, cheating on the listeners, guides keep on repeating about the refusal of his works (see: the snake Madonna, with its centrality of Mary), ascribing every catholic fact to political events (see: insertion of the figure of Peter in St. Matthew’s Call), omitting of the centrality of the Scriptures in Counter-Reformation Church (Matthew the Evangelist), forgetting about devotions he depicted (Loreto’s house in the Pilgrim’s Virgin), overlooking clear quotes not just from Michaelangelo (Cappella Cerasi), but also from the masters of Humanism and Renaissance (Jacopo Sansovino).
Similarly when dealing with Baroque guides omit to explain its function and reasons of artistic choices. With regard to this, the meaning of St. Peter’s colonnade is clear (as is the frequent use of curved line, concave or convex). Some outlines of the same period show the awareness that men of Baroque Age had about its symbolic meaning. Pope Alexander the Seventh himself, who commissioned the colonnade, wrote that it was meant to remind of two arms «embracing catholics to confirm them into faith, heretics to reunite them to the Church, non-believers to illuminate them» (see the beautiful Lo spirito del barocco by Olivier de la Brosse O.P. on www.gliscritti.it ).
4/ Every work gets light from its historical-geographical position and its liturgical function
An artwork’s historical position is grounded in the narration not only of what characterizes a certain epoch of the Church’s history, but endures in time as a constant in faith and life of Church.
Church, indeed, is a public reality made up by men and women communicating each other through signs: without the use of proper signs Salvation would just be a private eventlacking any ecclesial substance.
Through the path of beauty (via pulchritudinis) we have to face the great objection modern man addresses to Christianity. Cardinal Ratzinger once stated in these terms:
«To us, contemporary men, the basic scandal of being-christian is represented first of all by the exteriority into which religious experience seems to be turned up. We’re scandalized by the fact that God has to be communicated through exterior devices: by means of the Church, sacraments, dogma, or even just through preaching (kerygma), behind which we gladly hide in order to lessen the scandal, remaining anyway something external. In front of all this, one asks himself: does God really live in institutions, events or words? Doesn’t the Eternal touch each of us inside? So, we have to answer at once and simply to this question, adding: if there were only God and a sum of single persons Christianity wouldn’t be necessary, […] For the single one’s Salvation it simply wouldn’t take any Church, nor history of Salvation, nor incarnation and passion of God in the world».
Man is a person provided not just with a spiritual nature, but also with a corporeity that constitutes him as a being in a relationship. This is why it wouldn’t have any sense to him a religion that should be purely internal. Ratzinger himself faces the question like this:
«Being given a corporeity necessarily involves communitarian history and life, since, if pure spirit may be conceived as strictly separate, corporeity testifies the descending from others: men live one by the other, in an extremely real sense and various as well».
Art shows us all this in a peculiar way. Great artistic creations almost always occurred with the involvement of the whole people of God. As an example, one may think of the big building sites of Romanesque and gothic cathedrals. Recent studies on the archives of Milan’s “Fabbrica del Duomo” (the institution that built and keeps on caring about the Duomo), for example, highlight how, in addition to rich families, single believers and even those who appear as most marginal categories in the community (as many prostitutes that freely gave their offerings for the building of Milan’s cathedral) contributed to the financing.
We shall never forget that tourists/pilgrims happen to see our churches when they are empty and they can’t perceive their use during big liturgies.
Telling about St. Peter’s colonnade means then telling of elections or funerals of Popos, or of blessings and hearings. Without the colonnade or the basilica, where else would we welcome Habemus Papam and first blessing? Where to ordain new priests? Or celebrate Baptism for catechumens? But, in the same way, how would it have been possible to save so many jews and refugees without those places? And who else might have mediated between Nazi and Allied ones in order not to place fights in Rome, without the existence of the State of Vatican itself? (see: June 4th, 1944)
Similarly Bernini’s Baldacchino, always remembered through silly quotation: “Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini” (“What the barbarians did not do, the Barberini did”), shouldn’t be remembered instead for its extraordinary way of attesting the centrality of Eucharist (and Baptism) for the people?
Let’s also think about the importance of “narrating” the liturgical position of artworks themselves. Caravaggio, for example, wanted to paint, “quoting” Michaelangelo, St. Peter that turns his head to watch the Eucharist while he’s been crucified (Cerasi and Pauline chapels).
5/ The importance of imagination
A guide’s task is that of telling and letting visualize the places as they were when they were first built, or at the time of events that took place there. St. Ignatius’s spiritual exercises and the experience of a pilgrimage to Holy Land or Franciscan places have been creating a consolidate tradition in this field, showing us which path to follow.
In front of St. Peter’s Square, for example, narrating means assuming the task of recalling Peter’s death and his burial, to show the extraordinary beauty and truth of his witness. To omit such “imagination” means to deny all of the meaning of the place itself.
In www.giubileovirtualtour.it we’ve made an attempt in using 3D techniques to strengthen this need for imagination (see also: La basilica di San Pietro in Vaticano: guida per la visita. I testi di www.giubileovirtualtour.it, di Andrea Lonardo).
St. Peter’s Square is the place to “recall” his martyrdom, but also the Pope’s election that gets life and meaning from it. For a foreign pilgrim it’s crucial “understanding through imagining” what he has seen many times on television, moving from virtuality to reality. The place adds the hic (“here, right here, in front of you”) to what he already knows.
We shall not forget that we’re supposed to tell about the birth of Christianity, or the announce of the Gospel in a given place, or the history of a certain saint (“ancient” Augustine or “modern” Saint Thérèse of the Child Jesus or Madeleine Delbrêl)
In Rome I’m introducing the history of Christianity trough Fori Romani and Palatino, without holding myself to simple churches (see: Spiegare il Nuovo Testamento passeggiando per il Palatino ed i Fori imperiali. Una guida per la visita, di Andrea Lonardo).
6/ Overcoming the temptation of politically correct and saying a word about how the history we’re speaking of has changed the history of the Countries we’re living in
A narration of the history of arts according to effective “politically correct” standards hides many historical data in fear of looking intolerant towards non-catholics or anyway no-believers. Only of Christianity we’re used to speaking ill!
It is omitted that Van Gogh was a protestant preacher and that his first homily is kept.
It is omitted that Johannes Vermeer was a fervent catholic forced to live in Delft’s papist ghetto and that for him, as for members of Catholic Church, it was forbidden to celebrate the Mass in public, denying the “catholic” value of many of his works (see: “il Trionfo della fede”). In Sweden the catholic Mass will be allowed only from 1951.
It is omitted that, while Baroque Age’s theatre was developing in Italy, puritan England banished theatres, destroying them, and destroying also music instruments (theatre and music were considered diabolic), and in the Netherlands it was forbidden for jews to speak with Spinoza in Amsterdam’s synagogue because he had been declared heretic by rabbis (1656).
Going further back in history it is omitted that in England, starting from Henry the Eighth, all convents and monasteries were confiscated and destroyed, with the exception of Westminster Abbey, only because there were buried England’s great and famous ones. Let’s think about Canterbury Abbey, so crucial in the arising of the Nation and destroyed by the King to grab stones and beams.
One may also think about the destruction of St. Vincent’s Cathedral in Cordoba (Mezquita-Catedral, or Mosque–Cathedral of Córdoba) or synagogues in Toledo and Cordoba that were built only after muslims’ defeat.
Yet, also in a positive perspective, when “narrating” the transition from Latin to English culture we have to highlight that the “foundation” of England and London itself is due not to pagan “Romans”, but rather to “roman monks”, sent by Pope Gregory the Great together with St. Augustine of Canterbury; they promoted exchanges between those two worlds and found both St. Peter’s Abbey (nowaday’s Westminster) and St. Paul’s (nowaday’s St. Paul’s Cathedral) many decades after Romans had abandoned Londinium (very interstingly, in addition to Christ’s Cross English flag bears the Cross of St. Andrew whose relics were brought by monks). the same should be said about Germany, evangelized by monks, starting from St. Boniface, and blent in a culture quite more humanistic than that of its forebears.
Let’s think about the absolute silence above Early Middle Age that’s omitted in every historical narration. The arising of Catholic Church’s temporal power was a providential event and a turning point for Rome and whole Europe.
7/ Bringing back the narration of an artist to his own time highlighting his collaboration with other artists and their common background
It is very important for “narration” to show existing relationships between painters of the same epoch, and also the fact that clients might compel them to work together. Caravaggio’s biographers, for example, just say that at that time there were many painting schools, all aimed to emerge from others. But authors never say if any of those schools was despised or over-exalted for religious reasons.
It is very interesting that Caravaggio became famous because of St. Matthew’s Call, in which light, coming from who knows where, as to say “from Grace”, reaches an alley to illuminate Matthew’s face, and giving expressive strength to Jesus’ calling arm.
So the light that bursts into the work is actually a quotation - even if a reverse quotation because light and dark trade their places - from the fresco made by Cavalier d’Arpino a few years before in the same Contarelli chapel, still visible nowadays in the chapel’s vault. Rather, Merisi himself might had worked to that fresco as an apprentice, since he just went to work by Cavalier d’Arpino when he was in Rome first.
Besides, he initially made only the two side paintings of the Chapel, because Jacob Cobaert, goldsmith and sculptor, had been charged with the evangelist’s statue that was supposed to be put above the altar. If the work has never been installed into Contarelli chapel it was only because neither the author nor the customers liked the statue, and finally it was put in Holiest Trinity of Pilgrims’ church (SS. Trinità dei Pellegrini), and that’s why it was then commissioned to Caravaggio also main altar’s painting. One can see at once that Caravaggio worked at Contarelli in an iconographic program handled with the help of Cavalier d’Arpino and Cobaert.
While Contarelli chapel has been changed during the work, leading to the “accidental” presence of three of Caravaggio’s works into the same space, things went differently inside Cerasi chapel in Santa Maria del Popolo, that represents a painting collaboration between different artists who might also be considered as rivals.
Into Cerasi chapel, the painting on the main altar, a sto say the most important work, is by Annibale Carracci, while the two side paintings were commissioned to Caravaggio, just like in Contarelli chapel.
Carracci’s work, “L’Assunta” (1600-1601) is wonderful and, probably, the comparison with such an artwork induced Caravaggio to leave his first versions of St. Paul’s Conversion and St. Peter’s Crucifixion, in favour of those in situ now.
Very interesting is the case of Deposition made by Caravaggio for the New Church (Chiesa Nuova - Santa Maria in Vallicella). Here the iconographical structure was decided by St. Philip Neri himself, when still alive, and by his first companions. Each side-chapel’s main painting should represent one of the “mysteries”, the most important episodes in Christ’s life, where Mary was there and she also had to be put in each painting. Anyone who should buy one of the side-chapels and make it decorate - as it was in the habit then - would not have been allowed to distance from the series set up by the Fathers of the Oratory.
St. Philip Neri could see some of the works already in the chapels - it is well-known that his best-preferred was the Visitation by Federico Barocci made in 1586.
In the Chiesa Nuova Caravaggio worked at the chapel bought by the Vittrici family creating the Deposizione. The altars’ central paintings of the whole series were made between 1578 and 1627 (not counting copies or substitutions to the program once completed, as with Deposizione substituted by a copy in 1797 after Napoleon’s troops stealing).
Following iconographic order, starting from left transept’s chapel, here’s the list of authors with dates suggested by academics:
- Presentazione al Tempio di Maria Bambina by Barocci (1603)
- Annunciazione by Passignano (1591)
- Visitazione by Barocci (1586)
- Natività by Durante Alberti (prior to 1590)
- Epifania by Nebbia (1578)
- Presentazione al Tempio di Gesù (also named Purificazione della Vergine) by Cavalier d’Arpino (1627)
- Crocifissione by Pulzone (1586)
- Deposizione by Caravaggio (1602, the original one is at Musei Vaticani, while in the chapel there is a 1797 copy)
- Ascensione by Muziano (prior to 1587)
- Pentecoste by a Flemish painter (1607 original, substitute in 1689)
- Assunta by Ghezzi (halfway through Seventeenth Century substitution)
- Incoronazione della Vergine by Cavalier d’Arpino (1615).
One may see clearly from here how Caravaggio’s Deposition is part of a whole series planned by the Oratory’s Fathers in a full Counter-Reformation context. Whether each author worked exclusively to the works assigned to him, nonetheless it should have been clear to them the project as a whole.
The Chiesa Nuova series enables us to see how customers behaved and what kind of dialogue there was between the Chapel’s buyer, the Chiesa Nuova’s Fathers, and artists themselves.
Well-known is the case of Pulzone’s Crucifixion that was painted while St. Philip Neri was still alive. One of the first companion of the Saint, Father Agnolo Velli, complained about the excessive portrait of blood in the work, particularly “one drop of blood falling on the face of the Crucified one”. The Oratory’s Fathers democratically expressed their opinion towards such detail in the work, upon an agreement with St. Philip who didn’t impose any choice: the majority approved the way the painting had been made, so no change was then asked to Pulzone.
The episode reveals how close the relationship was between customers and artists (furthermore the series isn’t just the twelve side-chapels but also the Baroque representation of Mary’s Assumption in the church’s apsis and cupola, made by Pietro of Cortona, in an iconographical sequency that runs indeed from Counter-Reform to Baroque).
Modern critics ideologically tend to isolate Caravaggio from his epoch, almost as a unicum in his own time, while he surely painted conscious of his own abilities, but also fully integrated with his peculiar style in Counter-Reform Rome of the time.
This is also evident from his pupils’ work as much as from the work of students of other Counter-Reform masters. In years after the death of those same generations of painters as Merisi belonged, the youngest generation got inspired by one or the other of the masters that lived between the end of Sixteenth Century and the beginning of the Seventeenth, until the bursting of Baroque art.
For a different reason, it’s interesting the case of the Madonna della Serpe (Madonna of the Snake) in which Caravaggio kept strictly to the catholic dogmatic presentation of the figure of Mary. The work (sold in 1605 only because of the demolition of the constantinian nave) reprises pre-existing and well-known examples.
8/ Bringing back the artist even more radically to the narration meant by the client and clarified during centuries by the Tradition
Many artists painted their works conceiving them as belonging to a series. It’s quite famous the case of Munch (Study for an evocative series called Love, chosen for Berlin’s 1893 Exhibition, where it is depicted the change from love’s first phase full of hope to its pitiful end. The title was then changed to Frieze: motives of the way of a modern soul, for 1904 Expo in Kristiania, today’s Oslo, until most simple Frieze of life for 1918 Kristiania).
For ecclesiastic clients the unity is given not just by the single author’s choices, but much more by the unity of the story of Salvation (according to the principle of “unity” clarified by Dei Verbum during Vatican II Council)
The most evident example in Rome is that of Sistine chapel where the vault shows the Creation, walls (painted previously) the history of Salvation and the altar’s wall the Final Judgement and Parousia. The Sistine chapel - as any decoration of ancient building - wraps up men in a global narration. If post-modern is characterized - starting from Lyotard - as the epoch of the end of great narrations, here it is instead the Christianity representation is anchored in unmovable way to such a great narration as to hold the entire History.
Such great narration implies the biblical interpretative principle of typology, one of the most neglected principles in today’s catechesis, but steady in liturgy. According typology Isaac isn’t just Isaac, but also Christ in figure, Moses non just Moses, but Christ in shades, and so on. Biblical-artistic “narration” lives on typology, that is rooted in the Jew people themselves and then in Jesus. (see: «Il fatto che la liturgia abbia fatto sue e conservate lungo i secoli determinate esegesi tipologiche costituisce una specie di "consacrazione" di esse, tanto da poter essere considerate interpretazioni tradizionali e ufficiali della Chiesa». Al cuore della catechesi non c’è solo la Scrittura, ma anche la liturgia: solo la liturgia è in grado di “spiegare” la Scrittura attraverso la lettura tipologia della Bibbia. Tre riflessioni capitali di Sofia Cavalletti and other issues on tag tipologia).
Forgetting about the overall meaning of images leads to mistakes like the one we often see in St. Francis of Assisi, where nothing is ever said on the apsis’ frescos or about the highest levels of the basilica’s walls, because we usually just stare at Franciscan stories (with damage for the introduction to the true meaning of St. Francis and the understanding of history of art’s actual evolution (the Master of Isaac’s Stories is much more modern than Giotto, although he’s been living previously).
9/ The narration of “mysteries” as a completion offered to critical historical exegesis
Even from another point of view the iconographic representation introduces once again the typical theological perspective of unity in Scriptures. While the reading of an episode in New Testament may linger on the peculiar perspective of a single evangelist, the representation of the same episode compels to one coherent proposal. If the Baptism of Christ is depicted it doesn’t matter how different evangelists describe it: the artist has to convey the episode to its basic essence.
Similarly Michaelangelo, in representing the creation of Adam, didn’t worry about showing the differences between the tale in Genesis 1 and that of Genesis 2, he just developed a synthetic image that didn’t reflect any of the two versions, but re-created them, giving of them an interpretation that’s more touching than any scientific biblical study.
This perspective is particularly fitting to the formation of a synthetic look of the believer, while the underlining of different shades is more relevant in an academic study.
In this manner iconography shows, in its own way, the everlasting validity of the presentation of the so-called “mysteries” of Christ and, more in general, of the “mysteries” in the history of Salvation. It reminds that, for those who wish to “see” faith, it isn’t that important the perspective relating, for example, different versions of Last Supper, rather it is the meaning of such event. The same about Genesis, where the big question is whether God created man, whether man has a different dignity from that of animals, or what Creation announces that is so beautiful and how it could complete modern scientific researches. A merely literary approach to the question would be absolutely useless both from an artistic and catechetic point of view.
10/ Narrating the history of the Church
We’ve tried to show how, separating art from the Church and its history, would be impossible in concrete, and damaging pedagogically; it would also mean giving up to being scientific and objective.
We’ve underlined how history we’re dealing with is not that of time, rather the effectiveness of a message that always touches hearts.
A reading too “contemporary” - as we use to say about the conversion to Catholicism of Henry the Fourth King of France - of Peter into St. Matthew’s Call isn’t reliable. Way too reasonable is a reading that goes beyond the distance between Christ and Caravaggio’s contemporaries that are sat at the taxes desk.
(traduzione di Nicola Tassinari)
Riprendiamo da La Repubblica del 5/4/2016 un’intervista di Susanna Nirenstein ad Adin Steinsaltz. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Ebraismo.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
ROMA - Arriva direttamente da Tel Aviv al nostro appuntamento romano, piccolo, vestito in modo caotico di nero come gli ebrei ortodossi ashkenaziti, incorniciato dai capelli e la barba bianca disordinati, con una voce sottile, musicale, come abituata al ragionamento continuo tra sé e sé, e tra sé e i massimi sistemi. Il rabbino Adin Steinsaltz, massimo esperto di Talmud nel mondo (ieri un'edizione di "Parole semplici" è uscita a Taiwan e pochi giorni fa in Iran!), il suo traduttore per eccellenza, nonostante i suoi ottanta anni ha sorrisi e sguardi che tradiscono tutta la forza vitale, mentale, incantano.
È qui perché deve presentare oggi all'Accademia dei Lincei il volume del Talmud il Trattato di Rosh haShanà tradotto in italiano, il primo dell'intera opera che sarà pubblicata dalla Giuntina, un'impresa mastodontica (le pagine in tutto sono 5422, i trattati 36, gli ordini 6) voluta dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, presidente del Comitato in cui sono parte importante anche le istituzioni italiane. Guarda un foglio dove abbiamo appuntato le nostre domande, e dice subito, ridacchiando, che non è disposto a stare dieci ore insieme a noi.
È stanco?
"Io non sono mai stanco" risponde. E prende una sua strada, molto personale, un diluvio di parole, per rispondere (estrapoliamo) innanzitutto che il Talmud Babilonese (ce n'è anche uno di Gerusalemme, meno ampio e frequentato) sunteggia la legge ebraica orale (la Mishnà, ovvero il codice normativo trasmesso sul Sinai a Mosè in ebraico ma non per scritto) e il suo commento redatto in aramaico-ebraico, una sintesi delle discussioni dei maestri, i chakhamim, sulla Mishnà stessa, perché il Talmud è l'unico libro sacro al mondo che non solo permette ma incoraggia ogni domanda, ogni dubbio, e accetta, anzi sprona, risposte discordanti, e le riporta pur cercando infine elementi in comune che non sempre arrivano.
Va bene, ma perché tradurlo, non perderemo parte del significato, i riferimenti all'uso della stessa parola in altri testi, o il suo valore numerico? Lei è stato il primo a trasporlo tutto in ebraico, ed è stato anche molto criticato.
"Conosco una bella frase in italiano, "il traduttore è un po' un traditore", ed è vero. Ma è alla base del rapporto tra le civiltà. Ogni traduzione perde qualcosa, ma se vuoi trasportarla nel mondo devi rischiare, anche se nel trasmetterla va via un po' di bellezza, un po' di sostanza. Rendere così accessibile il Talmud è un atto, un gesto che in qualche modo cambia una tradizione per cui, specie ai tempi della trasmissione orale, lo studio era ristretto a una cerchia limitata, al maestro e ai suoi discepoli. Qualcuno pensa ancora che sia questa la condizione migliore. Ma io no, e non solo io evidentemente. Ho letto una Divina Commedia in ebraico, e sicuramente non era la stessa cosa. È più facile tradurre la fisica, la matematica. Ed è ancor più facile farlo se mettiamo mano a un testo che appartiene alla stessa epoca e alla stessa cultura della lingua in cui lo trasponiamo, che so, un romanzo italiano in un romanzo francese del Novecento. Ma per i libri antichi e per di più provenienti da una tradizione diversa, sono guai. Inoltre il linguaggio del Talmud non era nemmeno allora comune, si tratta di una sorta di gergo tra aramaico e ebraico. Spero che l'italiano usato in questa opera comunque renda l'idea della sua bellezza".
Ma perché in italiano poi, una lingua parlata da pochi milioni di persone, un paese con una comunità ebraica piccolissima? È un testo universale? Cosa ci cercherà un non ebreo?
"Certo sarebbe meglio che uno studiasse la lingua e la cultura ebraica per affrontarlo. Ma chi ha tutto quel tempo? Vede, il Talmud è stato per secoli un grande mistero, la gente era sicura che dentro ci fossero dei segreti oscuri. Spesso lo prendevano e lo davano alle fiamme, dall'antichità giù giù fino ai nazisti, lo distruggevano: pensavano che attraverso quelle pagine gli ebrei mandassero non si sa quali maledizioni o evocassero strani poteri. Era più una leggenda che un fatto. E i miti, i pregiudizi, continuano ancora. In Italia spesso ad esempio si pensa che gli ebrei siano mezzo milione invece dei 35.000 che sono! Noi ora prendiamo la nostra scatola chiusa e l'apriamo: che guardino dentro. Se la Bibbia è la prima pietra del giudaismo, il Talmud ne è il pilastro centrale: leggano, non ci sono arcani. Al massimo potranno dire che siamo pazzi".
Qual è la caratteristica principale del Talmud, invece?
"La sua essenza ha trasmesso al mondo il grande messaggio del pensiero dialettico. E il mondo ne ha un grande bisogno perché traversa un periodo di follia, di estremi. Occorre guardare, capire, porre e porsi molte domande. Tentare di rispondere. Tutto il Talmud è fatto di dibattito e pensiero, su qualsiasi argomento, scienza, uomini, donne, astronomia, economia, agricoltura, persino fecondazione artificiale... ".
Lei ha scritto che nel Talmud ci sono soggetti che è impossibile veder accadere nella realtà, come allora probabilmente era la fecondazione artificiale.
"È un modo meraviglioso per imparare a fare le domande migliori. Su tutto. La scienza ti risponderà sulla differenza tra la luce rossa e la luce blu, ma i veri punti interrogativi riguardano cosa c'è tra un uomo e un altro. La matematica non se ne occupa. Il Talmud dibatte di cosa è fatta la vita. E ogni allievo ebreo apprende come porre non una ma cento questioni, e cerca una risposta. Anche ai quesiti più assurdi, tipo immaginare un oggetto in quarta dimensione, e in quinta e magari in sesta. La teoria fisica delle stringhe molti secoli dopo ne ha parlato".
Un procedere per paradossi?
"No, una visione del mondo, il Talmud è vivo, è capace come un artista di scolpire nel marmo una fontana con l'acqua scrosciante. Penseresti che è impossibile e invece lo è. Studiare il Talmud, è come stare seduti a un tavolo lunghissimo e discutere con Mosè, i profeti, i maggiori maestri, e me, e lei. Al presente".
Riprendiamo sul nostro sito un testo di Giacomo Poretti, tratto da Poretti G., Alto come un vaso di gerani, Mondadori, Milano, 2012, pp. 133-135, dove è l’ultimo capitolo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi dello stesso autore, cfr. il tag giacomo_poretti.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
Il primo ricordo
Ho cominciato a piangere che eravamo quasi arrivati in ospedale. Calcolando che saranno passati almeno quaranta minuti dalla chiamata effettuata dall'unico telefono del paese, più almeno un quarto d'ora in cui la levatrice, prima di arrendersi, mi ha malmenato, immerso nell'acqua sia fredda sia calda, urlato nelle orecchie e pizzicato, insomma ci ho impiegato quasi un'ora a urlare tutto lo stupore che provavo per essere venuto al mondo. Un'ora in apnea con il fiato sospeso a guardare dove ero capitato. Ma come avrò fatto?
Si stava stretti nell'ambulanza e tutti mi davano per spacciato: la levatrice, la nonna grande e la nonna piccola (si chiamavano entrambe Maria le nonne, e per non confonderle le avevamo ribattezzate in quel modo), l'autista e il portantino, tutti pensavano di portarmi al cimitero anziché all'ospedale. Solo mia mamma aveva fiducia in me, nonostante fossi diventato color blu cobalto e mi ostinassi a non piangere. Forse una delle nonne, mossa da pietà, deve avermi messo nelle braccia di mia mamma, come a dire «guarda com'è ridotto, non ci fanno neanche salire in pediatria...». Dopo un secondo che ero nella posizione dov'ero sempre stato e dove avrei voluto rimanere per sempre, ho emesso un urlo tale che ho fatto sbandare l'autista dell'ambulanza. Sono sicuro che la mamma mi ha capito: «Ma cosa mi hai combinato, dove mi hai portato, mamma?...».
Lei mi ha accarezzato la testa e io mi sono addormentato, era il Millenovecentocinquantasei.
Al mio papà non gliel'ho mai chiesto dove fosse in quel momento, ma, conoscendo la sua timidezza imbarazzante negli attimi cruciali, forse stava inseguendo l'ambulanza in bicicletta. Certo che avrei potuto salutarlo con la manina, dopo che mi sono messo a piangere, ma non riuscivo a staccare gli occhi dalla mamma.
Che roba strana la vita, non sapevo se essere contento o spaventato.
Molti sostengono che si inizia a pensare dopo qualche anno, ma non è vero: io, dalla paura, ho iniziato subito, e mi sono accorto che i pensieri venivano da soli, senza che io li chiamassi alla forma o ne ordinassi con volontà una direzione piuttosto che un'altra. No, venivano da sé, io potevo solo registrare il loro formarsi e il loro turbinare: «La vita, chissà perché c'è? E invece, piuttosto che esserci, perché non c'è niente? Perché c'è qualcosa e non il vuoto, il nulla?».
Me le sono sempre sentite addosso queste domande, fin dal primo momento che l'aria è potuta entrarmi dalla bocca, fin da quando ho aperto gli occhi, insomma. Avrei voluto rivolgere quei perché a mia madre, alle nonne, poi al medico in ospedale: «Perché? Ehi, ascoltatemi! Cos'è questa roba? Perché c'è la vita, perché? Ehi, dottore, dico a lei, perché?...».
Ma erano tutti indaffarati a farmi piangere, più piangevo e più erano contenti, e io li accontentavo, cercavo i loro occhi e avrei voluto parlare, ma ho scoperto, dopo, che sarebbe passato almeno un anno prima di poter sbiascicare soltanto qualche monosillabo. Eppure li guardavo negli occhi e mi sorridevano contenti, ma nessuno intuiva l'inquietudine che avevo dentro il cuore, la mamma era così felice che io piangessi che si sciolse in lacrime anche lei, e così ho pensato che forse quella cosa lì, la vita, non doveva essere poi così male...
Riprendiamo da Maurici F., Breve storia degli arabi in Sicilia, Flaccovio Editore, Palermo 2006, pp. 31-53, il II capitolo del volume di Maurici. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Alto Medioevo nella sezione Storia e filosofia e la sotto-sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
La conquista musulmana della Sicilia
La ribellione di Eufemio
La situazione di pace armata fra le due sponde del canale di Sicilia si protrasse sostanzialmente anche nel primo venticinquennio del IX secolo. Gli emiri aghlabiti di Ifriqiya conclusero tregue con gli strateghi di Sicilia nell'805 e nell'813. Mercanti musulmani operavano in Sicilia mentre i porti africani erano visitati da commercianti bizantini provenienti dall'isola. Ma l'unità politica del mondo islamico si era ormai frantumata e le varie potenze regionali perseguivano una propria politica. Nel Mediterraneo occidentale i traffici e la navigazione erano resi costantemente pericolosi dalla presenza di naviglio corsaro proveniente dalla Spagna musulmana e dal Marocco idrisita. Da queste basi partirono anche incursioni contro la Sardegna e la Corsica. La tensione poteva quindi facilmente riaccendersi anche fra Sicilia ed Ifriqiya.
Nell'812, prima che la tregua siculo-aghlabita venisse rinnovata, si verificarono sanguinosi scontri navali nelle acque di Lampedusa. Nell'819-820, mentre vigeva teoricamente la tregua, una flotta aghlabita condotta da un cugino dell'emiro Ziyadat Allah I attaccò la Sicilia e vi fece moltissimi prigionieri. Non sappiamo se l'impresa venisse realizzata per rappresaglia ad atti ostili da parte dei bizantini o come deliberata azione aggressiva. L'incerta tregua reggeva ancora quando un evento improvviso mutò definitivamente fra 826 ed 827 il corso delle relazioni fra la Sicilia bizantina e l'Ifriqiya. Nell'826 si era insediato il nuovo stratego dell'isola, di nome Costantino. Fra lui ed un ufficiale delle forze navali, il turmarca Eufemio, sorse un dissidio per ragioni poco chiare, forse di carattere assolutamente personale. Una storia di donne, come qualche fonte riferisce. Eufemio era un abile comandante e le unità al suo comando lo sostennero nella lotta contro lo stratego. Siracusa venne occupata dagli insorti e lo stratego Costantino fu ucciso. Secondo un copione ormai sperimentato, Eufemio si autoproclamò imperatore e distribuì cariche ai suoi fedeli in varie parti dell'isola. Uno di questi ufficiali, chiamato «Balata» dalle fonti arabe, si rifiutò però ad un certo punto di obbedire all"'imperatore" e lo affrontò in battaglia sconfiggendolo.
Eufemio fece allora quello che altri ribelli avevano fatto prima di lui. Si rivolse per aiuto ai nemici più vicini e pericolosi, i musulmani d'Ifriqiya. Pur nella confusione degli eventi e nella scarnezza delle fonti che li riportano, è chiaro il filo che lega la secessione di Eufemio ad altri analoghi episodi di rivolta all'autorità imperiale, in Sicilia ed altrove. Un'interpretazione romantica e nazionalistica della figura di Eufemio è quindi decisamente fuori luogo.
In Tunisia Eufemio chiese l'invio di truppe che potessero soccorrere i suoi partigiani in Sicilia e rovesciare la situazione militare. Domandò inoltre il riconoscimento del suo titolo imperiale e, in concreto, il governo della Sicilia. In cambio, il turmarca ribelle si impegnava a versare un tributo all'emiro aghlabita e quindi a riconoscerne la sovranità. L'offerta di Eufemio suscitò non poche perplessità alla corte di Ziyadat Allah. Con i bizantini (i Rum) di Sicilia vigeva una tregua e l'emiro volle quindi essere rassicurato sulla legalità di un'eventuale spedizione militare. Furono interpellati i due maggiori giuristi di Qayrawan ed uno di essi, Asad ibn al-Furat, si espresse decisamente nel senso del gihad,la guerra santa. Le giustificazioni legali vennero ritenute valide ed il parere del giuriconsulto prevalse sulla quasi unanime opposizione iniziale dei maggiorenti all'impresa siciliana.
Asad ibn al-Furat venne nominato capo della spedizione. Era un vecchio esperto di diritto e non certo uno stratega. Il suo grande prestigio personale costituiva però una buona garanzia di unità e disciplina per un esercito d'invasione composto da contingenti di diversa origine etnica. La sua riconosciuta autorità in campo giuridico avrebbe inoltre permesso di risolvere i non facili problemi legali che il gihad poneva, in primo luogo la corretta ripartizione del bottino. È indubbio che Asad venisse affiancato da uno stato maggiore di esperti condottieri cui sarebbe spettata la direzione delle operazioni belliche vere e proprie.
L'armata, composta da arabi, berberi, spagnoli, persiani e negri, si radunò a Susa, pronta a salpare. Erano, riferiscono le fonti, circa diecimila uomini, senza contare gli armati di Eufemio. Per il trasporto fu messa insieme una flotta di circa cento legni. Al corpo di spedizione schierato Asad tenne un discorso da uomo di studio quale egli era, più che da condottiero. L'impresa alla quale si accingevano offriva grandi possibilità di aumentare i confini della conoscenza e l'esortazione di Asad ai suoi uomini fu quella di raccogliere quanta più scienza potessero. Non sappiamo quanto simili argomenti potessero infervorare le migliaia di guerrieri pronti all'imbarco sulla spiaggia tunisina.
Da Mazara a Enna
Il 14 giugno 827 la flotta fece vela verso la Sicilia, dove giunse il 17. In pochi giorni vennero completate le operazioni di sbarco e l'esercito fu in grado di operare in campagna. Nel frattempo «Balata» raccoglieva truppe e si preparava a sbarrare il passo agli invasori. Il primo scontro avvenne verso la metà di luglio, in un punto imprecisato della Sicilia occidentale. Nell'approssimarsi della battaglia Asad scoprì rudemente le sue carte ed invitò senza mezzi termini Eufemio ed i suoi a farsi da parte, lasciando solo ai musulmani il compito di sostenere l'attacco. L'esercito bizantino venne fatto a pezzi. «Balata» si rifugiò a Castrogiovanni (Enna) e di lì in Calabria, dove morì.
La campagna di Asad si sviluppò, dopo questo primo scontro campale, secondo una strategia che si potrebbe definire da "guerra lampo". L'esercito musulmano, lasciato un presidio a Mazara, puntò al cuore politico, amministrativo e militare della Sicilia bizantina. Marciò quindi direttamente sulla capitale Siracusa, ritenendo probabilmente che la capitolazione della città avrebbe comportato il crollo repentino di tutta la difesa bizantina.
L'avanzata dell'esercito invasore non incontrò apparentemente alcuna resistenza degna di ricordo. Soltanto sotto Akrai, oggi Palazzolo Acreide, una delegazione di maggiorenti si presentò ad Asad chiedendo la pace. I cronisti arabi ritengono che le richieste di pace fossero solo un espediente per guadagnare tempo e dare la possibilità ai difensori di Siracusa di fortificare ulteriormente la città. Sembra inoltre che Eufemio, le cui velleità erano state immediatamente frustrate da Asad, fosse in intese segrete con i siracusani e li incitasse alla resistenza. Comunque stessero le cose, Asad si fermò alcuni giorni sotto Akrai prima di riprendere la marcia su Siracusa.
La capitale del "tema" era ridotta all'ombra della grande metropoli d'età greca. Abbandonati da secoli i sobborghi ed i quartieri più periferici, l'insediamento urbano si era concentrato sulla penisoletta d'Ortigia e nella zona più vicina all'istmo che la congiungeva alla terraferma. Qui esisteva un primo sbarramento, antemurale delle difese di Ortigia. I musulmani si accamparono all'interno delle antiche latomie e tentarono con la flotta di imporre il blocco anche dalla parte del mare.
Le speranze di una facile conquista di Siracusa, però, si dimostrarono subito scarsamente fondate. Asad comprese probabilmente che l'impresa era superiore alle forze ed ai mezzi a sua disposizione. Si affrettò quindi a chiedere rinforzi, limitandosi nel frattempo a tenere bloccata la città ed a condurre qualche assalto, più che altro per saggiare e tenere impegnate le forze bizantine.
La situazione iniziò però ben presto a diventare critica per i musulmani. Le difficoltà di approvvigionamento ridussero alla fame gli assedianti, costretti a cibarsi dei propri cavalli. Il malumore cominciò a serpeggiare e si verificò anche un inizio di ammutinamento, sedato con misura e saggezza da Asad. I rinforzi africani alla fine giunsero e vennero ulteriormente irrobustiti da contingenti musulmani provenienti da Creta. Dalla parte di Palermo giunsero però soccorsi anche ai bizantini. Un nuovo violentissimo scontro campale si verificò sotto Siracusa e per la seconda volta i musulmani fecero strage dei nemici.
L'assedio, che oramai durava da quasi un anno, fu così ulteriormente stretto. I siracusani chiesero di trattare i termini di un accordo (in arabo aman)ma gli assedianti rifiutarono ogni concessione. Nel frattempo, i contingenti musulmani spediti contro varie fortezze e città minori dell'isola, ottenevano la sottomissione di un gran numero si esse. Il dominio bizantino sulla Sicilia sembrò vacillare pericolosamente quando nelle fila musulmane scoppiò una grave epidemia. Lo stesso Asad pare ne rimanesse vittima, mentre altre fonti parlano di una più gloriosa morte sul campo. Inpreda al panico, i musulmani decisero di non attendere la nomina da parte dell'emiro di un nuovo comandante e di reimbarcarsi velocemente per l'Africa. La via del mare venne però improvvisamente bloccata da una flotta veneta accorsa in aiuto di Siracusa. Bruciate le navi, i musulmani iniziarono il ripiegamento verso Mazara. Lungo la ritirata vennero occupate le fortezze di Mineo e Girgenti (Agrigento) e fu posto l'assedio all'importante fortezza di Castrogiovanni. Qui Eufemio venne attirato dagli abitanti in una trappola ed ucciso. Con la sua morte cadeva ogni residua ambiguità, se ancora ne fossero rimaste. La conquista dell'isola diveniva, anche formalmente, un fatto esclusivamente musulmano.
L'assedio di Castrogiovanni, come già quello di Siracusa, si dimostrò impresa difficilissima. Le forze musulmane si logorarono in inutili assalti, subendo anche le pericolose sortite degli assediati. Venne quindi presa l'unica decisione possibile, quella della ritirata verso la vicina Mineo.
Contemporaneamente anche la guarnigione lasciata a Girgenti saccheggiava la città e ripiegava su Mazara, pronta a reimbarcarsi. Il bilancio della prima fase di guerra era quindi decisamente fallimentare per i musulmani. A due anni dallo sbarco di Mazara soltanto questa città e la lontana Mineo, al capo opposto dell'isola, restavano in mano saracena. In mezzo si estendeva un territorio ostile i cui difensori, dopo una prima fase di sbandamento, cominciavano ad organizzarsi e passare al contrattacco. Da invasori i musulmani stavano per trasformarsi in assediati.
La salvezza, probabilmente insperata, venne dalla Spagna. Una flottiglia di predoni iberici al comando di un famoso avventuriero soprannominato Fargalus sbarcò in Sicilia ed accorse in aiuto dei correligionari stretti d'assedio a Mineo. Sopraggiunsero quasi nello stesso tempo anche gli attesi rinforzi dall'Ifriqiya. Fargalus, accettato anche dagli africani come comandante in capo, occupò varie fortezze e affrontò le milizie bizantine sotto Mineo. Fu un massacro. Lo stesso generale greco, Teodoto, rimase ucciso sul campo, mentre i resti del suo esercito andarono a rinchiudersi precipitosamente fra le mura di Castrogiovanni. A questo punto però scoppiò nel campo musulmano una delle ricorrenti epidemie di cui rimase vittima lo stesso Fargalus. Una parte dei musulmani spagnoli decise quindi di reimbarcarsi. Altri però rimasero e si unirono all'esercito aghlabita uscito da Mazara per andare ad assalire Palermo.
L'assedio della città, difesa da forti mura e rifornibile dal mare, durò un anno, dall'agosto 830 al settembre 831. Popolazione e presidio opposero una resistenza disperata. Secondo una fonte islamica, dei settantamila uomini rinchiusi a Palermo all'inizio dell'assedio, solo tremila restavano in vita al momento della capitolazione. Le cifre sono naturalmente esagerate, ma la strage dei palermitani fu certo enorme. La città, svuotata di abitanti, venne scelta come base di operazioni e, in prospettiva, come capitale musulmana dell'isola. In pochi decenni, una periferica città dell'impero bizantino si sarebbe trasformata in una grande metropoli araba.
La conquista di Palermo fu preludio alla stabile presa di possesso della Sicilia occidentale, quella che verrà poi detta Val di Mazara. La conquista usciva dalla convulsa fase iniziale e l'emiro Ziyadat Allah si affrettò ad inviare suo cugino Muhammad ibn Abd Allah come wali,suo legittimo rappresentante nell'isola. Nell'835 vennero coniate in Sicilia monete arabe in nome dell'emiro aghlabita e del suo luogotenente.
L'ulteriore penetrazione musulmana si andò sviluppando secondo un disegno strategico ben preciso. I bizantini avevano concentrato il loro sforzo difensivo su Castrogiovanni e quindi su una linea che, avendo come centro quella piazzaforte, tagliava l'isola in due, da Cefalù a Butera. Contro questa linea, e soprattutto contro Castrogiovanni, i saraceni mantennero una costante pressione, anche con puntate offensive che penetravano profondamente nel settore bizantino, fino a Taormina o Siracusa. Queste scorrerie dietro le linee, oltre a seminare il panico e scompaginare le difese bizantine, fruttavano ricco bottino in prigionieri, animali, beni di ogni tipo. La guerra di conquista in tal modo si autoalimentava.
Nel frattempo le fortezze bizantine dell'interno del Val di Mazara, praticamente chiuse in una sacca, venivano assediate ed espugnate o costrette alla resa ad una ad una. Fra l'839 e l'841 caddero Caltabellotta, Corleone, Platani e molti altri centri di incerta o impossibile identificazione e localizzazione.
Per garantire il controllo del mare e quindi la sicurezza delle operazioni terrestri venne anche realizzata una efficiente squadra navale. Alcune unità vennero munite di dispositivi incendiari e furono quindi in grado di misurarsi ad armi pari con le navi da guerra bizantine armate del temuto "fuoco greco".
Padroni ormai della Sicilia occidentale, i musulmani intensificarono le operazioni contro la parte orientale dell'isola. Fra l'842 ed l'843 venne espugnata Messina, anche con l'aiuto di contingenti napoletani. "Empie alleanze" fra cristiani e musulmani come questa non furono nell'alto medioevo un'eccezione.
Nell'845 fu assalita ed espugnata l'antica città di Modica. Nell'846-847 fu messo l'assedio a Lentini i cui difensori dovettero arrendersi dopo una sfortunata sortita. Nell'848 cedette a condizioni anche Ragusa. Sembra che in questa fase della conquista i musulmani puntassero a creare il vuoto attorno alle due più importanti fortezze rimaste ai bizantini, Castrogiovanni e Siracusa, e ad isolarle fra loro tagliando le comunicazioni.
Questa strategia venne sviluppata negli anni successivi da al-Abbas ibn Fadl, uno dei più abili condottieri militari che la storia dei musulmani di Sicilia ricordi. Nell'853 al-Abbas assediò Butera, costretta a consegnare un gran numero di prigionieri. La città controllava da un'altura la costiera meridionale ed era ubicata lungo una delle vie attraverso cui molto probabilmente veniva rifornita Castrogiovanni. L'anno prima al-Abbas aveva assalito Caltavuturo. Questa roccaforte proteggeva Castrogiovanni da nord-ovest controllando la strada che lungo la valle del fiume Imera Settentrionale conduceva dalla costa verso l'interno. Nell'858 venne stretta d'assedio Cefalù, già inutilmente assalita nell'837. La cittadina costiera, munita di una formidabile acropoli naturale, era un altro punto attraverso cui Castrogiovanni poteva ricevere soccorsi dal mare. La sua capitolazione fu quindi premessa indispensabile all'assalto finale contro il bastione ennese.
Castrogiovanni è una delle più formidabili fortezze naturali del mondo. Arroccata sulla sommità di un vasto acrocoro roccioso a quasi mille metri, è difesa da dirupi vertiginosi ed accessibile solo da pochi punti facilmente controllabili. Per i mezzi bellici altomedievali la città era quindi quasi inespugnabile, nonostante il taglio parziale delle comunicazioni e dei rifornimenti. A prestar fede alle fonti arabe, fu il tradimento di un prigioniero destinato a morte che permise ai musulmani l'ingresso nella munitissima acropoli. In cambio della vita il condannato promise ad al-Abbas di guidare un reparto di commandos all'interno della fortezza. Una notte di inverno dell'859 un drappello condotto dal traditore si inerpicò per i fianchi della rocca e giunse ai piedi delle mura mentre le sentinelle, approssimandosi l'alba, avevano allentata la vigilanza. Il prigioniero indicò l'imboccatura di un acquedotto e ad uno ad uno i musulmani vi si inoltrarono, sbucando all'interno della città.
Gli assalitori corsero allora verso una porta, uccidendo quanti incontrarono sul cammino. Spalancato l'accesso dall'interno, al-Abbas entrò a cavallo a Castrogiovanni, seguito dal grosso delle sue truppe. Fu una strage immensa, celebrata alla fine con la consacrazione di una rudimentale moschea dove al-Abbas presiedette alla preghiera del venerdì. Eccezionale il bottino in schiavi, gioielli, denari, robe; grande l'esultanza in Ifriqiya; profondo lo scoramento a Bisanzio. Sull'onda dell'emozione, un forte corpo di spedizione bizantino sbarcò a Siracusa ed andò a farsi massacrare dai soldati di al-Abbas. In più, la flotta musulmana intercettò quella greca mentre imbarcava i superstiti, sconfiggendola a sua volta.
Intanto, alla notizia dello sbarco di rinforzi bizantini si erano ribellate alcune località della Sicilia occidentale precedentemente già sottomesse. Le cronache nominano Platani, Caltabellotta, Caltavuturo ed un'altra fortezza che la incerta grafia non permette di identificare con precisione. Al-Abbas affrontò i ribelli con la consueta determinazione, sbaragliandoli. Quindi piombò addosso ad un ulteriore corpo di spedizione bizantino, ricacciandolo verso Siracusa.
Nell'agosto dell'861, mentre era impegnato in una scorreria in Sicilia orientale, al-Abbas morì dopo una brevissima malattia.
La sua vicenda si chiudeva dopo undici anni di strepitosi successi militari in Sicilia. Il suo nome incuteva paura anche dopo la morte ed i siciliani ne esumarono il cadavere e lo bruciarono, intendendo disperderne con le ceneri anche il ricordo.
La caduta di Siracusa
Non fu facile trovare un successore dall'energia e dall'abilità militare pari a quelle di al-Abbas. In rapida successione si alternarono come governatori due figure di secondo piano, Ahmad ibn Yaqub e Abd Allah, figlio di al-Abbas. Alla fine, nell'862, la scelta degli emiri di Ifriqiya cadde su Khafagia ibn Sufyan che riprese la politica aggressiva di al-Abbas. Varie spedizioni vennero lanciate contro Siracusa e la Sicilia sud-orientale. Le truppe musulmane riportarono alcune sanguinose sconfitte campali ma riuscirono ad espugnare, fra 864 ed 865, Noto e Scicli. Nell'866 Khafagia occupò una città da identificarsi probabilmente con Troina e sottomise di nuovo Noto e Ragusa, ribellatesi al dominio musulmano. Un colpo di mano contro la munitissima Taormina, condotto dal figlio di Khafagia Muhammad, fallì, quando già i musulmani si erano impadroniti di una delle porte della città.
Nonostante alcuni parziali rovesci, però, il cerchio intorno a Siracusa si andava chiudendo lentamente. L'assedio della metropoli bizantina fu preceduto dalla consueta razzia che fece terra bruciata in tutta la Sicilia orientale, da Rometta, a Taormina, a Catania, alla stessa Siracusa. Nell'estate dell'877 l'esercito musulmano occupava i sobborghi della città ed il comandante stabiliva il proprio quartier generale nell'edificio dell'antica cattedrale paleocristiana. Montate le macchine d'assedio, i musulmani alternarono al tiro micidiale dei mangani e delle baliste violenti assalti condotti con l'ausilio di testuggini, elepoli e mine sotterranee. Tutti gli accorgimenti, tutti gli stratagemmi della poliorcetica del tempo vennero impiegati dagli assedianti. Fu messo a punto un sistema di tiro dei mangani quasi orizzontale che permetteva di battere direttamente in breccia, evitando i colpi a parabola che provocavano in confronto pochi danni.
Dal canto loro i siracusani, fra i quali si trovava quel Teodosio Monaco che dell'assedio lascerà un impressionante reportage,cercarono di controbattere colpo su colpo. Inutile fu l'arrivo di rinforzi da Bisanzio. Una squadra navale greca fu sconfitta ed i musulmani rimasero padroni anche del mare antistante la città.
La fame e le malattie da denutrizione cominciarono a mietere vittime, soprattutto fra gli strati più poveri della popolazione siracusana. I generi alimentari, come accade sempre in questi casi, venivano venduti al mercato nero, a prezzi esorbitanti. Un moggio di grano, quando si aveva la fortuna di trovarlo, costava centocinquanta bizantini d'oro; uno di farina duecento; una testa di cavallo quindici o venti. Si iniziò a mangiare di tutto: erbe, cuoio, ossa triturate. In ultimo, i cadaveri degli uccisi in combattimento. Così, fra gli assalti furibondi, l'incubo dei bombardamenti con macchine da getto, fame e malattie, passarono l'inverno e la primavera dell'anno 878 a Siracusa. Da Bisanzio non giunse più alcun aiuto. La viltà, l'incapacità, l'indecisione bloccarono una nuova spedizione di soccorso in un porto del Peloponneso. Siracusa fu abbandonata al proprio tragico destino.
Con l'arrivo della bella stagione gli assedianti ripresero in grande stile le operazioni. Il tiro delle macchine venne concentrato contro il baluardo che difendeva la città dalla parte del porto. Alla fine di aprile parte della torre rovinò e pochi giorni dopo crollò anche un settore attiguo delle mura. I bizantini collocarono una scala di legno e continuarono a difendersi disperatamente dalla sommità del baluardo, da allora detto «torre del malo augurio». I cittadini si battevano fianco a fianco ai soldati della guarnigione, mercenari delle più diverse provenienze: mardaiti, peloponnesiaci, gente di Tarso. Un esercito di fantasmi laceri, affamati, disperati.
La mattina del 28 maggio 878 subentrò una strana calma apparente. Il patrizio, il grosso della guarnigione e della popolazione superstite era nelle case, a dormire o a rifocillarsi; la breccia e la «torre del malo augurio» erano presidiate da un pugno di militi. Alle sei le macchine concentrarono d'improvviso il tiro sulla torre. Il patrizio accorse alla breccia seguito dai suoi soldati ma era già troppo tardi. L'ufficiale di guardia ed i suoi uomini erano già stati uccisi ed i saraceni irrompevano in massa in città. Era un fiume inarrestabile. Una resistenza disperata venne tentata davanti la chiesa del Salvatore ma i soldati bizantini vennero fatti a pezzi prima ancora che potessero mettersi in posizione. La porta della chiesa fu sfondata e la gente che vi aveva cercato rifugio venne massacrata: donne, vecchi, bambini, indistintamente.
L'arcivescovo e tre sacerdoti si nascosero nella cattedrale, travestiti. Vennero scovati dai saraceni e, riconosciuti come religiosi, categoria protetta dalle norme di guerra islamiche, risparmiati e presi prigionieri. Il patrizio ed un pugno di nobili si barricarono in una torre e resistettero ancora alcune ore, prima di essere catturati. Nel frattempo continuò la caccia all'uomo: i soldati presi con le armi in pugno vennero massacrati, risparmiati per la schiavitù i civili e le donne. Il patrizio ed i suoi ultimi compagni vennero uccisi dopo alcuni giorni, selvaggiamente, a colpi di pietre, bastoni, lance. I corpi vennero bruciati. Ad un soldato di Tarso, Niceta, che dall'alto delle mura durante i combattimenti imprecava contro gli assalitori e malediceva Maometto, venne riservato un trattamento particolare. Fu legato a terra supino e scorticato vivo dal petto in giù; poi gli furono aperte le viscere e fu finito a morsi e pietrate.
I trucidati furono molte migliaia. Pochissimi scamparono lanciandosi in mare su imbarcazioni di fortuna. Enorme il bottino. Per due mesi i musulmani sfogarono la loro violenza anche sulle pietre. Le fortificazioni furono diroccate, le chiese distrutte, le case abbattute. Alla fine fu dato fuoco alle rovine. L'esercito vincitore, trascinandosi dietro una massa di prigionieri, abbandonò la città ridotta ad un cimitero, ad un cumulo fumante di macerie. I prigionieri, fra i quali l'arcivescovo e Teodosio cui dobbiamo la descrizione dell'eccidio, furono condotti a Palermo. Rimasero per anni a marcire nelle prigioni, mescolati ad una folla di altri infelici. Vennero riscattati, pare, solo nell'885.
Con la caduta di Siracusa, la conquista poteva dirsi realizzata per più di due terzi. A Bisanzio restava soltanto la parte nord-orientale della Sicilia, da Demenna (San Marco) a Rometta e Taormina. Era un triangolo montagnoso, di accesso difficile, difeso da fortezze appollaiate su impervie cime. Qui, aiutati dal terreno favorevole e dalle continue discordie nel campo avverso, i cristiani si sarebbero difesi ancora per più di ottant'anni.
La prima caduta di Taormina
La notizia della caduta di Siracusa e dell'eccidio dei difensori suscitò a Bisanzio una fortissima impressione. L'espugnazione della capitale del "tema" siciliano venne vissuta come una dolorosa mutilazione. Tanto più che, imbaldanziti dal successo, i musulmani fin dall'879 avevano attaccato anche la zona di Taormina, riportandovi qualche successo.
L'imperatore Basilio il Macedone tentò un contrattacco. Una flotta bizantina venne inviata verso occidente e uscì vittoriosa da alcuni scontri con forze musulmane provenienti da Creta, dall'Africa e dalla Sicilia. La squadra navale continuò quindi verso l'isola e prese terra nell'880 su un punto della costa non lontano da Palermo. Le truppe bizantine dettero il guasto a diverse contrade della Sicilia nord-occidentale e si trincerarono su un rilievo delle Madonie, fondando o fortificando una città che dalle fonti viene detta «Città del Re». Amari ritenne si trattasse dell'odierna Polizzi, un toponimo di chiara origine greca (da Polis, "città"). Non può però escludersi una seconda identificazione con il centro detto nel XII secolo Ruqqah Basili,da ubicarsi forse non lontano dall'odierna Castelbuono. Si trattava, in ogni caso, di una importante posizione strategica. «Città del Re» costituiva una costante minaccia ai settori della Sicilia ormai controllati dai musulmani e, d'altra parte, rappresentava un primo antemurale a difesa dell'area nord-orientale ancora bizantina.
La risposta saracena fu una micidiale incursione condotta nell'estate 881 dal nuovo governatore di Sicilia al-Hasan ibn al-Abbas fin nel territorio di Catania e Taormina. Il presidio bizantino, uscito incontro agli assalitori sotto il comando dello stratega Barsakios dovette tornare precipitosamente a Taormina, lasciando molti uomini sul terreno. Sulla via del ritorno, al-Hasan dette il guasto ai campi di una città detta dalle fonti Bakara.È difficile possa trattarsi di Vicari, situata troppo ad occidente, in una zona allora già pienamente controllata dai musulmani. Potrebbe essere l'antica Gangi, come ritenne l'Amari, oppure la scomparsa città di Vaccaria, presso Sperlinga, ancora esistente nel XII secolo. I bizantini, però, reagirono e riuscirono a sconfiggere sanguinosamente i musulmani. «Così - come scrisse Amari - con varia fortuna si combattea».
L'anno successivo si verificò sulle Madonie uno scontro risoltosi nuovamente in carneficina per i musulmani. Gli sconfitti erano comandati da un Abu at-Tawr, il cui nome rimase alla rocca di Caltavuturo (da Qalat Abu at-Tawr,la "fortezza di Abu at-Tawr"), forse luogo della battaglia e del "martirio" dell'eroe. La vittoria dei bizantini, guidati dallo stratego Mousilikes, secondo una agiografia, venne propiziata da un'apparizione miracolosa.
L'enclave bizantina di «Città del Re» non resse comunque ancora a lungo alla pressione musulmana. Il nuovo governatore arabo Muhammed ibn al-Fadl, insediato dopo la rotta di Caltavuturo, lanciò nell'882 un'incursione contro il territorio di Catania. Al consueto rogo delle messi seguì uno scontro coi bizantini, duramente sconfitti. La spedizione continuò quindi verso Taormina che subì anch'essa la distruzione dei raccolti. Seguì un nuovo scontro vittorioso con un'altra schiera cristiana e quindi, sulla via del ritorno verso Palermo, l'assalto e l'espugnazione della «Città del Re». I difensori, come consueto, vennero trucidati dal primo all'ultimo. Il settore bizantino si riduceva definitivamente all'area etneopeloritana.
Contro questo ridotto i musulmani realizzarono incursioni a ritmo stagionale. Nell'estate dell'884 o dell'885 il territorio di Rometta venne infestato dalle truppe del nuovo governatore al-Husayn ibn Ahmed che morì però durante la spedizione. Al suo posto venne nominato Sawada ibn Muhammed ibn Khafagia che realizzò almeno due spedizioni contro la Sicilia orientale, distanziate da una breve tregua.
Anche la penisola italiana subì in quegli anni terribili attacchi musulmani. Nell'888 una flotta araba partì dalla Sicilia alla volta dei possedimenti calabresi dell'impero bizantino. Il nuovo imperatore Niceforo Foca, succeduto a Basilio il Macedone, spedì una flotta che si scontrò con quella musulmana nelle acque di Milazzo. Fu per i cristiani una terribile carneficina. Gran parte delle navi venne affondata, i morti furono molte migliaia, almeno a dar credito alle fonti. Gli abitanti di Reggio e delle località vicine fuggirono fra i monti. I musulmani presero terra, predarono gran bottino e poterono reimbarcarsi e tornare indisturbati a Palermo. Per i bizantini dovette essere una magra consolazione la cattura, poco dopo, in combattimento navale, del condottiero musulmano Mugbar ibn Ibrahim ibn Sufyan. L'anno successivo (889) Taormina veniva nuovamente attaccata da Sawada ibn Muhammed ed invano assediata. Poi, per qualche anno, l'attività bellica contro i bizantini venne sospesa a causa di dissidi e feroci lotte interne. Una tregua venne stabilita fra 895 ed 896 ed i bizantini ne approfittarono per inviare rinforzi a Taormina e Reggio.
La guerra santa contro i bizantini riprese però con l'invio in Sicilia di Abd Allah, figlio dell'emiro di Ifriqiya Ibrahim II, che sedò momentaneamente le guerre civili in campo musulmano.
Nell'estate del 900 il territorio di Taormina subì nuovamente le scorrerie consuete ma il presidio non ebbe difficoltà a respingere un attacco contro l'abitato. Avvicinandosi l'inverno Abd Allah mise l'assedio a Catania, sperando di poter più facilmente vincere la resistenza della città, di sito assai meno forte rispetto a Taormina. Anche qui le operazioni non conseguirono però alcun risultato definitivo e Abd Allah dovette ritirarsi a Palermo per svernare.
Nella primavera del 901 il condottiero musulmano uscì nuovamente in campo e andò a porre l'assedio a Demenna. Saputo che i bizantini preparavano un'armata in Calabria, Abd Allah li assalì, sbaragliandoli sotto Reggio. La città venne saccheggiata ed una flotta bizantina sopraggiunta in soccorso fu a sua volta distrutta nelle acque dello Stretto. Le mura di Messina vennero smantellate «per castigo o cautela», come scrisse l'Amari, quindi per punire gli abitanti cristiani di una possibile defezione o per eliminare alla base ogni possibile velleità di rivolta. L'offensiva di Abd Allah continuò poi sulla terraferma italiana, con nuovi combattimenti, nuovi assedi, nuove vittorie. Quindi, carico di onore e bottino, il condottiero musulmano rientrò a Palermo, base di partenza, e di lì passò nuovamente in Africa.
Il padre di Abd Allah, Ibrahim II, rinunciò in suo favore alla carica di emiro di Ifriqiya. Dopo l'abdicazione, invece di presentarsi a Baghdad, come ordinatogli dal califfo abbasside, per rispondere delle accuse e delle lagnanze dei suoi sudditi, Ibrahim proclamò la guerra santa contro i bizantini di Sicilia. Un esercito di volontari si radunò nella primavera del 902 su una spiaggia non lontana da Susa e di lì salpò verso l'isola. Sbarcato a Trapani, Ibrahim si diresse verso Palermo, continuando per strada ad arruolare gente per il gihad.Poi, quando il corpo di spedizione fu sufficientemente forte e numeroso, nel luglio 902, Ibrahim mosse contro Taormina.
L'antica città, dopo la caduta di Siracusa, era divenuta il capoluogo del ridotto bizantino. Munitissima già per sito e fortificazioni, l'antica Tauromenium era stata ulteriormente rafforzata dagli strateghi imperiali. La già citata epigrafe in greco di Castel Mola, il paesino abbarbicato ad una rupe sopra Taormina, ricorda la costruzione di un castello (kastron)per iniziativa del «patrizio e stratego» Costantino. Si tratta forse di un Costantino Caramalo che da varie fonti bizantine sappiamo esser stato inviato in quegli anni dall'imperatore Leone il Sapiente a difendere Taormina. Nella città si recò anche Sant'Elia da Castrogiovanni le cui esortazioni e nefaste profezie non bastarono però ad infiammare sufficientemente l'animo dei difensori. Ad ogni buon conto, il santo vegliardo si allontanò da Taormina scuotendo la polvere dai calzari prima che Ibrahim avesse iniziato le operazioni d'assedio.
All'approssimarsi delle truppe musulmane, il presidio bizantino tentò una sortita e dette battaglia in campo aperto. L'esito incerto del combattimento fu risolto, secondo le fonti arabe, dallo stesso Ibrahim. Recitati alcuni versetti del Corano, il condottiero si buttò nella mischia. I più fanatici lo seguirono nell'attacco, riuscendo così a mettere in fuga precipitosa i bizantini. Chi poté - e tra questi, pare, Costantino Caramalo ed il suo secondo in comando - scappò via mare; i meno fortunati guadagnarono l'incerta salvezza rappresentata dal castello di Taormina.
Mentre gli ultimi difensori greci, fidando nell'inaccessibilità del loro rifugio, si concedevano un momento di riposo, Ibraim studiava la topografia del sito. Trovato un punto dove la salita si mostrava difficile ai limiti dell'impossibilità, e che per questo non era sorvegliato, mandò avanti un commando di fanatici combattenti negri. I bizantini se li videro piombare addosso d'improvviso e non riuscirono ad abbozzare una valida resistenza. Nel frattempo Ibrahim guidò all'attacco il grosso dell'esercito musulmano. Anche il castello di Taormina così venne espugnato.
Era il primo d'agosto del 902. La strage ordinata da Ibrahim non risparmiò donne, bambini e sacerdoti, categorie normalmente protette dalle consuetudini islamiche di guerra. Il vescovo Procopio rifiutò di abiurare e venne ucciso dopo feroci sevizie; con lui furono trucidati i fuggiaschi rastrellati nei boschi e nelle grotte dove avevano cercato scampo. Spartito il bottino, Ibrahim approfittò della vittoria e del terrore suscitato per cercare di sottomettere interamente il ridotto bizantino dell'area peloritano-etnea. Quattro diverse schiere furono inviate contemporaneamente contro Demona, Rometta, Aci ed una misteriosa fortezza chiamata dalle fonti arabe Miqus,forse il Monte Antennamare. Demona e Miqus erano però già state evacuate dagli abitanti dopo la caduta di Taormina. Gli abitanti di Rometta ed Aci domandarono l'aman ed ottennero la vita e forse anche la libertà personale. Le mura delle due roccaforti vennero però smantellate e, nel caso di Aci, le pietre gettate a mare.
La reazione di Bisanzio, dopo lo scoramento iniziale, fu ancora una volta debole ed incerta. Caramalo fu condannato a morte dall'imperatore per viltà. La sentenza venne commutata poi nella monacazione forzata equivalente, in pratica, all'ergastolo. Fu riscosso denaro per arruolare truppe da spedire in Sicilia. Il funzionario incaricato, però, l'eunuco Rodofilo, fu sorpreso a Tessalonica da una scorreria musulmana proveniente dalla Siria e condotta dal rinnegato Leone. Rodofilo, che non volle confessare dove aveva nascosto il tesoro, morì fra le torture. Il sacrificio fu vano, perché l'oro dell'armata di Sicilia finì egualmente nelle mani del traditore Leone che per averlo minacciò di bruciare tutta la città.
L’ultima resistenza bizantina: la caduta di Rometta
Bisanzio non si rassegnò mai alla perdita dell'isola e seguì sempre le vicende dell'antica provincia, cercando il momento giusto per il contrattacco. D'altra parte, la pur vittoriosa campagna del 902 contro il ridotto peloritano-etneo non dette ai musulmani il saldo e definitivo controllo di quell'area. Consumata la strage dei difensori di Taormina ed accettata la resa delle altre fortezze, le truppe musulmane si allontanarono dalla regione, lasciandovi forse piccoli presidi.
Non sappiamo per quanto tempo ancora le comunità cristiane continuassero a pagare regolarmente i tributi promessi all'atto della capitolazione. Già nel 911 l'emiro fatimida Ibn Abi Khinzir guidò una nuova spedizione contro il Val Demone, dove i cristiani si erano sollevati. Le campagne intorno Demenna vennero saccheggiate ed arse e furono presi molti prigionieri. I musulmani non osarono però attaccare la fortezza.
Poco dopo, approfittando delle guerre civili che imperversavano in campo musulmano, i cristiani fortificarono nuovamente anche Taormina. A Palermo, intanto, la reazione antifatimida aveva portato al potere un esponente dell'aristocrazia tradizionalista, Ahmad ibn Qurhub, cui il califfo abasside riconobbe il titolo di emiro. Nel tentativo di rafforzare e legittimare la sua autorità, Ahmad ibn Qurhub organizzò una spedizione contro Taormina. Al piano non era estranea la volontà del nuovo governatore di Sicilia di stabilire una base fortificata lontana da Palermo, un sicuro rifugio dove asserragliarsi in caso di nuove guerre civili nella parte occidentale dell'isola. Ibn Qurhub spedì così nel 913 il figlio Ali ad assediare Taormina. La città si difese gagliardamente per tre mesi, fin quando un ammutinamento fra le truppe musulmane non costrinse Ali a togliere il blocco. L'insuccesso contribuì ad accelerare la caduta di ibn Qurhub e dei suoi, fatti giustiziare dal califfo fatimida nel 916.
Nell'estate del 919 il nuovo emiro fatimida Salim ibn Rasid concedeva una tregua a Taormina ed alle altre fortezze del Val Demone. Si allentava quindi, in quegli anni di sanguinose guerre civili, la pressione musulmana contro l'ultimo settore cristiano dell'isola. I tributi dovuti non vennero più versati, cosa di cui si lagnavano nel 947 i nobili della tribù Tabari levatisi in tumulto a Palermo contro il governo.
La lotta contro i cristiani del Val Demone poté riprendere efficacemente soltanto quando la dinastia kalbita, con al-Hasan ibn Ali al-Kalbi ed il figlio Ahmad, assunse saldamente l'emirato siciliano in nome dei fatimidi d'Africa. Nel maggio 962 Ahmad ibn Hasan, dopo aver riportato molti successi militari in Calabria, mosse contro Taormina. Al suo esercito si unirono soldatesche africane guidate dal cugino al-Hasan ibn Ammar. Taormina si difese per più di sette mesi. Alla fine i musulmani riuscirono a tagliare l'acqua agli assediati che furono costretti a chiedere la capitolazione. Ahmad ibn Hasan rifiutò però ai vinti qualsiasi concessione oltre la vita. Gli abitanti di Taormina vennero in buona parte ridotti in schiavitù ed i loro beni confiscati. La città ebbe mutato il nome in al-Muizziyah in onore del califfo fatimida al-Muizz e vi fu accasermato un forte contingente musulmano.
Le altre località del Val Demone, dopo la nuova caduta di Taormina, dovettero affrettarsi a chiedere l'aman.Rimase in armi Rometta, «solo avanzo - scrive l'Amari - de' municipi greci e romani di Sicilia».
Anche per Rometta, però, la fine era ormai vicina. Nell'agosto del 963 al-Hasan ibn Ammar piantò le sue tende sotto la fortezza e cominciò a martellarla con il tiro delle macchine. La resistenza degli abitanti si dimostrò più dura del previsto. I musulmani tirarono su delle baracche, costruirono un castello per ibn Ammar e trincerarono il campo, proseguendo l'assedio per più d'un anno.
Dalla cittadella assediata era partita intanto una richiesta d'aiuto all'imperatore Niceforo Foca che accarezzò il progetto di riconquistare tutta l'isola. Era incoraggiato nell'ambizioso programma dalla recente campagna che gli aveva consentito di recuperare all'impero Creta (961). A Bisanzio venne quindi organizzato un fortissimo esercito composto in prevalenza da armeni, mercenari russi, eretici pauliciani. Per il trasporto delle truppe fu allestita una numerosa flotta. A capo dell'impresa venne posto il protospatario Niceta, un eunuco. Suo secondo e comandante della cavalleria venne nominato un nipote dell'imperatore di nome Manuele, «giovane d'animo bollente - sono parole dell'Amari - testa dura e cieco valore».
Ahmad ibn al-Hasan chiese aiuti in Africa ed il califfo al-Muizz inviò una forte squadra navale al comando del padre di Ahmad, al-Hasan ibn Ali. Mandati avanti alcuni contingenti, al-Hasan restò col grosso delle truppe a Palermo, pronto ad intervenire. A metà d'ottobre del 964, intanto, l'esercito bizantino sbarcava a Messina, l'occupava e vi si trincerava, ricostruendo le mura e scavando un fossato. Un contingente sbarcava inoltre presso Termini, allo scopo evidentemente di tagliare la strada per Rometta alle truppe musulmane di stanza a Palermo. Poi, con grave errore strategico, l'esercito bizantino venne indebolito con il distaccamento di truppe spedite ad occupare Taormina, Lentini e la stessa Siracusa.
Mentre Niceta incrociava lungo le coste con la flotta, Manuele si inerpicò con la cavalleria verso Rometta, dopo aver disperso altre truppe inviandole a forzare alcuni passi montani tenuti dai saraceni. All'alba del 25 ottobre 964 si accese la battaglia sotto Rometta. I bizantini, riferiscono le fonti, furono ad un passo dal cogliere la vittoria ma si sbandarono per scarsa disciplina. Nel contrattacco musulmano lo stesso Manuele venne ucciso ed il panico scompaginò totalmente l'esercito bizantino. La battaglia si trasformò in una sanguinosa caccia all'uomo, durata fino a notte. Più di diecimila, secondo le fonti arabe, furono i morti nel campo cristiano.
I difensori di Rometta assistettero impotenti alla strage e tuttavia decisero di continuare la resistenza. Donne, vecchi e bambini furono fatti uscire dalla fortezza: vennero presi prigionieri dai musulmani e spediti a Palermo. L'assedio si protrasse sino ai primi del 965 e terminò con la strage completa dei difensori. A Rometta venne stanziato un presidio musulmano. Il trionfo fu reso completo dal rastrellamento delle zone effimeramente rioccupate dai bizantini e dalla vittoria che la flotta musulmana riportò su quella imperiale nello Stretto di Messina. Con la caduta di Rometta finiva ogni resistenza organizzata. La Sicilia era ormai passata interamente sotto il dominio islamico.
1/ Il volto della Sindone. I dati scientifici: dati che pongono domande. Intervista con Emanuela Marinelli di Pina Baglioni
Riprendiamo dal sito della rivista 30Giorni (numero giugno-luglio 2008) un’intervista con Emanuela Marinelli di Pina Baglioni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
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«Il mio interesse scientifico per la Sindone ha avuto inizio nel 1977, quando il dottor Max Frei, studioso di botanica, annunciò la scoperta sulla Sindone di granuli di polline appartenenti a specie vegetali che esistono in Medio Oriente ma non in Europa. Da allora ho raccolto sulla Sindone circa ottocento volumi e un enorme numero di articoli, ma in particolare circa trecento articoli scientifici, e ho scritto molti libri sull’argomento». Emanuela Marinelli, naturalista, è tra i più competenti studiosi italiani della Sindone. Carattere deciso e impulsivo, ha al suo attivo anche una vasta produzione di genere più informativo su un argomento che non è certo semplice trattare con equilibrio, in particolare di fronte a una divulgazione spesso approssimativa e, per un verso o per l’altro, preconcetta.
Il telo di lino – o Sindone – custodito a Torino è stato oggetto, nel corso dell’ultimo secolo, di numerosi studi che hanno indagato con i metodi di svariate discipline scientifiche (includendo in questa espressione anche i vari aspetti della ricerca storica e archeologica) le caratteristiche dell’immagine che vi appare visibile – l’impronta frontale e dorsale di un uomo con evidenti ferite da crocifissione –, e in particolare si sono interrogati – finora senza successo – sulle modalità della sua formazione.
Quali sono i dati oggettivi che si possono ragionevolmente accettare come certi?
EMANUELA MARINELLI: L’interesse scientifico per la Sindone nacque alla fine del XIX secolo, nel 1898, quando nelle prime fotografie, eseguite da Secondo Pia, apparve evidente che parte delle immagini impresse sul telo di lino ha caratteristiche simili a quelle di un negativo fotografico. Dico “parte delle immagini” perché tali caratteristiche sono proprie della doppia impronta che appare sul lino – frontale e dorsale – dell’uomo con ferite identiche a quelle di Gesù crocifisso descritte dai Vangeli, ma non delle macchie, rivelatesi poi di sangue umano, che in corrispondenza delle ferite sembrano in parte coprire l’immagine “negativa” e che in realtà si impressero sul telo prima di essa.
Il primo dato assolutamente certo, dimostrato da studi diversi e indipendenti, è dunque che il rivestimento rosso dei fili del lino in corrispondenza delle ferite è sangue umano di gruppo AB. Questo risultato è confermato da indagini microspettroscopiche, dalla cromatografia e dalla reazione alla benzidina. Inoltre, il rivestimento rosso sui fili viene lisato (cioè sciolto) completamente dalle proteasi. Anche il test degli enzimi proteolitici dimostrò l’assenza di coloranti. In corrispondenza della zona dei piedi è stato rinvenuto un globulo rosso e alcune cellule epidermiche umane. Il sangue contiene Dna umano maschile. L’elevata quantità di bilirubina riscontrata nel sangue è indice di persona fortemente traumatizzata prima della morte. Inoltre, in numerosi rivoli sono evidenti componenti ematici tipici delle varie fasi della coagulazione: la crosta (con la formazione dei ponti di fibrina da parte del fattore XIII) e l’essudato sieroso; risulta quindi evidente che tali impronte si sono formate per contatto diretto del lino con un cadavere. Gli aloni di siero sono invisibili a occhio nudo, ma appaiono se illuminati con luce ultravioletta. Il sangue, coagulato sulla pelle ferita, si è trasposto sulla stoffa per fibrinolisi, fenomeno che causa una parziale lisi (cioè ridiscioglimento) dei coaguli di sangue durante le prime trentasei ore di contatto.
Mentre l’immagine “negativa” frontale e dorsale dell’Uomo della Sindone...
MARINELLI: L’immagine del corpo è impressa in modo ancora oggi scientificamente inspiegabile. Nonostante i più disparati tentativi sperimentali condotti (alcuni dei quali – occorre dirlo – riproposti, difesi e pubblicizzati con pervicacia nonostante il loro evidente insuccesso), le più sofisticate tecniche attuali non permettono di costruire nei dettagli un’immagine simile a quella della Sindone. Essa mostra caratteristiche tridimensionali, non ha linee nette di demarcazione e si è formata sicuramente dopo la deposizione del sangue sul lino, perché sotto le macchie di sangue non è presente. L’ingiallimento del tessuto che forma l’immagine interessa solo uno strato estremamente superficiale delle fibrille del lino con cui è fabbricata la stoffa. L’immagine dorsale, infine, non è influenzata dal peso del corpo. Si può dire anche con certezza che l’immagine non è dipinta: non esiste alcun pigmento organico o inorganico sul telo, e il colore giallo traslucido dell’immagine non è dovuto ad alcuna sostanza di apposizione, ma è causato dalla disidratazione e ossidazione delle fibrille più superficiali; venticinque diversi tipi di solventi, tra cui l’acqua, non degradano o cancellano l’immagine. E si può anche dire che essa non è stata ottenuta per strinatura: è impossibile ottenere un’immagine con le stesse caratteristiche chimiche e fisiche di quella della Sindone usando, ad esempio, un bassorilievo riscaldato.
Il tessuto della Sindone (A) a confronto con i tessuti egiziani simili (B e C) risalenti al II secolo d.C.
Un’altra serie di considerazioni può essere desunta dall’analisi interna del manufatto e dalle sostanze che nel tempo si sono depositate sul telo di lino. Che cosa si è potuto appurare?
MARINELLI: Per quanto riguarda il manufatto, i fili del telo sindonico furono filati a mano con la torcitura “Z”, diffusa nell’area siro-palestinese nel I secolo d.C. L’intreccio del tessuto, che è a “spina di pesce”, è riconducibile a un rudimentale telaio a pedale; esso presenta infatti salti ed errori di battuta. Il tessuto a spina di pesce è di origine mesopotamica o siriaca. Nei ritrovamenti di tessuti giudaici a Masada, in Israele, è documentata una speciale tipologia di cimosa, uguale a quella presente sulla Sindone, per il periodo compreso tra il 40 a.C. e la caduta di Masada, nel 74 d.C. Sulla Sindone c’è anche una cucitura longitudinale, identica a quella presente su frammenti di tessuto provenienti dai citati ritrovamenti di Masada. Dunque la tecnica di fabbricazione e la tipologia del tessuto danno come indizio una datazione coerente con l’epoca di Cristo. Si può aggiungere che le misure del telo (pure se le dimensioni del manufatto possono essere variate anche significativamente a causa delle ripetute ostensioni, con conseguenti arrotolature, spiegamenti, tensioni e stirature) sembrano potersi riportare a numeri interi espressi in cubiti siriani, un’unità di misura di lunghezza usata nell’antico Israele. Altri sistemi di unità di misura sembrano corrispondere meno, in termini di unità intere, ai valori di lunghezza e larghezza del telo. È interessante anche segnalare che nelle parti del tessuto della Sindone che si sono potute esaminare non sono state trovate tracce di fibre di origine animale, nel rispetto della legge mosaica che prescrive di tenere separata la lana dal lino (Dt 22, 11); le uniche (minime) tracce di altre fibre rinvenute nel telo sono di cotone del tipo Gossypium herbaceum, diffuso nel Medio Oriente ai tempi di Cristo.
Per quanto riguarda poi le sostanze che nel corso del tempo si sono depositate sul telo, si è scoperto che particelle di materiale terroso, prelevate dalla Sindone in corrispondenza dell’impronta dei piedi, contengono aragonite con impurezze di stronzio e ferro; campioni presi nelle grotte di Gerusalemme sono risultati essere molto simili. Un altro elemento rinvenuto sul telo sindonico è il natron (carbonato basico idrato di sodio), utilizzato in Egitto nell’imbalsamazione per la sua proprietà di assorbire l’acqua, e utilizzato anche in Palestina per la deidratazione dei cadaveri. Anche la presenza di aloe e mirra è stata identificata sulla Sindone. Erano, queste, sostanze usate in Palestina ai tempi di Cristo per la sepoltura dei cadaveri. Esperimenti hanno dimostrato che gli aloni dall’aspetto seghettato, lasciati dall’acqua sulla Sindone, si formano solo in una stoffa preventivamente imbevuta di aloe e mirra. Infine, l’analisi dei pollini presenti sulla Sindone conferma che essa è stata esposta in Palestina, a Edessa e a Costantinopoli. Delle cinquantotto specie di pollini identificati sulla Sindone dal botanico Max Frei, una trentina sono di piante che non esistono in Europa ma crescono in Palestina e molte sono tipiche e frequenti a Gerusalemme e dintorni (tra queste l’Acacia albida, molto diffusa nella valle del Giordano e attorno al Mar Morto; la Gundelia tournefortii, pianta dei luoghi sassosi o salati; l’Hyoscyamus aureus e l’Onosma orientalis, presenti sulle mura della vecchia cittadella di Gerusalemme; la Prosopis farcta e lo Zygophyllum dumosum, molto frequenti attorno al Mar Morto; l’Haplophyllum tuberculatum e la Reaumuria hirtella, piante desertiche). In base alla classificazione di altri diciannove nuovi tipi di pollini (in totale quindi sono settantasette), risulta anche che la Sindone attraversò le alte terre del Libano. Fra i pollini trovati, due non esistono né in Europa né in Palestina, ma una di queste specie (Atraphaxis spinosa) esiste a Urfa (Edessa) e l’altra specie (Epimedium pubigerum) esiste a Istanbul (Costantinopoli).
Dunque, tutta la serie di elementi che lei ha illustrato vanno nella direzione di attribuire la Sindone all’epoca di Gesù, e anche a confermare alcuni dati della tradizione storica che identifica il telo sindonico con il Mandylion, l’immagine del volto di Gesù nota in Oriente fin dai primi secoli del cristianesimo. Eppure, la datazione con il metodo del C14, fatta nel 1988 dai tre laboratori di Tucson, Oxford e Zurigo, fornì un’età del tessuto compresa fra il 1260 e il 1390 d.C., del tutto incompatibile con i dati che lei ci ha appena illustrato.
MARINELLI: Le vorrei dire innanzitutto che è importante il suo riferimento alla tradizione storica. Io mi occupo principalmente di scienze fisiche e naturali, ma è anche mia impressione (come di altri studiosi che si sono occupati della Sindone) che su questo argomento si sia spesso trascurato il dato storico a scapito di quello scientifico, ritenuto troppe volte come di valore assoluto a confronto della presunta opinabilità della tradizione letteraria (a partire dai Vangeli), archeologica, iconografica, numismatica e archivistica. Spesso, ad esempio, si sente ripetere che sulla Sindone non esistono documenti prima della sua comparsa in Francia a metà del 1300 nelle mani di un nobile crociato, Geoffroy de Charny. Con banale deduzione qualcuno conclude che deve essere stata fabbricata in quell’epoca, e corrobora questa deduzione citando una lettera inviata nel 1389 dal vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, all’antipapa Clemente VII, in cui la Sindone viene dichiarata falsa perché ci sarebbe stata la confessione del pittore che l’avrebbe dipinta. Ma tutte le analisi fatte sul telo sindonico escludono che quell’immagine sia un dipinto: dunque che valore può avere una simile testimonianza che la critica storica, collocandola nel suo preciso contesto, può agevolmente dimostrare non veritiera? Non starò qui a discutere di tutti gli indizi storici e iconografici riferibili alla Sindone prima del 1300, ma è certo che quantomeno dal VI secolo si diffonde un particolare tipo di ritratto di Cristo che ha molte caratteristiche comuni con il volto sindonico. Lo studio delle pieghe del telo sindonico ci permette di capire come per un certo periodo di tempo esso dovette essere esposto ripiegato, in maniera da mostrare il solo volto di Cristo, e in un tempo successivo appeso in verticale mostrando anche parte del corpo, similmente all’imago pietatis, raffigurazione di Cristo morto che sporge dal sepolcro in posizione eretta fino alla vita, raffigurazione che forse proprio da questa particolare modalità di ostensione della Sindone prende origine. Per non parlare della miniatura della sepoltura di Cristo contenuta nel Manoscritto Pray di Budapest, risalente al 1192-1195, chiaramente derivata dalla Sindone. La Sindone inoltre viene citata nel 1204 da un cavaliere francese, Robert de Clari, che la vede a Costantinopoli durante la IV crociata.
Come si giustifica dunque tutto questo, se il C14 ha dato una datazione tra 1260 e 1390? Dobbiamo presupporre l’esistenza di una vera Sindone in seguito scomparsa, di cui quella pervenutaci sarebbe una imitazione? Ma ciò contrasterebbe ancora con i dati, in gran parte incontrovertibili, che si desumono dall’analisi del telo e dei residui presenti su di esso di cui abbiamo parlato prima. Contrasterebbe poi con l’impossibilità di riprodurre, anche ora e con le più moderne tecnologie, l’immagine sindonica.
La stessa precisione anatomica, fin nei minimi dettagli, dell’immagine dell’Uomo della Sindone farebbe escludere – al di là di tutte le prove scientifiche che ha illustrato – che possa trattarsi di un manufatto di epoca medievale, cosa impossibile per il grado di conoscenza del corpo umano che allora si aveva.
MARINELLI: Certamente. Ma c’è di più: sull’immagine dell’Uomo della Sindone sono presenti tracce davvero sorprendenti, che ci indicano che la Sindone ha avvolto con certezza il cadavere di un uomo che è stato torturato e ucciso proprio come i Vangeli ci descrivono a proposito di Gesù.
E quali sono in particolare queste tracce?
MARINELLI: Innanzitutto l’Uomo della Sindone è stato flagellato. Tutto il corpo è stato colpito con un flagrum taxillatum romano, tranne il petto. Le ferite indicano due diverse zone di provenienza dei colpi, e si può dunque supporre che i flagellatori fossero due. Questa flagellazione non doveva essere mortale ed è stata inflitta come pena a sé stante, più abbondante del consueto preludio alla crocifissione: infatti furono dati circa centoventi colpi anziché i normali ventuno. Tanti se ne contano sul telo sindonico. Non si tratta di una flagellazione ebraica perché gli ebrei, per legge, non superavano le trentanove battute. Ogni colpo ha provocato sei contusioni indotte da altrettanti ossicini posti alle estremità delle tre corde del flagrum. Doveva seguire la liberazione; invece il condannato fu poi crocifisso (Sal 129, 3; Is50, 6; Mt 27, 26; Mc 15, 15; Lc 23, 25; Gv 19, 1). La flagellazione non è avvenuta durante il trasporto del patibulum perché esistono segni di flagrum anche in corrispondenza delle spalle. Tali ferite sono diverse dalle altre presenti su tutto il corpo perché risultano compresse da un corpo pesante.
L’Uomo della Sindone fu coronato di spine: la testa presenta, su tutta la sua superficie, una cinquantina di ferite causate da corpi appuntiti. Fu intrecciato un casco di spine conforme alle corone regali dell’Oriente. Non si trattò, quindi, del cerchio di spine tramandato dalla tradizione occidentale (Mt 27, 29; Mc 15, 17; Gv 19, 2). Il rivolo a forma di 3 rovesciato che si vede sulla fronte (particolare, questo, che tra l’altro appare in varie raffigurazioni del volto di Cristo in Oriente già ben prima dell’anno Mille) corrisponde a una lenta e continua discesa di sangue venoso causata da una spina conficcata nella vena frontale; il particolare aspetto del 3 rovesciato è dovuto al corrugarsi del muscolo frontale sotto lo spasmo del dolore. La macchia di sangue a destra, alla radice dei capelli, è formata da un coagulo circolare di sangue arterioso, perché fuoriesce a getto intermittente.
Sul volto dell’Uomo della Sindone risultano evidenti diverse tumefazioni e la rottura del naso, verosimilmente provocata da una bastonata che ha colpito anche la guancia destra (Mt 27, 30; Mc15, 19; Gv 19, 3).
L’Uomo della Sindone presenta un’ecchimosi a livello della scapola sinistra e una ferita sulla spalla destra, correlabili al trasporto della parte orizzontale della croce, il patibulum (Mt 27, 31-32;Mc 15, 20-21; Lc 23, 26; Gv 19, 17). Nella zona delle ecchimosi, le ferite da flagrum non sono state lacerate dallo sfregamento con il legno: infatti a Gesù fu fatta indossare la veste (Mt 27, 31;Mc 15, 20) che ha protetto le ferite dallo sfregamento, ma ha poi causato notevoli dolori quando gli è stata strappata prima della crocifissione (Mt 27, 35; Mc 15, 24; Lc 23, 34; Gv 19, 23-24). Le cadute, tramandateci dalla tradizione, sono confermate dalle particelle di terriccio misto a sangue trovate sul naso e sul ginocchio sinistro. La legatura del patibulum impediva al condannato di ripararsi con le mani. È stata identificata una notevole quantità di materiale terroso anche in corrispondenza del calcagno.
L’Uomo della Sindone non era cittadino romano, altrimenti non sarebbe stato crocifisso. Le ferite dei polsi e dei piedi corrispondono a quelle di un uomo fissato alla croce con chiodi. Nell’immagine sindonica non si vedono i pollici: la lesione del nervo mediano, causata dalla penetrazione del chiodo nel polso, causa, infatti, la contrazione del pollice.
Dall’analisi medico-legale risulta che l’Uomo della Sindone, quando morì, era disidratato (Mt 27, 48; Mc 15, 36; Lc 23, 36; Gv 19, 28-29; Sal 69, 4; Sal 69, 22; Sal 22, 16). Per accelerare la morte, molto spesso venivano spezzate le gambe dei crocifissi: così il condannato moriva per asfissia poiché restava appeso per le braccia. Risulta dalla Sindone che le gambe non furono spezzate (Gv19, 33; Es 12, 46). L’Uomo della Sindone è stato trafitto al lato destro della cassa toracica. I margini della ferita sono allargati, precisi e lineari, tipici di un colpo dato dopo la morte. L’infarto seguito da emopericardio si ritiene la più attendibile causa di decesso. L’emopericardio è il momento terminale di un infarto miocardico ed è causato da spasmi in rami coronarici sotto la spinta di violenti stress psicofisici. La morte per emopericardio si deduce dalla chiazza di sangue che fuoriesce dalla ferita, in cui si notano grumi densi separati da un alone di siero; ciò può avvenire in un uomo deceduto in seguito a un notevole accumulo di sangue nella regione toracica. Questo accumulo può essere spiegato dalla rottura del cuore e dal conseguente versamento di sangue fra il cuore stesso e il foglietto pericardico esterno, che causa un dolore retrosternale lancinante. Nel Vangelo si legge che Gesù prima di spirare lancia un grido (Mt 27, 50; Mc 15, 37;Lc 23, 46; Sal 69, 21; Sal 22, 15). La ferita, praticata con la lancia sul cadavere dopo un certo tempo, ha quindi permesso la fuoriuscita del sangue che si era già separato dal siero (Gv 19, 34; Is53, 5; Zc 12, 10; 1Gv 5, 6; Ez 47, 1).
La Sindone è un lenzuolo di lino dalla tessitura pregiata: i Vangeli ci dicono che il telo funerario di Gesù fu acquistato da Giuseppe d’Arimatea, un uomo ricco (Mt 27, 57-60; Mc 15, 42-46; Lc 23, 50-53; Gv 19, 38-40). Sulla Sindone sono state trovate tracce di aloe e mirra, le sostanze profumate portate da Nicodemo (Gv 19, 39-40). L’Uomo della Sindone non fu lavato perché vittima di morte violenta. Dai decalchi ematici si deduce che il suo corpo è stato avvolto nel lenzuolo entro due ore e mezza dopo il decesso ed è rimasto nel lenzuolo meno di quaranta ore. Non ci sono infatti segni di putrefazione (Sal 16, 10).
Infine, il contatto tra corpo e lenzuolo si è interrotto senza alterare i decalchi di sangue che sono rimasti estremamente nitidi. Se il corpo fosse stato estratto dal lenzuolo, ci sarebbero sbavature che invece non si notano. Ma le impronte dimostrano che non c’è stata estrazione meccanica.
E dunque, per ritornare alla domanda precedente, come si spiega la datazione 1260-1390 uscita dalle analisi del C14 del 1988?
MARINELLI: Molti studiosi, già da subito dopo la comunicazione dei risultati delle analisi e poi anche recentemente, si sono convinti che non possa essere ritenuta valida. È stato detto che il campione esaminato non era rappresentativo dell’intero lenzuolo. Sui fili è stata riscontrata la presenza di un rivestimento bioplastico di funghi e batteri; inoltre ci sono fibrille di cotone e incrostazioni di coloranti, indizio di un rammendo invisibile che può avere inficiato la validità di tale prova. Purtroppo i tre laboratori non fornirono all’epoca i dati grezzi delle analisi, e questo impone di dover accettare il risultato senza una sia pure parziale possibilità di controverifica. Ma di queste analisi si è parlato moltissimo e forse anche troppo, e nell’opinione comune si tende a dare al C14 un valore quasi “miracolisticamente” definitivo. Si tratta invece di analisi complesse naturalmente soggette anch’esse a errore.
In un documentario della Bbc, recentemente trasmesso anche dalla televisione italiana, il professor Christopher Ramsey, attuale direttore del laboratorio di Oxford, che all’epoca firmò i risultati delle analisi, è sembrato possibilista su un ripensamento circa i risultati del 1988. Si è detto da più parti che potrebbero essere rimessi in discussione...
MARINELLI: Ho avuto uno scambio epistolare diretto con lui proprio a questo proposito e mi sembra che il suo pensiero sia stato un poco forzato, forse anche per dare pubblicità al documentario. In buona sostanza, egli afferma che di fronte a nuovi elementi sarebbe disposto a rimettere in discussione la questione, ma che al momento attuale non vede motivo per cui debba essere riaperta. Piuttosto speriamo che in occasione della nuova ostensione prevista per il 2010 possa essere condotto un nuovo programma di indagini a più ampio spettro. Il problema dei metodi di datazione, sia pure importante, è certamente secondario rispetto al quesito di come si sia formata l’immagine sul telo della Sindone. E il come ci aiuterebbe anche a capire il quando e il perché.
2/ Sindone: l'ombra (del corpo) e la luce (del mistero), di Marina Corradi
Riprendiamo da Avvenire del 10/10/2015 un’intervista con Emanuela Marinelli di Marina Corradi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
Il Premio internazionale di Cultura cattolica sarà consegnato alla sindonologa Emanuela Marinelli il 23 ottobre alle 20.30, in una solenne cerimonia nel Teatro Remondini di Bassano del Grappa. La professoressa Marinelli, romana, si occupa della Sindone da 38 anni e sull’argomento ha scritto 17 libri e tenuto centinaia di conferenze in vari Paesi del mondo; è stata anche coordinatrice del Comitato organizzatore del congresso mondiale «Sindone 2000» ad Orvieto. Il riconoscimento bassanese, gestito dalla locale Scuola di cultura cattolica e giunto alla XXXIII edizione, è andato tra gli altri a personalità come Joseph Ratzinger, Krysztof Zanussi, Angelo Scola, Riccardo Muti, Camillo Ruini, Ugo Amaldi, Michael Novak, Divo Barsotti, Cornelio Fabro, Augusto Del Noce...
Nel 1977 il botanico svizzero Max Frei rese noti i risultati di una ricerca sui pollini di cui aveva trovato traccia sulla Sindone: su 58 tipi, 38 appartenevano a piante della Palestina che non esistono in Europa. I più frequenti erano pollini identici a quelli che si trovano nei sedimenti del lago di Genezaret. In Emanuela Marinelli, allora giovane laureata in Scienze naturali e in Geologia alla «Sapienza» di Roma, la scoperta suscitò un interesse profondo. Pollini dalla Palestina, come una firma sulla reliquia che dal 1933 non veniva esposta al pubblico. La Marinelli bussò al Centro romano di Sindonologia di monsignor Giulio Ricci, cominciò a studiare. Apprese che in corrispondenza del tallone dello sconosciuto avvolto nel telo c’erano tracce di un tipo di aragonite, identico a quello che si trova nelle grotte di Gerusalemme.
Ed Emanuela Marinelli si innamorò della Sindone. Amore tenace: quasi quarant’anni di studio. E 17 libri, centinaia di articoli, migliaia di conferenze, dall’Indonesia al Kazakistan al Burkina Faso: lunghi viaggi, talvolta pericolosi, sempre con una copia della Sindone piegata nella valigia, per andare a spiegare, in capo al mondo. Per questa appassionata attività di divulgazione la professoressa riceve il 23 ottobre prossimo a Bassano del Grappa il prestigioso Premio internazionale della Cultura Cattolica.
La incontriamo in un caffè di Roma. Giovanile, vivace, da come parla è evidente che l’innamoramento per la Sindone continua, da quel lontano giorno in cui, dice, davanti a una sua copia si ritrovò senza parole: «Mi parve – dice – un Vangelo scritto col sangue». Ma venne il 1988, l’anno del famoso test effettuato con il carbonio 14 su un frammento del telo: la Sindone, almeno così fu detto, alla prova della scienza. Dai laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo arrivò il verdetto: il lenzuolo risaliva al Medio Evo. Un esito tranchant, che sembrò spazzare via secoli di speranze di avere, ancora, una traccia materiale del passaggio di Cristo sulla terra. Quasi tutti a quel punto, come scrisse Vittorio Messori, si inchinarono, devoti, a «san carbonio 14».
Non proprio tutti, però. Emanuela Marinelli: «L’angolo del telo sottoposto all’analisi risultò essere stato manipolato, rammendato, inquinato da funghi e batteri. Se il campione era inquinato, la datazione poteva riferirsi alle tracce lasciate da polveri e manipolazioni». Lo sostennero poi, del resto, studiosi illustri come Gove. L’ombra che la scienza sembrava avere dissipato, in realtà rimaneva. Benché, dice la Marinelli, «si avvertisse una volontà di negare la storicità della Sindone, a prescindere da ogni elemento emerso dalla ricerca. Una volontà ideologica di negare: forse perché, come disse il cardinale Biffi, se la Sindone è falsa per un cristiano non cambia niente, ma se la Sindone è vera, per gli atei cambiano tante cose…».
La 'verità' assoluta sentenziata dal carbonio 14 fu per la Marinelli, che si era laureata in Scienze naturali con una tesi sulla radioattività dei minerali di uranio, una sfida a studiare ancora. Fu allora che pubblicò il primo dei suoi 17 libri, vagliando ogni ricerca, ogni parola pronunciata sulla Sindone. Perché ancora molto, secondo lei, non era chiaro. «Il tessuto – dice – mostra una cimosa e una cucitura particolari, ed è assimilabile ai tessuti trovati anni fa a Masada, e risalenti al I secolo dopo Cristo. Le analisi provano che in corrispondenza delle ferite c’è sangue; altre analisi dimostrano che un corpo giacque nel telo per 36/40 ore. Ma non c’è traccia del trascinamento che dovrebbe apparire, se il cadavere fosse stato rimosso».
«Infatti sa quali studiosi, anche se atei e 'negazionisti', ammettono che nella Sindone è stato avvolto un uomo? I medici e gli artisti: i primi perché riconoscono che quello è sangue, i secondi perché capiscono che quella non è pittura. L’esperimento più significativo, però, è stato quello condotto in Italia, all’Enea. Un laser a eccimeri è stato puntato su un tessuto, e l’effetto ottenuto è quanto di più simile abbiamo all’immagine della Sindone. La stoffa risulta ingiallita, come fosse stata attraversata da un fortissima luce».
La fede non influisce sui suoi studi? chiediamo. Lei, pacata: «No. I pollini, l’aragonite, la cimosa del tessuto, sono tutti elementi concreti. Oggi si può affermare che la prova del carbonio 14 non basta più per smentire la autenticità della Sindone». È possibile, secondo lei, svolgere nuovi test attendibili? «Temo di no, perché l’incendio cui il telo scampò chiuso in una cassetta, nel 1532 a Chambéry, può averlo comunque contaminato e ciò altererebbe i risultati dell’indagine con il carbonio».
La Sindone, dunque, cos’è per lei? «Un’immagine ancora non spiegabile, che ci lascia sulla soglia di un enigma. Come scrisse Arpino: 'In un pianeta che è rigonfio di monumenti, piramidi, colossei, archi trionfali, statue equestri, templi incontaminati o corrosi dalle muffe e dall’abbandono, in questo pianeta solo una pezza di lino, con quell’Orma, conserva il suo mistero'. Ma questa immagine, nella sua povertà, continua a chiamare gli uomini. La Sindone è icona della sofferenza umana. La gente, quando vado a parlarne, mi sta a ascoltare, ovunque: nelle regioni più lontane del mondo, nelle scuole, nelle carceri».
Ma una sera una donna anziana, finita la conferenza, si alzò dalla platea. Era una donna modesta del Sud Italia, con le mani sciupate dal lavoro casalingo. «Professoressa – disse –, io non ho capito molto del carbonio 14, però una cosa ho capito. Ho capito che noi dobbiamo diventare come la Sindone, dobbiamo stamparci dentro l’immagine di quel volto sofferente, per portarlo a quelli che incontriamo». E quella volta fu la professoressa, commossa, a restare muta.
3/ Sindone, scienza e fede. «È come affacciarsi sulla soglia del mistero della Risurrezione». Un’intervista con Emanuela Marinelli di Elisabetta Longo
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista con Emanuela Marinelli di Elisabetta Longo, pubblicata il 5/4/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
Dal 19 aprile al 24 giugno a Torino ci sarà l’ostensione della Sindone. Tra i “pellegrini” ci sarà anche papa Francesco, che visiterà il capoluogo piemontese domenica 21 e lunedì 22 giugno. Emanuela Marinelli è sindologa di fama internazionale, da quasi quarant’anni impegnata nello studio del Sacro Telo.
Professoressa, come è nata la sua passione per la Sindone?
Studio la Sindone da 38 anni, da quando vidi in tv un servizio che parlava delle ricerche di Max Frei, il direttore del laboratorio scientifico della polizia di Zurigo. Questo botanico aveva scoperto sulla Sindone granuli di polline provenienti da piante desertiche che fioriscono in epoche diverse in Palestina, altri di piante della Turchia dell’Est, altri dei dintorni di Costantinopoli, altri ancora di specie esistenti in Francia e in Italia, e questo confermò le verosimili tappe storiche del Telo.
Le specie identificate da Frei sulla Sindone sono 58: di queste, 38 crescono a Gerusalemme ma non esistono in Europa e tra esse 17 sono tipiche e frequenti a Gerusalemme e dintorni. Ciò prova la provenienza palestinese di questo lenzuolo. È da sottolineare l’importanza della presenza sulla Sindone dello Zygophillum dumosum, che cresce solo da Gerusalemme verso sud in Israele, in una parte della Giordania e al Sinai. Le analisi di Frei sono state successivamente confermate da altri botanici. La palinologa Marzia Boi, analizzando la lista dei pollini trovati sulla Sindone da Frei e osservando le fotografie da lui pubblicate, ha notato la presenza delle piante più usate per realizzare costosi balsami, che venivano impiegati negli antichi riti funerari del Medio Oriente. Essendo laureata in Scienze Naturali e Geologiche, so quanto sono importanti i pollini per ricostruire la provenienza di un oggetto. Da questa ricerca è partito il mio interesse per la Sindone.
Quale aspetto della Sindone la affascina di più?
Sono molto interessata alle microtracce presenti sulla stoffa. Sono stati rinvenuti frammenti di terriccio in corrispondenza della punta del naso e del ginocchio sinistro, conferma delle cadute dell’Uomo della Sindone lungo la strada. In altri campioni di materiale terroso, prelevati dalla Sindone in corrispondenza dei piedi, è stata individuata aragonite con alcune impurezze; campioni prelevati nelle grotte di Gerusalemme sono risultati essere molto simili, dato che contenevano anch’essi aragonite con le stesse impurezze. Inoltre sulla Sindone sono state identificate alcune particelle di aloe e mirra, soprattutto nelle zone macchiate di sangue. Sono le sostanze profumate che si usavano in grande quantità per la sepoltura in ambito giudaico. Anche la datazione del tessuto è un campo da approfondire. In base all’analisi con il metodo del radiocarbonio, la Sindone risalirebbe al medioevo, a un periodo compreso tra il 1260 e il 1390 d. C. Numerose obiezioni sono state però mosse al risultato di questo test da parte di vari scienziati, che ritengono insoddisfacenti le modalità dell’operazione di prelievo e l’attendibilità del metodo per tessuti che hanno subito vicissitudini come quelle della Sindone, in particolare un rammendo da parte della suore clarisse di Chambéry dopo il terribile incendio che aveva danneggiato gravemente il lenzuolo nel 1532. Per verificare l’antichità di un tessuto esistono però anche altri test. Tre nuove analisi, condotte nel 2013 presso l’Università di Padova, datano invece la Sindone all’epoca di Cristo.
Sulla Sindone sono state compiute le più svariate analisi. Qual è secondo lei è il risultato che ci dà più informazioni sull’uomo avvolto in quel sudario?
Il sangue presente su quel Lenzuolo è l’aspetto più commovente: ci narra le torture subite dall’Uomo della Sindone, in tutto coincidenti con le narrazioni evangeliche. È sangue di una persona fortemente traumatizzata, che ha subito una terribile flagellazione con un flagrum romano, una dolorosa coronazione con un casco di spine, il faticoso trasporto del patibulum (la trave orizzontale della croce), le tragiche cadute lungo la strada, lo strazio dei chiodi della crocifissione conficcati nei polsi e nei piedi senza alcun sostegno, lo sfregio del colpo di lancia postmortale. Da questo squarcio uscì sangue già parzialmente raggrumato e siero separato: il “sangue e acqua” descritto da Giovanni. Dallo studio della Sindone alcuni medici legali hanno dedotto che fino a poco prima della morte fluiva sangue dalle ferite e che il corpo è stato avvolto nel lenzuolo non più tardi di due ore e mezzo dopo la morte. Per avere un decalco del sangue sulla stoffa come quello osservato sulla Sindone, il corpo deve essere stato a contatto con il lenzuolo per circa 36-40 ore. In questo tempo un ruolo importante deve essere stato svolto dalla fibrinolisi, che provoca il ridiscioglimento dei coaguli. Non ci sono tracce di putrefazione. Resta inspiegabile come il contatto tra corpo e lenzuolo si sia interrotto senza alterare i decalchi che si erano formati. Non ci sono le striature, le sbavature che sarebbero state provocate da spostamenti.
Sulla Sindone esistono molti studi e teorie. Quali sono a suo avviso le teorie più strampalate?
Di teorie strampalate ce ne sono parecchie e purtroppo queste assurdità affascinano molto gli sprovveduti che non si documentano da fonti serie. C’è chi ha avanzato l’ipotesi che l’immagine presente sulla Sindone sia stata provocata da un fulmine o da un terremoto e chi sostiene l’opera di un artista, tirando in ballo addirittura Leonardo, senza considerare l’assoluta mancanza di pigmenti pittorici sulla stoffa. Oltre al fatto che l’esistenza della Sindone in Francia è documentata già cent’anni prima della nascita di Leonardo… Anche la fabbricazione dell’immagine sindonica con un bassorilievo riscaldato o strofinato con pigmenti acidi è insostenibile, alla luce delle analisi condotte direttamente sul lenzuolo. C’è poi chi sostiene che l’Uomo della Sindone non fosse morto ma solo in coma e dunque la risurrezione di Gesù sarebbe una semplice guarigione; ma nessun sostenitore di questa teoria si è mai reso disponibile per un esperimento da compiere su di lui, sottoponendosi alle torture subite dall’Uomo della Sindone; anche a fronte dell’offerta della camera di rianimazione, che non c’era all’epoca di Cristo.
Nella sua carriera di studiosa si è mai trovata a “litigare” per difendere l’oggettività delle sue scoperte?
Di “litigate” ne ho dovute fare parecchie, alle mie conferenze o in tv, perché c’è ancora chi nega che sulla Sindone ci sia sangue umano! Purtroppo c’è chi è intimorito dalla Sindone e vuole negarla a tutti i costi per non essere coinvolto in un cambiamento di vita, naturale conseguenza di un’autentica conversione.
La Sindone è stata studiata centimetro per centimetro, ma esistono ancora dei misteri insoluti?
Il mistero più difficile da risolvere è quello dell’origine dell’immagine umana. È certo che il lenzuolo ha avvolto un cadavere, ma è altrettanto certo che quel cadavere non è rimasto a putrefarsi nel lenzuolo. Inoltre – fatto unico e inspiegabile – ci ha lasciata impressa una specie di fotografia di se stesso. L’immagine è una disidratazione e ossidazione della stoffa, senza sostanze di apporto. La colorazione, estremamente superficiale, penetra solo per 200 nanometri nelle fibrille.
Nel corso degli ultimi decenni si sono tentate molte strade per spiegare l’immagine sindonica con le sue particolari caratteristiche. In modo particolare, la superficialità dell’immagine e la sua assenza sotto le macchie di sangue hanno privilegiato l’ipotesi che un’esplosione di luce potesse essere alla sua origine. Molte prove sperimentali sono state fatte a questo scopo con vari tipi di laser, ma solo ultimamente l’utilizzo di laser ad eccimeri potenti e con impulsi di breve durata hanno dato risultati interessanti. Infatti, con laser ad eccimeri che emettono nell’ultravioletto si è ottenuta una colorazione giallina, compatibile con le immagini sindoniche e le loro caratteristiche. Però non sapremo mai come un cadavere ha potuto formare un’immagine che si può spiegare solo con un’esplosione di luce…
Qual è, a suo avviso, il fascino della Sindone?
Davanti alla Sindone si ha la sensazione di affacciarsi sulla soglia del mistero della Risurrezione di Cristo. La Sindone è l’icona della misericordia di Dio, che dona suo Figlio per la salvezza dell’umanità. Quel corpo martoriato è la fotografia dell’amore donato, del peccato espiato, della salvezza compiuta. Egli ci trattò secondo la sua misericordia, secondo la grandezza della sua grazia (Isaia 63,7). Quel volto tumefatto ma sereno garantisce la dolcezza del perdono. Non si può restare indifferenti dinanzi al sacrificio del Figlio di Dio, testimoniato dalla Sindone con il linguaggio cruento di un documento insanguinato. “L’Amore più grande”, motto dell’ostensione della Sindone 2015, si richiama direttamente alle parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Il Signore ha lasciato l’impronta indelebile della sua misericordia su un semplice lino, fragile testimone dell’evento che ha cambiato la storia. Ecco il senso profondo della Sindone, ecco svelato il mistero del richiamo di milioni di persone: la Sindone non lascia passivi, la Sindone coinvolge chi la osserva in un dialogo silenzioso che cambia il senso della vita, mostrando l’unica forza che vince il dolore e la morte. Davanti al venerato Lino potremo ripetere con maggiore forza le parole della secolare preghiera tradizionale, oggi ricamata sul drappo che avvolge la teca della Sindone: «Tuam Sindonem veneramur, Domine, et Tuam recolimus Passionem», veneriamo la Tua Sindone, o Signore, e meditiamo sulla Tua passione.
Riprendiamo dal sito www.chiesadimilano.it la Lettera pastorale dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini all'arcidiocesi ambrosiana per la Quaresima 1957. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
Venerabili Confratelli e diletti Figli,
Il periodo quaresimale, al quale ci appressiamo, ci invita tutti a ripensare ai nostri rapporti con Dio ed a conformare la nostra vita alle esigenze ed alle grazie, che da tali rapporti derivano, come nostro Signor Gesù Cristo ha rivelato ed ha stabilito, quale mediatore fra gli uomini e Dio, instaurando quella religione nella quale sola possiamo trovare salvezza.
Immenso è questo disegno, che descrive l'arco misterioso che congiunge terra e cielo, e trova in Cristo il suo centro (cfr. Eph. 1, l0). Noi ci limitiamo, questa volta, a considerare un unico punto di esso, quello a noi vicino, quello che da noi parte e di cui noi abbiamo qualche naturale esperienza, quello che la nostra capacità umana dovrebbe curare ed educare, perché corrisponda al piano della divina rivelazione; vogliamo dire la nostra umana attitudine alla vita religiosa. Vogliamo parlarvi brevemente del senso religioso.
L'argomento non ci è suggerito da speculazioni particolari, quanto piuttosto dall'esperienza pastorale, dalla conoscenza cioè e dal contatto che andiamo prendendo col nostro popolo fedele e con la società profana che ci circonda
Ministri di Dio, noi siamo obbligati a fare del senso religioso campo nostro lavoro, oggetto del nostro interesse, materia delle nostre cure; lo vorremmo vigile, retto, pronto agli atti che gli sono propri; lo vorremmo diffuso negli animi e nella condotta degli uomini, alimentato, guidato, sublimato dalla fede e dalla grazia di Cristo.
Ardente in alcuni, lo troviamo debole, assopito, intermittente, talvolta spento in molti altri; soffocato, deriso, sostituito da altri sentimenti, in quelli che reputano la religione espressione inferiore e superata dello spirito umano, o la negano e la odiano, secondo le forme ormai molteplici dell'ateismo, o dell'empietà, o dell'irreligiosità moderna.
Ecco: davanti a noi si stende il panorama del nostro mondo contemporaneo, pieno di vita, di pensiero, di attività, di conquiste. La città terrena va trasformandosi e costruendosi in nuove e grandi forme di civiltà. L'uomo cresce: di numero, di cultura, di potenza. Studi ed affari, imprese ed interessi, macchine e soldi, viaggi e ricchezze, divertimenti e piaceri, sogni e progetti assorbono il suo spirito, che si è fatto chiaro, calcolatore, operoso, sociale, edonista. L’attualità lo prende. Anche le sue speranze sono diventate dinamiche per il presente. La terra è il suo regno. Ed il regno dei cieli? E la vita futura? E il destino soprannaturale dell'uomo? E il mistero della vita e dell'universo? E Dio? L'uomo moderno va perdendo il senso religioso.
Ecco perché ci sembra importante, venerabili Fratelli e carissimi Figli, richiamare la vostra attenzione su questo primo gradino della vita religiosa e morale, che reputiamo soggettivamente fondamentale sia per quanto riguarda l'ordine dei nostri pensieri, sia per le conseguenze pratiche che ne derivano.
Vediamo, intanto di chiarire, con la semplicità propria d'una Lettera pastorale che cosa intendiamo per senso religioso. L'espressione sembra vaga ed incerta, perché si riferisce a particolari atti dello spirito, i quali sono per ciò stesso di difficile definizione, ed hanno spesso le più varie interpretazioni.
Di queste non parleremo, anche se la cultura moderna ne ha volgarizzate parecchie, sia nel campo degli studi filosofici, etnici, psicologici, che in quello degli studi propriamente religiosi. Accenniamo soltanto ad una, quella del modernismo, il quale, partendo da premesse agnostiche, ha dato un'interpretazione immanentistica al senso religioso, e lo ha fatto scaturire dalle penombre della subcoscienza, quasi un bisogno del divino, che va creandosi il suo termine, e che diventando così cosciente e combinandosi con qualche dato storico e sensibile, si afferma come fede e religione. E ricordiamo come questa valutazione abusiva del senso religioso abbia avuto esplicita e meritata condanna nella famosa Enciclica Pascendi del Santo Pontefice Pio X, nel 1907.
Noi diremo piuttosto che il senso religioso è un'attitudine naturale dell'essere umano a percepire qualche nostra relazione con la divinità.
E lo diremo sentimento religioso quando questa attitudine si pone in esercizio, quando cioè si riempie delle percezioni sue proprie, sebbene nel linguaggio corrente spesso senso e sentimento religioso siano usati liberamente l'uno per l'altro.
E notiamo subito che il senso religioso non è in tutti egualmente vivo e sviluppato, sia riguardo al possesso nativo: vi è chi ha una sensibilità religiosa più pronta e più fine, chi invece più tarda e più ottusa, come l'orecchio musicale; e sia riguardo all'educazione o alla trascuranza, che si è data a questo dono dello spirito. I bambini, i puri di cuore, i veglianti, i sapienti, i mistici hanno, in forme diverse, questa stupenda attitudine in grado superiore.
Questa attitudine può essere perfezionata da un fattore soprannaturale, la grazia; e sappiamo quanto questo dono divino infonda finezza e vigore al senso religioso naturale, abilitandolo ad aspirazioni ed a percezioni superiori.
Quando, ad esempio, la Sacra Scrittura parla d'uno «spirito» che vivifica (cfr. Is. 42, 1; Ps. 50, 12; Zach. 12, l0; Ez. 36, 26; Act. 2, 17-18) o parla d'un «senso» nuovo (cfr. Rom. 12,2; Phil. 1,9; 1 Jo 5,20) o del «senso di Cristo» (I Cor 2, 16), noi pensiamo che si possano applicare queste espressioni anche all'accresciuta capacità e vivacità del senso religioso naturale, in cui l'afflato d'un soprannaturale carisma è stato infuso.
I moderni chiamano tutte queste incipienti manifestazioni spirituali col termine comprensivo di religiosità, indicando così la propensione alle cose di religione. Esso indica cioè l'aspetto soggettivo del fatto religioso, la disposizione dell'anima a intuire ed a cercare Dio, a trattare con Lui, a credere, a pregare. ad amare Dio, ad avvertire il carattere sacro delle cose o delle persone, a connettere una responsabilità trascendente all'operare umano. Dà in concreto la misura di quanto un soggetto umano, e non soltanto la natura umana considerata in astratto, sia capax Dei[1], capace di Dio.
Per comprendere l'importanza dell'argomento dobbiamo accennare ad altri termini, che, più o meno esattamente, sono comunemente impiegati per designare questa propensione dell'uomo verso Dio. Ricordiamo così ciò che gli antichi chiamavano, e che ancor oggi il buon popolo cristiano chiama, il timor di Dio, non già come dono conseguente alla fede (cfr. S. Th., II, II,7, l) e alla grazia (cfr. S. Th., II, II,19, 9), o nel significato preciso di perplessità e di paura, quanto piuttosto di coscienza del sovrano ed onnipresente Essere divino, al Quale, appena avvertito, ci attrae e dal Quale ci respinge una spontanea soggezione. (cfr. Lc. 5, 8). Con S. Tommaso, lo potremmo ascrivere fra le native aspirazioni (vires appetitivae) dell'uomo, soggette all'impero della ragione, ma che si orientano istintivamente a Dio, quasi condotte da un potere superiore (II, II,68, 4).
Altri parlano di pietà, come d'una delle manifestazioni dello spirito umano, più connaturate, più nobili, più feconde, a cui pensiero, amore, arte, vita hanno dato tributo d’inestimabili tesori e da cui hanno avuto inesauribili fonti di superiori energie. Ma la pietà è già atto religioso consumato, e designa l'uomo presente a Dio in amorosa riverenza (cfr. De Luca, Arch.)[2]. Altri parlano di religione, genericamente.
Ma qui [vogliamo] per ora considerare il senso religioso come l'apertura dell'uomo verso Dio, l’inclinazione dell'uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino; l’avvertenza indistinta, balenata intuitivamente alla sua coscienza, del proprio essere dipendente e responsabile; il pronunciamento informe e naturale dell’anima circa il proprio arcano rapporto verso l'Essere supremo; il nativo gesto della natura umana in atteggiamento di adorazione e di supplica; l’esigenza dello spirito verso un Infinito personale, come dell'occhio verso la luce del fiore verso il sole.
E’ importante ed è bello notare come questa primigenia direzione dell'uomo deriva dalla intrinseca ed essenziale struttura. Ricordiamo la celebre frase di Sant'Agostino: Fecisti nos ad Te; Tu, o Signore ci hai fatti rivolti a Te (Conf. 1,1)
Questo ci sembra il senso religioso. Non è, come si vede, espressione ben determinata, ma è ormai entrata nell'uso per indicare quanto vi è di immediato e di soggettivo nel fatto religioso. È, in un certo senso, anteriore al ragionamento, ma trae dalla realtà la sua ragion d'essere. «Movimento religioso della natura umana, se non è per vizio mentale o morale pervertita, o addirittura accecata» (Spiazzi). Più precisamente, si tratta di «una conoscenza prefilosofica, che è virtualmente metafisica». (Maritain, Approches de Dieu, Alsatia, Paris, s.d.). E all'analisi accurata ed onesta questa immediata percezione religiosa rivela un implicito e rapidissimo ragionamento, che qui sarebbe lungo descrivere, e ci riporta a quelle «vie» che salgono alla certezza dell'esistenza di Dio, ed a quelle che tentano di sapere qualche cosa di Lui: le une e le altre lo dicono sostanzialmente valido e ben orientato. Maestri attendibili classificano il senso religioso nel senso comune, e questo dimostrano essere la riserva delle certezze primordiali e fondamentali, proprie della ragione naturale spontanea, che ha l'intuizione dei primi principi e che ha nell'essere il suo oggetto formale.
Altri infine parlano di esperienza religiosa, altri di idea religiosa.
Ma per concludere su questo punto potremmo, più completamente, attribuire alla espressione considerata di «senso religioso» il significato ricco e complesso di orientamento - istintivo, cosciente, razionale e morale, sia naturale, che soprannaturale - della vita umana verso Dio.
Noi dovremmo documentare con la parola di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura, quale sia la considerazione dovuta a questa insita vocazione, naturale prima e poi soprannaturale, che portiamo in noi, e che qui designiamo col termine di senso religioso. Ma sarebbe assai lungo il farlo, anche se meravigliosamente istruttivo, perché tutta la Rivelazione annuncia tale vocazione, la ammette, la stimola, la educa, la corregge, la eleva, la soddisfa, la beatifica. Il grande e ineffabile dialogo tra Dio e l'uomo, che costituisce appunto la nostra religione, suppone nell'uomo stesso un'attitudine recettiva particolare. Se l'uomo cerca ed ascolta la parola di Dio, la Verità salvatrice entra nell'anima e genera nuovi rapporti fra Dio e l'uomo, la fede, la vita soprannaturale. Ma se l'uomo non ascolta, Dio parla invano; un dramma tremendo si apre. Dappertutto nella Bibbia si presenta questa alternativa decisiva. L'ascoltare dell'uomo è atto, per eccellenza, razionale e volontario, pieno e cosciente dell'ossequio tributato a Dio rivelante (cfr. Rom. 1, 19-20; 2, 15; 10,17; 12, 1; I Thess. 2, 13; ecc.), ma suppone una maturazione interiore, lavorata dalla grazia, d'una nativa e onesta disposizione all'incontro con Dio. A questa disposizione umana al divino si riferiscono innumerevoli passi della Sacra Scrittura; anzi questo riferimento forma uno dei temi ricorrenti del libro divino, sempre rivolto a risvegliare l'anima ed a suscitarvi sentimenti di ricerca religiosa, di attesa, di inquietudine, di rimorso, di speranza. Le storie bibliche, ad esempio, educano il senso religioso a scoprire i disegni di Dio negli avvenimenti e nella vita; i salmi sono un sospiro e un canto, in cui il senso religioso trova ispirata espressione; e quando i profeti alzano la loro voce, eco di quella divina, vogliono ridestare nel popolo la coscienza religiosa; così nel vangelo la predicazione del regno di Dio, e poi quella della vigilanza e della parusia sempre mirano a ravvivare il senso religioso, quasi indispensabile capacità di accogliere, comprendere, seguire i divini messaggi.
Né dissimile è l'insegnamento dei grandi spiriti che dalla scuola del Vangelo hanno attinto gli insegnanti per cui sono chiamati Dottori nella Chiesa di Dio. Ascoltiamo, ad esempio, il nostro Sant'Ambrogio nel suo commento al Salmo 118: «L'anima del giusto è come sposa del Verbo. Se essa desidera, se aspira, se prega, e prega assiduamente, prega senza discutere, e tutta si protende nel Verbo, d'un tratto le pare di udire la voce di lui, che pure non vede, e con intimo senso riconosce il profumo della sua divinità; ciò sperimentano per lo più coloro che bene credono. Subito si riempiono di grazia spirituale le narici dell’anima, che sente presso di sé il respiro della presenza di lui, che essa cerca, e dice: Ecco, è lui, ch'io ricerco, lui, ch'io desidero» (P.L. 15, 1270).
Questa è già esperienza religiosa consumata, a cui l'anima dei buoni può giungere; ma altra vi è, a cui ogni anima è inclinata. Ci insegna S. Agostino: «...non so quale intima coscienza invita, quasi pubblicamente e privatamente tutte le anime migliori a cercare Iddio e a servirlo» (De utilitate credendi, XVI, 34).
E che tale esperienza religiosa non sia contraria alla nostra razionalità, e che questa non possa in sé risolvere e vanificare la forma religiosa del pensiero, ci ammonirà ancora Sant'Agostino, che scrive: «...il principio dell'umana salvezza è che la filosofia, cioè la ricerca della sapienza, non è una cosa ed altra è la religione» (De vera religione, 8).
Venerabili Fratelli e diletti Figli,
Abbiamo voluto premettere qualche nozione, sorvolando su le profondità della delicatissima materia, perché crediamo che la questione religiosa contemporanea vada principalmente studiata e risolta su questo piano, quello del senso religioso. Perché, ove questo mancasse, che varrebbe la nostra religione esteriore? Ci sentiremmo ammonire da Cristo: «Questo popolo mi onora con. le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mt. 15, 8). Per di più, al tempo nostro, ove il senso religioso mancasse anche la pratica religiosa presto verrebbe meno. È questo un punto capitale, a nostro avviso, per l'età in cui viviamo. Riportiamo perciò l'attenzione sopra il senso religioso, perché, sebbene esso non sia ancora la religione, ne costituisce tuttavia la base soggettiva, senza la quale o la .religione rimane esteriore, formalista, inoperosa. e fragile - pericolo di ieri e di sempre -, ovvero essa cade addirittura, - pericolo di oggi.
Perciò poniamo la nostra attenzione pastorale su questo problema decisivo: come conservare, come tener desto, come indirizzare il nostro senso religioso?
Se questo costituisce il punto di partenza della nostra aspirazione alla concezione religiosa della vita e del mondo, e se esso costituisce il punto iniziale d'arrivo dell'ineffabile iniziativa di Dio desideroso di venire in comunione con noi, come disporremo questa nostra testa di ponte per ricevere l'Ospite trascendente? È chiaro che la vita religiosa sarà tanto più ricca e perfetta, quanto meglio la nostra capacità recettiva dei doni divini sarà predisposta ad accoglierli. Così è chiaro che, dove il senso religioso è pigro e spento, la venuta di Dio all'anima, trova la porta chiusa.
Inoltre il senso religioso, sintesi dello spirito, ricevendo la parola divina, impegna con la mente anche le altre facoltà, e dona un prezioso apporto, quella rispondenza cioè che noi chiamiamo il cuore, e diviene senso di presenza e di comunione, proprio della religione, facendo sì che la parola divina non sia ricevuta solo passivamente, ma in modo invece da ricavarne un caldo atto di vita.
Domandiamoci ora quali sono, in generale, le nostre presenti condizioni rispetto al senso religioso. .
Ed innanzi tutto vogliamo chiederci perché il nostro tempo sia in condizioni meno favorevoli al senso religioso che quello anteriore. Esso infatti non trova nell'atmosfera culturale, morale e sociale moderna le condizioni migliori per la sua difesa e per la sua educazione; e di conseguenza la vita religiosa facilmente decade.
L'osservazione è facile. Il popolo non ha oggi la sensibilità religiosa che aveva ieri. L'osservanza dei doveri religiosi esige ora maggiore fatica che non in passato. Le persone che sono più impegnate nelle attività caratteristiche della vita moderna: lo studio scientifico, il lavoro industriale, la macchina, la tecnica, la burocrazia, lo sport, l'economia, il divertimento, ecc., sono meno disposte all'atto religioso, che non quelle non ancora afferrate dalla febbre di questo intenso operare. Molta gioventù è affascinata dalla faccia fenomenica del mondo circostante, e subito è iniziata all'arte della critica corrosiva; arriva, si; ma non senza pazienza, e saggezza, e fatica di educatori ai valori dello spirito, alla sensibilità. religiosa, alla vita interiore; è, in genere, distratta, più tentata dal calcolo egoistico, che da ideali eroici, insofferente di raccoglimento, poco atta alla poesia, alla preghiera. Le vocazioni religiose non si pronunciano che con difficoltà nell'eccitazione esteriore, in cui si forma la psicologia della gioventù moderna.
.Anche la donna, più ricca dell'uomo di istinti vitali, e perciò di senso religioso, oggi risponde meno alla sua nativa chiamata alla pietà e alla bontà. Nell'ambito stesso dei credenti l'attività prevale su l'orazione, la vita esteriore su l'interiore, e talvolta la valutazione dei mezzi umani sembra soverchiare quella dei mezzi soprannaturali. La vita contemplativa è quasi deserta; la nostra società manca di silenziosi, di solitari, di ricchi d'interiorità, come manca di cenobi spirituali e di cori oranti, che guidino ed accompagnino l'incerto pellegrinare umano verso il suo supremo destino.
L'azione temporale, anche fra i cristiani, prevale, non solo per la presente necessità, che la impone come doverosa milizia, ma nella stima comune, come la sola pratica, la sola conclusiva.
La spiegazione invece è difficile. Implicherebbe lo studio dei più vasti e dei più complessi movimenti dello spirito moderno. Ma siccome questa analisi è stata compiuta già da autorevolissimi maestri, possiamo semplicemente indicare, fra i tanti, alcuni punti, molto generali, a cui si riducono le spiegazioni cercate.
1 - Il primo è l'umanesimo profano. Cioè lo sforzo di fare dell'uomo termine di se stesso e di tutte le cose. L'uomo al posto di Dio. Il fatto ha lunga storia, come ben si sa: l'uomo, inebriato del suo sapere e del suo potere, delle sue scoperte e dei suoi strumenti, tende ad affermare la sua autonomia, la sua supremazia, la sua sufficienza; dallo studio dell'essere è passato allo studio della coscienza, e si è creduto arbitro del suo pensiero; come poi ciò egli possa sostenere nella logica della ragione e nel corso della pratica è difficile dire; anzi, alla fine, appare assurdo; ma tant'è, così dev'essere; e l'idolatria dell'uomo viene a sostituire il culto di Dio. A questo antropocentrismo si rannodano numerosi sistemi filosofici, che hanno distolto lo spirito umano dal suo ordinamento a Dio, con spegnimento del senso religioso, e con innumerevoli e indescrivibili perniciose conseguenze; citiamo, tanto per averli presenti, termini noti e fatali: razionalismo, illuminismo, naturalismo, agnosticismo, idealismo, esistenzialismo, ed oggi, in pratica, il laicismo e l'ateismo. .
E ricordiamo che un umanesimo siffatto, tutto inteso all'esaltazione dell'uomo e all'oblio o alla negazione di Dio, mentre crede d'aver con ciò sottratto l'uomo da indebita e importuna soggezione e d'avergli conferito un più alto grado di dignità, perde con ciò stesso il vero titolo della grandezza e della dignità umana, che è quello delle sue relazioni con Dio e con Gesù Cristo. «L'uomo, ci ricorda l'alta e franca parola di Pio XII, è immagine di Dio uno e trino, e quindi anch'egli persona, fratello dell'Uomo-Dio Gesù Cristo, e con lui e per Luierede di una vita eterna: ecco qual è la sua vera dignità»[3].
2 - Il secondo è la manomissione dell'ordine morale anch'essa tanto diffusa, tanto varia, tanto illustrata dalle più sottili e strane teorie. Anche l'ordine morale è orientato a Dio e da Dio dipende. L'azione umana ha in sé stessa un invito alla trascendenza, seguendo il quale si arriva alle soglie di Dio. Così che chi bene agisce, giunge alla luce (Jo. 3, 21). Il più caratteristico fenomeno moderno, in fatto di azione, è invece lo sforzo di emanciparla da ogni riferimento che vada al di là della coscienza e della legge positiva, questa privata di fondamento intrinseco ed assoluto, quella ridotta al narcisismo d'un'analisi psicologica. La libertà non è più la facoltà di bene operare; ma, resa fine a sé stessa, è licenza di operare in modo qualsiasi. La deontologia, priva di leggi e di sanzioni divine, finisce per mancare di vigore e di senso. Il peccato non esiste più. E per sostenere questo tremendo principio, fonte di anarchia morale, si soffoca ogni vero rimorso, ogni pentimento reduce alla casa del padre (cfr. Lc 15, 18-20). Senso morale e senso religioso restano o cadono insieme. Le crisi di costume diventano crisi di fede.
3 - Il terzo, forse il più diffuso, non sarebbe per sé cattivo, se in pratica non impedisse il normale sviluppo dello spirito. Si tratta della conquista del mondo naturale. Quel mondo che è direttamente proporzionato alle capacità conoscitive dell'uomo perciò estremamente interessante, ma oggi, in moltissimi spiriti, quasi esc1usivamente assorbente. La conquista del mondo naturale, nei nostri tempi, ha potentemente impegnata l'attenzione dell'uomo su le proprietà della materia, e tanto ad essa l’ha avvinta da non lasciargli più altro vedere. Essa si è mostrata carica di segreti e feconda di forze. Dalla osservazione appassionata di questi segreti e di queste forze è nata la scienza, e il carattere di certezza ch'essa acquistava ha fatto bandire dallo spirito ogni altro genere di certezza, come gratuita o superstiziosa. La scienza ha assoldato il lavoro, e il lavoro ha domato la natura, e l'ha resa utile all'uomo. L'incantesimo dell’utilità s'è aggiunto a quello della certezza. La tecnica ha tutto trasformato in strumento.
L'arte della produzione ha così trionfato: industria e commercio hanno attorniato l'uomo moderno di così abbondanti e raffinate ricchezze materiali da insinuargli la ricorrente tentazione e poi l'inebriante impressione d'essere felice e di poter racchiudere in questa potente e meravigliosa esperienza temporale il circolo d'ogni realtà oggettiva, il suo mondo, e di ogni soddisfazione soggettiva, il suo spirito; e l'uomo si è da sé interdetto di uscire da questa stupenda gabbia materialista; ha dimenticato, ha negato Dio.
È avvenuto così che il senso religioso del nostro popolo si è affievolito. È bene questo? È stato necessario, per spegnere in lui il desiderio di Dio, bendargli gli occhi, cioè togliergli la capacità di cercare e di guardare oltre se stesso e le cose non badando che, con questa fatale cecità, egli stesso e le cose perdevano prima di senso vero, poi di valore. La sensibilità religiosa, e poi la religione stessa sono state screditate da alcuni come fasi rudimentali del progresso umano, evoluto ormai in quella scientifica; sono state assorbite da altri, come forme incipienti dello spirito, nell'attività del pensiero cosciente di sé, e non più teso verso l'Essere primo; sono state licenziate da molti come inutili cose, per rivolgere le attività umane alle realtà concrete della vita temporale e sociale; sono poi state soffocate ai nostri giorni da velenose o brutali oppressioni persecutrici.
L'uomo moderno ha trascurato lo studio dell'essere, in se stesso, e dell'anima; si è limitato allo studio dei fenomeni delle cose e alle esperienze della psicologia. D'una sua angelica, ma connaturata capacità ad attingere un al di là, oltre la natura sperimentabile, d'una sua inestinguibile sete di varcare il confine del mondo finito, d'una sua elementare, necessità di ricavare dall'Assoluto e dal Necessario le ragioni logiche anche per le sue scienze positive, non si è più curato: ed è questa l'origine dei drammi spirituali, culturali, sociali, e politici del mondo contemporaneo, al quale manca, nel suo vorticoso movimento, l'asse centrale di sicurezza, di ordine e di pace.
Venerabili Fratelli e diletti Figli,
Nostra missione dev'essere la restaurazione del senso religioso. A questa missione ci chiama la nostra fortuna e la nostra responsabilità di cristiani. Ci chiama altresì la decadenza religiosa del nostro tempo, come pure la nostalgia degli spiriti veglianti e sofferenti nel mondo letterario e filosofico e nella vita vissuta. Ci chiama lo stato di crisi, in continuo travaglio, in continua speranza, della vita sociale.
Le voci di queste chiamate andrebbero bene ascoltate, interpretate, e meditate. Tanti studiosi e maestri le hanno raccolte, e tanti le vanno commentando. Non sarà difficile che voi ne abbiate istruttiva notizia.
Noi qui vogliamo essere semplici e pratici, e racchiudiamo perciò in alcuni paragrafi i nostri doveri principali per la fioritura vitale del senso religioso.
l - Occorre, innanzi tutto, una riabilitazione razionale del senso religioso. Dobbiamo comprendere come esso sia non solo parte naturale e spontanea, ma legittima, della psicologia umana; e non solo legittima, ma parte necessaria e bellissima. È stato troppo confuso con forme inferiori dello spirito, imperfette, infantili, sentimentali, ingenue, superstiziose; bisogna assegnargli il posto e la funzione che gli sono dovuti. Dobbiamo essere persuasi della insopprimibile necessità di dare alla religione il suo salutare primato ed il suo specifico campo d'azione. E dobbiamo difendere nell'opinione del mondo contemporaneo tale necessità, e presidiarla, di conseguenza, del rispetto e della cura, che merita il senso religioso. L'uomo insensibile alla religione non è un essere affrancato da un antico complesso d'inferiorità; è lui stesso un essere diminuito e mortificato. La libertà maggiore, di cui sembra godere, è quella dell'ignorante che non conosce le regole del gioco e se ne spaccia maestro.
Tocca principalmente agli apologisti e agli uomini di pensiero far questo; e noi auspichiamo che la cultura cattolica, anche in Italia, sappia sempre meglio suscitare voci nuove, squillanti, originali, convincenti di professionisti della verità. Come essi debbano, anche fra di noi, sempre rinnovarsi e ricavare da una più diretta ed accurata conoscenza delle scienze moderne e dell'anima contemporanea, osando espressioni originali e approfondite della dottrina ortodossa, non è qui il luogo di dire; basti qui plaudire a chi lavora in questo senso e basti altresì incoraggiarne lo sforzo per nuovi, significativi e vittoriosi risultati. La battaglia della cultura cattolica deve, ora più che mai, continuare.
2 - Bisogna che questa difesa del senso religioso sia ben consapevole delle due forme precipue di attacco che gli vengono dalle tendenze spirituali negative contemporanee, specialmente nel campo della vita pubblica: una, piuttosto diffusa nei ceti borghesi, è il laicismo; l'altra, che circola preferibilmente negli strati marxisti e rivoluzionari, ed è l'ateismo. Temi immensi, questi, che non intendiamo ora trattare.
Non possiamo tuttavia non ricordare come il primo si afferma in Italia come residuo d'un periodo storico superato, e che ora invece si pone come epilogo d'un processo storico, culturale e politico, di emancipazione dello Stato dalla chiesa, e quindi dalla religione; e sembra giustificato dal fatto che è legittimamente riconosciuta, anche dalla Chiesa, una sovranità temporale allo Stato, mentre gli è sottratta la competenza in materia religiosa. La sfera della, vita pubblica dovrebbe perciò essere, secondo il laicismo, immune da ogni influsso religioso e morale derivato dal cattolicesimo; donde uno zelo anticonfessionale e antireligioso in tanti uomini della vita pubblica, nei quali i principi liberali si sono, tramutati in un'intransigenza sospettosa e dogmatica. Una paura, li muove, quella del cosiddetto clericalismo (altra parola che esigerebbe lungo esame), cioè del prevalere abusivo dei motivi religiosi e dell'organizzazione ecclesiastica nel campo vastissimo della competenza statale e della materia profana. Non si avvedono che la paura è, come ogni criterio passionale, cattiva consigliera di espressioni politiche infelici, a cui il laicismo farebbe da cattivo cemento, atto, se mai, non ad unire forze vive ed operanti a bene del popolo, ma a disgregarne la spirituale compagine e a riaprire antichi dissidi. Paura poi, che non sembra punto giustificata, sia per il fermo rispetto che la Chiesa pone ai limiti. della propria sfera d'azione, sia per i criteri di civile libertà da cui è ora informata la vita pubblica italiana. Come non si avvedono che il laicismo odierno sconfessa la storia, tanto religiosa e spirituale, della civiltà italiana, e trascura elementi preziosi e fondamentali dell'anima della nostra gente, quando esso anche non offenda, almeno intenzionalmente, precisi obblighi di leggi positive che circondano la religione, come tante altre libere espressioni dello spirito di particolari condizioni giuridiche. A questo laicismo politico, che finisce per inaridire il senso religioso, vorremmo ricordare quanto questo abbia storicamente concorso alle grandi affermazioni della politica italiana. (Valga, per tutte, la parola di Dante; «Romanum imperium de fonte nascitur pietatis» - De Monarchia, II, V, 5.)
Si afferma il secondo, cioè l'ateismo, come fenomeno di materialismo accentuato e progressivo, fino ad uno scientismo intransigente e muto sui grandi problemi dell'essere e della vita, insensibile ad ogni forma di pensiero, che non sia quella d'un preconcetto e chiuso positivismo.
Poi si afferma, specialmente nei movimenti antisociali di massa come fenomeno di revulsione spirituale, che nella esasperazione della coscienza d'ingiustizie patite o di brame insoddisfatte, fa d'una qualsiasi dottrina - oggi il materialismo dialettico - un dogmatismo messianico e fanatico, e ne cava tante energie per un operare tenace e violento, suggestivo talvolta, quanto altrettante smentite, teoriche e pratiche, alle affermazioni, da cui era ciecamente o astutamente partito: la recente tragedia ungherese insegni.
E così Dio, non più cercato, non più ammesso come termine luminoso e felice del pensiero e della vita, rinasce, nell'uno e nell'altra, come pauroso e fatale tormento.
3 - Problema dell'età nostra è perciò quello di rieducare la mentalità moderna a «pensare Dio».
In una grande via d'una città europea era appeso, or non è molto, uno striscione, con la scritta: pensate a Dio.
Intanto, vogliamo ancora una volta ripetere questa semplice e fondamentale affermazione, che l'occhio sincero vorrà onestamente e pazientemente esplorare: il senso religioso non è una forma deteriore dello spirito umano; è una forma nativa e rispettabile; è una forma legittima, nobile e indispensabile. Intendiamoci. Considerata nel suo aspetto istintivo; essa è forma primitiva, e va integrata nello sviluppo armonico delle facoltà superiori, l'intelligenza e la volontà, e dev'essere diretta dal pensiero nell'azione. La sua espressione spontanea non è a sé sufficiente; lasciata a sé, la spinta iniziale del senso religioso può condurre a deviazioni non poche, a manifestazioni capricciose e superstiziose, ad un pietismo deplorevole e pericoloso. Essa poi sorpassa l'attività logica e misurata dello spirito critico e sconfina nella poesia e nella preghiera, tenta di attingere un Oggetto che supera gli oggetti della conoscenza diretta ed evidente; e perciò va guidata. Filo lanciato nel vento, il senso religioso, se non incontra una mano celeste, che di là lo attiri e lo congiunga con la realtà del mistero divino, quali nostri messaggi recherà veramente al regno dei cieli; quali a noi, non dubbi; non fallaci, potrà esso recare?
Tutta la storia delle religioni è là per documentare l'instancabile conato, tante volte umile e sublime, tante altre fantastico ed ignobile, dell'anima umana verso il divino; ma sempre sterile alla fine, se Dio stesso non avesse, nella sua infinita saggezza, nella sua immensa bontà, preso l'iniziativa della rivelazione, della instaurazione cioè della vera religione. Sì, occorre una religione vera per difendere il senso religioso dal troppo facile pericolo di sbandamento. Le espressioni religiose o spiritualistiche, che non hanno per guida la verità; non offrono garanzie di salute, e danno spesso motivo di illusioni, di aberrazioni, di rovine. Oggi, ad esempio, lo spiritismo, in cui si esprime una superstiziosa e capricciosa curiosità, è diventato, in certi paesi, una piaga sociale. Così, per citare altro esempio, l'irenismo, cioè il principio che tutte le religioni sono buone, e che una vale l'altra, va diffondendo una falsa pace negli spiriti che fa del rimanente sentimento religioso, espresso nelle credenze più varie; un elemento di confusione spirituale e sociale, e prepara la via all'indifferenza ed allo scetticismo, senza poter più trarre dai valori religiosi, così vanificati, l'energia salutare loro propria. .
Chi è avveduto, ed in genere l'uomo positivo moderno lo è, non vuole ammettere simili mistificazioni; e perciò diffida del senso religioso, come d'una guida cieca; ed impaziente per le sue imponderabili esigenze e per le sue evidenti stranezze, lo respinge e lo spegne. Ciò spiega molto della irreligiosità del nostro tempo. Ma non così bisogna fare. Ha fatto così anche Pilato (cfr. Gv 18, 38): facciamola finita con queste discussioni vane e fanatiche. Si deve invece riflettere che il senso religioso spontaneo non è un criterio di verità; è un bisogno di verità. Soffocare questo bisogno è contraddire alla natura umana e violare l'opera e il disegno di Dio. La soluzione c'è. Ed ecco precisarsi il nostro dovere.
Dicevamo che l'attenzione umana, dal vivere moderno, è impegnata nella conquista del mondo circostante. Ne avviene che la conoscenza, dell’immediato interessa l'uomo d'oggi più del sostanziale; le apparenze più dell’essere, il visibile più dell'invisibile, la materia più dello spirito, le cause prossime più delle cause superiori, il proprio più dell'altrui, il presente più del passato e del futuro, la terra più del cielo, l'utile più dell'onesto, il piacere più del dovere, il mondo più del paradiso, l'uomo più di Dio.
Il lavoro, attività principale dell'uomo moderno, fonte per lui di meritate soddisfazioni e di legittimo orgoglio, crea in lui l'impressione di esclusiva potenza, e circoscrive il suo campo di osservazione. Nasce una mentalità che diventa facilmente areligiosa, e, per poco che sia accentuata, diventa irreligiosa. Ma non è mentalità completa; è unilaterale, è mortificata. Mentalità completa sarà se avrà curiosità e coscienza delle leggi scientifiche, di cui il lavoro si vale, e se, avvertendole, scoprirà in esse il postulato d'un Pensiero trascendente, creatore e ordinatore.
Così la scienza, che sovrasta il lavoro, e che parimente sembra appagare la sete del pensiero: lo appaga sì, ma lo tiene alla conoscenza del come, non del perché profondo ed essenziale dell'universo meraviglioso, ch'essa esplora e contempla; e perciò, se rimane sola regina dello spirito umano, anch'essa lo trattiene e lo mortifica, gli vieta quell'ulteriore sviluppo, ch'è proprio della filosofia e della religione, e a cui lo spirito finalmente tende.
L'uomo moderno ha perciò bisogno di non essere interdetto dallo schermo delle cose in cui impegna la sua attenzione a guardare oltre le cose stesse. Bisogna attivare in lui un dinamismo ancor più intelligente, bisogna restituirgli la curiosità metafisica, l'ambizione di risalire alla ragion d'essere di ciò che gli sta davanti. Questo passaggio speculativo, che segna il trionfo della mente umana, avviene naturalmente nell'osservazione delle cose create da Dio (Rom. l, 20). Non potrebbe oggi avvenire nell'osservazione delle cose create, per così dire, dall’uomo? cioè dai risultati del suo ingegno e del suo lavoro, dai suoi strumenti; dalle sue macchine? L'uomo moderno si specchia in esse, fiero e soddisfatto di contemplarvi i segni del suo ingegno e della sua opera. Ma non potrebbe, con uno sforzo ancora più intelligente, contemplarvi la rivelazione del pensiero e dell'opera di Dio? è questo sforzo che occorre all'uomo moderno per integrare il ciclo della sua virtù cogitativa e per ritornare religioso. Come sempre nel campo religioso, un atto d'umiltà, ch'è semplicemente onestà e verità, sarà necessario: un meccanico, davanti alla sua macchina, dovrà dire contento: è nuova, è mia;. ma dovrà aggiungere ancor più contento e pensoso: io ho più scoperto, che inventato; ho scoperto proprietà e leggi anteriori al mio pensiero; io non ho fatto che applicarle; io sono arrivato più vicino alla manifestazione naturale d'una Sapienza, che non conoscevo, a cui prima non pensavo; sono arrivato ad un incontro insospettato con Dio. Se in passato la natura era intermediaria fra Lui e la mente umana, perché oggi l'opera tecnica e dell'arte non lo potrebbe essere?
Questa è, secondo noi, una delle chiavi per risolvere il problema della restituzione alla civiltà dell'industria e della tecnica, della scienza e dell'arte la perduta religiosità. Questa è la via per dare al lavoro la sua spiritualità. Questo è il modo per far germinare dai cantieri, pesanti di materia, il fiore della preghiera e della gioia.
E forse l'alba di questa nuova spiritualità non è lontana. La ricerca appassionata. delle nuove virtualità della materia, l'ambizione di ricavarne non solo ricchezze utili, ma opere perfette, macchine e prodotti ammirabili, lo studio concomitante di dare all'officina, allo strumento, al prodotto una linea estetica, l'aspirazione a celebrare idealmente il lavoro, sono tanti indizi d'un umanesimo spiritualista, che sta per sgorgare dalla nostra età materialista. E il presagio è stupendo: la materia non è per nulla ripudiata, è sublimata; il lavoro non è mortificato, è redento; la civiltà non è arrestata, è umanizzata, è cristianizzata.
Possibile che gli intellettuali non se ne avvedano? E perché molti di essi si attardano ancora a bruciare un servile incenso ad un opaco e superato materialismo? Possibile che i politici delle «aperture» non si accorgano che una finestra sta per aprirsi sul mondo del lavoro, per mostrare quanto povero sia il loro pensiero filosofico, e perciò quanto privo di legittima autorità per dirigere il cammino del popolo lavoratore? e sta per aprirsi, per dare a questo popolo nuova luce, e nuova aria alla sua fatica e alla sua speranza?
Per quanto riguarda il campo nostro; noi ancora desideriamo che sia data ai lavoratori la più amorosa assistenza, sociale, professionale, religiosa. Vorremmo che essi potessero comprendere il torto loro fatto costringendoli ad una visione materialista della vita, e riconoscessero come la nostra concezione spiritualista abbia assai più stima della loro personalità, e prometta loro, con il conseguimento d'ogni legittimo bene temporale, l'immensa ricchezza dell'anima, pensante, pregante e credente. Vorremmo che le scuole del lavoro facessero loro intravedere questa vocazione, questa redenzione, questa nobiltà religiosa dell'opera umana. Vorremmo che la fatica dei lavoratori avesse, intangibile e sacro, il suo riposo festivo. Vorremmo che le feste del lavoro fossero coronate di fiori, di canti, di idee, di preghiere; diventassero davvero feste dello spirito. Vorremmo che ancora la preghiera si associasse al lavoro; lo consolasse, lo nobilitasse, lo santificasse.
Il progresso popolare è incamminato verso questo spiritualismo, auspice la Chiesa di Cristo.
Così auguriamo che sia della economia industriale moderna, di quella che nel possesso e nella fortunata conquista delle ricchezze può trovare più grave ostacolo a risalire dal cerchio economico a quello religioso: quanto ciò sia difficile lo dice il Vangelo, così severo e minaccioso verso i «ricchi» ( cfr. Lc 6, 24).
Ma fortunatamente nel nostro momento storico la sapienza guadagna anche nel campo di chi possiede e amministra ricchezze temporali: la funzione sociale, e perciò non più egoista, di queste è oggi affermata senza riserve teoriche; quelle pratiche vanno cedendo all'impero d'una ragione collettiva, che si suole chiamare democratica; la subordinazione dell'economia alla legge morale va affermandosi con evidente beneficio sia dell'economia che della morale; l'interesse per rendere buone e serene le relazioni umane si estende e si impone fino a cambiare i termini della dialettica sociale, dalla lotta alla collaborazione; e così via.
La strada è buona, è strada che sale. Quando giungerà a scoprire nei beni economici, non un privilegio, ma un servizio, da esercitare col gesto misterioso della Provvidenza e col cuore fraterno che sperimenta essere meglio dare che ricevere (Act. 20, 35), il senso religioso della vita bagnerà di lacrime il ciglio asciutto di chi ancora pensasse di saziare col pane indigesto della materia la segreta fame dello spirito.
4 – Una parola dobbiamo dire per quanto riguarda il senso religioso nei fanciulli.
La parola veramente spetta ai genitori cattolici ed ai bravi maestri.
Abbiano essi quanto più chiaro possibile il concetto della loro missione anche a riguardo del senso religioso dei loro piccoli. Anche in questo campo vale il principio invalso nell'educazione moderna: più che imporre, estrarre. Il fanciullo, nella provvista nativa dei doni della vita, possiede anche questo, d'essere dotato di senso religioso. Ancora implicito, ancora confuso, ma c'è, nell'anima intatta del fanciullo. Il fanciullo battezzato poi possiede più ricca questa virtualità; al dono della pietà naturale si è aggiunto quello della pietà soprannaturale. Le sue condizioni reali sono state elevate dal grado di figlio dell'uomo a quello di figlio adottivo di Dio. Dio gli è vicino, lo veglia, lo ama, come Padre. Bisogna ricordare tutto questo per avere un'immensa riverenza per il fanciullo. Già gli è dovuta come nuova e tenera creatura della terra; ricordate il saggio pagano: «Grande rispetto è dovuto al fanciullo»[4]. Ricordate tanto di più le tremende parole di Cristo per la stessa creatura, se la pensiamo da lui rigenerata nella grazia e circondata dall'assistenza silenziosa e misteriosa degli angeli: «Guai a colui dal quale parte lo scandalo» (Mt. 18, 7). Il nostro mondo è, sotto questo aspetto, colpevole di flagrante contraddizione con i suoi stessi principi e con la prodigalità delle sue sapienti cure per l'infanzia e per l'adolescenza, perché, mentre non cessa di circondare il fanciullo dell'arte pedagogica e sanitaria più progredita, consente poi che letture, spettacoli e sport profanatori siano facilmente a lui accessibili e determinino nel suo spirito perturbazioni nocive e forse fatali al suo equilibrio psichico e morale, Si coltivano e si calpestano fiori; con gelosa cura si coltivano, e con colpevole indifferenza si calpestano.
La grande smania del fanciullo di sapere il perché delle cose trova facile e sapiente soddisfazione dall'educatore avveduto che gli parla di Dio, abbrevia il cammino della piccola mente alla sorgente ineffabile, cammino, che l'uomo maturo distenderà in ampie e complicate perifrasi; fino all'esaurimento, fino allo smarrimento, per arrivare, stanco conquistatore, alla medesima meta, e per sentirsi dire beatamente da Cristo: «Se non vi farete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt. 18, 3). Il fanciullo ha più facile accesso a Dio, ed è in questo maestro di quel suo maestro, che abbia saputo coltivare in lui il senso religioso cristiano. Bisogna intanto che il maestro mostri di prendere sul serio l'anima del fanciullo, e che gli parli, innanzi tutto, con il suo esempio; e bisogna che parola, sentimento, atto siano tutt'uno nel momento religioso, insieme in entrambi. Pregare insieme, fanciullo ed educatore, è fra le cose più belle e più profonde che riservi la vita, ed è tesoro della famiglia cristiana, della nostra scuola e della parrocchia. Pregare insieme, con quel «sentimento familiare e soprattutto filiale, che unisce il fedele a Dio», e che si chiama pietà (Grandmaison)[5], è un'esperienza originale dell'educazione cattolica: trasferire dal nido paterno l'affetto più naturale e più caro al Dio Padre dell'universo, e dilatarlo, senza diluirlo, sì bene accendendolo di entusiasmo, all'infinito, è la lezione prima di religione ai nostri fanciulli; la quale, se ben data, se ben viva, può seminare nei loro cuori il concetto esatto, per tutta la vita, dei meravigliosi rapporti di amore, che legano l'uomo a Dio, e curvano Dio verso l'uomo. Bisogna insegnare al fanciullo non solo a dire le preghiere, ma a dirle come espressione della mente e del cuore; non solo a imparare il catechismo, ma a sapervi collegati i suoi e gli altrui destini; non solo ad andare in Chiesa, ma a considerarla come tempio sacro delle leggi del vivere. Si abituerà così all'avvertenza della presenza del Signore, al gusto della bontà e dell'onestà, al desiderio del dovere disinteressato, alla fiducia in tutte le contingenze della vita.
La disciplina dei sacramenti ha perciò nel fanciullo un'importanza decisiva, come si sa; la Confessione come scuola profonda e soave del bene e del male; la Comunione, come attesa trepida e incontro gioioso del grande Amico; la Cresima; - alla quale dovrebbe essere dato un risalto particolare nell'educazione religiosa del fanciullo ed un carattere pedagogico suo proprio -, come risveglio della coscienza responsabile e forte nel cuore dell'adolescenza.
E che dovremmo dire della gioventù? Questa meriterebbe un discorso speciale; e noi siamo pieni di commozione quando vi pensiamo. Età della crisi, età della scelta, la gioventù è la più esposta a subire l'influsso areligioso ed antireligioso del nostro tempo. Ma età del pensiero, età dell'amore, la gioventù è la più capace di comprendere il valore religioso della vita e di dare alla sua pietà un profondo significato personale, che acquista spesso una drammatica espressione morale, una forma di fedeltà immolata e totale, piena di slancio appassionato, se pur ancora mal sicura, come un volo, ma splendida e generosa, appunto come un volo miracoloso, librato nei cieli dell'eroismo. e della poesia. Ci limitiamo a dire che il senso religioso nei giovani va assistito e curato, come in nessun altro periodo della vita: la direzione spirituale è, in questo periodo, pedagogia provvidenziale, delicatissima e di alto interesse.
Venerabili Fratelli e diletti Figli,
Non solo nell’età giovanile, ma in ogni fase della vita il senso religioso deve essere assistito da un magistero e da un ministero competente. La Chiesa, maestra delle verità divine e ministra dei nostri rapporti con Dio, questo fa. È la sua grande missione, che si dimostra oggi tanto più provvida e necessaria, quanto meno l’uomo moderno è idoneo a conservare, ad alimentare, a seguire rettamente la sua naturale orientazione verso Dio: il fascino delle cose, conquistate dalle sue mani, lo incanta, e gli crea l'illusione di potere con esse saziare la sua sete d’Infinito. La voce del Profeta può risuonare appropriata anche per il tempo nostro: «Due mali ha fatto il mio popolo; hanno abbandonato me, fonte d’acqua viva, e si sono scavati delle cisterne; cisterne screpolate, che non possono contenere acqua». (Jer. 2, 13). Sedotto e deluso, l'uomo, moderno si tormenta e si esaspera; si abbandona agli istinti più capricciosi e perversi, come già San Paolo, per analoghe condizioni, denunciava (Rom. l, 22, ss.) e come tanta moderna letteratura miseramente e sciaguratamente documenta. Lo slancio disperato dello spirito umano verso un'inafferrabile perfezione testimonia ancora la nostra vocazione ad un incontro ignoto e risolutivo, che Cristo, benedetto, Lui solo, ci ha preparato.
Egli viene. Ci attrae e ci commuove, dapprima; poi ci istruisce e ci converte. Sì, ci con quella sua forte e tremenda lezione della Croce, e quindi ci apre l’ineffabile Presenza; la Presenza del Dio vivo e vero, nel mistero abbagliante dell'unità del suo Essere in tre distinte Persone, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo.
La verità, la bellezza, la bontà, la pace, la felicità, la vita sono il suo dono, pregustato e promesso.
Egli viene con umile scuola; la scuola del Vangelo alla quale dobbiamo ritornare, come fanciulli, se vogliamo confortare di rinascenza vitale il nostro senso religioso e riempirlo di «spirito e verità» (Jo.4,23). Egli ci ha comunicato il senso soprannaturale della vita. Egli ci ha iniziati a scoprire dappertutto, nel volto umano specialmente, il senso del sacro. Le relazioni con Dio sono scoperte, in ogni cosa e in ogni momento; la dipendenza dalla sua azione creatrice e dalla sua amorosa provvidenza è così vissuta nel Vangelo che, sotto questo aspetto, nulla è profano, perché nulla è da sé, nulla è per sé. Pensiamo, anche solo un istante, allo sguardo di Cristo su la scena della sua umana esperienza: come noi vediamo la luce del sole nelle forme e nei colori delle cose, così Egli vede e ci fa vedere l’avvolgente e patema presenza di Dio. Le cose sono per Lui specchio d’un’amorosa provvidenza (cfr.. Mt. 6, 26; l0, 29), e riflesso della sapienza e della bellezza di Dio (cfr. Mt. 6, 28-29). Per Lui tutto è simbolo, tutto è linguaggio: ricordiamo l'arte deliziosa e misteriosa delle sue narrazioni figurate e paraboliche: comuni oggetti del viver quotidiano e semplici vicende di questo mondo diventano crisalidi da cui si dischiudono dogmi immensi umano-divini. Egli ci ha dato il vero e profondo senso religioso: i suoi insegnamenti su gli uomini (cfr. Mt. 18, 2; 18, 14; 21, 34), su i costumi (cfr. Mt. 11, 16-17), sul dolore(cfr. Lc. 23,27), su la gioia (cfr. Jo. 16, 22), sul peccato (Mt. 18, 8; Lc. 15, 7); sull'autorità (cfr. Jo. 19,20), su la morte (cfr. Lc. 16, 19, ss.; Jo. 11,25), su ogni cosa (cfr., Mt. 12, 36); noi citiamo alla rinfusa per dire che la sua scuola c’introduce nel mistero, senza suscitare fantasie gratuite, e risolve la tormentosa - anche se, per chi ancora non Gli è vicino, tanto feconda - inquietudine umana, in una corroborante chiarezza di giustizia e di amore, e, per chi Lo accoglie, in una pace sovrana del cuore (Jo. 14, 27; 15, 11).
Scuola Sublime ed elementare, da cui possiamo ricavare, al nostro scopo un duplice insegnamento pratico: lo studio e l'amore della Sacra Scrittura, specialmente con la recita dei Salmi, e con la meditazione del Vangelo in modo particolare, sono indispensabili e inesauste sorgenti .per nutrire in noi un vero e profondo senso religioso; e, in secondo luogo, la proiezione del senso religioso stesso sulla vita vissuta, come il costume cristiano c’insegna; proiezione su la nostra giornata: ecco le preghiere quotidiane; su quanto entra nella nostra vita: ecco le candide benedizioni della mensa e della casa, della letizia e del dolore, del gioco e del lavoro, dello strumento e della bandiera, della salute e della malattia, della scuola e dell'officina, della culla e della tomba.
La benedizione è diventata atto religioso frequente e comune. Spesso è domandato anche da persone lontane, o per cose remote dall'ambito propriamente sacro.
Purché sincero il sentimento e onesta la cosa, purché pio e degno il gesto, sta bene. La Chiesa è abbondante nel suo rituale; appunto perché interpreta con egregia larghezza il senso sacro portato dal Vangelo. Anche nelle case della nostra Città abbiamo diffuso un librino, «il Rituale della Famiglia», per abituare i fedeli all'uso confidente e familiare della preghiera.
Ma Gesù Cristo, come sappiamo, ha specificamente istituito segni sacri, i sacramenti, e creato un ordine di persone, il sacerdozio per dispensarli. Ha insegnato una dottrina affidandone agli apostoli la divulgazione e la custodia.
E’ nata così la forma gerarchica e ufficiale della religione da Lui instaurata: - la chiesa docente e santificante. La predicazione e la liturgia. Persone, luoghi, tempi, libri, oggetti, gesti, riti sono diventati sacri. L'arte specialmente lo è diventata, quando si è fatta docile alla contemplazione ed al culto, ed ha cercato nella sincera esperienza dei doni dello Spirito Santo la capacità di captare in forme sensibili le voci dell'arcano divino e la bellezza delle profondità invisibili.
Predicazione e liturgia: le grandi fontane dello spirito religioso. Non ne diciamo di più, per questa volta. Ci limitiamo a ricordare come questi tesori ci siano vicini nell'osservanza di quel capitale precetto, ch'è l'assistenza alla santa Messa festiva. Questa è la base pratica della vita spirituale; questa è l'indispensabile alimento del senso religioso e della professione cristiana. Tutto dev'essere fatto per difendere questa sapientissima osservanza; tutto per impedire che la profanità della fatica manuale o professionale ne soffochi la puntuale ricorrenza, o che, il divertimento festivo, la classifichi fra le occupazioni imbarazzanti, noiose o superflue. Tutto, diciamo al Clero ed ai fedeli, alle Autorità ed ai benpensanti; e sia questa la nostra paterna raccomandazione, il nostro grido affettuoso, con cui chiudiamo, tutti benedicendo, questa nostra lettera pastorale. Non senza tuttavia chiedere a quel Dio, che ha immesso nell'uomo il senso religioso, il dono della pietà. Sì, Venerabili Fratelli e carissimi Figli, per l'intercessione di Maria Santissima e piissima: sia a noi l'interiore impulso dello Spirito Santo guida a rivolgere al sommo, ottimo Iddio
- l'animo nostro vivo, perché s'illumini della sua Presenza il nostro cosciente pensiero;
- l'animo nostro cercante, perché si apra alla scoperta della sua misteriosa, Sapienza; .
- l'animo nostro stanco, perché si conforti nella fiducia della sua Provvidenza;
- l'animo nostro opaco, perché si svegli alla trasparenza della sua Bellezza;
- l'animo nostro inquieto, perché si plachi all'armonia della sua Pace;
- l'animo nostro dolorante; perché si innalzi all'offerta alla sua Bontà;
- l'animo nostro colpevole, perché si lavi delle lacrime che la sua Giustizia fa beate;
- l'animo nostro smisurato, perché si inebri del suo Amore infinito.
Note al testo
[1] Espressione ricorrente nella Patristica latina; cfr. ad esempio RUFINO, Expositio symboli 11, 12 e AGOSTINO Enarr. in psalm, LXVI, 3.
[2] Riferimento a G. DE LUCA, Archivio Italiano per la Storia della Pietà, Edizioni di Storia e Letteratura,. Roma, 1951 ss.
[3] Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII…, X, p. 265.
[4] Maxima debetur puero reverentia, GIOVENALE, Sat. 14, 47.
[5] Cfr. L. DE GRANDMAISON s. I., La Religion Personnelle, Gabalda, Paris 1930; ed. ital., Morcelliana, Brescia, 1934, p, 13. L'opera è stata tradotta da G.B. Montini, che ne scrisse anche la prefazione.
Riprendiamo sul nostro sito le risposte di papa Francesco nell’udienza all'Unione internazionale superiore generali (UISG), il 12/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/5/2016)
Prima domanda
Per un migliore inserimento delle donne nella vita della Chiesa
Papa Francesco, Lei ha detto che “il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita della Chiesa e della società”, e tuttavia le donne sono escluse dai processi decisionali nella Chiesa, soprattutto ai più alti livelli, e dalla predicazione nell’Eucaristia. Un importante impedimento all’abbraccio pieno della Chiesa del “genio femminile” è il legame che sia i processi decisionali che la predicazione hanno con l’ordinazione sacerdotale. Lei vede un modo per separare dall’ordinazione sia i ruoli di leadership che la predicazione all’Eucaristia, in modo che la nostra Chiesa possa essere più aperta a ricevere il genio delle donne, in un futuro molto prossimo?
Papa Francesco
Sono varie cose qui che dobbiamo distinguere. La domanda è legata alla funzionalità, è legata molto alla funzionalità, mentre il ruolo della donna va oltre. Ma io adesso rispondo alla domanda, poi parliamo… Ho visto che ci sono altre domande che vanno oltre.
E’ vero che le donne sono escluse dai processi decisionali nella Chiesa: escluse no, ma è molto debole l’inserimento delle donne lì, nei processi decisionali. Dobbiamo andare avanti. Per esempio - davvero io non vedo difficoltà - credo che nel Pontificio Consiglio Giustizia e Pace che porta avanti la segreteria sia una donna, una religiosa. E’ stata proposta un’altra e io l’ho nominata, ma lei ha preferito di no, perché doveva andare da un’altra parte a fare altri lavori della sua Congregazione. Si deve andare oltre, perché per tanti aspetti dei processi decisionali non è necessaria l’ordinazione. Non è necessaria. Nella riforma della Cost. ap. Pastor Bonus, a proposito dei Dicasteri, quando non c’è la giurisdizione che viene dall’ordinazione – cioè la giurisdizionale pastorale – non si vede scritto che può essere una donna, non so se capo dicastero, ma… Per esempio per i migranti: al dicastero per i migranti una donna potrebbe andare. E quando c’è necessità – adesso che i migranti entrano in un dicastero – della giurisdizione, sarà il Prefetto a dare questo permesso. Ma nell’ordinario può andare, nell’esecuzione del processo decisionale. Per me è molto importante l’elaborazione delle decisioni: non soltanto l’esecuzione, ma anche l’elaborazione, e cioè che le donne, sia consacrate sia laiche, entrino nella riflessione del processo e nella discussione. Perché la donna guarda la vita con occhi propri e noi uomini non possiamo guardarla così. E’ il modo di vedere un problema, di vedere qualsiasi cosa, in una donna è diverso rispetto a quello che è per l’uomo. Devono essere complementari, e nelle consultazioni è importante che ci siano le donne.
Io ho avuto l’esperienza a Buenos Aires di un problema: vedendolo con il Consiglio presbiterale – quindi tutti uomini – era ben trattato; poi, il vederlo con un gruppo di donne religiose e laiche ha arricchito tanto, tanto, e favorito la decisione con una visione complementare. E’ necessario, è necessario questo! E penso che dobbiamo andare avanti, su questo poi il processo decisionale vedrà.
C’è poi il problema della predicazione nella Celebrazione Eucaristica. Non c’è alcun problema che una donna – una religiosa o una laica – faccia la predica in un Liturgia della Parola. Non c’è problema. Ma nella Celebrazione Eucaristica c’è un problema liturgico-dogmatico, perché la celebrazione è una - la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica, è un’unità – e Colui che la presiede è Gesù Cristo. Il sacerdote o il vescovo che presiede lo fa nella persona di Gesù Cristo. E’ una realtà teologico-liturgica. In quella situazione, non essendoci l’ordinazione delle donne, non possono presiedere. Ma si può studiare di più e spiegare di più questo che molto velocemente e un po’ semplicemente ho detto adesso.
Invece nella leadership non c’è problema: in quello dobbiamo andare avanti, con prudenza, ma cercando le soluzioni…
Ci sono due tentazioni qui, dalle quali dobbiamo guardarci.
La prima è il femminismo: il ruolo della donna nella Chiesa non è femminismo, è diritto! E’ un diritto di battezzata con i carismi e i doni che lo Spirito ha dato. Non bisogna cadere nel femminismo, perché questo ridurrebbe l’importanza di una donna. Io non vedo, in questo momento, un grande pericolo riguardo a questo tra le religiose. Non lo vedo. Forse una volta, ma non in genere non c’è.
L’altro pericolo, che è una tentazione molto forte e ne ho parlato parecchie volte, è il clericalismo. E questo è molto forte. Pensiamo che oggi più del 60 per cento delle parrocchie – delle diocesi non so, ma solo un po’ meno – non hanno il consiglio per gli affari economici e il consiglio pastorale. Questo cosa vuol dire? Che quella parrocchia e quella diocesi è guidata con uno spirito clericale, soltanto dal prete, che non attua quella sinodalità parrocchiale, quella sinodalità diocesana, che non è una novità di questo Papa. No! E’ nel Diritto Canonico, è un obbligo che ha il parroco di avere il consiglio dei laici, per e con laici, laiche e religiose per la pastorale e per gli affari economici. E questo non lo fanno. E questo è il pericolo del clericalismo oggi nella Chiesa. Dobbiamo andare avanti e togliere questo pericolo, perché il sacerdote è un servitore della comunità, il vescovo è un servitore della comunità, ma non è il capo di una ditta. No! Questo è importante. In America Latina, per esempio, il clericalismo è molto forte, molto marcato. I laici non sanno che cosa fare, se non domandano al prete… E’ molto forte. E per questo la consapevolezza del ruolo dei laici in America Latina è molto in ritardo. Si è salvato un po’ di questo solo nella pietà popolare: perché il protagonista è il popolo e il popolo ha fatto le cose come venivano; e ai preti quell’aspetto non interessava tanto, e qualcuno non vedeva di buon occhio questo fenomeno della pietà popolare. Ma il clericalismo è un atteggiamento negativo. Ed è complice, perché si fa in due, come il Tango che si balla in due… Cioè: il sacerdote che vuole clericalizzare il laico, la laica, il religioso e la religiosa, il laico che chiede per favore di essere clericalizzato, perché è più comodo. E’ curioso questo. Io, a Buenos Aires, ho avuto questa esperienza tre o quattro volte: un parroco bravo, che viene e mi dice “Sa, io ho un laico bravissimo in parrocchia: fa questo, fa questo, sa organizzare, si dà da fare, è davvero un uomo di valore…Lo facciamo diacono?”. Cioè: lo “clericalizziamo?”. “No! Lascia che rimanga laico. Non farlo diacono”. Questo è importante. A voi succede questo, che il clericalismo tante volte vi frena nello sviluppo lecito della cosa.
Io chiederò – e forse alla Presidente lo farò arrivare – alla Congregazione per il Culto che spieghi bene, in modo approfondito, quello che ho detto un po’ leggermente sulla predicazione nella Celebrazione Eucaristica. Perché non ho la teologia e la chiarezza sufficiente per spiegarlo adesso. Ma bisogna distinguere bene: una cosa è la predicazione in una Liturgia della Parola, e questo si può fare; altra cosa è la Celebrazione eucaristica, qui c’è un altro mistero. E’ il Mistero di Cristo presente e il sacerdote o il vescovo che celebrano in persona Christi.
Per la leadership è chiaro… Sì credo che questa possa essere la mia risposta in generale alla prima domanda. Vediamo la seconda.
Seconda domanda
Il ruolo delle donne consacrate nella Chiesa
Le donne consacrate lavorano già tanto con i poveri e con gli emarginati, insegnano la catechesi, accompagnano i malati e i moribondi, distribuiscono la comunione, in molti Paesi guidano le preghiere comuni in assenza di sacerdoti e in quelle circostanze pronunciano l’omelia. Nella Chiesa c’è l’ufficio del diaconato permanente, ma è aperto solo agli uomini, sposati e non. Cosa impedisce alla Chiesa di includere le donne tra i diaconi permanenti, proprio come è successo nella Chiesa primitiva? Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione? Ci può fare qualche esempio di dove Lei vede la possibilità di un migliore inserimento delle donne e delle donne consacrate nella vita della Chiesa?
Papa Francesco
Questa domanda va nel senso del “fare”: le donne consacrate lavorano già tanto con i poveri, fanno tante cose… nel “fare”. E tocca il problema del diaconato permanente. Qualcuno potrà dire che le “diaconesse permanenti” nella vita della Chiesa sono le suocere [ride, ridono]. In effetti questo c’è nell’antichità: c’era un inizio... Io ricordo che era un tema che mi interessava abbastanza quando venivo a Roma per le riunioni, e alloggiavo alla Domus Paolo VI; lì c’era un teologo siriano, bravo, che ha fatto l’edizione critica e la traduzione degli Inni di Efrem il Siro. E un giorno gli ho domandato su questo, e lui mi ha spiegato che nei primi tempi della Chiesa c’erano alcune “diaconesse”. Ma che cosa sono queste diaconesse? Avevano l’ordinazione o no? Ne parla il Concilio di Calcedonia (451), ma è un po’ oscuro. Qual era il ruolo delle diaconesse in quei tempi? Sembra– mi diceva quell’uomo, che è morto, era un bravo professore, saggio, erudito – sembra che il ruolo delle diaconesse fosse per aiutare nel battesimo delle donne, l’immersione, le battezzavano loro, per il decoro, anche per fare le unzioni sul corpo delle donne, nel battesimo. E anche una cosa curiosa: quando c’era un giudizio matrimoniale perché il marito picchiava la moglie e questa andava dal vescovo a lamentarsi, le diaconesse erano le incaricate di vedere i lividi lasciati sul corpo della donna dalle percosse del marito e informare il vescovo. Questo, ricordo. Ci sono alcune pubblicazioni sul diaconato nella Chiesa, ma non è chiaro come fosse stato. Credo che chiederò alla Congregazione per la Dottrina della Fede che mi riferiscano circa gli studi su questo tema, perché io vi ho risposto soltanto in base a quello che avevo sentito da questo sacerdote che era un ricercatore erudito e valido, sul diaconato permanente. E inoltre vorrei costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione: credo che farà bene alla Chiesa chiarire questo punto; sono d’accordo, e parlerò per fare una cosa di questo genere.
Poi dite: “Siamo d’accordo con lei, Santo Padre, che ha più volte riportato la necessità di un ruolo più incisivo delle donne nelle posizioni decisionali nella Chiesa”. Questo è chiaro. “Ci può fare qualche esempio di dove Lei vede la possibilità di un migliore inserimento delle donne e delle donne consacrate nella vita della Chiesa?”. Dirò una cosa che viene dopo, perché ho visto che c’è una domanda generale. Nelle consultazioni della Congregazione per i religiosi, nelle assemblee, le consacrate devono andare: questo è sicuro. Nelle consultazioni sui tanti problemi che vengono presentati, le consacrate devono andare. Un’altra cosa: un migliore inserimento. Al momento non mi vengono in mente cose concrete, ma sempre quello che ho detto prima: cercare il giudizio della donna consacrata, perché la donna vede le cose con una originalità diversa da quella degli uomini, e questo arricchisce: sia nella consultazione, sia nella decisione, sia nella concretezza.
Questi lavori che voi fate con i poveri, gli emarginati, insegnare la catechesi, accompagnare i malati e i moribondi, sono lavori molto “materni”, dove la maternità della Chiesa si può esprimere di più. Ma ci sono uomini che fanno lo stesso, e bene: consacrati, ordini ospedalieri… E questo è importante.
Dunque, sul diaconato, sì, accetto e mi sembra utile una commissione che chiarisca bene questo, soprattutto riguardo ai primi tempi della Chiesa.
Riguardo a un migliore inserimento, ripeto quello che ho detto prima.
Se c’è qualcosa da concretizzare, domandatelo adesso: su questo che ho detto, c’è qualche domanda in più, che mi aiuti a pensare? Avanti…
Terza domanda
Il ruolo dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali
Che ruolo potrebbe avere l’Unione Internazionale delle Superiore Generali, in modo che possa avere una parola nel pensiero della Chiesa, una parola che sia ascoltata, dal momento che porta con sé la voce di duemila istituti di religiose? Come è possibile che molto spesso veniamo dimenticate e non rese partecipi, per esempio dell’assemblea generale della Congregazione degli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, lì dove si parla della vita consacrata? Può la Chiesa permettersi di continuare a parlare di noi, invece di parlare con noi?
Papa Francesco
Suor Teresina abbia un po’ di pazienza, perché mi è venuto in mente quello che era sfuggito dell’altra domanda, su “che cosa può fare la vita consacrata femminile?”. E’ un criterio che voi dovete rivedere, che anche la Chiesa deve rivedere. Il vostro lavoro, il mio e quello di tutti noi, è di servizio. Ma io, tante volte, trovo donne consacrate che fanno un lavoro di servitù e non di servizio. E’ un po’ difficile da spiegare, perché non vorrei che si pensasse a casi concreti, che forse sarebbe un cattivo pensiero, perché nessuno conosce bene le circostanze. Ma pensiamo a un parroco, un parroco che per sicurezza immaginiamo: “No, no, la mia canonica è in mano a due suore” – “E sono loro che gestiscono?” – “Sì, sì!” – “E cosa fanno di apostolato, catechesi?” – “No, no, soltanto quello!”. No! Questo è servitù! Mi dica, signor parroco, se nella sua città non ci sono donne brave, che hanno bisogno di lavoro. Ne prenda una, due, che facciano quel servizio. Queste due suore, che vadano nelle scuole, nei quartieri, con gli ammalati, con i poveri. Questo è il criterio: lavoro di servizio e non di servitù! E quando, a voi Superiore, chiedono una cosa che è più di servitù che di servizio, siate coraggiose nel dire “no”. Questo è un criterio che aiuta parecchio, perché quando si vuole che una consacrata faccia un lavoro di servitù, si svaluta la vita e la dignità di quella donna. La sua vocazione è il servizio: servizio alla Chiesa, ovunque sia. Ma non servitù!
Ecco, adesso [rispondo a] Teresina: “Qual è, secondo lei, il posto della vita religiosa apostolica femminile all’interno della Chiesa? Che cosa mancherebbe alla Chiesa se non ci fossero più le religiose?”. Mancherebbe Maria il giorno di Pentecoste! Non c’è Chiesa senza Maria! Non c’è Pentecoste senza Maria! Ma Maria era lì, non parlava forse… Questo l’ho detto, ma mi piace ripeterlo. La donna consacrata è una icona della Chiesa, è un’icona di Maria. Il prete, il sacerdote, non è icona della Chiesa; non è icona di Maria: è icona degli apostoli, dei discepoli che sono inviati a predicare. Ma non della Chiesa e di Maria. Quando dico questo voglio farvi riflettere sul fatto che “la” Chiesa è femminile; la Chiesa è donna: non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa. Ma è una donna sposata con Gesù Cristo, ha il suo Sposo, che è Gesù Cristo. E quando un vescovo è scelto per una diocesi, il vescovo – in nome di Cristo – sposa quella Chiesa particolare. La Chiesa è donna! E la consacrazione di una donna la fa icona proprio della Chiesa e icona della Madonna. E questo noi uomini non possiamo farlo. Questo vi aiuterà ad approfondire, da questa radice teologica, un ruolo grande nella Chiesa. E questo vorrei che non sfuggisse.
Mi trovo totalmente d’accordo [sulla conclusione della terza domanda]. La Chiesa: la Chiesa siete voi, siamo tutti. La gerarchia – diciamo – della Chiesa deve parlare di voi, ma prima e nel momento deve parlare con voi! Questo è sicuro. Nell’Assemblea della CIV CSVA voi dovete essere presenti. Sì, sì! Io questo lo dirò al Prefetto: nell’Assemblea voi dovete essere presenti! E’ chiaro, perché parlare di un assente non è neanche evangelico: deve poter sentire, ascoltare che cosa si pensa, e poi facciamo insieme. Sono d’accordo. Io non immaginavo tanto distacco, davvero. E grazie di averlo detto così coraggiosamente e con quel sorriso.
Mi permetto una battuta. Lei lo ha fatto con quel sorriso, che in Piemonte si dice il sorriso della mugna quacia [con una faccia ingenua]. Brava! Sì, voi avete ragione in questo. Credo che sia facile riformare, io ne parlerò con il Prefetto. “Ma questa Assemblea generale non parlerà delle suore, parlerà di un’altra cosa…” – “E’ necessario sentire le suore perché hanno un’altra visione della cosa”. E’ quello che avevo detto prima: è importante che siate sempre inserite... Vi ringrazio della domanda.
Qualche chiarimento riguardo a questo? Qualcosa di più? E’ chiaro?
Ricordate bene questo: cosa mancherebbe alla Chiesa se le religiose non esistessero? Mancherebbe Maria nel giorno di Pentecoste. La religiosa è icona della Chiesa e di Maria; e la Chiesa è femminile, sposata da Gesù Cristo.
Quarta domanda
Gli ostacoli che incontriamo come donne consacrate all’interno della Chiesa.
Carissimo Santo Padre, molti istituti stanno affrontando la sfida di portare novità nella forma di vita e nelle strutture rivedendo le Costituzioni. Questo si sta rivelando difficile, perché ci ritroviamo bloccate dal Diritto Canonico. Lei prevede cambiamenti nel Diritto Canonico, in modo da facilitare questa novità?
Inoltre i giovani oggi hanno difficoltà a pensare ad un impegno permanente, sia nel matrimonio che nella vita religiosa. Potremmo essere aperte a impegni temporanei?
E un altro aspetto: svolgendo il nostro ministero in solidarietà con i poveri e gli emarginati, veniamo spesso erroneamente considerate come attiviste sociali o come se prendessimo posizioni politiche. Alcune autorità ecclesiali vorrebbero che fossimo più mistiche e meno apostoliche. Quale valore viene dato alla vita consacrata apostolica e in particolare alle donne, da alcune parti della Chiesa gerarchica?
Papa Francesco
Primo: i cambiamenti che si devono fare per assumere le nuove sfide: Lei ha parlato di novità, novità nel senso positivo, se ho capito bene, cose nuove che vengono… E la Chiesa è maestra in questo, perché ha dovuto cambiare tanto, tanto, tanto nella storia. Ma in ogni cambiamento ci vuole il discernimento, e non si può fare discernimento senza preghiera. Come si fa il discernimento? La preghiera, il dialogo, poi il discernimento in comune. Bisogna chiedere il dono del discernimento, di saper discernere. Per esempio, un imprenditore deve fare cambiamenti nella sua ditta: lui valuta con concretezza, e quello che la sua coscienza gli dice, lo fa. Nella nostra vita, c’entra un altro personaggio: lo Spirito Santo. E per fare un cambiamento, dobbiamo valutare tutte le circostanze concrete, questo è vero, ma per entrare in un processo di discernimento con lo Spirito Santo ci vogliono preghiera, dialogo e discernimento comune. Credo che su questo punto noi non siamo ben formati – quando dico “noi” parlo anche dei sacerdoti – nel discernimento delle situazioni, e dobbiamo cercare di avere esperienze e anche cercare qualche persona che ci spieghi bene come si fa il discernimento: un buon padre spirituale che conosca bene queste cose e ci spieghi, che non è un semplice “pro e contro”, fare la somma, e avanti. No, è qualcosa di più. Ogni cambiamento che si deve fare, richiede di entrare in questo processo di discernimento. E questo vi darà più libertà, più libertà! Il Diritto Canonico: ma non c’è nessun problema. Il Diritto Canonico nel secolo scorso è stato cambiato – se non sbaglio – due volte: nel 1917 e poi sotto san Giovanni Paolo II. Piccoli cambiamenti si possono fare, si fanno. Questi invece sono stati due cambiamenti di tutto il Codice. Il Codice è un aiuto disciplinare, un aiuto per la salvezza delle anime, per tutto questo: è l’aiuto giuridico della Chiesa per i processi, tante cose, ma che nel secolo scorso due volte, è stato totalmente cambiato, rifatto. E così si possono cambiare delle parti. Due mesi fa è arrivata una richiesta di cambiare un canone, non ricordo bene… Ho fatto fare lo studio e il Segretario di Stato ha fatto le consultazioni e tutti erano d’accordo che sì, questo si doveva cambiare per il maggior bene, ed è cambiato. Il Codice è uno strumento, questo è molto importante. Ma insisto: mai fare un cambiamento senza fare un processo di discernimento, personale e comunitario. E questo vi darà libertà, perché mettete lì, nel cambiamento, lo Spirito Santo. E’ questo che ha fatto san Paolo, san Pietro stesso, quando ha sentito che il Signore lo spingeva a battezzare i pagani. Quando noi leggiamo il libro degli Atti degli Apostoli, ci meravigliamo di tanto cambiamento, tanto cambiamento… E’ lo Spirito! Interessante, questo: nel libro degli Atti degli Apostoli, i protagonisti non sono gli apostoli, è lo Spirito. “Lo Spirito costrinse a fare quello”; “lo Spirito disse a Filippo: vai là e là, trova il ministro dell’economia e battezzalo”; “Lo Spirito fa”, “lo Spirito dice: no, qui non venite”… E’ lo Spirito. E’ lo Spirito che ha dato il coraggio agli apostoli per fare questo cambiamento rivoluzionario di battezzare i pagani senza fare la strada della catechesi ebraica o delle prassi ebraiche. E’ interessante: nei primi capitoli c’è la Lettera che gli apostoli, dopo il Concilio di Gerusalemme, inviano ai pagani convertiti. Raccontano tutto quello che hanno fatto: “Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso questo”. Questo è un esempio di discernimento che hanno fatto. Ogni cambiamento, fatelo così, con lo Spirito Santo. Cioè: discernimento, preghiera e anche valutazione concreta delle situazioni.
E per il Codice non c’è problema, questo è uno strumento.
Riguardo all’impegno permanente dei giovani. Noi viviamo in una “cultura del provvisorio”. Mi raccontava un vescovo, tempo fa che era andato da lui un giovane universitario, che aveva finito l’università, 23/24 anni, e gli aveva detto: “Io vorrei diventare sacerdote, ma solo per dieci anni”. E’ la cultura del provvisorio. Nei casi matrimoniali è cosi. “Io ti sposo finché dura l’amore e poi ciao”. Ma l’amore inteso in senso edonistico, nel senso di questa cultura di oggi. Ovviamente questi matrimoni sono nulli, non sono validi. Non hanno coscienza della perpetuità di un impegno. Nei matrimoni è così. Nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia leggete la problematica, è nei primi capitoli, e leggete come preparare il matrimonio. Mi diceva una persona: “Io questo non lo capisco: per diventare prete dovete studiare, prepararvi per otto anni, più o meno. E poi, se la cosa non va, o se ti innamori di una bella ragazza, la Chiesa ti permette: vai, sposati, incomincia un’altra vita. Per sposarsi – che è per tutta la vita, che è “per” la vita – la preparazione in tante diocesi sono tre, quattro conferenze… Ma questo non va! Come può un parroco firmare che questi sono preparati al matrimonio, con questa cultura del provvisorio, con quattro spiegazioni soltanto? E’ un problema molto serio. Nella vita consacrata, a me sempre ha colpito – positivamente – l’intuizione di san Vincenzo de Paoli: lui ha visto che le Suore della Carità dovevano fare un lavoro così forte, così “pericoloso”, proprio in frontiera, che ogni anno devono rinnovare i voti. Soltanto per un anno. Ma lo aveva fatto come carisma, non come cultura del provvisorio: per dare libertà. Io credo che nella vita consacrata i voti temporanei facilitino questo. E, non so, voi vedete, ma io sarei piuttosto favorevole forse di prolungare un po’ i voti temporanei, per questa cultura del provvisorio che hanno i giovani oggi: è… prolungare il fidanzamento prima di fare il matrimonio! Questo è importante.
[Ora il Papa risponde a una parte della domanda che non è stata letta ma era scritta]
Le richieste di soldi nelle nostre Chiese locali. Il problema dei soldi è un problema molto importante, sia nella vita consacrata, sia nella Chiesa diocesana. Non dobbiamo mai dimenticare che il diavolo entra “per le tasche”: sia per le tasche del vescovo, sia per le tasche della Congregazione. Questo tocca il problema della povertà, ne parlerò dopo. Ma l’avidità di denaro è il primo scalino per la corruzione di una parrocchia, di una diocesi, di una Congregazione di vita consacrata, è il primo scalino. Credo che fosse a questo proposito: il pagamento per i sacramenti. Guardate, se qualcuno vi chiede questo, denunciate il fatto. La salvezza è gratuita. Dio ci ha inviato gratuitamente; la salvezza è come uno “spreco di gratuità”. Non c’è salvezza a pagamento, non ci sono sacramenti a pagamento. E’ chiaro questo? Io conosco, ho visto nella mia vita corruzione in questo. Ricordo un caso, appena nominato vescovo, avevo la zona più povera di Buenos Aires: è divisa in quattro vicariati. Lì c’erano tanti migranti dei Paesi americani, e succedeva che quando venivano a sposarsi i parroci dicevano: “Questa gente non ha il certificato di battesimo”. E quando lo richiedevano nel loro paese dicevano loro: “Sì, ma manda prima 100 dollari – ricordo un caso – e poi te lo invio”. Ho parlato con il cardinale, il cardinale ha parlato con il vescovo del posto… Ma nel frattempo la gente poteva sposarsi senza il certificato di battesimo, con il giuramento dei genitori o dei padrini. E questo è il pagamento, non solo del sacramento ma dei certificati. Ricordo una volta a Buenos Aires che è andato un giovane, che doveva sposarsi, alla parrocchia per chiedere il nulla osta per sposarsi in un’altra: è un mezzo semplice. Gli ha detto la segretaria: “Sì, passi domani, venga domani che ci sarà, e questo costa tanto”: una bella somma. Ma è un servizio: è soltanto constatare i dati e riempire. E lui – questo è un avvocato, giovane, bravo, molto fervente, molto buon cattolico – è venuto da me: “Adesso cosa faccio?” – “Vai domani e dille che hai inviato l’assegno all’arcivescovo, e che l’arcivescovo le darà l’assegno”. Il commercio dei soldi.
Ma qui tocchiamo un problema serio, che è il problema della povertà. Io vi dico una cosa: quando un istituto religioso – e questo vale anche per altre situazioni –, ma quando un istituto religioso si sente morire, sente che non ha capacità di attirare nuovi elementi, sente che forse è passato il tempo per il quale il Signore aveva scelto quella Congregazione, la tentazione è l’avidità. Perché? Perché pensano: “Almeno abbiamo i soldi per la nostra vecchiaia”. Questo è grave. E qual è la soluzione che dà la Chiesa? L’unione di vari istituti con carismi che si assomigliano, e andare avanti. Ma mai, mai il denaro è una soluzione per i problemi spirituali. E’ un aiuto necessario, ma tanto quanto. Sant’Ignazio diceva, sulla povertà, che è “madre” e “muro” della vita religiosa. Ci fa crescere nella vita religiosa come madre, e la custodisce. E si incomincia la decadenza quando manca la povertà. Ricordo, nell’altra diocesi, quando un collegio di suore molto importante doveva rifare la casa delle suore perché era vecchia, si doveva rifare; e hanno fatto un bel lavoro. Hanno fatto un bel lavoro. Ma in quei tempi – sto parlando dell’anno ’93, ’94 più o meno – dicevano: “Facciamo tutte le comodità, la stanza con il bagno privato, e tutto, e anche il televisore…”. In quel collegio, che era tanto importante, dalle 2 alle 4 del pomeriggio tu non trovavi una suora in collegio: erano tutte in stanza a guardare la telenovela! Perché è mancanza di povertà, e questo ti porta alla vita comoda, alle fantasie… E’ un esempio, forse è l’unico nel mondo, ma per capire il pericolo della troppa comodità, della mancanza di povertà o di una certa austerità.
[Altra parte della domanda non letta ma scritta]
“Le religiose non ricevono uno stipendio per i servizi che svolgono, come lo ricevono i preti. Come possiamo dimostrare un volto attraente della nostra sussistenza? Come possiamo trovare le risorse finanziare necessarie per compiere la nostra missione?”.
Papa Francesco
Vi dirò due cose. Prima: vedere come è il carisma, l’interno del vostro carisma – ognuno ha il proprio – e qual è il posto della povertà, perché ci sono congregazioni che esigono una vita di povertà molto, molto forte; altre, non tanto, e tutte e due approvate dalla Chiesa. Cercare la povertà secondo il carisma. Poi: i risparmi. E’ prudenza avere un risparmio; è prudenza avere una buona amministrazione, forse con qualche investimento, quello è prudente: per le case di formazione, per portare avanti le opere povere, portare avanti scuole per i poveri, portare avanti i lavori apostolici… Una fondazione della propria congregazione: questo lo si deve fare. E come la ricchezza può far male e corrompere la vocazione, la miseria pure. Se la povertà diventa miseria, anche questo fa male. Lì si vede la prudenza spirituale della comunità nel discernimento comune: l’economa informa, tutti parlano, sì è troppo, non è troppo… Quella prudenza materna. Ma per favore, non lasciatevi ingannare dagli amici della congregazione, che poi vi “spenneranno” e vi toglieranno tutto. Ho visto tante case, o mi hanno raccontato altri, di suore che hanno perduto tutto perché si sono fidati di quel tale… “molto amico della congregazione”! Ci sono tanti furbi, tanti furbi. La prudenza è non consultare mai una sola persona: quando avete bisogno, consultare varie persone, diverse. L’amministrazione dei beni è una responsabilità molto grande, molto grande, nella vita consacrata. Se non avete il necessario per vivere, ditelo al vescovo. Dire a Dio: “Dacci oggi il nostro pane”, quello vero. Ma parlare col vescovo, con la Superiora generale, con la Congregazione per i religiosi. Per il necessario, perché la vita religiosa è un cammino di povertà, ma non è un suicidio! E questa è la sana prudenza. E’ chiaro questo?
E poi, dove ci sono conflitti per quello che le Chiese locali vi chiedono, bisogna pregare, discernere e avere il coraggio, quando si deve, di dire “no”; e avere la generosità, quando si deve, di dire “sì”. Ma voi vedete quanto è necessario il discernimento in ogni caso!
Domanda (ripresa)
“Mentre svolgiamo il nostro ministero, rimaniamo solidali con i poveri e gli emarginati, veniamo spesso erroneamente considerate come attiviste sociali o come se prendessimo posizioni politiche. Alcune autorità ecclesiali guardano negativamente al nostro ministero, sottolineando che dovremmo essere più concentrate su una forma di vita mistica. In queste circostanze, come possiamo vivere la nostra vocazione profetica…”.
Risposta (continua)
Sì. Tutte le religiose, tutte le consacrate devono vivere misticamente, perché il vostro è uno sposalizio; la vostra è una vocazione di maternità, è una vocazione di essere al posto della Madre Chiesa e della Madre Maria. Ma quelli che vi dicono questo, pensano che essere mistico è essere una mummia, sempre così pregando… No, no. Si deve pregare e lavorare secondo il proprio carisma; e quando il carisma ti porta ad andare avanti con i rifugiati, con i poveri tu devi farlo, e ti diranno “comunista”: è il meno che ti diranno. Ma devi farlo. Perché il carisma ti porta a questo. In Argentina, ricordo una suora: è stata provinciale della sua congregazione. Una brava donna, e lavora ancora… ha quasi la mia età, sì. E lavora contro i trafficanti di giovani, di persone. Io ricordo, nel governo militare in Argentina, volevano mandarla in carcere, facevano pressione sull’arcivescovo, facevano pressione sulla superiora provinciale, prima che lei stessa diventasse provinciale, “perché questa donna è comunista”. E questa donna ha salvato tante ragazze, tante ragazze! E sì, è la croce. Di Gesù che cosa hanno detto? Che era Belzebù, che aveva il potere di Belzebù. La calunnia, siate preparate. Se fate il bene, con preghiera, davanti a Dio, assumendo tutte le conseguenze del vostro carisma e andate avanti, preparatevi per la diffamazione e la calunnia, perché il Signore ha scelto questa via per Sé! E noi, vescovi, dobbiamo custodire queste donne che sono icona della Chiesa, quando fanno cose difficili e sono calunniate, e sono perseguitate. Essere perseguitati è l’ultima delle Beatitudini. Il Signore ci ha detto: “Beati voi quando sarete perseguitati, insultati” e tutte queste cose. Ma qui il pericolo può essere: “Io faccio la mia” – no, no: tu senti questo, ti perseguitano: parla. Con la tua comunità, con la tua superiora, parla con tutti, cerca consiglio, discerni: un’altra volta la parola. E questa religiosa della quale parlavo ora, un giorno l’ho trovata che piangeva, e diceva: “Guarda la lettera che ho ricevuto da Roma – non dirò da dove –: cosa devo fare?” – “Tu sei figlia della Chiesa?” – “Sì!” – “Tu vuoi obbedire alla Chiesa?” – “Sì!” – “Rispondi che tu sarai obbediente alla Chiesa, e poi va’ dalla tua superiora, va’ dalla tua comunità, va’ dal tuo vescovo – che ero io – e la Chiesa dirà cosa devi fare. Ma non una lettera che viene da 12.000 km”. Perché lì un amico dei nemici della suora aveva scritto, era stata calunniata. Coraggiose, ma con umiltà, discernimento, preghiera, dialogo.
Conclusione
“Una parola di incoraggiamento a noi leader, che sopportiamo il peso della giornata”.
Papa Francesco
Ma datevi anche un respiro! Il riposo, perché tante malattie vengono dalla mancanza di un sano riposo, riposo in famiglia… Questo è importante per sopportare il peso della giornata.
Voi menzionate qui anche le suore anziane e ammalate. Ma queste suore sono la memoria dell’istituto, queste suore sono quelle che hanno seminato, che hanno lavorato, e adesso sono paralitiche o molto malate o lasciate da parte. Queste suore pregano per l’Istituto. Questo è molto importante, che si sentano coinvolte nella preghiera per l’Istituto. Queste suore hanno anche un’esperienza tanto grande: chi più, chi meno. Ascoltarle! Andare da loro: “Mi dica, sorella, cosa pensa lei di questo, di questo?”. Che si sentano consultate e dalla loro saggezza uscirà un buon consiglio. State sicure.
Questo è quello che mi viene di dirvi. So che io sempre mi ripeto e dico le stesse cose, ma la vita è così… A me piace sentire le domande, perché mi fanno pensare e mi sento come il portiere, che sta lì, aspettando il pallone dove viene… Questo è buono e questo fate anche voi nel dialogo.
Queste cose che ho promesso di fare, le farò. E pregate per me, io prego per voi. E andiamo avanti. La nostra vita è per il Signore, per la Chiesa e per la gente, che soffre tanto e ha bisogno della carezza del Padre, tramite voi! Grazie!
Vi propongo una cosa: finiamo con la Madre. Ognuna di voi, nella propria lingua, preghi l’Ave Maria. Io la pregherà in spagnolo.
Ave Maria…
Benedizione
E pregate per me, perché possa servire bene la Chiesa.
Riprendiamo dal sito Linkiesta http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/07/salvatore-settis-la-buona-scuola-non-e-buona-e-le-competenze-non-servo/29179/ un’intervista di Bruno Giurato a Salvatore Settis pubblicata il 7/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (13/5/2016)

Studi sempre più specializzati. L’acquisizione di “competenze” sempre più precise che seguano le esigenze del mercato del lavoro. Studenti che escono dall’università (o anche dalle superiori) in possesso di una professionalità spendibile subito. Sono questi i desideri proibiti di chi frequenta le scuole, oltre che il totem retorico degli addetti alla cultura, dai ministeri ai dirigenti scolastici (con quali risultati poi è un'altra storia[…]).
Ma c’è un ma: siamo sicuri che sia la strada giusta? Sicuri di essere consegnati alle varie specializzazioni e alle tecnicità sia l’unico modello culturale sensato? «Bisognerebbe ricordarsi più spesso di un aforisma di Goethe, che dice più o meno così: “Le discipline si autodistruggono in due modi, o per l’estensione che assumono, o per l’eccessiva profondità in cui scendono”» racconta a Linkiesta.it Salvatore Settis. Archeologo e storico dell’arte, già direttore della Normale di Pisa, dimessosi qualche anno fa dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali in polemica coi tagli alla Cultura del governo Berlusconi, Settis è ora in prima linea nella difesa di paesaggio e monumenti italiani. «Bisogna trovare un equilibrio tra lo specialismo e la visione generale -spiega-. La tendenza che si sta affermando nei sistemi educativi un po’ in tutto il mondo, ma in particolare in Italia è educare a “competenze” piuttosto che a “conoscenze”»
Fatti non fosti a viver come bruti, ma per seguir virtute et competenza?
Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando).
Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?
E poi non c’è conoscenza senza sguardo critico, cioè senza il dubbio. La scuola ci insegna delle cose, ma dovrebbe soprattutto insegnarci a dubitare di quello che essa stessa ci insegna.
E invece?
Il modello dell’educazione di oggi è quello di Tempi moderni, di Charlot che fa l’operaio e esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone. L’ideale del nostro bell’ideologo-intellettuale-riformatore dell’educazione è proprio “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Un modo di mortificare la ricchezza della natura umana. E la democrazia viene uccisa.
A proposito di non-specialismi: quanto è stato importante per lei leggere disinteressatamente, senza un fine di studio. Così per piacere, e per avventura?
E’ essenziale per tutti. La curiosità intellettuale è il sale della formazione. Guai se uno dovesse leggere i libri o guardare i film che qualcuno gli ha ordinato di guardare o di leggere. Tutti inseguiamo delle curiosità senza scopo. E lo facciamo anche con gli esseri umani: se a una cena c’è una persona interessante ci parliamo. Così dobbiamo fare anche coi libri o con la formazione.
Cosa ne pensa degli slogan che erano cominciati con Berlusconi (“Inglese, impresa, internet”) e che proseguono con Renzi (“La buona scuola”)?
L’uno e l’altro slogan sono stati usati in modo superficiale e cinico per sostituire la sostanza. L’etichetta del brandy di lusso mentre nella bottiglia c’è quello del discount. Stesso discorso per il nostro presidente del Consiglio che ama la “Narrazione”. Narrare (in altri termini: raccontare balle) per persuadere gli ingenui. Basta parlare con qualche professore per accorgersi che la cosiddetta “buona scuola” non è una scuola buona: sono in condizioni di grave difficoltà da tutti i punti di vista.
Ecco, al di là dei problemi di reclutamento e del trattamento economico. I professori ormai sono perennemente ingolfati di carte: schede di valutazione, moduli da riempire, piani formativi. Sembra quasi un controllo burocratico-contenutistico kafkiano sul loro lavoro. Cosa ne pensa?
Questo è un punto vitale, per tutte le categorie di professori: elementari, medie, superiori. E anche quelli universitari. E qui c’è un paradosso...
Ci dica...
La burocratizzazione del mondo avanza mentre gli stessi governanti continuano a dirci che stanno facendo una lotta dura e senza paura contro la burocrazia. Il fatto di dover riempire mille moduli, dover scrivere mille sciocchezze: è come se non ci si fidasse della responsabilità dell’essere umano. Un professore si giudica dai risultati, da come fa lezione agli allievi. Nel caso di un professore universitario c’è la ricerca. Che poi viene spesso valutata male.
Perché?
L’Anvur valuta gli articoli senza leggerli. Se esce in una cosiddetta rivista di serie A viene valutato bene, se no niente. E’ una sciocchezza: molti ottimi articoli specialistici escono in riviste di serie B o di serie C. Questo è un modo di ragionare che può uccidere la ricerca universitaria.
Si dice che gli insegnanti abbiano troppe vacanze, che ne pensa?
Il lavoro intellettuale non si può quantificare o conteggiare. Tra i famosi “otium” e “negotium” non c’è soluzione di continuità. Un insegnante non deve essere valutato in base alle ore che fa di lezioni frontali. Chi le prepara? E il tempo che uno ci mette a prepararle chi lo conteggia?
Eh, chi lo conteggia?
Nessuno lo può conteggiare, appunto. Ma si rende conto che col sistema assurdo dei crediti formativi all’università si pretende di conteggiare il tempo che ci vuole a imparare un certo libro? Magari un libro di cento pagine io lo posso imparare in due ore e lei in mezz’ora. Abbiamo un sistema di valutazione che mortifica la diversità tra gli esseri umani. Valutare in base alle ore presunte è una solenne sciocchezza. Questa è la vera perversione che sta facendo danni enormi, e ne farà sempre di più.
Va per la maggiore un modello culturale, un paradigma tecnico-scientificizzante, 2.0, 3.0, 4.0 secondo cui il passato è qualcosa di evitabile. E’ inutile. Sono “nevi dell’anno scorso” come diceva Francois Villon. Ecco, professor Settis: a cosa serve il passato?
Il passato delle comunità, cioè la Storia, serve esattamente alla stessa cosa a cui serve il passato dell’individuo. A quelli che dicono che il passato non serve a nulla vorrei proporre di essere sottoposti all’espianto del proprio cervello, in modo che non sappiano più chi sono, chi sono i genitori, cosa hanno fatto prima. Il nostro presente, le parole che usiamo anche per fare conversazione, ora, vengono dal nostro passato. Anzi da un passato che non è solo il nostro: noi due in questo momento stiamo parlando in una forma molto modificata di latino. La realtà è costruzione del futuro nel presente usando ingredienti che vengono dal passato. Se ignoriamo questo siamo culturalmente morti.
Il passato non è nostalgia o atteggiamento reazionario, ma è una forza critica per non essere schiacciati dalle ideologie, per non finire come “generazioni di neoprimitivi” di cui cantava Battiato in Shock in my town?
Pierpaolo Pasolini usava una formula bellissima: “La forza rivoluzionaria del passato”. E’ un serbatoio di possibilità, di idee. Capiamo che c’erano in Toscana delle città stato, e a un certo punto Firenze si è imposta ed è diventa la capitale del Granducato. Ma non è impensabile che si imponessero altre famiglie sui Medici, e magari venisse fuori un granducato con capitale Siena, o Pistoia, o Pisa. Dante ha finito la Commedia ma poteva non finirla.
Trovare le possibilità inespresse in quello che è successo, per proporre qualcosa di diverso nel presente?
Il passato ci svela le alternative. E’ la possibilità di vedere il mondo sulla base di una visione laica e generosa della società.
Isadora Duncan ha inventato i suoi passi di danza guardando i dipinti vascolari greci. Lei, che non balla, ma fa l’archeologo e lo studioso, ha allestito una mostra di arte antica alla Fondazione Prada. Più che la conoscenza puntuale di una serie di procedure e strumenti già pronti serve immergersi in quello che la storia ha suggerito senza svelarlo del tutto?
Ho cercato di rispondere all’invito di Miuccia Prada con una mostra di arte antica su un tema contemporaneo: la serialità. Sono arrivati artisti contemporanei convinti che l’arte antica non potesse dire più nulla, ed erano stupiti di come queste statue ancora abbiano da dire. Usiamo in continuazione ingredienti che arrivano dal passato anche se non ce ne accorgiamo. Il passato è libertà.
Riprendiamo dal sito della rivista Mondo e missione un articolo redazionale pubblicato il 10/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (12/5/2016)
Dopo il caso di Sadiq Khan a Londra molti sono chiesti: succederà mai un caso opposto, con un sindaco cristiano in un Paese a maggioranza islamica? La verità è che esiste già dal 2014: Basuki Tjahaja Purnama a Jakarta in Indonesia, il Paese dove vivono un sesto dei musulmani del mondo
Ha fatto notizia in questi giorni l’elezione a sindaco di Londra di Sadiq Khan, musulmano, figlio di immigrati pakistani. Si è discusso molto sul significato da attribuire al fatto che per la prima volta un islamico assuma il compito di primo cittadino in una capitale europea. E – come spesso accade in queste discussioni – c’è chi ha posto la questione della reciprocità: quando mai potrà succedere la stessa cosa in una capitale di un Paese a maggioranza islamica?
In realtà è già successo, anche se ben pochi lo sanno. E in un Paese non proprio insignificante per il mondo musulmano: l’Indonesia, cioè il più popoloso Stato a maggioranza islamica, che con i suoi oltre 250 milioni di abitanti è la casa per circa un sesto della popolazione musulmana globale. Dal novembre 2014 il governatore di Jakarta è Basuki Tjahaja Purnama, un cinquantenne dell’etnia minoritaria cinese e di fede cristiana. Purnama in realtà era stato eletto nel 2012 come vice dell’allora governatore Joko Widodo, oggi presidente dell’Indonesia. Quando dunque il governatore Widodo è stato eletto alla massima carica dello Stato, il cristiano Basuki Tjahaja Purnama gli è subentrato nell’incarico come previsto dalla legge.
«Prometto di impegnarmi al meglio – ha detto il giorno del suo insediamento – al servizio della popolazione di Jakarta e della nazione e so che Dio mi aiuterà a farlo».
Va detto che anche in Indonesia non è mancato chi si è stracciato le vesti per il «sindaco cristiano»: Basuki Tjahaja Purnama è stato attaccato duramente dai movimenti radicali islamici locali proprio per il fatto di essere un non musulmano. Alla fine, però, sembra aver avuto la meglio ancora una volta il principio della Pancasila, che ha garantito per decenni l’equilibrio tra le comunità religiose in Indonesia.
Del resto quello di Basuki Tjahaja Purnama non è nemmeno il primo caso: già nel biennio 1964-65 il governatore di Jakarta era stato un cristiano, l’artista Henk Ngantung.
Riprendiamo dal sito Agenda digitale (http://www.agendadigitale.eu/competenze-digitali/550_per-favore-non-chiamateli-nativi-digitali.htm) un articolo di Paolo Attivissimo pubblicato l’18/11/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (12/5/2015)

Vado spesso nelle scuole a insegnare le basi della sicurezza informatica e della gestione della privacy in Rete, per cui incontro sovente i cosiddetti “nativi digitali”: i giovani che hanno sempre vissuto attorniati dalle tecnologie digitali e dalle consuetudini sociali che li caratterizzano. Quelli che non si ricordano del mondo prima di Internet, cellulari, tablet, Playstation e smartphone e quindi li considerano elementi assolutamente ovvi e naturali della propria esistenza. I genitori di questi nativi li contemplano spesso estasiati, ammirando la naturalezza con la quale maneggiano i dispositivi digitali, come se vedessero Mozart al clavicembalo, e sospirano rassegnati, convinti di non poter competere con chi è cresciuto sbrodolando omogeneizzati sul touchscreen e sicuri che basti dare ai loro virgulti un iCoso per garantire loro l'articolata competenza informatica di cui avranno bisogno nella carriera e nella vita quotidiana. Se solo sapessero.
Pochi giorni fa, durante una delle mie lezioni, ho chiesto agli studenti di quinta elementare (tutti già dotati di iPad o iPod touch) se c'era per caso qualcuno di loro che non usava Internet. Si è alzata una mano. Ho chiesto al ragazzo come mai non navigasse in Rete e mi ha risposto, perplesso per la mia domanda, che lui non va su Internet. Lui usa Youtube. I suoi compagni non hanno fiatato per contraddirlo o correggerlo. Mi sono reso conto che dal suo punto di vista avevo fatto una domanda stupida.
È un bell'esempio di come ragionano i “nativi digitali”: poiché usano dispositivi che si connettono in modo trasparente, invisibile, non percepiscono Internet come un'infrastruttura di base alla quale ci si deve prima collegare per poter fare qualcosa. Vedono soltanto i servizi commerciali che Internet veicola e interagiscono con quei servizi toccando un'icona separata per ciascuno di essi. E questa separazione grafica è diventata un ghetto mentale.
Non mandano più mail, ma messaggi su Facebook o WhatsApp. Guardano e riguardano i video di Miley Cyrus in streaming, scaricandoli ogni singola volta invece di salvarli localmente: non hanno alcuna percezione del consumo di banda. Con pochissime eccezioni, non hanno la più pallida idea di come funzionino realmente i dispositivi che usano. Si scambiano foto intime tramite SnapChat, convinti che le immagini vengano davvero cancellate per sempre dall'app e non siano recuperabili; si fidano delle promesse di privacy di Facebook, senza rendersi conto che il social network vive raccogliendo e vendendo i loro dati personali.
Non è un fenomeno limitato ai giovanissimi. Una recente indagine dell'Università di Milano-Bicocca sull'uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde indica che due su tre non sanno come funziona Wikipedia, non sanno riconoscere una pagina di login fasulla guardandone l'URL (e non chiamatelo URL, se non volete che vi guardino basiti) e non hanno idea di come si reggano in piedi economicamente i siti commerciali più popolari. Due su tre hanno uno smartphone e la metà lo usa per andare online tutti i giorni: la fruizione della Rete da postazione fissa sta diventando minoritaria. Il computer, se c'è, è prevalentemente un portatile: sigillato, non modificabile, da usare a scatola chiusa, come lo sono i tablet e gli smartphone.
Questo rende molto più difficile che in passato l'apprendimento di come funzionano i dispositivi e le tecnologie di uso quotidiano. I “nativi digitali” stanno crescendo in un mondo nel quale non solo non sanno, ma non possono smontare, smanettare, sperimentare, in parole povere diventare hacker, nell'accezione originale, positiva e sempre più spesso dimenticata, di questo termine. Non hanno le possibilità che hanno avuto gli “immigrati digitali”, che anzi erano costretti a imparare per riuscire a far funzionare modem, schede audio e periferiche bisbetiche. Quelli di oggi sono meri utenti, e non è neanche tutta colpa loro: è la tecnologia stessa ad ostacolarli. L'emancipazione, il brivido di libertà che offrivano i PC autocostruiti, i modem, le BBS e Internet sono stati accecati dalla lucentezza dello specchio scuro nel quale questi “nativi” si riflettono per una media di tre ore al giorno: lo schermo del telefonino e del tablet.
Non stiamo semplicemente crescendo una generazione di falsi nativi digitali, che non hanno una reale competenza informatica (chiedete loro come si fa a mandare una mail in BCC o che cos'è un sistema operativo, per esempio; per loro Tor è un personaggio della Marvel). Intorno a loro si sta evolvendo, non per cospirazione ma per aggregazione spontanea, un giardino cintato e privatizzato dal quale diventa sempre più difficile uscire per diventare competenti. E in questo contesto affidare un tablet a un'adolescente non farà di lei un'informatica provetta, esattamente come rinchiuderla tante ore in garage non la trasformerà in un'automobile.
L'origine del potere dirompente dei primi personal computer, in particolare del PC IBM, era il fatto che era basato su standard tecnici aperti. Dopo decenni di calcolatori incompatibili, farciti di componenti proprietari e non intercambiabili, arrivava sul mercato un oggetto che accettava componenti di marche differenti tra loro. Con poche eccezioni, i protocolli e i linguaggi di comando di quei componenti erano noti e liberamente utilizzabili. Chiunque poteva essere hacker e sviluppare software, driver, sistemi operativi. Questo fece prosperare in modo esplosivo la cultura dell'informatica amatoriale. Il personal computer era, appunto, personal. Ci mettevi su il software e l'hardware che volevi, senza renderne conto a nessuno. Ora considerate invece un iPad: è bello, funziona bene, ma è sigillato. Niente aggiunte hardware. Provate a installarvi software non autorizzato da Apple: potete farlo soltanto pagando una licenza ad Apple o ricorrendo a un jailbreak. Il dispositivo è fisicamente vostro, ma per essere liberi di metterci il software che vi pare dovete scavalcare attivamente gli ostacoli e le restrizioni che il costruttore ha imposto. Il salto da consumatore passivo a utente creativo è diventato più lungo.
Com'è cambiato il paradigma dell'informatica personale: da uno scatolone rustico, flessibile e aperto a una tavoletta patinata, rigida e chiusa. Nel terzo trimestre del 2013 sono stati venduti nel mondo 80 milioni di PC (8,6% in meno rispetto a un anno prima) contro 250 milioni di smartphone, e le previsioni di IDC indicano che le consegne di tablet, da sole, supereranno quelle di PC prima della fine di quest'anno. Il PC sta morendo per abbandono: troppo scomodo, troppo ostico come manutenzione, troppo vulnerabile al malware. Un universo di app sterilizzate e verificate, su un dispositivo che fa di tutto per non sembrare un computer, è molto più allettante e rassicurante per il consumatore medio.
La stessa china scivolosa si sta delineando per Internet. Il boom della Rete è avvenuto per merito dei suoi standard e protocolli aperti e interoperabili, a differenza di tutte le reti telematiche commerciali chiuse che l'avevano preceduta. Su queste fondamenta aperte, accessibili a chiunque volesse semplicemente studiare, è stato possibile costruire liberamente di tutto: mail, Web, ftp, VoIP sfruttabili con qualunque client e qualunque sistema operativo, anche fai da te (Linux, e scusate se è poco). La mancanza di un gestore centrale ha impedito l'introduzione di sistemi di censura e controllo liberticidi e ha intralciato i tentativi commerciali monopolistici d'imporre il Browser Unico e il Sistema Operativo Unico: non dimentichiamo, infatti, che nel 2002 Internet Explorer era usato dal 96% degli utenti e Windows deteneva oltre il 90% del mercato desktop.
Confrontate questa situazione con quella di oggi: Facebook per molti utenti è l'unico sito visitato, tanto da essere per molti sinonimo e sostituto integrale di Internet. Qui le regole d'uso vengono decise unilateralmente, senza dibattito, col risultato che per esempio il video di una donna che viene decapitata va benissimo, ma un seno del quale si veda l'areola è tabù, e la mannaia della sua censura può colpire anche un museo che osa pubblicare una foto di nudo femminile parziale in bianco e nero (però Rate My Bikini o Boobs, Butts and Cleavage Collection non sono un problema). È un ambiente chiuso, controllato secondo criteri bizzarri e soprattutto insindacabili. Il parco pubblico è stato sostituito dal centro commerciale. E a un miliardo e cento milioni di utenti questo va benissimo.
I dati indicano che stiamo rinunciando progressivamente agli elementi tecnici fondamentali che hanno permesso lo sviluppo della Rete, sostituendoli con un ecosistema hardware e software progressivamente sempre più chiuso. La mia preoccupazione è che tutto questo non crea nativi digitali. Crea polli di batteria.
Riprendiamo dall'Agenzia di stampa Zenit del 9/5/2013 un articolo scritto da Roberto Contu. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Storia contemporanea, nella sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
A trentacinque anni dalla vicenda dolorosa di Aldo Moro e dei cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia repubblicana è di grande importanza e luce personale tornare a leggere quelle Lettere dalla “prigione del popolo” che hanno trovato una sistemazione storiografica di eccezionale valore nell’opera di Miguel Gotor (A. MORO [a cura di M. GOTOR], Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008).
Si tratta di testi che insieme al cosiddetto Memoriale, hanno saputo animare il dibattito ad ogni livello, includendo tutte le gradazioni dell’interpretazione, compresa tra gli estremi di chi ha voluto trovarvi le chiavi di decifrazione del decadimento e della corruttela del nostro sistema politico e chi ha voluto confinare le carte di Moro a simbolo drammatico ma neutro della deriva violenta del decennio degli Anni di piombo.
Eppure, al di là dell’agone della lettura storico-politica, è possibile rintracciare in quelle carte, con grande emozione ed impareggiabile concretezza, la statura dell’uomo e del cristiano Moro, specie in quei passi delle Lettere dove il “prigioniero del popolo” trova la forza e il coraggio del dialogo tenero e carezzevole con i familiari negati, in primis con l’adorata moglie Noretta.
Si tratta di momenti di forte commozione e umanità (inspiegabilmente travisati da un lettore lucido come Leonardo Sciascia nell’immediato Affaire Moro dell’autunno del 1978) che forse più di tutti i martirologi postumi riescono a rendere giustizia e onore al lascito di Moro. Nella primissima lettera (recapitata il 29 marzo), scritta il giorno di Pasqua, oltre agli auguri «con tanta tenerezza» alla «carissima Noretta» e in particolare «al piccolo» ovvero il nipotino Luca, Moro accarezza la moglie raccomandandole la compagnia notturna della figlia in un momento tanto duro.
Nella lettera recapitata tre giorni dopo, la concomitanza della Pasqua è il motivo per sottolineare come sia «la prima volta dopo trentatré anni che passiamo la Pasqua disuniti», ma soprattutto che «dopo il trentatreesimo di matrimonio sarà senza incontro tra noi». Il ricordo corre alla «chiesetta di Montemarciano ed il semplice ricevimento con gli amici contadini» che salutò il matrimonio fra i due coniugi avvenuto nell’aprile del 1945 in provincia di Ancona: dettagli forse insignificanti per il mondo ma che «quando si rompe così il ritmo delle cose, esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo».
Anche nei momenti più duri, quando nel prigioniero si fa certa la consapevolezza che non tutte le lettere vengano recapitate, il pensiero della moglie è di sostegno per Moro «ricordando, immaginando, ripercorrendo gli itinerari, che ora si scoprono splendidi della nostra vita, spesso tanto difficile, di ogni giorno».
Le missive stesse di testamento che il prigioniero scrive in più versioni ci parlano del valore immenso delle piccole cose in un momento di buio totale: Moro decide a chi destinare gli amati libri ma anche «il braccialettino dono di nozze per Anna sul comodino» e i «filmetti e le foto del piccolo nel cassetto della mia scrivania in studio». Non di meno il pensiero per i figli è costante con più lettere personali ad ognuno di essi.
Aldo Moro il padre è capace di autocritica verso la figlia Maria Fida («Forse in qualche momento sarò stato nervoso o non del tutto capace di comprensione. Ma l’amore dentro è stato grande in ogni momento con un desiderio profondo della vostra felicità sempre in una vita retta, quale voi conducete»), di premura delicata impreziosita dai ricordi verso la figlia Agnese («Gioisco nel ricordarti piccola, sulla gamba del cuore con il dottor Tanè del tuo libriccino di bimba») e verso la figlia Anna Maria («Tempi felici. Niente ha potuto annullare la grandezza dell’amore. A qualsiasi età i figli sono i nostri piccoli. E tu sei la mia piccola. Come vorrei veder nascere il tuo bimbo»).
Gli stessi sentimenti vengono ribaditi più volte verso il figlio Giovanni («Ti devo trattare da uomo, anche se non riesco a distaccarmi dalla tua immagine di piccolino, tanto amato e tanto accarezzato»). Ma è infine nelle ultime tragiche giornate che il colloquio d’amore tra Moro e la famiglia raggiunge il vertice della tragica dignità. Nella lettera scritta presumibilmente prima del 5 maggio, a quattro giorni dall’epilogo di via Caetani, Moro è consapevole del destino che lo attende, reso ancora più tragico dall’illusione di un esito diverso («Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo»).
Ciò che passa in quegli istanti e strappa senso ad un destino incomprensibile e inaccettabile è la tenerezza infinita verso la propria famiglia: «per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e ciascuno, un amore grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi».
Ma è ovviamente la moglie Noretta il tramite ultimo di un uomo che si prepara ad affrontare una morte ingiusta, prolungamento ideale dell’anima di Aldo, è la sposa ad accompagnare l’uomo nel trapasso doloroso tra terra e cielo: «Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo» (5 maggio 1978).
Riprendiamo dal blog di Roberto Contu http://www.laletteraturaenoi.it/ un suo articolo pubblicato l’1/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (10/5/2016)
Fuori dalla porta della classe
Le otto di mattina. Entro dalla porta principale dell’istituto tecnico commerciale dove insegno, mi affaccio in aula docenti, saluto qualche collega. Due rampe di scale, pochi passi, mi fermo davanti alla porta della classe. Il tempo di non sentire il macello che già stanno facendo gli alunni, di farmi sfiorare da un ritardatario che mi sfila dentro da dietro e puntuale lui arriva: il mio breve istante di fifa quotidiana.
Proprio la fifa, o paura se dir si voglia. Ma preferisco chiamarla fifa: la fifa dell’insegnante. Questa mattina dovrebbe trattarsi giusto di un saluto veloce, la lezione in terza su Petrarca ce l’ho bene in testa, devo anche interrogare. Poi ho due ore in quinta: Svevo per Letteratura e la guerra civile spagnola per Storia. L’ultima ora analisi del periodo in seconda e la mattinata dovrebbe filare liscia e senza intoppi.
Insomma, la fifa dovrebbe salutare, io ricambiare e lei andarsene prima del solito. Eppure, sentendola qui accanto, oggi mi ritrovo a pensarla un po’ meglio. Realizzo che da quasi quindici anni che sono in cattedra non è mancato una mattina il suo saluto, dal giorno in cui per la prima volta ho aperto la porta della mia prima classe.
Lei c’è sempre stata, un attimo, giusto un saluto magari, ma mi rendo conto che c’è sempre stata. I primi anni mi vergognavo a confessarlo, soprattutto a me stesso. Scientificamente convinto di fare il mestiere più bello del mondo, testimone dell’esperienza quotidiana dell’essere intimamente contento a Scuola, nei primi tempi vivevo la fifa come una specie di macchia di troppo su una tovaglia bella e pulita.
Ero convinto che fosse inammissibile provare fifa prima di entrare in classe. Eppure, puntuale come il giorno e la notte, prima di entrare la fifa era lì. Non solo. Spesso aveva fatto il viaggio in macchina insieme a me, qualche volta addirittura si presentava in casa la sera prima. Passerà mi dicevo. Non è passata e anche in questo momento è qui.
Dentro la porta della classe
Come un esploratore che a forza di esplorare riesce a disegnare il profilo della terra che scopre, con il tempo sono riuscito a vedere sempre meglio i confini della mia fifa da insegnante. Ma non potrei che raccontarlo per induzione, ad esempio immaginando queste quattro ore apparentemente semplici che davanti alla porta oggi mi si parano davanti.
Vediamo. Prima ora in terza. Petrarca. Devo lavorare bene. Ho studiato abbastanza ieri? Ho dovuto preparare anche Storia, alla fine ero stanco, ma devo fare capire loro cosa è significato essere scisso per quello li. Mi aiuterà il segreto del Secretum. Mi ascolteranno? Sono ventotto, sebbene ci sia un ottimo rapporto sono comunque rumorosi e spesso agitati. Ecco devo coltivare quel rapporto ma gestirli.
Sarà questione di testa ma anche di corpo. Reggeranno la lettura? La traduzione del manuale sarà all’altezza della loro attenzione? Ma devo arrivarci. Se la capiscono questa cosa del dissidio capiranno molto dell’autore. Capiranno molto di loro stessi.
Poi ci sono due orali da fare. So chi devo sentire. Uno di questi, una ragazza, sta andando male. Sta mollando, so che va male anche in tutte le materie di indirizzo. Potrei aiutarla, ma lei deve metterci qualcosa di suo. Ma è spenta. È a rischio fallimento scolastico. La situazione a casa è una delle millanta anonime situazioni complicate di molti suoi compagni. Eppure lei è ancora più fragile e io so che una sedicenne che scompare è una catastrofe silenziosa, un danno per l’umanità.
Ma poi ci sono gli altri che osservano. Ci sono io. E tutto questo deve diventare un numero, una valutazione, un giudizio. La vertigine del giudizio. Devo essere lucido. Speriamo bene.
Finito con la terza vado in quinta. Beh, lì ci sto bene, gioco in casa. Faccio il programma che amo, la Letteratura e la Storia del Novecento. E si vede. Le ore volano e il clima è ottimo. Ma devo prepararli al meglio per l’Esame di Stato. Quest’anno hanno il commissario esterno. E poi qualcuno forse me lo sto lasciando indietro.
Mi viene il dubbio che per gratificazione personale in questo periodo sia volato troppo alto e mi sia dimenticato dei più fragili. Certo, quei tre-quattro bravi vanno alla grande, ma lo farebbero indipendentemente da chi hanno davanti. Ma quelli più fragili?
Ecco stamattina con Svevo sono a rischio, tutta quella roba che avevo in mente sulla frantumazione dell’io forse è il caso che la rimoduli. So che staranno attenti, ma saranno attenti? Devo essere lucido e intelligente. Speriamo bene.
Ricreazione, di corsa alla macchina del caffè. Poi di nuovo in quinta con la guerra civile spagnola. Ieri pomeriggio ho voluto studiarla bene. C’ho preso gusto, ho divagato, ho passato un’ora a guadare video dell’Istituto Luce su Youtube, ma che ci faccio? Parto da Guernica sulla Lim? Terra e libertà lo consiglio per casa? Ci sono quei due impegnati politicamente che si dicono di estrema destra. Non si tratta di una scelta neutra o banale metterli da soli a casa di fronte a quel film. Come lo gestisco? Coinvolgo quegli altri due che si dicono anarchici. Incarico le due fazioni di approfondire il tema a gruppi. Se me la gioco bene in classe potrebbe venire fuori un bel momento, si confronteranno e ognuno dirà la propria. Tutta la classe sarà tirata dentro e magari ci scappa un’ora in cui si vola alto. O succede un macello. Ma vale la pena provarci. Devo essere lucido, intelligente ed equilibrato. Speriamo bene.
Infine la quarta ora in seconda. Grammatica, analisi del periodo. Mi viene il vomito a pensarci. Io la odio la grammatica, o sai scrivere o non sai scrivere. Eppure questi scrivono tutti malissimo, qualcuno dovrà insegnargli a maneggiare quei benedetti periodi. Chi? Tu, che domande, vengono a scuola apposta. E allora scegli: o li piazzi di fronte a filotti di esercizi da correggere a sberle di noia o usi l’analisi del periodo per imparare a scrivere meglio, a pensare meglio, a essere meglio. Del resto sei tu che chiedi loro lo sforzo e la volontà. Se non ce li metti tu per primo che ci provi a fare? Un bel respiro profondo e tenteremo di far brillare anche un’ora sulle subordinate. Devo essere lucido, intelligente, equilibrato, competente.
Speriamo bene. A quel punto la campanella della quinta ora dovrebbe aver suonato. Saluterò qualche collega, mi affaccerò in aula docenti, uscirò dalla porta principale dell’Istituto tecnico commerciale dove insegno. Sarà finita la mattinata.
In fondo al corridoio
L’istante se ne sta andando e ormai devo realmente entrare ma sento che oggi la fifa mi vuole lasciare con una sorpresa. Ecco la mia redenzione: finalmente mi convinco che solo uno sciocco non proverebbe timore di fronte alla costruzione di una cattedrale del genere. E sì che ho giusto scimmiottato nei pensieri il peso specifico di quelle ore. Come aver scarabocchiato con pochi tratti il progetto di una cattedrale. Per ogni ragazzo la costruzione di una cattedrale, ogni mattina, circa duecento mattine all’anno. Centinaia di ragazzi, per anni, per una vita professionale intera.
Fa spavento. Fa spavento perché spaventa pensare a quanta vita passi dentro a una scuola, a quanto di vivo, di irrequieto, di moto perenne delle menti e dei corpi si concentri dentro una classe. Mi dico che sono questi i confini tracciati dalla mia fifa da insegnante. Confini che fanno spavento ma che mi sembrano bellissimi.
Grazie all’istante di fifa quotidiana capisco quanto sia per me vitale respirare la responsabilità di essere in un posto così essenziale e traboccante di vita. Sento quanto sia giusto provare un sacrosanto e responsabile timore. Intuisco come l’irriducibile complessità del mestiere educativo debba fondarsi su questo affacciarsi rispettoso sul singolarissimo infinito di ogni singolo ragazzo. È questa la sostanza di cui è fatta la fifa dell’insegnante, è questo il prezioso lascito che da sempre ci permette di aprire la porta della classe, anche a me oggi.
Un respiro profondo e l’istante di fifa quotidiana è già in fondo al corridoio che mi saluta. Forse non mi ha visto entrare in classe o forse ha giusto sbirciato i miei pochi passi verso la cattedra mentre già intimo a tutti di sedersi: «aprite il libro e cercate il Secretum».
Riprendiamo da La Repubblica dell’8/5/2016 la prima parte di un articolo scritto da Maria Novella De Luca. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)

ROMA - Hanno tra i 30 e i 34 anni, sono donne e sono sempre di meno. Nate a metà degli anni Ottanta, quando la popolazione in Italia già iniziava a crollare, sarebbero oggi, per età, le nuove "potenziali madri". Numericamente però assai inferiori delle loro genitrici, e, viste le circostanze di vita atipiche e precarie, assai in difficoltà (insieme ai potenziali padri) nel progetto di mettere al mondo dei figli. Sorelle più grandi delle millennials, laureate ma in grande affanno sul lavoro, le trentenni di oggi sono protagoniste di quella che gli esperti chiamano la prossima e vicina "trappola demografica". Nella quale, secondo una previsione del laboratorio di Statistica applicata dell'università Cattolica di Milano, l'Italia rischia di perdere una "potenziale madre" ogni cinque. E questo mentre i nati nel 2015 sono stati 478 mila, al di sotto dei 500 mila bambini l'anno considerati la soglia minima per sopravvivere al declino demografico. Perché non soltanto le donne tra i 30 e i 34 anni sono meno numerose: erano 2.263.843 nel 2005, sono 1.797.049 nel 2015 (un quinto in meno), ma a giudicare dalla tendenza attuale metteranno al mondo un solo figlio a testa, non di più e non tutte.
A meno di non invertire la tendenza. A meno di non riuscire a sostenere davvero la maternità. E la paternità. E il lavoro femminile, perché nonostante tutti gli sforzi l'occupazione delle donne in Italia è ancora al 46 per cento, e al Sud le senza lavoro sono, drammaticamente, l'80 per cento del mondo femminile. "Condivido la definizione di "trappola demografica"", dice Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle differenze all'università Bicocca, "perché una trappola è qualcosa in cui si finisce anche senza volerlo". Le ragazze, in realtà, "i figli li vorrebbero, anche due o tre, ma nel nostro Paese è sempre più alta la distanza tra il desiderio di maternità e la possibilità di realizzarla". Dietro questo sogno che spesso diventa rimpianto, non ci sono soltanto la precarietà, l'assenza di welfare, le aziende ostili alle gravidanze, la mancanza di congedi maschili, ma anche fattori culturali. "L'idea sempre più radicata nelle coppie è che al figlio si debba dare tutto. Altrimenti è meglio non farlo nascere. Le donne oggi vivono una contraddizione: da una parte la maternità è ostacolata da fattori oggettivi, dall'altra è enfatizzata all'estremo. Così, spesso, si finisce per rinunciare".
Un quadro noto, eppure poco o nulla si è mosso. […]
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 17/12/2015 un articolo scritto da Marco Valenti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio. Vedi anche gli altri articoli già pubblicati:
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
«Se Cristo domani, busserà alla vostra porta, lo riconoscerete? Sarà come una volta, un uomo povero, certamente un uomo solo. Sarà forse un profugo, uno dei milioni dei profughi con il passaporto dell’Onu. Uno di coloro che nessuno vuole e che vagano, vagano in questo deserto che è diventato il mondo».
Le celebri parole che Raul Follerau scriveva nel 1954 sono tornate vive alla memoria quando Papa Francesco all’Angelus del 6 settembre scorso invitava le comunità cristiane di tutta Europa ad aprirsi all’accoglienza dei profughi che fuggono dai loro Paesi in cerca di pace, libertà e serenità.
La parrocchia di san Saturnino in Roma ha accolto subito quell’appello e si è mossa con grande motivazione e risoluzione nell’offrire un segno tangibile di prossimità. Superava in tal modo quel senso di impotenza e di smarrimento che ci coglie inevitabilmente di fronte alla tragedia degli esuli perché se non sappiamo che cosa fare neppure sappiamo né vogliamo rimanere indifferenti.
Per prima cosa ci si è organizzati per realizzare un piccolo appartamento di due camere utilizzando dei vecchi locali che Carlo Iavazzo, un nostro parrocchiano, affetto da grave handicap motorio, a 22 anni — nel 1976 — aveva scelto come sede di un’associazione, in seguito a lui intestata: l’intento di Carlo era quello di promuovere e sostenere progetti e iniziative a favore di persone con difficoltà nel tentativo di incoraggiare l’integrazione di coloro che come lui venivano esclusi dalla partecipazione alla vita comunitaria perché diversi.
Nel 1985 Carlo ci lasciava, ma i suoi amici non hanno abbandonato la sua opera e oggi in quei locali ripuliti e rimessi a nuovo è nata la Casa della Carità Carlo Iavazzo che porta appunto il nome di quel giovane coraggioso.
Ristrutturato l’appartamento a opera di una prima cerchia di volontari, il raggio dei collaboratori si è via via allargato e in tanti hanno risposto con generosità ed entusiasmo offrendo, mobili, arredi, contributi economici, ma anche consulenze e tanta disponibilità. E la nostra parrocchia è diventata un luogo di accoglienza, non privo di ansiosa aspettativa.
L’arrivo degli ospiti, infatti, è stato più volte annunciato e poi rinviato. Finalmente l’11 novembre sono giunti tre giovanissimi africani in attesa di ottenere lo status di rifugiati: Salif, un diciannovenne del Mali e due ventenni del Senegal, Babakar e Mountaga. Li abbiamo incontrati verso le due del pomeriggio nel cortile parrocchiale, erano tesi e un po’ spaventati. Sono arrivati nella nostra parrocchia dopo aver trascorso circa un anno e mezzo in vari centri di accoglienza e hanno trovato a loro disposizione un ambiente tranquillo, ben attrezzato e, come hanno avuto modo di scoprire, ben organizzato.
Dopo un primo momento di confusione, i tre ospiti si sono rasserenati e hanno preso possesso della casa che hanno subito imparato a tener in ordine: sarà il loro appartamento per tutto il tempo che resteranno con noi. Il fatto che parlino un po’ di italiano e vogliano impararlo bene facilita la comunicazione, la scoperta e l’esplorazione dei nostri mondi che giorno dopo giorno si avvicinano sempre di più. In questo senso di fondamentale importanza è nella nostra comunità la presenza di don Pascal, prete senegalese collaboratore parrocchiale, studente presso la Gregoriana come immediato “mediatore culturale”. Un aiuto prezioso a vincere gli inevitabili pregiudizi legati alle diverse culture e religioni.
I tre ragazzi sono pure seguiti da un tutor della Caritas diocesana, l’istituzione che si interfaccia con la Prefettura di Roma e si occupa dei loro problemi. La Caritas offre loro anche l’abbonamento mensile Metrebus e una diaria di euro 2,50. Inoltre vaglia e autorizza le attività pomeridiane per intrattenere gli ospiti e aiutarli a inserirsi più facilmente nella nostra società.
La giornata inizia con la colazione e il riassetto della casa. Quindi i ragazzi si recano presso la parrocchia Santa Maria ai Monti dove la Caritas diocesana ha organizzato per i richiedenti asilo una scuola di italiano. Terminate le lezioni si uniscono ad altri gruppi per consumare il pranzo presso la mensa della Caritas di Colle Oppio. Nel pomeriggio incontrano i loro amici, cercano lavoro o seguono delle attività proposte per loro ancora dalla Caritas diocesana (corsi per avviamento al lavoro, scuola guida e così via) o dalla parrocchia (rinforzo di italiano e di informatica). Il momento più ricco di autentica condivisione è quello della cena, intorno alle 19, offerta, secondo una turnazione, da volontari della parrocchia. Chi porta da casa le pietanze preparate si incontra con un componente del Movimento adulti scout cattolici italiani (Masci) che ha il compito delle presentazioni e dell’apparecchiatura della tavola. Superato il primo impatto la serata scorre piacevolmente e anche allegramente: è il momento delle risate internazionali.
Pieni di sogni e di speranze, spinti dal desiderio di costruirsi una vita migliore di quella che hanno lasciato, alle prese con la conoscenza di un mondo, il “nostro mondo”, tanto diverso dal loro, i ragazzi ci stanno dando un’immagine di serietà e scrupolosità: ci dimostrano che anche loro, come noi, amano lavorare, vogliono assimilare nozioni utili per la loro integrazione nel nostro Paese e portano avanti con le loro energie e la loro determinazione ciò in cui credono, il sogno di tutti gli stranieri che vogliono essere regolari in Italia, lavorare e “crescere” qui le loro famiglie.
E tuttavia in questa faticosa avventura qualche domanda ci è posta. Per esempio: perché non lasciare che siano le istituzioni a occuparsi dell’integrazione; perché la parrocchia si deve occupare di questi temi? Oppure: non può esserci il pericolo che ci dimentichiamo degli italiani bisognosi e in difficoltà o senza lavoro? In effetti l’argomento è fortemente articolato e spesso siamo pressati da una sensazione di incapacità di fronte a una realtà così grande e difficile. Ma siamo coscienti che mettere un piccolo segnale di ospitalità significa dare consistenza al Vangelo. Nessuno mette in dubbio che stiamo attraversando un tempo di crisi, ma ciò non può essere una giustificazione. Seguitiamo a essere a fianco di ogni persona qualunque sia l’origine della difficoltà in cui si dibatte. Abbiamo fiducia che da questo frangente possano venire a galla nuove energie, forze e occasioni di collaborazione.
Il cammino che abbiamo iniziato solo un mese fa avrà una lunga durata. Altre persone verranno a cercare rifugio presso di noi; stiamo ponendo le basi di questa struttura e non è compito da poco. Ne siamo consapevoli: forze, disponibilità e impegno da parte nostra e della comunità non basteranno, ma la provvidenza, nella quale confidiamo e alla quale ci affidiamo, supplirà alla nostra debolezza. Ci siamo preparati. Ora non possiamo dimenticare che il percorso dell’accoglienza continua con l’informazione, finalizzata a conoscere chi è in cammino e arriva da noi e con la formazione, volta a preparare i volontari parrocchiali non solo sugli aspetti amministrativi, ma anche su quelli culturali e pastorali con attenzione anche alle cause dell’immigrazione forzata. Così, d’accordo con la Caritas diocesana, organizzeremo in parrocchia nel prossimo mese di febbraio un itinerario di approfondimento di sei incontri (accoglienza identità della Chiesa, cause delle migrazioni nel mondo, senso e difficoltà dell’essere stranieri oggi in Italia, testimonianze di vita e di fede, leggi sull’immigrazione in Italia).
Per la nostra comunità parrocchiale di San Saturnino il fenomeno delle migrazioni forzate che stanno attraversando il mondo e interessa anche l’Italia è un appello alla generosità per rendere fatto di vita reale il giubileo della misericordia. Il gesto concreto dell’accoglienza di «coloro che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame e sono in cammino verso una speranza di vita» — come dice Papa Francesco — testimonia come sia «determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia». Allora vogliamo raccogliere l’invito del Papa a «fare nostra la misericordia del Samaritano».
1/ "L'ultimo pediatra"? I cristiani di Aleppo e l’informazione unilaterale. Una lettera di Nabil Antaki, dei fratelli Maristi
Riprendiamo dal sito Ora pro Siria una lettera pubblicata il 4/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio e la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
Ultimamente mi rendo conto che i media continuano a mentire per omissione. Dall'inizio della guerra in Aleppo 4 anni fa, essi non riportano tutti i fatti nel loro complesso.
Aleppo è bombardata quotidianamente dal 2012 da parte di gruppi terroristici che provocano morti e feriti. Nessuno se ne è mai curato; se non per felicitarsi per il "buon lavoro che fanno" [riferendosi alla dichiarazione di Laurent Fabius]. È tempo che l'Occidente si svegli e smetta di sostenere i terroristi.
Noi in Aleppo siamo disgustati dalla mancanza di imparzialità e obiettività dei mezzi di comunicazione. Parlano solo di sofferenza e perdita di vite umane nella parte orientale della città, controllata da al-Nosra, gruppo terrorista affiliato ad al-Qaeda, che hanno sempre chiamano "ribelle", il che è un modo per renderlo più rispettabile. E passano sotto silenzio le perdite e la sofferenza quotidiana nei nostri distretti occidentali di Aleppo dovuti ai bombardamenti lanciati da questi terroristi. Non parlano neanche circa il blocco e i tagli totali di acqua ed elettricità che quelli infliggono a noi ...
I media non dicono nulla dei bombardamenti continui e della carneficina che ha avuto luogo la scorsa settimana, nella parte occidentale della città [dove il dottor Nabil vive], dove nessun quartiere è stato risparmiato e dove ci sono ogni giorno decine di morti. Queste omissioni sono tanto più scioccanti in quanto questi nostri distretti rappresentano il 75% della superficie di Aleppo e hanno 1,5 milioni di persone - contro 300.000 nella parte orientale occupata dai gruppi terroristici.
Questa informazione monca insinua che i terroristi che ci attaccano sono le vittime. Peggio ancora, i media hanno sviato la nostra richiesta "SAVE ALEPPO" suggerendo che questo appello chiedeva la cessazione delle ostilità da parte delle "forze di Assad". Il che è falso. Inoltre, non ci sono "forze di Assad": ci sono le forze dell'esercito regolare siriano a difesa dello Stato siriano.
Essi [i media tradizionali] potrebbero almeno avere la decenza di parlare della carneficina causata dagli attentati terroristici che hanno mietuto molte vittime. Come è successo di nuovo venerdì scorso, quando uno dei loro colpi ha colpito una moschea nell'ora della preghiera causando 15 morti e 50 feriti tra i civili. Gli attacchi e le perdite che soffriamo vengono presentati [dai media] in modo da lasciare il pubblico nell'incertezza su chi è il vero responsabile di questi crimini.
Da tre giorni i media stanno accusando il "regime di Assad" e i russi di aver bombardato e distrutto un ospedale sostenuto dalla ONG Medici senza frontiere ad est della città. Essi sostengono che "l'ultimo pediatra di Aleppo" è stato ucciso nel bombardamento. Abbiamo ancora molti pediatri in Aleppo. Ciò dimostra molto bene che, per i media, conta solo la parte orientale occupata dai ribelli, che i tre quarti della città di Aleppo amministrati dallo stato siriano, dove praticano ancora molti pediatri, non contano.
L'ospedale MSF menzionato non è nella lista degli ospedali siriani stabilita prima della guerra da parte del Dipartimento della Salute. Quindi, se c'è, è stato installato in un edificio dopo la guerra. Io non credo che le forze governative o un aereo russo abbiano deliberatamente bombardato un ospedale. Non è nel loro interesse.
Abbiamo constatato la stessa parzialità, quando il più grande ospedale di Aleppo Al-Kindi, è stato colpito dai missili terroristici di al-Nosra e intenzionalmente bruciato nel 2013. I media non hanno prestato attenzione a questo atto criminale. Siamo disgustati e rivoltati da questa disinformazione in corso.
Nabil Antaki, 30 aprile 2016
2/ Parroco di Aleppo: missili contro ospedali, scuole e moschee. Messe nel mondo per la pace
Riprendiamo un articolo dall'Agenzia di stampa AsiaNews del 4/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio e la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
Aleppo (AsiaNews) - I capi delle comunità cattoliche di Aleppo lanciano un appello a vescovi, sacerdoti, fedeli di tutto il mondo, chiedendo loro di “offrire le messe di domenica prossima, 8 maggio, per la pace in Siria e in special modo ad Aleppo”. È quanto racconta ad AsiaNews p. Ibrahim Alsabagh, 44enne francescano, guardiano [“guardiano” è il nome francescano del responsabile di una comunità di frati] e parroco della parrocchia latina di Aleppo, la “capitale del Nord” della Siria da giorni teatro di violenti combattimenti. “Chiediamo preghiere da tutto il mondo - sottolinea il sacerdote - perché la situazione è drammatica; tanti innocenti hanno subito violenze, servono compassione e misericordia”.
“Nella nostra zona [i quartieri cristiani a ovest di Aleppo, sotto il controllo governativo] questa mattina c’è un silenzio di tomba, poche le persone per strada e non si sente alcun rumore” prosegue p. Ibrahim, “ma in altre aree si continua a combattere”. Ieri intanto la città ha registrato la sua “giornata peggiore” dall’escalation dei combattimenti, “che sono poi proseguiti per tutta la notte, con violenze e attacchi che non si sono fermati nemmeno un minuto”.
“Ieri abbiamo vissuto la giornata peggiore della settimana, con bombardamenti pesantissimi” prosegue il parroco di Aleppo. Missili e razzi lanciati dalla zona sotto il controllo dei ribelli hanno colpito l’ospedale di Dabbi’t (nella foto, prima e dopo), centrando il reparto di ostetricia e uccidendo 17 bambini, oltre che donne e uomini. In precedenza avevano lanciato missili sulle università, in particolare l’università statale “costringendo migliaia di studenti a ripararsi per ore nei sotterranei per sfuggire alle violenze. Da qui il provvedimento del ministero dell’Istruzione di chiudere per tre giorni tutte le scuole della città”.
“Nella strada che porta all’università” prosegue il sacerdote, “è stato abbattuto completamente un edificio e al momento non si conosce il numero di vittime o feriti. Questo senza contare i bombardamenti sporadici o intensi in altre zone”. Fra gli edifici colpiti anche la moschea di Aisha, nel quartiere di Zahraa che, precisa il parroco, “era considerata un rifugio per le famiglie musulmane emigrate da altre zone e in cerca di riparo”.
Dal marzo 2011 la Siria è martoriata da un conflitto che ha causato almeno 270mila morti e milioni di sfollati, originando un’emergenza umanitaria senza precedenti. Fra le aree più colpite la città di Aleppo, dove jihadisti dello Stato islamico e miliziani di al Nusra (affiliati ad al Qaeda) combattono contro gruppi ribelli e soldati governativi; in meno di due settimane si contano già oltre 270 morti fra i civili. Un nuovo round di colloqui di pace sulla Siria sotto l’egida delle Nazioni Unite dovrebbe iniziare il prossimo 10 maggio, sempre a Ginevra, ma finora la diplomazia internazionale si è rivelata impotente o poco interessata a fermare il conflitto.
I combattimenti si concentrano attorno alla metropoli di Aleppo, seconda per importanza del Paese; l’area è divisa in due settori, quello ovest sotto il controllo governativo e la parte orientale nelle mani dei ribelli. Tuttavia, alla periferia della città la situazione è opposta con i gruppi ribelli che hanno quasi circondato la zona occidentale e le forze governative che assediano la parte orientale in mano ai ribelli. I continui focolai di violenze hanno messo in grave pericolo la fragile tregua in vigore dal 27 febbraio scorso, che aveva permesso un miglioramento della situazione umanitaria e fatto sperare in una cessazione - a breve - delle ostilità.
L’escalation dei combattimenti e l’inerzia della comunità internazionale preoccupano anche papa Francesco il quale, domenica primo maggio al termine del Regina Coeli, ha rinnovato il proprio appello alla pace nel Paese. Il pontefice ha esortato “tutte le parti coinvolte nel conflitto a rispettare la cessazione delle ostilità e a rafforzare il dialogo in corso, unica strada che conduce alla pace”. Le parole di Bergoglio seguono la dichiarazione dei vescovi cattolici di Aleppo, che in una nota congiunta hanno denunciato “la violenza che la nostra amata città subisce”, affidandola al Cuore Immacolato di Maria perché porti la pace.
“Quanto stiamo vivendo - sottolinea il parroco di Aleppo - è un vero e proprio crimine contro l’umanità: perché colpire i bambini, i neonati, le donne partorienti, gli studenti universitari… chiamiamoli vendette o terrorismo, in realtà questi sono atti terribili. Chiediamo compassione e misericordia per queste vittime innocenti”. Ad Aleppo non esiste un ovest o un est, conclude il sacerdote, ma “tutti dobbiamo essere vicini ha quanti hanno un motivo per soffrire, per chi ha subito violenze… per i neonati, gli anziani, i disperati. Come Chiesa siamo vicini non solo ai cristiani, ma a chiunque sia stato colpito nella sua dignità per queste violenze. E per questo rinnovo l’appello a tutti voi per la preghiera e vi ringrazio per la solidarietà, la vicinanza, la buona volontà!”. (DS)
Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una visita guidata agli affreschi di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano tenuta da don Andrea Lonardo il 26/1/2016. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti su Michelangelo e la Cappella Paolina, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
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Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco in occasione del conferimento a lui del Premio Carlo Magno, il 6/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
Breve introduzione de Gli scritti
Ci permettiamo di sottolineare come papa Francesco - nell’invitare l’Europa all’accoglienza dei profughi che fuggono dalla violenza della guerra e del terrorismo islamista, così come da nazioni nelle quali regna la corruzione o dove dittature nascoste da democrazie offendono la dignità umana, così come da sfruttamenti perpetrati da paesi mediorientali, turcofonici, arabi, occidentali, indiani o cinesi, così come del mercato delle armi che vede protagonisti paesi di ogni cultura, del nord e del sud, dell’est e dell’ovest del mondo - non faccia appello a questioni economiche inerenti allo sviluppo dell’Europa.
Molti analisti insistono sul fatto che l’Europa dovrebbe accogliere perché ciò gioverebbe alla propria economia oppure, all’opposto, perché le percentuali numeriche degli immigranti non altererebbero significativamente le nazioni accoglienti. In entrambi i casi il paradigma resta sempre, nella visione di tali commentatori, quello economico e materialista: l’economia ed il denaro al centro del progetto Europa.
Papa Francesco, invece, con grande lungimiranza e sapienza insiste sul “cuore materno” dell’Europa, sulla sua storia, sui suoi ideali, sulle sue radici cristiane ed insieme – potremmo dire – laiche (proprio perché fede cristiana e laicità sono due facce della stessa medaglia). Solo un’Europa capace di riscoprire la grandezza della sua storia e dei suoi ideali, della visione umana ereditata dal cristianesimo e ulteriormente chiarificatasi nell’elaborazione dei diritti umani, può aprire le sue porte fiduciosa che saprà conquistare i cuori di chi immigra con la proposta della sua visione di una ragione libera e di una misericordia capace di servire l’uomo al di là dei suoi peccati.
Paradossalmente, invece, un’Europa senza identità avrà paura di accogliere, mentre un’Europa fiera della propria storia, fiera della propria maternità creativa e generativa, non avrà al contrario paura dell’incontro con culture diverse, perché saprà di essere in grado di integrare nuove persone, perché sarà in grado di proporre e generare, convincendo ad integrare in culture nuove la ricchezza della propria storia europea, senza essere succube e perdente. Saprà essere veramente dialogante, perché conscia della propria bellezza.
Il discorso di papa Francesco in occasione del conferimento a lui del Premio Carlo Magno
Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.
La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa «famiglia di popoli»[1], lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità»[2].
Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).
Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?
Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.
Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»[3]. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»[4]. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»[5].
Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.
Capacità
di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.
L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.
In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»[6].
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.
In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.
Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?
«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».[7] Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.
Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.
Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”[8]» (Enc. Laudato si’, 127).
Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».[9] Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia»[10]. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.
Note al testo
[1] Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
[2] Ibid.
[3] Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
[4] Ibid.
[5] Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
[6] Discorso all'Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
[7] Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
[8] Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
[9] Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
[10] Discorso al Consiglio d'Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.
Presentiamo sul nostro sito il file audio della quarta lezione sulla Divina Commedia tenuta da Franco Nembrini presso il Teatro don Orione, nella parrocchia di Ognissanti il 14 dicembre 2015. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video. Per alcuni video di Franco Nembrini vedi il canale Youtube de Gli scritti.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 15/3/2016 un articolo scritto da Claudio Magris. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
Foto ANSA
Può ogni desiderio (escludendo beninteso quelli criminosi) costituire un diritto? Una delle pochissime persone che hanno affrontato questa domanda con rigore, chiarezza e umanità è stato Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci. Come Vacca, pure Mario Tronti, senatore del Pd e, cosa ben più importante, leader e forte testa pensante dell’operaismo italiano degli anni Settanta, riconoscendo tutti i diritti alle coppie omosessuali (assistenza, eredità, convertibilità delle pensioni e così via), ha espresso forti riserve sulle adozioni gay, tanto da sottoscrivere il documento contrario a quest’ultime. Non è un caso che tali chiare e sofferte prese di posizione vengano da figure di rilievo della cultura marxista, formate da un pensiero forte capace di affrontare la drammaticità del reale e la difficoltà e necessità delle scelte. L’odierna e dominante «società liquida» — come l’ha chiamata Zygmunt Bauman — miscela invece ogni problema e ogni presa di posizione in una melassa sdolcinata e tirannica, in un conformismo che ammette tutto e il contrario di tutto tranne ciò che contesta il suo nichilismo giulivo e totalitario.
Il diritto — ricordava di recente sul Piccolo un autorevole costituzionalista, Sergio Bartole — tutela l’individuo ma anche la società e non può disinteressarsi delle ricadute di una legge sull’antropologia civile ossia sui fondamenti che tengono insieme una comunità e una società. Uno dei primissimi a capire la trasformazione delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto titillamento pulsionale è stato Pasolini, quando scriveva sull’aborto o quando diceva che il voto per il divorzio era un voto giusto — anche lui aveva votato a favore del divorzio — che tuttavia molti avevano dato per ragioni sbagliate. La maggioranza aveva votato come lui, ma egli non poteva riconoscersi in essa, perché lui aveva votato per il divorzio quale rimedio a situazioni dolorose e bloccate, quale possibilità di ricomporre esistenze inceppate. Rimedio ovvero eccezione che non negava i valori e sentimenti della famiglia né la funzione formatrice della sua unità. Quella maggioranza che aveva votato come lui gli riusciva odiosa, espressione di un relativismo nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a merce di scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di vita e di pensiero. Lo si constata sempre più in ogni settore, dalla politica alla cultura alla vita privata. È il trionfo del consumo, denunciato da Pasolini; del consumo che esorbita dal suo ambito — il consumo e la possibilità di accedervi sono ovviamente una fondamentale condizione di vita dignitosa e godibile — per inglobare ogni aspetto della realtà e dell’esistenza.
«Il riconoscimento per legge del desiderio individuale quale fonte della libertà e del diritto» — ha detto Giuseppe Vacca — crea inevitabilmente frammentazione e atomizzazione in ogni campo. Non a caso nascono molte nuove e spesso effimere formazioni politiche sorte dall’impulso a scindersi, alla prima divergenza, da una precedente aggregazione con la cui linea prevalente non si concorda. Molti anni fa, in uno dei suoi geniali saggi, Lealtà, defezione e protesta, Albert Hirschman analizzava le diverse possibilità, reazioni e soluzioni che possono verificarsi quando all’interno di una compagine (collettiva o personale, partito politico, chiesa, matrimonio o unione di fatto) sorgono delle controversie. Se i contrasti, anche chiariti duramente e mai del tutto superati, risultano compatibili, l’unione persiste: i coniugi non divorziano, i compagni non si lasciano, i dissidenti non escono dal partito o dalla chiesa. Se i contrasti si rivelano — per ragioni oggettive o per la psicologia dei contendenti — inconciliabili, l’unità viene intaccata: secessione dal partito, microscisma della chiesa quello che di Lefebvre, separazione dei partener. Il distacco può avvenire nel rispetto e nella persistenza di un legame affettivo oppure nello scontro violento, in cui l’originario legame si trasforma in feroce avversione.
Se quel legame, di qualsiasi genere, era stato autentico, la sua rottura non dovrebbe avvenire senza responsabili tentativi di sanare le ferite. Si assiste invece a una continua accelerazione dei processi dissolutivi, uscite, rientri e nuove uscite da gruppi politici e proliferazione di questi ultimi, tempi sempre più abbreviati per lo scioglimento delle unità famigliari e affettive, eterno amore che finisce alla prima lite per la scelta delle vacanze. Se acquisto uno shampoo e non ne sono soddisfatto, posso sostituirlo immediatamente, ma dovrebbe essere diverso se il distacco avviene da una persona un tempo cara, da un partito o da una chiesa in cui ci si era riconosciuti. Invece la velocità delle conversioni o delle apostasie è invece sempre più alta, non si riesce più a seguire chi ha fondato un nuovo partito o una nuova corrente perché questi sono già riconfluiti in un altro alveo, così come non si riesce a star dietro a chi si separa da chi per mettersi con chi nelle riviste illustrate che si leggono dal parrucchiere.
Diritti e desideri. Ogni desiderio, se è forte, chiede, esige di essere appagato, e in questa tensione, qualsiasi sia il desiderio, c’è uno struggimento, una nostalgia dolorosa che sono parte essenziale della nostra persona. Possono tutti essere riconosciuti per legge? Anche l’incesto può essere brutale violenza ma anche passione umana, come ci hanno raccontato tante umanissime storie di vita vissuta e tanta grande letteratura. In Svezia, anni fa, un fratello e una sorella avevano chiesto di sposarsi, cosa che non fu loro concessa e non credo solo per timori eugenetici, che potrebbero comunque venire in vari modi aggirati. Freud — per tali ragioni pure duramente attaccato — ci ha insegnato che con la sublimazione di certi desideri, ad esempio ma non solo quelli edipici, con la loro trasformazione in un’altra forma di amore, ha inizio la civiltà. È una sciagura sublimare troppo, ma lo è anche non sublimare nulla. Si è visto nella famiglia tradizionale un nucleo dell’antropologia civile. La famiglia tradizionale può essere e molte volte è stata anche violenta, soffocante e nemica del libero sviluppo della persona. È ovvio che persone capaci di intelligente e attento amore possano far crescere un bambino meglio di genitori carnali incoscienti e snaturati o anche solo ottusamente incapaci di intelligente amore.
L’amore omosessuale può essere elevato o turpe al pari quello eterosessuale. Basta aver letto Il Grande Sertão di João Guimarães Rosa per sapere e capire che ci si innamora non di un sesso, ma di una persona. Ma gli antichi Greci celebravano l’amore omosessuale proprio per il suo rapporto anche spiritualmente diverso con la generazione, con la radice duale dell’umanità. Ho conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio — avuto da una donna, non da un utero affittato. In ogni caso, il protagonista non è il desiderio della coppia né omo né eterosessuale, bensì il bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna e la cui maturazione è verosimilmente arricchita dalla crescita non necessariamente con i genitori naturali ma con un uomo e una donna, espressione per eccellenza di quella diversità (culturale, nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di per sé più creativa e formativa di ogni identità a senso unico. Il bambino, ha scritto su Facebook Vannino Chiti, «è soggetto di diritti, non un mero oggetto di desideri».
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Riprendiamo dal blog http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/ di Sandro Magister un articolo di Massimo Introvigne pubblicato il 3/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (8/5/2016)
Non solo "Gazzetta dello Sport". Dal "Financial Times" al magazine americano di economia "Bloomberg", testate che di solito non si occupano di calcio hanno sbattuto in prima pagina la favola Leicester, la squadra di provincia piccola e povera, allenata dall'italiano Claudio Ranieri, che contro tutti i pronostici ha vinto il campionato inglese.
E anche le testate cattoliche di tutto il mondo, da "Avvenire" a "La Croix", partecipano alla festa. "Avvenire" scrive che il Leicester ci trasporta tutti in una realtà simile a quella dei fumetti, dove "non sempre vincono i più grandi", grossi, ricchi e potenti. "La Croix" paragona addirittura l'epopea del Leicester a quella del re Riccardo III, e fa notare la curiosa coincidenza secondo cui la squadra ha cominciato a vincere dopo che le ossa del re inglese sono state ritrovate a Leicester e inumate solennemente nella cattedrale locale nel 2015.
Per capire che si tratta di una delle maggiori sorprese nella storia dello sport basta rivolgersi ai professionisti meno disinteressati fra quelli che circondano il calcio, gli allibratori di Londra. L'estate scorsa davano la possibilità che il Leicester vincesse il campionato cinquemila a uno. In altre parole, puntando venti euro ora se ne sarebbero vinti centomila.
La vittoria nel campionato di basket americano delle squadre peggiori è data dagli stessi allibratori cento a uno. Che San Marino, una nazionale che perde quasi tutte le partite che gioca, si qualificasse alla fase finale dei campionati europei di calcio era dato cinquecento a uno: un evento pur sempre considerato dieci volte più probabile della vittoria del Leicester. Lo scudetto del Frosinone in Italia era dato dai bookmaker per meno probabile, mille a uno, ma sempre cinque volte meno assurdo del successo del Leicester in Inghilterra.
I solerti cronisti di "Bloomberg" hanno dovuto penare per trovare un evento su cui scommettere cinquemila a uno a Londra. Alla fine l'hanno trovato, e c'entra la religione: è la possibilità che il cantante irlandese Bono, noto per le sue campagne contro la povertà in Africa, sia il prossimo papa della Chiesa cattolica dopo Francesco. Assicurano che non si tratta di uno scherzo. Semplicemente, cinquemila a uno designa un evento che per gli allibratori è tecnicamente impossibile.
Qualche volta, però, l'impossibile succede. Sfogliando la stampa internazionale, ci sono diverse spiegazioni del miracolo Leicester, un evento talmente sorprendente ed epocale che dovrebbe interessare anche coloro che considerano il calcio solo un fastidio.
Una spiegazione, prediletta dalla stampa americana che sa poco di calcio e ripresa dalla stampa cattolica e protestante locale che esalta volentieri frugalità e buona amministrazione, è economica.
Il Leicester ha un budget di trenta milioni di sterline, le grandi del campionato inglese – Manchester United, Manchester City, Chelsea, Arsenal, Liverpool – di più di trecento. Sembra un confronto impossibile. Ma il Leicester, anziché spendere in ingaggi di campioni già famosi, ha deciso d'investire i suoi trenta milioni privilegiando due aree.
La prima è quella degli osservatori, che girano il mondo cercando giocatori poco conosciuti ma bravi, da ingaggiare a prezzi contenuti. Il Leicester, spiegano negli USA, spende in osservatori più del Manchester United e del Barcellona, ed ė andato a pescare nelle serie B europee talenti sconosciuti che poi sono esplosi. Se lo può permettere, perché un osservatore, per quanto bravissimo, ha uno stipendio che è pari a un centesimo di quello di un grande campione o di un allenatore stellare.
La seconda area dove il Leicester spende è quella dello staff e dei controlli medici. Il calcio oggi è condizionato dagli infortuni frequenti. Serve a poco avere i campioni, se sono spesso infortunati. Il Leicester è la squadra del campionato inglese che ha avuto meno infortuni in questa stagione. Certo, non partecipa alle coppe europee e quindi i suoi giocatori giocano un numero di minuti inferiore. Ma c'entra anche il forte investimento sullo staff medico e la prevenzione.
La stampa cattolica naturalmente sottolinea di più altri aspetti. Leggiamo così che nello sport come nella vita conta il talento, ma contano ancora di più la tenacia e la determinazione. Molti campioni ultra-ricchi sono svogliati. L'allenatore Ranieri avrà meno scienza calcistica di altri più celebrati colleghi, ma – un po' come il suo grintosissimo collega Simeone dell'Atletico Madrid – si è rivelato un motivatore eccezionale, capace di infondere ai suoi una determinazione agonistica straordinaria.
Come sociologo delle religioni, le reazioni alla favola Leicester della stampa cattolica mi inducono però a un'altra riflessione. Il Leicester è stato spinto da una simpatia prima inglese e poi planetaria, e la sensazione di poter realizzare un sogno a beneficio di tutto il mondo ha motivato i giocatori – e la città intera che li ha sostenuti – non meno dei proclami del bravo Ranieri.
Nel 1970 un sociologo marxista puro e duro, Gerhard Vinnai, pubblicò "Il calcio come ideologia". Il libro rappresentò a lungo l'ortodossia marxista in tema di gioco del calcio, anche se in Italia fu stroncato persino dal "Manifesto", i cui redattori da bravi italiani volevano continuare a tifare per le loro squadre senza sentirsi cattivi comunisti.
In breve, Vinnai sosteneva che la funzione di "oppio del popolo", che Marx attribuiva alla religione, con il declino della fede cristiana era ormai passata al calcio. Marx criticava la religione perché proponeva ai lavoratori un mondo fantastico dove i buoni vincono e vanno in Paradiso e i cattivi perdono e vanno all'Inferno. Nella vita reale – pensava Marx – succede il contrario, e la religione è un oppio perché, anziché spingere i lavoratori a cambiare il mondo con la rivoluzione, li fa vivere in un mondo di sogno esattamente come le droghe.
Oggi, sosteneva Vinnai, la religione ha perso colpi ma la stessa funzione è esercitata dal calcio. Il calcio fa credere ai lavoratori che esista un mondo illusorio dove vince chi lo merita e non chi i poteri forti del capitalismo hanno deciso che debba vincere. Questo mondo ideale non esiste, forse neppure nel calcio stesso, ma intanto i lavoratori vanno allo stadio anziché in piazza a fare la rivoluzione.
Vinnai, naturalmente, sosteneva un certo numero di sciocchezze, dimenticando per esempio che anche l'Unione Sovietica sfruttava i successi nel calcio per tenere buone le masse affamate. Tuttavia, una sua tesi merita una riflessione e aiuta a capire perché anche la stampa cattolica si è trasformata in tifosa del Leicester.
Il calcio in genere piace perché mostra che i poteri forti possono essere sconfitti. Può capitare – anzi, purtroppo per noi è capitato – che lo Zambia o la Corea del Nord buttino fuori dalle Olimpiadi o dai mondiali di calcio l'Italia, una nazionale che ha vinto quattro titoli mondiali. O che il Leicester vinca lo scudetto inglese. E il Leicester piace a tanti, cattolici compresi, precisamente perché realizza il desiderio inconfessato di molti milioni di persone: che i poteri forti, nonostante le immense risorse di cui dispongono, qualche volta perdano.
Può succedere nel calcio. Ma anche in altri settori della vita. Per questo, tanti cattolici si sono scoperti tifosi del Leicester.
Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una lezione sul Padre nostro tenuta da suor Fulvia Sieni, agostiniana del monastero dei Santi Quattro Coronati, il 12/4/2016. Per altri file audio vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti, cfr. la sezione Preghiere, proposte di lettura e canti.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
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Riprendiamo sul nostro sito i file audio dell'incontro tenutosi presso la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini in Roma, il 20/2/2016, per il corso della storia della Chiesa di Roma. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.
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Annunziare la Confessione. File audio di una relazione di Andrea Lonardo
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Spiegazione della basilica di San Giovanni dei Fiorentini. File audio della visita guidata da Livia Mugavero
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Educare alla confessione (presso San Giovanni dei Fiorentini)
Andrea Lonardo www.gliscritti.it Canale YouTube Catechisti Roma www.giubileovirtualtour.it
Appuntamenti
- Sabato 16 aprile, Santa Sofia a via Boccea
Le cappellanie degli stranieri e l’educazione all’accoglienza degli immigrati tramite l’Iniziazione cristiana
- Casa della Parola con Bruna Costacurta e Innocenzo Gargano
Venerdì 26 febbraio dalle 18.00 alle 20.00 primo incontro del nuovo ciclo di lezioni dal titolo: “Genesi: i Patriarchi”. Iscrizioni presso le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida (via di Santa Maria in Cosmedin 5). Per informazioni ulteriori potete contattare l’Ufficio catechistico (06.69886301).
- sere dei lunedì 9, 16, 23 maggio Guardini, Chesterton, Manzoni
- forse ad agosto viaggio di studio in Armenia
1/ Perché in questo luogo: San Filippo Neri
- alcuni discepoli di Filippo Neri, divenuti sacerdoti, andarono ad abitare a San Giovanni dei Fiorentini, di cui P. Filippo aveva dovuto accettare la Rettoria nel 1564 per le pressioni dei suoi connazionali sostenuti dal Papa (precedentemente era stato papa Leone X a volere la chiesa). E qui iniziò tra i discepoli di Filippo quella semplice vita famigliare, retta da poche regole essenziali, che fu la culla della futura Congregazione.
Nel 1575 Papa Gregorio XIII affidò a Filippo ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa di S. Maria in Vallicella, a due passi da San Girolamo e da San Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla "Copiosus in misericordia Deus" la "Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda". Filippo, che continuò a vivere nell'amata cameretta di San Girolamo fino al 1583, e che si trasferì, solo per obbedienza al Papa, nella nuova residenza dei suoi preti, si diede con tutto l'impegno a ricostruire in dimensioni grandiose ed in bellezza la piccola chiesa della Vallicella.
- l’oratoriano deve morire su uno di questi tre legni: l’altare, il confessionale, la sedia dell’oratorio
da Antonio Cistellini, “San Filippo Neri” l’Oratorio e la congregazione oratoriana
Diversamente da quanto si è potuto credere, l’Oratorio si configurò fin da principio, e sempre più in seguito, come un’istituzione per adulti, o quanto meno per giovani uomini non più adolescenti. Basta osservare, per convincersi, quello che si leggeva all’Oratorio, i discorsi che si tenevano, gli argomenti dei sermoni. E anche i padri della Congregazione, impiegati come per loro primo compito all’Oratorio, rivolgeranno le loro attività indistintamente ad ogni categoria di persone di tutte le età.
da Antonio Cistellini
“Egli indirizzava, sì, i suoi all’azione caritativa, e la visita agli ospedali rimarrà una pratica sempre in osservanza, fra i sodali laici dell’Oratorio; tuttavia l’esercizio delle opere di misericordia corporale non viene considerato come un diretto obiettivo della sua istituzione, bensì come una necessaria conseguenza di una coerente professione cristiana”.
da San Filippo Neri
Io Filippo Neri sopraintendente affermo non solo quanto di sopra, ma è molto più bisognerà crescere nelle spese, accrescendo il popolo e la divotione (lettera nell'Archivio di San Giovanni dei Fiorentini con cui Filippo chiede più soldi alla “nazione fiorentina”).
Non giudico atto a questo offitio il p. Giovanni Francesco Bordini, quale, se bene ha di molte belle parti e virtù, che ne deve rendere gratie a Nostro Signore Iddio, l'ho trovato sempre duro et di proprio parere, monstratolo in particolare nel volere vencere di comprare le case delle monache contro mio volere et senza necessità; il che, oltra al havere comprato case vecchie et muraglie fracide…
(inoltre a San Giovanni dei Fiorentini) si stava colle porte aperte, de sorte che la chiesa era impraticabile et a forestieri et a noi di casa, pel freddo grande et vento che entrava per tutto. Si che, non havendo imparato, tra l'altre virtù ch'ha, d'obedire et de credere troppo al suo parere et giudicio, non è atto a comandare né governare…
Né meno reputo atto a questo governo il p. Antonio Talpa, che anco egli è troppo affetionato alle sue opinioni, senza cedere all'altrui quantunche migliore siano: come mostrò per voler fare un disegno de cavar acqua, quando si incomenzò a fabricare, nel che nacque et spesa et inconvenienti in casa… (dalle Disposizioni del 1585, quando era stata da poco annessa l'Abbazia di San Giovanni in Venere e si stava per aprire la filiale di Napoli)
È proverbiale l' episodio nel quale una madre porta a San Filippo Neri la figlia che afferma di vedere i santi e la Madonna; San Filippo la guarda negli occhi ed esclama: “Che si sposi!”
2/ Un annuncio: la grandezza del tema morale, la vita in Cristo
- lo vedi nel desiderio di un amico che sia sincero
- lo vedi nel fastidio per qualcuno che fa qualcosa contro di te e tu esclami: “non è giusto”
- lo vedi nel desiderio di essere sincero
Lewis C.S., Il Cristianesimo così com’è, Adelphi Edizioni, Milano 1997, pp. 25-26
A tutti è accaduto di sentire due persone che litigano. L'effetto a volte è un po' comico, a volte soltanto sgradevole; ma a parte l'effetto, credo ci sia molto da imparare ascoltando ciò che dicono queste persone. Dicono, per esempio: «Ti piacerebbe che qualcuno facesse lo stesso a te?»; «Questo è il mio posto, sono arrivato prima io -: «Lascialo in pace, non ti fa niente di male»; «Perché dovresti passarmi avanti?»; «Dammi uno spicchio della tua arancia, io ti ho dato uno spicchio della mia»; «Su, hai promesso»... La gente - persone colte e incolte, bambini e adulti - dice cose del genere ogni giorno.
Ora, ciò che mi interessa in queste frasi è che chi le usa non dice soltanto che il comportamento dell'altro non gli piace, ma si richiama a certe norme di comportamento di cui presume che anche l'altro sia a conoscenza. Ed è molto raro che questi ribatta: «Al diavolo le tue norme». Quasi sempre cerca di dimostrare che quanto ha fatto non è in realtà contrario alle norme, o se lo è, lo è per un motivo particolare. Sostiene che vi è una buona ragione, in quel caso specifico, perché la persona che ha preso il posto per prima non debba tenerselo; o che la situazione era tutt'altra quando gli è stato dato lo spicchio d'arancia; o che un evento imprevisto lo esime dal mantenere la promessa. Si direbbe, insomma, che entrambe le parti abbiano in mente una sorta di legge o regola di correttezza, di buon comportamento, di morale, o chiamatela come vi pare, sulla quale in realtà sono d'accordo. E così è, in effetti. Se non avessero in mente qualcosa del genere, due persone potrebbero azzuffarsi come animali, ma non litigare nel senso umano del termine. Litigare vuol dire tentare di dimostrare che il tuo avversario ha torto. E il tentativo non avrebbe senso se fra te e lui non esistesse un qualche genere di accordo su che cosa è ragione e torto, giusto e ingiusto; così come non avrebbe senso dire che un calciatore ha commesso un fallo se non ci fosse accordo sulle regole del calcio.
Tale legge o regola del Giusto e dell'Ingiusto si chiamava una volta «legge naturale». Oggi quando parliamo di «leggi naturali» intendiamo di solito cose come la gravitazione, l'ereditarietà, i princìpi della chimica. I pensatori di un tempo, invece, definendo «legge naturale» la legge del giusto e dell'ingiusto, intendevano in realtà la «legge della natura umana». Volevano dire, cioè, che così come tutti i corpi sono soggetti alla legge di gravitazione, e gli organismi alle leggi biologiche, la creatura chiamata uomo ha anch'essa la sua legge. Con questa grande differenza: che un corpo non può scegliere se obbedire o no alla legge di gravitazione, mentre un uomo può scegliere tra obbedire e disobbedire alla legge della natura umana.
- un prete: mi sono accorto che non posso parlare dei 10 comandamenti se prima non parlo del bene e del male
- i bambini non sono per niente totalmente innocenti, totalmente buoni
- non banalizzare da parte di nessuno, nemmeno da parte dei sacerdoti
Da Tipicità evolutive nel bambino fra i 6 ed i 10 anni di età, di Giampaolo Nicolais (on-line su www.gliscritti.it )
È necessario innanzitutto premettere come nel corso degli ultimi 30 anni la psicologia dello sviluppo abbia profondamente modificato l’immagine del bambino e la mappa delle sue competenze nelle diverse fasi di sviluppo.
Grazie ad importanti studi soprattutto di natura longitudinale ma al contempo accogliendo ed integrando apporti e dati di ricerca da discipline affini (dalle neuroscienze alla psicoanalisi relazionale), ciò che noi oggi sappiamo della psicologia dello sviluppo è per alcuni versi sorprendentemente diverso da ciò che sapevamo qualche decennio fa…
Se… centriamo il nostro interesse sulle peculiarità della fascia di sviluppo 0-6, non vi è dubbio che qui la “novità” emergente dalla riscrittura delle mappe evolutive cui stiamo facendo riferimento sia relativa allo sviluppo morale.
Per Piaget, il bambino prescolare è un “essere premorale”. Dai 5 ai 9 anni sviluppa un “realismo morale” che è espressione diretta delle aumentate capacità cognitive del bambino (e quindi, ad esempio, un danno è grave tanto quanto determina conseguenze osservabili gravi. La sua valutazione è sganciata dall’intenzionalità di chi compie il danno stesso).
Freud fa coincidere l’abbozzo di uno sviluppo morale con la formazione del Super-Io, terza istanza psichica che si affianca all’Io e all’Es e che promana dall’interiorizzazione dei divieti genitoriali legati alla fase edipica. Attorno ai 3-4 anni, cioè, un “proto” senso morale del bambino si fa strada attraverso la progressiva accettazione di dover rinunciare all’esclusività del rapporto a due aprendosi alla triangolarità relazionale.
Questa enfasi sulla dimensione affettivo-emotiva della norma, in Freud legata alla dimensione del divieto e dell’interdizione, trova nella teoria dell’attaccamento una piena articolazione, con importanti indicazioni per il nostro discorso.
In breve: la teoria dell’attaccamento ci spiega come ciascuno di noi nasca biologicamente pre-programmato alla ricerca della vicinanza di un caregiver adulto che offra protezione e vicinanza fisica nei momenti di paura/stress/difficoltà. Tale disposizione, ereditata in termini evoluzionistici dai nostri progenitori che hanno sviluppato questo “comportamento di ricerca della base sicura” al fine di minimizzare la predazione dei piccoli da parte di altre specie, negli esseri umani ha implicazioni psicologiche formidabili.
Dalla nascita, infatti, il piccolo ricerca il caregiver per il drive biologico della protezione dalla difficoltà (in maniera prevalente la madre, anche se fin dall’inizio abbiamo diverse “figure di attaccamento”) e in questa dinamica ora sappiamo hanno luogo delicati processi di regolazione (assieme fisiologica ed emotiva) che costituiscono la base del “senso di sé” del bambino. La sua identità, così, è fin dall’inizio una “identità relazionale”.
In questo quadro, lo sviluppo morale ha avvio fin dalle primissime fasi dello sviluppo. Se, infatti, il comportamento morale è possibile dal momento in cui “standard interni” regolano aspetti del comportamento in assenza dell’adulto, essendo precoce l’avvio del loro processo di internalizzazione attraverso il rapporto diadico e la competenza interpersonale del bambino ne avremo evidenza già nel primo anno.
Ad esempio, è dimostrato che già tra i 7 e i 12 mesi sono osservabili precursori di questa internalizzazione (Emde): la compliance alle richieste del caregiver; l’inibizione di comportamenti precedentemente proibiti dal caregiver.
A 18 mesi (Kagan) il bambino si mostra consapevole degli standard ed aspettative altrui, come è evidente dalle sue reazioni emotive di fronte a degli oggetti di uso comune che vengono rotti in sua presenza. Sempre in questo periodo, l’uso semantico del “no” e la concettualizzazione di sé come “buono” o “cattivo” sono ulteriori indicatori.
Nel terzo anno l’interesse per sé comincia ad essere sistematicamente negoziato all’interno del contesto familiare e delle altre relazioni interpersonali, alternandosi alla propensione al comportamento di cooperazione. Assistiamo a vere e proprie “negoziazioni” che recano con sé tensioni conflittuali e veri e propri dilemmi morali.
I dati osservativi, perciò, ci confermano che prima dei 3 anni è già avviato e consistente lo sviluppo morale del bambino. A 3 anni i bambini sono in grado di rappresentare mentalmente e narrare tematiche di empatia, reciprocità, rispetto delle regole. Inoltre, se posti di fronte a dilemmi morali sono in grado di valutare e scegliere tra alternative di scelte prosociali.
Alla luce di una lettura derivata dalle processualità di sviluppo descritte nell’ambito della teoria dell’attaccamento, la propensione alla internalizzazione morale è biologicamente caratterizzata. Peraltro a questa acquisizione evolutiva concorrono anche fattori temperamentali specifici (si pensi all’importanza dei tratti caratteriali introversione/estroversione nel direzionare l’investimento ed il riconoscimento affettivo sull’altro).
È certo, e per chiunque facilmente evidente, che tale tensione richiede facilitazione e direzione all’interno della dinamica di rapporto con il/i caregiver/s. Si pensi al comportamento empatico, largamente influenzato dalla mediazione che l’adulto opera nel descrivere al bambino le proprie e altrui emozioni, rendendole via via comprensibili e confrontabili con le sue proprie.
Scrive Benedetto XVI nella Sua Lettera alla Diocesi sul compito urgente dell’educazione: «Già in un piccolo bambino c’è inoltre un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domande riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita».
Ho provato ad indicare come questo “desiderio di sapere e capire” che Benedetto XVI così bene descrive nel bambino piccolo sia scientificamente descritto e dimostrato fin dal periodo prescolare. Come, quindi, possa essere gravemente riduttivo puntare, nel momento della scolarizzazione, ad un progetto educativo unicamente ancorato alla dimensione classica della “performance cognitiva”. Come, in sintesi, sia la natura stessa del bambino, con la sua precoce capacità di lettura e considerazione morale, ad esigere un’educazione all’altezza: il consolidamento dello sviluppo morale nel bambino è possibile laddove la relazione educativa significativa lo sostanzia ed indirizza.
3/ L’annuncio: comprendere il senso del peccato dinanzi alla misericordia
Da Bellezza: quando Dio «seduce», di Alessandro D’Avenia
Ci innamoriamo e amiamo solo per la bellezza. Nessuno di noi ha desiderato avvicinarsi e conoscere qualcosa o qualcuno senza esserne prima sedotto. Questo principio di attrazione ha il suo fondamento ultimo qui: «Nessuno viene a me se non lo attrae il Padre». Tutte le volte che nell’ambito naturale (la grazia delle cose) o soprannaturale (la Grazia, dono di Dio a partecipare alla sua vita) la bellezza ci mette in movimento, sperimentiamo l’attrazione dell’Amore che ci trasforma, cioè vuole darci la sua forma, la sua essenza, per farsi tutto in tutti, pur mantenendo ciascuno la sua irripetibile identità.
Questa attrazione che Agostino chiamava delectatio victrix (piacere che avvince), in Dante è il movimento «amoroso» che Dio imprime alla creazione: «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove», in cui «il più e il meno» non indica solo l’oggettiva scala di perfezione dell’essere delle creature, ma anche la loro risposta soggettiva. La gloria è lo stabile e progressivo manifestarsi e comunicarsi della bontà di Dio nel mondo e nella storia, si mostra come bellezza e si dà quasi senza ostacoli negli esseri privi di libertà (per questo a volte preferiamo cani gatti mari e boschi agli umani), mentre è più o meno o affatto rallentata dalla resistenza delle creature dotate di libertà (in questo senso il massimo del progresso è stato raggiunto una volta per tutte con Cristo)…
Quando l’azione beatificante (capace di rendere felici), che attira cose e persone verso il loro pieno e duraturo compimento di bellezza, trova un ostacolo, questa gloria non si irrigidisce ma diventa anzi resiliente e prende il nome di misericordia e, lasciandosi ferire, diventa limite imposto al male della e nella storia. Quando l’ostacolo del male si erge contro la gloria di Dio, trionfo di bellezza a cui ogni cosa e persona è chiamata, l’azione «attraente» di Dio si piega in forma di misericordia (Cristo si china sulla donna che tutti volevano lapidare) sul cuore duro e cerca di sedurlo, a volte con forza a volte con delicatezza, verso un bene più grande e misterioso, nel tempo e nello spazio che si renderanno necessari.
La misericordia accetta il rallentamento della gloria che si dispiegherebbe altrimenti al ritmo divino («Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto!»), ma proprio questo inciampo fa emergere un volto della gloria spiazzante per i canoni umani
Da papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia
Posso leggere la mia vita attraverso il capitolo 16 del Libro del profeta Ezechiele. Leggo quelle pagine e dico: ma tutto questo sembra scritto per me! Il profeta parla della vergogna, e la vergogna è una grazia: quando uno sente la misericordia di Dio, ha una grande vergogna di se stesso, del proprio peccato. C’è un bel saggio di un grande studioso della spiritualità, padre Gaston Fessard, dedicato alla vergogna, nel suo libro La Dialectique des “Exercises spirituels” de S. Ignace de Loyola. La vergogna è una delle grazie che sant’Ignazio fa chiedere nella confessione dei peccati davanti al Cristo crocifisso. Quel testo di Ezechiele insegna a vergognarti, fa sì che tu ti possa vergognare: con tutta la tua storia di miseria e di peccato, Dio ti rimane fedele e ti innalza. Io sento questo. Non ho ricordi particolari di quando ero bambino. Ma da ragazzo sì. Penso a padre Carlos Duarte Ibarra, il confessore che incontrai nella mia parrocchia quel 21 settembre 1953, nel giorno in cui la Chiesa celebra san Matteo apostolo ed evangelista. Avevo 17 anni. Mi sentii accolto dalla misericordia di Dio confessandomi da lui. Quel sacerdote era originario di Corrientes, ma si trovava a Buenos Aires per curarsi dalla leucemia. Morì l’anno seguente. Ricordo ancora che dopo il suo funerale e la sua sepoltura, tornato a casa, mi sono sentito come se fossi rimasto abbandonato. E ho pianto tanto quella sera, tanto, nascosto nella mia stanza. Perché? Perché avevo perso una persona che mi faceva sentire la misericordia di Dio, quel «miserando atque eligendo», un’espressione che allora non conoscevo e che poi ho scelto come motto episcopale. L’avrei ritrovata in seguito, nelle omelie del monaco inglese san Beda il Venerabile, il quale descrivendo la vocazione di Matteo scrive: «Gesù vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: “Seguimi”».
Questa è la traduzione che comunemente viene offerta dell’espressione di san Beda. A me piace tradurre miserando, con un gerundio che non esiste, “misericordiando”, donandogli misericordia. Dunque «misericordiandolo e scegliendolo», per descrivere lo sguardo di Gesù che dona misericordia e sceglie, prende con sé.
Da papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia
Il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio. L’ho detto sinceramente, anche di fronte ai carcerati di Palmasola, in Bolivia, davanti a quegli uomini e a quelle donne che mi hanno accolto con tanto calore. A loro ho ricordato che anche san Pietro e san Paolo erano stati carcerati. Ho un rapporto speciale con coloro che vivono in prigione, privati della loro libertà. Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. Così mi ritrovo a ripetere e a pregare: perché lui e non io? Può scandalizzare questo, ma mi consolo con Pietro: aveva rinnegato Gesù e nonostante questo è stato scelto. [...]
Ho letto nella documentazione del processo di beatificazione di Paolo VI la testimonianza di uno dei suoi segretari, al quale il Papa [...] aveva confidato: «Per me è sempre stato un grande mistero di Dio, che io mi trovo nella mia miseria e mi trovo davanti alla misericordia di Dio. Io sono niente, sono misero. Dio Padre mi vuole molto bene, mi vuole salvare, mi vuole togliere da questa miseria in cui mi trovo, ma io sono incapace di fare questo da me stesso. Allora manda il suo Figlio, un Figlio che porta proprio la misericordia di Dio tradotta in un atto d’amore verso di me… Ma ci vuole per questo una speciale grazia, la grazia di una conversione. Io devo riconoscere l’azione di Dio Padre nel suo Figlio verso di me. Una volta che io ho riconosciuto questo, Dio opera in me tramite suo Figlio».
È una sintesi bellissima del messaggio cristiano. E che dire dell’omelia con cui Albino Luciani iniziava il suo episcopato a Vittorio Veneto, dicendo che la scelta era ricaduta su di lui perché certe cose, invece di scriverle sul bronzo o sul marmo, il Signore preferiva scriverle sulla polvere: così, se la scrittura fosse restata, sarebbe stato chiaro che il merito era tutto e solo di Dio. Lui, il vescovo, il futuro papa Giovanni Paolo I, si definiva «la polvere». Devo dire che quando parlo di questo, penso sempre a ciò che Pietro ha detto a Gesù la domenica della sua resurrezione, quando lo ha incontrato da solo. Un incontro a cui accenna l’evangelista Luca (24,34). Che cosa avrà detto Simone al Messia appena risorto dal sepolcro? Gli avrà detto che si sentiva un peccatore? Avrà pensato al rinnegamento, a quanto accaduto pochi giorni prima, quando per tre volte aveva finto di non conoscerlo, nel cortile della casa del Sommo Sacerdote. Avrà pensato al suo pianto amaro e pubblico.
Se Pietro ha fatto questo, e se i Vangeli ci descrivono il suo peccato, il suo rinnegamento, e se nonostante tutto ciò Gesù gli ha detto «Pasci le mie pecorelle» (Vangelo di Giovanni 21, 16), non credo che ci si debba meravigliare se anche i suoi successori descrivono se stessi come “peccatori”. Non è una novità.
- Follia del nostro tempo: non esiste il peccato, non c’è colpa
- Questione della psicoanalisi e della psicologia
- il peccato che dipende dalle strutture?
- René Girard: il problema dell’espiazione e del sacrificio… è la violenza il grande problema della cultura… come arrestarla? Ecco l’invenzione pre-cristiana del sacrificio (che però perpetua la violenza)…
Da La sovversione evangelica del mito, di René Girard (su www.gliscritti.it )
Ora, leggiamo un'altra maledizione che evoca la dinamica che abbiamo individuato: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: "Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti". Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri» (Mt 23,29-32).
I farisei non negano che gli omicidi dei profeti abbiano avuto luogo. Lungi dall'approvarli o ignorarli, li condannano severamente. Vogliono dissociarsi dai loro antenati. Agli occhi di Gesù, tuttavia, non vi riescono. Il comportamento religioso dei farisei perpetua paradossalmente la solidarietà che vorrebbe negare, la solidarietà con l'omicidio dei profeti. L'omicidio dei profeti fu un'azione collettiva e anche il rifiuto arrogante della partecipazione ad esso è un'azione collettiva. «Se fossimo stati vivi al tempo dei nostri padri non avremmo preso parte con loro all'omicidio dei profeti» (Mt 23,30). In altre parole non avremmo ceduto al contagio mimetico della dinamica della vittima collettiva. I farisei rassicurano se stessi del fatto che non sarebbero capaci di un tale atto.
Da Ratzinger J., Dio e il mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 384-385
Mi consenta di citarla: «L'incapacità di riconoscere la propria colpa è la forma più pericolosa di ottundimento psichico che si riesca a immaginare, perché è la sola capace di impedire all'uomo di migliorare».
Si parla molto dei sensi di colpa che il Cristianesimo istilla negli uomini e con cui li vuole tenere sotto pressione. Naturalmente abusi dei sensi di colpa non si possono escludere. Ma è molto più grave lo spegnersi della capacità di percepire la colpa perché indurisce interiormente l'uomo in maniera patologica. Pensiamo al passo successivo di un processo di questo genere: coincide con quanto avvenne in epoca nazista. Si credeva di poter anche assassinare, come diceva Himmler, conservando la propria onorabilità - e ciò ha provocato una devastazione nella coscienza umana e lo stravolgimento di tutta la persona. La capacità di percepire la colpa è sopportabile e si sviluppa solo se esiste un rimedio alla colpa stessa. E questo, a sua volta, dipende dalla possibilità dell'assoluzione. La psicoterapia può far molto nell'individuare e correggere distorsioni nella struttura psichica delle persone ma non può superare la colpa. Allora oltrepassa i propri limiti, e per questo finisce spesso per fallire. Solo il Sacramento può davvero superare la colpa con l'autorità che gli viene da Dio.
Dobbiamo comunque ammettere che nella nostra epoca, così impregnata di individualismo, risulta all'uomo estremamente difficile varcare la soglia della Confessione personale. Ma laddove siamo guidati dallo spirito della fede, possiamo impararlo da capo. Innanzitutto perché non ci viene chiesto di confessare le nostre colpe davanti ad altri uomini ma dinanzi a Dio, e perché questo sforzo viene suggellato dal perdono - e forse anche da indicazioni pratiche che ci aiutano a superare le conseguenze della colpa.
p. 386
Credo che l'aiuto a far esprimere la coscienza sia molto importante. Da questo punto di vista siamo resi insensibili dal peccato originale e tendiamo a voler coprire le nostre colpe con il velo dell'oblio quando ci rapportiamo con il nostro prossimo in maniera in appropriata. Accettiamo la menzogna con facilità, ad esempio. Il nostro grosso pericolo è l'ottundimento della coscienza, che avvilisce l'uomo. Perciò è essenziale educare all'ascolto della voce della propria coscienza. È perciò preciso compito della Chiesa individuare in ogni epoca i peccati più tipici e aiutare la società a evitare in questi essenziali ambiti dell'esistenza umana il rischio dell'ottundimento e della decadenza morale.
Da Ratzinger J.-Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino novembre 2006, pp. 85-89
Al termine del Sinodo dei vescovi dedicato al tema della famiglia, trovandoci a riflettere in un gruppo ristretto sui possibili temi del Sinodo successivo, la nostra attenzione fu richiamata dalle parole con le quali Gesù, all'inizio del Vangelo di Marco, riassume l'intero suo messaggio: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto: convertitevi e credete al Vangelo». Allora uno dei vescovi si fece pensieroso e disse a proposito di tali parole: «Ho l'impressione che da tempo abbiamo addirittura dimezzato il messaggio di Gesù qui riassunto». Parliamo tanto e facilmente di evangelizzazione e di lieta novella. per rendere il cristianesimo attraente agli uomini. Ma quasi nessuno, a giudizio di quel vescovo, ha ancora il coraggio di proclamare il messaggio profetico: convertitevi! Quasi nessuno osa più ripetere al nostro tempo questo invito elementare del Vangelo, con cui il Signore intende dirci che ognuno deve riconoscersi personalmente peccatore e colpevole, fare penitenza e divenire un altro. E aggiunse: «L'odierna predicazione cristiana mi sembra la registrazione di una sinfonia, cui è stata tagliata la parte iniziale con il primo tema fondamentale, sicché tutta la sinfonia risulta amputata e il suo andamento incomprensibile».
Con queste parole il vescovo aveva effettivamente toccato un punto dolente dell'attuale situazione storico-culturale. Il tema del peccato è uno dei temi su cui oggi regna un perfetto silenzio. La predicazione religiosa cerca di evitarlo accuratamente. Il teatro e la cinematografia utilizzano il termine in senso ironico o come tema di intrattenimento. La sociologia e la psicologia cercano di smascherarlo come un'illusione o un complesso. Persino il diritto tenta di fare sempre più a meno della nozione di colpa e preferisce servirsi di una terminologia sociologica, che riduce l'idea del bene e del male a un dato statistico e si limita a distinguere tra comportamento normale e comportamento deviante. Ciò implica che le proporzioni statistiche possono anche capovolgersi: quel che oggi è la deviazione può un giorno diventare la regola, anzi, forse bisogna addirittura tendere a fare della deviazione la norma. Riducendo così tutto alla quantità, la nozione di moralità scompare. Ciò è logico, se per l'uomo non esiste alcuna misura a lui preesistente, una misura non escogitata da noi, bensì derivante dalla bontà intrinseca del creato.
In questo modo siamo già arrivati al nucleo vero e proprio di questo procedimento. L'uomo odierno non conosce alcuna misura, non vuole riconoscerne alcuna, perché vede in essa una minaccia alla propria libertà. Al riguardo si potrebbero citare le parole dell'ebrea francese Simone Weil che una volta disse: «Facciamo l'esperienza del bene solo quando lo compiamo [...]. Quando invece facciamo il male, non lo conosciamo, perché il male aborre la luce». Riconosciamo il bene solo se lo facciamo. Riconosciamo il male solo se lo evitiamo.
Così il tema del peccato è diventato un tema rimosso, ma dall'altro lato vediamo che esso è appunto solo rimosso, mentre in realtà è rimasto. Indicativa al riguardo mi sembra l'aggressività sempre pronta a scattare che sperimentiamo in maniera crescente nella nostra società, la prontezza impaziente a denigrare l'altro, a riconoscerlo colpevole della propria sventura, a bollare d'infamia la società e a voler cambiare con la violenza il mondo. Mi sembra che tutto questo possa essere capito solo come espressione della verità rimossa della colpa, di cui l'uomo non vuole prendere atto. Ma poiché essa esiste, ecco che egli si vede costretto ad attaccarla e calpestarla. E poiché l'uomo può sì rimuovere la verità ma non eliminarla ed egli si ammala per la verità rimossa, ecco allora il che uno dei compiti dello Spirito Santo consiste nel convincere «il mondo quanto al peccato» (Gv 16,8). Non si tratta di guastare la vita agli uomini, di comprimerli con divieti e negazioni. Si tratta semplicemente di guidarli alla verità e così guarirli. L'uomo può divenire sano solo se diviene vero, se smette di rimuovere la verità e di calpestarla. Il terzo capitolo del libro della Genesi… è un frammento di questa azione dello Spirito Santo che permea la storia. Egli convince il mondo e noi di peccato non per umiliarci, ma per renderci veri e sani, per «redimerci».
pp. 91-92
Alla luce della tentazione d'Israele, la Sacra Scrittura presenta la tentazione di Adamo come l'essenza della tentazione e del peccato di tutti i tempi. La tentazione non comincia con la negazione di Dio, con la caduta nell'ateismo dichiarato. Il serpente non nega Dio; comincia piuttosto con una domanda apparentemente del tutto ragionevole, che però contiene una insinuazione, trascina l'uomo in tale insinuazione e lo fa passare dalla fiducia alla diffidenza: «È vero che non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». All'inizio non c'è la negazione di Dio, bensì il sospetto sulla sua alleanza, sulla comunione di fede, di preghiera e dei comandamenti, in cui viviamo in virtù del Dio dell'alleanza. Quando cominciamo a sospettare dell'alleanza, infatti, scopriamo tante intuizioni che suscitano la diffidenza, sollecitano la libertà e denunciano così l'obbedienza dell'alleanza come una catena che ci tiene lontani dalle autentiche promesse della vita. È così facile convincere l'uomo che questa alleanza non è un dono, bensì l'espressione di un'invidia nei suoi confronti, che l'alleanza lo priva della sua libertà e delle cose più preziose della vita. Tale sospetto sull'alleanza spinge poi l'uomo a fabbricarsi da solo il suo mondo. In altre parole: esso propone all'uomo di non accettare i limiti del proprio essere, di non considerare i limiti del bene e del male, i limiti della moralità in generale, bensì di potersene e doversene semplicemente liberare ignorandoli.
pp. 102-103
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).
Limitiamoci alla sua connessione con la storia della caduta nel peccato, cui chiaramente allude, anche se sembra aver avuto sotto gli occhi una versione un po' diversa da quella riportata in Genesi 3 (cfr. ad esempio Gb 15,8). Gesù Cristo percorre in senso inverso il cammino di Adamo. Diversamente da questi egli è veramente come Dio». Ma questo essere come Dio, questa uguaglianza con Dio, è essere-Figlio e quindi totalmente relazione. «Il Figlio non fa nulla da sé stesso». Per questo colui che è realmente uguale a Dio non si aggrappa alla propria autonomia, alla illimitatezza del proprio potere e volere. Egli percorre la via inversa: diventa il totalmente dipendente, diventa il servo. Percorrendo non la via del potere, ma la via dell'amore egli può ora discendere fin nella menzogna di Adamo, fin nella morte e stabilire là la verità, dare la vita. Così Cristo diventa il nuovo Adamo, con cui ha inizio la nuova umanità. Egli, che è radicalmente relazione e rapporto - il Figlio -, rimette in ordine le relazioni. Le sue braccia spalancate sono la relazione aperta, che sta sempre a nostra disposizione. La croce, il luogo della sua obbedienza, diventa così il vero albero della vita. Cristo diventa la figura opposta al serpente, come Giovanni afferma nel suo Vangelo (Gv 3,14). Da questo albero non discende la parola della seduzione, bensì la parola dell'amore redentore, la parola dell'obbedienza, in cui Dio stesso è divenuto obbediente e ci offre la sua obbedienza come spazio della libertà. La croce è l'albero della vita divenuto nuovamente accessibile. Con la passione Cristo ha messo via la spada fiammeggiante, ha attraversato il fuoco ed eretto la croce come il vero asse del mondo, che permette a questo di stare nuovamente in piedi.
- 4 leggi che lavorano nel cuore dell’uomo
- il peccato è dinanzi a Dio, è relazione
- senso della vergogna
Vergognarsi [da Avvenire del 9 settembre 2011] di Gianfranco Ravasi
Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna.
Vae victis!, avrebbe gridato Brenno, capo dei Galli, ai Romani impauriti dopo la sua devastazione di Roma nel 390 a. C., stando almeno alla Storia di Roma di Tito Livio. Che i vinti debbano sempre temere è anche convinzione di quello spirito freddo e pragmatico che è il nostro Machiavelli, che oggi ho voluto presentare in una delle sue frasi lapidarie e realistiche, tratta dalle sue Istorie Fiorentine (1520-25).
Il vincitore ha sempre ragione, potremmo sintetizzare, prescindendo purtroppo da ogni considerazione morale sui mezzi, le forme e il merito stesso della vittoria. L'amoralità del vincere è una convinzione da secoli diffusa, per cui ci si premura subito di aggregarsi alla folla e al carro del vincitore, spesso senza pudore. È, questa, una sorta di legge nella politica, nella guerra, nella carriera e così via, in tutte le occasioni dalle quali emergono nettamente vincitori e vinti.
Ciò che vorrei, però, mettere in luce nella frase di Machiavelli è quel «non riportarne mai vergogna». L'arroganza del vincitore lo rende spudorato, gli cancella il rimorso, gli amputa dal cervello il senso critico. Quella della perdita della vergogna è una delle più truci esperienze dei nostri giorni, un vizio che non è più appannaggio dei vincitori, ma di tutti. Scherzando, lo scrittore russo Anton Cechov parlava di «un bassotto che camminava per la strada e provava vergogna di avere le gambe storte».
Ora, invece, le gambe storte - soprattutto le storture dello spirito - vengono ostentate e diventano materia di spettacoli televisivi. Come, invece, è profondo l'asserto di un altro russo, il pensatore Vladimir S. Solov'ëv: «Provo vergogna, dunque esisto».
da John Henry Newman, Meditazione sullo Spirito Santo, in Meditazione e preghiere, Jaca, Milano, 2002, pp. 96-97
O mio Dio, posso io peccare, quando tu sei così intimamente unito a me? Posso io dimenticare chi è con me, chi è in me? Posso io cacciare un ospite divino per una cosa che egli aborre più di ogni altra, che è l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua? Mio Dio, di fronte al peccato io mi trovo in una doppia sicurezza: innanzi tutto il timore di profanare al tuo cospetto tutto ciò che tu sei per me; quindi la fiducia che questa stessa presenza mi preserverà dal peccato. Mio Dio, se pecco tu ti ritiri da me, e mi abbandoni al mio miserabile io. Voglio fare uso di ciò che mi hai dato, voglio invocarti quando sono provato o tentato. Voglio guardarmi dalla negligenza e dalla non curanza in cui cado di continuo. Con la tua grazia non ti abbandonerò mai.
4/ Un annuncio: Chi è buono? Chi è giusto? Gesù con il suo perdono
- Gesù è la misericordia… certo il cristianesimo è la religione del perdono, ma soprattutto è la religione di Gesù che è il perdono
- con la Confessione sta o cade tutto il Vangelo
Il paralitico calato dal tetto: Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati… chi può rimettere i peccati se non Dio solo… l’adultera perdonata… neanche io ti condanno, va in pace e non peccare più… il padre e i due figli… Cristo che invita i secondogeniti e i primogeniti… Simone debbo dirti una cosa… colui a chi si perdona poco ama poco… Maria Maddalena… la morte in croce… oggi sarai con me in Paradiso
- Lewis: Gesù o un folle megalomane o il Figlio di Dio… la Confessione è una Confessione di fede: Gesù è Dio
- Dio perdona tutto… chiedendo il perdono nel dono dello Spirito possiamo giungere a ciò che desideriamo
Da papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia
La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa, che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18, 22), cioè sempre.
Al figlio maggiore del padre misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.) è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. [...]
Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore.
5/ L’annunzio: nella Confessione la presenza di Cristo che ha operato nell’Incarnazione è viva e attuale (come in tutti i Sacramenti)
Gv 20,22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Mt 18,15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
Mt 16,18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
6/ L’aspetto ecclesiale della Confessione
- il peccato e la grazia sono comuni
7/ Come celebrare (cfr. video n. Comunioni 11)
Cfr. COMUNIONI 11 - PREPARARE I BAMBINI ALLA CONFESSIONE
- hanno paura
- non c’è nessun tipo di peccato che può cambiare il rapporto con il sacerdote: il sacerdote è abituato; i peccati sono sempre gli stessi
- per uno che apre veramente il cuore c’è grande stima
- i luoghi: Confessionale (es. pulirlo)
- la Confessione è breve… il sacerdote prega per te… fare l’esame di coscienza… non è giusto dire che sono come “la lista della spesa”
- vincere laura di non sapere l’atto di dolore
- il valore della penitenza
Da Ratzinger J., Dio e il mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 384-385
Il Sacramento della Penitenza: taluni dicono che mette l'uomo in una situazione intollerabile, istillandogli sostanzialmente solo paura e sensi di colpa. Altri dicono che, se la Confessione non ci fosse, bisognerebbe inventarla.
La Confessione ha indubbiamente subito nel corso della sua storia trasformazioni esteriori maggiori di qualsiasi altro Sacramento. Proprio perché così personale ha dovuto assumere forme diverse, a seconda delle mutevoli costellazioni dell'individualità umana e delle diverse sensibilità culturali per il processo di disvelamento della propria interiorità o di chiusura in se stessi. In seguito al Concilio Vaticano II, si è tentato di individuare nuove possibilità di cui una è, a mio parere, estremamente positiva, e cioè l'esame di coscienza collettivo, che può essere d'aiuto alla Confessione individuale.
La seconda forma è stata la predisposizione di locali appositi dove la Confessione può aver luogo sotto forma di colloquio. Anche questo può costituire un grosso aiuto e contribuire a far aprire le persone, a far loro superare quelle soglie che
costituiscono per tutti un ostacolo alla Confessione. Il rischio intrinseco è d'altro canto una deformazione psicologizzante della Confessione, che mina la sua grandezza autentica. Si è molto diffusa l'assoluzione collettiva, che però non può essere considerata una vera e propria forma della Confessione, la cui essenza è connessa alla personalizzazione, e ha senso e può aver luogo solo in circostanze straordinarie.
8/ Il rapporto fatica/gioia nella Confessione
Leonardo Mondadori, ha scritto: «L’ho già detto ma mi preme ripeterlo: la confessione ben fatta, sincera, completa, è tra le maggiori fonti di gioia che un uomo possa sperimentare. Hai la certezza di essere riaccolto nella casa del Padre: riconciliato con Lui, con te stesso, con gli altri. Anche, forse soprattutto in questo, mi sento profondamente cattolico: non mi basta fare i conti a tu per tu con Dio. Ho bisogno di quello strumento umano, che mi testimonia il perdono e la misericordia divina, che è il sacerdote. Naturalmente è una gioia che nasce dalla sofferenza che costa il mettersi così a nudo, nella propria miseria. Esaminarci sulle nostre colpe, assumercene l’onere, ci aiuta a recuperare quel senso di responsabilità che rischiamo di perdere; ci confronta beneficamente con la verità su noi stessi, senza alibi e senza scuse ideologiche e sociologiche. È stato il realismo cattolico, il suo richiamo alle responsabilità di ognuno, che mi ha aiutato e mi aiuta a stare lontano da ogni vittimismo, da ogni giustificazionismo da sociologo “alla Rousseau” o da psicologo “progressista”, per il quale ogni colpa è della società, dell’educazione, delle circostanze, magari del governo. In ogni caso, degli altri. Non esistono soltanto “problemi” che, per definizione, possono trovare una soluzione, come vorrebbero indurci a credere. Ci sono cose, tante cose - troppe, se guardiamo al nostro desiderio di felicità terrena -, che sono irrimediabili, alle quali non si può sfuggire e che possono essere non solo sopportate ma trasfigurate guardando a quel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini, non è venuto a distruggere la croce ma a prenderla sulle spalle e, alla fine, a stendervisi sopra».
9/ I casi oggi discussi
Il primo libro di Francesco: "Nessun peccato è troppo grande per Dio", di Paolo Rodari, da La Repubblica del 10/1/2016
Bergoglio fa esempi concreti. Tre più di altri sorprendono, perché testimoniano la larghezza d'animo di un pastore che ha fatto sua l'idea che la Chiesa o è "prossima" alla gente - "propter homines" - o non è.
Il primo [N.B de Gli scritti: nel libro è alle pp. 32-33 ]è il racconto di una sua nipote che si è sposata civilmente con un uomo prima che lui potesse avere il processo di nullità matrimoniale. "Quest'uomo era tanto religioso - spiega il Papa - che tutte le domeniche andando a messa andava al confessionale e diceva: "Io so che lei non mi può assolvere, ma ho peccato in questo e quest'altro, mi dia una benedizione". Questo è un uomo religiosamente formato".
Il secondo esempio [N.B de Gli scritti: nel libro è alla p. 75] è un ritorno sulle parole che il Papa disse di ritorno dal viaggio in Brasile nel 2013 a proposito delle persone omosessuali: "Chi sono io per giudicare?". Francesco rivela che gli piace il fatto che "si parli di "persone omosessuali": prima c'è la persona, nella sua interezza e dignità. "E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore. Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnarle".
"La Chiesa non è al mondo per condannare ma per accogliere", dice Francesco. E di ciò si accorse una prostituta di Buenos Aires (terzo esempio [N.B de Gli scritti: nel libro è alla pp. 73-74]). Ricevette dalla Caritas un pacco per Natale. Ringraziò Bergoglio non per il regalo, ma perché, gli disse, "lei non ha mai smesso di chiamarmi "signora"". È la delicatezza di un Papa che vuole prossimità, insistendo su misericordia e tenerezza di Dio, tratti salienti di un magistero che già al Concilio portarono a un nuovo inizio.
10/ Una riprova luterana
Da Bonhoeffer D., La vita comune, Queriniana, Brescia 1969, pp. 138-141
«Confessare le vostre colpe gli uni agli altri» (Giac 5,16). Chi resta solò con il male che è in lui, resta completamente solo. Può accadere che cristiani, nonostante culto comune, preghiera comune e comunione nel servizio, siano lasciati soli, che non riescano a fare l'ultimo passo verso una reale comunione, perché sono, sì, in comunione tra loro come, credenti, come uomini pii, ma non come uomini colpevoli e peccatori. La comunità, perché pia, non permette a nessuno di essere peccatore. Perciò ognuno deve nascondere di fronte a sé stesso ed alla comunità i suoi peccati. Non ci è permesso di essere peccatori. Come inorridirebbero molti cristiani, se scoprissero improvvisamente che un vero peccatore è capitato in mezzo alla gente pia! Perciò restiamo soli con il nostro peccato, nella menzogna e nell'ipocrisia; perché è così: siamo peccatori.
Ma lo dobbiamo alla grazia dell'Evangelo, così difficilmente comprensibile per l'uomo pio, se siamo posti di fronte alla verità e ci sentiamo dire: Sei un peccatore, un grande inguaribile peccatore; e ora vieni, da peccatore quale sei, dal tuo Dio che ti ama, Egli ti vuole così come sei; non vuole da te una qualunque cosa, un sacrificio, un’opera buona, ma vuole solo te. «Figliolo, dammi il tuo cuore» (Prov 23,26). Dio è venuto da te per redimere il peccato. Rallegrati. Questo annunzio è liberazione mediante la verità. Davanti a Dio non puoi nasconderti. Davanti a Lui non ti serve la maschera che porti davanti agli uomini. Vuole vederti così come sei, e vuole farti grazia. Non occorre più che tu menta a te stesso e ai tuoi fratelli, come se fossi senza peccato; puoi essere un peccatore; ringrazia il Signore, perché egli ama il peccatore, ma odia il peccato.
Cristo è divenuto fratello nostro nella carne, perché gli credessimo. In Lui l'amore di Dio era venuto dal peccatore. Davanti a Lui gli uomini potevano essere peccatori e solo così furono guariti. Di fronte a Cristo ogni apparenza era cessata. La miseria del peccatore e la misericordia di Dio: ecco la verità dell'Evangelo in Gesù Cristo. In questa verità doveva vivere la sua comunità. Perciò diede ai suoi il pieno potere di ascoltare la confessione del peccato e di perdonare il peccato nel suo nome. «A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti» (Gv 20,23).
Con ciò Cristo ha fatto in modo che la comunità e in essa il fratello divengano mezzo di grazia per noi. Egli ora sta al posto di Cristo. Davanti, a lui non occorre che mi comporti come ipocrita. Solo davanti a lui in tutto il mondo posso essere quel peccatore che sono; qui regna la verità di Gesù Cristo e la sua misericordia. Cristo divenne nostro fratello per aiutarci; ora, per opera sua, il nostro fratello è divenuto per noi il Cristo nel pieno potere del suo incarico.
Il fratello sta davanti a noi quale segno della verità e della grazia di Dio. Ci è dato come aiuto. Ascolta la confessione dei nostri peccati al posto di Cristo e ci perdona i nostri peccati al posto di Cristo. Serba il segreto della nostra confessione come Dio lo serba. Se vado a confessarmi dal fratello, vado a confessarmi da Dio…
Il peccato vuole restare solo con l’uomo, lo vuole distogliere dalla comunità. Quanto più un uomo si isola, tanto più forte diviene il potere distruttore del peccato su di lui; quanto più profondo è l’irretimento nel peccato, tanto più funesta diventa la solitudine. Il peccato vuole restare nascosto, teme la luce. Nell’oscurità del silenzio avvelena tutto l’essere dell’uomo. E questo può accadere in mezzo alla comunità di uomini pii. Nella confessione la luce dell’Evangelo penetra nell’oscurità e nel segreto del cuore. Il peccato deve venire alla luce. Tutto ciò che finora è stato taciuto viene detto e confessato apertamente. Tutto ciò che vi è di nascosto e occulto deve venire alla luce. È una dura lotta prima che si riesca a confessare il peccato. Ma Dio spezza battenti di bronzo e spranghe di ferro (Salmo 107,16). Con la confessione del peccato al cospetto del fratello cristiano, l'ultima fortezza dell'autogiustificazione viene abbattuta. Il peccatore si consegna, abbandona tutto il male che è in lui, dà il suo cuore a Dio, e trova perdono per tutti i suoi peccati nella comunione con Cristo e con il fratello. Il peccato confessato a parole ha perso ogni suo potere. Si è manifestato come peccato ed è stato giudicato. Non ha più il potere di spezzare la comunità. Ora la comunità porta il peccato del fratello. Egli non è più solo con il male che è in lui, egli ‘deposto’ il suo male nella confessione, lo ha consegnato a Dio. Gli è stato tolto. Ora egli è nella comunione dei peccatori che vivono della grazia di Dio nella croce di Gesù Cristo. Ora può essere peccatore, eppure rallegrarsi della grazia di Dio. Può confessare il suo peccato e proprio in questo trovare la comunione.
Il peccato nascosto lo separava dalla comunità, rendeva fittizia ogni apparente comunione, il peccato confessato lo aiutò a partecipare alla vera comunione con ifratelli in Gesù Cristo.
Veramente qui si è parlato solo della confessione tra due cristiani. Per ritrovare la comunione con tutta la comunità non è necessaria una confessione dei peccati a tutti i membri della comunità. Nel fratello a cui confesso i miei peccati e che mi concede il perdono, incontro tutta la comunità.
p. 144-145
Il perdono concessoci da noi stessi non può mai portare alla rottura col peccato; questa può essere, solo data dalla Parola di Dio che giudica e, concede grazia. Chi ci da la certezza che nella confessione e nel perdono dei nostri peccati noi non ci troviamo di fronte a noi stessi, ma al cospetto del Dio vivente? Questa certezza ci viene data da Dio per mezzo del fratello. Il fratello spezza il cerchio dell'inganno di se stessi. Chi confessa i suoi peccati al fratello, sa che non si trova di fronte a se stesso, sente nella realtà dell’altro la presenza di Dio. Finché nella confessione dei peccati resto con me stesso, tutto rimane nelle tenebre; al cospetto del fratello il peccato deve venire alla luce. Ma poiché il peccato deve pur venire alla luce, prima o poi, è meglio che sia oggi tra me e il fratello che non l'ultimo giorno alla luce del giudizio universale. È grazia il poter confessare i nostri peccati al fratello. Ci viene così risparmiato il terrore del giudizio universale. Per questo mi è dato il fratello, perché tramite lui io possa fin d'ora avere la certezza di Dio nel suo giudizio e nella sua salvezza. Come la confessione del mio peccato mi sottrae ad un inganno di me stesso dove è fatta al fratello, così anche la promessa del perdono è assolutamente certa dove un fratello me la annunzia per incarico di Dio. La confessione al fratello ci è stata donata in vista della certezza del perdono di Dio.
p. 147
La confessione fa parte della libertà del cristiano. Ma chi ricuserà, senza subirne un danno, un aiuto che Dio ha ritenuto necessario offrirci?
pp. 147-148
Non è l’esperienza della nostra vita che rende capaci di ascoltare una confessione, ma l’esperienza della croce. Il miglior conoscitore di uomini sa infinitamente di meno sul cuore umano del più semplice cristiano che vive sotto la croce di Gesù. Infatti la più profonda conoscenza, capacità ed esperienza psicologica non riesce a comprendere una cosa: cos’è il peccato. Conosce pene, debolezze, fallimento, ma non conosce la lontananza dell’uomo da Dio. Perciò non sa neppure che l’uomo perisce solo a causa del suo peccato e può essere guarito solo mediante il perdono. Questo lo sa solo il cristiano. Di fronte allo psicologo posso solo essere un ammalato, di fronte al fratello cristiano posso essere un peccatore.
Riprendiamo da Avvenire del 17/4/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
L'uomo ha trovato un mezzo per trattenere il suo "migliore amico" vicino a sé e addestrarlo senza dover erigere steccati né maneggiare un bastone: il collare anti fuga della ditta Petsafe, che l'amante degli animali può procurarsi sul sito Technidog.com. Con quest'oggetto non c'è "nessun filo da interrare": basta mettere al collo del proprio cane un collare-ricevitore e poi accendere un trasmettitore centrale che copre un perimetro modulabile fino a 32 metri.
Ecco cosa dicono le istruzioni circa il suo funzionamento: «Quando il vostro animale raggiunge la distanza limite il collare emette un segnale acustico. Se il cane cerca di superare il limite fissato, il collare emette una scarica elettrostatica che corregge il suo comportamento sbagliato». Aggiungete poi il collare anti abbaiamento (del catalogo Canicalm First), che manda impulsi elettrici silenziosissimi che vanno da «debole di corta durata» a «forte di lunga durata» e anche il collare-spray da addestramento, che grazie a un telecomando diffonde «un'essenza che disturba l'animale» (ma attenzione : per quelli «troppo testardi o che fin dal principio non danno ascolto» il venditore raccomanda di nuovo l'elettrochoc con 18 intensità regolabili) e il vostro fedele amico sarà telecomandabile come un automodello.
Ci sarebbe molto da dire sul desiderio di passare dalla padronanza a un controllo che permetta al maestro di non alzare più la voce o brandire la bacchetta, ma che, ancora una volta, si riduca a premere pulsanti o lasciar fare a un dispositivo. Mi accontenterò di parlare soltanto del collare anti fuga e della sua «chiusura elettronica start & play».
Mi ha ricordato certe ballate degli anni settanta in cui si trattava sempre di abbattere i muri e abolire le frontiere. Mi sembra che fornisca un'immagine perfetta di ciò che si potrebbe chiamare la tirannia libertaria.
Ci troviamo in effetti in una situazione analoga a quella del cane equipaggiato da Petsafe: niente più recinzioni, niente più ostacoli, nessuna linea gialla; il campo delle possibilità sembra infinito; ma ecco che all'improvviso, anche se non c'è alcuna resistenza fisica e tutto sembra permesso senza limiti, siamo arrestati da una violenza che opera in silenzio senza alcun attacco apparente.
La povera bestia precipita in uno stato di ansietà ben comprensibile: sente una minaccia che però non vede arrivare da nessuna parte, e dunque immagina che essa sia dappertutto (cosa che alcuni compenseranno comprandogli il «collare antistress al ferormone Dap Adaptil per cani nervosi e ansiosi»).
Così, davanti a noi sono sbandierate senza sosta l'«apertura» e la «libertà», e, allo stesso tempo, la censura, il bavaglio, il linciaggio, non appena si devia da questa normatività inconfessabile, che non è neppure un filo interrato ma un'onda invisibile, trasmessa dall'antenna centrale.
Ci sono molti modi di capirlo. Il primo si riferisce all'impossibilità di uscire dal tabù: appena si permette una cosa è per interdirne un'altra, che talvolta era migliore di quella a cui ci viene liberalmente offerto l'accesso. Nel milieu del porno, per esempio, ma anche in quello del planning familiare, è molto difficile non scioccare la gente parlando loro di verginità. Ne arrossiscono con una bigotteria furiosa e vanno su tutte le furie come vecchi puritani.
Una seconda interpretazione attiene al legame tra libertà illimitata e terrore, perché, nel momento in cui tale libertà è esercitata da un altro, questa si trasforma in minaccia. Ecco perché i libertari vivono sempre nell'ansia di un ritorno del "fascismo" o del "totalitarismo" che non smettono di denunciare ovunque, in ragione della loro concezione della libertà, sempre pronta a rivolgersi contro loro stessi (Hitler ebbe i pieni poteri nel modo più democratico possibile).
Una terza interpretazione rimanda alla nostra Glass Cage, per riprendere l'espressione di Nicholas Carr a proposito di Internet. Noi siamo allo stesso tempo quelli che manovrano il telecomando e che portano il collare elettrico. Il mondo intero sembra dispiegarsi davanti ai nostri occhi attraverso i nostri windows, ma è impossibile raggiungere anche soltanto il nostro vicino: noi clicchiamo, e la piccola immagine accattivante appena scaricata ci trattiene dall'aprire la porta. C'è da rimpiangere i muri di cinta e le vecchie barricate di una volta.
Riprendiamo dal Corriere della sera del 31/3/2016 un articolo scritto da Pierluigi Battista, modificato il 1 aprile 2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)

Anche ad Amsterdam devono aver preso ispirazione dalla Sottomissione di Michel Houellebecq, e ancora una volta questa storia della guerra culturale e religiosa che si è scatenata in Europa sul corpo amato e temuto delle donne sembra un continuo gioco di specchi tra la realtà e la letteratura, tra la politica e l’immaginazione. Il terrore autoritario per la minigonna ha una lunga storia alle spalle. Qual è il primo segnale della Parigi di Houellebecq che si sottomette all’atmosfera islamista, che rinuncia a se stessa, che vuole rinnegare tutto ciò, racchiuso nel termine onnicomprensivo di «modernità», di cui si faceva vanto? Eccolo: la fine delle gonne corte, «l’abbigliamento femminile» che «si era trasformato, lo avvertii subito», «la lunghezza delle gambe scoperte» sempre più mortificata. «Il fatto era lì: gonne e vestiti erano scomparsi», al loro posto «una specie di blusa di cotone, lunga fino a metà coscia». La blusa che imprigiona il corpo femminile e lo desessualizza, quella che i funzionari olandesi vorrebbero che le donne indossassero, lasciando le minigonne nell’armadio, per non «provocare», per non mostrarsi «sconvenienti», per non offendere, per dimostrare di essere «rispettosi», per far fuori la minigonna dalle gambe e della teste dell’Europa, simbolo peccaminoso.
Da sempre. Da quando Mary Quant ha partorito questa idea folle della gonna sopra il ginocchio da esibire con sfrontatezza e allegria, nel cuore degli anni Sessanta. La minigonna non è mai stata (solo) un capitolo della moda, ma un’idea del mondo. Ambigua, contraddittoria, ma sovraccarica di significati da sempre ben presenti nella mente di censori, educatori, conservatori, custodi delle maniere antiche e del ruolo subalterno delle donne costrette a nascondersi, mortificarsi, umiliarsi, confinarsi nella prigione dell’invisibilità sottomessa. Carnaby Street, il tempio della minigonna, della swinging London, dei Rolling Stones, della modernità sregolata e spudorata, è diventata un simbolo della ribellione molto più della Sorbona occupata dagli studenti del ’68. Non una delle tante svolte della moda ma il segno di un’epoca. Coco Chanel aveva emancipato le donne dalla schiavitù del corsetto. Oppure la nudità di Josephine Baker, esaltata dalle banane che alludevano a qualcosa di selvaggio e di irregolare, aveva incendiato i sensi e le menti di uomini che vedevano in quella fantastica ballerina l’altro mondo della normalità stanca. No, la minigonna rende democratica, popolare, di massa, la nuova dimensione in cui le ragazze sentono di aver fatto ingresso, per sempre. Spezzando gerarchie. Scoprendo, con quei centimetri di pelle visibile sopra il ginocchio, che la libertà è anche sciogliersi dai vincoli, emanciparsi dalle catene del moralismo.
Cose frivole, futili? Ad Amsterdam non credono che siano così futili. Sanno che chi è ostile alla libertà è ostile soprattutto alla libertà delle donne e chi è ostile alla libertà delle donne, da cinquant’anni almeno a questa parte, è ostile alla minigonna. Un simbolo che resiste, più del rituale dei reggiseni bruciati dalle pioniere del femminismo americano. Più degli spudoratissimi hot pants che pure, come ha ricordato Anna Meldolesi nel suo «Elogio della nudità», scatenarono la smania repressiva nei primi anni Settanta di un pretore siciliano offeso dall’indumento indossato da una turista. Tutto questo passa, la minigonna no. E le antenne dei censori hanno subito individuato il pericolo. Nelle Chiese la minigonna era proibita.
Nelle scuole francesi venne diffusa la circolare di un ministro dell’Istruzione che diffidava le famiglie affinché non permettessero alle loro figlie di riempire le aule scolastiche con quella gonna sconcia. Nei Paesi dove la sharia si è imposta come unica legge cancellando costumi e mode che da Kabul a Teheran rendevano le donne assolutamente simili alle loro sorelle dell’empio Occidente, le minigonne vennero messe al rogo, in forme molto meno graduali di quelle ipotizzate dalla fantasia realistica di Houellebecq. La minigonna era una sfida anche al desiderio dei maschi, sarebbe ipocrita negarlo. E Mary Quant appariva una beniamina capace di coniugare la libertà femminile con gli sguardi maschili. Perciò da una parte del pensiero femminista si è creduto di vedere nella minigonna l’ennesima invenzione dei maschi per manipolare il corpo delle donne. Perciò molte donne, nei cortei femministi degli anni Settanta, indossavano lunghi gonnoni a fiori che della minigonna erano l’antitesi, non solo nel senso dei centimetri di tessuto. Ma sulla imposizione repressiva, sul divieto di indossare la minigonna, su questo le differenze interne hanno sempre ceduto alla coesione solidale. Almeno sinora. Sino a quando la sindaca di Colonia ha sconsigliato le donne ad andarsene in giro con abiti che avrebbero potuto scatenare istinti incontrollabili. E i funzionari di Amsterdam ad assecondare la guerra santa contro la minigonna. Altro che frivolezza.
© Corriere della sera RIPRODUZIONE RISERVATA
Riprendiamo da La Repubblica del 22/4/2016 un articolo scritto da Concita De Gregorio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, famiglia e scuola.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Che frase, che giro di note sono state le tue ultime, Lisa? Che musica ascoltavi, in cuffia, ieri mattina? Dieci minuti prima delle otto, è tardi è tardi, devo correre, non ho sentito la sveglia, no colazione non faccio in tempo lascia stare, devo correre. Mi chiudono le porte, non mi fanno entrare in aula, ciao. Un cappuccio sui capelli, due auricolari bianchi nelle orecchie, i quaderni. Le rotaie, stazione Certosa a Milano, faccio prima se corro, attraverso, il sottopasso mi fa perdere tempo, corro. Chi perde tempo guadagna tempo, non lo diceva tua nonna? Rihanna, forse. Amavi tanto Rihanna, ti facevi chiamare Rirì. Tutta la vita in cambio di cinque minuti, Lisa.
Saperlo prima. Diciannove anni, una bellezza folgorante, la passerella il trucco le foto, la moda, devi studiare però prima, studia. La cultura è importante, non vai da nessuna parte se non studi, la bellezza non basta. Una scuola, serve, non solo un’agenzia. Sì, studio. Ecco, studio, vado. È tardi, corro. A saperlo prima, davvero. Quei cinque minuti di scale, dai, cosa costano. Ecco cosa costano, meravigliosa ragazza.
E poi togli quelle cuffie, Lisa. Ascoltami quando parlo, togli quelle cuffie. La musica ti salva, la musica ti porta via. La musica ti gasa, ti pompa quando fa freddo quando non hai voglia non ci riesci, non ce la fai. Dai, alza il volume. Però quelle cuffie, Lisa. Possibile che non si riesca mai a parlare, possibile che tu sia sempre altrove. Uffa, i vecchi. Uffa gli adulti che ti dicono spegni il computer, stacca il telefono, senti il mondo. Il mio mondo è questo, non lo capite? Il mio mondo è la musica. È un mondo vero.
Lo dico da madre. Quante volte abbiamo tolto gli auricolari ai nostri figli, quante volte abbiamo detto loro: sono qui, mi vedi, mi senti? La vita è una voce vera. Una persona che ti parla, in carne ed ossa, qualcosa che succede attorno a te, un musicista di strada che suona, un treno che passa. Guardati attorno, ascolta.
Che musica sentivi, Lisa, quando è arrivato il treno? Speriamo fosse magnifica, la più bella di tutte, almeno. Speriamo che tu non ti sia neppure accorta del colpo, del volo. E poi tutti a dire, a raccomandare, a scrivere nelle leggi addirittura: mettete gli auricolari, quando guidate. Rendetevi sordi, non distraetevi. Tappatevi le orecchie, è più sicuro. Lo dico da madre.
Scusa, Lisa. Siamo pazzi. Vi abbiamo cresciuto in un mondo da pazzi. Abbiamo avuto paura di sentirci vecchi, inadeguati, poco moderni, non al passo coi tempi. Non siamo stati capaci di dire: ehi, fermi un attimo, fermi tutti. Quando si parla si parla, quando si cammina si guarda e si sente, quando si ama si spegne, quando si ha di fronte qualcuno non c’è smartphone che vinca, saremo antichi ma basta, con queste cuffie, ora basta.
Maledizione. Non lo sappiamo dire. Abbiamo paura. Non sappiamo essere più convincenti di un video su youtube, questa è la verità. Abbiamo perso questo giro nel gioco della vita, Lisa. Magari verrà qualcuno, un giorno, abbastanza libero da non aver timore di dire: siete pazzi, siamo pazzi. Il mondo è fuori dai vostri telefoni. Verrà, certamente verrà.
Quel giorno, quella persona dirà anche, forse: ma vi rendete conto delle esistenze che abbiamo perso? Anche la tua, Lisa. Speriamo che non sia inutile, vedrai che non sarà stata inutile. Lo dico ai tuoi genitori, saranno oggi disperati. Verrà un giorno in cui ci toglieremo le cuffie, tutti, e ricominceremo a sentirci. È sicuro. Sarà stato anche pensando a te, ragazza. Fai buon viaggio, scusaci.
© La Repubblica RIPRODUZIONE RISERVATA
Riprendiamo sul nostro sito il file audio dell'incontro tenuto da Andrea Lonardo presso la parrocchia di San Leone Magno il 7/4/2016. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
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ANTOLOGIA DI TESTI UTILIZZATA COME SCHEMA DELL'INCONTRO
1/ La “purificazione della memoria” con l’ammissione della grave colpa
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II PER LA COMMEMORAZIONE DELLA NASCITA DI ALBERT EINSTEIN, 10 novembre 1979
La grandezza di Galileo è a tutti nota, come quella di Einstein; ma a differenza di questi, che oggi onoriamo di fronte al Collegio cardinalizio nel nostro palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi di Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto e deplorato certi indebiti interventi: “Ci sia concesso di deplorare – è scritto al n. 36 della Costituzione conciliare Gaudium et Spes – certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro”. Il riferimento a Galileo è reso esplicito dalla nota aggiunta, che cita il volume “Vita e opere di Galileo Galilei”, di Monsignor Paschini, edito dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
A ulteriore sviluppo di quella presa di posizione del Concilio, io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti…
2/ Alcuni elementi per una de-mitizzazione del caso Galilei
Per introdurci al problema: la questione delle nuove inquisizioni laiche
- dalla rivoluzione francese (4 gennaio 1791, obbligo per il clero di giurare fedeltà alla Costituzione: clero “giurato” e clero “refrattario” che viene dichiarato decaduto) ad oggi
- omofobia e ? (le nuove inquisizioni)
2.1/ La libertà di espressione nel seicento e in età odierna
- in Inghilterra c’è la lunga serie di repressioni e di decapitazioni sotto Elisabetta (cfr. l’ipotesi di Shakespeare cattolico in Shakespeare era cattolico? I "ricusanti" durante il regno di Elisabetta I su www.gliscritti.it )... Elisabetta come la “vera” fondatrice dell’anglicanesimo
- La censura degli spettacoli in età elisabettiana e la chiusura dei teatri durante il governo di Cromwell, negli anni di Galilei e del teatro barocco. Appunti di Andrea Lonardo sul volume di P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII
- nei Paesi bassi la straordinaria storia di Johannes Vermeer, cfr. Vermeer cattolicissimo. Il pittore di Delft padre di almeno dieci figlio che portavano, fra gli altri, i nomi di Ignatius e Franciscus, dipinse anche Santa Prassede che raccoglie le reliquie dei Santi ed un’Esaltazione della Chiesa cattolica, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
Vermeer, Allegoria della fede (dentro una cosiddetta
“chiesa nascosta” nei Passi Bassila Chiesa cattolica) sotto
forma di una donna è in estasi dinanzi il crocifisso
ed il calice dell’eucarestia)
- Quando i puritani presero il potere con Cromwell passarono da perseguitati a persecutori. Si opposero inizialmente in forma generale al teatro, già nel 1642 e giunsero poi a misure drastiche nel 1647 quando venne emanata l’ordinanza che prevedeva la distruzione sistematica dei teatri. Tutti i teatri vennero così demoliti dalle fondamenta (si confronti il fatto con la contemporanea esaltazione del teatro barocco in territori cattolici):
- così la Svezia luterana (la messa cattolica fuori dalle ambasciate solo nel 1951!)
- così la scomunica ebraica e poi protestante e poi cattolica di Spinoza (27 luglio 1656)
da H. Méchoulan, Gli ebrei di Amsterdam all’epoca di Spinoza, ECIG, Genova, 1991, pp. 145-146
I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.
-Ma anche successivamente
Cfr. «La Rivoluzione non ha bisogno di scienziati», sembra abbia detto Coffinhal il giudice che condannò alla ghigliottina il grande chimico Antoine-Laurent Lavoisier durante la Rivoluzione francese
Cfr. gli scienziati e Hitler (cfr. Konrad Lorenz, Heisenberg, von Braun)
Cfr. la Russia stalinista e Lamarck, con la persecuzione dei darwinisti
Cfr. G.-E. Lemaitre, Apollo 11, Cristoforetti
2.2/ Non è la scienza la vera questione del caso Galilei, bensì la corretta interpretazione della Bibbia
Madonna di Ludovico Cardi, detto il Cigoli, nella
Cappella Paolina, in Santa Maria Maggiore (1610-1612),
Marco Bona Castellotti l’ha chiamata la “Madonna galileiana”
Il pittore toscano Ludovico Cardi, detto il Cigoli dal nome del luogo natio, rappresenta una Immacolata Concezione in modo tutt’altro che tradizionale. La Madonna del Cigoli, infatti, si erge su una luna del tutto insolita. Non si tratta del “classico” crescente lunare, ma di una rappresentazione molto più naturalistica, frutto appunto delle osservazioni che Galileo aveva pubblicato nel Sidereus Nuncius: «In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie». L’affresco in Santa Maria Maggiore fu realizzato per e con il consenso del papa Paolo V Borghese, nella cappella che doveva diventare il suo mausoleo. È significativo ricordare il giudizio che diede dell’affresco uno degli uomini più colti di Roma, Federico Cesi, scienziato e fondatore dell’Accademia dei Lincei, in una lettera inviata a Galileo nel 1612. È un elogio sperticato all’affresco del Cigoli, il quale «come amico e leale» di Galileo, «sotto l’immagine della beata Vergine ha dipinto la Luna nel modo che da Vossignoria è stata scoperta, colla divisione merlata e le sue isolette».
2.3/ La vera questione fu l’interpretazione della Scrittura ed, in particolare, il Libro di Giosuè
Gs 10,12 Quando il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti, Giosuè parlò al Signore e disse alla presenza d’Israele:
«Férmati, sole, su Gàbaon,
luna, sulla valle di Àialon».
Lettera a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613
Parmi che prudentissimamente fusse proposto […] non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d'assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future. […]
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell'ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura.
Lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, 1615
Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo.
Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti, Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de' corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come niente in comparazione dell'infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono.
Le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato, così per quelli che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che e' siano sotto cotali parole profferiti.
Mi par di poter assai ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia pretermesso questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di più alto misterio. Perché se, come si è detto e chiaramente si scorge, per il solo rispetto d'accomodarsi alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati, attribuendo sino all'istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che l'istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra, d'acqua, di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle parole? E massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla salute dell'anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo.
Il linguaggio della natura è matematico
Considerazioni circa l’opinione copernicana (scritto non sicuramente del Galilei): «Quanto al render false le Scritture, ciò non è né sarà mai nell’intenzione delli astronomi cattolici, quali siamo noi; anzi nostra opinione è che le Scritture benissimo concordino con le verità naturali dimostrate».
2.4/ La questione scientifica
Tolomeo
Ancora oggi noi diciamo: il “sorger” e il “tramontare” del sole
Copernico, canonico cattolico, la cui opera De Revolutionibus venne dedicata a papa Paolo III (1543), non generò problemi fino a Galilei, fino al 1616
Copernico: teoria eliocentrica un’ipotesi matematica che permetteva di semplificare i calcoli astronomici
Nel frattempo era stato elaborato il sistema ticoniano da Tycho Brahe che pubblicò nel 1588 il trattato “De mundi aetherei recentioribus phaenomenis”.
Il cardinale Roberto Bellarmino: Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata (p. 29 Pani)
La mancata dimostrazione di Galilei:
La IV parte del Dialogo sopra i massimi sistemi riguarda le maree
Il libro si doveva chiamare Discorso sul flusso e riflusso del mare
Lettera del 23 settembre del 1624 al Cesi: «Ora sono tornato al flusso e riflusso, e son ridotto a questa proposizione: stando la terra immobile, è impossibile che seguano i flussi e reflussi; e muovendosi de i movimenti già assegnatili, è necessario che seguano, con tutti gli accidenti in essi osservati ».
Keplero, Astronomia Nova (1609) afferma che il movimento dei pianeti è ellittico
(in realtà, diremmo oggi, non è la terra che gira intorno al sole, ma la terra e il sole girano intorno ad uno dei due fuochi di un’ellisse che è situato non al centro del sole, ma comunque al suo interno, mentre l’altro fuoco dell’ellissi è vuoto)
Cesi a Galilei 21 luglio 1612 La via de’ pianeti è elliptica come vuol Keplero
Non si sa se Galilei non avesse letto Keplero, di cui pure possedeva i tomi
Galilei continua a credere ad un moto circolare (simile a quello aristotelico-tolemaico)
3/ Galilei cattolico
- nella seconda edizione de L’origine della specie (1860) Darwin scrive: «... e sulle varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore in poche forme o anche in una sola».
- nel 1879 nella sua autobiografia Darwin propende a definirsi agnostico: «Il mio giudizio è spesso fluttuante... e persino nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato ateo nel senso di negare Dio. Credo che in generale (e sempre più con il passare degli anni), ma non sempre, la mia posizione possa essere descritta più appropriatamente con il termine agnosticismo» (cit. da McGrath, 2006). Sulla sua posizione deve aver molto influito il problema del dolore, particolarmente dopo la perdita della figlia Annie all’età di 10 anni.
- nella sesta edizione de L’origine della specie (C. Darwin, L’origine della specie, Tascabili Newton, Roma, 2006, p.431):
Non vedo alcuna buona ragione perché le opinioni espresse in questo volume debbano urtare i sentimenti religiosi di chicchessia. Un celebre autore e teologo mi ha scritto di «aver compreso a poco a poco che si può avere un concetto di Dio altrettanto nobile sia credendo che Egli abbia creato alcune forme originarie capaci di autosvilupparsi in altre forme necessarie, sia credendo che Egli sia ricorso ad un nuovo atto di creazione per colmare i vuoti provocati dall’azione delle Sue leggi».
- da una lettera tratta da John H. Newman, The Letters and Diaries of John Henry Newman, edited by C.S. Dessain and T. Gornall, Clarendon Press, Oxford 1973, vol. XXIV, pp. 77-78. Tr. it. di Paolo Zanna
Non mi sembra filare logicamente che venga [in Darwin] negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Prima creò la materia e poi creò leggi ad essa applicabili – leggi destinate a farla crescere nella sua bellezza attuale, preciso ordine organico e armonia delle parti in maniera graduale. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma dante origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il Suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo. Se il signor Darwin in questo o quell’altro punto della propria teoria entra in collisione con la verità rivelata, è un altro discorso – ma non vedo come ciò valga per il principio dello sviluppo, o quella che ho chiamato costruzione. Per quanto riguarda il Disegno divino [Design], non è un caso di incomprensibilmente e infinitamente meravigliosa Saggezza e Intenzionalità/Disegno [Design] l’aver attribuito certe leggi alla materia milioni di secoli fa, le quali hanno sicuramente e precisamente prodotto, nell’arco del lungo corso di quei secoli, quegli effetti che Egli propose dal principio? La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità.
P.S. Perché non sarebbe ateo anche il principio della generazione, visto che lo sarebbe quello dello sviluppo [evoluzione]? Se non sapessimo come dato di fatto che le specie e le razze hanno origine da una sola coppia, potremmo dire che la teoria [dell’evoluzione] sarebbe incoerente con la dottrina della creazione. E, ancor più, si potrebbe reclamare che “l’incontro casuale e il matrimonio di due persone, o una loro relazione extramatrimoniale, obbligherà l’Onnipotente a creare un’anima in ogni momento”. Perciò (non solo il corpo, ma) l’anima non sarebbe creata, ma soltanto la conseguenza casuale di una volontà umana, ecc. ecc.
4/ Vita e luoghi romani di Galilei
Nel 1609 dall’Olanda arriva uno strumento in grado di amplificare le potenzialità della vista: si chiama cannocchiale (cannone-occhiale) che Galilei perfezionerà
Nel 1610 i sensazionali risultati dello scienziato sono raccolti e diffusi in latino e in volgare in un testo, il Sidereus Nuncius. Il trattato viene stampato – previa autorizzazione del tribunale dell’Inquisizione – con il corredo di numerose immagini. Gli argomenti sui quali verte sono la luna, la via lattea e quattro satelliti di Giove veduti ex novo e dedicati ai membri della famiglia Medici (termina la visione aristotelico-tolemaica dei pianeti come corpi perfetti)
Nel 1611 le scoperte astronomiche di Galileo ottengono il favore del Collegio Romano (oggi il Liceo Ennio Quirino Visconti). Sono presenti, fra gli altri, Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII e Roberto Bellarmino, fine teologo e cardinale, canonizzato nel 1930 da Pio XI. Bellarmino, morto prima del processo a Galileo, mantiene una posizione di apertura nei confronti delle tesi galileiane: «Dico che quando ci fusse vera demostrazione che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la Terra circonda il Sole allora bisogneria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e piuttosto dire che non l’intendiamo dire che sia falso quello che si dimostra».
I due processi (quello del 1616 e quello del 1633)
5/ Il periodo post-galileiano
Sepolcro di Galileo Galilei, in Santa Croce a Firenze, con la
sepoltura di Vincenzo Viviani e di una sepoltura femminile
(si pensa sia la figlia Virginia, monaca con il nome di suor
Maria Celeste), 1737. Il sepolcro venne posto dinanzi
a quello di Michelangelo Buonarroti, l’iscrizione approvata
anche dalla Curia Romana
«Massimo “restitutore” della geometria, dell’astronomia, della filosofia, incomparabile a nessuno della sua epoca»
Divin uomo così Lucas Holste
Holste ⟨hòlstë⟩ (latinizz. Holstenius; it. Olstènio o Holstènio), Lukas. - Erudito (Amburgo 1596 - Roma 1661). Di modeste origini, studiò a Leida filologia; accompagnò nel viaggio in Italia Ph. Cluver (1618). Convertitosi al cattolicesimo, si trasferì a Roma (1627), dove divenne bibliotecario del card. Fr. Barberini, canonico di S. Pietro e infine custode della Biblioteca Vaticana. Protetto da Urbano VIII e da Innocenzo X, ricevette l'abiura di Cristina di Svezia. Pubblicò numerose poesie latine e dissertazioni erudite, e curò edizioni di classici e di Padri della Chiesa.
Il sistema copernicano continua ad essere insegnato come ipotesi
Cfr. Evangelista Torricelli (il barometro, studi sul vuoto), Giovanni Domenico Cassini (sonda Cassini), scoprì 4 satelliti di Saturno, chiamato dal papa all’Università di Bologna nel 1649, chiamato poi a Parigi
La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture».
Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca - e la circostanza colpisce - di piena Restaurazione.
A dire il vero, qualcosa aveva cominciato a muoversi già nel Seicento. Heilbron suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede».
Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa». «Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII.
Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato chela Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo».
Ma la novità era che di fatto si autorizzavano - pur con le cautele di cui si è detto - la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose». Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti.
La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamente la Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù - fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi – l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso.
La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa.
Poi, nel 1942, fu la volta di Pio XII, che il nome di Galileo lo pronunciò. E addirittura affidò a monsignor Pio Paschini il compito di scriverne una biografia di sostanziale riabilitazione. Ma i gesuiti (ricostituiti in ordine dal 1814) si opposero alla pubblicazione e il manoscritto, in due volumi, sparì. Per ricomparire dopo il Concilio Vaticano II, per intercessione di Paolo VI, in linea con un suggerimento che era stato già di Giovanni XXIII.
Nel corso del Concilio il nome dello scienziato era riapparso, il 30 aprile 1964, nella consulta di preparazione allo schema 13 su La chiesa e il mondo d’oggi, la volta che il cardinale belga Leo Josef Suenens prese posizione sul problema della regolazione delle nascite dicendo: «Seguiamo il progresso della scienza! Vi scongiuro, fratelli miei, evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Ne basta uno solo perla Chiesa!».
Giovanni Paolo II nel 1979 fece il resto, con la celebre allocuzione in cui esaltò la figura di Galileo e riconobbe apertamente che lo scienziato aveva dovuto «soffrire moltissimo nelle mani degli uomini e degli organismi della Chiesa». Dopodiché il Papa polacco istituì una commissione che riesaminasse il caso e nel maggio del 1983 rese omaggio al grande scienziato, organizzando un congresso internazionale in Vaticano. Ma i lavori della commissione andarono poi a rilento («tra letargo e apatia», scrive Heilbron), finché il pontefice fu costretto ad intervenire sul presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il cardinale Paul Poupard, il quale finalmente (nel 1992) rese noti i risultati. Risultati assai ambigui.
Essi tenevano conto delle osservazioni del gesuita Walter Brandmüller: Galileo, secondo la Commissione, «aveva proceduto correttamente lungo la difficile strada dell’esegesi delle Scritture; i cardinali avevano negoziato con pari abilità l’altrettanto difficile strada dell’epistemologia».
Riprendiamo da La Repubblica del 3/4/2016 un articolo scritto da Massimo Recalcati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag massimo_recalcati.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Il tempo ipermoderno sputa sulla fedeltà inneggiando a una libertà fatta di vuoto. Tutto ciò che ostacola il dispiegarsi della volontà di godimento del soggetto appare come un residuo moralistico destinato ad essere spazzato via da un libertinismo vacuo sempre più incapace di attribuire senso alla rinuncia.
Il principio si applica tanto ai legami con le cose quanto, soprattutto, a quelli con le persone. Non è un caso che nel nostro paese la fedeltà sia stata recentemente considerata dai legislatori come una forma arcaica del legame amoroso al punto da volerla sopprimere negli articoli del Codice che normano le unioni civili e quelle matrimoniali. Perché evocare inutilmente un fantasma anacronistico reo di aver pesato come un macigno inutile sulla libertà affettiva e sessuale delle vite umane? Meglio liberarsene come di un tabù decrepito dalle armi desolatamente spuntate, come un ferro vecchio che non serve più a niente.
Oggi è il tempo del "poliamore", della libertà senza inibizioni, della curiosità sperimentale, dell'esperienza senza vincoli, della morte dell'amore pateticamente romantico e dell'affermazione, al suo posto, dell'amore narcisistico che rende l'aspirazione degli amanti al "per sempre" una farsa o una ingenuità bigotta di qualche credulone, o, peggio ancora, una catena repressiva alla nostra libertà di amare che deve essere finalmente spezzata.
Anche l'elevazione della fedeltà ad un rango superiore a quello della mera fedeltà (sessuale) dei corpi, teorizzata, non a caso, soprattutto dagli uomini, tradisce, in realtà, la stessa difficoltà a concepire un legame capace di durare nel tempo senza essere necessariamente mutilato nella spinta del desiderio.
Sembra un insegnamento fatale dell'esperienza: più una relazione dura nel tempo più il desiderio erotico si infiacchisce e necessita di nuovo carburante, o, meglio, di dopamina. Le neuroscienze lo confermano senza incertezza: il cervello per mantenere animato il desiderio deve essere dopato dall'eccitazione proveniente da un nuovo oggetto. L'anima, forse, si pensa, può restare fedele, ma non lo si può chiedere al corpo la cui spinta erotica non deve conoscere vincoli.
Il problema è che il nostro tempo non è più in grado di concepire la fedeltà come poesia ed ebbrezza, come forza che solleva, come incentivazione, potenziamento e non diminuzione del desiderio, come esperienza dell'eterno nel tempo, come ripetizione dello Stesso che rende tutto Nuovo.
Il nostro tempo non sa né pensare, né vivere l'erotica del legame perché contrappone perversamente l'erotica al legame. È un assioma che deriva da una versione solo nichilistica della libertà: la libertà dell'amore – come la libertà in generale per l'uomo occidentale – deve escludere ogni forma di limite, deve porsi come assoluta.
In questo senso la fedeltà diviene un tabù logoro che appartiene ad un'altra epoca e destinato ad essere sfatato. Quello che l'ideologia neo-libertina del nostro tempo però non vede è che ogni forma di disincanto tende, come spiegarono già Adorno e Horkheimer in Dialettica dell'illuminismo, a ribaltarsi nel suo contrario.
Il culto del poliamore, della libertà narcisistica, la polverizzazione dell'ideale romantico dell'amore porta davvero verso una vita più ricca, più soddisfatta, più generativa? La clinica psicoanalitica ci consiglia di essere prudenti: la ricerca affannosa del Nuovo spesso non è altro che la ripetizione monotona della stessa insoddisfazione.
Il punto è che il nostro tempo rischia di smarrire ogni possibile sguardo sulla trascendenza, sull'altrove, anche di quella che si dà nell'esperienza assolutamente immanente dei corpi. Perché non esiste amore se non del corpo, del volto, della particolarità insostituibile dell'Altro.
L'ideale della fedeltà può diventare – come lo è stato per diverse generazioni – una camicia di forza che sacrifica il desiderio sull'altare dell'Ideale divenendo dannosa per la vita. Quando questo accade è bene liberarsene al più presto.
Ma l'esperienza della fedeltà, vissuta non in opposizione alla libertà, ma come la sua massima realizzazione, offre alla vita una possibilità di gioia e di apertura rare. Quella che scaturisce dall'esperienza di rendere sempre Nuovo lo Stesso: la ripetizione della fedeltà rivela infatti che giorno dopo giorno il volto di chi amo può essere, insieme, sempre lo Stesso e sempre Nuovo.
Mentre il nostro tempo oppone lo Stesso al Nuovo, il miracolo dell'amore è, infatti, quando c'è, quello di rendere lo Stesso sempre Nuovo. Accade anche nella lettura dei cosiddetti classici. Lo diceva bene Italo Calvino: quando un libro diventa un classico se non quando risulta inesauribile di fronte ad ogni lettura? Quando la sua forza non si esaurisce mai, ma dura per sempre eccedendo ogni possibile interpretazione? E non è, forse, la fedeltà (ad un amore, ad un autore, ad un'idea) un nome di questa forza?
Non è la fedeltà ciò che ci spinge a rileggere lo stesso libro – o un corpo che si trasforma in libro - scoprendo in esso sempre qualcosa di Nuovo? Non è il suo miracolo quello di fare Nuovo ogni cosa, soprattutto quella "cosa" che crediamo di conoscere di più? Non è questa la sua potenza: trasformare la ripetizione dello Stesso in un evento ogni volta unico e irripetibile?
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Riprendiamo da La Repubblica-Edizione di Milano del 13/4/2016 un’intervista di Zita Dazzi a Piero Rossi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Piero Rossi, 61 anni, ginecologo alla clinica Mangiagalli dal 1990, ha eseguito migliaia di aborti, prima di decidere nel 2006 per l’obiezione di coscienza.
Come mai dottore?
«Ho scelto questo mestiere perché amo le donne. Per anni ho applicato la legge 194 per aiutare le donne e non mandarle nelle cantine ad abortire, mettendo a rischio la loro vita. C’erano ancora criminali che facevano miliardi con gli aborti clandestini. E vedevamo arrivare le donne in ospedale con infezioni, emorragie. Ai tempi dovevo stare dalla parte delle donne».
Poi ha cambiato idea?
«È arrivata la legge 194, negli ospedali oggi chi vuole può abortire senza rischi. E io dopo averne fatti migliaia, ho deciso di mettermi dalla parte della vita. Di quella che voleva nascere. Sono diventato cristiano e ho scelto di non praticare più interruzioni di gravidanza».
È una scelta religiosa dunque?
«Sì, ma è anche una convinzione alla quale sono giunto dopo averne fatte migliaia, di interruzioni. In una mattinata, ti può capitare di fare anche 15 aborti, come alla catena di montaggio. Io non ce la facevo più».
A fare cosa?
«Ad attaccare quel tubo e ad aspirare la vita dal corpo della donna. Ho fatto un sacco di aborti terapeutici perché ho una buona manualità chirurgica e francamente quelli sono interventi devastanti, dal punto di vista psicologico. Ma non è che con le interruzioni entro il terzo mese vada meglio. Era una cosa per me intollerabilmente faticosa. Io sono sempre stato male perché l’aborto è una pratica cruenta. Umanamente, intimamente mi ha sempre dato fastidio ».
Quindi ha abbandonato le donne?
«Io non sono contro la 194 e alle mie pazienti consiglio la contraccezione. L’unica cosa è che non voglio più mettere a disposizione le mie mani per quelle donne che abortiscono con leggerezza, dicendo che “non è il momento, che ci sono le vacanze, il lavoro che preme”. Quelle donne che fanno più aborti a distanza di poco tempo, quelle che non hanno preso precauzioni e poi delegano al medico il “lavoro sporco”».
Quanto conta la sua scelta religiosa?
«Molto. Sono sempre stato di sinistra e moderato, ma non entravo in chiesa da 40 anni. Facendo il mio mestiere ho visto in sala parto tali miracoli che mi sono ricreduto».
E quando una sua paziente le dice che vuole abortire?
«Spiego che se il problema è economico, ci sono centri di aiuto alla vita, centri accoglienza per mamme e bambini soli. Si deve valutare caso per caso, la legge è utile se salvaguarda la vita, nei casi in cui ci siano gravidanze molto problematiche o che nascono da violenze. In Mangiagalli siamo metà obiettori, e la 194 funziona».
Riprendiamo da Avvenire del 31/3/2016 un articolo di Stefano Vecchia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)

Dopo la strage di Pasqua a Lahore, il Pakistan è in bilico, tra affermazione dello Stato di diritto, militarizzazione e concessioni all’estremismo religioso e alla sua militanza ideologica e terrorista. Mentre continuano le operazioni di rastrellamento nella provincia del Punjab che hanno portato al fermo di 5.000 estremisti e alla sua conferma per alcune centinaia ma anche all’uccisione di una decina di individui che si erano opposti alle forze di sicurezza, la capitale Islamabad ha vissuto anche ieri ore convulse.
Solo alla fine del quarto giorno del sit in nei pressi del Parlamento nazionale attuato da migliaia di simpatizzanti di Salman Qadri, nel 2011 killer del governatore (musulmano e progressista) della provincia del Punjab, impiccato a fine febbraio, il ministro dell’Interno Chaudhry Nisar Ali Khan ha potuto annunciare che il governo aveva ottenuto la fine della protesta. Un accordo in extremis con i leader islamisti mentre 7.000 poliziotti e paramilitari erano pronti allo sgombero. Chaudhry non ha però incassato un immediato scioglimento dell’assedio al Parlamento o il ritiro delle dieci proposte dei manifestanti che includevano il riconoscimento ufficiale del “martirio” di Qadri e l’esecuzione della cattolica Asia Bibi, in carcere dall’estate 2009 e condannata a morte per blasfemia, ora in attesa di un giudizio definitivo della Corte suprema. Slogan contro Asia Bibi sono risuonati in piazza anche ieri. I responsabili della sicurezza avevano promesso un’azione di forza senza precedenti che fosse insieme «efficace e rapida».
Ad alzare la tensione, ha contribuito ieri l’esecuzione di due esponenti del movimento Tehrek-e-Taliban Pakistan, lo stesso che aveva «arruolato» Qadri e che ha indicato pubblicamente – nella sua fazione secessionista Jamaat-ul-Ahrar – la responsabilità della strage di sabato sera, con la morte di 72 persone e il ferimento di altre 350, ma ha anche minacciato di portare il terrore a Lahore, oltre che di colpire i mass media «schiavi del potere». I due, impiccati all’alba, avevano partecipato a numerosi attentati. A firmare il decreto di esecuzione, lo stesso comandante in capo dell’esercito, generale Raheel Sharif. Un ruolo, quello delle forze armate, accresciuto nei giorni post-strage. Mentre il premier Nawaz Sharif ha incassato il «sostegno» contro il terrorismo del presidente americano Barack Obama, che gli ha telefonato. Nella provincia del Punjab sono stati mobilitate decine di migliaia di paramilitari (ranger e guardie di frontiera) ai quali sono stati dati ampi poteri. Poteri che erano pronti a essere impiegati ieri anche a Islamabad, in bilico tra la necessità di ristabilire il controllo delle autorità e di spegnere un focolaio di tensione nel cuore del paese e il timore che un’azione di forza potesse trasformare gli estremisti in martiri.
Intanto, i cristiani, circa due milioni su 190 milioni di pachistani, continuano a manifestare un crescente senso di vulnerabilità e a sollecitare il governo a agire per garantire la loro protezione, chiedendo unità e dialogo alle altre componenti religiose del Paese.
Chiaro il messaggio di padre Jamal Albert in una veglia sul luogo dell’attentato di sabato presso il parco Gulshane-Iqbal: «Indipendentemente dall’appartenenza religiosa cristiana, indù, ebraica o musulmana, tutti siete ormai insicuri. Essi (i terroristi) stanno cercando di sgretolare la nazione, distruggere il nostro senso di unità, la nostra volontà di essere tutti pachistani». Tuttavia, ha aggiunto il sacerdote, «siate sicuri che questi episodi non ci fermeranno. Questo è il nostro Paese. E in realtà – ha concluso padre Jamal Albert –, siamo più determinati che mai a proseguire».
Riprendiamo dal Corriere della sera del 29/3/2016 un articolo scritto da Aldo Grasso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)

N.B. de Gli scritti Sarebbe stato bello che Aldo Grasso avesse ricordato che Roberto Benigni ha avuto l’intuizione di leggere Dante in pubblico proprio a partire dall’esperienza di Franco Nmebrini. Sarebbe stato belle se avesse ricordato che Benigni non riesce a capire Dante in alcuni passaggi, ad esempio quando non entra nella mentalità dell’uomo medioevale per spiegare perché Paolo e Francesca o Ulisse sono all’inferno, bensì li rilegge con occhio attuale. Ma tutto questo non importa. È molto bello che Aldo Grasso parli di Franco Nembrini sul Corriere e che aiuti tutti ad accorgersi che ciò sta avvenendo. E che si accorga che quella di Franco Nembrini è, per espressa scelta, una lettura attuale, che pur radicandosi nel testo, ne esonda per sforzarsi di mostrare cosa abbia da dire all’uomo di oggi, sapendo di essere uno dei pochi a scegliere questa prospettiva nella temperie odierna tutta dedita alla filologia ed impegnata a mantenere la distanza fra testo e lettore.
Tutti i video della serie Nel mezzo del cammin sono on-line nella playlist apposita del Canale YouTube Catechisti Roma.
«Nel mezzo del cammin…» (su Tv2000) funziona quando Nembrini fa parlare Dante (anche parafrasandolo), un po’ meno quando, per traslato, Dante fa parlare Nembrini, di Aldo Grasso
La Divina commedia letta e commentata da Franco Nembrini. Da qualche anno, il poema dantesco conosce i fasti della radio e della tv. Abbiamo ascoltato con grande godimento e profitto le letture radiofoniche di Vittorio Sermonti (un raro esempio di divulgazione alta, resa culturalmente affascinante dalla supervisione di Gianfranco Contini e Cesare Segre), abbiamo assistito alle performance di Roberto Benigni (a volte Dante era sopraffatto dalla bravura istrionica dell’attore e dalle strizzatine d’occhio sull’attualità), adesso è possibile immergersi ancora nella Commedia grazie all’interpretazione che ne fornisce Franco Nembrini nel suo «Nel mezzo del cammin…» (Tv2000, canale 28 del dtt, 140 di Sky, lunedì, ore 21, 34 puntate).
Dante è duro e severo e ci vuole durezza e severità per capirlo. È un’operazione delicatissima, che non si può fare alla buona. La cosa più interessante della lettura nembriniana è la passione per Dante che esonda a ogni verso. Nembrini è un professore bergamasco, da tempo appassionato «dantista». Lunedì sera si è soffermato molto sul proemio del primo canto del Purgatorio, là dove la nave dell’ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele dell’Inferno e a percorrere acque migliori, poiché il poeta sta per cantare del secondo regno dell’Oltretomba in cui l’anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. Il «metodo Nelbrini» consiste nel leggere alcuni versi e nell’abbandonarsi molto al commento, che in alcuni tratti assume i toni della predica («e non voglio dire di più perché ce ne sarebbe da dire…»). Si vede che gli piace Dante ma si vede anche che si piace molto, il Nembrini, sotto le spoglie dell’umiltà, della riflessione sulla misericordia, tema cardine del Giubileo straordinario voluto da Papa Francesco. Il programma funziona quando Nembrini fa parlare Dante (anche parafrasandolo), un po’ meno quando, per traslato, Dante fa parlare Nembrini.
Riprendiamo da Avvenire del 31/3/2016 un testo di Luisa Muraro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Famiglia e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Esce in questi giorni nelle librerie «L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto» (La Scuola, 88 pagine, 8 euro e 50), libro piccolo quanto denso che Luisa Muraro – filosofa e femminista, punto di riferimento per chi vuole vedere il "femminile" fuori dai canoni consumistici e dalla retorica mediatica – consegna nel bel mezzo del dibattito in Italia e in molti altri Paesi sulla maternità surrogata. Il brano che pubblichiamo in questa pagina si inserisce tra l’analisi semantica ed antropologica di un fenomeno affiorante e riflessioni mai scontate su maternità, libertà, diritti e origini.
«L’utero è mio e lo gestisce un’agenzia d’intermediazioni», ha commentato pungente una giovane donna. La prepotenza del mercato è tale che l’uomo più potente degli Usa non riesce a fermare un micidiale mercato interno di armi da guerra.
Ma, prima delle conseguenze, anche per riuscire a immaginare quelle meno prevedibili, c’è da guardare alla cosa di cui discutiamo così come si presenta. Infatti prevedere può essere difficile o impossibile, ma capire la posta in gioco possiamo, e quella della surrogazione è grande. Bisogna fare quella cosa che si chiama leggere la realtà che cambia.
Riprendo la domanda che ho fatto prima: in una cultura che trova odiosa la compravendita di bambine/i, come può essere accettabile commissionare la loro confezione da parte di donne pagate allo scopo?
La risposta è arrivata quasi da sola. Persone di buon senso hanno obiettato alle coppie sterili che difendono il ricorso alla surrogata: perché non ricorrete all’adozione? Il ripetersi di questa domanda polemica ha provocato una vivace risposta, e cioè che l’obiezione è insensata perché si tratta di cose che non possono essere messe a confronto e tanto meno equiparate nel desiderio di chi ricorre o vuole poter ricorrere alla surrogazione.
Tutto fa pensare che sia proprio così. Noi, da fuori, vediamo che c’è una differenza tra adottare dei già nati e commissionarne di nuovi, ma non ci sembrano cose incommensurabili. Invece per il desiderio di avere un figlio sì che lo sono.
Il desiderio è una grande potenza, come i soldi, ma più misteriosa e meno razionale. Si spinge e ci spinge avanti con tutti i mezzi a disposizione, sempre più avanti. Finché è vivo, s’intende, e dobbiamo augurarci che lo sia, perché senza non c’è vita. Il punto di vista di chi ha un vivo desiderio non può essere ignorato. Ci sono desideri molto forti, questo può diventare fortissimo. Ricordo una giovane donna che moriva dal desiderio di diventare madre e ne è morta davvero.
Con la surrogata la realizzazione del desiderio genitoriale fa un salto di qualità. Non potendo generare una propria creatura, gli aspiranti genitori lo realizzano facendo propria una creatura che viene al mondo per soddisfarlo, unicamente. Soddisfarlo è la sua ragione di essere.
In ciò consiste l’incommensurabilità. Il bambino o la bambina che si adotta era già al mondo, per una strada disegnata da altri, e passa da una porta che altri decidono di aprire; con la surrogazione la creatura arriva in forza del desiderio degli aspiranti genitori, per mezzo dei loro soldi. Vero è che arriva avendo fatto una deviazione attraverso un corpo femminile altrui, alla fine però ci sono comunque loro due, i portatori del desiderio, così come c’erano all’inizio della faccenda.
Ho parlato della facilitazione offerta dalle tecniche della procreazione, sorvolando sul fatto che, per le donne, l’operazione non è affatto facile. Ma posso io farne una questione se loro ci stanno?
Quello che la tecnologia offre alla coppia parentale non si riduce a tecnica. Infatti, la gravidanza ottenuta con materiale biologico in parte o tutto proveniente dalla coppia degli aspiranti genitori li aiuta a sentirsi veri e unici genitori dal primo momento. Oltre che un supporto materiale all’immaginazione di essere la coppia generatrice di quella creatura, questo apporto è anche un mezzo per sostituire, per quanto possibile, il legame carnale fra la donna e la sua creatura con il legame del materiale biologico che alla donna viene innestato. Operazione, quest’ultima, che si fa sempre più spesso, ho letto, anche per togliere a lei il diritto di considerarsi e, in caso, rivendicarsi madre. Traspare l’aspetto meno accettabile di questa pratica, quello di oltrepassare la necessità medica e diventare così un attacco demolitore della relazione materna. Non si dica che la legge può intervenire a porre un limite: non si può creare un piano inclinato e pretendere che le cose non scendano da quella parte.
Notiamo, per inciso, che da sempre l’uomo ha dato alla procreazione questo tipo di contributo materiale, solo biologico; la paternità tradizionale, infatti, consiste più nel fatto simbolico (il nome) che nell’esperienza vissuta. Non così la donna che alla procreazione dedica anima e corpo per mesi e anni, ricavandone gioie e dolori che ricorderà tutta la vita. E che per farlo corre rischi per la salute e la vita stessa, come sappiamo anche dalla cronaca recente.
Perciò non è arbitrario dire che la coppia genitoriale che si avvale della Gpa (gestazione per altri, ndr) ha un’impronta più maschile che femminile. Il che, in pratica, potrebbe far comodo a colei che aspira ad avere un figlio o una figlia. Ma questo, a parte altre considerazioni, sarebbe un pessimo ragionamento da parte femminile, perché la prevalenza simbolica della parte maschile appartiene a una cultura che alle donne fa pagare il biglietto d’ingresso.
Comunque giudichiamo lo sbilanciamento verso il maschile, il rinforzo simbolico va alla coppia stessa e non raggiunge la creatura in fieri nel grembo altrui. La creatura, voluta in partenza e attesa all’arrivo, nutrita e custodita dalla portatrice, madre reale simbolicamente rinunciataria, deve fare il suo viaggio in una strana solitudine, accompagnata forse da sogni e fantasie non autorizzate della portatrice.
In certi Paesi, dove portare avanti la gravidanza per conto di altri costituisce una risorsa economica per famiglie povere, il contributo genetico dei futuri genitori è richiesto per legge se sono stranieri. Si fa, così ho letto, per accrescere le probabilità che la creatura, destinata a lasciare il Paese con la coppia che l’ha voluta, venga amata, e ridurre così i rischi di maltrattamento e abbandono: risulta infatti che quando c’è un contributo di materiale genetico degli aspiranti genitori il legame sia più forte. Se così fosse, io lo trovo naturale: che altro si può dire?
Ho usato una parola «è naturale», dal significato molto chiaro, comunemente usata nella lingua italiana e tante altre. Ma, appena si entra in questi argomenti, sembra sospetta.
Sono d’accordo con chi critica il concetto di legge naturale; dal tempo in cui questa espressione si usava correntemente e sensatamente, sono cambiate molte cose e l’espressione era diventata ambigua, per l’uso che ne facevano le centrali del potere costituito onde mantenere il loro ordine. Il pensiero critico ci ha avvertito di ciò e dobbiamo tenerne conto. Tuttavia, parlare della natura si può, anzi si deve, ce lo insegna l’ecologia. Gli esseri umani sono il frutto di un’evoluzione che continua nella cultura grazie alla parola e alla libertà, ma che non può perdere le sue radici naturali, pena l’autodistruzione.
Riprendiamo da Avvenire del 8/4/2016 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Carlo Cardia, cliccare sul tag carlo_cardia. Per ulteriori approfondimenti sulla scuola, vedi le sottosezioni Educazione e IdR e Educazione e scuola. Vedi anche la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Sulla scia di un Convegno dedicato al rapporto tra scuola e religione, organizzato dal Centro Piero Calamandrei di Torino, si è tornati a proporre l’introduzione, sotto diverse forme nella scuola pubblica, dello studio della storia delle religioni, del fatto religioso, o con altre formule, sostenendo che questa 'svolta' gioverebbe alla laicità dello Stato e della scuola.
Se ci si fermasse a quest’indicazione, all’auspicio che tra i giovani cresca la conoscenza delle religioni, specie in un’epoca di globalizzazione, non si potrebbe che essere d’accordo.
Ma essa ha un punto focale ulteriore, che getta una luce diversa sulla proposta complessiva: voler di fatto procedere alla liquidazione (più o meno immediata, parziale o totale) dell’insegnamento della religione cattolica previsto dal Concordato del 1984, regolato da un’Intesa con la Cei che ne ha arricchito il carattere culturale e pluralista.
Questo è il punto di non ritorno: la proposta formulata interpreta l’insegnamento religioso attuale, effettuato su base di una libera scelta, come una sorta d’indottrinamento da parte di una Chiesa, a scapito della libera formazione della coscienza dei giovani, come qualcosa che va eliminato per lasciare il posto a insegnamenti statali presuntivamente neutrali in materia di religione.
Si intravede, così, dietro una terminologia appena ritoccata, un vecchio (direi antico) disegno di voler espungere dalla scuola pubblica l’insegnamento religioso cattolico, e con esso una strutturazione pluralista della formazione dei giovani che abbiamo conquistato e realizzato con la nostra Costituzione democratica, per lasciare spazio a forme d’insegnamento laicista che attraverso la storia delle religioni possono far passare contenuti deformati o arbitrari.
Ricordiamo in primo luogo che la scuola italiana è assai più pluralista di quanto si voglia far credere, proprio in materia di religione. Non solo perché esiste la previsione concordataria dell’insegnamento della religione cattolica, con un’Intesa che concepisce tale insegnamento in termini culturali e con un’apertura ad altre religioni e al dialogo interreligioso che deriva dal grande orizzonte del Concilio Vaticano II.
Ma perché esistono diverse norme di accordi con altri culti, in base alle quali la scuola risponde alle richieste dei ragazzi e delle famiglie, o degli organi scolastici, per lo «studio del fatto religioso» (Intesa Valdese, Avventista, Pentecostale, Luterana, Battista, Buddista, ecc.), o per lo «studio dell’ebraismo». Inoltre, sia all’interno dei programmi di alcune discipline (storia, e materie umanistiche), sia in virtù dell’autonomia scolastica che prevede l’organizzazione di attività formative specifiche, possono darsi (e si danno) studi e approfondimenti della religione sotto diversi aspetti, storico, culturale, artistico.
Tanto questo è vero che la sentenza con la quale la Grande Chambre di Strasburgo nel 2011 ha legittimato la presenza del Crocifisso nelle scuola italiane ha avuto tra le sue motivazioni principali proprio il carattere pluralista della scuola italiana, aperta a diverse presenze religiose, che garantisce i giovani da condizionamenti confessionali: un solenne e prezioso riconoscimento che supera polemiche pretestuose.
Dunque, in Italia (come nella stragrande maggioranza dei Paesi europei) non esiste una scuola chiusa, o disattenta, verso la religione, la sua evoluzione storica, le sue diverse espressioni.
C’è invece un caso in Europa nel quale l’incomunicabilità tra scuola e religione s’è fatta aspra, con qualche grave conseguenza. È il caso della Francia dove, dopo la Loi de séparation del 1905, non s’è più dato insegnamento religioso, e anzi la scuola pubblica è sottoposta a una stretta laicista così forte che ha infine escluso ogni simbolo religioso, anche indossato privatamente da giovani e adulti; e dove (come già ricordato su 'Avvenire') un Rapporto commissionato dal Governo e realizzato da Philippe Joutard nel 1989, ha rivelato qualcosa di sconcertante: che nella visita al Louvre di classi di scolaresche, a volte i ragazzi chiedono all’insegnante di spiegare loro chi sono tutte quelle baby-sitter che in tanti quadri tengono in braccio un bambino! O che, di fronte alle opere di Mantegna su San Sebastiano interpretano le frecce disseminate sul suo corpo come frecce degli indiani d’America. L’assenza d’ogni riferimento alla religione crea una desertificazione culturale che ferisce i giovani.
Questo accade in Francia, ed è il risultato di una laicizzazione drastica e prolungata della scuola pubblica, che inizia proprio quando, magari proclamandosi portabandiera del pluralismo, si vuole in realtà espungere dall’ambiente scolastico la conoscenza della religione che è tra i fondamenti delle nostre identità nazionale ed europea. Allora, quel nucleo di verità, per la quale è giusto che vi sia nella scuola una circolarità di conoscenza delle religioni, della loro storia ed evoluzione, non deve stravolgere quanto di positivo già esiste nel nostro ordinamento scolastico, e in quello di tanti Paesi europei, cioè la presenza libera, culturale, di insegnamenti religiosi che offrono un quadro di apprendimento, di crescita, di riflessione, su una dimensione decisiva per la vita individuale e collettiva.
È giusto migliorare, nel nostro e in altri Paesi, il pluralismo scolastico, adeguarlo all’orizzonte di una globalizzazione che sta portando tra noi tradizioni e religioni poco conosciute; ma occorre tener ferme quelle conquiste di libertà e di presenza religiosa pienamente rispondenti ai principi della nostra Costituzione, e a quella laicità aperta e positiva che caratterizza il nostro ordinamento.
Riprendiamo dal sito Aleteia.org un articolo di Marie Lorne pubblicato l’11/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Catechesi e liturgia nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Quando fratel Marie è nato, i suoi genitori lo hanno chiamato Alain. La sua famiglia era protestante ma non era praticante. Alain è stato battezzato ma non ha ricevuto un’educazione religiosa.
Tranne la nonna, i suoi familiari si sono allontanati dalla religione.
“La religione era vista come qualcosa di oscuro”, ha affermato. L’immagine istituzionale ed esteriore della Chiesa era per l’adolescente Alain un ostacolo al suo sviluppo.
Crescendo, Alain ha iniziato a porsi delle domande esistenziali e filosofiche.
“La mia grande ricerca di perfezione mi ha mostrato i limiti di un mondo materialista. Aspiravo a un mondo spirituale e a ciò che è vero”.
Si è quindi interessato alla causalità, a come funzionava il mondo, e questo lo ha reso incline a una riflessione più spirituale. Inizialmente si è interessato alla formazione di comunità alternative e “verdi”.
“A un certo punto pensavo di aver fondato una comunità e un legame fraterno”, ha ricordato. Ma presto è arrivata la delusione: “L’aspetto spirituale era quasi assente. Ciascuno si governava da solo. Non c’era comunione tra i membri”.
Con una nuova consapevolezza, Alain ha ripreso il suo viaggio spirituale. Insieme a un gruppo di persone che la pensavano come lui ha trascorso un anno nell’Africa subsahariana, in un villaggio cristiano con una minoranza musulmana. “È lì che ho incontrato il Signore”, ha confessato.
In quel piccolo villaggio ha conosciuto delle persone con famiglie “molto religiose”, persone che erano aperte agli altri. Colpito, si è adattato gradualmente. A Natale è andato anche in chiesa.
“In genere visitavo le chiese ma non partecipavo all’Eucaristia”, ha ricordato. In quel piccolo villaggio, lontano dalla cultura francese, si è sentito più libero di “esplorare” la religione. Ha assistito a una Messa officiata da un missionario e durante la quale venivano celebrati dei Battesimi. “È stato allora che Cristo mi ha travolto”. È entrato a Messa un ateo e ne è uscito un credente.
Alain è tornato in Francia molto cambiato, con una certezza che gettava radici in lui: “La mia vita ha un senso solo se la offro a Gesù Cristo”. Nella sua necessità di vivere per Cristo c’era un altro desiderio: accompagnare le persone che vivevano come aveva vissuto lui – aiutarle nel loro viaggio alla ricerca di Dio.
All’epoca non sapeva ancora se era chiamato a vivere da laico o se aveva una vocazione alla vita consacrata. Ha iniziato a pregare e a studiare teologia. Ha ricevuto la Cresima e ha iniziato a far visita ai monaci cistercensi (trappisti) della comunità dell’isola di Lerins. Lì ha scoperto il ritmo della Liturgia delle Ore e ha sperimentato la vita comunitaria che aveva cercato tanto tempo prima: “La condivisione di una vita fraterna, il lavoro e la preghiera offrivano un solido stile di vita per Cristo”.
A 31 anni, Alain è diventato fratel Marie. Un anno dopo il suo viaggio in Africa è diventato cistercense.
Oggi “sembra che sia accaduto ieri”. Maestro dei novizi per 13 anni, attualmente si dedica all’accoglienza, un bel collegamento alla sua aspirazione giovanile a creare un luogo per chi si dedica alla ricerca spirituale.
“Ho attraversato zone di luce e zone d’ombra, zone molto belle e zone meno belle. Nella vita monastica si incontrano tutte le nostre profondità umane”, ha sottolineato umilmente.
Ogni anno tra le 3.000 e le 4.000 persone passano per il monastero. Fratel Marie accoglie innumerevoli volti, ciascuno dei quali ha “una storia diversa”. Spesso verifica che quelle persone pongono le stesse domande che aveva lui prima di convertirsi.
“Molti cercano dei ritiri per riscoprire la fede”, ha affermato, “per portare più amore e più misericordia nella propria vita”.
Ecco un video dell’abbazia di Lerins, in francese, con immagini e suoni splendidi:
Entre ciel et mer - Les moines de l'Abbaye de Lérins
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]