Insegnamento religioso: il pluralismo da difendere. Contro il rischio di una degenerazione laicista nella scuola, di Carlo Cardia
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Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Sulla scia di un Convegno dedicato al rapporto tra scuola e religione, organizzato dal Centro Piero Calamandrei di Torino, si è tornati a proporre l’introduzione, sotto diverse forme nella scuola pubblica, dello studio della storia delle religioni, del fatto religioso, o con altre formule, sostenendo che questa 'svolta' gioverebbe alla laicità dello Stato e della scuola.
Se ci si fermasse a quest’indicazione, all’auspicio che tra i giovani cresca la conoscenza delle religioni, specie in un’epoca di globalizzazione, non si potrebbe che essere d’accordo.
Ma essa ha un punto focale ulteriore, che getta una luce diversa sulla proposta complessiva: voler di fatto procedere alla liquidazione (più o meno immediata, parziale o totale) dell’insegnamento della religione cattolica previsto dal Concordato del 1984, regolato da un’Intesa con la Cei che ne ha arricchito il carattere culturale e pluralista.
Questo è il punto di non ritorno: la proposta formulata interpreta l’insegnamento religioso attuale, effettuato su base di una libera scelta, come una sorta d’indottrinamento da parte di una Chiesa, a scapito della libera formazione della coscienza dei giovani, come qualcosa che va eliminato per lasciare il posto a insegnamenti statali presuntivamente neutrali in materia di religione.
Si intravede, così, dietro una terminologia appena ritoccata, un vecchio (direi antico) disegno di voler espungere dalla scuola pubblica l’insegnamento religioso cattolico, e con esso una strutturazione pluralista della formazione dei giovani che abbiamo conquistato e realizzato con la nostra Costituzione democratica, per lasciare spazio a forme d’insegnamento laicista che attraverso la storia delle religioni possono far passare contenuti deformati o arbitrari.
Ricordiamo in primo luogo che la scuola italiana è assai più pluralista di quanto si voglia far credere, proprio in materia di religione. Non solo perché esiste la previsione concordataria dell’insegnamento della religione cattolica, con un’Intesa che concepisce tale insegnamento in termini culturali e con un’apertura ad altre religioni e al dialogo interreligioso che deriva dal grande orizzonte del Concilio Vaticano II.
Ma perché esistono diverse norme di accordi con altri culti, in base alle quali la scuola risponde alle richieste dei ragazzi e delle famiglie, o degli organi scolastici, per lo «studio del fatto religioso» (Intesa Valdese, Avventista, Pentecostale, Luterana, Battista, Buddista, ecc.), o per lo «studio dell’ebraismo». Inoltre, sia all’interno dei programmi di alcune discipline (storia, e materie umanistiche), sia in virtù dell’autonomia scolastica che prevede l’organizzazione di attività formative specifiche, possono darsi (e si danno) studi e approfondimenti della religione sotto diversi aspetti, storico, culturale, artistico.
Tanto questo è vero che la sentenza con la quale la Grande Chambre di Strasburgo nel 2011 ha legittimato la presenza del Crocifisso nelle scuola italiane ha avuto tra le sue motivazioni principali proprio il carattere pluralista della scuola italiana, aperta a diverse presenze religiose, che garantisce i giovani da condizionamenti confessionali: un solenne e prezioso riconoscimento che supera polemiche pretestuose.
Dunque, in Italia (come nella stragrande maggioranza dei Paesi europei) non esiste una scuola chiusa, o disattenta, verso la religione, la sua evoluzione storica, le sue diverse espressioni.
C’è invece un caso in Europa nel quale l’incomunicabilità tra scuola e religione s’è fatta aspra, con qualche grave conseguenza. È il caso della Francia dove, dopo la Loi de séparation del 1905, non s’è più dato insegnamento religioso, e anzi la scuola pubblica è sottoposta a una stretta laicista così forte che ha infine escluso ogni simbolo religioso, anche indossato privatamente da giovani e adulti; e dove (come già ricordato su 'Avvenire') un Rapporto commissionato dal Governo e realizzato da Philippe Joutard nel 1989, ha rivelato qualcosa di sconcertante: che nella visita al Louvre di classi di scolaresche, a volte i ragazzi chiedono all’insegnante di spiegare loro chi sono tutte quelle baby-sitter che in tanti quadri tengono in braccio un bambino! O che, di fronte alle opere di Mantegna su San Sebastiano interpretano le frecce disseminate sul suo corpo come frecce degli indiani d’America. L’assenza d’ogni riferimento alla religione crea una desertificazione culturale che ferisce i giovani.
Questo accade in Francia, ed è il risultato di una laicizzazione drastica e prolungata della scuola pubblica, che inizia proprio quando, magari proclamandosi portabandiera del pluralismo, si vuole in realtà espungere dall’ambiente scolastico la conoscenza della religione che è tra i fondamenti delle nostre identità nazionale ed europea. Allora, quel nucleo di verità, per la quale è giusto che vi sia nella scuola una circolarità di conoscenza delle religioni, della loro storia ed evoluzione, non deve stravolgere quanto di positivo già esiste nel nostro ordinamento scolastico, e in quello di tanti Paesi europei, cioè la presenza libera, culturale, di insegnamenti religiosi che offrono un quadro di apprendimento, di crescita, di riflessione, su una dimensione decisiva per la vita individuale e collettiva.
È giusto migliorare, nel nostro e in altri Paesi, il pluralismo scolastico, adeguarlo all’orizzonte di una globalizzazione che sta portando tra noi tradizioni e religioni poco conosciute; ma occorre tener ferme quelle conquiste di libertà e di presenza religiosa pienamente rispondenti ai principi della nostra Costituzione, e a quella laicità aperta e positiva che caratterizza il nostro ordinamento.