Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 27/4/2016 un articolo scritto dal cardinale Prosper Grech. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2016)
Sergey Ponomarev, Lesbo 16 novembre 2015, «The New York Times»
Ai miei tempi si parlava di “invasione dei barbari” per descrivere quel fenomeno storico del primo medioevo europeo. Oggi, si chiama con il termine, più politically correct, “la migrazione dei popoli”. Fin dal termine del terzo secolo varie genti cominciarono a erodere le frontiere settentrionali e orientali dell’impero romano.
Era naturale che il miraggio di una città prospera e potente attraesse l’attenzione e la cupidigia di quei popoli vicini che non avevano raggiunto un tale grado di civiltà e di benessere. Nonostante lo sforzo di Diocleziano di riconquistare le terre perdute, il processo segnava l’inizio del declino di Roma, dovuto a diversi fattori: sociali, politici, economici, morali e demografici.
Inoltre, quando Costantino stabilì la sua sede a Bisanzio, l’Occidente divenne preda dei popoli circostanti i quali approfittavano delle crepe dell’impero per estendere il proprio potere. Il culmine fu raggiunto quando Alarico conquistò e saccheggiò Roma nel 410.
Da allora unni, ostrogoti, visigoti, alemanni e altri continuarono a devastare l’impero. È ovvio che tale fenomeno non si manifestò solamente nell’impero romano. Era un fatto ricorrente in ogni parte del mondo lungo la storia delle diverse civiltà orientali e occidentali. Può accadere per cercare terre più fertili, o semplicemente per scopi espansionistici.
Noi ci soffermiamo sulla storia romana perché questa ha qualcosa da dire alla nostra generazione. I vari popoli che si impossessarono dei territori romani avevano anch’essi i loro costumi, religioni e culture. Era da prevedere che la cultura più forte e più antica dei romani prevalesse su quelle più deboli e meno consolidate. Però era inevitabile che questi vari popoli lasciassero anch’essi la loro impronta sui popoli di più antica civiltà. Accadde dunque una fusione con prevalenza romana che, dopo un lungo periodo di assestamento, diede vita alla grande civiltà medievale, con le sue università, cattedrali, letterature, filosofia e arte.
Quale altra era sorgerà dopo la fusione di tutte le razze e culture dell’Europa odierna? Gli invasori di allora trovarono sì un impero in declino con molte debolezze, ma incontrarono anche un popolo ancora giovane con uno spirito forte e credenze ben definite, con risposte credibili ai problemi dell’esistenza umana: i cristiani. Questi avevano permeato l’impero da secoli e avevano infuso una nuova anima nel pensiero e nella cultura delle genti che popolavano i territori dell’impero.
La nuova Europa dunque, era unita non soltanto da una lingua comune, ma da una fede comune e da una cultura erede del pensiero greco e romano nonché della giurisprudenza romana . Ciò nonostante perdurarono i nazionalismi, in bene o in male. C’erano delle guerre sì, ma l’eredità greco-romana-cristiana fiorì nelle grandi letterature di ciascuna nazione per mezzo di uomini come Dante e Shakespeare.
Ciò che abbiamo detto finora lo conosce ogni scolaro. Lo abbiamo riferito perché può servirci per interpretare il fenomeno analogo del movimento costante verso l’Europa di masse di gente dal Medio Oriente e dall’Africa. Sarebbe falso e offensivo chiamare questo fenomeno un’invasione da cui dobbiamo difenderci. Sarebbe come se chiamassimo invasione l’emigrazione di centinaia di migliaia d’italiani in Germania, in Belgio e negli Stati Uniti, dove si sono amalgamati con gli abitanti, anche se con non poca difficoltà.
È soltanto un altro caso di tali avvenimenti ricorrenti nella storia di ogni continente. L’analogia, però, ha i suoi limiti. Abbiamo detto che gli immigranti o gli invasori dell’antichità avevano trovato una Chiesa giovane, ancora nel pieno del suo sviluppo che ha potuto assorbirli nella sua fede.
Gli immigranti di oggi sono in prevalenza musulmani. Sono uniti con la lingua araba, e per loro l’islam è una religione e un marchio d’identità. Quale fede incontrano in un’Europa in crisi, affetta da un continuo processo di laicizzazione e spesso anticristiana? Possiamo ben chiederci se saremo noi cristiani a trasmettere agli immigranti i valori evangelici ovvero a sconcertarli con la confusione dei nostri morese con il relativismo intellettuale corrente.
Certamente una tale massa di gente che arriva in continuazione crea, nelle diverse nazioni, non pochi problemi sociali, economici e logistici di difficile soluzione. D’altra parte non ne possiamo fare a meno a causa del calo generale demografico, particolarmente in Italia. A parte ogni considerazione utilitaristica però, non possiamo tirarci indietro, in una situazione che ci sfida a fare uso di tutte le risorse ereditate dalla nostra tradizione umanistica e cristiana; altrimenti i “barbari” saremmo noi!
A parte queste considerazioni morali, dobbiamo chiederci se tutto questo sconvolgimento nel Medio Oriente non sia anche un “segno dei tempi” che bisogna leggere alla luce della Sacra Scrittura. Dio ci vuole dire qualcosa? La caduta di “Babilonia” di cui parla l’Apocalisse, cioè la rovina di un sistema economico e politico che costituisce un peccato strutturale ricorrente nella storia, può essere letta in chiave contemporanea.
I frequenti richiami alla conversione rivolti a Gerusalemme da Geremia nell’imminenza dell’invasione dei babilonesi non parla anche a noi che siamo continuamente minacciati dal terrorismo? Infine, la lunga lista dei vizi dei pagani nel primo capitolo della Lettera ai Romani non descrive ancora certi mores odierni di cui ci vantiamo come “conquiste culturali”?
È compito della Chiesa, unica autorità morale in un mondo di valori caotici, interpretare, per i fedeli e per tutti, i segni dei tempi. In un anno santo dedicato alla misericordia, il grido profetico della Chiesa perché apriamo gli occhi alla dimensione storico salvifica degli avvenimenti attuali, come fece Agostino nel De civitate Dei, sarebbe il più grande dono che Dio, nella sua misericordia, può elargire a tutti gli uomini di buona volontà.
Pubblichiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il centro culturale Gli scritti (29/4/2016)
SPOSTARE L’ORARIO DELLA MESSA IN ESTATE: UNA PROPOSTA DELL’UFFICIO CATECHISTICO NON SOLO PER IL GREST, MA PER TUTTE LE FAMIGLIE DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA
Voglio suggerirvi con forza - vi chiedo un atto di fiducia! - di spostare alla sera, a partire dal Corpus Domini, la messa animata dalle famiglie dell’Iniziazione cristiana alla sera, ad esempio alle 19.00. Nel giorno del Corpus Domini (quest’anno cade il 29 maggio) si potrebbero invitare tutte le famiglie perché sia una liturgia di ringraziamento alla fine dell’anno, spostando la messa al nuovo orario che durerà per tutta l’estate, compreso settembre – si potrebbe farla seguire anche da una breve adorazione. Al termine dell’adorazione si potrebbe poi cenare insieme con genitori e figli.
È fondamentale non utilizzare parole come «fine dell’anno catechistico». Il cammino della catechesi, infatti, prosegue nell’estate proprio con l’incontro della messa domenicale serale e non ha interruzione. Superare una visione scolastica della catechesi vuol dire proprio che l’estate è un tempo di fede, che l’estate è parte integrante dell’Iniziazione cristiana. Anche se le riunioni terminano, prosegue il cammino dell’eucarestia domenicale.
Poiché molti si recano fuori Roma per la domenica, è bene che la messa festiva, da giugno a settembre compreso, sia spostata ogni domenica alla sera. Quella del Corpus Domini sarà solo la prima. Non sarà difficile creare, anno dopo anno, una tradizione. La messa estiva serale diverrà ancora più partecipata di quella domenicale al mattino durante l’anno. Ne ho fatto l’esperienza sia da parroco, a Santa Melania, sia da vice-parroco, a Santa Chiara.
Ho sperimentato anche che è bello – oltre che più “fresco” – celebrare quella messa all’aperto, se è possibile e se il luogo lo permette.
Se la messa delle famiglie dell’Iniziazione cristiana restasse, invece, al mattino alle 10.00, o alle 10.30 o alle 9.30, come avviene abitualmente, essa si svuoterà immediatamente non appena finisce la scuola, perché le famiglie iniziano ad andare al mare o comunque si sentono “in vacanza”.
In particolare la Messa deve essere al centro dei diversi GREST, ORES, oratori estivi, campi estivi. L’oratorio estivo non comprenderà solo i giorni dal lunedì al venerdì, altrimenti sarà una scuola di ateismo! Comprenderà come momento più importante la celebrazione della domenica sera. Durante l’oratorio estivo uno spazio dovrà essere dedicato alla preparazione dei canti della messa serale domenicale, così la messa sarà animata da tutti gli animatori e da tutti i ragazzi. Anche per chi è animatore dei GREST sarà educativo comprendere che la messa appartiene al servizio ai bambini ed ai ragazzi, perché l’oratorio estivo è un esperienza completa, è un’esperienza di fede e di servizio. Sarà bene che compia il suo servizio impegnandosi anche nella messa domenicale, ma non per un vuoto dovere, bensì perché i bambini hanno diritto ad avere la testimonianza di animatori credenti e perché i ragazzi stessi animatori si appassioneranno alla messa, accompagnando i bambini.
Al termine della messa domenicale serale negli oratori estivi sarà bello che i ragazzi del GREST propongano agli adulti qualcuna delle attività vissute in settimana ed i grandi possano avere anch’essi spazi per giocare e suonare insieme.
Io ritengo la questione della messa domenicale alla sera in estate una delle questioni decisive per far uscire la catechesi da un’impostazione scolastica. Vi posso assicurare che è non solo possibile, ma addirittura entusiasmante. Saranno fra le messe più belle dell’anno.
Post Scriptum
Mi sono ricordato di un "particolare" importante. L'estate ero io come parroco a presiedere la messa domenicale serale e spesso il vice-parroco concelebrava anche lui. Cessavo invece di presiedere quella al mattino. La messa serale diventava, insomma, la messa della comunità parrocchiale, quella nella quale il parroco è tenuto a pregare per la sua comunità e per i morti di tutti. Lo stesso vale se chi celebra la messa con i bambini e le famiglie dell'Iniziazione cristiana fosse il vice-parroco: sarebbe lui a poter spostare la celebrazione da lui presieduta alla sera, cessando di celebrarla al mattino.
Presentiamo sul nostro sito un’intervista a don Alberto Contini, parroco della parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna al Tuscolano. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio. Vedi anche gli altri articoli già pubblicati: L’accoglienza dei profughi nelle parrocchie romane 1/ L’avete fatto a me!, di Marco Vitale Di Maio e L’accoglienza dei profughi nelle parrocchie romane 2/Il progetto ”Ero forestiero e mi avete ospitato” nella parrocchia San Giuseppe al Trionfale. Un’intervista a cura dell’Ufficio catechistico ad Angela Melchionda.
Il Centro culturale Gli scritti (28/4/2016)
Come avete conosciuto le comunità cristiane in Iraq?
Ho avuto la fortuna e la grazia di accogliere in parrocchia diversi anni fa - allora ero parroco a N. S. di Bonaria a Ostia - un giovane studente iracheno.
Si trattava di don Ghazwan Baho attuale parroco di Alqosh, che si trova a 40 km a nord di Mosul, si trova pertanto a solo 15 km dal confine con l’Isis.
È nata una profonda amicizia che è poi continuata e cresciuta nel tempo. È infatti rimasto per alcuni anni con me anche nella mia attuale parrocchia dei SS. Gioacchino e Anna a Roma. Tramite lui ho conosciuto e incontrato tanti sacerdoti iracheni. Alcuni di questi hanno vissuto, per brevi periodi, in parrocchia.
Ricordo, ad esempio, con piacere don Amil Nuna, che è poi diventato Vescovo, ed è stato l’ultimo vescovo di Mosul prima dell’arrivo dell’Isis nel 2014.
Ricordo, più recentemente, don Basilio Yaldo che ha concluso i suoi studi per il dottorato a Roma ed ora è vescovo ausiliare di Baghdad. Altri sacerdoti poi sono passati e hanno portato il loro bagaglio di esperienze di fede, di autentica testimonianza e talvolta anche di persecuzione e di tortura.
Qual è la situazione laggiù? Come sta evolvendo?
È una situazione incontrollabile che ha mietuto e continua a mietere migliaia di morti e feriti e lasciato dietro di sé 3 milioni di sfollati, infrastrutture semi-distrutte, disoccupazione, povertà e analfabetismo.
Il terrorismo ha steso la sua ombra sui cristiani e sulle altre minoranze religiose, diventati bersaglio degli estremisti. Sono stati rapiti, uccisi e costretti a emigrare, le loro chiese sono state distrutte: questo è successo ai cristiani di Mosul e della piana di Ninive. Perciò hanno cercato rifugio nei paesi limitrofi, nel Regno giordano, in Libano e in Turchia e, da qui, hanno preso la via dell’Occidente per proteggere la loro vita e il futuro loro e dei loro figli.
Le minoranze in Iraq e nell’area si domandano che cosa ne sarà del loro destino e del loro futuro, delle loro case e delle loro proprietà, delle loro città e dei loro villaggi. Potranno un giorno, loro che sono cittadini autoctoni, fare ritorno alle loro terre storiche? Le loro case e i loro negozi violati dai gruppi organizzati saranno ricostruite? Il governo iracheno e la comunità internazionale faranno qualcosa per proteggerli e garantire loro i diritti?
I cristiani e le altre minoranze sono persone pacifiche, cittadini leali che hanno contribuito in misura notevole a edificare la civiltà e la cultura delle loro patrie, e meritano di essere apprezzate per questo.
Ci auguriamo che questi Paesi non si svuotino dei cristiani e delle altre minoranze autoctone.
Per conoscere qualcosa della situazione attuale del paese vi consiglio di vedere il video nel quale don Ghazwan insieme ad altri testimoni racconta della situazione dei profughi.
Come è maturato nella comunità la decisione di sostenere la comunità cristiana in Iraq?
La conoscenza dei problemi dell’Iraq e soprattutto l’incontro vivo con le stesse persone che lì operano per sostenere le comunità cristiane ci ha portato naturalmente alla domanda: cosa possiamo fare per loro? Ovviamente conoscendo personalmente il parroco di Alqosh abbiamo cercato di seguire le sue indicazioni per ben finalizzare il nostro aiuto. Ho visto con piacere, poi, come diverse persone - oltre ai nostri parrocchiani- a cui ho presentato Don Ghazwan hanno sentito il bisogno di aiutare e di intervenire con generosità. Davvero il bene è contagioso!
Lo scopo primario è quello evidentemente di aiutare la gente sul posto.
Sono persone forti – raccontano i Vescovi locali - che non hanno abiurato la fede, ma tanti vivono quotidianamente la tentazione di partire, di emigrare all’estero. Quasi tutti hanno parenti in giro per il mondo, che costantemente li invitano a partire e a raggiungerli. Resiste ai richiami chi non ha abbastanza denaro per partire e chi ha paura del viaggio (solo qualche tempo fa due famiglie cristiane hanno avuto 7 vittime in un naufragio nell’Egeo).
Perché è importante il diritto a non emigrare? Qual è la posizione di vescovi in Iraq?
Rispondo con le parole di Sua Beatitudine Louis Raphaël I Sako, Patriarca dei Caldei: «Da troppi anni in Iraq non facciamo altro che contare i morti. Il protrarsi del conflitto potrà produrre lo smembramento del Paese. È un esodo triste e terribile. Dove vanno tutti questi iracheni, che futuro avranno? Questo è un dramma per il mondo intero. Chi parte non ritorna, è finita. Non c’è speranza, coloro che partono non ritornano. Chi parte cerca la sicurezza, un rifugio. Ma come saranno integrati nella nuova società? Un’altra cultura, un’altra mentalità, un’altra religione, altre tradizioni. Non basta dare loro da mangiare».
Questo lo vediamo anche qui da noi. Per chi arriva serve una vera integrazione. Un’integrazione che deve passare attraverso la cultura e in particolare la scuola, come peraltro i cristiani fanno in tante parti del mondo.
A tale proposito racconta Mons. Sako: Un anziano musulmano è venuto in chiesa a donare cinquemila dollari per i profughi. Ha detto che faceva quella donazione perché doveva ringraziare una scuola cristiana per la sua istruzione.
«Invece di assumersi il carico dello svuotamento della popolazione di questi paesi - aggiunge in un intervento il Patriarca- c’è il dovere del consesso internazionale di costruire la pace in questa regione. E trovare la soluzione adatta perché la gente rimanga lì. I risultati degli interventi, delle guerre in Medio Oriente, sono ben evidenti. Dov’è la tutela dei diritti? Abbiamo il diritto di essere difesi e protetti. La solidarietà è un’esigenza, tuttavia qui ci vuole una soluzione duratura».
I Vescovi Caldei lo dicono con chiarezza: “sarebbe meglio aiutarci tutti a rimanere qui: se si fanno le riforme politiche, se si fa giustizia, le persone non hanno bisogno di fuggire. Noi pastori delle Chiese d’Oriente siamo fermamente convinti che i cristiani hanno una missione qui in Oriente, devono rendere testimonianza qui, devono restare ed essere un segno per tutti gli altri. Anche la Chiesa caldea ora è Chiesa in diaspora, con centinaia di migliaia di fedeli sparsi nel mondo. Ma fra 100 anni la Chiesa della diaspora sarà scomparsa, sarà stata assimilata: già le seconde generazioni non parlano più aramaico ma solo inglese. Se ce ne andiamo da qui, per noi è finita”.
Come sono stati coinvolti i bambini delle comunioni e i ragazzi delle cresime e le giovani famiglie nel sostenere i profughi che sono in Iraq?
Il nostro aiuto è stato principalmente di tipo economico, e per raccogliere offerte i gruppi parrocchiali si sono organizzati in vari modi. I giovani, ad esempio, hanno realizzato uno spettacolo teatrale con lo scopo di raccogliere fondi, lo stesso ha fatto un gruppo di adulti. Altri parrocchiani si sono impegnati nel realizzare banchi di beneficenza.
Abbiamo anche voluto lanciare una proposta di aiuto all’Iraq durante il nostro pellegrinaggio annuale a Lourdes, affinché il pellegrinaggio fosse un vero cammino che porti a vivere le opere di carità, così come ci ha anche suggerito recentemente Papa Francesco.
Altre persone sono state coinvolte con incontri organizzati per spiegare la reale situazione della Chiesa Caldea in Iraq, incontri che hanno sempre suscitato un vivo interesse, proprio perché la gente ha conosciuto e talvolta vissuto insieme con i sacerdoti iracheni. Non sono mancati, poi, momenti di preghiera e momenti di festa, soprattutto quando don Ghazwan è riuscito a tornare in Italia e per qualche periodo si è fermato nella nostra parrocchia.
Ricordo con piacere che alcuni anni prima i nostri ragazzi scout si erano impegnati per aiutare i giovani di Alqosh per aprire il primo gruppo scout iracheno, cosa che è avvenuta. Don Ghazwan organizzò in quel periodo anche un collegamento Skype tra i due gruppi che si parlarono a distanza, fu molto bello! Avevo anche iniziato le pratiche di invito in Italia per alcuni giovani iracheni per formarli a diventare capi scout, poi però la guerra…
Più recentemente alcune famiglie della nostra Associazione Amici di Lourdes hanno accolto nelle loro case i coniugi Mubarak e Aneesa Hano, una coppia di anziani rifugiati provenienti direttamente dalla città cristiana di Qaraqosh, vicino a Mosul, sposati da 51 anni con 10 figli e 12 nipoti.
Erano stati invitati dal Papa a San Pietro, a portare la loro testimonianza e la coppia si è fatta portavoce delle indicibili sofferenze delle famiglie cristiane delle loro terre da dove tutti sono dovuti fuggire.
L’accogliere questa coppia e alcuni loro parenti è stato un altro bel segno di vera fratellanza che ha lasciato un vivo ricordo soprattutto in chi ha aperto la porta della propria casa.
Qual è la cosa più bella ed interessante che volete raccontare del vostro servizio e della vostra amicizia con i profughi che sono in Iraq?.
Attraverso questa esperienza ho avuto la possibilità di conoscere e di apprezzare più profondamente la cultura del popolo iracheno, il rito caldeo e soprattutto la fede, pronta fino al martirio, di tanti loro cristiani.
Ho visto poi che tutto ciò è stato davvero una benedizione per tutta la parrocchia in cui mi trovavo a svolgere il mio ministero. Entrambe le mie parrocchie, infatti, sono state coinvolte in modo naturale ai problemi di un popolo che fino allora nemmeno conoscevano.
Oltretutto vivendo insieme in parrocchia, numerosi fedeli hanno stretto vincoli di amicizia con i sacerdoti iracheni, vincoli che ancora permangono. So, ad esempio, di molti che scrivono ancora a don Ghazwan e che hanno contatti con lui con i vari social media.
Posso dire, in conclusione, che il vivere accanto a queste persone, raccogliere le loro parole e testimonianze aiuta il nostro cuore e il cuore di ogni fedele ad aprirsi a realtà più grandi.
Riprendiamo sul nostro sito la Lettera del Santo Padre Francesco al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l'America Latina, inviata il 19/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Ludovico Brea, Pala di Ognissanti (1513)
- cioè la Chiesa del cielo e della terra -
Genova, Santa Maria di Castello
A Sua Eminenza il Cardinale
Marc Armand Ouellet, P.S.S.
Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina
Eminenza,
Al termine dell’incontro della Commissione per l’America Latina e i Caraibi ho avuto l’opportunità d’incontrare tutti i partecipanti dell’assemblea, nella quale si sono scambiati idee e impressioni sulla partecipazione pubblica del laicato alla vita dei nostri popoli.
Vorrei riportare quanto è stato condiviso in quell’incontro e proseguire qui la riflessione vissuta in quei giorni, affinché lo spirito di discernimento e di riflessione “non cada nel vuoto”; affinché ci aiuti e continui a spronare a servire meglio il Santo Popolo fedele di Dio.
È proprio da questa immagine che mi piacerebbe partire per la nostra riflessione sull’attività pubblica dei laici nel nostro contesto latinoamericano. Evocare il Santo Popolo fedele di Dio è evocare l’orizzonte al quale siamo invitati a guardare e dal quale riflettere. È al Santo Popolo fedele di Dio che come pastori siamo continuamente invitati a guardare, proteggere, accompagnare, sostenere e servire. Un padre non concepisce se stesso senza i suoi figli. Può essere un ottimo lavoratore, professionista, marito, amico, ma ciò che lo fa padre ha un volto: sono i suoi figli. Lo stesso succede a noi, siamo pastori. Un pastore non si concepisce senza un gregge, che è chiamato a servire. Il pastore è pastore di un popolo, e il popolo lo si serve dal di dentro. Molte volte si va avanti aprendo la strada, altre si torna sui propri passi perché nessuno rimanga indietro, e non poche volte si sta nel mezzo per sentire bene il palpitare della gente.
Guardare al Santo Popolo fedele di Dio e sentirci parte integrale dello stesso ci posiziona nella vita, e pertanto nei temi che trattiamo, in maniera diversa. Questo ci aiuta a non cadere in riflessioni che possono, di per sé, esser molto buone, ma che finiscono con l’omologare la vita della nostra gente o con il teorizzare a tal punto che la speculazione finisce coll’uccidere l’azione. Guardare continuamente al Popolo di Dio ci salva da certi nominalismi dichiarazionisti (slogan) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio, ricordo ora la famosa frase: “è l’ora dei laici” ma sembra che l’orologio si sia fermato.
Guardare al Popolo di Dio è ricordare che tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Il primo sacramento, quello che sugella per sempre la nostra identità, e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi, è il battesimo. Attraverso di esso e con l’unzione dello Spirito Santo, (i fedeli) “vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo” (Lumen gentium, n. 10). La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, la cui identità è “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (Lumen gentium, n. 9). Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo, e perciò, al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo essere molto attenti a questa unzione.
Devo al contempo aggiungere un altro elemento che considero frutto di un modo sbagliato di vivere l’ecclesiologia proposta dal Vaticano II. Non possiamo riflettere sul tema del laicato ignorando una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare – e a cui vi chiedo di rivolgere un’attenzione particolare –, il clericalismo. Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come “mandatario” limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati.
C’è un fenomeno molto interessante che si è prodotto nella nostra America Latina e che desidero citare qui: credo che sia uno dei pochi spazi in cui il Popolo di Dio è stato libero dall’influenza del clericalismo: mi riferisco alla pastorale popolare. È stato uno dei pochi spazi in cui il popolo (includendo i suoi pastori) e lo Spirito Santo si sono potuti incontrare senza il clericalismo che cerca di controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi. Sappiamo che la pastorale popolare, come ha ben scritto Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, “ha certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione”, ma prosegue, “se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all'eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri ‘pietà popolare’, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità… Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo” (n. 48). Papa Paolo VI usa un’espressione che ritengo fondamentale, la fede del nostro popolo, i suoi orientamenti, ricerche, desideri, aneliti, quando si riescono ad ascoltare e a orientare, finiscono col manifestarci una genuina presenza dello Spirito. Confidiamo nel nostro Popolo, nella sua memoria e nel suo “olfatto”, confidiamo che lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo Spirito non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiale.
Ho preso questo esempio della pastorale popolare come chiave ermeneutica che ci può aiutare a capire meglio l’azione che si genera quando il Santo Popolo fedele di Dio prega e agisce. Un’azione che non resta legata alla sfera intima della persona ma che, al contrario, si trasforma in cultura; “una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine” (Evangelii gaudium, n. 68).
Allora, da qui possiamo domandarci: che cosa significa il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica?
Oggigiorno molte nostre città sono diventate veri luoghi di sopravvivenza. Luoghi in cui sembra essersi insediata la cultura dello scarto, che lascia poco spazio alla speranza. Lì troviamo i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza. Che cosa significa per noi pastori il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica? Significa cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare e stimolare tutti i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri. Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza. Aprendo porte, lavorando con lui, sognando con lui, riflettendo e soprattutto pregando con lui. “Abbiamo bisogno di riconoscere la città” – e pertanto tutti gli spazi dove si svolge la vita della nostra gente - “a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze… Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero” (Evangelii gaudium, n. 71). Non è il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti. Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori.
Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. I ritmi attuali sono tanto diversi (non dico migliori o peggiori) di quelli che si vivevano trent’anni fa! “Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane” (Evangelii gaudium, n. 73). È illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta. Al contrario, dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale. E questo discernendo con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente. Come direbbe sant’Ignazio, “secondo le necessità di luoghi, tempi e persone”. Ossia non uniformando. Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica. L’inculturazione è un processo che noi pastori siamo chiamati a stimolare, incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta. L’inculturazione è imparare a scoprire come una determinata porzione del popolo di oggi, nel qui e ora della storia, vive, celebra e annuncia la propria fede. Con un’identità particolare e in base ai problemi che deve affrontare, come pure con tutti i motivi che ha per rallegrarsi. L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a “fabbricare mondi o spazi cristiani”.
Nel nostro popolo ci viene chiesto di custodire due memorie. La memoria di Gesù Cristo e la memoria dei nostri antenati. La fede, l’abbiamo ricevuta, è stato un dono che ci è giunto in molti casi dalle mani delle nostre madri, delle nostre nonne. Loro sono state la memoria viva di Gesù Cristo all’interno delle nostre case. È stato nel silenzio della vita familiare che la maggior parte di noi ha imparato a pregare, ad amare, a vivere la fede. È stato all’interno di una vita familiare, che ha poi assunto la forma di parrocchia, di scuola e di comunità, che la fede è giunta alla nostra vita e si è fatta carne. È stata questa fede semplice ad accompagnarci molte volte nelle diverse vicissitudini del cammino. Perdere la memoria è sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo. Questo è fondamentale, quando sradichiamo un laico dalla sua fede, da quella delle sue origini; quando lo sradichiamo dal Santo Popolo fedele di Dio, lo sradichiamo dalla sua identità battesimale e così lo priviamo della grazia dello Spirito Santo. Lo stesso succede a noi quando ci sradichiamo come pastori dal nostro popolo, ci perdiamo. Il nostro ruolo, la nostra gioia, la gioia del pastore, sta proprio nell’aiutare e nello stimolare, come hanno fatto molti prima di noi, madri, nonne e padri, i veri protagonisti della storia. Non per una nostra concessione di buona volontà, ma per diritto e statuto proprio. I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro.
Nel mio recente viaggio in terra messicana ho avuto l’opportunità di stare da solo con la Madre, lasciandomi guardare da lei. In quello spazio di preghiera, le ho potuto presentare anche il mio cuore di figlio. In quel momento c’eravate anche voi con le vostre comunità. In quel momento di preghiera, ho chiesto a Maria di non smettere di sostenere, come ha fatto con la prima comunità, la fede del nostro popolo. Che la Vergine Santa interceda per voi, vi custodisca e vi accompagni sempre!
Dal Vaticano, 19 marzo 2016
Francesco
Riprendiamo da Avvenire del 22/3/2016 un articolo di Alessandro Michelucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per pprofondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)
Il muro di silenzio dietro cui si era nascosta la tragedia dei bambini britannici si è ormai sgretolato. Lo dimostrano numerose iniziative. Oltre alla mostra di cui sotto, per esempio, Gordon Lynch ha scritto Remembering Child migration: Faith, nation-building and the wounds of charity (Bloomsbury 2016), il primo libro che esamina il caso britannico insieme a quello simile verificatosi negli Stati Uniti. Infatti dal 1850 al 1930 200.000 bambini svantaggiati – insieme a molte migliaia di adulti – furono costretti a emigrare soprattutto dalla costa orientale (erano gli anni in cui si stavano sviluppando grandi città come Boston e New York) agli Stati occidentali. I loro viaggi si svolgevano sui treni detti appunto orphan trains, ma in realtà non tutti i bambini erano orfani: molti erano figli di prostitute, di genitori alcoolizzati, eccetera.
Alla mostra londinese è associato il Cd The ballads of child migration, una bella raccolta di canzoni originali scritte da alcuni dei principali esponenti del folk britannico e irlandese, fra i quali John Doyle, Jez Lowe e Julie Matthews. Anche il teatro ha dato eco alla vicenda: nello scorso dicembre il Bush Theatre di Londra ha messo in scena Forget me not dell’australiano Tom Holloway, interpretato magistralmente da Russell Floyd. (A.Mich.)

Edward Gamsley, Mary Simpson, Clara Park, Cyril Lord: sono i nomi dei 4 bambini che la foto in bianco e nero ritrae l’uno accanto all’altro, ciascuno con una grossa valigia. Sono appena arrivati a Molong, cittadina dell’Australia orientale a 300 km da Sydney e la loro destinazione finale è la Fairfield Farm School, dove li attende una vita di lavori faticosi, solitudine, violenze fisiche e psicologiche. È il 23 aprile 1938. È solo una delle tante fotografie esposte nella mostra On Their Own: Britain’s Child Migrants, attualmente allestita al Museum of Childhood di Londra, dove sarà visibile fino al 12 giugno.
La rassegna fa parte di un ampio programma ideato da Gordon Lynch, docente di Teologia moderna all’Università del Kent, per far conoscere una tragedia dimenticata. Per capire di cosa si tratti, anche noi dobbiamo risalire all’inizio del XIX secolo. All’epoca Londra ha una popolazione che tocca il milione ed è la città più popolosa del pianeta. La capitale britannica sta già percorrendo la strada che la trasformerà presto in un centro politico, commerciale e finanziario di rilievo mondiale. Nascono fra l’altro la Royal Academy of Music (1822), il tratto ferroviario London-Brighton (1841) e la metropolitana (1863). Al tempo stesso, però, le strade pullulano di bambini poveri dediti all’accattonaggio e al furto. La loro presenza rappresenta un ostacolo alla modernizzazione: nasce così il Child Migration Scheme, il programma governativo che regola la loro emigrazione forzata.
Dagli anni Cinquanta dell’Ottocento agli anni Settanta del secolo successivo il governo britannico costringe oltre 130.000 bambini a emigrare in Australia, Canada e in altri Paesi del Commonwealth.
La loro età varia dai 3 ai 14 anni; una minima parte è costituita da orfani, mentre molti vengono da famiglie povere che non possono mantenerli. Sperando che questa emigrazione forzata garantisca ai bambini un futuro migliore, alcune organizzazioni umanitarie sostengono l’azione governativa convincendo le famiglie ad accettare il distacco e organizzando i viaggi.
In realtà Londra ha anche un altro obiettivo, quello di popolare le colonie e fornirle di manodopodera a basso costo: i bambini vengono infatti costretti a fare lavori di vario genere. In questo modo si dovrebbe consolidare la «cittadinanza imperiale» ( imperial citizenship) teorizzata da Thomas Sedgwick, secondo il quale spostarsi dalla Gran Bretagna alla Nuova Zelanda dovrebbe diventare normale come trasferirsi dalla Cornovaglia al Galles. Strappate alle famiglie e catapultate in luoghi estranei, queste vittime innocenti reagiscono in modi diversi: alcuni riescono a trovare un lavoro e a costruirsi una famiglia, ma alcuni non reggono e scelgono il suicidio.
Pochi vengono inseriti in contesti familiari accoglienti; la maggior parte viene rinchiusa in istituti per orfani, dove subisce violenze fisiche e psicologiche. I traumi che ne derivano sono gravissimi. Questa pratica disumana viene criticata, ma continua fino agli anni Settanta del secolo scorso. Ignorata da buona parte della popolazione, la questione diventa di pubblico dominio soltanto nel 1986, quando Margaret Humphreys, assistente sociale di Nottingham, riceve una lettera dall’Australia: una donna le racconta di stata mandata in Australia e rinchiusa in orfanotrofio.
Ora, dopo tanti anni, chiede di essere aiutata a ritrovare i parenti che vivono in Gran Bretagna. L’assistente sociale comincia quindi a fare delle ricerche e presto capisce che la lettera è soltanto la punta di un iceberg gigantesco. Il lavoro diventa così impegnativo che è necessaria una struttura organizzativa per realizzarlo: Margaret decide così di fondare il Child Migrants Trust. I compiti da svolgere sono tanti: aiutare le persone interessate, ormai adulte, a ritrovare le rispettive famiglie; ottenere documenti anagrafici originali; fornire assistenza psicologica; ottenere un riconoscimento ufficiale. Per dare maggiore visibilità a questo lavoro Margaret Humphreys scrive un libro, Empty Cradles ( Transworld 1994), dove racconta la tragica storia. Dopo l’inatteso successo editoriale il libro verrà trasposto sullo schermo dal regista Jim Loach, figlio del celebre Ken Loach, col titolo Oranges and Sunshine (2001).
Negli anni successivi l’azione del Child Migrants Truststimola alcune vittime a rompere il silenzio. George Bowley, che lasciò Brighton per la Rhodesia all’età di 9 anni, racconta la propria esperienza in A Son of The Empire: Britain’s Unwanted Children (Penrose Publishing 2014). Soltanto in anni recenti il governo australiano (2009) e quello britannico (2010) hanno espresso le loro scuse formali.
Riprendiamo da Avvenire del 31/3/2016 un’intervista di Alessandro Zaccuri a Amin Maalouf. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)
Il festival. Venezia crocevia di civiltà
È stata inaugurata ieri da Amin Maalouf (lo scrittore franco-libanese le cui opere sono pubblicate in Italia da Bompiani) la nona edizione di “Incroci di civiltà”, il festival internazionale di letteratura promosso a Venezia dall’Università Ca’ Foscari in collaborazione con altre importanti istituzioni cittadine. Fino a sabato 2 aprile il programma prevede incontri con autori provenienti da tutto il mondo, dallo statunitense Garth Risk Hallberg (che oggi pomeriggio alle 18 presenterà all’Auditorium Santa Margherita il suo monumentale libro d’esordio, Città in fiamme, Mondadori) al messicano Paco Ignacio Taibo II, che concluderà la manifestazione. Le autorità di Baku hanno invece impedito all’ultimo momento di partecipare al festival al dissidente azero Akram Aylisli, il cui romanzo Sogni di pietra è edito in Italia da Guerini e Associati: lo hanno arrestato e poi, rilasciandolo, gli hanno trattenuto il passaporto. Per informazioni www.incrocidicivilta.it.
L’Académie Française ha assegnato ad Amin Maalouf il seggio numero 29, riservato in precedenza a Claude Lévi-Strauss, l’antropologo che più di ogni altro ha guidato l’Europa nella conoscenza e nella comprensione delle altre culture. Un passaggio di consegne perfetto, dato che il franco-libanese Maalouf – nato a Beirut nel 1949 e dal 1976 residente a Parigi – è da tempo considerato il portavoce di una mentalità cosmopolita e meticcia, che non nega il concetto di identità ma lo rielabora in modo dinamico e personale. In Italia per inaugurare la nona edizione del festival veneziano Incroci di Civiltà, lo scrittore (che proprio alla vicenda dell’Académie Française si è ispirato per il suo Un fauteuil sur la Seine, “Un seggio sulla Senna”, edito di recente da Grasset) sostiene infatti che l’identità, oggi, si costituisce «per accumulo, non per discriminazione».
In che senso?
«Chi emigra da un Paese all’altro deve essere messo nella condizione di aderire pienamente alla nuova cultura nella quale si inserisce senza per questo dover rinnegare quella da cui proviene. Se riuscissimo a stabilire e rispettare il principio di questa doppia cittadinanza, compiremmo un passo decisivo, che permetterebbe di uscire dalla situazione, pericolosissima, nella quale ci troviamo attualmente. Smentendo le previsioni del passato, l’identità contemporanea non si basa purtroppo su una pluralità di punti di vista. Al contrario, c’è un ritorno sempre più ossessivo e violento a una visione unilaterale della realtà, con la quale ci si identifica in modo acritico, considerando come un nemico chiunque non voglia adeguarsi».
Dal suo tono si direbbe quasi sorpreso.
«Sarò sincero: non è il mondo nel quale avevo sperato, non è la società che la mia generazione aveva immaginato. Eravamo convinti che con un po’ di saggezza, razionalità e umanità saremmo riusciti a vivere in pace gli uni con gli altri, a dispetto di ogni differenza. Non è andata così, e questo mi rattrista molto. Viviamo in un mondo che sembra non contemplare più il dialogo, che non distingue le sfumature e che, appunto, non accetta quella molteplicità di prospettive ed esperienze dalla quale, nella mia convinzione, scaturisce la verità. Vede, a metà dagli anni Settanta, quando ho lasciato il Libano, ero molto critico rispetto al modo in cui veniva gestita la convivenza tra le diverse comunità presenti nel mio Paese. Già allora ero persuaso che l’obiettivo a cui tendere fosse un altro».
Quale?
«Il superamento del particolarismo che ciascuna comunità finisce per rivendicare e, di conseguenza, il costituirsi di una società che fosse semplicemente umana, senza necessità di ulteriori qualifiche. Ma ora anche in Europa le singole comunità si fanno via via più aggressive, in un crescendo di frammentazione e opposizione sempre più evidente».
Sta dicendo che l’Europa è sotto attacco per la sua debolezza?
«Non voglio essere frainteso. È vero, ci sono responsabilità che risalgono all’epoca coloniale. Ed è innegabile che l’Unione europea avrebbe bisogno, e non da oggi, di una struttura più efficace sul piano politico ed economico. Come vediamo anche in questi giorni, troppo spesso decisioni cruciali sono prese non dall’Unione, ma da Stati di medie o addirittura piccole dimensioni. L’Europa potrebbe fare di meglio, ma il problema non è l’Europa».
Si riferisce al terrorismo?
«Al processo di radicalizzazione, al riaffermarsi di una mentalità identitaria, a tutti i problemi di cui si dibatte in questo momento. Possono esserci, caso per caso, motivazioni locali di natura politica o sociale, ma l’origine di questi fenomeni è unica e coincide con la crisi senza precedenti in cui si trova il mondo arabo. È un panorama desolante, di disintegrazione morale e ideale, un’impasse che può essere più o meno accentuata da altri fattori. Il dato principale resta però drammaticamente immutato: quello che accade a Parigi o a Bruxelles è, in sostanza, una conseguenza delle divisioni e delle rivalità all’interno della società araba».
Nel suo ultimo romanzo, I disorientati, descrive il ritorno impossibile di un intellettuale arabo nel Paese da cui è partito anni prima: è un segno di resa?
«È una tentazione, a volte anche molto forte. Ma non credo che vada assecondata. Semmai, è proprio la desolazione del nostro tempo a richiedere un impegno maggiore, a spronarci a lottare di più per i valori dell’umanesimo o, se si preferisce, per riportare nel mondo un minimo di decenza e di rispetto. Sarà un cammino lunghissimo, del quale non sono destinato a vedere la conclusione, ma un giorno gli esseri umani si stancheranno di farsi la guerra a vicenda, non ne potranno più di odiarsi e ammazzarsi. E a quel punto, finalmente, si renderanno conto di appartenere tutti alla medesima avventura».
Quale ruolo possono avere le religioni in questo percorso?
«Sono un fautore della laicità che, se intesa in modo corretto, non implica affatto la cancellazione dell’esperienza religiosa dall’orizzonte sociale. La laicità, secondo me, deve articolarsi lungo tre linee. Anzitutto, nessun cittadino può essere discriminato in base alla sua appartenenza religiosa. In secondo luogo, le varie confessioni non possono essere classificate come dominanti o dominate. Infine, alla religione non va attribuito un ruolo direttamente politico, ma deve essere garantita la sua presenza discreta in ambito sociale. Quando non assume atteggiamenti a sua volta dogmatici, la laicità è il fondamento delle società moderne».
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di J. Ratzinger pubblicato sulla stessa rivista il 25/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi di J. Ratzinger-Benedetto XVI, cfr. la sotto-sezione Documenti del magistero degli ultimi pontefici nella sezione Bibbia e magistero della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)
Il testo presentato è il saggio di apertura di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI contenuto in Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, secondo tomo del volume VI della Opera omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Il primo tomo del VI volume raccoglie e presenta i libri della trilogia su Gesù di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI (2007, 2011, 2013) e porta il sottotitolo La figura e il messaggio (LEV 2014).

Nelle grandi composizioni sulla Passione di Johann Sebastian Bach, che ogni anno ascoltiamo durante la Settimana Santa con emozione sempre nuova, il terribile avvenimento del Venerdì Santo è immerso in una trasfigurata e trasfigurante bellezza. Certo, queste Passioni non parlano della Risurrezione – si concludono con la sepoltura di Gesù –, ma nella loro limpida solennità vivono della certezza del giorno di Pasqua, della certezza della speranza che non svanisce nemmeno nella notte della morte. Oggi, questa fiduciosa serenità della fede – che non ha nemmeno bisogno di parlare di Risurrezione, perché è in essa che la fede vive e pensa – ci è diventata stranamente estranea. Nella Passione del compositore polacco Krystof Penderecki è scomparsa la serenità quieta di una comunità di fedeli che quotidianamente vive della Pasqua. Al suo posto risuona il grido straziante dei perseguitati di Auschwitz, il cinismo, il brutale tono di comando dei signori di quell’inferno, le urla zelanti dei gregari che vogliono salvarsi così dall’orrore, il sibilo dei colpi di frusta dell’onnipresente e anonimo potere delle tenebre, il gemito disperato dei moribondi.
È il Venerdì Santo del XX secolo. Il volto dell’uomo è schernito, ricoperto di sputi, percosso dall’uomo stesso. “Il capo coperto di sangue e di ferite, pieno di dolore e di scherno” ci guarda dalle camere a gas di Auschwitz. Ci guarda dai villaggi devastati dalla guerra e dai volti dei bambini stremati nel Vietnam; dalle baraccopoli in India, in Africa e in America Latina; dai campi di concentramento del mondo comunista che Alexander Solzhenitsyn ci ha messo davanti agli occhi con impressionante vivezza. E ci guarda con un realismo che sbeffeggia qualsiasi trasfigurazione estetica. Se avessero avuto ragione Kant e Hegel, l’illuminismo che avanzava avrebbe dovuto rendere l’uomo sempre più libero, sempre più ragionevole, sempre più giusto. Dalle profondità del suo essere salgono invece sempre più quei demoni che con tanto zelo avevamo giudicato morti, e insegnano all’uomo ad avere paura del suo potere e insieme della sua impotenza: del suo potere di distruzione, della sua impotenza a trovare se stesso e a dominare la sua disumanità.
Il momento più tremendo del racconto della Passione è certo quello in cui, al culmine della sofferenza sulla croce, Gesù grida a gran voce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Sono le parole del Salmo con le quali Israele sofferente, maltrattato e deriso a causa della sua fede, grida in faccia a Dio il suo bisogno d’aiuto. Ma questo grido di preghiera di un popolo, la cui elezione e comunione con Dio sembra essere diventata addirittura una maledizione, acquista tutta la sua tremenda grandezza solo sulle labbra di colui che è proprio la vicinanza redentrice di Dio fra gli uomini. Se sa di essere stato abbandonato da Dio lui, allora dove è ancora possibile trovare Dio? Non è forse questa la vera eclissi solare della storia in cui si spegne la luce del mondo? Oggi, tuttavia, l’eco di quel grido risuona nelle nostre orecchie in mille modi: dall’inferno dei campi di concentramento, dai campi di battaglia dei guerriglieri, dagli slums degli affamati e dei disperati: “Dove sei Dio, se hai potuto creare un mondo così, se permetti impassibile che a patire le sofferenze più terribili siano spesso proprio le più innocenti tra le tue creature, come agnelli condotti al macello, muti, senza poter aprire bocca?”.
L’antica domanda di Giobbe si è acuita come mai prima d’ora. A volte prende un tono piuttosto arrogante e lascia trasparire una malvagia soddisfazione. Così, ad esempio, quando alcuni giornali studenteschi ripetono con supponenza quel che in precedenza era stato inculcato loro, e cioè che in un mondo che ha dovuto imparare i nomi di Auschwitz e del Vietnam non è più possibile parlare sul serio di un Dio “buono”. In ogni caso, il tono falso che troppo spesso l’accompagna, nulla toglie all’autenticità della domanda: nell’attuale momento storico è come se tutti noi fossimo posti letteralmente in quel punto della passione di Gesù in cui essa diviene grido d’aiuto al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Cosa si può dire? Si tratta al fondo di una domanda che non è possibile dominare con parole e argomentazioni, perché arriva a una profondità tale che la pura razionalità e la parola che ne deriva non sono in grado di misurare: il fallimento degli amici di Giobbe è l’ineludibile destino di tutti quelli che pensano di poter risolvere la questione, in modo positivo o negativo che sia, con abili ragionamenti e parole. È una domanda che può solo essere vissuta, patita: con colui e presso colui che sino alla fine l’ha patita per tutti noi e con tutti noi.
Un superbo credere di poter risolvere la questione – vuoi nel senso di quei giornali studenteschi, vuoi nel senso dell’apologetica teologica – finisce per non centrare l’essenziale. Al massimo si può offrire qualche spunto.
Va notato innanzitutto che Gesù non constata l’assenza di Dio, ma la trasforma in preghiera. Se vogliamo porre il Venerdì Santo del ventesimo secolo dentro il Venerdì Santo di Gesù, dobbiamo far coincidere il grido d’aiuto di questo secolo con quello rivolto al Padre, trasformarlo in preghiera al Dio comunque vicino. Si potrebbe subito proseguire la riflessione e dire: è veramente possibile pregare con cuore sincero quando nulla si è fatto per lavare il sangue degli oppressi e per asciugarne le lacrime? Il gesto della Veronica non è il minimo che debba accadere perché sia lecito iniziare a parlare di preghiera? Ma soprattutto: si può pregare solo con le labbra o non è sempre necessario invece tutto l’uomo?
Limitiamoci a questo accenno, per considerare un secondo aspetto: Gesù ha veramente preso parte alla sofferenza dei condannati, mentre in genere noi, la maggior parte di noi, siamo solo spettatori più o meno partecipi delle atrocità di questo secolo. A questo si collega un’osservazione di un certo peso. È curioso infatti che l’affermazione che non può esserci più alcun Dio, che Dio dunque è totalmente scomparso, si levi con più insistenza dagli spettatori dell’orrore, da quelli che assistono a tali mostruosità dalle comode poltrone del proprio benessere e credono di pagare il loro tributo e tenerle lontane da sé dicendo: “Se accadono cose così, allora Dio non c’è”. Per coloro che invece in quelle atrocità sono immersi, l’effetto non di rado è opposto: proprio lì riconoscono Dio. Ancora oggi, in questo mondo, le preghiere si innalzano dalle fornaci ardenti degli arsi vivi, non dagli spettatori dell’orrore. Non è un caso che proprio quel popolo che nella storia più è stato condannato alla sofferenza, che più è stato colpito e ridotto in miseria – e non solo negli anni 1940-1945, ad “Auschwitz” –, sia divenuto il popolo della Rivelazione, il popolo che ha riconosciuto Dio e lo ha manifestato al mondo. E non è un caso che l’uomo più colpito, che l’uomo che più ha sofferto – Gesù di Nazaret – sia il Rivelatore, anzi: era ed è la Rivelazione. Non è un caso che la fede in Dio parta da un capo ricoperto di sangue e ferite, da un Crocifisso; e che invece l’ateismo abbia per padre Epicuro, il mondo dello spettatore sazio.
D’improvviso balena l’inquietante, minacciosa serietà di quelle parole di Gesù che abbiamo spesso accantonato perché le ritenevamo sconvenienti: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. Ricco vuol dire uno che “sta bene”, uno cioè che è sazio di benessere materiale e conosce la sofferenza solo dalla televisione. Proprio di Venerdì Santo non vogliamo prendere alla leggera queste parole che ci interpellano ammonitrici. Di sicuro non vogliamo e non dobbiamo procurarci dolore e sofferenza da noi stessi. È Dio che infligge il Venerdì Santo, quando e come vuole. Ma dobbiamo imparare sempre più – e non solo a livello teorico, ma anche nella pratica della nostra vita – che tutto il buono è un prestito che viene da Lui e ne dovremo rispondere davanti a Lui. E dobbiamo imparare – ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire – che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi. E, anno dopo anno, il Venerdì Santo ci esorta in modo decisivo ad accogliere questo nuovamente in noi.
II

L’immagine di Cristo crocifisso, che sta al centro della liturgia del Venerdì Santo, manifesta tutta la serietà della sofferenza, dello smarrimento e del peccato dell’uomo. E tuttavia, lungo i secoli della storia della Chiesa, è stata sempre percepita come immagine di consolazione e di speranza. L’Altare di Isenheim di Matthias Grünewald, forse l’immagine della croce più toccante di tutta la cristianità, si trovava in un convento di Antoniani nel quale venivano curati quelli che erano stati colpiti dalle terribili epidemie che flagellarono l’Occidente nel tardo Medioevo. Il Crocifisso è raffigurato come uno di loro, l’intero suo corpo piagato e coperto dai bubboni della peste, il più oscuro male del tempo. Si avverano in lui le parole del profeta: è ricoperto dai nostri bubboni. I monaci pregavano di fronte a questa immagine con i loro malati, che trovavano consolazione nel riconoscere che, in Cristo, Dio pativa insieme a loro. Da questa immagine essi sapevano che, proprio grazie alla loro malattia, erano identici a Cristo crocifisso che, colpito anche lui, si era unito a tutti coloro che nella storia erano stati colpiti; sperimentavano la presenza del Crocifisso nella loro croce e, attraverso la loro sofferenza, si sapevano ancorati in Cristo e così immersi nell’abisso dell’eterna misericordia. Sentivano la sua croce come la loro redenzione.
Oggi molti uomini provano una profonda diffidenza verso questa idea di redenzione. Seguendo Karl Marx, considerano consolatoria, di fronte alla valle di lacrime terrena, la consolazione in cielo, perché in nulla migliora la miseria nel mondo, bensì la perpetua, in ultima analisi solo a vantaggio di chi ha interesse al mantenimento dello status quo. Invece della consolazione, essi esigono un cambiamento che redima eliminando il dolore. Non la redenzione attraverso il dolore, ma la redenzione dal dolore: questa è la parola d’ordine; non l’attesa dell’aiuto divino, ma l’umanizzazione dell’uomo per mezzo dell’uomo: questo è il compito. A questo punto, naturalmente, si può subito obiettare che sono false le alternative proposte; perché è del tutto evidente che gli Antoniani vedevano nella croce di Cristo non una scusa che li avrebbe esonerati da un’opera mirata e organizzata di aiuto agli uomini. Con 369 ospedali sparsi in tutta Europa, gli Antoniani avevano realizzato una rete di soccorso nella quale la croce di Cristo era assunta come esortazione pratica a cercare Cristo nel sofferente e a sanare il suo corpo ferito: dunque a cambiare il mondo e a far cessare il dolore . È lecito chiedersi se oggi, all’invocare a gran voce umanità e umanizzazione, corrisponda un impulso reale a servire e a soccorrere pari ad allora. A volte si ha la sensazione che vogliamo riscattarci da un compito che è diventato troppo faticoso per noi col parlarne, almeno, in modo altisonante. In ogni caso già oggi viviamo, in larga misura, prendendo dai Paesi più poveri persone con il compito di servire, perché nei nostri popoli l’impulso a servire è divenuto troppo debole. E tuttavia bisogna chiedersi quanto possa vivere un organismo sociale nel quale viene meno un organo vitale che a lungo andare non è rimpiazzabile con un trapianto.
In questo senso, proprio anche nell’ambito della necessaria opera di costruzione e cambiamento del mondo da parte dell’uomo, la questione dovrà essere considerata diversamente da come avviene nelle facili contrapposizioni oggi di moda. Tuttavia con questo la domanda in questione non ha ancora avuto completamente risposta. Perché gli Antoniani, conformemente al Credo cristiano, non solo hanno annunciato e praticato la redenzione dalla croce ma anche la redenzione per mezzo della croce. È richiamata così una dimensione dell’esistenza umana che oggi ci sfugge sempre più e che tuttavia costituisce l’autentico nucleo del fatto cristiano, a partire dal quale soltanto è possibile comprendere l’operare cristiano per e in questo mondo.
Come è possibile coglierlo? Tenterò di accennarvi rifacendomi allo sviluppo dell’immagine della croce in un artista moderno che, pur non essendo cristiano, fu tuttavia sempre più avvinto dalla figura del Crocifisso, avvicinandosi sempre più al suo nocciolo: Marc Chagall. Il Crocifisso compare la prima volta in una delle sua primissime opere, nel 1912. Nel contesto della composizione è visto come un bambino; esprime il dolore degli innocenti, il dolore innocente in questo mondo, che proprio come tale è segno di speranza. Poi dalle opere di Chagall il Crocifisso scompare per 25 anni buoni, e ricompare di nuovo solo nel 1937 con un significato mutato, approfondito.
Il Trittico della crocifissione composto in quell’anno ha una singolare anticipazione in un’altra immagine tripartita che più tardi Chagall distrusse e della quale tuttavia esiste ancora lo schizzo a colori ad olio. L’opera è intitolata “Rivoluzione”. Nella parte sinistra si vede una massa eccitata che sventola bandiere rosse brandendo armi: è la raffigurazione della Rivoluzione in quanto tale. La metà destra del dipinto raffigura scene di pace e di gioia: sole, amore, musica. L’opera della rivoluzione sarà un mondo trasformato, redento, sanato. Al centro, a congiungere le due parti, si vede un uomo che fa una verticale. È chiaramente un riferimento diretto a Lenin, che simboleggia per antonomasia la rivoluzione, nella quale il sotto diventa sopra e la destra diviene sinistra, nella quale si compie quell’inversione totale che significa avvento di un mondo nuovo. Si ha l’impressione che venga evocato un testo gnostico risalente alle origini del cristianesimo, nel quale si dice che Adamo, cioè la natura dell’uomo, sta a testa in giù e per questo scambia sopra e sotto, destra e sinistra; per mettere a posto l’uomo e il mondo sarebbe necessaria una completa inversione dei valori: la rivoluzione. Si potrebbe definire questo quadro di Chagall quasi come un altare della teologia politica; egli, come già aveva atteso nel 1917 la salvezza dalla Rivoluzione russa, allo stesso modo, dopo la prima delusione, la sperò una seconda volta dal governo del Fronte Popolare che era andato al potere in Francia nel 1937.

Il fatto che abbia distrutto quell’opera mostra come, questa seconda volta, la speranza in lui venne meno definitivamente. Creò il trittico da capo, con la medesima disposizione strutturale: a destra l’immagine dell’avvento della salvezza – ora raffigurato in modo più limpido e chiaro rispetto a prima – a sinistra il mondo in subbuglio (segnato ora però più dal dolore che dalla lotta) sovrastato dal Crocifisso. Il cambiamento decisivo, che conferisce anche alle due parti laterali un significato nuovo, si trova al centro: il posto del simbolo della rivoluzione e della sua ammaliante speranza è preso dall’immagine del Crocifisso, di inconsueta grandezza. Il rabbino – l’Antico Testamento, Israele –, che nel trittico precedente stava seduto, quasi a conferma, a fianco di Lenin, ora si trova ai piedi del Crocifisso. Non più Lenin, ma il Crocifisso è la speranza d’Israele, la speranza del mondo.
Non è necessario chiedersi fino a che punto Chagall si sia voluto qui avvicinare di proposito all’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento, della storia e più in generale dell’uomo. Indipendentemente da tutto questo, chi veda i due dipinti l’uno accanto all’altro ne potrà ricavare una decisiva affermazione cristiana. La salvezza del mondo ultimamente non viene dalla trasformazione del mondo, da una politica divinizzata, innalzata ad assoluto. È necessario lavorare al cambiamento del mondo, sempre: in modo concreto e sincero, realistico, paziente, umano. E tuttavia c’è un’esigenza e una domanda dell’uomo che va al di là di tutto quello che la politica e l’economia possono dare; una domanda alla quale è possibile rispondere solo attraverso Cristo crocifisso, attraverso l’uomo nel quale il nostro dolore tocca il cuore di Dio, l’amore eterno. Perché è di esso che ha sete l’uomo, e senza di esso, nonostante tutti i miglioramenti possibili e anche necessari, egli rimane un esperimento assurdo. La consolazione che proviene da colui che porta i nostri lividi ci è necessaria anche oggi, proprio oggi. È Lui, in verità, l’unica consolazione non consolatoria. Dio conceda che i nostri occhi e il nostro cuore si aprano a questa consolazione; che diveniamo capaci di vivere in essa e di ritrasmetterla; che, in mezzo al Venerdì Santo della storia, riceviamo il mistero pasquale del Venerdì Santo di Cristo e così diveniamo dei redenti.
(Traduzione di Pierluca Azzaro, ©copyright Libreria Editrice Vaticana 2015)
Riprendiamo da Avvenire del 10/4/2016 un articolo di Fabrice Hadjaj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)
È tornata la primavera. Gli alberi fioriscono, gli uccelli cinguettano, le ranocchie si rimettono a gracidare – perlomeno in quei luoghi dove ancora ci sono rane, uccelli e alberi. Perché, per molti abitanti delle città, i segni della primavera sono altri: un soleggiamento che disturba la visione degli schermi ma che illumina un po' meglio le nuove promozioni esposte nelle vetrine e soprattutto le maniche corte, le minigonne e le scollature delle ragazze a passeggio…
Non ci fossero più gli uccelli, ci sarebbero ancora quei seni da colomba. Non ci fossero più i fiori, ci sarebbero ancora quelle gambe che spuntano come pistilli fantastici dalla corolla. E le rane sono là, nelle nostre gole, sotto le nostre cinture, pronte a far sentire il loro rauco appello, pronte a balzare al passaggio di quelle ninfe spaesate dove si concentra ormai tutto quel che resta delle grazie della bella stagione…
Dove trovare, infatti, la natura in mezzo al cemento ad alte prestazioni, le vetrate dinamiche e le autostrade dell'informazione? Dove sono, nelle nostre città connesse, le foreste e i fiumi, le cerve e i boschi se non in quelle che nella mia lingua francese un tempo erano dette “belle piante” o “leggiadre gazzelle”, senza sapere che un giorno esse sarebbero state il rifugio dell'ultima gazzella e dell'ultima pianta?
Nel mondo super-urbano, il corpo sessuato è l'ultimo bastione della vita naturale, per non dire della vita selvaggia. Ed è per questo che le rivendicazioni che pesano su di esso sono sempre più forti e, non potendo essere sostenute, finiscono per schiacciarlo.
Certo, nella poesia come nella pittura, la presenza femminile è da sempre legata al paesaggio. Lo capta, lo condensa, gli dà una forma abbracciabile. Basta leggere il Cantico dei Cantici: qui, nel corpo della persona amata – che non è soltanto un microcosmo ma un cosmo che si offre al nostro desiderio – si ritrovano cavalli, cerbiatti, pecore, colombe, un giglio delle valli, un giardino di melagrane, un mucchio di grano… Il poeta non smette di dirlo: Dio ha creato la donna affinché l'uomo possa abbracciare l'universo.
Questo non è nuovo. La novità è che con la scomparsa della campagna, in una megalopoli in cui gli spazi verdi sembrano più finti dei fiori finti e dove gli animali domestici somigliano a grossi giocattoli o a piccoli impiegati, l'altro sesso non riassume più la natura: deve rimpiazzarla. La carne deve supplire alla perdita della terra.
E così si fa pressione sul corpo dell'altro, gli si richiede più di quanto non possa dare: di essere, non amorosamente, ma concretamente tutto, di prendere su di sé tutta la realtà materiale, di diventare il sentiero campestre, la terra arabile, la giungla amazzonica, la mucca, la lupa, la gallina, la mantide religiosa e infine tutta la fauna e la flora e le stelle che abbiamo distrutto, allontanato o virtualizzato.
È probabilmente questa una delle ragioni per le quali carnalità e sesso sono diventati così pregnanti nel pensiero contemporaneo. Non è tanto che si cerchi di pensare la carne e il sesso. È che si ripiega su di essi, perché sono le ultime cose almeno un po' naturali, gli ultimi dati che non abbiamo ancora interamente smontato e rimontato – il fiore che resta, l'animale che persiste, la creatura appena uscita dal giardino.
Ma questa focalizzazione, invece di preservarli, li condanna a loro volta allo sfruttamento. Édith Piaf canta ne L'hymne à l'amour: «Il cielo blu su di noi può crollare / E la terra può sprofondare / non me ne importa se tu mi ami».
Ma noi non possiamo realmente amare senza poggiare i piedi sulla terra e sollevare gli occhi verso il cielo. Non possiamo chiedere all'uomo o alla donna che amiamo di essere per noi il cielo e la terra senza appiattirli o vaporizzarli. Ecco perché l'amore dell'uomo e della donna non si compie sull'isola deserta. Esige di per sé, per essere preservato, un'ecologia.
Riprendiamo da Avvenire del 20/3/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)

Anche se non è concessa a ogni zoologo, l'esperienza di una famiglia acquisita con il matrimonio è probabilmente quella dove si prova di più la biodiversità. Certo, c'è la diversità delle specie. Certo, c'è la diversità delle etnie e delle culture. Ma c'è anche, all'interno di una stessa area culturale, la diversità delle famiglie, con le loro usanze a volte così strane da sorprenderci più di ogni possibile esotismo. D'altronde, è la differenza dei sessi a farci entrare in questa diversità più sottile, e, nonostante l'impressione di mistero che suscitano in me il pesce-angelo dalla faccia gialla e il cianerpe zamperosse dell'Amazzonia, debbo confessare che mia moglie rimane infinitamente più misteriosa e rende del tutto vani i miei sforzi di etologia scientifica. A questo potrei aggiungere la singolarità di ciascuno dei nostri sette figli che ci permette di accostarci – dato che i genitori vedono differenze che gli altri non vedono – alla singolarità di ogni persona umana…
Guardando i viventi negli occhi, Aristotele notava che la specie umana era al suo interno più differenziata di qualsiasi altra specie animale: «Soltanto per l'uomo, o piuttosto soprattutto per l'uomo, il colore degli occhi varia così tanto. Gli altri animali hanno solamente un colore. Talvolta i cavalli hanno uno dei due occhi di colore blu». Plutarco, che si spinge fino a contestare il diritto di mangiare la carne e che dubita, non senza ragioni, della nostra superiorità assoluta sul maiale, osserva «che non si trova così grande distanza tra bestia e bestia, come se ne trova tra uomo e uomo».
Si può mettere dunque seriamente in discussione l'affermazione brutale secondo cui «l'uomo distrugge la biodiversità sulla terra» (affermazione che in se stessa distrugge ogni sfumatura del pensiero). Da una parte, bisogna riconoscere che l'uomo e la donna sono i primi garanti di tale biodiversità, non soltanto in loro stessi, per la differenza che generano, ma anche perché la biodiversità diventa notevole soltanto sotto lo sguardo umano (nessuna altra specie può constatare, pensare, amare la biodiversità in quanto tale, e la “natura” non ci ha aspettato per procedere senza alcuna emozione a estinzioni di massa come quelle del Cretaceo o del Permiano, quando sparì bruscamente il 90% delle specie). D'altra parte, a causa della sua generalità senz'appello, tale affermazione serve comodamente da scusa: accusando l'umanità in quanto tale, essa permette di eludere il fatto che è il sistema di sovrapproduzione tecno-industriale che è oggi il primo responsabile della devastazione e dell'uniformizzazione delle piante e degli animali, ma anche degli uomini e delle culture. Insieme al grande pinguino d'Islanda, il dodo delle Mauritius e la rana dorata di Panama, si sono estinti i contadini, i conciatori, i carradori, i droghieri, i vecchi che conservavano la memoria delle tradizioni locali. Abbiamo riservato agli uni come agli altri un posto d'onore nostalgico sulle nostre enciclopedie online o nei nostri musei.
Del resto, su cosa si fonda il nostro desiderio e il nostro dovere nei confronti di una certa biodiversità? Sulla nostra stessa specificità. Essere umani è essere capaci di preoccuparsi delle altre specie. Tommaso d'Aquino definisce lo spirito non come un potere di manipolazione totale ma come ciò che può «convenire cum omni ente», andare incontro a ogni essere, nella sua differenza, al di là di qualsiasi utilità. Al principio «il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (Gn 2, 19). Certo, è davanti alla donna che Adamo si meraviglia e canta il suo primo cantico – una donna per la quale il suocero era Dio in persona (e perfino in tre Persone). Ma la nostra missione sta qui: chiamare per nome e coltivare la differenza degli esseri, celebrare la generosità del Creatore attraverso la splendida varietà delle sue opere, cantare con verità il versetto «Su tutta la terra la tua gloria» (Sal 56, 6) di quel salmo intitolato Non distruggere.
Riprendiamo da La stampa del 12/4/2016 un articolo di Massimo Gramellini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)
I quattro adolescenti rom che sguainano impavidi i pollicioni davanti alla fotocamera non sono una rock band, ma una band e basta, immortalata nella sala d’aspetto di un distretto di polizia. Hanno divelto un tombino nel centro di Vicenza alle quattro e mezza della notte e lo hanno scagliato contro la vetrina di un negozio che esponeva due nuovi modelli di iPhone. Sono stati presi mentre scappavano con la refurtiva. Il capo ha quindici anni. Gli altri, tra i quali una ragazzina fuggita da una casa-comunità, anche meno.
Dire che non sembrano pentiti è un eufemismo. È che non sembrano neanche preoccupati delle conseguenze. Si comportano da impuniti perché sanno che tanto nessuno li punirà. Infatti, subito dopo la foto, sono stati rimessi in libertà.
Ora, non dico di mandarli in carcere, dove imparerebbero soltanto a diventare peggiori. Ma cosa vieta di spedirli due ore al giorno a fare gli spazzini in un parco pubblico o i camerieri alla mensa dei poveri? Altrimenti cresceranno con l’idea che la vita sia un luogo senza regole, dove a ogni azione non segue mai qualche forma di reazione. Voglio vivere in uno Stato che non faccia paura. Ma uno Stato che non incute più rispetto si merita quei pollicioni, simbolo della sua resa.
Riprendiamo dal sito http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/27/italia-2050-ecco-come-abbiamo-sconfitto-la-denatalita/29416/ un articolo di di Francesco Cancellato pubblicato il 27/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2016)
«2,1 figli per coppia: la popolazione italiana ha ricominciato a crescere». Così, l’Istat, in un comunicato stampa di ieri, 26 febbraio 2051, ha annunciato che lo scorso anno, dopo una rincorsa lunga venticinque anni, l’Italia ha finalmente raggiunto la fatidica soglia di sostituzione. Non è un numero qualunque: questa cifra, infatti, rappresenta il tasso di natalità che consente alla popolazione di un Paese di “sostituirsi”. In altre parole, ogni persona ne mette al mondo un’altra.
Un comunicato del Governo parla di risultato storico e, per una volta, la retorica non è fuori luogo. Per comprenderlo, basta osservare i dati di qualche anno fa. Più precisamente, nel 2016. Anno in cui si preconizzava che gli ultranovantacinquenni sarebbero decuplicati nel giro di cinquant’anni, che la popolazione straniera sarebbe passata dal 10% al 20% del totale, che gli ultraottantenni sarebbero stati, nel giro di un decennio, meno delle persone sotto i dieci anni di età.
Ne avevano ben donde, a preoccuparsi, i nostri genitori. Nel 2015 si contavano 488mila nascite, record negativo dall’unità d’Italia. In quegli anni, i bambini italiani erano circa 3,3 milioni, due milioni in meno rispetto al 1971. Allo stesso modo, gli anziani con più di 65 anni erano 12 milioni, circa il doppio rispetto a quarant’anni prima. Una tendenza, questa, che nella grande crisi economica si era ulteriormente acuita: il tasso di natalità era infatti sceso del 7,4% tra il 2008 e il 2012 e del 4,3% nel 2013. Non bastasse, in dieci anni - fra il 2001 e il 2011 - la classe d’età dei 25-29enni si era ridotta di 30mila unità figlia di un processo di emigrazione di massa verso paesi con maggiori e migliori opportunità di lavoro.
Persino gli stranieri, una volta in Italia, smettevano di fare figli: nel 2008 la media di figli per donna era pari a 2,65, nel 2014 è scesa a 1,97. «Se i flussi immigratori non superano determinate soglie dimensionali - spiegava una mozione di Area Popolare in discussione a Montecitorio nel febbraio del 2016 - anche gli immigrati rapidamente invertono la tendenza: in Italia la popolazione immigrata è passata da livelli di fecondità largamente superiori alla soglia di ricambio generazionale, a livelli che ne permettono appena il ricambio e tendono ad abbassarsi ulteriormente».
Risultato? I conti pubblici erano diventati una bomba a orologeria. In quegli anni, Il 27,9% della spesa nazionale (pari al 14,1% del Pil, a 221 miliardi di euro e a 3.719 euro a testa) finiva per pagare le pensioni di anzianità. Cifra che, aumentando gli anziani e diminuendo la forza lavoro, sarebbe stata destinata fisiologicamente ad aumentare. Non solo: in un circolo vizioso destinato ad autoalimentarsi, la domanda interna si contraeva di mese in mese. Il motivo? Una popolazione giovane e un buon numero di figli sono uno stimolo ai consumi. Se diminuiscono i giovani, diminuisce una fascia di persone che ha una vita intera di bisogni e di desideri da realizzare, dall’acquisto di una casa a quello di un’automobile. Per far sopravvivere l’economia, in un simile contesto, l’unica strada è esportare, esportare, esportare. E per farlo, occorre guadagnare produttività, tagliando il costo del lavoro e il potere d’acquisto. Cosa che, a sua volta, spinge le persone a fare meno figli. Secondo Amlan Roy, responsabile delle ricerche demografiche per il Credit Suisse, «l’invecchiamento demografico rallenta il prodotto interno lordo, gonfia il debito pubblico, fa calare gli investimenti e indebolisce l’efficacia delle politiche monetarie delle banche centrali»
Per fortuna, abbiamo cambiato strada: «Il primo passo è stato essere consapevoli che non tutto era perduto - spiega a Linkiesta Alessandro Rosina, oggi decano dei demografi italiani -: nonostante il numero di figli generati fosse sceso su livello molto bassi, circa 1,4 per coppia, il valore dato alla famiglia continuava ad essere alto e la preferenza era quella di avere almeno due figli. 2,19, per la precisione. Questo era vero anche per le nuove generazioni e le giovani coppie. Il che significa che, dal punto di vista demografico, davamo molto meno di quanto avremmo potuto, avremmo voluto e sarebbe stato utile per una crescita più equilibrata. C’erano quindi margini notevoli per migliorare con le politiche giuste».
Già, le politiche giuste. Il dibattito, in questo senso, è stato molto acceso. C’era chi sosteneva che la strada fosse quella di dare più servizi alle giovani coppie. Asili nido, in particolare. Una misura che sembra ovvia a molti, ma che tuttavia alcuni ritenevano fosse sbagliata: se i servizi fossero la chiave per fare figli, osservava ad esempio lo statistico Roberto Volpi sul settimanale Tempi, la Germania, il Paese con la più bassa natalità al mondo, «avrebbe dovuto essere la nazione con i più alti tassi di natalità e fecondità». Non pago, ricordava il caso dell’Emilia-Romagna degli anni Settanta-Ottanta: «fino alla metà degli anni Novanta - raccontava - era la regione più prospera in Italia, con servizi all’infanzia formidabili che tutti dall’estero venivano a studiare. Eppure in quel periodo in media le donne avevano 0,9 figli a testa, cioè un tasso da annullamento della popolazione nel giro di 50 anni».
Meglio i soldi dei servizi, suggerivano altri, prendendo a esempio il caso francese, con quasi due figli a coppia, la grande eccezione di un continente, l’Europa, in cui la popolazione tendeva a diminuire pressoché ovunque. La cifra che il governo francese spendeva nel 2015 per sostenere la natalità era pari a quasi il 5% del prodotto interno lordo. Architrave era la "Prestazione di accoglienza del bambino", un bonus elargito a tutte le coppie dopo il quarto mese di gravidanza, in modo da permettere di sostenere le spese iniziali ed esteso fino ai tre anni di età del nascituro. E poi, soprattutto, un grande incentivo a fare più di un figlio, grazie ad assegni familiari pari a 129 euro al mese per chi aveva due figli e di quasi 300 per chi ne faceva tre. Cruciale non è tanto il primo figlio, quanto quelli successivi: «I dati Istat - continuava il documento parlamentare - rilevano che avere più di un figlio raddoppia il rischio di contrarre debiti per mutuo, affitti, bollette o altro rispetto alle coppie senza figli».
Per seguire l'esempio francese c’erano da spendere parecchi soldi, insomma, e di soldi ce n’erano pochi. Certo, bisognava cambiare strada: in Europa solo Lettonia e Grecia destinavano meno fondi di noi alle famiglie. E qualcosa si è fatto, tagliando sprechi e privilegi, o rimodulando il mix della spesa assistenziale, soprattutto per offrire bonus dal secondo figlio in su, ma serviva altro: «Basterebbe far entrare in Italia più immigrati - sostenevano alcuni - faranno loro i figli che noi non facciamo più». Facile a dirsi: diversi studi demografici avevano infatti dimostrato che una volta in Italia, persino le donne straniere diminuivano la loro propensione a procreare. Peraltro, nonostante il senso comune sembrava suggerire il contrario, un massiccio afflusso di migranti in età da lavoro non avrebbe fatto altro che accelerare il collasso del nostro sistema di welfare: «Se io, in teoria, tolgo di mezzo 200mila nascite e ci metto 200mila immigrati trentenni- spiegava il demografo Gian Carlo Blangiardo sempre su Tempi - succede che il carico per una ventina di anni si abbassa». Successivamente, nel momento in cui la popolazione diventa stazionaria, esso diventa «più alto di quello che sarebbe stato senza l’arrivo degli immigrati al posto dei nati».
La storia ci insegna che non sono stati né i soldi, né le migrazioni a risolvere il problema: «Alla base di tutto c’è stato un cambiamento di approccio politico e sociale - ricorda ancora Rosina -. Un primo cambiamento è consistito nel considerare le spese a sostegno della famiglia un investimento che si ripaga nel tempo, e non più un costo. Il secondo è stata la rivoluzione culturale che ci ha fatto uscire dalla logica del figlio come bene privato ed assumere la prospettiva di una adeguata consistenza e qualità delle nuove generazioni come cruciale interesse pubblico su cui investire con generosità e intelligenza».
Una rivoluzione culturale, quindi. I cui due capisaldi sono state due delle categorie più massacrate, fino a trent'anni fa: i giovani, il cui tasso di disoccupazione aveva superato il 40%, e le donne, della cui difficoltà a entrare nel mondo del lavoro - e della loro propensione a uscirne - nessuno sembrava preoccuparsi. Dei primi, si diceva che fossero dei bamboccioni deresponsabilizzati, incapaci di badare a se stessi, figurarsi a costruire una famiglia. Delle seconde, che fosse proprio la loro smania di carriera una delle cause della denatalità italiana.
Luoghi comuni, certo, ma con un fondo di verità: «Anzitutto bisogna ridare autonomia ai giovani– spiegava all’inizio del 2016 il demografo Massimo Livi Bacci al Corriere della Sera -. Ormai raggiungono la piena autonomia molto tardi e per conseguenza rinviano molte delle decisioni familiari riproduttive. Finiscono gli studi tardi, entrano nel mercato del lavoro tardi, escono dalla famiglia tardi, rimandano la scelta di fare un figlio fino a trovarsi a ridosso di un’età in cui riuscirci è molto faticoso se non quasi impossibile». E poi, aggiungeva, «è indispensabile dare più lavoro alle donne. Quarant’anni fa, nei Paesi nei quali le donne erano impegnate prevalentemente in lavori domestici e i tassi di occupazione erano bassi, la natalità era più elevata. Oggi avviene l’inverso: dove c’è un’occupazione femminile alta si fanno più figli e dove c’è un’occupazione bassa se ne fanno meno. Una famiglia ha bisogno di più fonti di reddito, non può più puntare su un solo procacciatore di risorse».
«La chiave di volta sono state le riforme che hanno mirato a migliorare la condizione delle nuove generazioni nel mondo produttivo - spiega oggi Alessandro Rosina - Si è imboccato un sentiero di crescita e sviluppo attraverso il miglioramento di prodotti e servizi puntando sul capitale umano e la capacità di innovazione dei giovani. Le aziende hanno iniziato a investire sulle nuove generazioni considerando l’espressione delle loro potenzialità il fattore più importante per migliorare produttività e competitività dell’azienda stessa. Anziché rivedere al ribasso le proprie scelte, si è entrati in una fase di revisione verso l’alto: anziché rinviare e fare un figlio in meno si è stato incoraggiati ad anticipare e farne uno in più. È finita così l’epoca della sospensione delle scelte e si è passati a quella della realizzazione e del rilancio».
Non solo: «Altro grande salto in avanti è stato quello della conciliazione tra lavoro e responsabilità familiari - continua Rosina - Numero di figli e partecipazione femminile hanno iniziato a crescere assieme grazie a solidi ed efficaci strumenti di integrazione dei tempi di lavoro e di vita nelle aziende e nelle città. Certo, importanti per la conciliazione sono stati i servizi per l’infanzia e per l’assistenza degli anziani non autosufficienti. Ma ha aiutato molto anche un cambiamento culturale maschile e ai vertici delle aziende. Gli uomini sono diventati sempre più coinvolti positivamente nella cura dei figli, attraverso anche il potenziamento dei congedi di paternità. Le aziende sono diventate sempre più consapevoli che dipendenti appagati e realizzati nella dimensione familiare e nelle scelte di vita sono più responsabilizzati, impegnati e produttivi nell’ambiente di lavoro».
Così, in un colpo solo, nel tentativo di fermare la spirale della denatalità, siamo tornati a essere un Paese con una forte domanda interna, che innova, che cresce e in cui tutti hanno un’opportunità di realizzarsi professionalmente senza per questo rinunciare a costruirsi una famiglia: «Viene un grande brivido a pensare a cosa saremmo oggi se in questi ultimi decenni anziché cambiare strada avessimo continuato quella che ci stava portando verso un punto di non ritorno», chiosa Rosina. Già, meno male.
Riprendiamo da La Repubblica del 28/12/2013 un articolo scritto da Massimo Recalcati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2016)
In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che frequentava per dare valore alla sua vita.
Questa caricatura del soggetto- camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito con il termine di “personalità come se” (as if) (Helene Deutsch).
Di cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile di superfluità che portava con sé.
In questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una esasperata assimilazione alla normalità.
In tutti questi nuovi quadri clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé (depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista….
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie di reliquia post-moderna.
Tutto avviene “come se”: per un verso, i nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o dall’evento ritratto come se facessero parte della loro vita; per un altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vita come se fosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di suo specchio ideale.
Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressione-narcisismo che è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo senso di tristezza.
È quella stessa sensazione che circonda la vita del povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli” con la quale Winnicott definiva la condizione minima della salute mentale.
Riprendiamo su nostro sito alcune foto e gli interventi di papa Francesco nella visita a Lesvos/Lesbo del 16/4/2016. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturae Gli scritti (17/4/2016)
1/ La semplicità dei gesti che conferisce forza alle parole
2/ Conferenza Stampa di Papa Francesco nel volo di ritorno dalla Visita a Lesvos. «Quella di accogliere 12 profughi è stata un’ispirazione di una settimana fa che propriamente è venuta a un mio collaboratore, e io ho accettato subito, subito, subito, perché ho visto che era lo Spirito che parlava Lei ha detto una parola che nella nostra cultura attuale sembra essere dimenticata, dopo la guerra… Oggi esistono i ghetti. Non c’è stata una politica di integrazione e questo per me è fondamentale. Oggi, l’Europa deve riprendere questa capacità che sempre ha avuto, di integrare».
Nel pomeriggio di oggi, durante il volo che da Mytilene lo riportava a Roma al termine dalla Visita a Lesvos (Grecia), Papa Francesco ha incontrato i giornalisti a bordo dell’aereo in una conferenza stampa, la cui trascrizione pubblichiamo di seguito:
Padre Lombardi
Allora, diamo il benvenuto tra noi al Santo Padre, per una conversazione dopo questo viaggio breve ma estremamente intenso. Io rileggo il comunicato che avete ricevuto, in modo che se qualcuno non l’ha potuto sentire o ricevere sul suo telefono, ne abbia il testo completo. Il Papa desidera che sia chiaro tutto il contenuto.
“Il Papa ha voluto fare un gesto di accoglienza nei confronti dei rifugiati accompagnando a Roma con il suo stesso aereo tre famiglie di rifugiati dalla Siria, 12 persone in tutto, di cui 6 minori. Si tratta di persone già presenti nei campi di Lesbo prima dell’accordo fra l’Unione Europea e la Turchia. L’iniziativa del Papa è stata realizzata tramite una trattativa della Segreteria di Stato con le autorità competenti greche e italiane. I membri delle famiglie sono tutti musulmani. Due famiglie vengono da Damasco e una da Deir Azzor, che è nella zona occupata dal Daesh. Le loro case sono state bombardate. L’accoglienza e il mantenimento delle famiglie saranno a carico del Vaticano. L’ospitalità iniziale sarà garantita dalla Comunità di Sant’Egidio”.
Ora diamo subito la parola ai nostri colleghi, chiedendo che facciano anzitutto domande sul viaggio, anche se poi il Papa, come sappiamo, è disponibile sempre con noi. Inés San Martín di “Crux” è la prima.
Papa Francesco
Prima di tutto, voglio ringraziarvi per questa giornata di lavoro che è stato per me troppo forte, troppo forte… anche per voi, sicuramente. Prego, Signora…
Inés San Martín
Santo Padre, espero que no le moleste pero le voy a hacer dos preguntas sobre dos temas distintos. La primera específica sobre el viaje. Este viaje se da seguido a un acuerdo entre la Unión Europea y Turquía para tratar de solucionar la cuestión de los refugiados en Grecia. ¿A usted le parece que ese es un plan que puede funcionar o es una cuestión política para tratar de ganar tiempo y ver qué se hace? Y la segunda pregunta, si puedo. Esta mañana, usted se encontró con el candidato presidencial Bernie Sanders de los Estados Unidos, en Santa Marta. Quería preguntarle su sensación sobre el encuentro y si es su manera de meterse en la política norteamericana. Y le pido por favor que me responda en italiano. Gracias.
[Santo Padre, spero di non disturbarla ma le farò due domande su due argomenti distinti. La prima è specifica riguardo al viaggio. Questo viaggio viene dopo l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia nel tentativo di risolvere la questione dei rifugiati in Grecia. Le sembra che questo piano possa funzionare, o è una faccenda politica per cercare di guadagnare tempo e vedere cosa succede? E la seconda domanda, se posso. Questa mattina Lei ha incontrato il candidato presidenziale degli Stati Uniti Bernie Sanders a Santa Marta. Le vorrei chiedere un commento su questo incontro e se questo è il suo modo di inserirsi nella politica nordamericana. E Le chiedo di rispondere in italiano. Grazie.]
Papa Francesco
No, prima di tutto non c’è alcuna speculazione politica perché questi accordi tra la Turchia e la Grecia, io non li conoscevo bene. Ho visto sui giornali…, ma questa è una cosa puramente umana [si riferisce all’iniziativa di accogliere un gruppo di profughi]. E’ un fatto umanitario. E’ stata un’ispirazione di una settimana fa che propriamente è venuta a un mio collaboratore, e io ho accettato subito, subito, subito, perché ho visto che era lo Spirito che parlava. Tutte le cose sono state fatte in regola: loro vengono con i documenti, i tre governi – lo Stato della Città del Vaticano, il Governo italiano e il Governo greco – tutto, hanno ispezionato tutto, hanno visto tutto e hanno dato il visto. Sono accolti dal Vaticano: sarà il Vaticano, con la collaborazione della Comunità di Sant’Egidio, a cercare loro un posto di lavoro, se c’è, o il mantenimento…. Sono ospiti del Vaticano, e si aggiungono alle due famiglie siriane che sono accolte già nelle due parrocchie vaticane. Secondo. Questa mattina, quando uscivo, c’era lì il senatore Sanders che era venuto al convegno della Fondazione Centesimus Annus. Lui sapeva che io uscivo a quell’ora e ha avuto la gentilezza di salutarmi. L’ho salutato, ho stretto la mano a lui, alla moglie e a un'altra coppia che era con lui, che alloggiavano a Santa Marta, perché tutti i membri, eccetto i due presidenti partecipanti che credo alloggiassero nelle loro ambasciate, tutti alloggiavano a Santa Marta. E quando io sono sceso, lui si è presentato, ha salutato, una stretta di mano e niente di più. E’ educazione, questa; si chiama educazione e non immischiarsi in politica. E se qualcuno pensa che dare un saluto sia immischiarsi in politica,… gli raccomando di trovarsi uno psichiatra! (ride)
Padre Lombardi
Allora, la seconda domanda la fa Franca Giansoldati che conosce bene il Papa e il Papa la conosce bene, e quindi … eccola che arriva …
Papa Francesco
Ma, deve prepararsi per l’Armenia, lei … (ride)
Franca Giansoldati
Grazie, Santità. Lei parla molto di “accoglienza”, ma forse parla troppo poco di “integrazione”. Vedendo quello che sta accadendo in Europa, specie sotto questo massiccio afflusso di immigrati, vediamo che ci sono parecchie città che soffrono di quartieri-ghetto … In tutto questo emerge chiaramente che gli immigrati musulmani sono quelli che fanno più fatica a integrarsi con i valori nostri, con i valori occidentali. Le volevo chiedere: non sarebbe forse più utile per l’integrazione privilegiare l’arrivo, privilegiare l’emigrazione di immigrati cristiani? E poi: perché lei oggi, con questo gesto molto bello, molto nobile ha privilegiato tre famiglie interamente musulmane?
Papa Francesco
Non ho fatto la scelta fra cristiani e musulmani. Queste tre famiglie avevano le carte in regola, i documenti in regola e si poteva fare. C’erano, per esempio, due famiglie cristiane nella prima lista che non avevano le carte in regola. Non è un privilegio. Tutti e dodici sono figli di Dio. Il “privilegio” è essere figli di Dio: questo è vero. Sull’integrazione: è molto intelligente quello che lei dice. La ringrazio di dirlo. Lei ha detto una parola che nella nostra cultura attuale sembra essere dimenticata, dopo la guerra… Oggi esistono i ghetti. E alcuni dei terroristi che hanno fatto atti terroristici – alcuni – sono figli e nipoti di persone nate nel Paese, in Europa. E cosa è successo? Non c’è stata una politica di integrazione e questo per me è fondamentale; a tal punto che lei vede che nella Esortazione post-sinodale sulla famiglia – questo è un altro problema – una delle tre dimensioni pastorali per le famiglie in difficoltà è l’integrazione nella vita della Chiesa. Oggi, l’Europa deve riprendere questa capacità che sempre ha avuto, di integrare. Perché in Europa sono arrivati i nomadi, i Normanni e tante genti, e le ha integrate e ha arricchito la sua cultura. Credo che abbiamo bisogno di un insegnamento e di un’educazione all’integrazione. Grazie.
Padre Lombardi
Chiamiamo Elena Pinardi, dell’Ebu.
Elena Pinardi
Santo Padre, si parla di rinforzi alle frontiere di vari Paesi europei, di controlli, addirittura di dispiegamento di battaglioni lungo le frontiere dell’Europa. E’ la fine di Schengen, è la fine del sogno europeo?
Papa Francesco
Non lo so. Io capisco i governi, anche i popoli, che hanno una certa paura. Questo lo capisco e dobbiamo avere una grande responsabilità nell’accoglienza. Uno degli aspetti di tale responsabilità è questo: come ci possiamo integrare questa gente e noi. Io ho sempre detto che fare muri non è una soluzione: ne abbiamo visto cadere uno, nel secolo scorso. Non risolve niente. Dobbiamo fare ponti. Ma i ponti si fanno intelligentemente, si fanno con il dialogo, con l’integrazione. E per questo, io capisco un certo timore. Ma chiudere le frontiere non risolve niente, perché quella chiusura alla lunga fa male al proprio popolo. L’Europa deve urgentemente fare politiche di accoglienza e integrazione, di crescita, di lavoro, di riforma dell’economia … Tutte queste cose sono i ponti che ci porteranno a non fare muri. La paura ha tutta la mia comprensione; ma dopo quello che ho visto – e cambio il tema, ma voglio dirlo oggi – e che voi stessi avete visto, in quel campo per rifugiati… era da piangere! I bambini… Ho portato con me, per farvi vedere: i bambini mi hanno regalato tanti disegni. Uno: cosa vogliono i bambini? Pace, perché soffrono. Lì hanno corsi di educazione, nel campo… Cosa hanno visto, quei bambini! Guardate questo: hanno visto anche un bambino annegare. Questo i bambini l’hanno nel cuore! Davvero, oggi era da piangere. Era da piangere. Lo stesso tema lo ha fatto questo bambino dell’Afghanistan: il barcone che viene dall’Afghanistan arriva in Grecia. Questi bambini hanno nella memoria questo! E ci vorrà tempo per elaborarlo. Questo: il sole che vede e piange. Ma se il sole è capace di piangere, anche noi: una lacrima ci farà bene.
Padre Lombardi
Fanny Carrier della France Presse.
Fanny Carrier
Buongiorno. Perché lei non fa la differenza tra quelli che fuggono dalla guerra e quelli che fuggono dalla fame? L’Europa può accogliere tutta la miseria del mondo?
Papa Francesco
E’ vero. Ho detto oggi nel discorso: “alcuni che fuggono dalle guerre, altri che fuggono dalla fame”. Tutti e due sono effetto dello sfruttamento… Mi diceva un Capo di governo dell’Africa, un mese fa, più o meno, che la prima decisione del suo governo era riforestare, perché la terra era diventata morta per lo sfruttamento della deforestazione. Si devono fare opere buone con tutti e due. Ma qualcuno fugge per fame ed altri dalla guerra. Io inviterei i trafficanti di armi - perché le armi, fino ad un certo punto, ci sono accordi, si fabbricano, ma i trafficanti, quelli che trafficano per fare le guerre in diversi posti, per esempio in Siria: chi dà le armi ai diversi gruppi – io inviterei questi trafficanti a passare una giornata in quel campo. Credo che per loro sarà salutare!
Padre Lombardi
Diamo la parola a Néstor Pongutá, della Colombia, per il gruppo spagnolo.
Néstor Pongutá
Santidad, muy buenas tardes, le voy a preguntar en español, me puede responder en italiano. Hoy a dicho usted, esta mañana, algo muy especial que nos ha llamado mucho la atención, que éste era un viaje triste, y lo ha demostrado con sus palabras que está muy conmovido. Pero algo debe haber cambiado también en su corazón cuando sabe que ya hay doce personas que con ese pequeño gesto le ha dado una lección a aquellos que a veces voltean la mirada frente a tanto dolor, a esta Tercera Guerra Mundial que usted ha denunciado.
[Santità, buonasera. Le faccio la domanda in spagnolo, ma mi può rispondere in italiano. Questa mattina lei ha detto qualcosa di molto speciale, che ci ha richiamato molto l’attenzione: che questo era un viaggio triste, e lo ha dimostrato attraverso le sue parole che era molto commosso… Però qualcosa deve essere cambiato anche nel suo cuore sapendo che ci sono queste dodici persone e che con questo piccolo gesto ha dato una lezione a coloro che a volte girano la testa davanti a tanto dolore, a questa terza guerra mondiali a pezzi che lei ha denunciato.]
Papa Francesco
Farò un plagio! Rispondo con una frase che non è mia. La stessa cosa domandarono a Madre Teresa: “Ma lei, tanto sforzo, tanto lavoro, solo per aiutare la gente a morire... Quello che lei fa non serve! Il mare è grande!”. E lei rispose: “E’ una goccia d’acqua nel mare! Ma dopo questa goccia il mare non sarà lo stesso!”. Rispondo così. E’ un piccolo gesto. Ma quei piccoli gesti che dobbiamo fare tutti, gli uomini e le donne, per tendere la mano a chi ha bisogno.
(Padre Lombardi)
…. del gruppo americano.
(…)
Grazie Santo Padre. Siamo venuti in un Paese di migrazione, ma anche di politica economica di austerità. Vorrei chiedere se lei ha un pensiero sull’economia di austerità? Anche per un’altra isola, Porto Rico. Se ha un pensiero su questa politica di austerità.
Papa Francesco
La parola austerità ha un significato diverso a seconda del punto di vista dal quale la prendi: economicamente significa un capitolo di un programma; politicamente significa un’altra cosa; spiritualmente e cristianamente un’altra ancora. Quando io parlo di austerità, parlo di austerità in confronto con lo spreco. Ho sentito dire alla FAO – credo che fosse in una riunione della FAO – che con lo spreco dei pasti si potrebbe saziare tutta la fame nel mondo. E noi, a casa nostra, quanti sprechi, quanti sprechi facciamo senza volerlo! E’ questa cultura dello scarto, dello spreco. Io parlo di austerità in quel senso, nel senso cristiano. Fermiamoci qui e viviamo un po’ austeramente.
Padre Lombardi
E chiamiamo Francisco Romero, di Rome Reports e poi Francis Rocca e poi chiudiamo.
Francisco Romero
Santità, le vorrei semplicemente dire che lei ha detto che questa crisi dei rifugiati è la crisi peggiore dopo la Seconda Guerra Mondiale. Io le vorrei chiedere: cosa ne pensa della crisi degli immigrati che arrivano in America, negli Stati Uniti, dal Messico, dall’America Latina?
Papa Francesco
E’ lo stesso! E’ lo stesso, perché lì arrivano fuggendo dalla fame, piuttosto. E’ lo stesso problema. A Ciudad Juárez ho celebrato la Messa a 100 metri, forse meno, dal reticolato. Dall’altra parte c’erano una cinquantina di vescovi degli Stati Uniti e uno stadio con 50 mila persone che seguivano la Messa sul maxischermo; di qua, in Messico c’era quel campo pieno di gente… Ma è lo stesso! Arrivano in Messico dal Centro America. Lei si ricorda, due mesi fa, un conflitto con il Nicaragua perché non voleva che i rifugiati transitassero: è stato risolto. Li portavano in aereo nell’altro Paese, senza passare per Nicaragua. E’ un problema mondiale! Io ne ho parlato lì, ai Vescovi messicani; ho chiesto di aver cura dei rifugiati.
Padre Lombardi
Ora Francis Rocca e poi c’è Guénois Così concludiamo anche con il gruppo francese.
Francis Rocca
Grazie Santo Padre! Vedo che le domande sull’immigrazione che avevo pensato sono state già fatte, e lei ha risposto molto bene. Quindi se mi permette vorrei fare una domanda su un altro evento degli ultimi giorni, che è stata la sua Esortazione Apostolica. Come lei ben sa, c’è stata molta discussione su uno dei molti punti – lo so che vi ci siamo concentrati in molti – dopo la pubblicazione: alcuni sostengono che niente sia cambiato rispetto alla disciplina che governa l’accesso ai Sacramenti per i divorziati e i risposati, e che la legge e la prassi pastorale e ovviamente la dottrina rimangono così; altri sostengono invece che molto sia cambiato e che si sono tante nuove aperture e possibilità. La domanda è per una persona, un cattolico che vuole sapere: ci sono nuove possibilità concrete, che non esistevano prima della pubblicazione dell’Esortazione o no?
Papa Francesco
Io potrei dire “si”, e punto. Ma sarebbe una risposta troppo piccola. Raccomando a tutti voi di leggere la presentazione che ha fatto il cardinale Schönborn, che è un grande teologo. Lui è membro della Congregazione per la Dottrina della Fede e conosce bene la dottrina della Chiesa. In quella presentazione la sua domanda avrà la risposta. Grazie!
Padre Lombardi
Grazie! Allora Guénois. Ultimissima.
Jean-Marie Guénois
Avevo la stessa domanda, ma è una domanda complementare, perché non si è capito perché lei ha scritto questa famosa nota nella Amoris laetitia sui problemi dei divorziati e risposati – la nota 351 …
Papa Francesco
…Che memoria!
Jean-Marie Guénois
Sì. La domanda: perché una cosa così importante in una piccola nota? Lei ha previsto delle opposizioni o ha voluto dire che questo punto non è così importante?
Papa Francesco
Senta, uno degli ultimi Papi, parlando sul Concilio, ha detto che c’erano due Concili: quello Vaticano II, che si faceva nella Basilica San Pietro, e l’altro il “Concilio dei media”. Quando io convocai il primo Sinodo, la grande preoccupazione della maggioranza dei media era: Potranno fare la comunione i divorziati risposati?. E siccome io non sono santo, questo mi ha dato un po’ di fastidio, e anche un po’ di tristezza. Perché io penso: Ma quel mezzo che dice questo, questo, questo, non si accorge che quello non è il problema importante? Non si accorge che la famiglia, in tutto il mondo, è in crisi? E la famiglia è la base della società! Non si accorge che i giovani non vogliono sposarsi? Non si accorge che il calo di natalità in Europa fa piangere? Non si accorge che la mancanza di lavoro e che le possibilità di lavoro fanno sì che il papà e la mamma prendano due lavori e i bambini crescano da soli e non imparino a crescere in dialogo con il papà e la mamma? Questi sono i grandi problemi! Io non ricordo quella nota, ma sicuramente se una cosa del genere è in nota è perché è stata detta nell’Evangelii gaudium. Sicuro! Dev’essere una citazione dell’Evangelii Gaudium. Non ricordo il numero, ma è sicuro.
Padre Lombardi
Grazie Santità, ci ha fatto una conversazione ampia su temi di questo viaggio e si è adesso anche allargato sull’Esortazione. Le auguriamo buon viaggio e una buona continuazione del suo lavoro.
Papa Francesco
Grazie della vostra compagnia. Davvero io mi sento tranquillo con voi. Grazie tante! Grazie della compagnia.
3/ Incontro nel porto di Mytilene e memoria delle vittime delle migrazioni «Non bisogna mai dimenticare che i migranti, prima di essere numeri, sono persone, sono volti, nomi, storie»
Incontro nel porto di Mytilene con la cittadinanza e con la comunità cattolica. Memoria delle vittime delle migrazioni
3.1/ Discorso del Santo Padre Francesco
Signor Capo del Governo
Distinte Autorità,
cari fratelli e sorelle,
da quando Lesbo è diventata un approdo per tanti migranti in cerca di pace e di dignità, ho sentito il desiderio di venire qui. Oggi ringrazio Dio che me lo ha concesso. E ringrazio il Signor Presidente Pavlopoulos di avermi invitato, insieme con il Patriarca Bartolomeo e l’Arcivescovo Ieronymos.
Vorrei esprimere la mia ammirazione al popolo greco che, nonostante le gravi difficoltà da affrontare, ha saputo tenere aperti i cuori e le porte. Tante persone semplici hanno messo a disposizione il poco che avevano per condividerlo con chi era privo di tutto. Dio saprà ricompensare questa generosità, come quella di altre nazioni circostanti, che fin dai primi momenti hanno accolto con grande disponibilità moltissimi migranti forzati.
E’ pure benedetta la presenza generosa di tanti volontari e di numerose associazioni, che, insieme alle diverse istituzioni pubbliche, hanno portato e stanno portando il loro aiuto, esprimendo nel concreto una vicinanza fraterna.
Oggi vorrei rinnovare un accorato appello alla responsabilità e alla solidarietà di fronte a una situazione tanto drammatica. Molti profughi che si trovano su quest’isola e in diverse parti della Grecia stanno vivendo in condizioni critiche, in un clima di ansia e di paura, a volte di disperazione per i disagi materiali e per l’incertezza del futuro. Le preoccupazioni delle istituzioni e della gente, qui in Grecia come in altri Paesi d’Europa, sono comprensibili e legittime. E tuttavia non bisogna mai dimenticare che i migranti, prima di essere numeri, sono persone, sono volti, nomi, storie. L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare, così si renderà più consapevole di doverli a sua volta rispettare e difendere. Purtroppo alcuni, tra cui molti bambini, non sono riusciti nemmeno ad arrivare: hanno perso la vita in mare, vittime di viaggi disumani e sottoposti alle angherie di vili aguzzini.
Voi, abitanti di Lesbo, dimostrate che in queste terre, culla di civiltà, pulsa ancora il cuore di un’umanità che sa riconoscere prima di tutto il fratello e la sorella, un’umanità che vuole costruire ponti e rifugge dall’illusione di innalzare recinti per sentirsi più sicura. Infatti le barriere creano divisioni, anziché aiutare il vero progresso dei popoli, e le divisioni prima o poi provocano scontri.
Per essere veramente solidali con chi è costretto a fuggire dalla propria terra, bisogna lavorare per rimuovere le cause di questa drammatica realtà: non basta limitarsi a inseguire l’emergenza del momento, ma occorre sviluppare politiche di ampio respiro, non unilaterali. Prima di tutto è necessario costruire la pace là dove la guerra ha portato distruzione e morte, e impedire che questo cancro si diffonda altrove. Per questo bisogna contrastare con fermezza la proliferazione e il traffico delle armi e le loro trame spesso occulte; vanno privati di ogni sostegno quanti perseguono progetti di odio e di violenza. Va invece promossa senza stancarsi la collaborazione tra i Paesi, le Organizzazioni internazionali e le istituzioni umanitarie, non isolando ma sostenendo chi fronteggia l’emergenza. In questa prospettiva rinnovo l’auspicio che abbia successo il Primo Vertice Umanitario Mondiale che avrà luogo a Istanbul il mese prossimo.
Tutto questo si può fare solo insieme: insieme si possono e si devono cercare soluzioni degne dell’uomo alla complessa questione dei profughi. E in questo è indispensabile anche il contributo delle Chiese e delle Comunità religiose. La mia presenza qui insieme al Patriarca Bartolomeo e all’Arcivescovo Ieronymos sta a testimoniare la nostra volontà di continuare a collaborare perché questa sfida epocale diventi occasione non di scontro, ma di crescita della civiltà dell’amore.
Cari fratelli e sorelle, di fronte alle tragedie che feriscono l’umanità, Dio non è indifferente, non è distante. Egli è il nostro Padre, che ci sostiene nel costruire il bene e respingere il male. Non solo ci sostiene, ma in Gesù ci ha mostrato la via della pace. Di fronte al male del mondo, Egli si è fatto nostro servo, e col suo servizio di amore ha salvato il mondo. Questo è il vero potere che genera la pace. Solo chi serve con amore costruisce la pace. Il servizio fa uscire da sé stessi e si prende cura degli altri, non lascia che le persone e le cose vadano in rovina, ma sa custodirle, superando la spessa coltre dell’indifferenza che annebbia le menti e i cuori.
Grazie a voi, perché siete custodi di umanità, perché vi prendete teneramente cura della carne di Cristo, che soffre nel più piccolo fratello affamato e forestiero, e che voi avete accolto (cfr Mt 25,35).
Evharistó!
3.2/ Preghiera dell’Arcivescovo Ieronymos
Ο Θεός των πνευμάτων και πάσης σαρκός, ο τον θάνατον καταπατήσας, τον δε διάβολον καταργήσας, και ζωήν τω κόσμω σου δωρησάμενος, αυτός, Κύριε, ανάπαυσον τας ψυχάς των κεκοιμημένων δούλων σου, εν τόπω φωτεινώ, εν τόπω χλοερώ, εν τόπω αναψύξεως, ένθα απέδρα οδύνη, λύπη και στεναγμός. Παν αμάρτημα το παρ’ αυτών πραχθέν εν λόγω ή έργω ή διανοία, ως αγαθός και φιλάνθρωπος Θεός, συγχώρησον ότι ουκ έστιν άνθρωπος, ος ζήσεται και ουχ αμαρτήσει, συ γαρ μόνος εκτός αμαρτίας υπάρχεις, η δικαιοσύνη σου δικαιοσύνη εις τον αιώνα, και ο νόμος σου αλήθεια.
Ότι συ ει η ανάστασις, η ζωή, και η ανάπαυσις των κεκοιμημένων δούλων σου, Χριστέ ο Θεός ημών, και σοι την δόξαν αναπέμπομεν, συν τω ανάρχω σου Πατρί, και τω παναγίω και αγαθώ και ζωοποιώ σου Πνεύματι, νυν και αεί και εις τους αιώνας των αιώνων. Αμήν.
Traduzione di lavoro
O Dio di ogni spirito e ogni carne, che hai calpestato la morte, distruggendo il potere del diavolo, donando la vita al cosmo, alle anime dei tuoi servi che hanno lasciato questa vita. Tu stesso, o Signore, dona loro riposo in un luogo di luce, in un luogo di verdi pascoli, in un luogo di ristoro, da cui il dolore e la tristezza e il lutto sono scomparsi. Tu, nostro Dio buono e amorevole, perdona ogni peccato da essi commesso in pensieri, parole od opere, poiché non c'è alcun uomo che possa vivere senza peccare, perché Tu solo sei senza peccato: la tua giustizia, e la tua legge è verità.
Poiché Tu sei la Resurrezione, la Vita, e il Riposo dei tuoi servi, o Cristo nostro Dio; a Te rendiamo Gloria, come al tuo Padre Eterno, al tuo Spirito tutto santo, buono e creatore della Vita, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.
3.3/ Preghiera del Patriarca Ecumenico Bartolomeo
Κύριε τοῦ ἐλέους καὶ τῶν οἰκτιρμῶν καὶ πάσης παρακλήσεως, δεόμεθά σου ὑπὲρ τῶν ἐμπεριστάτων ἀδελφῶν ἡμῶν καὶ λέγομεν τῇ ἀγαθότητί σου:
Τὰ νήπια ἔκθρεψον˙ τὴν νεότητα παιδαγώγησον˙ τὸ γῆρας περικράτησον˙ τοὺς ὀλιγοψύχους παραμύθησαι˙ τοὺς ἐσκορπισμένους ἐπισυνάγαγε˙ τοῖς πλέουσι σύμπλευσον˙ τοῖς ὁδοιποροῦσι συνόδευσον˙ χηρῶν πρόστηθι˙ ὀρφανῶν ὑπεράσπισον˙ αἰχμαλώτους ρῦσαι˙ νοσοῦντας ἴασαι. Τῶν ἐν βήμασι καὶ μετάλλοις καὶ ἐξορίαις καὶ πικραῖς δουλείαις καὶ πάσῃ θλίψει καὶ ἀνάγκῃ καὶ περιστάσει ὄντων μνημόνευσον, ὁ Θεός, καὶ πάντων τῶν δεομένων τῆς μεγάλης σου εὐσπλαγχνίας˙ καὶ τῶν ἀγαπώντων ἡμᾶς καὶ τῶν μισούντων˙ καὶ ἐπὶ πάντας ἔκχεον τὸ πλούσιόν σου ἔλεος, πᾶσι παρέχων τὰ πρὸς σωτηρίαν αἰτήματα.
Ἔτι δεόμεθά σου, Κύριε τῆς ζωῆς καὶ τοῦ θανάτου, ἀνάπαυσον τὰς ψυχὰς τῶν κεκοιμημένων δούλων σου τῶν ἀπολεσάντων τὴν ζωὴν αὐτῶν κατὰ τὴν ἔξοδόν των ἐκ τῆς ζώνης τῶν πολεμικῶν συρράξεων καὶ τὴν πορείαν των πρὸς τόπους ἀσφαλεῖς, τόπους εἰρήνης καὶ εὐημερίας.
Σὺ γὰρ εἶ, Κύριε, ἡ βοήθεια τῶν ἀβοηθήτων, ἡ ἐλπὶς τῶν ἀπηλπισμένων, ὁ τῶν χειμαζομένων σωτήρ, ὁ τῶν πλεόντων λιμήν, ὁ τῶν νοσούντων ἰατρός. Αὐτὸς τοῖς πᾶσι τὰ πάντα γενοῦ, ὁ εἰδὼς ἕκαστον καὶ τὸ αἴτημα αὐτοῦ, οἶκον καὶ τὴν χρείαν αὐτοῦ. Ρῦσαι, Κύριε, τὴν νῆσον ταύτην καὶ πᾶσαν πόλιν καὶ χώραν ἀπὸ λοιμοῦ, λιμοῦ, σεισμοῦ, καταποντισμοῦ, πυρός, μαχαίρας, ἐπιδρομῆς ἀλλοφύλων καὶ ἐμφυλίου πολέμου. Ἀμήν.
Traduzione di lavoro
Signore di misericordia, di compassione e di ogni consolazione, Ti preghiamo per i nostri fratelli che vivono in situazioni difficili e ci rivolgiamo alla Tua Bontà:
Nutri i neonati; istruisci i giovani; accresci le forze degli anziani; infondi coraggio ai deboli; riunisci coloro che sono divisi; naviga insieme ai naviganti; viaggia con i viaggiatori; difendi le vedove; proteggi gli orfani; libera i prigionieri; guarisci gli infermi. Ricordati, O Signore, di quanti lavorano nelle miniere, sono in esilio, hanno un lavoro duro, tutti coloro che vivono ogni genere di afflizione, di necessità, di pericolo; e di tutti coloro che implorano la tua amorevole bontà; di tutti quelli che ci amano e di quelli che ci odiano; effondi su tutti la tua infinita misericordia, rispondendo alle loro invocazioni per ottenere salvezza.
Ti preghiamo ancora, O Signore della vita e della morte, di concedere l’eterno riposo alle anime dei tuoi servi defunti, alle anime di quanti hanno perso la vita nell’esodo dalle regioni lacerate dalla guerra, o nel corso del viaggio verso luoghi di sicurezza, di pace e prosperità.
Perché tu, O Signore, sei il soccorritore degli indifesi, la speranza dei disperati, il salvatore degli afflitti, il porto del viaggiatore, e il medico dei malati. Tu sei tutto per tutti, tu che conosci ogni persona, le sue richieste, la sua casa e la sua famiglia, e le sue necessità. Libera questa isola, O Signore, e ogni città e paese, dalla fame, da ogni flagello, dal terremoto, dalle inondazioni, dagli incendi, dalla spada, dall’invasione di nemici stranieri e dalla guerra civile. Amen.
3.4/ Preghiera del Santo Padre Francesco
Dio di misericordia,
Ti preghiamo per tutti gli uomini, le donne e i bambini,
che sono morti dopo aver lasciato le loro terre
in cerca di una vita migliore.
Benché molte delle loro tombe non abbiano nome,
da Te ognuno è conosciuto, amato e prediletto.
Che mai siano da noi dimenticati, ma che possiamo onorare
il loro sacrificio con le opere più che con le parole.
Ti affidiamo tutti coloro che hanno compiuto questo viaggio,
sopportando paura, incertezza e umiliazione,
al fine di raggiungere un luogo di sicurezza e di speranza.
Come Tu non hai abbandonato il tuo Figlio
quando fu condotto in un luogo sicuro da Maria e Giuseppe,
così ora sii vicino a questi tuoi figli e figlie
attraverso la nostra tenerezza e protezione.
Fa’ che, prendendoci cura di loro, possiamo promuovere un mondo
dove nessuno sia costretto a lasciare la propria casa
e dove tutti possano vivere in libertà, dignità e pace.
Dio di misericordia e Padre di tutti,
destaci dal sonno dell’indifferenza,
apri i nostri occhi alle loro sofferenze
e liberaci dall’insensibilità,
frutto del benessere mondano e del ripiegamento su sé stessi.
Ispira tutti noi, nazioni, comunità e singoli individui,
a riconoscere che quanti raggiungono le nostre coste
sono nostri fratelli e sorelle.
Aiutaci a condividere con loro le benedizioni
che abbiamo ricevuto dalle tue mani
e riconoscere che insieme, come un’unica famiglia umana,
siamo tutti migranti, viaggiatori di speranza verso di Te,
che sei la nostra vera casa,
là dove ogni lacrima sarà tersa,
dove saremo nella pace, al sicuro nel tuo abbraccio.
4/ Dichiarazione congiunta «Da Lesbo facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, sia in Medio Oriente sia in Europa»
Noi, Papa Francesco, Patriarca Ecumenico Bartolomeo e Arcivescovo di Atene e di Tutta la Grecia Ieronymos, ci siamo incontrati sull’isola greca di Lesbo per manifestare la nostra profonda preoccupazione per la tragica situazione dei numerosi rifugiati, migranti e individui in cerca di asilo, che sono giunti in Europa fuggendo da situazioni di conflitto e, in molti casi, da minacce quotidiane alla loro sopravvivenza. L’opinione mondiale non può ignorare la colossale crisi umanitaria, che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo.
La tragedia della migrazione e del dislocamento forzati si ripercuote su milioni di persone ed è fondamentalmente una crisi di umanità, che richiede una risposta di solidarietà, compassione, generosità e un immediato ed effettivo impegno di risorse. Da Lesbo facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa.
Come capi delle nostre rispettive Chiese, siamo uniti nel desiderio della pace e nella sollecitudine per promuovere la risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo e la riconciliazione. Mentre riconosciamo gli sforzi già compiuti per fornire aiuto e assistenza ai rifugiati, ai migranti e a quanti cercano asilo, ci appelliamo a tutti i responsabili politici affinché sia impiegato ogni mezzo per assicurare che gli individui e le comunità, compresi i cristiani, possano rimanere nelle loro terre natie e godano del diritto fondamentale di vivere in pace e sicurezza. Sono urgentemente necessari un più ampio consenso internazionale e un programma di assistenza per affermare lo stato di diritto, difendere i diritti umani fondamentali in questa situazione divenuta insostenibile, proteggere le minoranze, combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani, eliminare le rotte di viaggio pericolose che attraversano l’Egeo e tutto il Mediterraneo, e provvedere procedure sicure di reinsediamento. In questo modo si potrà essere in grado di assistere quei Paesi direttamente impegnati nell’andare incontro alle necessità di così tanti nostri fratelli e sorelle che soffrono. In particolare, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo greco che, nonostante le proprie difficoltà economiche, ha risposto con generosità a questa crisi.
Insieme imploriamo solennemente la fine della guerra e della violenza in Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Chiediamo alle comunità religiose di aumentare gli sforzi per accogliere, assistere e proteggere i rifugiati di tutte le fedi e affinché i servizi di soccorso, religiosi e civili, operino per coordinare le loro iniziative. Esortiamo tutti i Paesi, finché perdura la situazione di precarietà, a estendere l’asilo temporaneo, a concedere lo status di rifugiato a quanti ne sono idonei, ad ampliare gli sforzi per portare soccorso e ad adoperarsi insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per una fine sollecita dei conflitti in corso.
L’Europa oggi si trova di fronte a una delle più serie crisi umanitarie dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per affrontare questa grave sfida, facciamo appello a tutti i discepoli di Cristo, perché si ricordino delle parole del Signore, sulle quali un giorno saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. […] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35-36.40).
Da parte nostra, in obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo, decidiamo con fermezza e in modo accorato di intensificare i nostri sforzi per promuovere la piena unità di tutti i cristiani. Riaffermiamo con convinzione che «riconciliazione [per i cristiani] significa promuovere la giustizia sociale all’interno di un popolo e tra tutti i popoli […]. Vogliamo contribuire insieme affinché venga concessa un’accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa» (Charta Oecumenica, 2001). Difendendo i diritti umani fondamentali dei rifugiati, di coloro che cercano asilo, dei migranti e di molte persone che vivono ai margini nelle nostre società, intendiamo compiere la missione di servizio delle Chiese nel mondo.
Il nostro incontrarci oggi si propone di contribuire a infondere coraggio e speranza a coloro che cercano rifugio e a tutti coloro che li accolgono e li assistono. Esortiamo la comunità internazionale a fare della protezione delle vite umane una priorità e a sostenere, ad ogni livello, politiche inclusive che si estendano a tutte le comunità religiose. La terribile situazione di tutti coloro che sono colpiti dall’attuale crisi umanitaria, compresi tantissimi nostri fratelli e sorelle cristiani, richiede la nostra costante preghiera.
Lesbo, 16 aprile 2016
Ieronymos II
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Francesco
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Bartolomeo
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5/ Visita ai rifugiati nel Moria refugee camp «Noi cristiani amiamo narrare l’episodio del Buon Samaritano, uno straniero che vide un uomo nel bisogno e immediatamente si fermò per soccorrerlo. Per noi è una parabola che si riferisce alla misericordia di Dio, la quale si rivolge a tutti. Lui è il Misericordioso»
5.1/ Discorso di Sua Beatitudine Ieronymos
È con grandissima gioia che accogliamo oggi a Lesvos il Capo della Chiesa Cattolica Romana, Papa Francesco.
Consideriamo cruciale la sua presenza sul territorio della Chiesa di Grecia, cruciale perché portiamo insieme all’attenzione del mondo intero, cristiano e non cristiano, l’attuale tragedia della crisi dei rifugiati.
Ringrazio calorosamente Sua Santità e mio amato fratello in Cristo, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, che ci benedice con la sua presenza come il Primo dell’Ortodossia, e ci unisce con la sua preghiera, cosicché la voce delle Chiese risuoni più forte e sia ascoltata fino ai confini del mondo civile.
Oggi uniamo le nostre voci nel condannare lo sradicamento e nel denunciare ogni forma di svalutazione della persona umana.
Da questa isola di Lesvos, spero che abbia inizio un movimento mondiale di consapevolezza per un cambiamento dell’attuale situazione da parte di coloro che hanno nelle mani il destino delle nazioni e per riportare la pace e la sicurezza per ogni casa, per ogni famiglia e per ogni cittadino.
Purtroppo non è la prima volta che denunciamo le politiche che hanno portato queste persone a trovarsi in questa situazione drammatica. Tuttavia noi agiremo, fino a che si ponga fine a tale aberrazione e svalutazione della persona umana.
Non abbiamo bisogno di dire molte parole. Soltanto quelli che hanno incrociato lo sguardo di quei piccoli bambini che abbiamo incontrato nei campi dei rifugiati, potranno immediatamente riconoscere, nella sua totalità, la “bancarotta” dell’umanità e della solidarietà che l’Europa ha dimostrato in questi ultimi anni a queste persone e non soltanto a loro.
Sono orgoglioso del popolo greco, che, anche se alle prese con le proprie difficoltà, sta contribuendo a rendere il Calvario (Golgota) dei rifugiati un po’ meno pesante, il loro cammino in salita un po’ meno duro.
La Chiesa di Grecia ed io personalmente, piangiamo le troppe vite perse nell’Egeo. Abbiamo già fatto tanto e continueremo a farlo per affrontare questa crisi dei rifugiati, tanto quanto le nostre capacità ce lo consentiranno. Vorrei concludere questa dichiarazione presentando una sola richiesta, un unico appello, un’unica provocazione: le Agenzie delle Nazioni Unite, con la grande esperienza che hanno da offrire, affrontino finalmente questa tragica situazione che stiamo vivendo. Spero di non vedere mai più bambini gettati sulle rive dell’Egeo. Spero di vederli presto in questi stessi luoghi, godere sereni la loro infanzia.
5.2/ Discorso del Patriarca Ecumenico Bartolomeo
Carissimi fratelli e sorelle,
Adorati giovani e bambini,
Abbiamo viaggiato fin qui per guardar nei vostri occhi, sentire le vostre voci e tenere le vostre mani nelle nostre. Abbiamo viaggiato fin qui per dirvi che ci preoccupiamo di voi. Abbiamo viaggiato fin qui perché il mondo non vi ha dimenticato.
Con i nostri fratelli, Papa Francesco e l’Arcivescovo Ieronymos, oggi siamo qui per esprimere la nostra solidarietà e il sostegno al popolo greco che vi ha accolto e si è preso cura di voi. E noi siamo qui per ricordarvi che - anche quando le persone ci voltano le spalle – “Dio è per noi rifugio e fortezza, nostro aiuto nelle angosce. E perciò non dobbiamo avere paura "(Sal 45, 2-3).
Sappiamo che siete venuti da aree di guerra, fame e sofferenza. Sappiamo che i vostri cuori sono pieni di ansia per le vostre famiglie. Sappiamo che siete alla ricerca di un futuro più sicuro e più luminoso.
Abbiamo pianto mentre vedevamo il Mediterraneo diventare una tomba per i vostri cari. Abbiamo pianto vedendo la simpatia e la sensibilità del popolo di Lesbo e delle altre isole. Ma abbiamo pianto anche quando abbiamo visto la durezza dei cuori dei nostri fratelli e sorelle - i vostri fratelli e sorelle – chiudere le frontiere e voltare le spalle.
Coloro che hanno paura di voi non hanno guardato nei vostri occhi. Coloro che hanno paura di voi non vedono i vostri volti. Coloro che hanno paura di voi non vedono i vostri figli.
Essi dimenticano che la dignità e la libertà vanno aldilà della paura e della divisione. Dimenticano che l’emigrazione non è un problema del Medio Oriente e dell'Africa del Nord, dell'Europa e della Grecia. E’ un problema del mondo.
Il mondo sarà giudicato dal modo in cui vi ha trattato. E saremo tutti responsabili per il modo in cui rispondiamo alla crisi e al conflitto nelle vostre regioni di origine.
Il Mediterraneo non deve essere una tomba. Si tratta di un luogo di vita, di un crocevia di culture e civiltà, di un luogo di scambio e di dialogo. Per riscoprire la sua vocazione originaria, il Mare Nostrum, e più precisamente il Mar Egeo, dove ci riuniamo oggi, deve diventare un mare di pace. Preghiamo perché i conflitti in Medio Oriente, che sono alla radice della crisi migranti, cessino rapidamente e che sia ripristinata la pace. Preghiamo per tutti i popoli di questa regione. In particolare vorremmo sottolineare la drammatica situazione dei cristiani in Medio Oriente, così come quella delle altre minoranze etniche e religiose della regione, che hanno bisogno di interventi urgenti, se non vogliamo vederli scomparire.
Vi promettiamo che non vi dimenticheremo mai. Non smetteremo mai di parlare per voi. E vi assicuriamo che faremo di tutto per aprire gli occhi e il cuore del mondo.
La pace non è la fine della storia. La pace è l'inizio di una storia legata al futuro. L'Europa dovrebbe saperlo meglio di qualsiasi altro continente.
Questa bellissima isola in cui ci troviamo in questo momento è solo un punto nella carta geografica.
Per dominare il vento e il mare in burrasca, Gesù, come racconta Luca, intimò al vento di arrestarsi, quando la barca sulla quale si trovava insieme ai suoi discepoli era in pericolo. Alla fine, dopo la tempesta, tornò la calma.
Dio ti benedica. Dio vi protegga. E Dio vi doni forza.
5.3/ Discorso di papa Francesco
Cari fratelli e sorelle,
oggi ho voluto stare con voi. Voglio dirvi che non siete soli. In questi mesi e settimane, avete patito molte sofferenze nella vostra ricerca di una vita migliore. Molti di voi si sono sentiti costretti a fuggire da situazioni di conflitto e di persecuzione, soprattutto per i vostri figli, per i vostri piccoli. Avete fatto grandi sacrifici per le vostre famiglie. Conoscete il dolore di aver lasciato dietro di voi tutto ciò che vi era caro e – quel che è forse più difficile – senza sapere che cosa il futuro avrebbe portato con sé. Anche molti altri, come voi, si trovano in campi di rifugio o in città, nell’attesa, sperando di costruire una nuova vita in questo continente.
Sono venuto qui con i miei fratelli, il Patriarca Bartolomeo e l’Arcivescovo Ieronymos, semplicemente per stare con voi e per ascoltare le vostre storie. Siamo venuti per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e per implorarne la risoluzione. Come uomini di fede, desideriamo unire le nostre voci per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità.
Dio ha creato il genere umano perché formi una sola famiglia; quando qualche nostro fratello o sorella soffre, tutti noi ne siamo toccati. Tutti sappiamo per esperienza quanto è facile per alcune persone ignorare le sofferenze degli altri e persino sfruttarne la vulnerabilità. Ma sappiamo anche che queste crisi possono far emergere il meglio di noi. Lo avete visto in voi stessi e nel popolo greco, che ha generosamente risposto ai vostri bisogni pur in mezzo alle sue stesse difficoltà. Lo avete visto anche nelle molte persone, specialmente giovani provenienti da tutta l’Europa e dal mondo, che sono venute per aiutarvi. Sì, moltissimo resta ancora da fare. Ma ringraziamo Dio che nelle nostre sofferenze non ci lascia mai soli. C’è sempre qualcuno che può tendere la mano e aiutarci.
Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi: non perdete la speranza! Il più grande dono che possiamo offrirci a vicenda è l’amore: uno sguardo misericordioso, la premura di ascoltarci e comprenderci, una parola di incoraggiamento, una preghiera. Possiate condividere questo dono gli uni con gli altri. Noi cristiani amiamo narrare l’episodio del Buon Samaritano, uno straniero che vide un uomo nel bisogno e immediatamente si fermò per soccorrerlo. Per noi è una parabola che si riferisce alla misericordia di Dio, la quale si rivolge a tutti. Lui è il Misericordioso. È anche un appello a mostrare quella stessa misericordia a coloro che si trovano nel bisogno. Possano tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle in questo continente, come il Buon Samaritano, venirvi in aiuto in quello spirito di fraternità, solidarietà e rispetto per la dignità umana, che ha contraddistinto la sua lunga storia.
Cari fratelli e sorelle, Dio benedica tutti voi, in modo speciale i vostri bambini, gli anziani e coloro che soffrono nel corpo e nello spirito. Vi abbraccio tutti con affetto. Su di voi e su chi vi accompagna invoco i doni divini di fortezza e di pace.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura e Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (17/4/2016)
Gustavo Doré, San Giovanni interroga Dante sulla carità
Abbiamo dimenticato che l’annunzio del Vangelo non avviene spesso in forma diretta, bensì nell’incontro con la Chiesa, nell’incontro con uomini che mostrano che la fede è capace di illuminare la vita degli uomini e la rende diversa e carica di senso.
Proprio questo è il punto più delicato nell’interrogazione che san Pietro rivolge a Dante nel Paradiso. Pietro lo interroga sul fondamento della fede, su quale sia il motivo per cui possiamo e dobbiamo credere in Dio. È dinanzi a questa domanda che Dante vacilla prima di rispondere saggiamente. È l’apostolo a ritenere insufficiente la prima risposta di Dante.
«Dì, chi t’assicura
che quell’opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura» (vv. 103-105).
Cioè, dice san Pietro: «Dimmi, Dante, chi ti assicura che le opere di Dio siano proprio come noi crediamo? Non puoi provare quelle opere facendo riferimento al libro della Bibbia che te le giura, perché è la sua stessa verità che devi provare».
Il dialogo è nel canto XXIV del Paradiso. Nel canto san Pietro interroga Dante, proprio come fa un professore con i suoi allievi, mentre successivamente san Giacomo e san Giovanni lo interrogheranno sulla speranza e sulla carità.
Le domande, in sequenza, riguardano prima cosa sia la fede, poi quale sia il suo contenuto, poi se Dante la fede l’abbia veramente e ancora da dove venga.
Qui si legge uno dei versi più belli del canto. Nel rivolgere la sua quarta domanda Pietro dice con parole notissime:
«Questa cara gioia
sopra la quale ogne virtù si fonda,
onde ti venne?» (vv. 89-91).
La fede è descritta come la “cara gioia”, una felicità che ci è cara, sopra la quale ogni altra virtù si fonda. Poiché se la fede non fosse vera non potremmo avere pienamente la speranza dato che il mondo sarebbe destinato alla morte, ma non potremmo avere nemmeno un amore pieno, capace di quel perdono totale che solo Cristo donò dalla sua croce.
Comunque, nel rispondere alla domanda quale sia la prova della fede Dante viene contestato da san Pietro. Infatti il sommo poeta afferma in un primo momento che la fede si fonda per la testimonianza della Parola di Dio, per la Bibbia e per i miracoli in essa raccontati.
Così dichiara infatti:
E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude» (vv. 100-102).
Sostiene cioè che la prova che gli dischiude la verità della fede è data dalle opere compiute da Dio alle quali la natura non può scaldare il ferro o battere l’incudine (cioè arrivare con le proprie forze), insomma sarebbero i miracoli descritti dalla Bibbia a provare la fede.
Ma san Pietro contesta la risposta, come abbiamo già visto:
Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura
che quell’ opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura» (103-105).
Cioè i miracoli sono affermati (giurati) da quella stessa Parola di Dio che è ciò che deve essere provato! Non si può provare la verità di un’affermazione ricorrendo all’affermazione stessa – è ciò che in latino si chiama petitio principii, cioè rispondere utilizzando il principio.
Dante, però, risponde una seconda volta e questa volta giustamente, convincendo senza appello:
«Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno
è tal, che li altri non sono il centesmo:
ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno» (vv. 106-111).
Cioè la verità della fede è garantita da qualcosa di esterno alla Bibbia stessa, e precisamente dal fatto che il mondo si rivolse al cristianesimo: la prova della fede è data dal miracolo dell’esistenza della Chiesa. Questo miracolo è tale, senza altri “miracoli”, che gli altri valgono solo un centesimo di questo. Infatti – spiega Dante - Pietro annunziò Cristo, pur essendo il primo degli apostoli povero e senza mezzi, seminando la buona pianta della fede: ne nacque la Chiesa che è una vite, la vite cui Cristo ha dato origine, anche se nel momento storico in cui visse Dante è come un pruno.
Dante afferma così che chi lo ha convinto della fede è il grande miracolo dell’esistenza del popolo cristiano. Dal Cristo è nato quel popolo che ha amato, ha perdonato, ha affrontato il martirio, ha insegnato al mondo la dignità dell’uomo, la grandezza dello studio e della ricerca, ha vissuto l’amore per i poveri, ha sperato contro ogni speranza, ha dato fiducia al mondo intero.
Tale miracolo resta tale anche se in alcuni momenti della storia – come afferma Dante – la vite si è fatta pruno. I peccati commessi dai cristiani non solo non diminuiscono il miracolo dell’esistenza del popolo di Dio, ma anzi lo esaltano ancor più perché la Chiesa continua ad esistere e a fare del bene nonostante il peccato dei suoi uomini.
In Boccaccio, nella II novella del I giorno del Decamerone si afferma qualcosa di simile. Boccaccio - che fu colui che iniziò le pubbliche spiegazioni a Firenze della Divina Commedia che il popolo richiedeva - nel Decamerone racconta la storia da lui inventata, ma teologicamente perfetta, di un ebreo che prima di battezzarsi volle andare a Roma per vedere come vivevano i cristiani ed al ritorno confermò di volersi battezzare perché se la Chiesa continuava ad esistere ed a crescere nonostante l i peccati del papa e dei preti della Curia romana ciò voleva dire che la Chiesa stessa era qualcosa di non semplicemente umano, bensì era sorretta divinamente dallo Spirito che la rendeva feconda, nonostante il suo esser “pruno”. Per la novella di Boccaccio la Chiesa continua ad offrire la grazia di Dio nonostante la miseria degli uomini e ciò è segno della presenza divina in essa (cfr. su questo Il peccato nella chiesa motivo del diventare cristiani nel Decamerone: la seconda novella della prima giornata di Giovanni Boccaccio http://www.gliscritti.it/blog/entry/382 ).
In effetti noi crediamo non solo perché sentiamo annunziare i miracoli compiuti da Gesù in Terra Santa, ma anche perché vediamo come solo dinanzi a Lui la vita degli uomini fiorisca. Siamo giunti alla fede nella nostra vita, per aver intuito che nell’incontro con Lui i cuori si convertono. Crediamo nell’opera di Dio perché vediamo che la Chiesa continua a generare santi anche nei momenti più bui della sua storia, sempre santa e generatrice di santità anche quando i suoi figli peccano.
La teologa fondamentale della seconda metà del novecento ha riscoperto come la Chiesa sia il segno personale della verità e della bellezza di Dio. Importantissimi sono stati in questo senso gli studi di R. Latourelle e la sua opera Cristo e la chiesa segni di salvezza (edito da Cittadella). Tutto il lavoro di Latourelle, proseguito poi dalla sua scuola ed in particolare dal prof. Fisichella, oggi vescovo, ha giustamente abbandonato la via delle singole “prove” della verità cristiana per concentrarsi sui due “segni” personali di credibilità: la persona stessa di Gesù e la vita della Chiesa.
Breve nota catechetica
La dimenticanza di quanto detto è evidente nella catechesi oggi. Così come la dimenticanza di quell’uomo nuovo che è l’altra faccia dell’annunzio del vangelo. Dice la Gaudium et spes: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo». E papa Francesco ricorda che se non sono manifeste le conseguenze sociali del Vangelo il Vangelo non è pienamente annunziato (EG 176): «Vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice».
Spesso, invece, la catechesi si limita a presentare la figura di Gesù come emerge dal Nuovo Testamento, senza giungere a parlare della Chiesa che da lui è nata, dell’uomo il cui “mistero” è illuminato dal “mistero” dell’Incarnazione e della dimensione sociale della fede che trasforma il mondo.
Ricordo un incontro con un amico neocatecumenale che insisteva nel dire che il kerygma era affermare semplicemente che Cristo era morto e risorto e niente altro. Al che io rispondevo: ma se il kerygma fosse solo questo, fratello, perché poi aggiungi il racconto di mezz’ora di come tu ti sei convertito? Perché il kerygma non è solo l’annunzio di ciò che è avvenuto a Gesù, ma anche di ciò che da lui è nato: la Chiesa e la tua conversione!
Possano queste bevi note su Dante contribuire a camminare invece in questa direzione.
1/ "La verità sull'8 marzo delle donne per quel libro scovato per caso", di Silvana Mazzocchi
Riprendiamo da La Repubblica del 7/3/2009 un articolo scritto da Silvana Mazzocchi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/4/2016)
Se, nella Parigi del Fronte popolare si distribuivano i mughetti, nel 1946 quando l'Udi, l'Unione donne italiane, si trovò a organizzare il primo 8 marzo dell'Italia libera, le partecipanti alla discussione decisero di optare per le gialle mimose. "A noi giovani romane vennero in mente gli alberi coperti di fiori gialli... pensammo che quel fiore era abbondante e, spesso, disponibile senza pagare...", recita tra l'altro la testimonianza di Marisa Rodano, una delle tante voci raccolte nel bel volume 8 marzo, una storia lunga un secolo, in cui Tilde Capomazza (femminista e programmista televisiva) e Marisa Ombra (ex partigiana e presidente, negli anni Settanta, dell'editrice di Noi donne) ricostruiscono un secolo d'impegno femminile, restituendo dignità e adeguata importanza a una data troppo spesso ridotta a puro rito consumistico.
Il libro, già uscito nel 1987 con il titolo: Storie, miti e riti della giornata internazionale della donna per la casa editrice di nicchia Utopia e presto andato esaurito, esce ora per Jacobelli con una nuova edizione impreziosita dal Dvd originale, (anche questo introvabile fin dal 1988), che intreccia rare immagini storiche con le interviste e le testimonianze di alcune protagoniste della politica italiana degli ultimi cinquant'anni. Un documento molto utile per comprendere il vero significato dell'8 marzo e, dunque, per incentivare l'indispensabile passaggio di memoria tra le generazioni.
È ricco di notizie e di ricostruzioni storiche il lavoro di Capomazza e Ombra. E, già all'epoca, fece scalpore soprattutto una scoperta: il fatto che non fosse in realtà basata su alcun dato certo la convinzione comune che Clara Zetkin, nel 1910, avesse scelto l'8 marzo per ricordare le operaie americane morte due anni prima durante un incendio avvenuto nel corso di uno sciopero. E come, invece, fosse provato da una ricca documentazione che, a fissare il giorno delle donne all'8 marzo, fosse stata la Conferenza internazionale delle donne comuniste nel 1921 "per ricordare una manifestazione di donne con cui si era avviata la prima fase della rivoluzione russa".
Tilde Capomazza, il vostro libro ha sfatato la leggenda che l'8 marzo sia nato per ricordare la morte delle operaie americane nell'incendio del 1908. Come lo avete accertato? [N.B. de Gli Scritti da Wikipedia: L'incendio della fabbrica Triangle, avvenne a New York il 25 marzo 1911, non nel 1910 come abitualmente si afferma e non nel 1908 come afferma l’intervistatrice, e fu il più grave incidente industriale della storia di New York. Causò la morte di 146 persone (123 donne e 23 uomini, per la maggior parte giovani immigrati italiani ed ebrei]
"Potrei dire 'per puro caso', ma in realtà fu la tappa felice di una ricerca che cominciata nel 1985 durò due anni: Marisa Ombra passava giornate in vari archivi, io sfogliavo libri, le poche riviste storiche esistenti; Internet allora per noi ancora non esisteva. Un giorno alla storica libreria delle donne 'Al tempo ritrovato' a piazza Farnese, a Roma, chiesi a Maria Luisa Moretti se per caso le fosse mai passato tra le mani qualche libro o rivista che parlasse della Giornata della donna, anche in lingua straniera, magari. Lei si mise a pensare, poi, rivolta a Simone, sua partner nella gestione della libreria, disse: 'Guarda un po' su quello scaffale ... ti ricordi quando venne una ragazza francese e ci lasciò un libro?' Simone non ricordava, ma cercò e trovò quel libro. Mancò poco che non svenissi. Titolo 'La journée internationale des femmes. La clef des énigmes, la verité historique'. Autrice Renée Coté , canadese del Quebèc, quindi di lingua francese. Era un libro farraginoso, ma ricco di riproduzioni, di citazioni, di appunti relativi alla confusa storia della Giornata, tutta interna al Movimento socialista internazionale e successivamente alla Internazionale comunista. Fu lì che scoprimmo che di incendio non si parlava affatto, ma decisiva fu la lettura degli atti della Conferenza internazionale delle donne socialiste a Copenaghen 1910 dove di Gdd si parlò ma non di incendi... La giornata, dopo vari tentativi fatti da Clara Zetkin fu poi approvata a Mosca nel 1921, definita giornata dell'operaia, e ispirata alla rivolta delle donne di Pietrogrado contro lo zarismo avvenuta il 23 febbraio 1917 (corrispondente nel nostro calendario gregoriano all'8 marzo)".
Il libro e il dvd raccontano i 50 anni di questa ricorrenza. Qual è, oggi, il significato dell'8 marzo?
"Il libro per la verità, uscito nel 1987 cioè 21 anni fa, non aveva alcun intento celebrativo di una ricorrenza. Ci eravamo buttate in questa impresa Marisa ed io, non storiche, ma militanti del Movimento con percorsi diversi, perché avvertivamo che le manifestazioni dell'8 marzo stavano perdendo di forza, di efficacia, al limite, di senso. E pensammo di ripercorrerne la storia per capire cosa aveva spinto le donne che ci avevano precedute a costruire questo appuntamento annuale di lunga durata che aveva certamente prodotto importanti esiti. Era il caso di mollarlo o era bene rifletterci? Scegliemmo la seconda via scoprendo eventi impensati. Ma di tutto questo l'unica cosa che colpì la stampa fu la cancellazione dell'incendio e pareva che, con quella scoperta, avessimo voluto cancellare addirittura la giornata".
Qual è il testimone che la generazione del femminismo e del Movimento ha trasmesso alle ragazze di oggi?
"Noi abbiamo studiato e scritto di quel filo affascinante che ha attraversato la storia del Movimento e che ha portato attraverso le piazze d'Italia le proteste, le denunce e le richieste che le militanti intendevano far conoscere sia alle altre donne , sia ai vari governi. Ma non abbiamo fatto storia del Movimento, anche se abbiamo dovuto attraversarlo. Sull'argomento le opinioni delle donne che sono state soggetti attivi possono essere molto diverse. Noi due, con il nostro lavoro, abbiamo voluto fare memoria storica di questo appuntamento annuale ricco di eventi, di sofferenze, di allegria, di grande impegno che è stato il prodotto di un soggetto collettivo molto forte e che ha impegnato ogni donna che ne faceva parte".
"Al mito dell'incendio che ha avuto una funzione aggregante agli inizi, abbiamo sostituito la storia di questi soggetti reali che si sono fatti carico per sé e per tutte le donne di un processo di emancipazione e liberazione che deve continuare. Di fronte alla commercializzazione e volgarizzazione dell'8 marzo, noi proponiamo una riflessione sulla storia, molto gradevole nel dvd, molto avvincente nel libro. Questo è il nostro testimone e speriamo che passi in più mani lasciando tracce ispiratrici di nuovi impegni".
Tilde Capomazza, Marisa Ombra
8 marzo, una storia lunga un secolo
Prefazione di Loredana Lipperini
Jacobelli editore
Cofanetto libro*dvd, euro 19,50
2/ La favola dell’8 marzo (la festa come nessuno ve l’ha ancora raccontata), di Alessandra Nucci
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Alessandra Nucci pubblicato il 7/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)
La festa dell’8 marzo, che in Italia si tramanda di anno in anno con l’immutabilità delle leggende, narra della lotta di classe, dello sfruttamento capitalista, del diritto al lavoro e, immancabilmente, dell’iniquità della società americana. Si tratta però di una mitologia indotta, un misto di fatti veri e meno veri ricostruiti con fantasia dal movimento sindacale, in piena Guerra Fredda, per dare corpo all’ideologia marxista e incanalare le donne il più possibile verso rivendicazioni di stampo comunista.
La storia vera infatti è molto più articolata della sola iniziativa che si vuole lanciata da Clara Zetkin a Copenhagen nel 1910. L’incendio della Triangle Shirtwaist Factory di New York fu tragedia vera e immane, ma non fu riconducibile né a scioperi né a serrate, fece vittime anche fra gli uomini e oltretutto avvenne nel 1911, un anno dopo il supposto “proclama”. Nella minuziosa ricostruzione storica offerta dal libro “8 marzo. Storie, miti, riti della giornata internazionale della donna” di Tilde Capomazza e Marisa Ombra (ed. Utopia, Roma, 1991), si scopre che la data dell’8 marzo fu stabilita a Mosca nel 1921, durante la “Seconda conferenza delle donne comuniste”. Svoltasi all’interno della III Internazionale comunista, la conferenza decise di stabilire quella data come “Giornata internazionale dell’operaia” in onore della prima manifestazione delle operaie di Pietroburgo contro lo zarismo.
La “Festa della donna” fu istituita quindi nel quadro ideologico e politico che vedeva i paesi comunisti di tutto il mondo uniti per la rivoluzione del proletariato, sotto la guida dell’Unione Sovietica. Perché allora questo fatto non viene tramandato ogni 8 marzo? Per capirlo bisogna andare alle radici del femminismo, che non nasce dalle lotte del proletariato ma dalle donne del ceto medio, che già dalla metà dell’800 avevano cominciato a mobilitarsi per il diritto di voto. Quando poi, al volgere del XX secolo, venne fondato il Partito Socialista internazionale, le sue donne si divisero fra quelle disposte ad allearsi con le femministe “borghesi”, e quelle che invece ritenevano che, come scrisse nel 1910 L’Avanti!, «il proletariato femminile non può schierarsi col femminismo delle donne borghesi [….] per ottenere quelle riforme civili e giuridiche che le tolgano alla tutela e alla dipendenza dall’uomo. Questa emancipazione di sesso non scuote e può piuttosto rafforzare i cardini della presente società economica: proprietà privata e sfruttamento di classe».
In poche parole le donne di sinistra accusavano le borghesi di «non attaccare a fondo l’istituto familiare, luogo privilegiato di oppressione della donna». Questa divisione può spiegare la ricostruzione dell’8 marzo come iniziativa di protesta per il terribile incendio di New York, il cui taglio anti-americano risultava tanto più efficace quanto più ne rimaneva nascosta la radice sovietica.
Questa versione fu riportata infatti per la prima volta in Italia dal settimanale La lotta, edito dalla sezione bolognese del Partito Comunista Italiano. Era il 1952, e quell’anno l’Unione Donne Italiane, settore femminile della Cgil, distribuì alle sue iscritte una valanga di librettini minuscoli, 4 cm x 6, da attaccare agli abiti insieme a una mimosa. Nel libretto c’era un resoconto dell’incendio di New York. Due anni dopo, il settimanale della Cgil, Il lavoro, perfezionò il racconto con un fotomontaggio che ritrae un signore arcigno in bombetta dal nome inventato che si fa largo fra masse di donne tenute indietro dalla polizia.
Così la data dell’8 marzo si è diffusa a tappe alterne, soprattutto in Europa. In alcuni paesi è salita alla ribalta solo da pochi anni. Negli Stati Uniti, dove le manifestazioni delle donne hanno sempre incluso le più svariate associazioni femminili, le donne socialiste tenevano già una “Festa della donna” nel 1908, che però non è mai diventato un appuntamento diffuso. È da pochissimo che si tenta di far acquistare visibilità in USA all’“International Women’s Day”. Nonostante infatti la crescente pubblicistica degli studi femminili, presenti in tutti gli atenei, il livello di attenzione del pubblico per l’8 marzo continua ad essere quasi del tutto inesistente.
1/ Follia della creazione e noia del mercato, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 3/4/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (17/4/2016)
Sterna paradisea
Avete mai pensato alle lingue del camaleonte, del formichiere, del picchio verde? Conoscete il chiasmodon niger, il pesce degli abissi detto anche “black swallower” che ha uno stomaco elastico che gli permette di inghiottire pesci ben più grossi della sua taglia?
E la sterna paradisea, che ogni anno vola per 70.000 chilometri dall'Artide all'Antartide, coprendo così durante la sua esistenza un po' di più di sei volte la distanza dalla Terra alla Luna? E la cyphonia clavata, quel tipo di mosca innocua che porta sulla schiena un travestimento da formica velenosa per proteggersi? E l'araneus rota, ragno del deserto che ha il colore della sabbia e si sposta facendo la ruota sulle sue otto zampe sottili?
Ma perché concentrarsi su questi animali rari? Una mucca che bruca pacificamente l'erba possiede una forma completamente originale e farebbe la figura di una bestia favolosa là dove non ci fossero che ricci di mare o canguri…
Un giorno il rabbino Nissim di Charenton mi propose quest'osservazione esegetica: «Prima dei dieci comandamenti ci sono le dieci piaghe d'Egitto, e prima delle dieci piaghe d'Egitto ci sono le dieci parole con cui l'Eterno creò tutta la diversità dell'universo».
Con questo voleva dire che non è possibile aprirsi alla vera morale senza avere considerato prima il dramma della storia e la fantasia della creazione. Quest'ultimo punto significa che il Dio che proibisce l'adulterio è lo stesso che ha creato la piovra e lo struzzo, o che onorare il padre e la madre entra in risonanza con l'invenzione del rospo delle canne, della talpa dal naso stellato, del Casuarius casuarius e delle galassie…
Dove va a parare una simile constatazione? mi chiederete. Semplicemente all'idea che la legge divina, lungi dallo schiacciarci, c'è per renderci partecipi di questa creatività abracadabresca. Perché, bisogna riconoscerlo, davanti a un tale guazzabuglio di esseri viventi così bizzarri, l'immagine fondamentalista della divinità può solamente sgretolarsi e lasciare spazio alla visione di un poeta sconcertante, ultra-surrealista, amico del grottesco, esploratore di tutte le combinazioni fino alle più incredibili.
Purtroppo, quando vi trovate al museo di storia naturale di New York per ammirare l'esposizione Life at the Limits e non potete non stupirvi davanti alle stravaganze a trecentosessanta gradi della natura, una voce off non smette di cercar di azzittire la voce della vostra coscienza e di ridurre il vostro stupore alle norme del funzionalismo e del management contemporanei.
Vi ripete, infatti, che tutto questo è solamente il prodotto di struggle for life, la lotta per la vita, il caso, la selezione naturale, l'adattamento, competizione... La sterna dell'Artide farebbe quei milioni di chilometri solo per la sua sopravvivenza, il che la renderebbe più piccione di un piccione, poiché perlomeno quest'ultimo può accontentarsi per sopravvivere di ogni piccolo spazio.
E la vita, in generale, sarebbe molto più stupida del più piccolo sasso, poiché farebbe sforzi inauditi per giungere a una conservazione molto più precaria di quella di quest'ultimo. Ma non importa, ragazzo mio! Bisogna battersi per un salario miserabile! Bisogna adattarsi all'estensione indefinita del campo di lotta! Bisogna essere sempre più stupidi e competitivi!
È così che la divulgazione scientifica del Museo di storia naturale si sforza di proiettare sullo splendore che ci riempie gli occhi la cupa concorrenza del mercato capitalista e non vede nell'apparizione delle specie altro che l'applicazione di quei principi che valgono innanzitutto per l'erezione dei grattacieli newyorchesi.
Ed è così che le dieci parole creatrici, che sono la condizione per l'ascolto dei dieci comandamenti, sono spogliate della loro libertà. Tutta la loro poesia è ricondotta a uno stretto utilitarismo, affinché tutti i comandamenti si riducano al solo “Adattati o crepa!” che è il vero motto del progresso.
Sterna paradisea
2/ È troppo umano il disegno intelligente, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 27/3/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (10/4/2016)
Si può rendere omaggio alle buone intenzioni del cosiddetto Intelligent Design – ovvero il “Disegno intelligente”. Secondo questa teoria, “alcune caratteristiche dell'universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, che non attraverso un processo non pilotato come la selezione naturale”. Basta ammirare il disegno dell'ofride fior di bombo, il petalo a pedale della salvia o semplicemente la fotosintesi che trasforma la luce in zucchero, e sembra proprio indiscutibile: c'è intelligenza nella pianta, anche se non è l'intelligenza della pianta. La conclusione che il tutto provenga da un'intelligenza trascendente pare quasi inevitabile…
Dico “quasi” perché questa teoria pone enormi problemi, non solo dal punto di vista scientifico ma anche e soprattutto da quello filosofico e teologico. A dire il vero, l'appena conquistata rivincita di un Dio-ingegnere si muta subito non nella celebrazione di Dio, ma nell'apoteosi dell'ingegnere.
L'essenziale non sarebbe dovuto al caso, ma a un design, un piano. In questo modo, la prova dell'esistenza dell'Altissimo si trasforma nell'esaltazione degli standard della tecno-scienza e non fa che confermare l'ideologia dominante, concedendole anche le sue lettere di credito celesti.
E se, in fin dei conti, un certo darwinismo riveduto e corretto ci proponesse una visione più degna dell'operato divino di quella, troppo ingegnosa, troppo umana, dell'Intelligent Design? Certamente, bisogna criticare la selezione naturale in quanto è essa stessa derivata dal modello liberale malthusiano: concorrenza degli individui, sopravvivenza del più adatto, funzionalismo rivolto all'auto-conservazione e dunque subordinato a una “ontologia borghese”, secondo le parole di Robert Spaemann.
Bisogna anche ammettere che se la materia ha potuto raggiungere l'elevato grado di organizzazione che si incontra in te, caro lettore, è forse perché essa non è completamente indeterminata, ma possiede un'attitudine originaria verso le forme complesse, fino a quella umana.
Tuttavia, per l'apparizione delle forme variegate della natura, sono del parere di dare importanza particolare al caso, e perfino di radicalizzare l'idea con un'evoluzione realizzata attraverso il caso e le catastrofi. Dio è creatore di un certo ordine, ma non è l'ordine di un meccanico o un informatico.
Quest'ordine è il fondamento di un'avventura. È aperto al vento dell'imprevisto. Soprattutto, il Creatore è il solo – ed è proprio ciò che lo distingue infinitamente da ogni intelligenza creata – a potere agire attraverso il caso, perché ciò che è caso agli occhi del mondo è ancora sotto la guida della sua provvidenza.
È l'esperienza di tutti: quanto c'è di più decisivo nella nostra vita, a cominciare dalla nostra nascita, è frutto di incontri. Questa è la saggezza dell'amore: ho incontrato mia moglie per caso e questo caso coincide, a cose fatte, con la necessità più enigmatica.
Il mistero della Salvezza non procede come una deduzione a partire da principi. Accade attraverso l'avvenimento dell'incarnazione. Perché dunque l'evoluzione del vivente non dovrebbe rispondere alla stessa struttura? Perché non potrebbe farsi andando all'avventura, secondo un ordine che si dispiega attraverso l'avvenimento e l'incontro?
L'evoluzione non si è realizzata in modo lineare. È un dramma, pieno di rumore e di furore. Le prime stelle esplodono ed ecco che la distruzione permette la formazione del carbonio e dei metalli necessari alla vita.
Anche i viventi subiscono estinzioni di massa. Si manifesta qui un movimento che somiglia a quello della morte e risurrezione, come se il mistero pasquale apparisse in filigrana nello sviluppo della vita…
Comunque sia, è più degno di Colui che trascende il mondo agire attraverso le sue contingenze più catastrofiche. Cosicché e proprio là dove le scienze fisiche non possono più vedere altro che un puro caso, che la sua mano specialmente agisce.
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo redazionale pubblicato l’8/4/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (10/4/2016)
«Che differenza c’è fra i funzionari del Waqf a Gaza e quelli dell’Isis, quando spianano coi bulldozer le antichità e un tesoro religioso e culturale?». Sono queste le parole usate da un cristiano palestinese per esprimere tutta la propria indignazione per quanto accaduto settimana scorsa a Gaza.
CHIESA DI 1500 ANNI. Sabato scorso, durante i lavori di scavo per l’edificazione di un centro commerciale, vengono alla luce le rovine di una antichissima chiesa bizantina. L’edificio, dicono fonti locali, dovrebbe risalire a circa 1500 anni fa. La scoperta sembra essere importante tanto che Jamal Abu Rida, capo del ministero delle antichità dell’Autorità Palestinese, si reca sul luogo e rilascia un’intervista alla Reuters in cui conferma questa ipotesi: «Il nostro primo pensiero è stato che si trattasse di una chiesa di epoca bizantina».
Il problema, però, è che le scavatrici e i bulldozer non si sono fermati, proseguendo imperterriti nei loro lavori predisponendo le fondamenta del centro commerciale, senza alcuna sospensione e recuperando solo una quindici di pezzi tra capitelli e altri piccoli (e bellissimi) reperti. A quanto pare avrebbero addirittura accelerato i lavori una volta scoperti e rimossi i reperti.
LA VERITA’ SU HAMAS. Un sacerdote, padre Ibrahim Nairouz, ha denunciato l’episodio con due lettere indirizzate alle autorità palestinesi colpevoli di essere rimaste inerti di fronte al ritrovamento: «Se avessero trovato i resti di una moschea o di una sinagoga o di qualsiasi altra struttura antica – ha chiesto padre Nairouz – avrebbero affrontato la situazione nello stesso modo? Fanno così perché è una antica chiesa?».
La zona è sotto il controllo di Hamas e, secondo i cristiani, «è evidente che il patrimonio e gli esseri umani cristiani sono sotto tiro nella nostra regione». Molti di loro hanno protestato su internet e sui social network, sostenendo padre Nablus. «Stanno cercando di cambiare la storia che dimostra che Gaza è stata una delle antiche città cristiane?» ha chiesto uno. «La domanda è: dove sono coloro che si preoccupano di conservare il nostro patrimonio cristiano?», ha scritto un altro. «Dove sono i capi delle chiese di Gerusalemme e del mondo? Dove sono i vescovi e arcivescovi, cosa li trattiene dall’affrontare un grave incidente che va nel senso della cancellazione della nostra identità cristiana in Terra Santa? Dove sono il Vaticano e l’Unesco?». «Questo incidente deve essere pubblicizzato in modo che il mondo sappia la verità su Hamas».
Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una relazione di don Andrea Lonardo tenuta il 25/2/2016 per i presbiteri della XII prefettura di Roma. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti, cfr. il tag convegno_firenze.
Il Centro culturale Gli scritti (17/4/2016
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Riprendiamo un intervento del recentemente scomparso Giorgio Israel pubblicato nella rivista "Scuola democratica" e da lui ripubblicato sul suo sito Il blog di Giorgio Israel il 29/8/2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (17/4/2016)
Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una formazione scolastica “per competenze” sono due: (a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale; (b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.
In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che si possa apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.
Mi è occorso più volte, in dibattiti e conferenze, di leggere alcuni brani per descrivere la didattica per competenze, suscitando un entusiastico consenso da parte dei sostenitori di tale didattica, seguito dall’imbarazzo nell’apprendere che quei brani erano tratti dal Regio Decreto del 1913 istitutivo dei Ginnasi-Licei Moderni. È un peccato veniale introdurre una nuova terminologia per richiamare l’esigenza di insegnare bene. Tuttavia, l’introduzione di definizioni superflue e violare il principio del rasoio di Occam non è mai un fatto positivo.
In realtà, anche l’esigenza (b) è inconsistente, in quanto – come vedremo – la pretesa di misurare le competenze è destituita di qualsiasi serio fondamento.
Ciò non vuol dire che la tematica della didattica per competenze sia priva di motivazioni, che però sono di altra natura. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obbiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che da tempo si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento. Al contrario, la teoria delle competenze si è sviluppata nel primo ambito quando nessuno aveva mai pensato di implementarla nel secondo. Una ricostruzione storica accurata di questi processi – che non è qui possibile – potrebbe mostrarlo in modo rigoroso.
Mi limiterò a ricordare che, dopo alcune prove nel settore militare durante la Seconda guerra mondiale, il concetto di competenza fu introdotto nell’ambito aziendale dallo psicologo statunitense David McClelland. Dopo una prima elaborazione teorica, McClelland implementò il modello delle competenze nelle organizzazioni aziendali attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963. I “McClelland-McBer competency models” miravano a replicare i discreti risultati ottenuti in ambito militare. Tuttavia, mentre una qualche “misurazione” delle capacità di un pilota di aviazione poteva essere fatta in modo accettabile, con parametri come il numero di bersagli colpiti rispetto agli obbiettivi prefissati, la misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e la sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test) si rivelò subito molto problematica e ancor più la gestione del colloquio di valutazione. Furono così fatti numerosi tentativi di correzione – in particolare quando la McBer venne acquistata dalla Hay – attraverso lo sviluppo della “Theory of Needs”.
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti. La definizione della tipologia delle competenze si è rivelata estremamente problematica: anche nel caso di importanti grandi aziende si constata che la tipologia di competenze di un dirigente è quasi uguale a quella di un dipendente del più basso livello. La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà.
Nonostante queste difficoltà – che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale fa acqua da tutte le parti – essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico. Il caso più plateale è quello del modello di insegnamento “efficace” introdotto in Inghilterra nel 2000 e commissionato direttamente alla Hay-McBer. Il modello è strutturato in 16 caratteristiche organizzate in cinque gruppi, riflette in pieno le tecniche e l’ideologia della Hay-McBer ed è evidente quanto si basi su definizioni vaghe, generiche e arbitrarie:
Professionalismo: Rispetto degli altri - Capacità di proporre sfide e sostenerle - Fiducia in sé - Capacità di ispirare fiducia
Capacità intellettuali: Pensiero analitico - Pensiero concettuale
Capacità di programmare e creare aspettative: Capacità di guidare il miglioramento - Spirito d’iniziativa - Capacità di ricercare le informazioni necessarie
Capacità di guida: Capacità di gestire gli alunni - Passione nel predisporre l’apprendimento -Flessibilità - Capacità di responsabilizzare gli altri
Capacità di entrare in relazione con gli altri: Comprensione degli altri - Capacità di persuadere e influenzare - Capacità di lavorare in squadra.
Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che nessuna di queste “competenze è misurabile. Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta ma è intrisa di fattori soggettivi. Nella fattispecie essi sono rappresentati dai test che sono lo strumento principe di queste valutazioni quantitative. I test sono preparati da persone che hanno opinioni soggettive – spesso assai opinabili e divergenti tra loro – sui criteri di valutazione delle competenze. Pertanto, credere che il test rappresenti una forma di valutazione oggettiva è un modo inelegante di nascondere la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto. Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile al livello della valutazione di “competenze” minime pur restando intriso di elementi soggettivi.
È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici. Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato (si pensi ai test d’ingresso nelle università o ai test scolastici in cui si valutano capacità di base di ortografia, grammatica e calcolo). Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali (come nel modello precedente) nessuna stima quantitativa è possibile. Questa ammissione, condivisa da chi si è occupato in modo serio della questione, non impedisce che vi sia chi si ostina a parlare di misurabilità delle competenze, addirittura di “competenze della vita”.
Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano un intralcio. Le competenze chiave enunciate dal Parlamento Europeo corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente indirizzano verso un approccio anticulturale in cui non c’è posto per la letteratura, la storia o la filosofia e neppure per una scienza concettuale, mentre tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative. Questo andazzo, oltretutto gestito da una burocrazia priva di basi culturali, dovrebbe preoccupare in quanto può provocare un grave declino dei sistemi dell’istruzione.
Chi ha a cuore il futuro di questi sistemi dovrebbe battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratiche e di mercato del lavoro, senza nulla togliere a queste esigenze.
Spesso ci si chiede se la didattica delle competenze sia “di destra” o “di sinistra”. È indubbio che fino a tempi recenti le visioni ispirate a un approccio tecnocratico erano duramente avversate dalla cultura progressista. Questo veniva fatto in nome di una tradizione che aveva come massimo rappresentante Antonio Gramsci e la sua nota visione della scuola, dello studio come sacrificio e acquisizione di capacità di lavoro e di concentrazione, del ruolo del latino nella formazione mentale e culturale, e così via. A un certo momento, questo riferimento è stato abbandonato di colpo a favore di un costruttivismo pedagogico di origine anglossassone, nonché di altre teorie, come quelle di Piaget o, più di recente, di Edgar Morin. Appaiono ormai estranei alla sinistra i riferimenti di un pedagogista comunista, pur così aperto all’innovazione, come Lucio Lombardo Radice: egli difendeva polemicamente l’esigenza del rigore nello studio contro ogni visione ludica della scuola e l’esigenza della concentrazione personale contro le sperimentazioni empiriche “di gruppo”. Oggi, il crollo di capacità di lettura e concentrazione dei nostri ragazzi dà clamorosamente ragione a tali ammonimenti. Per quanto il costruttivismo postmoderno e una antica tradizione di costruttivismo sociale possano trovare punti di contatto e consonanze, è singolare la leggerezza con cui quelle posizioni sono state gettate alle ortiche in favore dell’adesione acritica a visioni aziendaliste ispirate alla totale subordinazione della formazione culturale a esigenze di carattere produttivo; in parole povere, che concepiscono la scuola come un luogo di formazione di addetti per le aziende, e non di cittadini che sulla cultura fondano la loro libertà.
Un altro fenomeno che viene troppo spesso accettato con acritica leggerezza è la formazione di un ceto di “esperti scolastici”, singolari figure di persone la cui unica “competenza” è l’organizzazione scolastica, indipendentemente dalla loro competenza specifica in una qualsiasi tematica dell’insegnamento e persino dall’assenza di qualsiasi esperienza di insegnamento. La tematica che abbiamo riassunto sotto la voce “organizzazione scolastica” comprende temi che hanno a che fare con le modalità dell’insegnamento (strutturazione in classi o in “open space”, introduzione delle tecnologie nelle scuole, orari, tematiche della disabilità e dei disturbi di apprendimento, ecc.) e, in particolare, con quelle della valutazione, sia degli alunni che degli insegnanti e degli istituti scolastici. Va notato, al riguardo, che l’idea che si possa intervenire sulle questioni dell’istruzione in modo completamente astratto e avulso dalle questioni di contenuto dell’insegnamento, è semplicemente aberrante e costituisce una delle cause principali del degrado dell’istruzione, sempre più consegnata allo strapotere di personaggi che impongono metodologie derivanti da presupposti ideologici e che si traducono in una miriade di adempimenti burocratici o di verifiche puramente formali. Senza contare che gli “esperti scolastici” sono considerati, non si sa perché, come al di sopra di qualsiasi valutazione, come se fossero depositari di una metascienza sottratta a qualsiasi verifica.
Tra i molti assiomi ideologici che questo ceto diffonde, e che impone come una verità di fede, sta quello di cui abbiamo già parlato in tema di competenze e che si può riassumere nello slogan generale della misurabilità delle qualità. Trattasi di un esempio caratteristico, in quanto chiunque abbia una sufficiente preparazione scientifica sa perfettamente che un conto è una stima e altro conto una misurazione e che la possibilità di misurare implica una serie di presupposti che soli permettono di parlare di “oggettività”. Quando, invece, ci si trova di fronte a entità da misurare la cui definizione precisa è impossibile, neppure in termini operativi, e che si sfaccettano in una serie di aspetti ognuno dei quali è difficilmente afferrabile, e oltretutto sono soggetti a variabilità sociale e storica, parlare di misurazione è una sciocchezza così plateale che può permettersela soltanto chi goda di totale impunità sul terreno della valutazione.
È davvero sorprendente la schizofrenia con cui molti soggetti che si occupano di scuola da un lato lamentano una progressiva distruzione della cultura – che indubbiamente si sta verificando – e, dall’altro, non si oppongono o addirittura alimentano uno dei fattori principali di tale distruzione: la dittatura degli “esperti”.
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 13/4/2016 un’intervista a monsignor Fragkiskos Papamanolis. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (14/4/2016)
È una situazione drammatica quella delle migliaia di profughi nei campi dell’isola greca di Lesbo dove il Papa si reca sabato. A descriverla in un’intervista esclusiva all’Osservatore Romano è il presidente dell’episcopato ellenico, il vescovo Fragkiskos Papamanolis.
Lei ha seguito da vicino, in questi ultimi mesi, il dramma dei profughi che arrivano nelle isole greche, e in particolare a Lesbo. In generale, come è stata la reazione degli abitanti?
Il fenomeno migratorio dei profughi, nell’attuale modalità di arrivo di una massa disorganizzata, è cominciato circa un anno fa, e ha trovato i paesi europei impreparati. All’inizio i profughi sono stati classificati come “immigrati clandestini”. Poi, in Grecia, sono arrivati sempre più numerose e più di frequente. Si è così perduto il controllo, e invece di trattarli come clandestini mancanti di documenti si è cominciato a pensare come sistemarli alla meno peggio. Già nell’agosto del 2015 il Papa invitava le famiglie cattoliche a ospitare questi fratelli che erano senza casa, senza un tetto. Nelle isole greche di Kos, Samos, Chios, Lesvos, vicine alle coste della Turchia, in settembre il numero dei profughi oltrepassava quello degli abitanti. In un intervento alla plenaria del Consiglio delle conferenze episcopali europee, tenuta in Terra santa, ho informato i presidenti degli episcopati di queste situazioni create dal continuo flusso di profughi: per aiutarli infatti non bastava più il sentimento caritativo cristiano degli abitanti. Si sentiva già la necessità che il nostro governo facesse qualcosa per questi fratelli e queste sorelle. Ma anche il governo si è trovato impreparato perché era la prima volta che aveva luogo un fenomeno migratorio di massa di profughi. Comunque il governo ha cominciato a fare quel che poteva, ma era sempre poco di fronte ai bisogni di questa popolazione.
Cos’è cambiato nell’ultimo mese?
Abbiamo visto gli abitanti accogliere con sentimenti caritatevoli questi profughi. Tutti i nostri canali televisivi hanno dedicato e dedicano lunghi servizi a alle situazioni, direi disumane, in cui vivono queste povere persone che veramente suscitano compassione. Ognuno era disposto a fare quel che poteva per aiutarli. Vedere questi poveretti vivere nel freddo, sotto la pioggia, e non avere niente con cui ripararsi faceva male il cuore. Era terribile vedere una mamma che faceva il bagno al suo bambino con l’acqua della pioggia, un’altra ha partorito nel fango. Molti portavano ai profughi cibo, succhi di frutta, bottiglie d’acqua, pane e tutto quello che potevano raccogliere. Alcuni riempivano la loro macchina e andavano a portare soccorsi a quelli che erano più lontani. Dalla mia antica diocesi, l’isola di Syros, nelle Cicladi, ieri è partito per Idomeni, ai confini con la ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, un camion lungo 16 metri pieno di viveri raccolti dagli abitanti per i profughi. Questi suscitavano anche la nostra ammirazione perché in genere si comportavano con rispetto verso gli abitanti. Ammiravamo la loro pazienza e la loro forza di resistenza nel sopportare situazioni disumane. Il nostro governo ha fatto molto, ha creato sia nel continente che nelle isole vari centri di accoglienza. Vari organismi, primo tra tutti la nostra Caritas Hellas, hanno fornito molto materiale: tende, servizi igienici, vestiti, scarpe. Sono stati affittati tre alberghi da duecento letti, due ad Atene e uno a Lesvos. Tutto questo con l’aiuto economico delle Caritas nazionali europee e degli Stati Uniti. Senza il loro sostegno non avremmo avuto nessuna possibilità di farlo. Così, attraverso Caritas Hellas, la Chiesa cattolica ha dato e dà una splendida testimonianza. Il cambiamento nelle relazioni tra profughi e popolazioni locali si è verificato dopo l’accordo dell’Unione europea con la Turchia del 18 marzo scorso, perché la situazione giuridica è cambiata: i profughi cioè non sono considerati più “immigrati clandestini” ma “detenuti” e non accettano di essere espulsi dalla Grecia, non vogliono andare in Turchia. Non obbediscono alle forze dell’ordine e fanno resistenza. Non vogliono stare nei centri di accoglienza. Il porto del Pireo è quasi occupato dai profughi. E nelle isole protestano nella maniera che possono. D’altra parte, nelle isole, con la Pasqua cattolica è cominciata la stagione turistica, che per gli abitanti delle isole è l’unica fonte per guadagnarsi il pane quotidiano anche per il prossimo inverno. I turisti in questa situazione annullano le prenotazioni. Il danno economico è immenso per l’economia nazionale, ma anche per gli agenti turistici e gli armatori. E tutto questo mentre la crisi economica svuota i portafogli. Anche la Chiesa cattolica è vittima della crisi. Siamo obbligati a chiudere opere sociali, addirittura a non proseguire alcune attività pastorali.
Com’è cambiato l’atteggiamento delle popolazioni costiere in questa situazione ormai drammatica?
La situazione ormai non è pacifica. E non so come si svilupperà. Tutti hanno ragione. I profughi hanno ragione perché non resistono nelle situazioni disumane nei centri di accoglienza. Gli abitanti hanno ragione perché temono vedendo reazioni violente dei profughi, saccheggi di negozi, specialmente di generi alimentari. Il male è che gli abitanti hanno cominciato a comprare armi. In televisione un venditore di articoli per la caccia diceva che in un mese ha venduto più fucili che in un anno. Anche il governo ha ragione, perché non ha la possibilità economica di fare quello che sarebbe necessario, perché le casse dello Stato sono vuote, e cerca in ogni modo di assicurare almeno il funzionamento dello Stato, mentre cresce l’esasperazione della gente.
Qual è il ruolo dei cattolici?
La Chiesa cattolica in Grecia è minoritaria. Dopo la caduta del comunismo, l’entrata nell’Unione Europea e l’apertura dei confini a molti immigrati, i cattolici sono saliti al 2,5 per cento, mentre i cattolici greci siamo circa lo 0,5 per cento: in questa situazione che ruolo possiamo avere?
Come vede il futuro per queste zone di confine, e in particolare per la Grecia, già duramente provata dalla crisi economica?
Noi cattolici in Grecia siamo abituati a vivere nella precarietà e facilmente vengono travolte le nostre decisioni e i nostri programmi. Non so cosa accadrà ma sabato sarò a Lesvos per la visita del Papa.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni. Per gli apocrifi antichi, vedi la sotto-sezione I vangeli apocrifi e lo gnosticismo.
Il Centro culturale Gli scritti (14/4/2016)
Il Vangelo di Barnaba[1] è un testo veramente curioso, ma che merita attenzione per capire cosa abbia pensato l’Islam di Gesù nella storia. L’apocrifo merita uno studio accurato anche in vista di una questione ancora più importante: cosa pensa l’Islam oggi di Gesù, dato che lo ritiene un inviato di Dio, ed in che modo un confronto su Gesù potrebbe contribuire a quel rinnovamento dell’Islam oggi invocato da tanti musulmani? Può contribuire oggi una riflessione su Gesù a riconsiderare le fonti in maniera che siano lette criticamente e scientificamente?
1/ Errori storici e geografici che dimostrano come l’autore del vangelo di Barnaba non abbia mai conosciuto né Gesù, né la sua epoca, né la sua terra
Il testo del vangelo di Barnaba è estremamente impreciso. La lontananza dagli avvenimenti evangelici è subito lampante: infatti l’autore non conosce bene la geografia dei luoghi in cui Gesù ha vissuto e nemmeno ha una padronanza storica degli eventi.
Basti ricordare che il vangelo di Barnaba pone la nascita di Gesù al tempo in cui “Pilato era governatore e Anna e Caifa sacerdoti”! Da un dato così palesemente errato si comprende subito che l’autore conosce i vangeli canonici, ma confonde il momento della nascita di Gesù con la sua morte, quando effettivamente Pilato era ormai governatore della Giudea e Anna e Caifa al potere nel sinedrio[2]:
«In quel tempo regnava in Giudea Erode per decreto di Cesare Augusto; Pilato era governatore, Anna e Caifa sacerdoti. Allora per decreto di Augusto si fece il censimento generale, ognuno si recava nella sua patria e si portava nella sua tribù per farsi registrare. Giuseppe originario di Nazareth, città della Galilea, partì con Maria sua moglie incinta, per recarsi a Betlemme, sua città, essendo della stirpe di David, al fine di essere registrato, come voleva il decreto di Cesare» (cap. III).
La stessa crassa ignoranza degli eventi è manifesta fin dal Prologo: l’autore, non essendo a conoscenza del fatto che il titolo di Cristo è l’equivalente greco del termine Messia, dichiara tranquillamente che Gesù è il Cristo mentre per tutto il vangelo si opporrà poi a che il titolo di Messia sia riferito a Gesù. Infatti, per l’autore di Barnaba il titolo di Messia deve essere riferito a Maometto, che è il Messia da attendere[3]:
«Barnaba apostolo di Gesù Nazareno chiamato Cristo, a tutti coloro che abitano sulla terra, augura pace e consolazione. Carissimi, il grande ed ammirabile Dio ci ha visitati, in questi giorni passati, tramite il suo profeta Gesù Cristo» (Prologo).
Nei capitoli 20-21 l’autore del vangelo di Barnaba si dimostra ignorante anche sui dati geografici più elementari riguardanti la Palestina quando afferma che Gesù, partendo da Gerusalemme, si recò in barca fino a Nazareth e poi di lì salì a piedi a Cafarnao. Invece, geograficamente, è Cafarnao ad essere sul lago, mentre Nazaret è situata in collina a diversi chilometri di distanza dal lago.
Così recita testualmente il vangelo di Barnaba[4]:
«Gesù andò al mare di Galilea; montò in barca e navigò verso Nazareth, sua città. Allora si levò una grande tempesta di mare, al punto che la barca stava immergendosi. Gesù dormiva sopra la prua della barca. I suoi discepoli gli si accostarono e lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Maestro, perché periamo!” Erano in preda a grandissimo spavento perché c'era un grande vento contrario e per il gran rumoreggiare del mare. Gesù si alzò ed elevati gli occhi al cielo disse: “O Elohim Sabaot, abbi pietà dei tuoi servi!” Appena Gesù ebbe pronunciato queste parole, subito il vento cessò e il mare si fece tranquillo. Allora i marinai si spaventarono e dissero: “Chi è costui cui il mare e il vento obbediscono?”. (cap. XX) […] Gesù salì a Cafarnao e avvicinandosi alla città ecco uscire dai sepolcri uno, che era indemoniato. Nessuna catena poteva trattenerlo ed egli faceva grande male agli uomini. I demoni gridavano attraverso la sua bocca, dicendo: “Santo di Dio, perché sei venuto a molestarci prima del tempo?”. E lo pregavano che non li cacciasse, Gesù li interrogò in quanti fossero. Essi risposero: “Seimilaseicentosessantasei!”. Sentendo ciò, i discepoli si spaventarono e pregarono Gesù di andarsene. Gesù disse allora: “Dov’è la vostra fede? Il demonio deve andarsene e non io!”» (cap. XXI).
Si noti fra l’altro come l’apocrifo di Barnaba riprenda qui il numero 666 dall’Apocalisse, scritta probabilmente alla fine del I secolo, aggiungendovi un ulteriore 6.
Nel prosieguo del testo il vangelo di Barnaba inventa i preparativi di una guerra che a suo dire si sarebbe dovuta combattere a causa di Gesù a Mispa, con tre eserciti di duecentomila uomini l’uno, l’uno che sosteneva che Gesù era Dio, un secondo che sosteneva che Gesù era il Figlio di Dio ed un terzo che sosteneva che Gesù era solo un profeta di Dio. Il testo lascia confusamente intuire che alla guida delle tre schiere ci sarebbero stati Erode (anche se non si capisce bene quale), il sommo sacerdote e il governatore. Anche qui l’autore del vangelo di Barnaba mostra di non conoscere la storia reale degli avvenimenti e inventa tale episodio solo per porre in rilievo la domanda su chi fosse veramente Gesù[5]:
«In questo tempo vi fu una grande sommossa in Giudea per amore di Gesù, perché l'esercito romano, per istigazione di satana, spingeva gli Ebrei a dire che Gesù era Dio venuto a visitarli. Questo suscitò una tale sedizione che, nella prossimità della Quaresima, tutta la Giudea era in armi, fino al punto che il figlio andava contro il padre ed il fratello contro il fratello. Alcuni dicevano che Gesù era Dio venuto al mondo; altri negavano questo e dicevano che era il figlio di Dio, altri ancora negavano perché Dio non ha alcuna sembianza umana e perciò non genera figli, ma dicevano che Gesù di Nazareth è profeta di Dio. Tutto questo cominciò per i grandi miracoli che Gesù fece. Fu necessario per acquietare il popolo che il pontefice montasse a cavallo, rivestito di abiti pontificali e con il santo nome di Dio, “tetragramma”, in fronte. E allo stesso modo montarono a cavallo il governatore Pilato ed Erode. Tre eserciti si riunirono a Mispa, ognuno composto di duecentomila uomini capaci di portare la spada, ai quali parlò Erode, ma essi non si calmarono. Poi il governatore e il pontefice parlarono, dicendo: “Fratelli, questa guerra è suscitata da satana, perché Gesù è vivo e a lui dobbiamo ricorrere e domandargli che dia testimonianza di sé, sicché crediamo a lui secondo la sua parola”. A queste parole, tutti si acquietarono e deposte le armi si abbracciarono dicendo l'uno all'altro: “Perdonami, fratello!”» (cap. XCI).
2/ Il vangelo di Barnaba trasforma in narrazione l’affermazione coranica secondo la quale Gesù non sarebbe morto in croce
Ma, al di là degli errori storici e geografici, è evidente che l’autore ha voluto riscrivere secoli dopo i fatti la storia di Gesù a partire dalle sue convinzioni coraniche: ha così aggiunto tutta una serie di eventi perché l’insegnamento di Gesù divenisse più simile agli insegnamenti coranici e ha modificato gli episodi e le parole di Gesù che a lui sembravano imbarazzanti per una mancata consonanza con i testi coranici. Ha, insomma, inserito da un lato ed eliminato dall’altro una serie di particolari, per ottenere un racconto che a suo avviso non entrasse in conflitto con le Sure del Corano.
Forse la più importante riscrittura dei fatti evangelici compiuta dall’apocrifo di Barnaba riguarda la narrazione degli ultimi momenti della vita di Gesù. Qui la componente teologica diviene predominante e le varianti rispetto ai Vangeli canonici non sono dovute ad ignoranza rispetto ai dati, come è facile rendersi conto, bensì divengono intenzionali.
Il vangelo di Barnaba cerca di trasformare in narrazione il versetto 157 della IV Sura («Sura delle donne»), nel quale gli ebrei di Medina, fra gli altri torti, sono accusati per aver detto:
«Abbiamo ucciso il Messia, Gesù figlio di Maria, l'Apostolo di Dio!, mentre non l'hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro [di averlo ucciso]. In verità, coloro che si oppongono a [Gesù], sono certamente in un dubbio a suo riguardo. Essi non hanno alcuna conoscenza di [Gesù]; non seguono che congetture e non hanno ucciso [Gesù] con certezza».
Il versetto ha suscitato moltissimi commenti e interpretazioni nei diversi maestri musulmani che, comunque, nella stragrande maggioranza, ne hanno tratto la conclusione che Gesù non sarebbe morto in croce. Da questa convinzione nacque poi, nei maestri islamici, il tentativo di individuare chi fosse allora stato ucciso sulla croce al posto di Gesù, a partire dai due dati ritenuti certi dalla maggior parte dei commentatori coranici:
a/ la morte di Cristo in croce è una falsificazione di ebrei e cristiani e, conseguentemente, Cristo non è ancora mai morto; morirà solo alla fine dei tempi per essere poi resuscitato da Allah.
b/ la crocifissione è realmente avvenuta, ma sulla croce è stato ucciso un personaggio diverso da Gesù (Cfr. su questo M. Borrmans, I musulmani di fronte al mistero della croce: rifiuto o incomprensione?, in M. Borrmans, Islam e cristianesimo. Le vie del dialogo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1993, pp. 57-74 che riprende, a sua volta, l’articolo scritto dall’autore per Aa.vv., La sapienza della croce, Elle Di Ci, Torino 1976, voI. I, pp. 615-628. Cfr. anche l’articolo divulgativo Dobbiamo conoscere cosa viene insegnato su Gesù ai musulmani dai loro imam, altrimenti non potremmo capirci a scuola in una lezione di storia. I tre punti più importanti della missione di Gesù che vengono insegnati dall’Islam sono 1/ Gesù è venuto a ripetere che Allah è il vero Dio 2/ Gesù non è stato crocifisso: è stato elevato in cielo senza mai morire e la crocifissione sarebbe un’invenzione dei cristiani 3/ Gesù è stato mandato da Allah ad annunciare la venuta di Maometto, di Giovanni Amico).
Il vangelo di Barnaba, per trasformare questa affermazione in racconto, sceglie la strada di modificare la narrazione evangelica e di arricchirla con una serie di particolari.
Secondo l’apocrifo, infatti, Allah avrebbe salvato Gesù – trasportandolo, afferma la tradizione, prima sul Monte degli Ulivi - e lo avrebbe fatto ascendere in cielo: in questa maniera Gesù sarebbe sfuggito all’arresto. I soldati, giunti sul luogo, avrebbero arrestato al suo posto Giuda il cui volto sarebbe stato reso da Allah somigliante a quello di Gesù.
«L'ammirabile Dio operò mirabilmente: Giuda divenne talmente simile a Gesù nel parlare e nel volto che noi credevamo che fosse Gesù. E lui, avendoci svegliati, cercava dov'era il Maestro. Per cui noi, stupefatti, rispondemmo: “Sei tu, Signore, il nostro Maestro! Ti sei forse dimenticato di noi?” Ed egli ci disse sorridendo: “Siete pazzi! Io sono Giuda Iscariota”»[6] (cap. CCXVI).
I soldati avrebbero così catturato Giuda convinti di catturare invece Gesù:
«Giuda rispose: “Avete perso il cervello? Voi siete venuti a prendere Gesù Nazareno con armi e lanterne come un ladro, mi avete legato per farmi re, proprio me che vi ho condotto qui!” Allora i soldati persero la pazienza e con pugni e calci cominciarono a rendere a Giuda pan per focaccia e lo condussero con violenza a Gerusalemme»[7] (cap. CCXVII).
Nel curiosissimo dialogo con Pilato, Pilato è convinto di interrogare Gesù, mentre, sotto le apparenze di Gesù, sentiamo Giuda rispondere:
«Signore, credimi, se tu mi condannerai a morte tu farai un grande peccato perché ucciderai un innocente. Infatti, io sono Giuda Iscariota e non Gesù, che è un mago e mi ha trasformato così con la sua arte magica»[8] (cap. CCXVII).
Il vangelo di Barnaba, ricco di particolari in merito, prosegue poi asserendo che una volta che Giuda fu crocifisso, ucciso e sepolto, mentre tutti erano certi di crocifiggere, uccidere e seppellire Gesù, i discepoli rubarono il corpo di Giuda, dato che nel sepolcro non c’era il corpo di Gesù. Gesù - prosegue l’apocrifo - fu inviato infine da Allah alla Vergine, alla Maddalena, a Marta, a Lazzaro, a Pietro, a Giacomo e a Giovanni, per raccontare loro il fatto che Dio lo aveva portato in cielo senza farlo morire. Gesù annunzia loro di essere dunque in cielo, in corpo e anima, senza aver ancora assaggiato la morte. Solo dopo una nuova discesa in terra, alla fine dei tempi, Gesù dovrà infine affrontare la morte per poi essere immediatamente resuscitato da Allah.
Ecco ampi brani dei capitoli conclusivi del vangelo di Barnaba, che presentiamo distesamente perché leggendoli ci si possa rendere conto del tenore del testo[9]:
«Allora la persecuzione da segreta che era divenne manifesta. Il pontefice andò in persona da Erode e dal governatore romano, accusando Gesù di voler farsi re d'Israele. Per questo avevano dei falsi testimoni. Si tenne un consiglio generale contro Gesù perché il decreto romano faceva loro paura: già due volte il senato infatti aveva emesso un decreto su Gesù. Nel primo, era proibito, sotto pena di morte, chiamare Gesù di Nazareth, profeta dei Giudei, Dio o figlio di Dio. Nell'altro, si proibiva a chiunque, sotto pena capitale, di bisticciare tra di loro a proposito di Gesù nazareno, profeta dei Giudei. Per questo infatti vi erano fazioni tra di loro. Alcuni volevano che si scrivesse di nuovo a Roma contro Gesù; altri dicevano che si doveva lasciar stare Gesù senza curarsi minimamente delle sue parole, come di un pazzo; altri citavano i grandi miracoli che egli faceva[10]» (cap. CCX). […]
«Alzate le mani al Signore, pregò dicendo: “Signore, nostro Dio, Dio di Abramo, Dio di Ismaele e di Isacco, Dio dei nostri padri, abbi misericordia di coloro che mi hai dato e salvali dal mondo! Io non dico: toglili dal mondo! Perché è necessario che essi rendano testimonianza contro coloro che contamineranno il mio vangelo, ma io ti prego, salvali dal male, perché essi vengano con me nel giorno del tuo giudizio a testimoniare contro il mondo e contro la casa di Israele che ha contaminato la tua alleanza.
Signore, Dio forte e geloso che vendichi l'idolatria dei padri idolatri contro i loro figli fino alla quarta generazione, maledici in eterno chiunque contaminerà l'evangelo che tu mi hai dato, scrivendovi che io sono tuo figlio, perché io, che sono fango e polvere, servo dei tuoi servi, non l'ho mai pensato di essere un tuo buon servo. Io infatti non posso darti nulla per quello che mi hai dato, perché ogni cosa è tua!
Signore Dio misericordioso, che usi misericordia per mille generazioni verso coloro che ti temono, abbi misericordia di coloro che credono alle parole che mi hai dato. Siccome tu sei vero Dio, così la parola che io ho detto è vera perché è tua. Infatti io ho sempre parlato come uno che legge e che non può leggere se non quello che è scritto nel libro. Così ho sempre annunciato ciò che tu mi hai detto.
Signore Dio salvatore, salva coloro che mi hai dato cosicché satana non possa far nulla contro di loro! E non solo salva loro, ma anche ognuno che crederà in loro!”»[11]. (cap. CCXII) […]
«Quando i soldati e Giuda si avvicinarono al luogo ov’era Gesù, costui sentì giungere molta gente, per cui, per timore, si ritirò nella casa. Gli undici dormivano. Ma Dio Vedendo il pericolo che incombeva sul suo servo, comandò Gabriele, Michele, Raffaele e Uriel, suoi servi, di togliere Gesù dal mondo. I santi angeli vennero e tolsero Gesù attraverso la finestra che guarda a mezzogiorno. Essi lo sollevarono e lo collocarono al terzo cielo in compagnia degli angeli, benedicendo Dio in eterno»[12] (cap. CCXV). […]
«Giuda fece irruzione per primo nella stanza da cui Gesù era stato elevato e dove gli undici dormivano. Allora l'ammirabile Dio operò mirabilmente: Giuda divenne talmente simile a Gesù nel parlare e nel volto che noi credevamo che fosse Gesù. E lui, avendoci svegliati, cercava dov'era il Maestro. Per cui noi, stupefatti, rispondemmo: “Sei tu, Signore, il nostro Maestro! Ti sei forse dimenticato di noi?” Ed egli ci disse sorridendo: “Siete pazzi! Io sono Giuda Iscariota”.
Mentre diceva questo, entrarono i soldati e misero le mani su Giuda perché egli era molto simile a Gesù. Noi, avendo sentito le parole di Giuda e visto la folla dei soldati, fuori di noi, fuggimmo. Giovanni, che dormiva avvolto in un lenzuolo, si svegliò e fuggì. Siccome un soldato l'aveva afferrato per il lenzuolo, egli lasciò il lenzuolo e scappò nudo, perché Dio aveva esaudito la preghiera di Gesù e salvato gli undici dal male»[13] (cap. CCXVI).
«I soldati presero Giuda e lo legarono non senza derisione perché negava con verità che egli era Gesù. I soldati con scherno gli dicevano: “Non temere, Signore, perché siamo venuti per farti re d'Israele e ti abbiamo legato perché sappiamo che tu ricusi il regno!” Giuda rispose: “Avete perso il cervello? Voi siete venuti a prendere Gesù Nazareno con armi e lanterne come un ladro, mi avete legato per farmi re, proprio me che vi ho condotto qui!” Allora i soldati persero la pazienza e con pugni e calci cominciarono a rendere a Giuda pan per focaccia e lo condussero con violenza a Gerusalemme.
Da lontano, Giovanni e Pietro seguivano i soldati. Essi affermarono a colui che scrive di aver visto l'interrogatorio fatto a Giuda dal pontefice e dal consiglio dei farisei, riuniti per mettere a morte Gesù. Giuda disse così tante pazzie che tutti lo deridevano, credendo che egli fosse veramente Gesù e che fingesse di essere pazzo per paura della morte. Gli scribi gli misero una benda agli occhi e dicevano deridendolo: “Gesù, profeta dei Nazareni, - così chiamavano quelli che credevano in Gesù -, dicci chi ti ha percosso!” Essi gli davano degli schiaffi e gli sputavano in faccia.
Il mattino, il grande consiglio degli scribi e degli anziani del popolo si riunì. Il pontefice e i farisei cercavano dei falsi testimoni contro Giuda, credendo che fosse Gesù. Ma non trovarono quello che cercavano. Che dico, i pontefici credevano che Giuda era Gesù! Ma tutti i discepoli ed anche colui che scrive lo credevano. La povera vergine madre di Gesù, anch'ella, lo credeva, così anche i suoi parenti e i suoi amici e la sofferenza di tutti era incredibile! Viva Dio, colui che scrive si era dimenticato che Gesù gli aveva detto che si sarebbe elevato dal mondo, che avrebbe sofferto in un'altra persona e che sarebbe morto verso la fine del mondo. Così egli andò presso la croce insieme alla madre di Gesù e a Giovanni.
Il pontefice si fece condurre da Giuda legato e l'interrogò sui suoi discepoli e sulla sua dottrina. Giuda, come fuori di sé, non rispondeva nulla in merito. Perciò il pontefice lo scongiurò, per il Dio vivo d'Israele, di dirgli la verità. Giuda rispose: “Io vi ho detto che sono Giuda Iscariota che vi ha promesso di consegnare Gesù nelle vostre mani, ma voi, non so con quale arteficio, siete usciti da voi stessi e volete ad ogni costo che sia Gesù!” Il pontefice rispose: “Seduttore perverso, con la tua dottrina e con i tuoi falsi miracoli hai ingannato tutto Israele, cominciando dalla Galilea fino a Gerusalemme, ed ora tu credi di sfuggire ad un castigo che ti meriti fingendoti pazzo! Viva Dio, tu non la scamperai!”
Detto questo, comandò ai suoi servi che gli dessero schiaffi e calci perché si rinsavisse; per cui i servi del pontefice gli fecero cose incredibili. Essi si sforzarono di trovare cose nuove per far piacere al consiglio. Lo vestirono da gladiatore e lo malmenarono con mani e piedi in modo tale che avrebbe fatto pena anche ai cananei se l'avessero visto. Ma i pontefici, i farisei e gli anziani del popolo avevano il loro cuore così crudele verso Gesù che trovavano piacere nel vedere Giuda trattato in questo modo, credendo che egli fosse veramente Gesù.
Poi, lo portarono legato dal governatore. Ora costui amava Gesù in segreto. Egli credendo che Giuda fosse Gesù lo fece entrare nella sua camera e gli domandò per quale ragione i pontefici e il popolo l'avevano consegnato nelle sue mani. Giuda rispose: “Se io ti dico la verità, tu non mi crederai perché tu sei senza dubbio ingannato come lo sono i pontefici e i farisei”. Credendo che egli volesse parlare della legge, il governatore rispose: “Non sai che io non sono giudeo e che sono i pontefici e gli anziani del tuo popolo che ti hanno consegnato nelle mie mani? Dicci dunque la verità perché io faccia quello che è giusto, perché io ho il potere di liberarti o di condannarti a morte”. Giuda rispose: “Signore, credimi, se tu mi condannerai a morte tu farai un grande peccato perché ucciderai un innocente. Infatti, io sono Giuda Iscariota e non Gesù, che è un mago e mi ha trasformato così con la sua arte magica”.
Il governatore, sentendolo, si stupì grandemente e cercava anche di liberarlo. Uscì fuori e sorridendo disse: “Tra le due cose ve n'è una per la quale egli non è degno di morte ma piuttosto di compassione. Costui dice - disse il governatore - che non è Gesù, ma un certo Giuda che guidò i soldati a prendere Gesù. Egli dice che Gesù di Galilea lo ha così trasformato con la sua arte magica. Se questo fosse vero, sarebbe un grave peccato ucciderlo, perché sarebbe innocente. Ma se lui fosse Gesù e lo negasse, certamente ha perso l'intelletto e sarebbe empio ammazzare un pazzo!” I pontefici, gli anziani del popolo insieme agli scribi e ai farisei gridarono con strepito: “Egli è Gesù Nazareno che noi conosciamo, perché se egli non fosse un malfattore non l'avremmo messo nelle tue mani. Egli non è un pazzo ma piuttosto un maligno, con questo artificio tenta di sfuggirci di mano; ma la sedizione che solleverebbe fuggendo sarebbe peggiore della prima!” Per liberarsi di questo caso, Pilato - questo era il nome del governatore -, disse: “Egli è galileo. Ora Erode è re della Galilea e non spetta a me giudicare questo caso. Conducetelo dunque da Erode”.
Essi condussero allora Giuda da Erode, il quale da tanto tempo desiderava che Gesù andasse a casa sua, ma Gesù non volle mai andare perché Erode era pagano ed adorava gli dei falsi e bugiardi, vivendo al modo delle genti immonde. Presso di lui, Erode interrogò Giuda su molte cose alle quali egli rispondeva con argomenti a sproposito, negando di essere Gesù. Allora Erode lo schernì con tutta la sua corte e lo fece vestire di bianco come si vestono i pazzi e lo rimandò da Pilato dicendogli: “Non essere ingiusto verso il popolo d'Israele!”. Erode scrisse ciò perché i pontefici, gli scribi e i farisei gli avevano dato una buona somma di soldi.
Avendo saputo ciò da un servo di Erode, il governatore finse di voler liberare Giuda, per guadagnare egli stesso del denaro. Lo fece flagellare dai suoi servi che furono pagati dagli scribi per ucciderlo sotto i flagelli.
Ma Dio che aveva decretato ciò che doveva accadere, riservò Giuda per la morte di croce, perché ricevesse questa orribile morte che aveva venduto ad altri. Egli non lasciò morire Giuda sotto i flagelli, sebbene i soldati avessero tanto colpito il suo corpo che grondava sangue. Per scherno lo vestirono con un vecchio vestito di porpora, dicendo: “Conviene vestire il nostro nuovo re e incoronarlo”. Per cui presero delle spine e fecero una corona simile a quella d'oro e di pietre preziose che i re portano sulla testa. Essi posero questa corona di spine sulla testa di Giuda, gli misero nella mano una canna come scettro e lo fecero sedere in un luogo elevato. I soldati andavano davanti a lui, si inchinavano per scherno e lo salutavano come ‘Re dei Giudei!’ E stendevano la mano per ricevere doni, come sono soliti fare i nuovi re. Ma siccome non ricevevano nulla, percuotevano Giuda, dicendo: “Come sei incoronato, re folle, se tu non vuoi pagare né i soldati né i tuoi servi?”
I pontefici, gli scribi e i farisei vedendo che Giuda non moriva sotto i flagelli e temendo che Pilato lo lasciasse libero, diedero soldi al governatore. Ricevutili, costui consegnò Giuda agli scribi e ai farisei come meritevole di morte. Insieme a lui, condannarono due ladri a morire in croce.
Essi lo condussero sul monte Calvario dove venivano appesi i malfattori. Là lo crocifissero nudo perché lo scherno fosse maggiore. Giuda non faceva altro che gridare: “Dio, perché mi hai abbandonato, dal momento che il malfattore è fuggito ed io sono a torto condannato a morte?”
Inverità dico, la sua voce, il suo volto e la sua persona rassomigliava tanto a quella di Gesù che i suoi discepoli e i suoi fedeli pensavano che egli fosse completamente Gesù. Alcuni di loro si staccarono dalla dottrina di Gesù, credendo che egli fosse un falso profeta e che avesse operato i suoi miracoli grazie alla magia, perché Gesù aveva detto che non sarebbe morto se non nella prossimità della fine del mondo e che allora sarebbe stato elevato dal mondo.
Ma coloro che rimasero fermi nella sua dottrina erano tanto colpiti dal dolore vedendo morire colui che gli rassomigliava, che non si ricordavano ciò che egli aveva detto. Perciò in compagnia della madre di Gesù, andarono al monte Calvario. Essi non solo furono presenti, piangenti, alla morte di Giuda, ma per mezzo di Nicodemo e di Giuseppe di Arimatea, chiesero al governatore il corpo di Giuda per seppellirlo. Essi lo tolsero dalla croce con tanto pianto che certamente nessuno immaginerebbe e lo seppellirono nel monumento nuovo di Giuseppe, dopo averlo avvolto con cento libre di unguento prezioso»[14] (cap. CCXVII).
«Ognuno rientrò a casa. Colui che scrive con Giovanni e suo fratello Giacomo andarono a Nazareth con la madre di Gesù. Quei discepoli che non temevano Dio andarono a rubare di notte il corpo di Giuda, lo nascosero e sparsero la notizia che Gesù era risuscitato. Così perciò nacque una grande confusione»[15] (cap. CCXVIII). […]
«Allora il misericordioso Dio comandò a quattro suoi angeli favoriti, che sono Gabriele, Michele, Raffaele e Uriel, di condurre Gesù in casa di sua madre e di custodirlo colà per tre giorni continui, lasciandolo vedere solo a coloro che credevano alla sua dottrina.
Circondato da splendore, Gesù venne dove la vergine Maria dimorava con due sorelle e con Marta e Maria Maddalena, Lazzaro, colui che scrive, Giovanni, Giacomo e Pietro. Per timore, costoro caddero come morti, ma Gesù alzò sua madre e gli altri, dicendo: “Non temete, perché io sono Gesù! Non piangete, perché sono vivo e non morto!” Alla vista di Gesù, essi rimasero a lungo come privi di sensi, perché essi credevano in ogni modo che Gesù fosse morto.
Allora la vergine disse piangendo: “Ora dimmi, mio figlio, perché Dio che ti ha dato il potere di risuscitare i morti, ti ha lasciato morire così con la vergogna dei tuoi parenti e dei tuoi amici e a disprezzo della tua dottrina, in modo che tutti coloro che ti amano sono rimasti come morti?” Abbracciando sua madre, Gesù rispose: “Credetemi, o madre: in verità vi dico che io non sono mai morto; Dio mi ha preservato fino alla prossimità della fine del mondo”.
Detto questo, egli pregò i quattro angeli di manifestarsi e di testimoniare come era andata la cosa. Gli angeli si manifestarono dunque come quattro soli risplendenti, tanto che per timore nuovamente ognuno cadde come morto. Allora Gesù diede quattro lenzuola agli angeli perché si coprissero cosicché la madre e i suoi compagni li potessero vedere e sentire a parlare. Alzatili tutti quanti li confortò, dicendo: “Questi sono i ministri di Dio: Gabriele, che annuncia i segreti di Dio; Michele, che combatte i nemici di Dio; Raffaele, che riceve le anime di coloro che muoiono; Uriel, che nell'ultimo giorno, chiamerà ognuno al giudizio di Dio”.
I quattro angeli, raccontarono allora alla vergine che Dio li aveva mandati per Gesù e come aveva trasformato Giuda perché ricevesse quella pena che aveva venduto ad altri. Colui che scrive disse allora: “Maestro, mi è concesso di interrogarti come mi era concesso quando tu abitavi con noi?” Gesù rispose: “Domanda quello che ti piace, o Barnaba ed io ti risponderò!” Colui che scrive allora disse: “Maestro, poiché Dio è misericordioso, perché ci ha tormentati facendoci credere che tu eri morto? Tua madre ha pianto tanto che stava per morire. E perché Dio ha lasciato che cadesse su di te, che sei santo di Dio, l'infamia di essere ucciso tra ladroni sul monte Calvario?”
Gesù rispose: “Barnaba, credimi, Dio punisce ogni peccato, per piccolo che sia, con una grande pena, perché Dio è offeso dal peccato. Per cui siccome mia madre, i fedeli e i miei discepoli mi amano un poco con amore terrestre, il Dio giusto ha voluto punire questo amore con il presente dolore, perché non sia punito nelle fiamme dell'inferno. Quanto a me, io fui innocente nel mondo, ma siccome gli uomini mi hanno chiamato Dio e figlio di Dio, Dio ha voluto che io fossi schernito nel mondo dagli uomini con la morte di Giuda, facendo credere ad ognuno che io ero morto sulla croce, per non farmi schernire dai demoni nel giorno del giudizio. Così questa derisione durerà fino alla venuta di Maometto, nunzio di Dio. Venendo nel mondo, egli toglierà questo inganno per coloro che crederanno alla legge di Dio”.
Poi Gesù aggiunse: “Tu sei giusto, Signore nostro Dio, perché a te solo appartengono l'onore e la gloria senza fine!”»[16] (capp. CCXIX-CCXX).
«Voltandosi Gesù verso colui che scrive disse: “Barnaba, metti ogni attenzione a scrivere il mio vangelo per tutto quello che è successo durante la mia permanenza nel mondo! Scrivi similmente ciò che è capitato a Giuda, perché i fedeli siano disingannati ed ognuno creda alla verità!”»[17](cap. CCXXI). […]
«Tutti si spaventarono vedendo lo splendore del suo volto e caddero con la faccia a terra. Avendoli rialzati, Gesù li confortò, dicendo: “Non temete, io sono il vostro Maestro!” Riprese molti che credevano che egli era morto e risuscitato: “Ci prendete dunque, me e Dio per bugiardi? Dio mi ha concesso di vivere fino alla prossimità della fine del mondo, come vi ho detto. Io vi dico, io non sono morto; ma Giuda traditore è morto. Attenti perché satana farà ogni sforzo per ingannarvi! Fate in modo di essere miei testimoni, in tutto Israele e in tutto il mondo, per quanto avete udito e veduto!”»[18](cap. CCXXI). […]
«Partito Gesù, i discepoli si divisero secondo le diverse regioni di Israele e del mondo. La verità, odiata da satana, fu perseguitata dalla menzogna, come è tuttora, perché alcuni uomini, pretendendosi discepoli, predicano che Gesù era morto senza risuscitare; altri predicavano che Gesù era veramente morto e risuscitato; altri, e tra questi c’è Paolo, anch’egli ingannato, predicavano e predicano ancora che Gesù è il figlio di Dio.
Quanto a noi, noi predichiamo a coloro che temono Dio e tutto quello che ha scritto, perché essi siano salvati nell’ultimo giorno del giudizio di Dio. Amen!»[19](cap. CCXXII). […]
Vale la pena – se proprio ce ne fosse bisogno – sottolineare come l’apocrifo reinterpreti, creando a proprio piacimento. Innanzitutto inventa due decreti romani, nel primo dei quali sarebbe stato proibito, sotto pena di chiamare Gesù di Nazareth figlio di Dio, mentre nel secondo si sarebbe proibito di discutere dell’identità di Gesù. Non solo di entrambi i decreti non vi è fonte alcuna, ma ancor più è noto che i romani (come raccontano più volte i Vangeli e gli Atti) non si intromettevano nelle questioni religiose degli ebrei del tempo.
Nella reinterpretazione della cosiddetta preghiera sacerdotale di Gv 17, l’apocrifo fa chiamare, da Gesù, Dio con il nome di “Signore, nostro Dio, Dio di Abramo, Dio di Ismaele e di Isacco”, con l’inserimento di Ismaele, antenato degli arabi – si tornerà sul dettaglio, ma è evidente l’intenzione di sottrarre autorevolezza al popolo ebraico, anteponendo Ismaele ad Isacco. Subito dopo, infatti, l’apocrifo inventa l’ulteriore particolare che i discepoli di Gesù dovranno “testimoniare contro la casa di Israele che ha contaminato la tua alleanza”. Più oltre ancora Gesù, come si è appena letto, “maledice chiunque contaminerà l'evangelo che tu mi hai dato” e che si può leggere solo “nel libro” – un attacco ai cristiani come se avessero falsificato il Vangelo e non invitato a leggere il vero Libro di Gesù (che noi secondo l’apocrifo non possederemmo, ma che sarebbe comunque simile al Corano).
Una volta che Gesù è sollevato e collocato al terzo cielo in compagnia degli angeli, l’apocrifo inventa l’ulteriore particolare che il giovinetto – di cui parla il vangelo di Marco – che viene spogliato dal lenzuolo sia l’apostolo Giovanni.
Tutti credono che sia Gesù ad essere perseguitato, compresa la madre e lo stesso Barnaba presunto autore del vangelo apocrifo, perché si dimenticano – dice il testo – che Gesù aveva detto “che avrebbe sofferto in un'altra persona” – ulteriore particolare inventato di sana pianta.
Quando Giuda, che assomiglia ormai fedelmente a Gesù, viene mandato ad Erode, questi lo fa vestire da “gladiatore”. Giuda viene poi flagellato perché la vendetta divina lo punisca a motivo del fatto che ha tradito – l’apocrifo di Barnaba nasconde la morte suicida di Giuda ed inventa che la crocifissione di Giuda è la giusta punizione per il tradimento di Gesù.
Sulla croce l’apocrifo stravolge il significato della preghiera di Gesù mutandolo la lettera e lo spirito del Salmo 22 (21): “Dio, perché mi hai abbandonato, dal momento che il malfattore è fuggito ed io sono a torto condannato a morte?”
Molti episodi notissimi della passione sono dimenticati dall’apocrifo (come ad esempio la proposta di liberare Barabba o l’aiuto di Simone di Cirene), ma alla fine l’autore conserva la sepoltura, perché conosce la pietà che nacque nei discepoli di Gesù – solo che qui la pietà è rivolta inconsapevolmente al corpo di Giuda punito! Dice infatti, come si è visto: “Lo tolsero dalla croce con tanto pianto che certamente nessuno immaginerebbe e lo seppellirono nel monumento nuovo di Giuseppe, dopo averlo avvolto con cento libre di unguento prezioso”.
L’apocrifo inventa poi il dialogo durato tre giorni tra Gesù (condotta da quattro arcangeli) e sua Madre e gli apostoli a Nazaret. Alla domanda perché Dio abbia lasciato credere loro la morte di Gesù, l’apocrifo risponde con un testo tutto di fantasia: “Siccome mia madre, i fedeli e i miei discepoli mi amano un poco con amore terrestre, il Dio giusto ha voluto punire questo amore con il presente dolore, perché non sia punito nelle fiamme dell'inferno. Quanto a me, siccome gli uomini mi hanno chiamato Dio e figlio di Dio, Dio ha voluto , facendo credere ad ognuno che io ero morto sulla croce, per non farmi schernire dai demoni nel giorno del giudizio. Così questa derisione durerà fino alla venuta di Maometto, nunzio di Dio. Venendo nel mondo, egli toglierà questo inganno per coloro che crederanno alla legge di Dio”. Dio avrebbe voluto così purificare l’amore troppo terrestre di Maria e “non far schernire Gesù nel giorno del giudizio”. Secondo l’apocrifo sarà comunque Maometto a fornire poi la precisa spiegazione dei fatti.
Tutto il racconto della passione evidenzia ancor più – se ancora ce ne fosse bisogno – il fatto che il testo di Barnaba è un testo post-coranico. Ma questo dato di fatto non svilisce l’interesse storico dell’opera perché anzi essa permette di evidenziare ancor più cosa fa problema all’Islam del vangelo, fornendoci una narrazione della ricomprensione islamica della vita di Gesù.
3/ Un ulteriore tratto estremamente significativo del vangelo di Barnaba è l’invenzione anche per Gesù di una discesa del Libro (similmente alla discesa del Corano) all’inizio della sua missione
Il vangelo di Barnaba cancella completamente il Battesimo di Gesù. Nella sua prospettiva qualcosa come la dichiarazione di Dio: “Questi è il mio Figlio prediletto” – come si vedrà poi – non ha senso ed ogni riferimento al Battesimo viene quindi volutamente silenziato.
Interessantissimo è il fatto che il Battesimo viene sostituito, come momento che darà poi avvio alla vita pubblica, con un episodio inventato ad hoc che l’apocrifo situa a Gerusalemme.
Così racconta il testo[20]:
«Giunto a trent'anni, come Egli disse, Gesù era andato sul monte degli Ulivi a raccogliere olive insieme a sua madre; all'ora di mezzogiorno, durante la preghiera, mentre diceva: “Signore, con misericordia...”, Egli fu circondato da un immenso splendore e da una moltitudine immensa di angeli che dicevano: “Sia benedetto Dio!”. L'angelo Gabriele gli presentò un libro come uno specchio brillante, che discese nel cuore di Gesù, mediante il quale venne a conoscenza di ciò che Dio ha fatto, ha detto e ha voluto, sicché ogni cosa gli fu rivelata e svelata, al punto che mi disse: “Credi, Barnaba, io ho conosciuto ogni profeta e ogni profezia, tanto che quanto dico, tutto quanto esce da quel libro”. Ricevuta questa missione Gesù consapevole di essere profeta inviato alla casa di Israele, rivelò il tutto a Maria sua madre, dicendogli che egli doveva patire una grande persecuzione per la gloria di Dio e che non poteva più restare abitualmente presso di lei a servirla. A queste parole, Maria rispose: “Prima della tua nascita, figlio, mi fu annunciato tutto questo; per questo sia benedetto il santo nome di Dio”. Da quel giorno, Gesù, abbandonò sua madre per attendere alla sua missione profetica» (cap. X).
Più avanti si chiarisce che tale libro è il vero vangelo che noi non possediamo più, ma che doveva essere, nella mente del vangelo di Barnaba, simile al Corano. Non più un vangelo, allora, scritto dopo l’incontro con Gesù per raccontare la sua vita, bensì un vangelo precedente alla vita di Gesù che Gesù stesso avrebbe “accolto” e poi ripetuto. Un libro, insomma, che non ha al centro la vita di Gesù, ma solamente Dio e la sua legge.
Anche qui l’apocrifo di Barnaba si conforma alla visione islamica tradizionale per la quale i discepoli di Gesù avrebbero falsificato il vero Vangelo dato direttamente da Allah a Gesù. I Vangeli sarebbero dei testi falsificati con notizie errate su Gesù inventate dagli evangelisti.
Il vangelo di Barnaba fa affermare testualmente a Gesù[21]:
«Quanto a me, sono venuto nel mondo per preparare la via al messaggero di Dio che porterà la salvezza al mondo. Ma guardate di non essere ingannati, perché verranno falsi testimoni che saccheggeranno le mie parole e contamineranno il mio vangelo» (cap. LXXII).
Gesù insomma viene previamente informato da Dio che gli apostoli avrebbero travisato e “saccheggiato” le sue parole che erano quelle del Libro inviatogli direttamente da Dio.
L’apocrifo ricorda come nessun uomo possa conoscere Dio, ma sia necessario essere informati dal suo Libro su di Lui e la sua volontà:
«I discepoli risposero allora: “Solo Dio può conoscere se stesso! È veramente come disse il profeta Isaia: ‘Egli è nascosto ai sensi dell’uomo’”»[22] (cap. CV).
Secondo la visione islamica tradizionale, Dio manda ad ognuno dei suoi profeti più o meno lo stesso messaggio, più o meno lo stesso Libro, ma poiché i discepoli di ogni profeta lo corrompono - prima degli apostoli, già gli ebrei sono accusati dall’Islam di aver alterato la vera rivelazione di Dio che non corrisponde pertanto all’Antico testamento che, di fatto, viene ignorato dai musulmani e mai letto in quanto corrotto - Dio è come “costretto” ad inviare un nuovo profeta che riporti alla vera rivelazione contenuta nel Libro. Non c’è quindi una rivelazione progressiva, bensì il ripetersi della stessa rivelazione nel corso della storia. La stessa verità è sempre corrotta da discepoli infedeli e sempre riaffermata da Dio con l’invio di un nuovo profeta. A questa visione fa eco il vangelo di Barnaba[23]:
«Andrea rispose: “Ma come si riconoscerà la verità?” Gesù rispose: “Accogliete tutto quello che è conforme al libro di Mosè, perché Dio è uno ed una è la verità. Di conseguenza, una è la dottrina, uno è il senso della dottrina ed è per questo che la fede è una. In verità vi dico, se la verità non fosse stata cancellata dal libro di Mosè, Dio non avrebbe dato un secondo libro a Davide, nostro padre. E se il libro di Davide non fosse stato contaminato, Dio non mi avrebbe mandato il Vangelo, perché il Signore nostro Dio è immutabile e ha rivolto a tutti gli uomini un solo linguaggio. Perciò quando verrà il messaggero di Dio, purificherà quanto gli empi hanno contaminato nel mio libro”» (cap. CXXIV).
Ne esce una visione radicalmente diversa del concetto stesso di vangelo, al di là della differenza di contenuto dei singoli eventi evangelici, differenze che tra poco saranno prese in considerazione. Per l’apocrifo di Barnaba il vangelo è un libro, non un evento che si compie nella storia con la venuta di Gesù, il vangelo è un libro e non la persona di Gesù[24]:
«I discepoli allora dissero: “Veramente Dio parla in te perché giammai un uomo ha parlato come te!” Gesù rispose: “Credetemi, quando Dio mi ha scelto per inviarmi alla casa d'Israele, mi ha dato un libro come uno specchio chiaro, che discese nel mio cuore, in modo che tutto ciò che dico esce da questo libro. Quando questo libro avrà finito di uscire dalla mia bocca, io sarò elevato dal mondo”.
Pietro rispose: “Maestro, ciò che tu ora dici, è anche scritto in questo libro?” Gesù rispose: “Tutto ciò che io dico per la conoscenza di Dio e per il servizio di Dio, per la conoscenza dell'uomo e per la salvezza dell'uomo, tutto ciò esce da questo libro che è il mio Vangelo”» (cap. CLXVIII).
Uno dei punti cardine del Libro di cui Gesù sarebbe il destinatario, Libro che sostituisce l’Antico e il Nuovo Testamento - ritenuti entrambi corrotti -, è l’affermazione che l’inviato di Dio, il Messia, sarà discendente di Ismaele e non di Isacco[25] - torneremo poi su questo. Il discendente di Isacco sarà invece il precursore che preparerà la via al vero inviato di Dio. Il vero inviato di Dio non sarà un ebreo, bensì un ismaelita. In questa maniera è detta chiaramente la priorità di Maometto, discendente da Ismaele, su Gesù, discendente da Isacco. Al contempo è affermata la falsità del testo veterotestamentario[26]:
«Lo scriba disse: “Ho visto un vecchio libro scritto di propria mano dai servi e profeti di Dio, Mosè e Giosuè, colui che, come te, ha arrestato il sole! Questo libro è il vero libro di Mosè. Vi è scritto che Ismaele è il padre del Messia e che Isacco è il padre del messaggero del Messia. Questo messaggero verrà a preparare le vie del Messia. E così il libro riporta che Mosè ha detto: ‘Signore, Dio di Israele, potente e misericordioso, manifesta al tuo servo lo splendore della tua gloria!’.
Allora Dio gli mostrò il suo messaggero tra le braccia di Ismaele e Ismaele tra le braccia di Abramo. Presso Ismaele stava Isacco che teneva nelle sue braccia un fanciullo che con il dito mostrava il messaggero di Dio, dicendo: “Ecco colui per il quale Dio ha creato ogni cosa!” Allora Mosè gridò con gioia: “Ismaele, tu hai tra le tue braccia il mondo intero ed anche il paradiso! Ricordati di me, servo di Dio, perché io trovi grazia presso Dio grazie al tuo figlio, per il quale ha fatto tutto”» (cap. CXCI).
D’altro canto il vangelo di Barnaba sembra invitare a non porsi troppe domande su queste differenze, sembra invitare a non indagare troppo su temi religiosi o su temi pertinenti alla fede e ai comandamenti di Dio:
«Il più grande sforzo sarà nell’abbandonare il “perché”, dal momento che il “perché” scacciò l’uomo dal paradiso e cambiò satana da bellissimo angelo in un orribile diavolo. Giovanni allora disse: “Come abbandoneremo il “perché”, dal momento che è la porta della scienza?” Gesù rispose: “Al contrario, è la porta dell’inferno!”. Giovanni allora ammutolì. Allora Gesù aggiunse: “Quando sai che Dio ha detto una cosa, chi sei tu, o uomo, per dire: ‘perché, Dio, hai detto così, perché hai fatto così?’ Forse che il vaso di terra dirà al suo fattore perché mi hai fatto per custodire l’acqua e non per conservare il balsamo? Io in verità vi dico, bisogna assicurarsi contro ogni tentazione con queste parole: ‘Dio ha detto così, Dio ha fatto così, Dio ha voluto così! Così facendo vivrai sicuro’”»[27].(cap. XC)
4/ L'apocrifo aggiunge alla vita di Gesù ciò che, nella sua ottica, manca nei vangeli, come la circoncisione, i sacrifici animali, eccetera
Che l’apocrifo di Barnaba sia un musulmano che scrive molti secoli dopo Gesù appare evidente dalle aggiunte che inserisce nel racconto. Il vangelo di Barnaba si propone evidentemente, con le sue aggiunte, di colmare proprio le differenze reali del Gesù barnabiano dal Gesù storico, inventando episodi nei quali Gesù parla il linguaggio del vero musulmano.
Ne presentiamo in sequenza alcuni fra i più rilevanti.
4.1/ Gesù per il vangelo di Barnaba compie sacrifici animali
Il Gesù barnabiano, a differenza del Gesù storico che caccia i venditori dal Tempio, compie sacrifici animali e afferma la necessità che si compiano sacrifici animali. Appare evidente che tale inserzione è legata all’importanza del sacrificio di animali che ogni buon musulmano compie nella festa di Id al-adha (la festa islamica del sacrificio nella quale ancora oggi ogni famiglia musulmana sacrifica un animale per ricordare che Dio salvò Ismaele - secondo la tradizione musulmana, quando Abramo portò il figlio sul monte per il sacrificio, tale figlio era Ismaele e non Isacco, come afferma invece Genesi).
Così recita il vangelo di Barnaba:
«L'angelo Gabriele rispose: “Alzati, Gesù, e ricordati di Abramo! Per adempiere la parola di Dio, egli voleva sacrificargli Ismaele, suo unico figlio; non potendo colpire con il coltello suo figlio, egli offrì in sacrificio, sulla mia parola, un montone. Tu farai dunque allo stesso modo, Gesù, servitore di Dio!”. Gesù rispose: “Volentieri, ma dove troverò l’agnello, dal momento che non ho soldi e non è lecito rubarlo?”Allora l’angelo Gabriele gli fece comparire un montone e Gesù l’offrì in sacrificio, lodando e benedicendo Dio, glorioso in eterno»[28] (cap. XIII).
4.2/ Gesù secondo il vangelo di Barnaba afferma che chi non è circonciso non può salvarsi
Sempre modellandosi sui dettami coranici, il Gesù dell’apocrifo raccomanda la circoncisione di tutti i maschi, anzi annunzia che chi non è circonciso non potrà avere salvezza - mentre Gesù mai parla della circoncisione nei vangeli originari:
«Quel giorno, i discepoli interrogarono Gesù: “Maestro, perché tu hai risposto in quel modo alla donna, dicendo che erano cani?” Gesù rispose: “In verità io vi dico: un cane è migliore dell’uomo incirconciso!” I discepoli si rattristarono allora e dissero: “Queste parole sono dure. Chi potrà comprenderle?”»[29](cap. XXII).
Basta che Dio l’abbia comandato ai patriarchi perché Gesù, per l’autore dell’apocrifo, debba ripetere il comando anche senza saperne spiegare il motivo:
«I discepoli dissero: “Maestro, dicci per quale ragione l’uomo deve circoncidersi!”. Gesù rispose: “Vi basti sapere che lo ha comandato ad Abramo, dicendo: ‘Abramo, circoncidi il tuo prepuzio e quello di tutta la tua casa, perché questo è il patto fra te e me in sempiterno!’”»[30](cap. XXII).
Anzi, il vangelo di Barnaba fa parlare Gesù dell’importanza della circoncisione con la “veemenza dello spirito”, perché la circoncisione per l’autore è una conditio sine qua non della salvezza:
«Detto questo, Gesù sedette presso il monte che sta di fronte a Tiro e i suoi discepoli s'accostarono a lui per sentire le sue parole.
Gesù disse allora: “Nel paradiso, dopo che Adamo, primo uomo ingannato da satana, ebbe mangiato il cibo proibito da Dio, la sua carne si ribellò allo spirito. Allora egli giurò dicendo: ‘Per Dio, ti voglio tagliare!’. Dopo aver spezzato una pietra, egli prese la sua carne per tagliarla con il taglio della pietra. Ma allora fu ripreso dall'angelo Gabriele, cui rispose: ‘Ho giurato per Dio di tagliarla e non sia mai che sia bugiardo!’ L'angelo gli mostrò allora l'escrescenza della sua carne ed egli la tagliò. Questo è il motivo per cui ogni uomo prende carne dalla carne di Adamo e così è obbligato ad osservare tutto ciò che Adamo promise giurando. Adamo applicò questo sui suoi figli e l'obbligo della circoncisione si trasmise di generazione in generazione.
Ora, al tempo di Abramo, essendosi moltiplicata sulla terra l'idolatria, pochi erano circoncisi. Dio rivelò dunque ad Abramo l'episodio della circoncisione e concluse la sua alleanza dicendo: ‘L'anima che non avrà circoncisa la sua carne, la rigetterò per sempre dal mio popolo!’”. A queste parole di Gesù, i discepoli tremarono di paura, perché egli aveva parlato con la veemenza dello spirito. Gesù disse allora: “Lasciate la paura a chi non ha circonciso il suo prepuzio, perché egli è privato del paradiso!”»[31] (cap. XXIII).
4.3/ Il Gesù del vangelo di Barnaba insegna che non basta purificarsi il cuore, ma bisogna pure astenersi dal mangiare carne impura
Fra i detti che l’apocrifo di Barnaba aggiunge al Gesù storico ve n’è anche uno relativo al cibo impuro. Mentre nel Vangelo di Marco, Gesù dichiarando che il male viene dal cuore, dichiara così puri tutti gli alimenti – ed, in effetti, nelle diverse culture si vedono le radici cristiane proprio dal fatto che nessun cibo è più vietato – il Gesù barnabiano è anche qui caratterizzato coranicamente. Dichiara, infatti, che ciò che conta è il cuore, ma che se si mangia carne di maiale, il cuore diviene impuro:
«Io vi dico in verità che mangiare il pane con le mani sporche non contamina l’uomo, perché quello che entra nell’uomo non macchia l’uomo, ma quello che esce dall’uomo macchia l’uomo. Uno scriba disse allora: “Dunque, se io mangerò il porco ed altri cibi immondi, questi non macchieranno la mia coscienza?”. Gesù rispose: “La disobbedienza non entrerà nell’uomo, ma essa può uscire dall’uomo, dal suo cuore; egli sarà dunque macchiato se mangerà il cibo proibito”»[32] (cap. XXXII).
4.4/ Il Gesù presentato dall’apocrifo afferma che solo i credenti in Dio vanno coltivati come amici
L’apocrifo aggiunge anche dei distinguo sul tema dei destinatari dell’amore. Se il messaggio del Gesù storico è così chiaro, qui si aggiunge invece il suggerimento di non avere amici che non siano dei veri credenti – dove ovviamente il rischio ulteriore è che tale affermazione debba essere interpretata come il comando di non avere amici che non siano musulmani. All’inizio il discorso – che è comunque un invenzione dell’apocrifo – presenta una saggia distinzione fra l’amore che sui deve a tutti e l’amore di amicizia:
«Ma che cosa vi dirò ora? Vi dirò ciò che disse Salomone, profeta santo e amico di Dio: “Tra mille che conoscete, uno vi sia amico!” Matteo allora disse: “Non potremo amare tutti?” Gesù rispose: “In verità vi dico che non vi è lecito odiare nessuno se non il peccato tanto che voi non potete odiare satana come creatura di Dio ma solo come nemico di Dio. Sapete perché? Ve lo dico: perché egli è una creatura di Dio e quanto Dio ha creato è buono e perfetto; perciò chi odia la creatura di conseguenza odia il creatore. Ma l'amico è un essere particolare che non si trova facilmente e che facilmente si perde, perché l'amico non soffre che lo contraddica colui che ama sommamente. State attenti! Siate prudenti e non scegliete per amico colui che non ama ciò che voi amate! Sapete che cosa vuol dire ‘amico’? ‘Amico’ non vuol dire altro che ‘medico dell'anima’. Così come è raro trovare un buon medico che conosca le infermità e sappia applicarvi le medicine, così sono rari gli amici che conoscono gli errori e sappiano indirizzare al bene. Ma quello che è male è che molti hanno amici che fingono di non vedere gli errori dell'amico, altri li scusano, altri li difendono dietro pretesti terreni e, quello che è peggio, vi sono amici che spingono ed aiutano a sbagliare. La loro fine sarà simile alle loro scelleratezze. Guardatevi di non accettare come amici questi tali perché sono veramente dei nemici e dei carnefici dell'anima”»[33](cap. LXXXV).
Ma, successivamente, la distinzione diviene più pesante quando si giunge a dire che bisogna abbandonare un amico che si scopre non essere più fedele a Dio, con l’annunzio della punizione divina se non si abbandonerà un amico che si dimostrasse infedele:
«Tu troverai facilmente il vero amico in questo modo: se egli teme Dio sopra ogni cosa e disprezza la vanità del mondo, se egli è sempre intento a fare il bene e se odierà il suo corpo come un nemico crudele.
Però un tale amico tu non l'amerai al punto che il tuo amore si fermi su di lui perché saresti un idiota, ma amalo come un dono che ti è dato da Dio e Dio ti arricchirà di favori maggiori.
In verità vi dico che colui che ha trovato un vero amico, ha trovato una delizia del paradiso.
Taddeo disse: “Ma se per caso un uomo avrà trovato un amico che non è come tu hai detto, o Maestro, che cosa deve fare? Deve abbandonarlo?”. Gesù rispose: “Bisogna fare come il marinaio fa con la nave. Egli resta a bordo finché gli pare di guadagnare, ma quando si accorge di perdere, allora l'abbandona. Così farai anche tu con un amico peggiore di te: quando ti è di scandalo per le cose suddette, lascialo, se non vuoi che ti abbandoni la misericordia di Dio!”»[34](cap. LXXXVI).
In questa prospettiva è illuminante che, nel riprendere la parabola del samaritano – i samaritani erano notoriamente degli eretici -, viene omesso, fra i tanti particolari, anche il fatto che l’uomo che si prese cura del ferito era un samaritano. Nell’apocrifo di Barnaba il protagonista diviene, invece, un re che si prese cura del poveretto. Alla parabola viene anche aggiunto un nuovo dettaglio: quando l’uomo aiutato dal re si approfittò di tale amorosa attenzione, il re lo spogliò nuovamente di tutto ciò che gli aveva dato.
«Io vi parlerò con una similitudine perché mi comprendiate.
Vi era un re che trovò su di una strada un tale spogliato dai ladri e mortalmente ferito, sicché egli ne ebbe compassione.
Perciò ordinò ai suoi servitori di portare quell'uomo alla città e di curarlo, cosa che essi fecero con diligenza.
Il re si interessò con così grande amore dell'infermo che gli diede sua figlia in moglie e lo fece suo erede.
Certamente il re fu sommamente misericordioso, ma l'uomo malmenò i servi, sprezzò le medicine, insultò la sposa, disse male del re e incitò i sudditi a ribellarsi. Quando il re gli chiedeva un servizio, quegli diceva: “Che cosa mi darà il re come ricompensa?” Avendo sentito ciò, che cosa fece il re a un tale empio? Essi risposero: “Guai a lui, perché il re lo privò di tutto e lo punì atrocemente”»[35](cap. LXVIII).
4.5/ Il Gesù secondo Barnaba invita al perdono, ma fino ad un certo punto
Il Gesù barnabiano conserva l’annunzio del perdono, ma, in maniera significativa, ne muta parzialmente il significato. Ad esempio, dinanzi alla domanda di Pietro su quante volte si debba perdonare, l’apocrifo scrive “sette volte sette” e non “settanta volte sette”, ma, soprattutto, l’apocrifo aggiunge che si deve condannare e perdonare allo stesso tempo e che il condannare spetta al giudice che deve agire con determinazione fino a “tagliare un membro putrido a suo figlio perché non imputridisca tutto il corpo”.
«Pietro riprese: “Maestro, quante volte devo perdonare a mio fratello?” Gesù rispose: “Tante volte quante vorresti che egli ti perdonasse!” Pietro disse: “Sette volte al giorno?”. Gesù rispose: “Ogni giorno tu non solo gli perdonerai sette volte ma sette volte sette. Perché a chi perdona sarà perdonato e chi condanna sarà condannato”.
Colui che scrive queste cose, disse allora: “Guai ai principi perché essi andranno all'inferno!” Gesù lo riprese dicendo: “Barnaba, sei diventato stolto per aver così parlato? In verità ti dico che non è più necessario il bagno per il corpo, il freno per il cavallo e il timone per la nave di quanto sia necessario il principe per la repubblica! Per qual ragione Dio diede Mosè, Giosuè, Samuele, David, Salomone e tanti altri che fecero giustizia e ai quali Dio ha consegnato la spada per estirpare le iniquità?”
Allora colui che scrive disse: “Come si deve giudicare, condannando o perdonando nello stesso tempo?” Gesù rispose: “Non tutti sono giudici; perché solo al giudice spetta di condannare gli altri, o Barnaba. Il giudice deve condannare il reo come un padre ordina di tagliare un membro putrido a suo figlio perché non imputridisca tutto il corpo!”»[36] (cap. LXXXVIII).
Si vede come il brano sulla necessità che il giudice civile condanni venga inventato e aggiunto dall’apocrifo per evitare che il perdono possa divenire un elemento che relativizzi il potere civile.
4.6/ Il Gesù dell’apocrifo afferma che bisogna combattere, se necessario anche uccidendo, nella lotta per Dio
L’apocrifo di Giuda sente il bisogno, anche se non forza la mano su questo, di inserire alcuni passaggi di Gesù che non escludano a priori la lotta armata, anzi in un caso particolare sembra approvarla, conformemente al dettato islamico tradizionale.
In relazione all’ingresso di Gesù a Gerusalemme l’apocrifo aggiunge una considerazione sulla necessità della lotta (non si dimentichi che in arabo il corrispettivo del termine lotta è il termine jihad):
«Giunto a Gerusalemme, Gesù entrò nel tempio in giorno di sabato. I soldati gli si avvicinarono per tentarlo e prenderlo. Essi dissero: “Maestro, è lecito combattere?” Gesù rispose: “La nostra fede ci dice che la nostra vita sulla terra è un continuo combattimento”»[37] (cap. CLII).
E poco più avanti il Gesù barnabiano giunge ad affermare che in taluni casi è necessario uccidere per eliminare il pericolo di idolatria:
«Ditemi, Mosè uccise degli uomini e anche Achab uccise degli uomini, forse che tutto questo è un omicidio? Certamente no, perché Mosè uccise quegli uomini per distruggere l’idolatria e conservare il culto del vero Dio, Achab ammazzò gli uomini per distruggere il culto del vero Dio e conservare l’idolatria. L’azione di uccidere gli uomini si cambiò per Mosè in sacrificio e per Achab in sacrilegio, in modo che una medesima azione produsse questi due effetti contrari»[38] (cap. CLIX).
4.7/ Una sintesi
Si potrebbe dire, in conclusione di questa sezione, che l’affermazione propria dei testi evangelici che Gesù è venuto a “compiere” la Legge ed i profeti - dove compiere vuol dire “conservare”, ma anche modificare, portando a pienezza - diviene invece “osservare in tutta la loro totalità, quindi anche alla lettera, i precetti che l’Islam attribuisce alla rivelazione, quindi anche, come si è visto, i sacrifici animali, la circoncisione, il rifiuto della carne di maiale, eccetera.
Lo mostra con precisione un ulteriore testo dove il Gesù barnabiano si pronuncia a favore della necessità delle abluzioni rituali, che sono tipiche della preghiera islamica:
«Giovanni rispose: “Maestro, smetteremo di lavarci, come Dio ha comandato per mezzo di Mosè?” Gesù replicò: “Voi pensate che io sia venuto a distruggere la legge e i profeti? Io vi dico in verità, viva Dio, io non son venuto a distruggerla, ma, al contrario, a osservarla, perché ogni profeta ha osservato la legge di Dio e quanto Dio ha detto per mezzo di altri profeti”»[39] (cap. XXXVIII).
4.8/ Alcuni episodi comunque stupefacenti che permangono nell’apocrifo
Nonostante quanto fin qui detto, l’autore dell’apocrifo non cancella tutti i tratti della vita di Gesù che non sono conformi ai dettami del Corano. Ad esempio, conservando l’episodio del miracolo della trasformazione dell’acqua in vino a Cana giunge a dire:
«I servitori risposero: “Maestro, vi è qui un uomo santo di Dio, perché egli ha fatto del vino con acqua”»[40] (cap. XV).
Qui è Gesù stesso che offre il vino, la bevanda proibita.
Ritroviamo anche il brano dell’adultera perdonata, con molte espressioni diverse, ma comunque intatto nell’annunzio del perdono conferito ad una donna che andrebbe punita secondo la tradizione:
«Essendo Gesù entrato nel tempio, gli scribi e i farisei gli presentarono una donna sorpresa in adulterio. Essi dicevano tra loro: “Se egli la salva, è contro la legge di Mosè perciò lo riteniamo colpevole! Ma se egli la condanna, è contro la sua dottrina che predica misericordia!”
Essendosi presentati a Gesù, essi dissero: “Maestro, abbiamo trovato questa donna in adulterio. Mosè ordinò che fosse lapidata, ma tu che ne dici?” Gesù si inchinò e col dito fece uno specchio in terra nel quale ognuno vedeva le sue iniquità. Intanto siccome essi aspettavano una risposta, Gesù si alzò e mostrando lo specchio con il suo dito, disse: “Colui che tra di voi è senza peccato, sia il primo a lapidarla!” E di nuovo si inchinò a rifare lo specchio. Vedendo questo, gli uomini uscirono uno ad uno, cominciando dai più vecchi perché si vergognavano di vedere le loro abominazioni.
Levatosi Gesù e non vedendo alcuno se non la donna, disse: “Donna, dove sono coloro che ti condannarono?” La donna piangendo rispose: “Signore sono partiti e se tu mi perdonerai, viva Dio, io non peccherò più!” Allora Gesù disse: “Sia benedetto Dio, va in pace e non peccare più, perché Dio non mi ha mandato a condannarti!”
Avendo riuniti gli scribi e i farisei, Gesù disse loro: “Ditemi, se uno di voi avesse cento pecore e ne perdesse una, non andreste a cercarla lasciando le novantanove? E trovatala, non la mettereste sulle spalle? Dopo aver riuniti i vicini, non direste: ‘Rallegratevi con me, perché io ho ritrovato la pecora che avevo perso!’ Certamente voi lo fareste! Ora, ditemi, il nostro Dio amerà meno l’uomo per il quale ha fatto il mondo? Viva Dio, così si fa festa presso gli angeli di Dio per un solo peccatore che fa penitenza perché i peccatori fanno conoscere la misericordia!”»[41] (cap. CCI).
Anche se, subito dopo, Gesù si scaglia contro Gerusalemme:
«Dunque sarai tu la sola che io non punirò? Vivrai tu in eterno? Il tuo orgoglio ti libererà dalle mie mani? Certamente no! Perché condurrò contro di te principi ed eserciti. Essi ti circonderanno ed io ti consegnerò così bene nelle loro mani che il tuo orgoglio cadrà nell’inferno!
Io non perdonerò ai vecchi e alle vedove, non perdonerò ai fanciulli, ma consegnerò tutti alla fame, alla spada e alla derisione! E il tempio, che guarderai con misericordia, lo renderemo deserto insieme alla città e voi sarete la favola, la derisione e il proverbio delle nazioni. Così il mio furore si è fermato su di te e così veglia la mia indignazione!»[42] (cap. CCIII).
Anche il brano del fariseo e del pubblicano conserva nell’apocrifo la sua forza dirompente (anche se con l’aggiunta che Gesù è umile perché rifiuta di essere considerato Dio e creatore):
«Oh, inaudita superbia dell'uomo è questa, il quale è stato creato da Dio con la terra e si dimentica della sua condizione e vuole fare un dio a suo piacere. Così tacitamente si burla di Dio per il suo piacere, si burla tacitamente di Dio dicendo così più o meno: “Non serve a nulla servire Dio!”, perché questo mostrano le loro opere.
A questo vorrà ricondurvi satana, o fratelli, di farvi credere che io sono dio, mentre io, non potendo creare una mosca ed essendo passibile e mortale, non vi posso essere di alcuna utilità. Se io sono bisognoso di ogni cosa, come vi posso aiutare, cosa che è proprio di Dio? Noi dunque che abbiamo il nostro grande Dio, che ha creato tutto con la sua parola, ci burleremo dei gentili e dei loro dei!
Due uomini ascesero qui, al tempio, per pregare; uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo si accostò al santuario e pregando con la testa alta, disse: “Io ti ringrazio, Signore mio Dio, perché non sono come gli altri uomini peccatori che compiono ogni cosa scellerata e in particolare non sono come questo pubblicano, perché digiuno due volte alla settimana e pago le decime di quanto possiedo!”
Il pubblicano stava lontano, prostrato a terra e pregava percuotendosi il petto e con la faccia inclinata diceva: “Signore, io non sono degno di guardare il cielo e il tuo santuario perché ho molto peccato. Abbi misericordia di me!”
In verità, io vi dico che il pubblicano ritornò dal tempio migliore del fariseo, perché il nostro Dio lo giustificò perdonandogli tutti i suoi peccati. Ma il fariseo ritornò peggiore del pubblicano perché il nostro Dio, avendo in abominazione le sue azioni, lo rimproverò»[43] (cap. CXXVIII).
Merita ricordare che, anche se con parole inventate ad hoc, l’apocrifo afferma che senza libertà non è possibile piacere a Dio:
«Giovanni rispose: “Maestro, è cosa giusta lavorare, ma questo devono fare i poveri!” Gesù disse: “Sì, perché non possono fare altro, ma tu non sai che il bene per essere bene, deve essere fatto con tutta libertà? Il sole e gli altri pianeti sono costretti a seguire il comando di Dio e non possono fare diversamente, per questo non avranno merito!”»[44] (cap. CXIV).
La ripresa di molti episodi della vita di Gesù, così come di molti suoi discorsi, sebbene totalmente riscritti, mostrano come l’autore di Barnaba conosca i vangeli, anche se imprecisamente.
5/ L’annuncio della venuta di Maometto da parte del Gesù barnabiano
Come si è visto l’autore dell’apocrifo di Barnaba, sulla scia della tradizione islamica precedente, omette l’episodio del Battesimo di Gesù da parte di Giovanni e la predicazione pubblica comincia invece a Gerusalemme con la discesa del Libro nell’animo di Gesù da parte di Dio.
Al contempo i tratti del Battista sono trasferiti a Gesù: Gesù diviene, infatti, nella visione dell’autore dell’apocrifo colui che annunzia che verrà uno “più grande” del quale egli non è degno di sciogliere i legacci dei sandali. L’inviato di Dio più grande di Gesù è indicato esplicitamente con il nome di Maometto.
Questa diviene, anzi, nella rilettura “creativa” barnabiana la missione più importante di Gesù: preparare gli uomini alla venuta di Maometto. Nella ricostruzione dell’apocrifo, Gesù spiega ai suoi discepoli che la venuta di Maometto era predestinata da Dio prima della creazione del mondo e che l’anima di Maometto era stata creata da Dio prima di creare il mondo. Il Gesù barnabiano aggiunge di sua mano queste parole al racconto della creazione dell’uomo:
«Dio dette l'anima all'uomo, mentre tutti i santi angeli cantavano: "Benedetto sia il tuo santo nome, o Dio nostro Signore". Rizzandosi sui suoi piedi, Adamo vide, nell'aria una scritta lucente come il sole. Essa diceva: "Non vi è che un solo Dio, e Maometto è il nunzio di Dio". Allora Adamo aprì la bocca e disse: "Io ti renderò grazie, Signore mio Dio, perché ti sei degnato di crearmi, ma dimmi, te ne prego, che significano queste parole: ‘Maometto nunzio di Dio?’. Vi sono stati altri uomini prima di me?" Dio rispose allora: "Sii il benvenuto, o mio servo Adamo! Io te lo dico, tu sei il primo uomo che io ho creato. Colui che tu hai visto è tuo figlio, che sta pronto per venire al mondo tra molti anni. Egli sarà mio nunzio. Per lui ho creato ogni cosa. Egli porterà luce al mondo quando verrà. La sua anima si trova in uno splendore celeste; essa è stata collocata sessantamila anni prima che io facessi alcuna cosa".
Adamo pregò Dio dicendo: "Signore, concedimi quello scritto sulle unghie delle mie mani". Dio allora dettò al primo uomo, sulle dita più grandi, quello scritto. Sull'unghia della mano destra, vi era: ‘Non vi è che un solo Dio’; e sull'unghia della mano sinistra, vi era: ‘Maometto è il nunzio di Dio’. Allora il primo uomo, con affetto paterno, baciò quelle parole. Si fregò gli occhi e disse: "Benedetto sia quel giorno che verrai al mondo!"
Vedendo che l'uomo era solo, Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo". Lo addormentò. Prese una costa dalla parte del cuore e riempiendo di carne quel luogo, con quella costa fece Eva e la dette ad Adamo come sua consorte.
Li pose ambedue come padroni del paradiso e disse loro: "Ecco, io vi dono ogni frutto da mangiare, ad eccezione delle mele e del frumento". A loro riguardo disse: "State attenti di non mangiare assolutamente di questi frutti, perché diverreste così impuri che io non sopporterei che voi restiate qui; io vi caccerò fuori e patirete grandi miserie"»[45] (cap. XXXIX).
Il Gesù barnabiano ritorna più volte sul tema della preesistenza all’intera creazione dell’anima di Maometto. Maometto è così una creatura, ma la sua anima è una creatura “preesistente” e già la terra è destinata ab origine a produrre il suo corpo (Barnaba trae il numero di 144.000 dall’Apocalisse, senza sapere che quel numero indica i figli delle dodici tribù di Israele e dei dodici apostoli, cioè la Chiesa):
«Gesù lasciò Gerusalemme e se ne andò nel deserto oltre il Giordano. Quando i suoi discepoli furono seduti, gli dissero: “Maestro, dicci come satana cadde per superbia, perché noi abbiamo sentito dire che egli cadde per disobbedienza e dicci perché egli tenta sempre l'uomo a fare del male”.
Gesù rispose: “Dio avendo creato una massa di terra e avendola lasciata per 25000 anni senza fare altro, satana, che era come un sacerdote e capo degli angeli, seppe, per la grande intelligenza che aveva, che Dio doveva cavare da quella massa centoquarantaquattromila segnati dal carattere della profezia e il messaggero di Dio; la cui anima aveva creato sessantamila anni prima di ogni cosa. Così indignato, egli incitava gli angeli: ‘Guardate che un giorno Dio vorrà che questa terra sia da noi venerata. Ma guardate che noi siamo spirito e non è conveniente che facciamo una cosa simile’. Molti per questo si separarono da Dio”»[46](cap. XXXV).
Tutta la storia di Abramo è riscritta dall’autore di Barnaba lasciando da parte Genesi ed ispirandosi alle Sure coraniche.
Ad esempio, Abramo viene descritto come una persona in conflitto religioso con il padre – mentre invece Genesi che è un testo più antico di oltre un millennio tace questo fatto -, al punto che questi vuole bruciare suo figlio Abramo:
«Dio non ha detto ad Abramo: “Esci dalla casa di tuo padre e della tua parentela e vieni ad abitare il paese che io darò a te e alla tua discendenza?” Perché dunque Dio dice questo, se non perché il padre di Abramo era scultore e costruiva e adorava falsi dei. Per questo vi era inimicizia tra di loro al punto che il padre voleva far bruciare il figlio»[47] (cap. XXVI).
Nell’apocrifo di Barnaba Abramo distrugge le statue delle divinità di suo padre:
«Allora Abramo prese la scure e tagliò i piedi di tutti gli idoli ad eccezione di quelli del grande dio Baal, ai piedi del quale depose la scure.
Le statue cadendo andavano in pezzi perché erano vecchie e composite. In seguito, quando Abramo uscì dal tempio, fu visto da alcuni che sospettarono che egli fosse andato a rubare qualcosa nel tempio, perciò lo trattennero, e, arrivati al tempio, vedendo i loro dei sbriciolati in quella guisa, gridarono piangendo: “Venite presto, o uomini e ammazziamo colui che ha ammazzato i nostri dei”. Vennero colà quasi diecimila uomini con i sacerdoti e domandarono ad Abramo per quale ragione aveva distrutto i loro dei.
Abramo rispose: “Voi siete stolti. Forse che un uomo può uccidere Dio? È stato il grande Dio che li ha ammazzati. Non vedete la scure che egli ha ai suoi piedi? Certamente egli non vuole compagni”.
Giunse colà il padre di Abramo, il quale ricordandosi di tutti i discorsi che Abramo aveva fatto contro i loro dei e riconoscendo la scure con la quale Abramo aveva spezzato gli idoli, gridò: “È stato quel traditore di mio figlio che ha ucciso i nostri dei, perché questa scure è mia”.
Egli raccontò loro tutto ciò che era capitato tra lui e suo figlio. Gli uomini raccolsero allora una grande quantità di legno e, dopo aver legato le mani e i piedi di Abramo, essi lo posero sopra la legna e sotto attizzarono il fuoco.
Ed ecco che Dio, mediante il suo angelo, comandò al fuoco di non bruciare Abramo, suo servo. Il fuoco divampò con grande furore e bruciò quasi duemila uomini tra quelli che avevano condannato Abramo alla morte»[48] (cap. XXVIII).
Ma ciò su cui l’apocrifo insiste di più nel ricostruire la storia di Abramo è la sua predilezione per Ismaele, di modo che Isacco, che prosegue la discendenza abramitica nel popolo ebraico, risulta un personaggio secondario. Ispirandosi al Corano, l’autore di Barnaba dichiara esplicitamente che Dio comanda ad Abramo di sacrificare suo figlio Ismaele (e non Isacco):
«Abramo amava un poco di più di quanto conviene suo figlio Ismaele, per questo Dio gli ordinò di ammazzare suo figlio per distruggere il cattivo amore del cuore di Abramo»[49] (cap. XCIX).
Più volte poi il Gesù barnabiano annunzia che il Messia verrà solo dopo di lui e porta come prova proprio il fatto che egli non può essere il Messia, perché discendente di Isacco, mentre Maometto sarà il Messia proprio perché discendente di Ismaele, figlio naturale di Abramo anche se non figlio di Sara. Chi afferma che il Messia sarà figlio di Isacco e di Davide, aprendo la possibilità di vedere in Gesù tale persona, si sbaglia, perché appunto - prosegue Gesù - gli ebrei hanno corrotto la parola di Dio. Gesù è stato mandato da Dio secondo l’apocrifo, proprio per ricordare che il Messia dovrà venire e che si chiamerà Maometto:
«Allora Gesù riprese: “E il nunzio di Dio, quando verrà, da quale stirpe discenderà?” I discepoli risposero: “Di Davide”. Allora Gesù disse: “Voi vi sbagliate, perché Davide, in spirito, lo chiamò ‘Signore’, dicendo: ‘Dio ha detto al mio Signore: siediti alla mia destra, fino a che io pongo i tuoi nemici a scabello dei tuoi piedi. Dio stabilirà il tuo scettro che dominerà in mezzo ai tuoi nemici’. Se il nunzio di Dio, che voi chiamate Messia, era figlio di Davide, come Davide lo chiamerà Signore? Credetemi, perché in verità vi dico che la promessa è stata fatta a Ismaele e non a Isacco”»[50] (cap. XLIII).
Il passaggio dalla centralità di Isacco a quella di Ismaele diviene nell’apocrifo l’occasione per ricordare che il testo ebraico è corrotto, secondo la visione che l’apocrifo riprende dalla tradizione coranica. Addirittura Satana sarebbe alla base della corruzione del testo ebraico che nasconderebbe volutamente la centralità di Ismaele:
«I discepoli dissero dunque: “Maestro, nel libro di Mosè vi è scritto che la promessa fu fatta nei riguardi di Isacco”. Gesù rispose con un gemito: “Vi è scritto così, ma però non l'ha scritto Mosè, né Giosuè, ma i nostri rabbini che non temono Dio. Io vi dico in verità che se voi considerate le parole dell'angelo Gabriele, voi scoprirete la malizia dei nostri scribi e dottori, perché l'angelo ha detto: ‘Abramo, tutto il mondo conoscerà come Dio ti ama. Ma come il mondo conoscerà l'amore che tu porti a Dio? Certo che è necessario che tu faccia qualche cosa per amore di Dio’. Abramo rispose: ‘Ecco il servo di Dio pronto a fare tutto quello che Dio vorrà’. Allora Dio parlò: ‘Abramo, prendi il tuo figlio primogenito, Ismaele, e vieni a sacrificarlo sul monte’. Come mai Isacco è il primogenito se, quando Isacco è nato, Ismaele aveva sette anni?”
I discepoli dissero allora: “La bugia dei nostri dottori è chiara. Dicci la verità, perché noi sappiamo che tu sei stato mandato da Dio”. Gesù rispose allora: “Io vi dico in verità, satana cerca sempre di cancellare la legge di Dio. Per questo, i suoi seguaci ipocriti e malfattori - gli uni con una falsa dottrina e gli altri con una vita pessima - hanno contaminato oggigiorno, il tutto, in modo che difficilmente si trova la verità. Guai agli ipocriti!”»[51] (cap. XLIV).
Più volte nel testo si torna sulla questione della presunta precedenza di Ismaele (e dunque di Maometto) su Isacco:
«Se io commetto l'iniquità, riprendetemi e Dio vi amerà perché farete la sua volontà, ma se nessuno può riprendermi per il peccato, è segno che voi non siete figli di Abramo, come voi vi chiamate e non siete incorporati a quel capo al quale Abramo è incorporato. Viva Dio, Abramo amò tanto Dio che non solo fece in frantumi i falsi idoli e abbandonò suo padre e sua madre, ma volle uccidere il suo proprio figlio per obbedire a Dio.
Il pontefice rispose: “Questo ti chiedo e non cerco di ucciderti! Dicci dunque quale fu questo figlio di Abramo!” Gesù rispose: “Lo zelo del tuo amore, mio Dio, mi divora ed io non posso tacere. Così in verità dico che il figlio di Abramo fu Ismaele, dal quale deve discendere il Messia promesso ad Abramo al fine di benedire in lui tutte le tribù della terra”.
Sentendo ciò, il pontefice si adirò e gridò: “Lapidiamo questo empio perché egli è un Ismaelita ed ha bestemmiato contro Mosè e contro la legge di Dio”. Tutti gli scribi e farisei e gli anziani del popolo presero sassi per lapidare Gesù. Ma egli disparve dai loro occhi e uscì dal tempio. Ora per la grande volontà che avevano di uccidere Gesù, accecati dal furore e dall'odio, si ferirono così tanto l'un l'altro che mille uomini morirono. Così essi contaminarono il tempio santo»[52] (cap. CCVIII).
Gesù addirittura, secondo l’autore di Barnaba, vede in visione Maometto ed, appunto, gli si rivolge con le parole pronunciate da Giovanni Battista nei confronti di Gesù stesso:
«Quando io lo vidi, l’anima mia si riempì di consolazione: “O Maometto, che Dio sia con te! Che egli mi renda degno di sciogliere i legacci delle tue calzature, perché, quando avrò ottenuto questo, sarò un grande profeta e santo di Dio”. Dopo queste parole, Gesù rese grazie a Dio»[53] (cap. XLIV).
Il Gesù barnabiano ha spesso il nome di Maometto sulle labbra. L’autore inventa molte frasi non presenti nel Corano per sostenere la sua tesi di un Gesù annunziatore maomettano:
«In seguito Dio darà la vita a tutti gli eletti che grideranno: “Maometto, ricordati di noi”. Alla loro voce, la pietà del nunzio di Dio si sveglierà ed egli penserà a ciò che deve fare, temendo per la loro salute. Poi, Dio darà la vita a tutte le cose create ed esse ritorneranno al loro essere con una particolarità, che ognuno avrà la parola. In seguito Dio darà la vita a tutti i reprobi.
Vedendoli risorgere, ogni creatura di Dio si spaventerà e griderà: “Che la tua misericordia non ci abbandoni, Signore nostro Dio!” In seguito Dio farà risuscitare satana, alla cui visione, ogni creatura sarà come morta per timore, a causa della spaventosa forma che avrà. Piaccia a Dio, dice Gesù, che in quel giorno io non veda un tal mostro!»[54](cap. LIV).
Secondo l’autore dell’apocrifo tutta la storia del popolo ebraico annunzierebbe la venuta di Maometto, come sarà evidente alla fine dei tempi quando Dio lo resusciterà e tutti conosceranno che Maometto è il “nunzio di Dio”:
«Il nunzio di Dio parlerà dapprima dicendo: “Io ti adoro, io ti amo, mio Dio, e ti ringrazio con tutta la mia anima e con tutto il mio cuore, perché tu ti sei degnato di crearmi perché fossi tuo servo. Per amore di me tu hai fatto tutto, perché io ti ami per ogni cosa e sopra ogni cosa. Per questo tutte le creature ti rendono grazie, o mio Dio”. Tutte le cose create da Dio allora diranno: “Ti rendiamo grazie, Signore, e benediciamo il tuo santo nome”. Io vi dico in verità, in questo tempo, i demoni e i reprobi insieme a satana piangeranno a tal punto che dai loro occhi uscirà più acqua di quanto ne scorra nel fiume Giordano. Ed essi non vedranno più Dio.
Dio dirà al suo nunzio: “Tu sei il benvenuto, o mio fedele servo; perciò domandami quanto vuoi perché otterrai tutto”. Il nunzio di Dio risponderà: “Signore, mi ricordo che, creandomi, tu dicesti di voler fare per amore di me il paradiso e il mondo, gli angeli e gli uomini, perché essi ti glorifichino per mezzo del tuo servo. Signore Dio, misericordioso e giusto, ti prego dunque di ricordarti della promessa che facesti a me, tuo servo”. Dio risponderà come un amico che scherza con il suo amico. Gli dirà: “Tu hai testimoni per questo, mio amico Maometto?” Allora con rispetto egli dirà: “Sì, Signore”. Dio risponderà: “Gabriele, va a chiamarli!” L'angelo Gabriele si accosterà al nunzio di Dio e dirà: “Quali sono i tuoi testimoni, Signore?”
Il nunzio di Dio risponderà: “Sono Adamo, Abramo, Ismaele, Mosè, Davide e Gesù figlio di Maria”. L'angelo allora se ne andrà e chiamerà i suddetti che si avvicineranno con timore. Quando essi si saranno presentati, Dio dirà a loro: “Vi ricordate di ciò che dice il mio nunzio?” Essi risponderanno: “Di che, Signore?” Dio dirà: “Che io ho fatto tutto per amore di lui, perché tutti mi lodino tramite lui”. Ognuno risponderà: “Vi sono con noi tre testimoni migliori di noi, Signore”. Dio domanderà allora: “Chi sono questi tre testimoni?” Mosè dirà allora: “Il primo è il libro che tu mi hai dato”. Davide risponderà: “Il secondo è il libro che tu mi hai dato”. Colui che parla dirà allora: “Tutto il mondo, ingannato da satana, diceva che io ero tuo figlio e tuo compagno, ma il libro che tu mi hai dato dice ciò che è vero, che io sono il tuo servo e riconosce tutto ciò che dice il tuo nunzio”. Il nunzio di Dio dichiarerà allora: “È questo ciò che dice il libro che tu mi hai dato, Signore”. Dopo queste parole del messaggero di Dio, Dio dichiarerà: “Quanto ora ho fatto, l'ho fatto perché ognuno sappia quanto io ti amo”»[55] (cap. LV).
Dal tenore del testo di Barnaba si vede come Adamo, Abramo, Ismaele, Mosè, Davide e Gesù figlio di Maria vengano ritenuti i testimoni di Maometto e la loro vita sia vista tutta nella sua prospettiva, al punto che qualche autore ha parlato di maomettocentrismo[56] che viene a sostituire il cristocentrismo evangelico:
«Il pontefice allora disse: “Come sarà chiamato il messia e quale segno proverà la sua venuta?” Gesù rispose: “Il nome del messia è ammirabile, perché Dio stesso gli diede il nome quando creò la sua anima e lo collocò in uno splendore celeste. Dio disse: ‘Aspetta, Maometto, per amore verso di te voglio creare il paradiso e il mondo e una grande moltitudine di creature, delle quali te ne faccio dono. Chi ti benedirà sarà benedetto e chi ti maledirà sarà maledetto. Quando ti manderò nel mondo, ti manderò come il mio messaggero di salvezza. La tua parola sarà tanto vera che verranno meno il cielo e la terra, ma non cesserà mai più la tua fede! Maometto è il suo nome benedetto’”.
Allora la folla alzò la voce, dicendo: “O Dio, mandaci il tuo messaggero! O Maometto, vieni presto per la salvezza del mondo!”»[57] (cap. XCVII)
Oltre a mettere da parte il nome di Isacco, anche quello di Davide deve essere accantonato, secondo l’apocrifo, sconfessando tutti i testi vetero e neotestamentari che insistono sul fatto che il Messia è della discendenza di Davide, come afferma in un passaggio il Giuda barnabiano, prima di tradire Gesù:
«E ciò che è peggio egli dice che il Messia non verrà dalla stirpe di Davide come ci ha detto uno dei principali discepoli, ma egli dice che verrà dalla stirpe di Ismaele e che la promessa fu fatta per Ismaele e non per Isacco. Che cosa accadrà se si lascia vivere costui? Gli Ismaeliti guadagneranno certamente la stima dei Romani che gli consegneranno la nostra regione ed Israele sarà di nuovo ricondotta in schiavitù com’era nel passato»[58](cap. CXLII).
Dinanzi a chi insiste sull’importanza di Gesù, Gesù stesso, nell’apocrifo, con dialoghi pensati ad hoc dall’autore non si stanca di ripetere di essere venuto solo in funzione di Maometto:
«I discepoli risposero: “Maestro, chi sarà quell’uomo di cui parli e che verrà nel mondo?” Gesù rispose con la gioia nel cuore: “È Maometto, messaggero di Dio! La sua venuta nel mondo, portatrice di abbondante misericordia, come la pioggia che fa fruttificare la terra quando da tanto tempo non piove più, sarà motivo di buone azioni tra gli uomini. Perché egli è una nube candida piena della misericordia di Dio, che Dio spargerà sui fedeli come pioggia”»[59] (cap. CLXIII).
L’autore di Barnaba trasforma anche nel senso sopraindicato il brano della confessione a Cesarea di Filippo, mischiandola con l’episodio in cui gli scribi si recano da Giovanni Battista per chiedergli chi egli sia. Nell’apocrifo la domanda è rivolta a Gesù al posto che al Battista. Gesù afferma di non poter nemmeno sciogliere i lacci dei sandali di Maometto, il Messia che deve venire:
«Essi mandarono dunque i leviti ed alcuni scribi a domandargli: “Tu, chi sei?” Gesù confessò la verità: “Io non sono il Messia”. Essi dissero: “Sei tu Elia o Geremia o qualcuno degli antichi profeti?” Gesù rispose: “No”. Essi ripresero allora: “Chi sei tu, diccelo, perché noi diamo testimonianza a coloro che ci hanno inviati”. Gesù disse allora: “Io sono una voce che grida per tutta la Giudea. Essa grida: preparate la via al nunzio di Dio, com'è scritto in Isaia”. Essi replicarono: “Se tu non sei né il Messia, né Elia, né uno dei profeti, perché predichi una nuova dottrina e ti fai passare come più grande del Messia?” Gesù rispose: “I miracoli che Dio compie tramite le mie mani mostrano che io dico ciò che Dio vuole e dunque non mi faccio passare per colui che voi dite. Perché io non sono degno di sciogliere i legami delle calze, né i legacci delle scarpe del nunzio di Dio che voi chiamate Messia. Costui è fatto prima di me e verrà dopo di me! Egli porterà le parole di verità e la sua fede non avrà fine”»[60] (cap. XLII).
6/ La questione della figliolanza di Gesù e della paternità di Dio nel vangelo di Barnaba
Merita ancora sottolineare come il vangelo di Barnaba modifichi tutti i passaggi evangelici che potrebbero dar adito a ritenere che Gesù sia il Figlio di Dio.
Il punto di vista è dichiarato fin dall’inizio dall’apocrifo di Barnaba in una modalità che si potrebbe definire quella dell’excusatio non petita, accusatio manifesta. Il fatto che si dica subito, fin dalle prime parole, che Gesù non è il figlio di Dio, fa capire che l’intento dell’autore che si nasconde dietro il nome di Barnaba è proprio negare la figliolanza divina di Gesù. Già questa affermazione a mo’ di introduzione mostra che l’apocrifo è un testo tardivo redatto dopo i vangeli canonici – come si vedrà composto più di 1000 anni dopo di essi:
«Barnaba apostolo di Gesù Nazareno chiamato Cristo, a tutti coloro che abitano sulla terra, augura pace e consolazione.
Carissimi, il grande ed ammirabile Dio ci ha visitati, in questi giorni passati, tramite il suo profeta Gesù Cristo, mostrandoci la sua grande misericordia mediante la dottrina e i miracoli, in merito alla quale molti, ingannati da satana, sotto il velo della pietà, predicano una dottrina molto empia, chiamando Gesù figlio di Dio, ripudiando la circoncisione, alleanza eterna di Dio, permettendo ogni sorta di cibi immondi. Tra costoro anche Paolo cade nell’inganno e io ne parlo a malincuore. Per cui vi scrivo in merito a quella verità che io ho vista e ascoltata nella frequentazione di Gesù, perché siate salvati da lui e non veniate ingannati da satana e non periate per il giudizio di Dio. Perciò guardatevi che vi predica una nuova contraria a quella che io vi scrivo, perché voi siate definitivamente salvati. Il grande Dio sia con voi e vi custodisca da satana e da ogni male. Amen»[61].(Prologo)
Nell’apocrifo è Gesù stesso a dichiarare di non essere il figlio di Dio, con un insistenza che mostra da sola quanto l’autore dell’apocrifo sia ossessionato dalla questione. L’apocrifo sostituisce sistematicamente tutti i versetti nei quali si parla di Padre e di Figlio. Ad esempio è all’apostolo Filippo che Gesù dice: “Chi vede me vede il Padre”. Il testo viene così trasformato dall’autore:
«A queste parole di Gesù, Filippo rispose: “Noi siamo contenti di servire Dio, ma desideriamo però di conoscere Dio, perché il profeta Isaia disse: ‘Veramente, tu sei Dio nascosto!’ E Dio disse a Mosè suo servitore: ‘Io sono Colui che sono’”. Gesù riprese: “Filippo, Dio è un bene senza il quale non vi è alcun bene. Dio è un essere senza il quale nulla esiste. Dio è una vita senza del quale nessuno vive.
Egli è tanto grande che riempie il tutto ed è ovunque. Egli è senza uguali, non ebbe inizio né avrà mai fine, anzi ad ogni cosa ha dato inizio e ad ogni cosa darà fine. Egli non ha né padre, né madre, non ha figli né fratelli, né compagni. e siccome non ha corpo, Egli non mangia, non dorme, non muore, non cammina, non si muove, ma rimane in eterno, senza somiglianze umane perché Egli è incorporeo, senza composizione, immateriale, di sostanza semplicissima.
Egli è tanto buono che ama solamente la bontà. Egli è così giusto che quando punisce oppure perdona, non si può riprendere. In verità ti dico, Filippo, che qui in terra tu non puoi né vederlo né conoscerlo perfettamente, ma, nel suo regno, tu lo vedrai per sempre. In Lui sta la nostra felicità e la nostra gloria!”. Rispose Filippo: “Maestro, che dici? Vi è scritto pure in Isaia che Dio è nostro Padre, come dunque non ha figli?” Gesù disse: “Molte parabole sono scritte in tutti i profeti, tu però non le devi comprendere alla lettera ma nel significato. Difatti i centoquarantaquattromila profeti che Dio ha inviato nel mondo, hanno parlato oscuramente; ma dopo di me verrà lo splendore di tutti i profeti e i santi; egli farà luce sulle cose oscure che hanno detto i profeti, perché egli è il messaggero di Dio”. Detto questo Gesù sospirò dicendo: “Abbi pietà d'Israele, Signore Dio! Guarda con pietà Abramo e la sua discendenza perché ti servano con sincerità di cuore”»[62] (cap. XVII).
Quando Gesù insegna il Padre nostro, l’unica espressione che viene modificata in maniera sostanziale dall’apocrifo è proprio “Padre nostro”, che diviene “Signore nostro Dio”:
«I discepoli piangevano alle parole di Gesù. Ed essi gli domandarono: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù rispose: “Considerate quello che fareste se il governatore romano vi arrestasse per mettervi a morte. Ebbene, la medesima cosa fate quando andate a fare preghiera. E le vostre parole siano queste: Signore nostro Dio, sia santificato il tuo santo nome. Il tuo regno venga in noi. Sia sempre fatta la tua volontà, come si fa in cielo, si faccia anche in terra. Dacci il pane per ogni giorno. Perdonaci i nostri peccati come noi li perdoniamo a coloro che peccano contro di noi. Non lasciarci cadere nelle tentazioni. Ma liberaci dal male. Perché tu solo sei il nostro Dio, al quale appartengono per sempre la gloria e l'onore"»[63] (cap. XXXVII).
Similmente nell’esperienza della Trasfigurazione ciò che viene cancellata è la dichiarazione del Padre “Questi è il mio Figlio, ascoltatelo”:
«Detto questo, Gesù se ne andò e si portò al monte Tabor, al quale ascesero con lui anche Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, insieme a colui che ha scritto ciò. Allora una grande luce fu sopra di lui. I suoi vestiti divennero come bianche nevi e il suo volto risplendeva come il sole. Ed ecco che vennero Mosè ed Elia e parlarono con Gesù a proposito di quanto doveva accadere alla nostra gente e alla città santa. Pietro parlò dicendo: “Signore, è bene stare qui, perciò se tu vuoi faremo qui tre tende, una per te, una per Mosè e l'altra per Elia”. Mentre parlava, essi furono coperti da una nuvola bianca e sentirono una voce che diceva: “Ecco il mio servo nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo”. I discepoli furono pieni di paura e caddero con il viso a terra, come morti»[64] (cap. XLII).
Parimenti nella parabola dei vignaioli a cui il padrone chiede conto della figlia scompare l’ultimo inviato, il figlio, che il padrone mandò a richiedere frutti e che venne invece ucciso. Nel testo barnabiano troviamo solo i servi, inviati da Dio:
«Di nuovo parlò Gesù dicendo: “Io vi propongo un esempio. Vi fu un padre di famiglia che piantò una vigna e vi fece una siepe perché non fosse calpestata dagli animali. Nel mezzo vi fabbricò un torchio per il vino. Poi, egli l'affittò a alcuni agricoltori. Al tempo del raccolto del vino, egli mandò i suoi servi. Quando gli agricoltori li videro, alcuni li lapidarono, altri li bruciarono ed altri li accoltellarono; e questo fecero molte volte. Ditemi, che farà il padrone della vigna agli agricoltori?” Ognuno rispose: “Egli li farà perire in malo modo e darà la sua vigna ad altri agricoltori”. “Ebbene”, disse Gesù, “non sapete che la vigna è la casa di Israele e che gli agricoltori sono il popolo di Giudea e di Gerusalemme? Guai a voi, perché Dio è adirato contro di voi, per il fatto che avete ucciso molti profeti di Dio, al punto che al tempo di Achab non si trovava chi seppellisse i santi di Dio”»[65](cap. XLVI).
Le omissioni hanno come corrispettivo una lunga serie di discorsi aggiunti dall’autore nei quali Gesù scongiura di non essere chiamato Figlio di Dio. Infatti, l’apocrifo ricorda che tale voce serpeggiava fra il popolo, ma la attribuisce a Satana:
«Satana incitò tanto questo discorso che ebbe luogo nel popolo di Nain un conflitto di non poco conto.
Ma Gesù non si fermò neanche un poco a Nain, ma si girò per andare a Cafarnao. La discordia degli abitanti di Nain si fondava su quello che alcuni dicevano: “È il nostro Dio che ci ha visitati. Dio è invisibile. Nessuno l’ha visto, neanche Mosè, suo amico e suo servo. Non è Dio, ma suo figlio”. Altri ancora dicevano: “Non è figlio e neanche il figlio di Dio, perché Dio non ha corpo per generare. Ma egli è un grande profeta di Dio”.
Satana incitò tanto che, nel terzo anno del ministero profetico di Gesù, si stava creando un grande disastro nel nostro popolo»[66] (cap. XLVIII).
Ma il Gesù barnabiano risponde scongiurando di non chiamarlo Figlio di Dio, ma profetizzando al contempo – una profezia post eventu – che tale affermazione si diffonderà lo stesso:
«Detto questo, Gesù si percosse la faccia con ambo le mani, e poi percosse la terra con il capo. Avendo alzato il capo, egli disse: “Sia maledetto chiunque metterà nelle mie parole che io sono figlio di Dio”. A queste parole, i discepoli caddero come morti»[67] (cap. LIII).
Nella professione di fede a Cesarea di Filippo, la confessione di Pietro è rovesciata. Al posto di essere gradita a Gesù che pone la domanda a smentire la folla che lo ritiene un profeta, Gesù si adira quando Pietro lo proclama Cristo e Figlio di Dio e preferisce le parole della folla alla confessione petrina:
«Partito da Gerusalemme dopo la Pasqua, Gesù entrò nel territorio di Cesarea di Filippo. L'angelo Gabriele avendogli detto circa la sedizione che serpeggiava tra il popolo, egli interrogò i suoi discepoli: “Che cosa dicono di me gli uomini?” Essi risposero: “Alcuni dicono che tu sei Elia, altri che sei Geremia, altri ancora uno degli antichi profeti”. Gesù riprese: “E voi che dite che io sia?” Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, figlio di Dio!” Gesù allora si adirò e lo riprese con collera: “Vattene lontano da me, perché tu sei il diavolo e tu tenti di essermi di inciampo”. E minacciò gli undici: “Guai a voi se credete a ciò, perché io ho chiesto a Dio una grande maledizione contro coloro che crederanno a ciò”. Ed egli voleva scacciare Pietro, per cui gli undici pregarono per lui, Gesù non lo scacciò; ma di nuovo lo riprese dicendo: “Guardati di non dire più una tale parola, perché Dio ti rimprovererebbe”. Pietro pianse e disse: “Signore io ho parlato da stolto. Prega Dio che mi perdoni!”»[68] (cap. LXX).
Nell’episodio del paralitico perdonato e guarito il Gesù barnabiano si affretta a dichiarare che lui non ha alcun potere di perdonare i peccati:
«Giunto Gesù nella sua patria, si sparse in tutta la regione della Galilea la voce che il profeta Gesù era venuto a Nazareth.
Con diligenza cercarono gli infermi e glieli presentarono pregandolo di toccarli con le mani. La moltitudine era tale che un ricco colpito da paralisi, non potendo farsi passare per la porta, si fece portare sul tetto della casa in cui era Gesù. Avendo fatto scoprire il tetto, si fece calare con lenzuola davanti a Gesù, che era per un attimo inattivo. Poi Gesù disse: “Non temere, fratello, perché ti sono perdonati i peccati!” Tutti furono scandalizzati ascoltando ciò e dicevano: “Chi è costui che perdona i peccati?”
Gesù allora disse: “Viva Dio, io non posso perdonare i peccati e neanche alcun altro uomo, ma solamente Dio perdona! Ma come servo di Dio posso giustamente pregare per i peccati degli altri. Per questo ho pregato per questo infermo e son sicuro che Dio ha esaudito la mia preghiera. Così perché conosciate la verità io dico a questo infermo: Nel nome del Dio dei nostri padri, Dio di Abramo e dei suoi figli, alzati guarito”. In seguito a queste parole di Gesù, l'infermo si alzò guarito e glorificava Dio»[69] (cap. LXXI).
Nei tre episodi dell’incontro con la samaritana, con il cieco nato e con Lazzaro morto e poi resuscitato, sono eliminate dall’autore le affermazioni cristologiche “Io sono l’acqua viva”, “Io sono la luce del mondo”, “Io sono la via, la resurrezione e la vita”. Gesù compie lo stesso i miracoli, ma essi non sono segni della sua identità, non sono segni che è lui ad essere l’acqua che disseta, la luce che illumina, la resurrezione che dona la vita:
«Voltatosi verso la donna, disse: “Donna, voi Samaritani adorate quello che non sapete, ma noi Ebrei adoriamo quello che sappiamo. In verità ti dico che Dio è spirito e verità, perciò deve essere adorato in spirito e verità, perché la promessa di Dio è fatta in Gerusalemme nel tempio di Salomone e non altrove.
Ma, credimi, che verrà un tempo in cui Dio rivolgerà la sua misericordia ad un'altra città e in ogni luogo si potrà adorare con verità; in ogni luogo, Dio accetterà l'orazione vera con misericordia”. La donna rispose: “Noi aspettiamo il Messia; perciò quando verrà, egli ci ammaestrerà!” Gesù disse: “Donna, tu sai che il Messia deve venire?” Ella rispose: “Sì, Signore!” Allora Gesù si rallegrò e disse: “Per quanto vedo, o donna, tu sei fedele! Sappi dunque che è nella fede del Messia che si salverà ogni eletto di Dio. Perciò è necessario che tu conosca la venuta del Messia”. La donna disse: “Signore, sei forse tu il Messia?” Gesù rispose: “Io sono veramente mandato da Dio alla casa di Israele come profeta di salvezza, ma, dopo di me, verrà il Messia mandato da Dio a tutto il mondo, per il quale Dio ha fatto il mondo. Perciò in tutto mondo si adorerà Dio e si otterrà misericordia come nell'anno del giubileo, che ora capita ogni cento anni, per il Messia sarà accordato in ogni anno e in ogni luogo!” Allora la donna lasciò la brocca e corse in città ad annunziare quanto aveva inteso da Gesù»[70] (cap. LXXXII).
«Il cieco nato andò a trovare Gesù, il quale lo confortò dicendo: “In nessun altro momento fosti così beato come sei ora, perché tu sei benedetto dal nostro Dio. Egli infatti ha parlato contro gli amici del mondo dicendo tramite Davide nostro padre e suo profeta: ‘Essi mi maledicono ed io benedico’. Tramite il profeta Michea disse: ‘Maledico le vostre benedizioni, perché la terra è meno opposta all’aria, l’aria al fuoco, la luce alle tenebre, il caldo al freddo e l’amore all’odio, di quanto non sia il volere di Dio opposto al volere del mondo!’”»[71] (cap. CLVIII)
«Quella corse fuori della città e trovato Gesù, disse piangendo: “Signore, tu m’avevi detto che mio fratello non sarebbe morto! Ora invece è sepolto da quattro giorni”»[72] (cap. CXCIII).
«Allora, alzate le mani al cielo, Gesù disse: “Signore, Dio di Abramo, Dio d’Ismaele e di Isacco, Dio dei nostri padri, abbi misericordia per l’afflizione di queste donne e dà gloria al tuo santo nome!” Avendo ognuno risposto “Amen”, Gesù disse a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!” Allora il morto si alzò, Gesù disse ai suoi discepoli: “Scioglietelo!” Egli infatti era legato nel lenzuolo con un sudario sul viso, come i nostri padri usavano seppellire»[73] (cap. CXCIII).
L’insistenza di Gesù stesso che, con discorsi costruiti dall’autore dell’apocrifo, dichiara di non essere Figlio di Dio, ma solo suo servo, sono numerosissimi.
Il Gesù barnabiano definisce un grande peccato il dichiararlo Figlio di Dio:
«Avendo levata la mano in segno di silenzio, Gesù disse: “Veramente voi avete commesso un grande peccato, o israeliti, chiamando vostro Dio me, che sono un uomo. Ed io temo che Dio per questo mandi un grave flagello sulla città santa, mettendola sotto dominazione di altri. Sia mille volte maledetto satana che vi ha spinto a fare questo!” Detto questo, Gesù si percosse la faccia con le due mani per cui si levò un tale strepitio di pianto che nessuno poteva intendere quello che Gesù diceva.
Allora alzò di nuovo la mano in segno di silenzio e acquietato il popolo dal pianto, disse: “Io confesso davanti al cielo e chiamo a testimone ogni cosa che abita sopra la terra che io sono estraneo a quanto avete detto, per il fatto che io sono un uomo nato da donna mortale, sottoposto al giudizio di Dio, che soffre le miserie del mangiare e del dormire, il freddo e il caldo come gli altri uomini. Per questo quando Dio verrà a giudicare le mie parole, egli percuoterà come una spada ognuno di quelli che crederanno che io sono di più di un uomo”»[74] (cap. XCIII).
Come argomento per il suo non essere Figlio, l’autore gli fa pronunciare parole sul fatto che egli non ha nemmeno il potere di Mosè, a differenza dei vangeli che annunziano che Gesù è più grande di Mosè:
«Se voi leggeste il testamento e l'alleanza del nostro Dio, voi vedreste che Mosè, con un colpo di bacchetta, cambiò l'acqua in sangue, la polvere in pulci, la rugiada in tempesta e la luce in tenebre. Egli fece venire in Egitto le rane e i topi che coprivano la terra; egli uccise i primogeniti e aprì il mare dove sommerse il Faraone.
Nessuna di queste cose io ho fatto; eppure ognuno ritiene che Mosè è un uomo, morto al presente! Giosuè arrestò il sole e aprì il Giordano; cosa che io ancora non ho fatto; eppure ognuno ritiene che Giosuè è un uomo, morto al presente! Elia fece venire visibilmente il fuoco dal cielo e la pioggia; io non ho neppure fatto ciò; eppure ognuno ritiene che Elia è un uomo! E tanti altri santi profeti, amici di Dio che, grazie a Dio, hanno compiuto cose che l'intelletto di chi non conosce il nostro Dio, onnipotente e misericordioso, che è benedetto in eterno, non può capire!»[75] (cap. XCIV).
L’apocrifo sottolinea, anche qui scrivendo dopo e contro i testi neotestamentari, che Gesù non ha partecipato alla creazione, mentre l’anima di Maometto preesiste alla creazione:
«Io [Gesù] sono un uomo visibile, un poco di fango che cammina sulla terra, mortale come lo sono tutti gli altri uomini, io ho avuto principio e avrò una fine e sono tale da non poter creare di nuovo una mosca»[76] (cap. XCV).
Più volte Gesù interrogato nega, nell’apocrifo, ciò che gli altri affermano:
«Finita l'orazione, il pontefice disse ad alta voce: “Fermati, Gesù, perché per la tranquillità del nostro popolo, ci manca di sapere chi sei”. Gesù rispose: “Io sono Gesù figlio di Maria, della stirpe di Davide, uomo mortale e timoroso di Dio; mi impegno perché sia reso gloria e onore a Dio”.
Il pontefice riprese: “Nel libro di Mosè c'è scritto che il nostro Dio deve mandarci il Messia, il quale verrà ad annunziare quello che Dio vuole e porterà al mondo la misericordia di Dio. Io ti prego di dirci la verità: Sei tu il Messia di Dio che noi aspettiamo?” Gesù rispose: “È vero che così ha promesso il nostro Dio ma però io non sono costui, perché egli fu fatto prima di me e verrà dopo di me”»[77](cap. XCVI).
Il Gesù barnabiano ha visto Maometto, prima che l’inviato di Dio sia mandato in terra, e sa, a dire dell’autore, che la sua presunta filiazione divina sarà finalmente sconfessata da Maometto stesso:
«“Io, indegno di sciogliere i suoi sandali, ho avuto la grazia e la misericordia di Dio di vederlo [il Messia, Maometto]!” Il pontefice, il governatore e il re risposero allora: “Non ti turbare, o Gesù, santo di Dio, perché nel nostro tempo non accadrà più questa rivolta. Noi scriveremo difatti al sacro senato romano in modo che, per decreto imperiale, più nessuno ti chiamerà Dio ovvero figlio di Dio”. Gesù allora disse: “Le vostre parole non mi consolano perché le tenebre verranno da dove sperate la luce. La mia consolazione riguarda la venuta del messaggero di Dio, il quale distruggerà ogni falsa opinione su di me e la sua fede si diffonderà e si estenderà in tutto il mondo, perché così ha promesso Dio ad Abramo nostro padre. Ciò che mi consola è che la sua fede non avrà fine e inoltre sarà conservata inviolata da Dio”»[78] (cap. XCVII).
L’autore apocrifo fa dire a Gesù di non essere niente dinanzi a Dio:
«Venuto il giorno, Gesù salì al tempio con una grande moltitudine di folla. Il pontefice gli si avvicinò e disse: “Dimmi, Gesù, ti sei dimenticato di quanto hai proclamato, che tu non sei Dio né figlio di Dio e tantomeno il Messia?” Gesù rispose: “Certamente no, non l'ho dimenticato, perché questa è la mia proclamazione che porterò davanti al tribunale di Dio nel giorno del giudizio, che quanto è scritto nel libro di Mosè è assolutamente vero, vale a dire che Dio, nostro creatore, è unico e che io sono servo di Dio e che desidero servire al nunzio di Dio che voi chiamate Messia”.
Il pontefice allora disse: “Adunque a che serve venire al tempio con una tale moltitudine? Cerchi forse di farti re d'Israele? Guardati che non ci capiti qualche incidente!” Gesù rispose: “Se io cercassi la mia gloria e volessi la mia parte in questo mondo, io non sarei fuggito quando il popolo di Nain voleva farmi re. Credimi, in verità io non cerco nulla in questo mondo”»[79] (cap. CCVI).
Addirittura, nell’apocrifo, Gesù viene fatto piangere e quasi sembra sentirsi in colpa poiché viene ritenuto Figlio di Dio:
«Gesù rispose: “Credimi, Barnaba, io non posso piangere quanto dovrei! Se gli uomini non mi avessero chiamato Dio, io avrei veduto qui Dio come lo si vedrà in paradiso e sarei stato sicuro di non temere il giorno del giudizio! Ma solo Dio sa che io sono innocente perché mai mi venne il pensiero di considerarmi di più di un umile servo; anzi ti dico che se non fossi stato chiamato Dio, io sarei stato portato in paradiso appena partito dal mondo, perciò non vi andrò fino al giudizio. Ora vedi che io ho motivo di piangere!
Sappi, Barnaba, che io per questo devo subire una grande persecuzione e che sarò venduto da un mio discepolo per trenta denari. Onde, sebbene sono sicuro che colui che mi venderà sarà ucciso sotto il mio nome perché Dio mi toglierà dal mondo e trasformerà il traditore in modo tale che tutti crederanno che quello sono io, nondimeno, morendo quello malamente, io resterò a lungo con tale disonore nel mondo.
Ma quando verrà Maometto, sacro messaggero di Dio, sarà tolta questa infamia e Dio farà ciò perché ho professato la verità del Messia, il quale mi darà questo premio cioè di essere conosciuto come vivo ed estraneo a quella morte infame!”»[80](cap. CXII).
7/ Barnaba uno dei 12, secondo l'apocrifo
L’apocrifo si nasconde dietro il nome di Barnaba che, in realtà, non fu un apostolo, bensì un levita che si convertì all’annunzio degli apostoli (At 4,36-37). Barnaba venne poi inviato, dopo la conversione di Paolo, a cercarlo ed i due partirono poi insieme per diffondere la fede cristiana cominciando da Cipro, l’isola d cui proveniva appunto Barnaba (At 13,2). Paolo e Barnaba vennero poi inviati a Gerusalemme perché ai pagani non fosse imposta la circoncisione (At 15,2).
L’apocrifo, invece, lo inserisce fra i dodici scelti da Gesù, mentre Barnaba non conobbe mai personalmente Gesù:
«Fattosi giorno, scese dal monte e scelse i dodici che chiamò apostoli, e tra loro, Giuda, colui che fu messo a morte sulla croce. I loro nomi sono: Andrea e Pietro suo fratello, pescatori, Barnaba, che ha scritto ciò, anche Matteo il pubblicano che sedeva al banco, Giovanni e Giacomo figli di Zebedeo, Taddeo e Giuda, Bartolomeo e Filippo, Giacomo e Giuda Iscariota, il traditore, Egli diceva loro sempre i segreti divini, e fece Giuda suo amministratore di quanto gli era dato in elemosina. Ma egli rubava la decima di ogni cosa»[81] (cap. XIV).
8/ La trasmissione manoscritta del vangelo di Barnaba e la sua datazione
I dati esterni al testo confermano la datazione molto tardiva dell’apocrifo che si desume dal contenuto del testo stesso. Il testo viene citato per la prima volta in un manoscritto, il ms. 9653, f° 178, della Biblioteca nazionale di Madrid, trovato da Louis Cardaillac nel 1977, che è databile agli anni 1630-1640[82].
La versione italiana è segnalata per la prima volta nel 1709 da un consigliere del re di Prussia che risiedeva ad Amsterdam e che lo prestò nel 1709 ad un erudito, John Toland: tale testo è oggi custodito a Vienna nella Biblioteca nazionale. La lingua di questa unica copia completa esistente è un italiano popolare di ambiente veneto[83].
Una seconda versione, questa volta in spagnolo, del testo è segnalata da un tale George Sale nel 1734, che lo riteneva tradotto dall’italiano[84]. Tale traduzione spagnola ci è pervenuta in un solo esemplare non completo che comprende i capitoli da 121 a 200 ed è oggi a Sidney nella Fisher Library, ritrovato nel 1976: una annotazione rivela che è stato copiato dal testo di Sale.
Se le due versioni in italiano ed in spagnolo sono degli inizi del XVII secolo, il testo originale potrebbe essere forse databile al XIV secolo, poiché ricorda che il Giubileo si sarebbe svolto ogni 100 anni, scadenza che era quella inizialmente proposta ai tempi dell’istituzione del giubileo da parte di Bonifacio VIII[85]:
«In tutto mondo si adorerà Dio e si otterrà misericordia come nell'anno del giubileo, che ora capita ogni cento anni»[86] (cap. LXXXII).
Probabilmente si tratta, insomma, di un testo andaluso medioevale con traduzioni italiana e spagnola nel XVII secolo[87].
Ciò che prova con certezza una datazione assolutamente tardiva è il fatto che il vangelo di Barnaba non è mai citato in alcun documento islamico prima del XIX secolo. Il ricorso al vangelo di Barnaba nella propaganda musulmana inizia una cinquantina d’anni fa[88].
Il primo autore musulmano che ne fece uso è Rahmatullah b. Khalîl al-Kairânâwî (1818-1891) in India intorno al 1850 per appoggiare una cristologia musulmana. Per contestare tale utilizzo Lonsdale e Laura Ragg, legati alla Chiesa di Scozia ne fecero una prima edizione in inglese nel 1907, con l’aiuto dell’orientalista D.S. Margoliouth.
Conclusione
Leggere il vangelo di Barnaba ci permette di comprendere come un autore medioevale ha dato corpo, creando episodi su episodi e discorsi su discorsi, ad una figura di Gesù secondo l’insegnamento musulmano tradizionale. Il testo, che non ha alcuna attendibilità storica, è invece estremamente interessante per farsi un’idea di come sia stata rielaborata la vera storia di Gesù al fine di permettere ad un musulmano di “visualizzare” in maniera discorsiva e narrativa un Gesù ripensato in chiave islamica – come è noto il Corano non fornisce alcuna narrazione complessiva della storia di Gesù, bensì offre solo alcuni flash sulla sua vita.
Ci
permettiamo anche di indicare un possibile ruolo che il testo potrebbe giocare oggi, ponendo una questione a nostro avviso estremamente importante: in che maniera un musulmano potrebbe oggi criticare l’apocrifo di Barnaba – che, si noti bene, non è un testo ispirato nemmeno per la recentissima propaganda islamica che lo utilizza – a partire dai testi evangelici mantenendosi fedele alla fede coranica? Potrebbe riconoscere, ad esempio, che la ricostruzione della crocifissione proposta dall’apocrifo di Barnaba è storicamente falsa e che, quindi, si dovrebbe cercare una diversa interpretazione della Sura coranica che tratta della crocifissione, pur mantenendo ferma la Sura stessa?
Note al testo
[1] Edizione francese di L. Cirillo – M. Frémaux, Evangile de Barnabé, Beauchesne, Parigi, 1977 ed edizione italiana E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991.
[2] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 49.
[3] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 41.
[4] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 103-107.
[5] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 371.
[6] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 781.
[7] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 783.
[8] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 787.
[9]
[10] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 761.
[11] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 767-769.
[12] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 777-779.
[13] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 781.
[14] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 783-791.
[15] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 793.
[16] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 795-799.
[17] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 801.
[18] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 801-803.
[19] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 805.
[20] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 63-65.
[21] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 297.
[22] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 417.
[23] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 483.
[24] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 645.
[25] Sulla riscrittura islamica delle storie bibliche, cfr. R. Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia Brescia, 1999
[26] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 705.
[27] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 367-369.
[28] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 75-77.
[29] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 111.
[30] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 113.
[31] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 115.
[32] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 153.
[33] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 447-449.
[34] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 351-353.
[35] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 281.
[36] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 359-361.
[37] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 589.
[38] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 617.
[39] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 175.
[40] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 81.
[41] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 737-739.
[42] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 745.
[43] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 499-501.
[44] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 451-453.
[45] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 179-181.
[46] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 165.
[47] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 129.
[48] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 135.
[49] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 401.
[50] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 197.
[51] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 199.
[52] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 755.
[53] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 201.
[54] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 233.
[55] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 237-239.
[56] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 236.
[57] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 393-395.
[58] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 555.
[59] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 631.
[60] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 191.
[61] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 41.
[62] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 91-93.
[63] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 173.
[64] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 193.
[65] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 207.
[66] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 213.
[67] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 231.
[68] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 289.
[69] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 293.
[70] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 335-337.
[71] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 613.
[72] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 709.
[73] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 711.
[74] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 377.
[75] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 381-383.
[76] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 387.
[77] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 389.
[78] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 393.
[79] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 751.
[80] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, pp. 443-445.
[81] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 79.
[82] Cfr. per i dati sulla trasmissione del testo J. Jomier, L’Évangile selon Barnabé. A propos d’un apocryphe, in Esprit et vie, 109 (1999), pp. 481-486.
[83] Così L. Cirillo – M. Frémaux, Evangile de Barnabé, Parigi, Beauchesne, 1977, pp. 77-90.
[84] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 32.
[85] Così A. Penna, alla voce Barnaba, Vangelo di, in Enciclopedia Dantesca (1970), disponibile on-line che scrive, per confutare una dipendenza di Dante dall’apocrifo: «L'apocrifo è assegnato fra il 1300 e il 1349 in forza della frase (fol. 85b. 87a) " il iubileo... che hora viene ogni cento hanni ". Si accetti pure tale argomento e si ponga la composizione dell'apocrifo all'inizio del secolo; è difficile ammettere che un'opera che non ebbe alcun successo, e con una diffusione minima, influenzasse la Commedia, la cui redazione definitiva è anteriore al 1321».
[86] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 337.
[87] Il vangelo di Barnaba. Un vangelo per i musulmani?, E.Giustolisi – G. Rizzardi (a cura di), Istituto Propaganda Libraria, Milano 1991, p. 5.
[88] Cfr. su questo M. Borrmans, Gesù Cristo e i musulmani del XX secolo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, p. 78 e note da 20 a 27.
Riprendiamo dal sito della Caritas diocesana di Roma un articolo, pubblicato l’8/4/2016, di don Marco Vitale Di Maio, parroco della parrocchia di Santa Maria stella dell’evangelizzazione. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (13/4/2016)
N.B. Proponiamo su Gli scritti una serie di testimonianze ed interviste sull’accoglienza dei profughi nelle parrocchie romane
Da più di un anno, la nostra comunità parrocchiale di Santa Maria Stella dell’Evangelizzazione in Roma si stava interrogando su come impegnarsi, in modo più diretto e coinvolgente, nel servizio ai più bisognosi. La possibilità di accogliere una coppia di richiedenti asilo, dunque, ci è sembrata da subito una preziosa opportunità. Dopo qualche settimana di riflessione e discernimento a diversi livelli, ci siamo resi disponibili per l’accoglienza e ci siamo messi subito al lavoro.
Innanzitutto abbiamo intrapreso una capillare opera di sensibilizzazione della comunità parrocchiale e, contemporaneamente, abbiamo dato vita ad una corsa di solidarietà per raccogliere i fondi necessari per risistemare i locali parrocchiali. Abbiamo avuto così la possibilità di sistemare uno spogliatoio dell’oratorio e lo abbiamo organizzato per essere un accogliente bilocale.
L’arrivo della coppia di rifugiati è stata un’emozione forte, per tutti! Ormai quasi ogni giorno si sente in televisione di sbarchi o di esodi ma stringere la mano ad uno di questi fratelli guardandolo negli occhi è un’altra cosa!
Lei 18 anni, lui 23, sguardo perso nel vuoto, lui qualche parola di francese mentre lei conosce solo il dialetto del suo Paese di origine.
Appena arrivati è cominciata la staffetta da parte di oltre 50 famiglie per offrire una cena tutta per loro che ogni sera puntualmente gli viene portata in parrocchia. Dopo le prime difficoltà iniziali per conoscere i loro gusti e necessità alimentari siamo ormai arrivati ad una buona gestione dei pasti.
La presenza di questi due ragazzi sta mobilitando gran parte della comunità parrocchiale per le più svariate attenzioni nei loro confronti: accompagnarli per i diversi impegni burocratici e sanitari, proporgli ripetizioni di lingua italiana, piuttosto che invitarli al laboratorio teatrale dell’oratorio o inventarci un corso di cucito per la ragazza. In questo modo le loro giornate sono piuttosto piene: al mattino corso di italiano in Centro, pranzo presso una delle mense della Caritas diocesana; il pomeriggio studio, appuntamenti in Prefettura e qualche attività ludica in parrocchia.
Ovviamente le tante ricchezze che emergono da questa esperienza non sono immuni da qualche piccola difficoltà pratica nel portare avanti il progetto di accoglienza. Le differenze culturali e religiose con i nostri ospiti ci spingono costantemente a cercare di capire la cosa migliore da fare nel momento più opportuno e questa attenzione permanente è sicuramente l’impegno primario per tutta la comunità parrocchiale. Ci sono anche le fatiche di coordinamento tra tutte le famiglie coinvolte nel progetto e con la stessa Caritas diocesana e i suoi operatori.
Tutte queste difficoltà sono comunque un’occasione per fare un’opera di carità impegnativa e che va continuamente motivata e studiata nel concreto.
Accogliere è una forma concreta per vivere il Vangelo, per crescere nell’essere Chiesa e per conoscere i propri limiti personali e comunitari, per impegnarsi nel crescere nel servizio agli ultimi.
Spesso ci domandiamo: se ci riproponessero di accogliere dei fratelli, cosa faremmo come parrocchia? Diremo sicuramente: benvenuti e…sempre uniti, sempre avanti cosi!
Riprendiamo sul nostro sito un’intervista a cura dell’Ufficio catechistico ad Angela Melchionda. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (13/4/2016)
N.B. Proponiamo su Gli scritti una serie di testimonianze ed interviste sull’accoglienza dei profughi nelle parrocchie romane
La parrocchia di San Giuseppe al Trionfale è stata fra le prime parrocchie romane a rispondere all’appello di papa Francesco. L’accoglienza di 2 ragazze ha messo in moto le parrocchie della prefettura che hanno iniziato a collaborare per poter sostenere la loro accoglienza. Intervistiamo una catechista della parrocchia, Angela Melchionda. Su questa esperienza è stato girato anche un video, dal titolo “Giubileo. L’altro sguardo”, disponibile on-line sul Canale YouTube Caritas Roma.
Angela, chi avete accolto, facendo spazio nella vostra comunità?
Sono state accolte due ragazze, una proveniente dal Togo e l’altra dalla Nigeria. Sono in Italia da circa tre anni e hanno affrontato numerose difficoltà prima di arrivare nella nostra comunità.
Come è maturata nella comunità la decisione di accogliere?
L’iniziativa è nata dal parroco, don Wladimiro, guanelliano, il quale a settembre scorso, ha colto l’invito prima di Papa Francesco e poi del cardinal Vallini ad ospitare nella nostra parrocchia una famiglia di immigrati che la Caritas diocesana ci avrebbe affidato.
La sua proposta è stata poi condivisa nel Consiglio Pastorale e tutti i partecipanti hanno approvato l’iniziativa. Il progetto ha visto la sua realizzazione nell’ambito della Prefettura: nove parrocchie hanno collaborato per provvedere alle necessità di diverso genere delle nostre ospiti. Il coinvolgimento della Prefettura e delle Istituzioni civili in maniera stabile e ordinata si può considerare un successo!
Dove risiedono le ragazze?
La provvidenza ha voluto che alcuni ambienti della parrocchia di San Giuseppe al Trionfale si liberassero a causa della scadenza di un contratto di comodato d’uso. Un locale, quindi, è stato destinato alle giovani ospiti.
In questo progetto c’è stato un coinvolgimento dei catechisti e dei ragazzi?
In particolare nella nostra comunità una catechista e una mamma di famiglia si sono rese disponibili per accompagnarle alle visite mediche, agli uffici per ottenere documenti di soggiorno o anche semplicemente per ascoltarle e prendersi cura di loro. Tutta la comunità è a conoscenza del progetto e pian piano il coinvolgimento di tutti sta crescendo.
Riguardo al coinvolgimento delle famiglie della catechesi voglio ricordare anche un secondo progetto che sta portando molti frutti nella nostra comunità.
Di cosa si tratta?
Potremmo dire: “Ero carcerato e mi avete visitato”. Lo scorso anno abbiamo iniziato un progetto di servizio presso il carcere di Regina Caeli grazie alla collaborazione del cappellano, padre Vittorio, che è lì da 40 anni.
Un giorno un magistrato mi ha parlato di lui e ci ha fatto incontrare. Gli ho manifestato il desiderio di poter fare volontariato in carcere. Ho sempre avuto questa attenzione per i detenuti perché il carcere è un luogo bisognoso di umanità, nel quale si deve lavorare perché si trovi amore e si vinca la disumanità.
Ho condiviso l’esperienza con don Wladimiro il quale non ha esitato a intraprendere un progetto di volontariato presso il carcere, visto che più volte ci ha esortato ad andare verso le “periferie” e verso gli ultimi.
Cosa fate in concreto?
Durante l’Avvento e la Quaresima il parroco con un gruppo di circa trenta persone della comunità parrocchiale, ha celebrato la Santa Messa con i detenuti e l’esperienza si ripeterà nel mese di giugno. In ogni occasione si porta sia una ricca merenda da consumare insieme dopo la celebrazione, sia alcuni beni di prima necessità per i detenuti.
Chi si cura dell’acquisto del necessario?
Circa un mese prima della data stabilita per la nostra visita, scriviamo alle famiglie dei bambini e dei ragazzi dell’iniziazione cristiana e chiediamo l’occorrente. Da quel momento inizia la raccolta che viene portata nel carcere il giorno della celebrazione della Santa Messa.
Non vi nascondo che nel mio gruppo di catechismo di preparazione alla Prima Comunione c’è stata inizialmente una certa resistenza a questa iniziativa.
Cosa ti chiedevano i bambini?
“Ma perché ci chiedi di aiutare le persone che hanno fatto del male?”. Non è stato facile all’inizio far capire ai bambini l’importanza del nuovo servizio: c’è voluto un lavoro lungo e sistematico, ma fortunatamente molte famiglie sono state sensibili e disponibili.
La comunità ha partecipato in qualche modo?
Si, gran parte della comunità ha collaborato all’iniziativa perché al rientro dalla casa circondariale di Regina Caeli, durante la Messa dedicata alle famiglie, don Wladimiro ha sempre raccontato l’esperienza vissuta con i detenuti e ha ricordato di pregare per loro.
Un gruppo di parrocchiani ha frequentato anche il corso per poter fare questo genere di volontariato. La presenza dei volontari ci permette di avere un legame costante con quella realtà e creare una collaborazione continua. La sensazione è quella di aver adottato un figlio nella comunità!
Inoltre alcuni gruppi che appartengono alla comunità parrocchiale si sono impegnati per otto settimane a preparare un pranzo completo il mercoledì, all’interno di un progetto che prevede la possibilità per coloro che stanno quasi al termine della pena, di passare la giornata in alcuni luoghi vicini al carcere.
Qual è la cosa più bella che vuoi raccontare?
Come dicevo prima, non è stato immediato per i bambini comprendere per questa iniziativa. Durante la Quaresima, però, abbiamo spesso parlato con loro della sofferenza di Gesù e della sofferenza dell’uomo e più volte la riflessione è caduta sui carcerati.
Alla fine dell’incontro, durante il momento della preghiera spontanea, diversi bambini hanno voluto pregare per i detenuti affinché il Signore Gesù dia loro consolazione con la Sua infinita Misericordia.
Quelle preghiere mi hanno commossa: ho capito la bellezza e la grandezza dell’animo dei bambini e mi sono resa conto che attraverso questo segno d’amore essi possono veramente incontrare Gesù nel povero.
Riprendiamo da Avvenire del 9/4/2016 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/4/2016)
«I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all'atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (Amoris laetitia, n. 2).
Ben detto, tanto per cominciare. E pazienza, aggiungo io, per i giornalisti, che tengono famiglia. Ma gli ecclesiastici, che non la tengono neppure (però ci devono tenere!), per quale motivo si consegnano all' eccitazione mediatica degli opposti fondamentalismi?
Come se, invece che un profondo ripensamento sulla famiglia, la Chiesa avesse semplicemente convocato un tavolo di discussione sulle regole del divorzio. L' autorevole 'restituzione' papale dei lavori sinodali, imprime il sigillo del suo speciale 'valore aggiunto' già con questa puntualizzazione.
Il matrimonio e la famiglia sono una speciale benedizione di Dio per la condizione umana, decisiva per la qualità della umana convivenza, fondamentale per la testimonianza della fede. E questo è il punto.
Il cambio di passo che l'esortazione papale imprime all' atteggiamento della Chiesa è la sua immersione nella concretezza storica di questa benedizione. Non si tratta di mettere a punto un'ipotesi di laboratorio, che ignora le variabili storiche e scarta le sue applicazioni imperfette (siamo perfetti, noi?).
Il pensiero e la prassi cristiana devono abitare e ospitare una realtà che è già vivente, per riconoscere e sostenere in essa i doni della grazia e le incongruenze della storia. L' alleanza della Chiesa e delle famiglie è indissolubile, di diritto e di fatto. La famiglia è parte integrante e preponderante del popolo di Dio: la Chiesa non esisterebbe, e non sarebbe quello che deve essere, senza la famiglia.
Questa complicità - che si dovrà vedere, sentire, toccare - decide il nostro passaggio del Mar Rosso, che ci libera dalla schiavitù degli imperi mondani, restituendoci pienamente, in questa congiuntura di fondamentalismi religiosi, fondamentalismi politici, fondamentalismi tecno-economici, la libertà nella quale «Cristo ci ha liberati».
Questa libertà è libertà dalla fatalità del peccato e dalla rassegnazione al male. Di fatto, oggi, vuol dire libertà di rimanere umani, non solo cristiani. L'alleanza d'amore, durevole e feconda, dell' uomo e della donna, riguarda l'intero del legame sociale.
E fa la storia vera del mondo, non la cronaca rosa dei settimanali. Per assimilare la profonda trasformazione di atteggiamento mentale che ispira lo stile dell' esortazione, mi limito per ora a due cenni. (Con ragione il Papa ha avvertito che il testo andrà ripreso con calma, più volte, per essere interiorizzato nel respiro e nel ritmo della sua meditazione: proprio come deve fare l'interprete di alto profilo con una partitura musicale).
In primo luogo, questo testo è 'un grande racconto', non 'un grande trattato'. Esso si immerge totalmente nella realtà umana della famiglia, facendo lievitare da questa concreta frequentazione la bellezza della forma cristiana che la manifesta e della misericordia divina che la ispira. Non da fuori. Dal cuore. Il cambio di stile, anche in rapporto alla Relatio finale dei Sinodi, è definitivo. L'andamento sapienziale, la concretezza delle dinamiche, la temporalità dei processi, l'atteggiamento di fronte ai fallimenti.
È di qui, e dentro questa storia, che parla il Vangelo (Gesù fece così!): lo scriba evangelico, fedele «discepolo del regno di Dio», è capace di trarre da questo tesoro «cose antiche e cose nuove» (Mt 13, 52).
In secondo luogo, esiste un passaggio a sorpresa, in questa meditazione di papa Francesco, che segna il climax dell'intero testo. Ed è destinato a produrre effetti di lunga durata. Il capitolo quarto, intitolato «L'amore nel matrimonio», è occupato dal luminoso commento, parola per parola, dell'Inno all'amore della Prima Lettera ai Corinzi (13, 4-7), non dal commento al Cantico dei Cantici.
Nel passo di san Paolo si evoca la perfezione suprema dell'amore (la partecipazione dell'agape di Dio) al quale ogni eros deve attingere, per non distruggersi e non distruggere. «L'amore - sintetizza papa Francesco - può mostrare tutta la sua fecondità quando ci permette di sperimentare la felicità del dare, la nobiltà e la grandezza del donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire » (n. 94).
Il matrimonio e la famiglia, nella visione cristiana, non sono un compromesso sentimentale per il quieto vivere: sono la matrice generativa e il banco di prova dell'amore che ci salva la vita. Ogni vita. In qualunque circostanza. La mossa di questo commento, a sorpresa, è tutta di Francesco. Ma non è un espediente retorico.
La mossa rimette la barra della dottrina e della pratica cristiana sulla rotta della rivelazione autentica. E della grazia che l'accompagna, fin dall'alba della creazione dell'uomo e della donna. Una vera rivoluzione profetica, per le nostre abitudini mentali (laiche, ma anche ecclesiastiche) in tema di estetica e di drammatica dell'amore (e del matrimonio). Lo sguardo dell'agape di Dio, sulla bellezza e sulle contraddizioni di eros, è incomparabilmente più profondo, più concreto, più fine del nostro.
Riprendiamo sul nostro sito l’Esortazione Apostolica postsinodale Amoris Laetitia del Santo Padre Francesco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni Educazione e famiglia e Famiglia, affettività e sessualità.
Il Centro culturale Gli scritti (9/3/2016)
Esortazione Apostolica postsinodale Amoris Laetitia del Santo Padre Francesco ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate, agli sposi cristiani e a tutti i fedeli laici sull’amore nella famiglia
Indice
INTRODUZIONE
La gioia dell’amore
1. La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. Come hanno indicato i Padri sinodali, malgrado i numerosi segni di crisi del matrimonio, «il desiderio di famiglia resta vivo, in specie fra i giovani, e motiva la Chiesa»[1]. Come risposta a questa aspirazione «l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia»[2].
2. Il cammino sinodale ha permesso di porre sul tappeto la situazione delle famiglie nel mondo attuale, di allargare il nostro sguardo e di ravvivare la nostra consapevolezza sull’importanza del matrimonio e della famiglia. Al tempo stesso, la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza. I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche.
3. Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, «le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato»[3].
4. In ogni modo, devo dire che il cammino sinodale ha portato in sé una grande bellezza e ha offerto molta luce. Ringrazio per i tanti contributi che mi hanno aiutato a considerare i problemi delle famiglie del mondo in tutta la loro ampiezza. L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere. Perciò ho ritenuto opportuno redigere una Esortazione Apostolica postsinodale che raccolga contributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà.
5. Questa Esortazione acquista un significato speciale nel contesto di questo Anno Giubilare della Misericordia. In primo luogo, perché la intendo come una proposta per le famiglie cristiane, che le stimoli a stimare i doni del matrimonio e della famiglia, e a mantenere un amore forte e pieno di valori quali la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza. In secondo luogo, perché si propone di incoraggiare tutti ad essere segni di misericordia e di vicinanza lì dove la vita familiare non si realizza perfettamente o non si svolge con pace e gioia.
6. Nello sviluppo del testo, comincerò con un’apertura ispirata alle Sacre Scritture, che conferisca un tono adeguato. A partire da lì considererò la situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra. Poi ricorderò alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia, per fare spazio così ai due capitoli centrali, dedicati all’amore. In seguito metterò in rilievo alcune vie pastorali che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio, e dedicherò un capitolo all’educazione dei figli. Quindi mi soffermerò su un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone, e infine traccerò brevi linee di spiritualità familiare.
7. A causa della ricchezza dei due anni di riflessioni che ha apportato il cammino sinodale, la presente Esortazione affronta, con stili diversi, molti e svariati temi. Questo spiega la sua inevitabile estensione. Perciò non consiglio una lettura generale affrettata. Potrà essere meglio valorizzata, sia dalle famiglie sia dagli operatori di pastorale familiare, se la approfondiranno pazientemente una parte dopo l’altra, o se vi cercheranno quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta. È probabile, ad esempio, che i coniugi si riconoscano di più nei capitoli quarto e quinto, che gli operatori pastorali abbiano particolare interesse per il capitolo sesto, e che tutti si vedano molto interpellati dal capitolo ottavo. Spero che ognuno, attraverso la lettura, si senta chiamato a prendersi cura con amore della vita delle famiglie, perché esse «non sono un problema, sono principalmente un’opportunità»[4].
CAPITOLO PRIMO
ALLA LUCE DELLA PAROLA
8. La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr Gen 4), fino all’ultima pagina dove appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr Ap 21,2.9). Le due case che Gesù descrive, costruite sulla roccia o sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27), rappresentano tante situazioni familiari, create dalla libertà di quanti vi abitano, perché, come scrive il poeta, «ogni casa è un candelabro»[5]. Entriamo ora in una di queste case, guidati dal Salmista, attraverso un canto che ancora oggi si proclama sia nella liturgia nuziale ebraica sia in quella cristiana:
«Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!» (Sal 128,1-6).
Tu e la tua sposa
9. Varchiamo dunque la soglia di questa casa serena, con la sua famiglia seduta intorno alla mensa festiva. Al centro troviamo la coppia del padre e della madre con tutta la loro storia d’amore. In loro si realizza quel disegno primordiale che Cristo stesso evoca con intensità: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina?» (Mt 19,4). E riprende il mandato del Libro della Genesi: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24).
10. I due grandiosi capitoli iniziali della Genesi ci offrono la rappresentazione della coppia umana nella sua realtà fondamentale. In quel testo iniziale della Bibbia brillano alcune affermazioni decisive. La prima, citata sinteticamente da Gesù, afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (1,27). Sorprendentemente, l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Questo significa che Dio stesso è sessuato o che lo accompagna una compagna divina, come credevano alcune religioni antiche? Ovviamente no, perché sappiamo con quanta chiarezza la Bibbia ha respinto come idolatriche queste credenze diffuse tra i cananei della Terra Santa. Si preserva la trascendenza di Dio, ma, dato che è al tempo stesso il Creatore, la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore.
11. La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio (cfr Gen 1,28; 9,7; 17,2-5.16; 28,3; 35,11; 48,3-4). A questo si deve che la narrazione del Libro della Genesi, seguendo la cosiddetta “tradizione sacerdotale”, sia attraversata da varie sequenze genealogiche (cfr 4,17-22.25-26; 5; 10; 11,10-32; 25,1-4.12-17.19-26; 36): infatti la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente. Ci illuminano le parole di san Giovanni Paolo II: «Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo»[6]. La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina[7]. Questo aspetto trinitario della coppia ha una nuova rappresentazione nella teologia paolina quando l’Apostolo la mette in relazione con il “mistero” dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,21-33).
12. Ma Gesù, nella sua riflessione sul matrimonio, ci rimanda a un’altra pagina del Libro della Genesi, il capitolo 2, dove appare un mirabile ritratto della coppia con dettagli luminosi. Ne scegliamo solo due. Il primo è l’inquietudine dell’uomo che cerca «un aiuto che gli corrisponda» (vv. 18.20), capace di risolvere quella solitudine che lo disturba e che non è placata dalla vicinanza degli animali e di tutto il creato. L’espressione originale ebraica ci rimanda a una relazione diretta, quasi “frontale” – gli occhi negli occhi – in un dialogo anche tacito, perché nell’amore i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. È l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino ed è «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio» (Sir 36,26), come dice un saggio biblico. O anche come esclamerà la sposa del Cantico dei Cantici in una stupenda professione d’amore e di donazione nella reciprocità: «Il mio amato è mio e io sono sua […] Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3).
13. Da questo incontro che guarisce la solitudine sorgono la generazione e la famiglia. Questo è il secondo dettaglio che possiamo rilevare: Adamo, che è anche l’uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta, insieme con sua moglie dà origine a una nuova famiglia, come ripete Gesù citando la Genesi: «Si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Mt 19,5; cfr Gen 2,24). Il verbo “unirsi” nell’originale ebraico indica una stretta sintonia, un’adesione fisica e interiore, fino al punto che si utilizza per descrivere l’unione con Dio: «A te si stringe l’anima mia» (Sal 63,9), canta l’orante. Si evoca così l’unione matrimoniale non solamente nella sua dimensione sessuale e corporea, ma anche nella sua donazione volontaria d’amore. Il frutto di questa unione è “diventare un’unica carne”, sia nell’abbraccio fisico, sia nell’unione dei due cuori e della vita e, forse, nel figlio che nascerà dai due, il quale porterà in sé, unendole sia geneticamente sia spiritualmente, le due “carni”.
I tuoi figli come virgulti d’ulivo
14. Riprendiamo il canto del Salmista. In esso compaiono, dentro la casa dove l’uomo e la sua sposa sono seduti a mensa, i figli, che li accompagnano «come virgulti d’ulivo» (Sal 128,3), ossia pieni di energia e di vitalità. Se i genitori sono come le fondamenta della casa, i figli sono come le “pietre vive” della famiglia (cfr 1 Pt 2,5). È significativo che nell’Antico Testamento la parola che compare più volte dopo quella divina (YHWH, il “Signore”) è “figlio” (ben), un vocabolo che rimanda al verbo ebraico che significa “costruire” (banah). Per questo nel Salmo 127 si esalta il dono dei figli con immagini che si riferiscono sia all’edificazione di una casa, sia alla vita sociale e commerciale che si svolgeva presso la porta della città: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori […] Ecco eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici» (vv. 1.3-5). È vero che queste immagini riflettono la cultura di una società antica, però la presenza dei figli è in ogni caso un segno di pienezza della famiglia nella continuità della medesima storia della salvezza, di generazione in generazione.
15. In questa prospettiva possiamo porre un’altra dimensione della famiglia. Sappiamo che nel Nuovo Testamento si parla della “Chiesa che si riunisce nella casa” (cfr 1 Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2). Lo spazio vitale di una famiglia si poteva trasformare in chiesa domestica, in sede dell’Eucaristia, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa. Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Così si delinea una casa che porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore. È ciò che si afferma nel Salmo 128 che abbiamo preso come base: «Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion» (vv. 4-5).
16. La Bibbia considera la famiglia anche come la sede della catechesi dei figli. Questo brilla nella descrizione della celebrazione pasquale (cfr Es 12,26-27; Dt 6,20-25), e in seguito fu esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella narrazione dialogica che accompagna il rito della cena pasquale. Ancora di più, un Salmo esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli» (78,3-6). Pertanto, la famiglia è il luogo dove i genitori diventano i primi maestri della fede per i loro figli. È un compito “artigianale”, da persona a persona: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà […] tu gli risponderai…» (Es 13,14). Così le diverse generazioni intoneranno il loro canto al Signore, «i giovani e le ragazze, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12).
17. I genitori hanno il dovere di compiere con serietà lo loro missione educativa, come insegnano spesso i sapienti della Bibbia (cfr Pr 3,11-12; 6,20-22; 13,1; 22,15; 23,13-14; 29,17). I figli sono chiamati ad accogliere e praticare il comandamento: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove il verbo “onorare” indica l’adempimento degli impegni familiari e sociali nella loro pienezza, senza trascurarli con pretese scusanti religiose (cfr Mc 7,11-13). Infatti, «chi onora il padre espia i peccati, chi onora sua madre è come chi accumula tesori» (Sir 3,3-4).
18. Il Vangelo ci ricorda anche che i figli non sono una proprietà della famiglia, ma hanno davanti il loro personale cammino di vita. Se è vero che Gesù si presenta come modello di obbedienza ai suoi genitori terreni, stando loro sottomesso (cfr Lc 2,51), è pure certo che Egli mostra che la scelta di vita del figlio e la sua stessa vocazione cristiana possono esigere un distacco per realizzare la propria dedizione al Regno di Dio (cfr Mt 10,34-37; Lc 9,59-62). Di più, Egli stesso, a dodici anni, risponde a Maria e a Giuseppe che ha una missione più alta da compiere al di là della sua famiglia storica (cfr Lc 2,48-50). Perciò esalta la necessità di altri legami più profondi anche dentro le relazioni familiari: «Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). D’altra parte, nell’attenzione che Egli riserva ai bambini – considerati nella società del Vicino Oriente antico come soggetti privi di diritti particolari e come parte della proprietà familiare – Gesù arriva al punto di presentarli agli adulti quasi come maestri, per la loro fiducia semplice e spontanea verso gli altri: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3-4).
Un sentiero di sofferenza e di sangue
19. L’idillio presentato dal Salmo 128 non nega una realtà amara che segna tutte le Sacre Scritture. È la presenza del dolore, del male, della violenza che lacerano la vita della famiglia e la sua intima comunione di vita e di amore. Non per nulla il discorso di Cristo sul matrimonio (cfr Mt 19,3-9) è inserito all’interno di una disputa sul divorzio. La Parola di Dio è testimone costante di questa dimensione oscura che si apre già all’inizio quando, con il peccato, la relazione d’amore e di purezza tra l’uomo e la donna si trasforma in un dominio: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Gen 3,16).
20. È un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele e dai vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. […] Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (Gb 19,13.17).
21. Gesù stesso nasce in una famiglia modesta, che ben presto deve fuggire in una terra straniera. Egli entra nella casa di Pietro dove la suocera di lui giace malata (cfr Mc 1,30-31); si lascia coinvolgere nel dramma della morte nella casa di Giairo e in quella di Lazzaro (cfr Mc 5,22-24.35-43; Gv 11,1-44); ascolta il grido disperato della vedova di Nain davanti a suo figlio morto (cfr Lc 7,11-15); accoglie l’invocazione del padre dell’epilettico in un piccolo villaggio di campagna (cfr Mc 9,17-27). Incontra pubblicani come Matteo e Zaccheo nelle loro case (cfr Mt 9,9-13; Lc 19,1-10), e anche peccatori, come la donna che irrompe nella casa del fariseo (cfr Lc 7,36-50). Conosce le ansie e le tensioni delle famiglie e le inserisce nelle sue parabole: dai figli che se ne vanno di casa in cerca di avventura (cfr Lc 15,11-32) fino ai figli difficili con comportamenti inspiegabili (cfr Mt 21,28-31) o vittime della violenza (cfr Mc 12,1-9). E ancora si preoccupa per le nozze che corrono il rischio di risultare imbarazzanti per la mancanza di vino (cfr Gv 2,1-10) o per la latitanza degli invitati (cfr Mt 22,1-10), come pure conosce l’incubo per la perdita di una moneta in una famiglia povera (cfr Lc 15,8-10).
22. In questo breve percorso possiamo riscontrare che la Parola di Dio non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino, quando Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4).
La fatica delle tue mani
23. All’inizio del Salmo 128, si presenta il padre come un lavoratore, che con l’opera delle sue mani può sostenere il benessere fisico e la serenità della sua famiglia: «Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene» (v. 2). Che il lavoro sia una parte fondamentale della dignità della vita umana, lo si deduce dalle prime pagine della Bibbia, quando si dice che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). È la rappresentazione del lavoratore che trasforma la materia e sfrutta le energie del creato, producendo il «pane di fatica» (Sal 127,2), oltre a coltivare sé stesso.
24. Il lavoro rende possibile nello stesso tempo lo sviluppo della società, il sostentamento della famiglia e anche la sua stabilità e la sua fecondità: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (Sal 128,5-6). Nel Libro dei Proverbi si presenta anche il compito della madre di famiglia, il cui lavoro viene descritto in tutte le sue particolarità quotidiane, attirando la lode dello sposo e dei figli (cfr 31,10-31). Lo stesso apostolo Paolo si mostrava orgoglioso di aver vissuto senza essere di peso per gli altri, perché lavorò con le sue mani assicurandosi così il sostentamento (cfr At 18,3; 1 Cor 4,12; 9,12). Era talmente convinto della necessità del lavoro, che stabilì una ferrea norma per le sue comunità: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,10; cfr 1 Ts 4,11).
25. Detto questo, si capisce come la disoccupazione e la precarietà lavorativa diventino sofferenza, come si registra nel piccolo Libro di Rut e come ricorda Gesù nella parabola dei lavoratori che stanno seduti, in un ozio forzato, nella piazza del paese (cfr Mt 20,1-16), o come Egli sperimenta nel fatto stesso di essere tante volte circondato da bisognosi e affamati. È ciò che la società sta vivendo tragicamente in molti paesi, e questa mancanza di lavoro colpisce in diversi modi la serenità delle famiglie.
26. Nemmeno possiamo dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando l’essere umano si comporta come tiranno nei confronti della natura, devastandola, usandola in modo egoistico e persino brutale. Le conseguenze sono al tempo stesso la desertificazione del suolo (cfr Gen 3,17-19) e gli squilibri economici e sociali, contro i quali si leva con chiarezza la voce dei profeti, da Elia (cfr 1 Re 21) fino alle parole che Gesù stesso pronuncia contro l’ingiustizia (cfr Lc 12,13-21; 16,1-31).
La tenerezza dell’abbraccio
27. Cristo ha introdotto come segno distintivo dei suoi discepoli soprattutto la legge dell’amore e del dono di sé agli altri (cfr Mt22,39; Gv 13,34), e l’ha fatto attraverso un principio che un padre e una madre sono soliti testimoniare nella propria esistenza: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Frutto dell’amore sono anche la misericordia e il perdono. In questa linea, è molto emblematica la scena che mostra un’adultera sulla spianata del tempio di Gerusalemme, circondata dai suoi accusatori, e poi sola con Gesù che non la condanna e la invita ad una vita più dignitosa (cfr Gv 8,1-11).
28. Nell’orizzonte dell’amore, essenziale nell’esperienza cristiana del matrimonio e della famiglia, risalta anche un’altra virtù, piuttosto ignorata in questi tempi di relazioni frenetiche e superficiali: la tenerezza. Ricorriamo al dolce e intenso Salmo 131. Come si riscontra anche in altri testi (cfr Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), l’unione tra il fedele e il suo Signore si esprime con tratti dell’amore paterno e materno. Qui appare la delicata e tenera intimità che esiste tra la madre e il suo bambino, un neonato che dorme in braccio a sua madre dopo essere stato allattato. Si tratta – come indica la parola ebraica gamul – di un bambino già svezzato, che si afferra coscientemente alla madre che lo porta al suo petto. È dunque un’intimità consapevole e non meramente biologica. Perciò il salmista canta: «Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Parallelamente, possiamo rifarci ad un’altra scena, là dove il profeta Osea pone in bocca a Dio come padre queste parole commoventi: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato […] (gli) insegnavo a camminare tenendolo per mano […] Io lo traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1.3-4).
29. Con questo sguardo, fatto di fede e di amore, di grazia e di impegno, di famiglia umana e di Trinità divina, contempliamo la famiglia che la Parola di Dio affida nelle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché formino una comunione di persone che sia immagine dell’unione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’attività generativa ed educativa è, a sua volta, un riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera quotidiana, la lettura della Parola di Dio e la comunione eucaristica per far crescere l’amore e convertirsi sempre più in tempio dove abita lo Spirito.
30. Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio.
CAPITOLO SECONDO
LA REALTÀ E LE SFIDE DELLE FAMIGLIE
31. Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa. Sono innumerevoli le analisi che si sono fatte sul matrimonio e la famiglia, sulle loro difficoltà e sfide attuali. È sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché «le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia», attraverso i quali «la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell'inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia»[8]. Non pretendo di presentare qui tutto ciò che si potrebbe dire circa i diversi temi relativi alla famiglia nel contesto attuale. Ma poiché i Padri sinodali hanno apportato uno sguardo sulla realtà delle famiglie di tutto il mondo, ritengo opportuno raccogliere alcuni dei loro contributi pastorali, aggiungendo altre preoccupazioni che provengono dal mio proprio sguardo.
La situazione attuale della famiglia
32. « Fedeli all’insegnamento di Cristo guardiamo alla realtà della famiglia oggi in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre. […] Il cambiamento antropologico-culturale influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato»[9]. Nel contesto di vari decenni fa, i Vescovi di Spagna riconoscevano già una realtà domestica con maggiori spazi di libertà, «con un’equa ripartizione di incarichi, responsabilità e compiti […] Valorizzando di più la comunicazione personale tra gli sposi, si contribuisce a umanizzare l’intera convivenza familiare […] Né la società in cui viviamo né quella verso la quale camminiamo permettono la sopravvivenza indiscriminata di forme e modelli del passato»[10]. Ma «siamo consapevoli dell’orientamento principale dei cambiamenti antropologico-culturali, in ragione dei quali gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali nella loro vita affettiva e familiare»[11].
33. D’altra parte, «bisogna egualmente considerare il crescente pericolo rappresentato da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un'isola, facendo prevalere, in certi casi, l'idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto»[12]. «Le tensioni indotte da una esasperata cultura individualistica del possesso e del godimento generano all’interno delle famiglie dinamiche di insofferenza e di aggressività»[13].Vorrei aggiungere il ritmo della vita attuale, lo stress, l’organizzazione sociale e lavorativa, perché sono fattori culturali che mettono a rischio la possibilità di scelte permanenti. Nello stesso tempo troviamo fenomeni ambigui. Per esempio, si apprezza una personalizzazione che punta sull’autenticità invece che riprodurre comportamenti prestabiliti. È un valore che può promuovere le diverse capacità e la spontaneità, ma che, orientato male, può creare atteggiamenti di costante diffidenza, fuga dagli impegni, chiusura nella comodità, arroganza. La libertà di scegliere permette di proiettare la propria vita e coltivare il meglio di sé, ma, se non ha obiettivi nobili e disciplina personale, degenera in una incapacità di donarsi generosamente. Di fatto, in molti paesi dove diminuisce il numero di matrimoni, cresce il numero di persone che decidono di vivere sole, o che convivono senza coabitare. Possiamo rilevare anche un lodevole senso di giustizia; però, se male inteso, esso trasforma i cittadini in clienti che pretendono soltanto la prestazione di servizi.
34. Se questi rischi si trasferiscono al modo di intendere la famiglia, questa può trasformarsi in un luogo di passaggio, al quale ci si rivolge quando pare conveniente per sé, o dove si va a reclamare diritti, mentre i vincoli rimangono abbandonati alla precarietà volubile dei desideri e delle circostanze. In fondo, oggi è facile confondere la genuina libertà con l’idea che ognuno giudica come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, valori, principi che ci orientino, come se tutto fosse uguale e si dovesse permettere qualsiasi cosa. In tale contesto, l’ideale matrimoniale, con un impegno di esclusività e di stabilità, finisce per essere distrutto dalle convenienze contingenti o dai capricci della sensibilità. Si teme la solitudine, si desidera uno spazio di protezione e di fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali.
35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro.
36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.
37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle.
38. Dobbiamo ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il rispetto all’altro. Perciò si apprezza che la Chiesa offra spazi di accompagnamento e di assistenza su questioni connesse alla crescita dell’amore, al superamento dei conflitti e all’educazione dei figli. Molti stimano la forza della grazia che sperimentano nella Riconciliazione sacramentale e nell’Eucaristia, che permette loro di sostenere le sfide del matrimonio e della famiglia. In alcuni paesi, specialmente in diverse parti dell’Africa, il secolarismo non è riuscito a indebolire alcuni valori tradizionali e in ogni matrimonio si produce una forte unione tra due famiglie allargate, dove ancora si mantiene un sistema ben definito di gestione di conflitti e difficoltà. Nel mondo attuale si apprezza anche la testimonianza dei coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma continuano a portare avanti un progetto comune e conservano l’affetto. Questo apre la porta a una pastorale positiva, accogliente, che rende possibile un approfondimento graduale delle esigenze del Vangelo. Tuttavia, molte volte abbiamo agito con atteggiamento difensivo e sprechiamo le energie pastorali moltiplicando gli attacchi al mondo decadente, con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità. Molti non percepiscono che il messaggio della Chiesa sul matrimonio e la famiglia sia stato un chiaro riflesso della predicazione e degli atteggiamenti di Gesù, il quale nel contempo proponeva un ideale esigente e non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la samaritana o la donna adultera.
39. Questo non significa non riconoscere più la decadenza culturale che non promuove l’amore e la dedizione. Le consultazioni previe ai due ultimi Sinodi hanno fatto emergere diversi sintomi della “cultura del provvisorio”. Mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio. Il narcisismo rende le persone incapaci di guardare al di là di sé stesse, dei propri desideri e necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato, manipolato e abbandonato con la stessa logica. È degno di nota il fatto che le rotture dei legami avvengono molte volte tra persone adulte che cercano una sorta di “autonomia” e rifiutano l’ideale di invecchiare insieme prendendosi cura l’uno dell’altro e sostenendosi.
40. «A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia»[14]. In alcuni paesi, molti giovani «spesso sono indotti a rimandare le nozze per problemi di tipo economico, lavorativo o di studio. Talora anche per altri motivi, come l’influenza delle ideologie che svalutano il matrimonio e la famiglia, l’esperienza del fallimento di altre coppie che essi non vogliono rischiare, il timore verso qualcosa che considerano troppo grande e sacro, le opportunità sociali ed i vantaggi economici che derivano dalla convivenza, una concezione meramente emotiva e romantica dell’amore, la paura di perdere la libertà e l’autonomia, il rifiuto di qualcosa concepito come istituzionale e burocratico»[15]. Abbiamo bisogno di trovare le parole, le motivazioni e le testimonianze che ci aiutino a toccare le fibre più intime dei giovani, là dove sono più capaci di generosità, di impegno, di amore e anche di eroismo, per invitarli ad accettare con entusiasmo e coraggio la sfida del matrimonio.
41. I Padri sinodali hanno fatto riferimento alle attuali «tendenze culturali che sembrano imporre un’affettività senza limiti, […] un’affettività narcisistica, instabile e mutevole che non aiuta sempre i soggetti a raggiungere una maggiore maturità». Si sono detti preoccupati per «una certa diffusione della pornografia e della commercializzazione del corpo, favorita anche da un uso distorto di internet» e per la «situazione di quelle persone che sono obbligate a praticare la prostituzione». In questo contesto, «le coppie sono talvolta incerte, esitanti e faticano a trovare i modi per crescere. Molti sono quelli che tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale. La crisi della coppia destabilizza la famiglia e può arrivare attraverso le separazioni e i divorzi a produrre serie conseguenze sugli adulti, i figli e la società, indebolendo l’individuo e i legami sociali»[16]. Le crisi coniugali frequentemente si affrontano «in modo sbrigativo e senza il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio. I fallimenti danno, così, origine a nuove relazioni, nuove coppie, nuove unioni e nuovi matrimoni, creando situazioni famigliari complesse e problematiche per la scelta cristiana»[17].
42. «Anche il calo demografico, dovuto ad una mentalità antinatalista e promosso dalle politiche mondiali di salute riproduttiva, non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire. Lo sviluppo delle biotecnologie ha avuto anch’esso un forte impatto sulla natalità»[18]. Possono aggiungersi altri fattori come «l’industrializzazione, la rivoluzione sessuale, il timore della sovrappopolazione, i problemi economici, […]. La società dei consumi può anche dissuadere le persone dall’avere figli anche solo per mantenere la loro libertà e il proprio stile di vita»[19]. È vero che la retta coscienza degli sposi, quando sono stati molto generosi nella trasmissione della vita, può orientarli alla decisione di limitare il numero dei figli per motivi sufficientemente seri, ma sempre «per amore di questa dignità della coscienza la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto»[20]. Tali misure sono inaccettabili anche in luoghi con alto tasso di natalità, ma è da rilevare che i politici le incoraggiano anche in alcuni paesi che soffrono il dramma di un tasso di natalità molto basso. Come hanno indicato i Vescovi della Corea, questo è «agire in un modo contraddittorio e venendo meno al proprio dovere»[21].
43. L’indebolimento della fede e della pratica religiosa in alcune società ha effetti sulle famiglie e le lascia più sole con le loro difficoltà. I Padri hanno affermato che «una delle più grandi povertà della cultura attuale è la solitudine, frutto dell’assenza di Dio nella vita delle persone e della fragilità delle relazioni. C’è anche una sensazione generale di impotenza nei confronti della realtà socio-economica che spesso finisce per schiacciare le famiglie. […] Spesso le famiglie si sentono abbandonate per il disinteresse e la poca attenzione da parte delle istituzioni. Le conseguenze negative dal punto di vista dell’organizzazione sociale sono evidenti: dalla crisi demografica alle difficoltà educative, dalla fatica nell’accogliere la vita nascente all’avvertire la presenza degli anziani come un peso, fino al diffondersi di un disagio affettivo che arriva talvolta alla violenza. È responsabilità dello Stato creare le condizioni legislative e di lavoro per garantire l’avvenire dei giovani e aiutarli a realizzare il loro progetto di fondare una famiglia»[22].
44. La mancanza di una abitazione dignitosa o adeguata porta spesso a rimandare la formalizzazione di una relazione. Occorre ricordare che «la famiglia ha il diritto a un’abitazione decente, adatta per la vita della famiglia e proporzionata al numero dei membri, in un ambiente che provveda i servizi di base per la vita della famiglia e della comunità»[23]. Una famiglia e una casa sono due cose che si richiamano a vicenda. Questo esempio mostra che dobbiamo insistere sui diritti della famiglia, e non solo sui diritti individuali. La famiglia è un bene da cui la società non può prescindere, ma ha bisogno di essere protetta[24]. La difesa di questi diritti è «un appello profetico in favore dell'istituzione familiare, la quale deve essere rispettata e difesa da tutte le usurpazioni»[25], soprattutto nel contesto attuale dove solitamente occupa poco spazio nei progetti politici. Le famiglie hanno, tra gli altri diritti, quello di «poter fare assegnamento su una adeguata politica familiare da parte delle pubbliche autorità nell'ambito giuridico, economico, sociale e fiscale»[26]. A volte sono drammatiche le angustie delle famiglie quando, in presenza della malattia di una persona cara, non hanno accesso a servizi sanitari adeguati, o quando si prolunga il tempo senza che si ottenga un impiego dignitoso. «Le coercizioni economiche escludono l’accesso delle famiglie all’educazione, alla vita culturale e alla vita sociale attiva. L’attuale sistema economico produce diverse forme di esclusione sociale. Le famiglie soffrono in modo particolare i problemi che riguardano il lavoro. Le possibilità per i giovani sono poche e l’offerta di lavoro è molto selettiva e precaria. Le giornate lavorative sono lunghe e spesso appesantite da lunghi tempi di trasferta. Questo non aiuta i familiari a ritrovarsi tra loro e con i figli, in modo da alimentare quotidianamente le loro relazioni»[27].
45. «Molti sono i bambini che nascono fuori dal matrimonio, specie in alcuni Paesi, e molti quelli che poi crescono con uno solo dei genitori o in un contesto familiare allargato o ricostituito. […] Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Anche le società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, vedono situazioni familiari deteriorate e soprattutto nelle grandi metropoli e nelle loro periferie cresce il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada»[28]. L’abuso sessuale dei bambini diventa ancora più scandaloso quando avviene in luoghi dove essi devono essere protetti, particolarmente nelle famiglie, nelle scuole e nelle comunità e istituzioni cristiane[29].
46. Le migrazioni «rappresentano un altro segno dei tempi da affrontare e comprendere con tutto il carico di conseguenze sulla vita familiare»[30]. L’ultimo Sinodo ha dato una grande importanza a questa problematica, affermando che «tocca, con modalità differenti, intere popolazioni, in diverse parti del mondo. La Chiesa ha esercitato in questo campo un ruolo di primo piano. La necessità di mantenere e sviluppare questa testimonianza evangelica (cf. Mt 25,35) appare oggi più che mai urgente. […] La mobilità umana, che corrisponde al naturale movimento storico dei popoli, può rivelarsi un’autentica ricchezza tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie. Altra cosa è la migrazione forzata delle famiglie, frutto di situazioni di guerra, di persecuzione, di povertà, di ingiustizia, segnata dalle peripezie di un viaggio che mette spesso in pericolo la vita, traumatizza le persone e destabilizza le famiglie. L’accompagnamento dei migranti esige una pastorale specifica rivolta alle famiglie in migrazione, ma anche ai membri dei nuclei familiari rimasti nei luoghi d’origine. Ciò deve essere attuato nel rispetto delle loro culture, della formazione religiosa ed umana da cui provengono, della ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni, anche mediante una cura pastorale specifica. […] Le migrazioni appaiono particolarmente drammatiche e devastanti per le famiglie e per gli individui quando hanno luogo al di fuori della legalità e sono sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani. Lo stesso può dirsi quando riguardano donne o bambini non accompagnati, costretti a soggiorni prolungati nei luoghi di passaggio, nei campi profughi, dove è impossibile avviare un percorso di integrazione. La povertà estrema e altre situazioni di disgregazione inducono talvolta le famiglie perfino a vendere i propri figli per la prostituzione o per il traffico di organi»[31]. «Le persecuzioni dei cristiani, come anche quelle di minoranze etniche e religiose, in diverse parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, rappresentano una grande prova: non solo per la Chiesa, ma anche per l’intera comunità internazionale. Ogni sforzo va sostenuto per favorire la permanenza di famiglie e comunità cristiane nelle loro terre di origine»[32].
47. I Padri hanno dedicato speciale attenzione anche «alle famiglie delle persone con disabilità, in cui l’handicap, che irrompe nella vita, genera una sfida, profonda e inattesa, e sconvolge gli equilibri, i desideri, le aspettative. […] Meritano grande ammirazione le famiglie che accettano con amore la difficile prova di un figlio disabile. Esse danno alla Chiesa e alla società una testimonianza preziosa di fedeltà al dono della vita. La famiglia potrà scoprire, insieme alla comunità cristiana, nuovi gesti e linguaggi, forme di comprensione e di identità, nel cammino di accoglienza e cura del mistero della fragilità. Le persone con disabilità costituiscono per la famiglia un dono e un’opportunità per crescere nell’amore, nel reciproco aiuto e nell’unità. […] La famiglia che accetta con lo sguardo della fede la presenza di persone con disabilità potrà riconoscere e garantire la qualità e il valore di ogni vita, con i suoi bisogni, i suoi diritti e le sue opportunità. Essa solleciterà servizi e cure, e promuoverà compagnia ed affetto, in ogni fase della vita»[33]. Desidero sottolineare che l’attenzione dedicata tanto ai migranti quanto alle persone con disabilità è un segno dello Spirito. Infatti entrambe le situazioni sono paradigmatiche: mettono specialmente in gioco il modo in cui si vive oggi la logica dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili.
48. «La maggior parte delle famiglie rispetta gli anziani, li circonda di affetto e li considera una benedizione. Uno speciale apprezzamento va alle associazioni e ai movimenti familiari che operano in favore degli anziani, sotto l’aspetto spirituale e sociale […]. Nelle società altamente industrializzate, ove il loro numero tende ad aumentare mentre decresce la natalità, essi rischiano di essere percepiti come un peso. D’altra parte le cure che essi richiedono mettono spesso a dura prova i loro cari»[34]. «La valorizzazione della fase conclusiva della vita è oggi tanto più necessaria quanto più si tenta di rimuovere in ogni modo il momento del trapasso. La fragilità e dipendenza dell’anziano talora vengono sfruttate iniquamente per mero vantaggio economico. Numerose famiglie ci insegnano che è possibile affrontare le ultime tappe della vita valorizzando il senso del compimento e dell’integrazione dell’intera esistenza nel mistero pasquale. Un gran numero di anziani è accolto in strutture ecclesiali dove possono vivere in un ambiente sereno e familiare sul piano materiale e spirituale. L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. La loro pratica è legale in molti Stati. La Chiesa, mentre contrasta fermamente queste prassi, sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati»[35].
49. Voglio mettere in risalto la situazione delle famiglie schiacciate dalla miseria, penalizzate in tanti modi, dove i limiti della vita si vivono in maniera lacerante. Se tutti incontrano difficoltà, in una casa molto povera queste diventano più dure[36]. Per esempio, se una donna deve allevare suo figlio da sola, per una separazione o per altre cause, e deve lavorare senza la possibilità di lasciarlo a un’altra persona, lui cresce in un abbandono che lo espone ad ogni tipo di rischio, e la sua maturazione personale resta compromessa. Nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio. In tal modo, invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in «pietre morte da scagliare contro gli altri»[37].
Alcune sfide
50. Le risposte ricevute alle due consultazioni, effettuate durante il cammino sinodale, hanno menzionato le più diverse situazioni che pongono nuove sfide. Oltre a quelle già indicate, molti si sono riferiti alla funzione educativa, che si trova in difficoltà perché, tra le altre cause, i genitori tornano a casa stanchi e senza voglia di parlare, in tante famiglie non c’è più nemmeno l’abitudine di mangiare insieme, e cresce una gran varietà di offerte di distrazioni oltre la dipendenza dalla televisione. Questo rende difficile la trasmissione della fede da genitori a figli. Altri hanno segnalato che le famiglie sono spesso malate di un’enorme ansietà. Sembra che siano più preoccupate di prevenire problemi futuri che di condividere il presente. Questo, che è una questione culturale, si aggrava a causa di un futuro professionale incerto, dell’insicurezza economica, o del timore per l’avvenire dei figli.
51. È stata menzionata anche la tossicodipendenza come una delle piaghe della nostra epoca, che fa soffrire molte famiglie, e non di rado finisce per distruggerle. Qualcosa di simile succede con l’alcolismo, il gioco e altre dipendenze. La famiglia potrebbe essere il luogo della prevenzione e delle buone regole, ma la società e la politica non arrivano a capire che una famiglia a rischio «perde la capacità di reazione per aiutare i suoi membri […] Notiamo le gravi conseguenze di questa rottura in famiglie distrutte, figli sradicati, anziani abbandonati, bambini orfani di genitori vivi, adolescenti e giovani disorientati e senza regole»[38]. Come hanno indicato i Vescovi del Messico, ci sono tristi situazioni di violenza familiare che sono terreno fertile per nuove forme di aggressività sociale, perché «le relazioni familiari spiegano anche la predisposizione a una personalità violenta. Le famiglie che influiscono in tal senso sono quelle che mancano di comunicazione; quelle in cui predominano atteggiamenti difensivi e i membri non si appoggiano tra loro; in cui non ci sono attività familiari che favoriscano la partecipazione; in cui le relazioni dei genitori tra loro sono spesso conflittuali e violente, e quelle genitori-figli si caratterizzano per atteggiamenti ostili. La violenza intrafamiliare è scuola di risentimento e di odio nelle relazioni umane fondamentali»[39].
52. Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società. Accade il contrario: pregiudica la maturazione delle persone, la cura dei valori comunitari e lo sviluppo etico delle città e dei villaggi. Non si avverte più con chiarezza che solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità. Dobbiamo riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita, ma le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio, non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio. Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società. Ma chi si occupa oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?
53. «In alcune società vige ancora la pratica della poligamia; in altri contesti permane la pratica dei matrimoni combinati. […] In molti contesti, e non solo occidentali, si va diffondendo ampiamente la prassi della convivenza che precede il matrimonio o anche quella di convivenze non orientate ad assumere la forma di un vincolo istituzionale»[40]. In diversi paesi la legislazione facilita lo sviluppo di una molteplicità di alternative, così che un matrimonio connotato da esclusività, indissolubilità e apertura alla vita finisce per apparire una proposta antiquata tra molte altre. Avanza in molti paesi una decostruzione giuridica della famiglia che tende ad adottare forme basate quasi esclusivamente sul paradigma dell’autonomia della volontà. Benché sia legittimo e giusto che si respingano vecchie forme di famiglia “tradizionale” caratterizzate dall’autoritarismo e anche dalla violenza, questo non dovrebbe portare al disprezzo del matrimonio bensì alla riscoperta del suo vero senso e al suo rinnovamento. La forza della famiglia «risiede essenzialmente nella sua capacità di amare e di insegnare ad amare. Per quanto ferita possa essere una famiglia, essa può sempre crescere a partire dall’amore»[41].
54. In questo breve sguardo sulla realtà, desidero rilevare che, per quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da crescere in alcuni paesi. Non sono ancora del tutto sradicati costumi inaccettabili. Anzitutto la vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù che non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne in alcune coppie di sposi contraddice la natura stessa dell’unione coniugale. Penso alla grave mutilazione genitale della donna in alcune culture, ma anche alla disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni. La storia ricalca le orme degli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe, ma ricordiamo anche la pratica dell’“utero in affitto” o la «strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica»[42]. C’è chi ritiene che molti problemi attuali si sono verificati a partire dall’emancipazione della donna. Ma questo argomento non è valido, «è una falsità, non è vero. È una forma di maschilismo»[43]. L’identica dignità tra l’uomo e la donna ci porta a rallegrarci del fatto che si superino vecchie forme di discriminazione, e che in seno alle famiglie si sviluppi uno stile di reciprocità. Se sorgono forme di femminismo che non possiamo considerare adeguate, ammiriamo ugualmente l’opera dello Spirito nel riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti.
55. L’uomo «riveste un ruolo egualmente decisivo nella vita della famiglia, con particolare riferimento alla protezione e al sostegno della sposa e dei figli. […] Molti uomini sono consapevoli dell’importanza del proprio ruolo nella famiglia e lo vivono con le qualità peculiari dell’indole maschile. L’assenza del padre segna gravemente la vita familiare, l’educazione dei figli e il loro inserimento nella società. La sua assenza può essere fisica, affettiva, cognitiva e spirituale. Questa carenza priva i figli di un modello adeguato del comportamento paterno»[44].
56. Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo»[45]. È inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare»[46]. D’altra parte, «la rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana ha introdotto la possibilità di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie»[47]. Una cosa è comprendere la fragilità umana o la complessità della vita, altra cosa è accettare ideologie che pretendono di dividere in due gli aspetti inseparabili della realtà. Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata.
57. Rendo grazie a Dio perché molte famiglie, che sono ben lontane dal considerarsi perfette, vivono nell’amore, realizzano la propria vocazione e vanno avanti anche se cadono tante volte lungo il cammino. A partire dalle riflessioni sinodali non rimane uno stereotipo della famiglia ideale, bensì un interpellante mosaico formato da tante realtà diverse, piene di gioie, drammi e sogni. Le realtà che ci preoccupano sono sfide. Non cadiamo nella trappola di esaurirci in lamenti autodifensivi, invece di suscitare una creatività missionaria. In tutte le situazioni «la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. […] I grandi valori del matrimonio e della famiglia cristiana corrispondono alla ricerca che attraversa l’esistenza umana»[48]. Se constatiamo molte difficoltà, esse sono – come hanno affermato i Vescovi della Colombia – un invito a «liberare in noi le energie della speranza traducendole in sogni profetici, azioni trasformatrici e immaginazione della carità»[49].
CAPITOLO TERZO
LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA
58. Davanti alle famiglie e in mezzo ad esse deve sempre nuovamente risuonare il primo annuncio, ciò che è «più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario»[50], e «deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice»[51]. È l’annuncio principale, «quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra»[52]. Perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» e «tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma»[53].
59. Il nostro insegnamento sul matrimonio e la famiglia non può cessare di ispirarsi e di trasfigurarsi alla luce di questo annuncio di amore e di tenerezza, per non diventare mera difesa di una dottrina fredda e senza vita. Infatti, non si può neppure comprendere pienamente il mistero della famiglia cristiana se non alla luce dell’infinito amore del Padre, che si è manifestato in Cristo, il quale si è donato sino alla fine ed è vivo in mezzo a noi. Perciò desidero contemplare Cristo vivente che è presente in tante storie d’amore, e invocare il fuoco dello Spirito su tutte le famiglie del mondo.
60. Entro tale quadro, questo breve capitolo raccoglie una sintesi dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. Anche a questo riguardo citerò diversi contributi presentati dai Padri sinodali nelle loro considerazioni sulla luce che ci offre la fede. Essi sono partiti dallo sguardo di Gesù e hanno indicato che Egli «ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio»[54]. Allo stesso modo, il Signore ci accompagna oggi nel nostro impegno per vivere e trasmettere il Vangelo della famiglia.
Gesù recupera e porta a compimento il progetto divino
61. Di fronte a quelli che proibivano il matrimonio, il Nuovo Testamento insegna che «ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato» (1 Tm 4,4). Il matrimonio è un «dono» del Signore (cfr 1 Cor 7,7). Nello stesso tempo, a causa di tale valutazione positiva, si pone un forte accento sull’avere cura di questo dono divino: «Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia» (Eb 13,4). Tale dono di Dio include la sessualità: «Non rifiutatevi l’un l’altro» (1 Cor 7,5).
62. I Padri sinodali hanno ricordato che Gesù, «riferendosi al disegno primigenio sulla coppia umana, riafferma l’unione indissolubile tra l’uomo e la donna, pur dicendo che “per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19,8). L’indissolubilità del matrimonio (“Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”: Mt 19,6), non è innanzitutto da intendere come “giogo” imposto agli uomini, bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio. […] La condiscendenza divina accompagna sempre il cammino umano, guarisce e trasforma il cuore indurito con la sua grazia, orientandolo verso il suo principio, attraverso la via della croce. Dai Vangeli emerge chiaramente l’esempio di Gesù, che […] annunciò il messaggio concernente il significato del matrimonio come pienezza della rivelazione che recupera il progetto originario di Dio (cfr Mt 19,3)»[55].
63. «Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cfr Mc 10,1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cfr Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l'amore di Dio e vivere la vita di comunione. Il Vangelo della famiglia attraversa la storia del mondo sin dalla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) fino al compimento del mistero dell’Alleanza in Cristo alla fine dei secoli con le nozze dell’Agnello (cfr Ap 19,9)»[56].
64. «L’esempio di Gesù è paradigmatico per la Chiesa. […] Egli ha inaugurato la sua vita pubblica con il segno di Cana, compiuto ad un banchetto di nozze (cfr Gv 2,1-11). […] Ha condiviso momenti quotidiani di amicizia con la famiglia di Lazzaro e le sue sorelle (cfr Lc 10,38) e con la famiglia di Pietro (cfr Mt 8,14). Ha ascoltato il pianto dei genitori per i loro figli, restituendoli alla vita (cfr Mc 5,41; Lc 7,14-15) e manifestando così il vero significato della misericordia, la quale implica il ristabilimento dell’Alleanza (cfr Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 4). Ciò appare chiaramente negli incontri con la donna samaritana (cfr Gv 4,1-30) e con l’adultera (cfr Gv 8,1-11), nei quali la percezione del peccato si desta davanti all’amore gratuito di Gesù»[57].
65. L’incarnazione del Verbo in una famiglia umana, a Nazaret, commuove con la sua novità la storia del mondo. Abbiamo bisogno di immergerci nel mistero della nascita di Gesù, nel sì di Maria all’annuncio dell’angelo, quando venne concepita la Parola nel suo seno; anche nel sì di Giuseppe, che ha dato il nome a Gesù e si fece carico di Maria; nella festa dei pastori al presepe; nell’adorazione dei Magi; nella fuga in Egitto, in cui Gesù partecipa al dolore del suo popolo esiliato, perseguitato e umiliato; nella religiosa attesa di Zaccaria e nella gioia che accompagna la nascita di Giovanni Battista; nella promessa compiuta per Simeone e Anna nel tempio; nell’ammirazione dei dottori della legge mentre ascoltano la saggezza di Gesù adolescente. E quindi penetrare nei trenta lunghi anni nei quali Gesù si guadagnò il pane lavorando con le sue mani, sussurrando le orazioni e la tradizione credente del suo popolo ed educandosi nella fede dei suoi padri, fino a farla fruttificare nel mistero del Regno. Questo è il mistero del Natale e il segreto di Nazaret, pieno di profumo di famiglia! È il mistero che tanto ha affascinato Francesco di Assisi, Teresa di Gesù Bambino e Charles de Foucauld, e al quale si dissetano anche le famiglie cristiane per rinnovare la loro speranza e la loro gioia.
66. «L’alleanza di amore e fedeltà, di cui vive la Santa Famiglia di Nazaret, illumina il principio che dà forma ad ogni famiglia, e la rende capace di affrontare meglio le vicissitudini della vita e della storia. Su questo fondamento, ogni famiglia, pur nella sua debolezza, può diventare una luce nel buio del mondo. “Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi che cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile; ci faccia vedere come è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale” (Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964)»[58].
La famiglia nei documenti della Chiesa
67. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, si è occupato della promozione della dignità del matrimonio e della famiglia (cfr nn. 47-52). «Esso ha definito il matrimonio come comunità di vita e di amore (cfr48), mettendo l’amore al centro della famiglia […]. Il “vero amore tra marito e moglie” (49) implica la mutua donazione di sé, include e integra la dimensione sessuale e l’affettività, corrispondendo al disegno divino (cfr 48-49). Inoltre sottolinea il radicamento in Cristo degli sposi: Cristo Signore “viene incontro ai coniugi cristiani nel sacramento del matrimonio” (48) e con loro rimane. Nell’incarnazione, Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cfr Lumen gentium, 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino»[59].
68. In seguito, «il beato Paolo VI, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, con l’Enciclica Humanae vitae, ha messo in luce il legame intrinseco tra amore coniugale e generazione della vita: “L’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori» (n. 10). Nell’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI ha evidenziato il rapporto tra la famiglia e la Chiesa»[60].
69. «San Giovanni Paolo II ha dedicato alla famiglia una particolare attenzione attraverso le sue catechesi sull’amore umano, la Lettera alle famiglie Gratissimam sane e soprattutto con l’Esortazione apostolica Familiaris consortio. In tali documenti, il Pontefice ha definito la famiglia “via della Chiesa”; ha offerto una visione d’insieme sulla vocazione all’amore dell’uomo e della donna; ha proposto le linee fondamentali per la pastorale della famiglia e per la presenza della famiglia nella società. In particolare, trattando della carità coniugale (cfr Familiaris consortio, 13), ha descritto il modo in cui i coniugi, nel loro mutuo amore, ricevono il dono dello Spirito di Cristo e vivono la loro chiamata alla santità»[61].
70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune»[62].
Il sacramento del matrimonio
71. «La Scrittura e la Tradizione ci aprono l’accesso a una conoscenza della Trinità che si rivela con tratti familiari. La famiglia è immagine di Dio, che […] è comunione di persone. Nel battesimo, la voce del Padre designa Gesù come suo Figlio amato, e in questo amore ci è dato di riconoscere lo Spirito Santo (cfr Mc 1,10-11). Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé e ha redento l’uomo dal peccato, non solo ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale, ma ha anche elevato il matrimonio a segno sacramentale del suo amore per la Chiesa (cfr Mt 19,1-12; Mc 10,1-12; Ef 5,21-32). Nella famiglia umana, radunata da Cristo, è restituita la “immagine e somiglianza” della Santissima Trinità (cfr Gen 1,26), mistero da cui scaturisce ogni vero amore. Da Cristo, attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia dello Spirito Santo, per testimoniare il Vangelo dell’amore di Dio»[63].
72. Il sacramento del matrimonio non è una convenzione sociale, un rito vuoto o il mero segno esterno di un impegno. Il sacramento è un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi, perché «la loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra, e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi»[64]. Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.
73. «Il dono reciproco costitutivo del matrimonio sacramentale è radicato nella grazia del battesimo che stabilisce l’alleanza fondamentale di ogni persona con Cristo nella Chiesa. Nella reciproca accoglienza e con la grazia di Cristo i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita, essi riconoscono come elementi costitutivi del matrimonio i doni che Dio offre loro, prendendo sul serio il loro vicendevole impegno, in suo nome e di fronte alla Chiesa. Ora, nella fede è possibile assumere i beni del matrimonio come impegni meglio sostenibili mediante l’aiuto della grazia del sacramento. […] Pertanto, lo sguardo della Chiesa si volge agli sposi come al cuore della famiglia intera che volge anch’essa lo sguardo verso Gesù»[65]. Il sacramento non è una “cosa” o una “forza”, perché in realtà Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni i pesi degli altri»[66]. Il matrimonio cristiano è un segno che non solo indica quanto Cristo ha amato la sua Chiesa nell’Alleanza sigillata sulla Croce, ma rende presente tale amore nella comunione degli sposi. Unendosi in una sola carne rappresentano lo sposalizio del Figlio di Dio con la natura umana. Per questo «nelle gioie del loro amore e della loro vita familiare egli concede loro, fin da quaggiù, una pregustazione del banchetto delle nozze dell’Agnello»[67]. Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta»[68], essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali.
74. L’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia. È il «mistero nuziale»[69]. Il valore dell’unione dei corpi è espresso nelle parole del consenso, dove i coniugi si sono accolti e si sono donati reciprocamente per condividere tutta la vita. Queste parole conferiscono un significato alla sessualità, liberandola da qualsiasi ambiguità. Tuttavia, in realtà, tutta la vita in comune degli sposi, tutta la rete delle relazioni che tesseranno tra loro, con i loro figli e con il mondo, sarà impregnata e irrobustita dalla grazia del sacramento che sgorga dal mistero dell’Incarnazione e della Pasqua, in cui Dio ha espresso tutto il suo amore per l’umanità e si è unito intimamente ad essa. Non saranno mai soli con le loro forze ad affrontare le sfide che si presentano. Essi sono chiamati a rispondere al dono di Dio con il loro impegno, la loro creatività, la loro resistenza e lotta quotidiana, ma potranno sempre invocare lo Spirito Santo che ha consacrato la loro unione, perché la grazia ricevuta si manifesti nuovamente in ogni nuova situazione.
75. Secondo la tradizione latina della Chiesa, nel sacramento del matrimonio i ministri sono l’uomo e la donna che si sposano[70], i quali, manifestando il loro mutuo consenso ed esprimendolo nel reciproco dono corporale, ricevono un grande dono. Il loro consenso e l’unione dei corpi sono gli strumenti dell’azione divina che li rende una sola carne. Nel Battesimo è stata consacrata la loro capacità di unirsi in matrimonio come ministri del Signore per rispondere alla chiamata di Dio. Pertanto, quando due coniugi non cristiani ricevono il Battesimo, non è necessario che rinnovino la promessa matrimoniale ed è sufficiente che non la rifiutino, dal momento che, a causa del Battesimo che ricevono, la loro unione diventa per ciò stesso sacramentale. Il Diritto Canonico riconosce anche la validità di alcuni matrimoni che si celebrano senza un ministro ordinato[71]. Infatti l’ordine naturale è stato assunto dalla redenzione di Gesù Cristo, in maniera tale che «tra i battezzati, non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento»[72]. La Chiesa può esigere che l’atto sia pubblico, la presenza di testimoni e altre condizioni che sono mutate nel corso della storia, però questo non toglie ai due sposi il loro carattere di ministri del sacramento, né diminuisce la centralità del consenso dell’uomo e della donna, che è ciò che di per sé stabilisce il vincolo sacramentale. In ogni caso, abbiamo bisogno di riflettere ulteriormente circa l’azione divina nel rito nuziale, che è posta in grande risalto nelle Chiese orientali, con l’attribuire particolare importanza alla benedizione dei contraenti come segno del dono dello Spirito.
Semi del Verbo e situazioni imperfette
76. «Il Vangelo della famiglia nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati»,[73] in modo che, partendo dal dono di Cristo nel sacramento, «siano pazientemente condotti oltre, giungendo ad una conoscenza più ricca e ad una integrazione più piena di questo Mistero nella loro vita»[74].
77. Assumendo l’insegnamento biblico secondo il quale tutto è stato creato da Cristo e in vista di Cristo (cfr Col 1,16), i Padri sinodali hanno ricordato che «l’ordine della redenzione illumina e compie quello della creazione. Il matrimonio naturale, pertanto, si comprende pienamente alla luce del suo compimento sacramentale: solo fissando lo sguardo su Cristo si conosce fino in fondo la verità sui rapporti umani. “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes, 22). Risulta particolarmente opportuno comprendere in chiave cristocentrica le proprietà naturali del matrimonio, che costituiscono il bene dei coniugi (bonum coniugum)»[75], che comprende l’unità, l’apertura alla vita, la fedeltà e l’indissolubilità, e all’interno del matrimonio cristiano anche l’aiuto reciproco nel cammino verso una più piena amicizia con il Signore. «Il discernimento della presenza dei semina Verbi nelle altre culture (cfr Ad gentes, 11) può essere applicato anche alla realtà matrimoniale e familiare. Oltre al vero matrimonio naturale ci sono elementi positivi presenti nelle forme matrimoniali di altre tradizioni religiose»[76], benché non manchino neppure le ombre. Possiamo affermare che «ogni persona che desideri formare in questo mondo una famiglia che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si proponga di vincere il male – una famiglia che mostri che lo Spirito è vivo e operante –, troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga»[77].
78. «Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo (cfr Gv 1,9; Gaudium et spes, 22) ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. Nella prospettiva della pedagogia divina, la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. […] Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico – ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove – può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile»[78].
79. «Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni” (Familiaris consortio, 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione»[79].
La trasmissione della vita e l’educazione dei figli
80. Il matrimonio è in primo luogo una «intima comunità di vita e di amore coniugale»[80] che costituisce un bene per gli stessi sposi[81], e la sessualità «è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna»[82]. Perciò anche «i coniugi ai quali Dio non ha concesso di avere figli, possono nondimeno avere una vita coniugale piena di senso, umanamente e cristianamente»[83]. Ciò nonostante, questa unione è ordinata alla generazione «per la sua stessa natura»[84]. Il bambino che nasce «non viene ad aggiungersi dall’esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia al cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento»[85]. Non giunge come alla fine di un processo, ma invece è presente dall’inizio del loro amore come una caratteristica essenziale che non può venire negata senza mutilare lo stesso amore. Fin dall’inizio l’amore rifiuta ogni impulso di chiudersi in sé stesso e si apre a una fecondità che lo prolunga oltre la sua propria esistenza. Dunque nessun atto genitale degli sposi può negare questo significato[86], benché per diverse ragioni non sempre possa di fatto generare una nuova vita.
81. Il figlio chiede di nascere da un tale amore e non in qualsiasi modo, dal momento che egli «non è qualcosa di dovuto ma un dono»[87], che è «il frutto dello specifico atto dell’amore coniugale dei suoi genitori»[88]. Perché «secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cfr Gen 1,27-28). In questo modo il Creatore ha reso partecipi l’uomo e la donna dell’opera della sua creazione e li ha contemporaneamente resi strumenti del suo amore, affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana»[89].
82. I Padri sinodali hanno affermato che «non è difficile constatare il diffondersi di una mentalità che riduce la generazione della vita a una variabile della progettazione individuale o di coppia»[90]. L’insegnamento della Chiesa «aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità […] La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale»[91]. Con particolare gratitudine, la Chiesa «sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili»[92].
83. In questo contesto, non posso non affermare che, se la famiglia è il santuario della vita, il luogo dove la vita è generata e curata, costituisce una lacerante contraddizione il fatto che diventi il luogo dove la vita viene negata e distrutta. È così grande il valore di una vita umana, ed è così inalienabile il diritto alla vita del bambino innocente che cresce nel seno di sua madre, che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in sé stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano. La famiglia protegge la vita in ogni sua fase e anche al suo tramonto. Perciò «a coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza. Allo stesso modo, la Chiesa non solo sente l’urgenza di affermare il diritto alla morte naturale, evitando l’accanimento terapeutico e l’eutanasia», ma «rigetta fermamente la pena di morte»[93].
84. I Padri hanno voluto sottolineare anche che «una delle sfide fondamentali di fronte a cui si trovano le famiglie oggi è sicuramente quella educativa, resa più impegnativa e complessa dalla realtà culturale attuale e della grande influenza dei media»[94]. «La Chiesa svolge un ruolo prezioso di sostegno alle famiglie, partendo dall'iniziazione cristiana, attraverso comunità accoglienti»[95]. Tuttavia mi sembra molto importante ricordare che l’educazione integrale dei figli è «dovere gravissimo» e allo stesso tempo «diritto primario» dei genitori[96]. Non si tratta solamente di un’incombenza o di un peso, ma anche di un diritto essenziale e insostituibile che sono chiamati a difendere e che nessuno dovrebbe pretendere di togliere loro. Lo Stato offre un servizio educativo in maniera sussidiaria, accompagnando la funzione non delegabile dei genitori, che hanno il diritto di poter scegliere con libertà il tipo di educazione – accessibile e di qualità – che intendono dare ai figli secondo le proprie convinzioni. La scuola non sostituisce i genitori bensì è ad essi complementare. Questo è un principio basilare: «Qualsiasi altro collaboratore nel processo educativo deve agire in nome dei genitori, con il loro consenso e, in una certa misura, anche su loro incarico»[97].Tuttavia «si è aperta una frattura tra famiglia e società, tra famiglia e scuola, il patto educativo oggi si è rotto; e così, l’alleanza educativa della società con la famiglia è entrata in crisi»[98].
85. La Chiesa è chiamata a collaborare, con un’azione pastorale adeguata, affinché gli stessi genitori possano adempiere la loro missione educativa. Deve farlo aiutandoli sempre a valorizzare il loro ruolo specifico, e a riconoscere che coloro che hanno ricevuto il sacramento del matrimonio diventano veri ministri educativi, perché nel formare i loro figli edificano la Chiesa[99], e nel farlo accettano una vocazione che Dio propone loro[100].
La famiglia e la Chiesa
86. «Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda alle famiglie che restano fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse, infatti, è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per sempre. Nella famiglia, “che si potrebbe chiamare Chiesa domestica” (Lumen gentium, 11), matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero della Santa Trinità. “È qui che si apprende
la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1657)»[101].
87. La Chiesa è famiglia di famiglie, costantemente arricchita dalla vita di tutte le Chiese domestiche. Pertanto, «in virtù del sacramento del matrimonio ogni famiglia diventa a tutti gli effetti un bene per la Chiesa. In questa prospettiva sarà certamente un dono prezioso, per l’oggi della Chiesa, considerare anche la reciprocità tra famiglia e Chiesa: la Chiesa è un bene per la famiglia, la famiglia è un bene per la Chiesa. La custodia del dono sacramentale del Signore coinvolge non solo la singola famiglia, ma la stessa comunità cristiana»[102].
88. L’amore vissuto nelle famiglie è una forza permanente per la vita della Chiesa. «Il fine unitivo del matrimonio è un costante richiamo al crescere e all’approfondirsi di questo amore. Nella loro unione di amore gli sposi sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura reciproca e il perdono vicendevole. In questo amore celebrano i loro momenti felici e si sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita […] La bellezza del dono reciproco e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia»[103], tanto per la Chiesa quanto per l’intera società.
CAPITOLO QUARTO
L’AMORE NEL MATRIMONIO
89. Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore. Perché non potremo incoraggiare un cammino di fedeltà e di reciproca donazione se non stimoliamo la crescita, il consolidamento e l’approfondimento dell’amore coniugale e familiare. In effetti, la grazia del sacramento del matrimonio è destinata prima di tutto «a perfezionare l’amore dei coniugi»[104]. Anche in questo caso rimane valido che, anche «se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,2-3). La parola “amore”, tuttavia, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata[105].
Il nostro amore quotidiano
90. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore:
«La carità è paziente,
benevola è la carità;
non è invidiosa,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).
Questo si vive e si coltiva nella vita che condividono tutti i giorni gli sposi, tra di loro e con i loro figli. Perciò è prezioso soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per tentarne un’applicazione all’esistenza concreta di ogni famiglia.
Pazienza
91. La prima espressione utilizzata è macrothymei. La traduzione non è semplicemente “che sopporta ogni cosa”, perché questa idea viene espressa alla fine del v. 7. Il senso si coglie dalla traduzione greca dell’Antico Testamento, dove si afferma che Dio è «lento all’ira» (Es 34,6; Nm 14,18). Si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo anche all’interno della vita familiare. I testi in cui Paolo fa uso di questo termine si devono leggere sullo sfondo del libro della Sapienza (cfr 11,23; 12,2.15-18): nello stesso tempo in cui si loda la moderazione di Dio al fine di dare spazio al pentimento, si insiste sul suo potere che si manifesta quando agisce con misericordia. La pazienza di Dio è esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico potere.
92. Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.
Atteggiamento di benevolenza
93. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però, considerata la posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il verbo precedente, ne diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”.
94. Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole»[106]. In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.
Guarendo l’invidia
95. Quindi si rifiuta come contrario all’amore un atteggiamento espresso con il termine zelos (gelosia o invidia). Significa che nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro.
96. In definitiva si tratta di adempiere quello che richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.
Senza vantarsi o gonfiarsi
97. Segue l’espressione perpereuetai, che indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro. La parola seguente – physioutai – è molto simile, perché indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime il fatto che non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Non è solo un’ossessione per mostrare le proprie qualità, ma fa anche perdere il senso della realtà. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio per dire che «la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19).
98. È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà. Gesù ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere ciascuno cerca di dominare l’altro, e per questo dice loro: «tra voi non sarà così» (Mt 20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui «chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,27). Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. Vale anche per la famiglia questo consiglio: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1 Pt 5,5).
Amabilità
99. Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere»[107]. Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano»[108]. Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore»[109].
100. Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. Una persona antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le sue necessità, e che quando lo fanno compiono solo il loro dovere. Dunque non c’è spazio per l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: «Coraggio figlio!» (Mt 9,2). «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41). «Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt 14,27). Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù.
Distacco generoso
101. Abbiamo detto molte volte che per amare gli altri occorre prima amare sé stessi. Tuttavia, questo inno all’amore afferma che l’amore “non cerca il proprio interesse”, o che “non cerca quello che è suo”. Questa espressione si usa pure in un altro testo: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4). Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire priorità all’amore per sé stessi come se fosse più nobile del dono di sé stessi agli altri. Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: «Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? [...] Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso» (Sir 14,5-6).
102. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che «è più proprio della carità voler amare che voler essere amati»[110] e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate»[111]. Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, «senza sperarne nulla» (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri (Gv 15,13). È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Senza violenza interiore
103. Se la prima espressione dell’inno ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.
104. Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!»[112]. La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.
Perdono
105. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità.
106. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione. Nessuna famiglia ignora come l’egoismo, il disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano violentemente e a volte colpiscano mortalmente la propria comunione: di qui le molteplici e varie forme di divisione nella vita familiare»[113].
107. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.
108. Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo.
Rallegrarsi con gli altri
109. L’espressione chairei epi te adikia indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella che segue, che si esprime in modo positivo: synchairei te aletheia: si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti.
110. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). La famiglia dev’essere sempre il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui.
Tutto scusa
111. L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare.
112. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Benché vada contro il nostro uso abituale della lingua, la Parola di Dio ci chiede: «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. Nel difendere la legge divina non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.
113. Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.
Ha fiducia
114. Panta pisteuei: “tutto crede”. Per il contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non sospettare che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri.
115. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.
Spera
116. Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra.
117. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.
Tutto sopporta
118. Panta hypomenei significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare. Questo mi ricorda le parole di Martin Luther King, quando ribadiva la scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni: «La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore»[114].
119. Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. A volte ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.
Crescere nella carità coniugale
120. L’inno di san Paolo, che abbiamo percorso, ci permette di passare alla carità coniugale. Essa è l’amore che unisce gli sposi[115], santificato, arricchito e illuminato dalla grazia del sacramento del matrimonio. È «un’unione affettiva»[116], spirituale e oblativa, che però raccoglie in sé la tenerezza dell’amicizia e la passione erotica, benché sia in grado di sussistere anche quando i sentimenti e la passione si indebolissero. Il Papa Pio XI ha insegnato che tale amore permea tutti i doveri della vita coniugale e «tiene come il primato della nobiltà»[117]. Infatti, tale amore forte, versato dallo Spirito Santo, è il riflesso dell’Alleanza indistruttibile tra Cristo e l’umanità, culminata nella dedizione sino alla fine, sulla croce: «Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l’uomo e la donna capaci di amarsi come Cristo ci ha amato. L’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale»[118].
121. Il matrimonio è un segno prezioso, perché «quando un uomo e una donna celebrano il sacramento del Matrimonio, Dio, per così dire, si “rispecchia” in essi, imprime in loro i propri lineamenti e il carattere indelebile del suo amore. Il matrimonio è l’icona dell’amore di Dio per noi. Anche Dio, infatti, è comunione: le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo vivono da sempre e per sempre in unità perfetta. Ed è proprio questo il mistero del Matrimonio: Dio fa dei due sposi una sola esistenza»[119].Questo comporta conseguenze molto concrete e quotidiane, perché gli sposi, «in forza del Sacramento, vengono investiti di una vera e propria missione, perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici, ordinarie, l’amore con cui Cristo ama la sua Chiesa, continuando a donare la vita per lei»[120].
122. Tuttavia, non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica «un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio»[121].
Tutta la vita, tutto in comune
123. Dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la «più grande amicizia»[122]. È un’unione che possiede tutte le caratteristiche di una buona amicizia: ricerca del bene dell’altro, reciprocità, intimità, tenerezza, stabilità, e una somiglianza tra gli amici che si va costruendo con la vita condivisa. Però il matrimonio aggiunge a tutto questo un’esclusività indissolubile, che si esprime nel progetto stabile di condividere e costruire insieme tutta l’esistenza. Siamo sinceri e riconosciamo i segni della realtà: chi è innamorato non progetta che tale relazione possa essere solo per un periodo di tempo, chi vive intensamente la gioia di sposarsi non pensa a qualcosa di passeggero; coloro che accompagnano la celebrazione di un’unione piena d’amore, anche se fragile, sperano che possa durare nel tempo; i figli non solo desiderano che i loro genitori si amino, ma anche che siano fedeli e rimangano sempre uniti. Questi e altri segni mostrano che nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo. L’unione che si cristallizza nella promessa matrimoniale per sempre, è più che una formalità sociale o una tradizione, perché si radica nelle inclinazioni spontanee della persona umana; e, per i credenti, è un’alleanza davanti a Dio che esige fedeltà: «Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto: […] nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio» (Ml 2,14.15.16).
124. Un amore debole o malato, incapace di accettare il matrimonio come una sfida che richiede di lottare, di rinascere, di reinventarsi e ricominciare sempre di nuovo fino alla morte, non è in grado di sostenere un livello alto di impegno. Cede alla cultura del provvisorio, che impedisce un processo costante di crescita. Però «promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata»[123]. Perché tale amore possa attraversare tutte le prove e mantenersi fedele nonostante tutto, si richiede il dono della grazia che lo fortifichi e lo elevi. Come diceva san Roberto Bellarmino, «il fatto che un uomo e una donna si uniscano in un legame esclusivo e indissolubile, in modo che non possano separarsi, quali che siano le difficoltà, e persino quando si sia persa la speranza della prole, questo non può avvenire senza un grande mistero»[124].
125. Il matrimonio, inoltre, è un’amicizia che comprende le note proprie della passione, ma sempre orientata verso un’unione via via più stabile e intensa. Perché «non è stato istituito soltanto per la procreazione», ma affinché l’amore reciproco «abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità»[125]. Questa peculiare amicizia tra un uomo e una donna acquista un carattere totalizzante che si dà unicamente nell’unione coniugale. Proprio perché è totalizzante questa unione è anche esclusiva, fedele e aperta alla generazione. Si condivide ogni cosa, compresa la sessualità, sempre nel reciproco rispetto. Il Concilio Vaticano II lo ha affermato dicendo che «un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi»[126].
Gioia e bellezza
126. Nel matrimonio è bene avere cura della gioia dell’amore. Quando la ricerca del piacere è ossessiva, rinchiude in un solo ambito e non permette di trovare altri tipi di soddisfazione. La gioia, invece, allarga la capacità di godere e permette di trovare gusto in realtà varie, anche nelle fasi della vita in cui il piacere si spegne. Per questo san Tommaso diceva che si usa la parola “gioia” per riferirsi alla dilatazione dell’ampiezza del cuore[127]. La gioia matrimoniale, che si può vivere anche in mezzo al dolore, implica accettare che il matrimonio è una necessaria combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri, sempre nel cammino dell’amicizia, che spinge gli sposi a prendersi cura l’uno dell’altro: «prestandosi un mutuo aiuto e servizio»[128].
127. L’amore di amicizia si chiama “carità” quando si coglie e si apprezza “l’alto valore” che ha l’altro[129]. La bellezza – “l’alto valore” dell’altro che non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche – ci permette di gustare la sacralità della sua persona senza l’imperiosa necessità di possederla. Nella società dei consumi si impoverisce il senso estetico e così si spegne la gioia. Tutto esiste per essere comprato, posseduto e consumato; anche le persone. La tenerezza, invece, è una manifestazione di questo amore che si libera dal desiderio egoistico di possesso egoistico. Ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà. L’amore per l’altro implica tale gusto di contemplare e apprezzare ciò che è bello e sacro del suo essere personale, che esiste al di là dei miei bisogni. Questo mi permette di ricercare il suo bene anche quando so che non può essere mio o quando è diventato fisicamente sgradevole, aggressivo o fastidioso. Perciò, «dall’amore per cui a uno è gradita un’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratis»[130].
128. L’esperienza estetica dell’amore si esprime in quello sguardo che contempla l’altro come un fine in sé stesso, quand’anche sia malato, vecchio o privo di attrattive sensibili. Lo sguardo che apprezza ha un’importanza enorme e lesinarlo produce di solito un danno. Quante cose fanno a volte i coniugi e i figli per essere considerati e tenuti in conto! Molte ferite e crisi hanno la loro origine nel momento in cui smettiamo di contemplarci. Questo è ciò che esprimono alcune lamentele e proteste che si sentono nelle famiglie. “Mio marito non mi guarda, sembra che per lui io sia invisibile”. “Per favore, guardami quando ti parlo”. “Mia moglie non mi guarda più, ora ha occhi solo per i figli”. “A casa mia non interesso a nessuno e neppure mi vedono, come se non esistessi”. L’amore apre gli occhi e permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano.
129. La gioia di tale amore contemplativo va coltivata. Dal momento che siamo fatti per amare, sappiamo che non esiste gioia maggiore che nel condividere un bene: «Regala e accetta regali, e divertiti» (Sir 14,16). Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: «Come delizierai gli angeli!». È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui.
130. Per altro verso, la gioia si rinnova nel dolore. Come diceva sant’Agostino, «quanto maggiore è stato il pericolo nella battaglia, tanto più intensa è la gioia nel trionfo»[131]. Dopo aver sofferto e combattuto uniti, i coniugi possono sperimentare che ne è valsa la pena, perché hanno ottenuto qualcosa di buono, hanno imparato qualcosa insieme, o perché possono maggiormente apprezzare quello che hanno. Poche gioie umane sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso.
Sposarsi per amore
131. Voglio dire ai giovani che nulla di tutto questo viene pregiudicato quando l’amore assume la modalità dell’istituzione matrimoniale. L’unione trova in tale istituzione il modo di incanalare la sua stabilità e la sua crescita reale e concreta. È vero che l’amore è molto di più di un consenso esterno o di una forma di contratto matrimoniale, ma è altrettanto certo che la decisione di dare al matrimonio una configurazione visibile nella società con determinati impegni, manifesta la sua rilevanza: mostra la serietà dell’identificazione con l’altro, indica un superamento dell’individualismo adolescenziale, ed esprime la ferma decisione di appartenersi l’un l’altro. Sposarsi è un modo di esprimere che realmente si è abbandonato il nido materno per tessere altri legami forti e assumere una nuova responsabilità di fronte ad un’altra persona. Questo vale molto di più di una mera associazione spontanea per la mutua gratificazione, che sarebbe una privatizzazione del matrimonio. Il matrimonio come istituzione sociale è protezione e strumento per l’impegno reciproco, per la maturazione dell’amore, perché la decisione per l’altro cresca in solidità, concretezza e profondità, e al tempo stesso perché possa compiere la sua missione nella società. Perciò il matrimonio va oltre ogni moda passeggera e persiste. La sua essenza è radicata nella natura stessa della persona umana e del suo carattere sociale. Implica una serie di obblighi, che scaturiscono però dall’amore stesso, da un amore tanto determinato e generoso che è capace di rischiare il futuro.
132. Scegliere il matrimonio in questo modo esprime la decisione reale ed effettiva di trasformare due strade in un’unica strada, accada quel che accada e nonostante qualsiasi sfida. A causa della serietà di questo impegno pubblico di amore, non può essere una decisione affrettata, ma per la stessa ragione non la si può rimandare indefinitamente. Impegnarsi con un altro in modo esclusivo e definitivo comporta sempre una quota di rischio e di scommessa audace. Il rifiuto di assumere tale impegno è egoistico, interessato, meschino, non riesce a riconoscere i diritti dell’altro e non arriva mai a presentarlo alla società come degno di essere amato incondizionatamente. D’altra parte, quelli che sono veramente innamorati, tendono a manifestare agli altri il loro amore. L’amore concretizzato in un matrimonio contratto davanti agli altri, con tutti gli obblighi che derivano da questa istituzionalizzazione, è manifestazione e protezione di un “sì” che si dà senza riserve e senza restrizioni. Quel “sì” significa dire all’altro che potrà sempre fidarsi, che non sarà abbandonato se perderà attrattiva, se avrà difficoltà o se si offriranno nuove possibilità di piacere o di interessi egoistici.
Amore che si manifesta e cresce
133. L’amore di amicizia unifica tutti gli aspetti della vita matrimoniale e aiuta i membri della famiglia ad andare avanti in tutte le sue fasi. Perciò i gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose. Nella famiglia «è necessario usare tre parole. Vorrei ripeterlo. Tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave!»[132]. «Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”, e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e c’è gioia»[133]. Non siamo avari nell’utilizzare queste parole, siamo generosi nel ripeterle giorno dopo giorno, perché «alcuni silenzi pesano, a volte anche in famiglia, tra marito e moglie, tra padri e figli, tra fratelli»[134]. Invece le parole adatte, dette al momento giusto, proteggono e alimentano l’amore giorno dopo giorno.
134. Tutto questo si realizza in un cammino di permanente crescita. Questa forma così particolare di amore che è il matrimonio, è chiamata ad una costante maturazione, perché ad essa bisogna sempre applicare quello che san Tommaso d’Aquino diceva della carità: «La carità, in ragione della sua natura, non ha un limite di aumento, essendo essa una partecipazione dell’infinita carità, che è lo Spirito Santo. […] Nemmeno da parte del soggetto le si può porre un limite, poiché col crescere della carità, cresce sempre più anche la capacità di un aumento ulteriore»[135]. San Paolo esortava con forza: «Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti» (1 Ts 3,12); e aggiunge: «Riguardo all’amore fraterno […] vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più» (1 Ts 4,9-10). Ancora di più. L’amore matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad una crescita costante sotto l’impulso della grazia. L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri. Il marito e la moglie «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono»[136]. Il dono dell’amore divino che si effonde sugli sposi è al tempo stesso un appello ad un costante sviluppo di questo regalo della grazia.
135. Non fanno bene alcune fantasie su un amore idilliaco e perfetto, privato in tal modo di ogni stimolo a crescere. Un’idea celestiale dell’amore terreno dimentica che il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino maturato col tempo. Come hanno ricordato i Vescovi del Cile, «non esistono le famiglie perfette che ci propone la pubblicità ingannevole e consumistica. In esse non passano gli anni, non esistono le malattie, il dolore, la morte […]. La pubblicità consumistica mostra un’illusione che non ha nulla a che vedere con la realtà che devono affrontare giorno per giorno i padri e la madri di famiglia»[137]. È più sano accettare con realismo i limiti, le sfide e le imperfezioni, e dare ascolto all’appello a crescere uniti, a far maturare l’amore e a coltivare la solidità dell’unione, accada quel che accada.
Il dialogo
136. Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e impegnativo tirocinio. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno modi diversi di comunicare, usano linguaggi differenti, si muovono con altri codici. Il modo di fare domande, la modalità delle risposte, il tono utilizzato, il momento e molti altri fattori possono condizionare la comunicazione. Inoltre, è sempre necessario sviluppare alcuni atteggiamenti che sono espressione di amore e rendono possibile il dialogo autentico.
137. Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato. Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”.
138. Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro. Si tratta di dare valore alla sua persona, di riconoscere che ha il diritto di esistere, a pensare in maniera autonoma e ad essere felice. Non bisogna mai sottovalutare quello che può dire o reclamare, benché sia necessario esprimere il proprio punto di vista. È qui sottesa la convinzione secondo la quale tutti hanno un contributo da offrire, perché hanno un’altra esperienza della vita, perché guardano le cose da un altro punto di vista, perché hanno maturato altre preoccupazioni e hanno altre abilità e intuizioni. È possibile riconoscere la verità dell’altro, l’importanza delle sue più profonde preoccupazioni e il sottofondo di quello che dice, anche dietro parole aggressive. Per tale ragione bisogna cercare di mettersi nei suoi panni e di interpretare la profondità del suo cuore, individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come punto di partenza per approfondire il dialogo.
139. Ampiezza mentale, per non rinchiudersi con ossessione su poche idee, e flessibilità per poter modificare o completare le proprie opinioni. È possibile che dal mio pensiero e dal pensiero dell’altro possa emergere una nuova sintesi che arricchisca entrambi. L’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una “unità nella diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile arricchente di comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispettano e si apprezzano, mantenendo tuttavia differenti sfumature e accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali. E ci vuole anche astuzia per accorgersi in tempo delle “interferenze” che possono comparire, in modo che non distruggano un processo di dialogo. Per esempio, riconoscere i cattivi sentimenti che potrebbero emergere e relativizzarli affinché non pregiudichino la comunicazione. È importante la capacità di esprimere ciò che si sente senza ferire; utilizzare un linguaggio e un modo di parlare che possano essere più facilmente accettati o tollerati dall’altro, benché il contenuto sia esigente; esporre le proprie critiche senza però scaricare l’ira come forma di vendetta, ed evitare un linguaggio moralizzante che cerchi soltanto di aggredire, ironizzare, incolpare, ferire. Molte discussioni nella coppia non sono per questioni molto gravi. A volte si tratta di cose piccole, poco rilevanti, ma quello che altera gli animi è il modo di pronunciarle o l’atteggiamento che si assume nel dialogo.
140. Avere gesti di attenzione per l’altro e dimostrazioni di affetto. L’amore supera le peggiori barriere. Quando si può amare qualcuno o quando ci sentiamo amati da lui, riusciamo a comprendere meglio quello che vuole esprimere e farci capire. Superare la fragilità che ci porta ad avere timore dell’altro come se fosse un “concorrente”. È molto importante fondare la propria sicurezza su scelte profonde, convinzioni e valori, e non sul vincere una discussione o sul fatto che ci venga data ragione.
141. Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. Diversamente, le conversazioni diventano noiose e inconsistenti. Quando ognuno dei coniugi non cura il proprio spirito e non esiste una varietà di relazioni con altre persone, la vita familiare diventa endogamica e il dialogo si impoverisce.
Amore appassionato
142. Il Concilio Vaticano II ha insegnato che questo amore coniugale «abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale»[138]. Ci deve essere qualche ragione per il fatto che un amore senza piacere né passione non è sufficiente a simboleggiare l’unione del cuore umano con Dio: «Tutti i mistici hanno affermato che l’amore soprannaturale e l’amore celeste trovano i simboli di cui vanno alla ricerca nell’amore matrimoniale, più che nell’amicizia, più che nel sentimento filiale o nella dedizione a una causa. E il motivo risiede giustamente nella sua totalità»[139]. Perché allora non soffermarci a parlare dei sentimenti e della sessualità nel matrimonio?
Il mondo delle emozioni
143. Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano “passioni”, occupano un posto importante nel matrimonio. Si generano quando un “altro” si fa presente e si manifesta nella propria vita. È proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra realtà, e questa tendenza presenta sempre segni affettivi basilari: il piacere o il dolore, la gioia o la pena, la tenerezza o il timore. Sono il presupposto dell’attività psicologica più elementare. L’essere umano è un vivente di questa terra e tutto quello che fa e cerca è carico di passioni.
144. Gesù, come vero uomo, viveva le cose con una carica di emotività. Perciò lo addolorava il rifiuto di Gerusalemme (cfr Mt 23,37) e questa situazione gli faceva versare lacrime (cfr Lc 19,41). Ugualmente provava compassione di fronte alla sofferenza della gente (cfr Mc 6,34). Vedendo piangere gli altri si commuoveva e si turbava (cfr Gv 11,33), ed Egli stesso pianse la morte di un amico (cfr Gv 11,35). Queste manifestazioni della sua sensibilità mostravano fino a che punto il suo cuore umano era aperto agli altri.
145. Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso[140]. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri. In tal caso i sentimenti distolgono dai grandi valori e nascondono un egocentrismo che non rende possibile coltivare una vita in famiglia sana e felice.
146. D’altro canto, se una passione accompagna l’atto libero, può manifestare la profondità di quella scelta. L’amore matrimoniale porta a fare in modo che tutta la vita emotiva diventi un bene per la famiglia e sia al servizio della vita in comune. La maturità giunge in una famiglia quando la vita emotiva dei suoi membri si trasforma in una sensibilità che non domina né oscura le grandi opzioni e i valori ma che asseconda la loro libertà[141], sorge da essa, la arricchisce, la abbellisce e la rende più armoniosa per il bene di tutti.
Dio ama la gioia dei suoi figli
147. Questo richiede un cammino pedagogico, un processo che comporta delle rinunce. È una convinzione della Chiesa che molte volte è stata rifiutata, come se fosse nemica della felicità umana. Benedetto XVI ha raccolto questo interrogativo con grande chiarezza: «La Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?»[142]. Ma egli rispondeva che, seppure non sono mancati nel cristianesimo esagerazioni o ascetismi deviati, l’insegnamento ufficiale della Chiesa, fedele alle Scritture, non ha rifiutato «l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros [...] lo priva della sua dignità, lo disumanizza»[143].
148. L’educazione dell’emotività e dell’istinto è necessaria, e a tal fine a volte è indispensabile porsi qualche limite. L’eccesso, la mancanza di controllo, l’ossessione per un solo tipo di piaceri, finiscono per debilitare e far ammalare lo stesso piacere[144], e danneggiano la vita della famiglia. In realtà si può compiere un bel cammino con le passioni, il che significa orientarle sempre più in un progetto di autodonazione e di piena realizzazione di sé che arricchisce le relazioni interpersonali in seno alla famiglia. Non implica rinunciare ad istanti di intensa gioia[145], ma assumerli in un intreccio con altri momenti di generosa dedizione, di speranza paziente, di inevitabile stanchezza, di sforzo per un ideale. La vita in famiglia è tutto questo e merita di essere vissuta interamente.
149. Alcune correnti spirituali insistono sull’eliminare il desiderio per liberarsi dal dolore. Ma noi crediamo che Dio ama la gioia dell’essere umano, che Egli ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17). Lasciamo sgorgare la gioia di fronte alla sua tenerezza quando ci propone: «Figlio, trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Anche una coppia di coniugi risponde alla volontà di Dio seguendo questo invito biblico: «Nel giorno lieto sta’ allegro» (Qo 7,14). La questione è avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore. In tal senso, si può accogliere la proposta di alcuni maestri orientali che insistono sull’allargare la coscienza, per non rimanere prigionieri in un’esperienza molto limitata che ci chiuderebbe le prospettive. Tale ampliamento della coscienza non è la negazione o la distruzione del desiderio, bensì la sua dilatazione e il suo perfezionamento.
La dimensione erotica dell’amore
150. Tutto questo ci porta a parlare della vita sessuale dei coniugi. Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature. Quando la si coltiva e si evita che manchi di controllo, è per impedire che si verifichi «l’impoverimento di un valore autentico»[146]. San Giovanni Paolo II ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a «una negazione del valore del sesso umano» o che semplicemente lo tolleri «per la necessità stessa della procreazione»[147]. Il bisogno sessuale degli sposi non è oggetto di disprezzo e «non si tratta in alcun modo di mettere in questione quel bisogno»[148].
151. A coloro che temono che con l’educazione delle passioni e della sessualità si pregiudichi la spontaneità dell’amore sessuato, san Giovanni Paolo II rispondeva che l’essere umano è «chiamato alla piena e maturaspontaneità dei rapporti», che «è il graduale frutto del discernimento degli impulsi del proprio cuore»[149]. È qualcosa che si conquista, dal momento che ogni essere umano «deve con perseveranza e coerenza imparare che cosaè il significato del corpo»[150]. La sessualità non è una risorsa per gratificare o intrattenere, dal momento che è un linguaggio interpersonale dove l’altro è preso sul serio, con il suo sacro e inviolabile valore. In tal modo «il cuore umano diviene partecipe, per così dire, di un’altra spontaneità»[151]. In questo contesto, l’erotismo appare come manifestazione specificamente umana della sessualità. In esso si può ritrovare «il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono»[152]. Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata «è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione», ma possiede «la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono».[153] L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi.
152. Pertanto, in nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi. Trattandosi di una passione sublimata dall’amore che ammira la dignità dell’altro, diventa una «piena e limpidissima affermazione d’amore» che ci mostra di quali meraviglie è capace il cuore umano, e così per un momento «si percepisce che l’esistenza umana è stata un successo»[154].
Violenza e manipolazione
153. Nel contesto di questa visione positiva della sessualità, è opportuno impostare il tema nella sua integrità e con un sano realismo. Infatti non possiamo ignorare che molte volte la sessualità si spersonalizza ed anche si colma di patologie, in modo tale che «diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti»[155]. In questa epoca diventa alto il rischio che anche la sessualità sia dominata dallo spirito velenoso dell’“usa e getta”. Il corpo dell’altro è spesso manipolato come una cosa da tenere finché offre soddisfazione e da disprezzare quando perde attrattiva. Si possono forse ignorare o dissimulare le costanti forme di dominio, prepotenza, abuso, perversione e violenza sessuale, che sono frutto di una distorsione del significato della sessualità e che seppelliscono la dignità degli altri e l’appello all’amore sotto un’oscura ricerca di sé stessi?
154. Non è superfluo ricordare che anche nel matrimonio la sessualità può diventare fonte di sofferenza e di manipolazione. Per questo dobbiamo ribadire con chiarezza che «un atto coniugale imposto al coniuge senza nessun riguardo alle sue condizioni ed ai suoi giusti desideri non è un vero atto di amore e nega pertanto un’esigenza del retto ordine morale nei rapporti tra gli sposi»[156]. Gli atti propri dell’unione sessuale dei coniugi rispondono alla natura della sessualità voluta da Dio se sono «compiuti in modo veramente umano».[157] Per questo san Paolo esortava: «Che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello» (1 Ts 4,6). Sebbene egli scrivesse in un’epoca in cui dominava una cultura patriarcale, nella quale la donna era considerata un essere completamente subordinato all’uomo, tuttavia insegnò che la sessualità dev’essere una questione da trattare tra i coniugi: prospettò la possibilità di rimandare i rapporti sessuali per un certo periodo, però «di comune accordo» (1 Cor 7,5).
155. San Giovanni Paolo II ha dato un avvertimento molto sottile quando ha affermato che l’uomo e la donna sono «minacciati dall’insaziabilità»[158]. Vale a dire, sono chiamati ad un’unione sempre più intensa, ma il rischio sta nel pretendere di cancellare le differenze e quell’inevitabile distanza che vi è tra i due. Perché ciascuno possiede una dignità propria e irripetibile. Quando la preziosa appartenenza reciproca si trasforma in dominio, «cambia […] essenzialmente la struttura di comunione nella relazione interpersonale»[159]. Nella logica del dominio, anche chi domina finisce per negare la propria dignità[160] e in definitiva cessa di «identificarsi soggettivamente con il proprio corpo»[161], dal momento che lo priva di ogni significato. Vive il sesso come evasione da sé stesso e come rinuncia alla bellezza dell’unione.
156. È importante essere chiari nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione sessuale. Perciò è opportuno evitare ogni interpretazione inadeguata del testo della Lettera agli Efesini dove si chiede che «le mogli siano [sottomesse] ai loro mariti» (Ef 5,22). San Paolo qui si esprime in categorie culturali proprie di quell’epoca, ma noi non dobbiamo assumere tale rivestimento culturale, bensì il messaggio rivelato che soggiace all’insieme della pericope. Riprendiamo la sapiente spiegazione di san Giovanni Paolo II: «L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito [...]. La comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole»[162]. Per questo si dice anche che «i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo» (Ef 5,28). In realtà il testo biblico invita a superare il comodo individualismo per vivere rivolti agli altri: «Siate sottomessi gli uni agli altri» (Ef 5,21). Tra i coniugi questa reciproca “sottomissione” acquisisce un significato speciale e si intende come un’appartenenza reciproca liberamente scelta, con un insieme di caratteristiche di fedeltà, rispetto e cura. La sessualità è in modo inseparabile al servizio di tale amicizia coniugale, perché si orienta a fare in modo che l’altro viva in pienezza.
157. Tuttavia, il rifiuto delle distorsioni della sessualità e dell’erotismo non dovrebbe mai condurci a disprezzarli o a trascurarli. L’ideale del matrimonio non si può configurare solo come una donazione generosa e sacrificata, dove ciascuno rinuncia ad ogni necessità personale e si preoccupa soltanto di fare il bene dell’altro senza alcuna soddisfazione. Ricordiamo che un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale. Benedetto XVI era chiaro a tale proposito: «Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità»[163]. Per questa ragione «l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono»[164]. Questo richiede, in ogni modo, di ricordare che l’equilibrio umano è fragile, che rimane sempre qualcosa che resiste ad essere umanizzato e che in qualsiasi momento può scatenarsi nuovamente, recuperando le sue tendenze più primitive ed egoistiche.
Matrimonio e verginità
158. «Molte persone che vivono senza sposarsi non soltanto sono dedite alla propria famiglia d’origine, ma spesso rendono grandi servizi nella loro cerchia di amici, nella comunità ecclesiale e nella vita professionale. […] Molti, poi, mettono i loro talenti a servizio della comunità cristiana nel segno della carità e del volontariato. Vi sono poi coloro che non si sposano perché consacrano la vita per amore di Cristo e dei fratelli. Dalla loro dedizione la famiglia, nella Chiesa e nella società, è grandemente arricchita»[165].
159. La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1 Cor 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1 Cor 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1 Cor 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato»[166] a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana»[167].
160. Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza»[168] e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione [...]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici»[169].Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo»[170].
161. La verginità ha il valore simbolico dell’amore che non ha la necessità di possedere l’altro, e riflette in tal modo la libertà del Regno dei Cieli. È un invito agli sposi perché vivano il loro amore coniugale nella prospettiva dell’amore definitivo a Cristo, come un cammino comune verso la pienezza del Regno. A sua volta, l’amore degli sposi presenta altri valori simbolici: da una parte, è un peculiare riflesso della Trinità. Infatti la Trinità è unità piena, nella quale però esiste anche la distinzione. Inoltre, la famiglia è un segno cristologico, perché manifesta la vicinanza di Dio che condivide la vita dell’essere umano unendosi ad esso nell’Incarnazione, nella Croce e nella Risurrezione: ciascun coniuge diventa “una sola carne” con l’altro e offre sé stesso per condividerlo interamente con l’altro sino alla fine. Mentre la verginità è un segno “escatologico” di Cristo risorto, il matrimonio è un segno “storico” per coloro che camminano sulla terra, un segno di Cristo terreno che accettò di unirsi a noi e si donò fino a donare il suo sangue. La verginità e il matrimonio sono, e devono essere, modalità diverse di amare, perché «l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore»[171].
162. Il celibato corre il rischio di essere una comoda solitudine, che offre libertà per muoversi con autonomia, per cambiare posto, compiti e scelte, per disporre del proprio denaro, per frequentare persone diverse secondo l’attrattiva del momento. In tal caso, risplende la testimonianza delle persone sposate. Coloro che sono stati chiamati alla verginità possono trovare in alcune coppie di coniugi un segno chiaro della generosa e indistruttibile fedeltà di Dio alla sua Alleanza, che può stimolare i loro cuori a una disponibilità più concreta e oblativa. Infatti ci sono persone sposate che mantengono la loro fedeltà quando il coniuge è diventato sgradevole fisicamente, o quando non soddisfa le loro necessità, nonostante che molte occasioni li invitino all’infedeltà o all’abbandono. Una donna può curare suo marito malato e lì, accanto alla Croce, torna a ripetere il “sì” del suo amore fino alla morte. In tale amore si manifesta in modo splendido la dignità di chi ama, dignità come riflesso della carità, dal momento che è proprio della carità amare più che essere amati[172].Possiamo anche riscontrare in molte famiglie una capacità di servizio oblativo e tenero nei confronti di figli difficili e persino ingrati. Questo fa di tali genitori un segno dell’amore libero e disinteressato di Gesù. Tutto ciò diventa un invito alle persone celibi perché vivano la loro dedizione per il Regno con maggiore generosità e disponibilità. Oggi la secolarizzazione ha offuscato il valore di un’unione per tutta la vita e ha sminuito la ricchezza della dedizione matrimoniale, per cui «occorre approfondire gli aspetti positivi dell’amore coniugale»[173].
La trasformazione dell’amore
163. Il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese. Forse il coniuge non è più attratto da un desiderio sessuale intenso che lo muova verso l’altra persona, però sente il piacere di appartenerle e che essa gli appartenga, di sapere che non è solo, di aver un “complice” che conosce tutto della sua vita e della sua storia e che condivide tutto. È il compagno nel cammino della vita con cui si possono affrontare le difficoltà e godere le cose belle. Anche questo genera una soddisfazione che accompagna il desiderio proprio dell’amore coniugale. Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità. L’amore che ci promettiamo supera ogni emozione, sentimento o stato d’animo, sebbene possa includerli. È un voler bene più profondo, con una decisione del cuore che coinvolge tutta l’esistenza. Così, in mezzo ad un conflitto non risolto, e benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi. Ciascuno dei due compie un cammino di crescita e di cambiamento personale. Nel corso di tale cammino, l’amore celebra ogni passo e ogni nuova tappa.
164. Nella storia di un matrimonio, l’aspetto fisico muta, ma questo non è un motivo perché l’attrazione amorosa venga meno. Ci si innamora di una persona intera con una identità propria, non solo di un corpo, sebbene tale corpo, al di là del logorio del tempo, non finisca mai di esprimere in qualche modo quell’identità personale che ha conquistato il cuore. Quando gli altri non possono più riconoscere la bellezza di tale identità, il coniuge innamorato continua ad essere capace di percepirla con l’istinto dell’amore, e l’affetto non scompare. Riafferma la sua decisione di appartenere ad essa, la sceglie nuovamente ed esprime tale scelta attraverso una vicinanza fedele e colma di tenerezza. La nobiltà della sua decisione per essa, essendo intensa e profonda, risveglia una nuova forma di emozione nel compimento della missione coniugale. Perché «l’emozione provocata da un altro essere umano come persona [...] non tende di per sé all’atto coniugale»[174]. Acquisisce altre espressioni sensibili perché l’amore «è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente»[175]. Il vincolo trova nuove modalità ed esige la decisione di riprendere sempre nuovamente a stabilirlo. Non solo però per conservarlo, ma per farlo crescere. È il cammino di costruirsi giorno per giorno. Ma nulla di questo è possibile se non si invoca lo Spirito Santo, se non si grida ogni giorno chiedendo la sua grazia, se non si cerca la sua forza soprannaturale, se non gli si richiede ansiosamente che effonda il suo fuoco sopra il nostro amore per rafforzarlo, orientarlo e trasformarlo in ogni nuova situazione.
CAPITOLO QUINTO
L’AMORE CHE DIVENTA FECONDO
165. L’amore dà sempre vita. Per questo, l’amore coniugale «non si esaurisce all’interno della coppia [...]. I coniugi, mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva ed indissociabile del loro essere padre e madre»[176].
Accogliere una nuova vita
166. La famiglia è l’ambito non solo della generazione, ma anche dell’accoglienza della vita che arriva come dono di Dio. Ogni nuova vita «ci permette di scoprire la dimensione più gratuita dell’amore, che non finisce mai di stupirci. È la bellezza di essere amati prima: i figli sono amati prima che arrivino»[177]. Questo riflette il primato dell’amore di Dio che prende sempre l’iniziativa, perché i figli «sono amati prima di aver fatto qualsiasi cosa per meritarlo»[178]. Tuttavia, «tanti bambini fin dall’inizio sono rifiutati, abbandonati, derubati della loro infanzia e del loro futuro. Qualcuno osa dire, quasi per giustificarsi, che è stato un errore farli venire al mondo. Questo è vergognoso! […] Che ne facciamo delle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo e dei diritti del bambino, se poi puniamo i bambini per gli errori degli adulti?»[179]. Se un bambino viene al mondo in circostanze non desiderate, i genitori o gli altri membri della famiglia, devono fare tutto il possibile per accettarlo come dono di Dio e per assumere la responsabilità di accoglierlo con apertura e affetto. Perché «quando si tratta dei bambini che vengono al mondo, nessun sacrificio degli adulti sarà giudicato troppo costoso o troppo grande, pur di evitare che un bambino pensi di essere uno sbaglio, di non valere niente e di essere abbandonato alle ferite della vita e alla prepotenza degli uomini»[180]. Il dono di un nuovo figlio che il Signore affida a papà e mamma ha inizio con l’accoglienza, prosegue con la custodia lungo la vita terrena e ha come destino finale la gioia della vita eterna. Uno sguardo sereno verso il compimento ultimo della persona umana renderà i genitori ancora più consapevoli del prezioso dono loro affidato: ad essi infatti Dio concede di scegliere il nome col quale Egli chiamerà ogni suo figlio per l’eternità[181].
167. Le famiglie numerose sono una gioia per la Chiesa. In esse l’amore esprime la sua fecondità generosa. Questo non implica dimenticare una sana avvertenza di san Giovanni Paolo II, quando spiegava che la paternità responsabile non è «procreazione illimitata o mancanza di consapevolezza circa il significato di allevare figli, ma piuttosto la possibilità data alle coppie di utilizzare la loro inviolabile libertà saggiamente e responsabilmente, tenendo presente le realtà sociali e demografiche così come la propria situazione e i legittimi desideri»[182].
L’amore nell’attesa propria della gravidanza
168. La gravidanza è un periodo difficile, ma anche un tempo meraviglioso. La madre collabora con Dio perché si produca il miracolo di una nuova vita. La maternità proviene da una «particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con peculiarità creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere umano»[183]. Ogni donna partecipa «del mistero della creazione, che si rinnova nella generazione umana»[184]. Come dice il Salmo: «Mi hai tessuto nel grembo di mia madre» (139,13). Ogni bambino che si forma all’interno di sua madre è un progetto eterno di Dio Padre e del suo amore eterno: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5). Ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio, e nel momento in cui viene concepito si compie il sogno eterno del Creatore. Pensiamo quanto vale l’embrione dall’istante in cui è concepito! Bisogna guardarlo con lo stesso sguardo d’amore del Padre, che vede oltre ogni apparenza.
169. La donna in gravidanza può partecipare a tale progetto di Dio sognando suo figlio: «Tutte le mamme e tutti i papà hanno sognato il loro figlio per nove mesi. […] Non è possibile una famiglia senza il sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l’amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne»[185]. All’interno di questo sogno, per una coppia di coniugi cristiani, appare necessariamente il Battesimo. I genitori lo preparano con la loro preghiera, affidando il figlio a Gesù già prima della sua nascita.
170. Con i progressi delle scienze oggi si può sapere in anticipo che colore di capelli avrà il bambino e di quali malattie potrà soffrire in futuro, perché tutte le caratteristiche somatiche di quella persona sono inscritte nel suo codice genetico già nello stadio embrionale. Ma solo il Padre che lo ha creato lo conosce pienamente. Solo Lui conosce ciò che è più prezioso, ciò che è più importante, perché Egli sa chi è quel bambino, qual è la sua identità più profonda. La madre che lo porta nel suo grembo ha bisogno di chiedere luce a Dio per poter conoscere in profondità il proprio figlio e per attenderlo quale è veramente. Alcuni genitori sentono che il loro figlio non arriva nel momento migliore. Hanno bisogno di chiedere al Signore che li guarisca e li fortifichi per accettare pienamente quel figlio, per poterlo attendere con il cuore. È importante che quel bambino si senta atteso. Egli non è un complemento o una soluzione per un’aspirazione personale. È un essere umano, con un valore immenso e non può venire usato per il proprio beneficio. Dunque, non è importante se questa nuova vita ti servirà o no, se possiede caratteristiche che ti piacciono o no, se risponde o no ai tuoi progetti e ai tuoi sogni. Perché «i figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile […]. Un figlio lo si ama perché è figlio: non perché è bello, o perché è così o cosà; no, perché è figlio! Non perché la pensa come me, o incarna i miei desideri. Un figlio è un figlio»[186]. L’amore dei genitori è strumento dell’amore di Dio Padre che attende con tenerezza la nascita di ogni bambino, lo accetta senza condizioni e lo accoglie gratuitamente.
171. Ad ogni donna in gravidanza desidero chiedere con affetto: abbi cura della tua gioia, che nulla ti tolga la gioia interiore della maternità. Quel bambino merita la tua gioia. Non permettere che le paure, le preoccupazioni, i commenti altrui o i problemi spengano la felicità di essere strumento di Dio per portare al mondo una nuova vita. Occupati di quello che c’è da fare o preparare, ma senza ossessionarti, e loda come Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,46-48). Vivi con sereno entusiasmo in mezzo ai tuoi disagi, e prega il Signore che custodisca la tua gioia perché tu possa trasmetterla al tuo bambino.
Amore di madre e di padre
172. «I bambini, appena nati, incominciano a ricevere in dono, insieme col nutrimento e le cure, la conferma delle qualità spirituali dell’amore. Gli atti dell’amore passano attraverso il dono del nome personale, la condivisione del linguaggio, le intenzioni degli sguardi, le illuminazioni dei sorrisi. Imparano così che la bellezza del legame fra gli esseri umani punta alla nostra anima, cerca la nostra libertà, accetta la diversità dell’altro, lo riconosce e lo rispetta come interlocutore. […] E questo è amore, che porta una scintilla di quello di Dio!»[187]. Ogni bambino ha il diritto di ricevere l’amore di una madre e di un padre, entrambi necessari per la sua maturazione integra e armoniosa. Come hanno affermato i Vescovi dell’Australia, entrambi «contribuiscono, ciascuno in una maniera diversa, alla crescita di un bambino. Rispettare la dignità di un bambino significa affermare la sua necessità e il suo diritto naturale ad avere una madre e un padre»[188]. Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia. Diversamente, il figlio sembra ridursi ad un possesso capriccioso. Entrambi, uomo e donna, padre e madre, sono «cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti»[189]. Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore. Inoltre essi insieme insegnano il valore della reciprocità, dell’incontro tra differenti, dove ciascuno apporta la sua propria identità e sa anche ricevere dall’altro. Se per qualche ragione inevitabile manca uno dei due, è importante cercare qualche maniera per compensarlo, per favorire l’adeguata maturazione del figlio.
173. Il sentimento di essere orfani che sperimentano oggi molti bambini e giovani è più profondo di quanto pensiamo. Oggi riconosciamo come pienamente legittimo, e anche auspicabile, che le donne vogliano studiare, lavorare, sviluppare le proprie capacità e avere obiettivi personali. Ma nello stesso tempo non possiamo ignorare la necessità che hanno i bambini della presenza materna, specialmente nei primi mesi di vita. La realtà è che «la donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo»[190]. Il diminuire della presenza materna con le sue qualità femminili costituisce un rischio grave per la nostra terra. Apprezzo il femminismo quando non pretende l’uniformità né la negazione della maternità. Perché la grandezza della donna implica tutti i diritti che derivano dalla sua inalienabile dignità umana, ma anche dal suo genio femminile, indispensabile per la società. Le sue capacità specificamente femminili – in particolare la maternità – le conferiscono anche dei doveri, perché il suo essere donna comporta anche una missione peculiare su questa terra, che la società deve proteggere e preservare per il bene di tutti[191].
174. Di fatto, «le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. […] Sono esse a testimoniare la bellezza della vita»[192]. Senza dubbio, «una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara […]. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo. […] Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo»[193].
175. La madre, che protegge il bambino con la sua tenerezza e la sua compassione, lo aiuta a far emergere la fiducia, a sperimentare che il mondo è un luogo buono che lo accoglie, e questo permette di sviluppare un’autostima che favorisce la capacità di intimità e l’empatia. La figura paterna, d’altra parte, aiuta a percepire i limiti della realtà e si caratterizza maggiormente per l’orientamento, per l’uscita verso il mondo più ampio e ricco di sfide, per l’invito allo sforzo e alla lotta. Un padre con una chiara e felice identità maschile, che a sua volta unisca nel suo tratto verso la moglie l’affetto e l’accoglienza, è tanto necessario quanto le cure materne. Vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia, ma la presenza chiara e ben definita delle due figure, femminile e maschile, crea l’ambiente più adatto alla maturazione del bambino.
176. Si dice che la nostra società è una “società senza padri”. Nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. Si è verificata una comprensibile confusione, perché «in un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione»[194]. Tuttavia, «come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani»[195]. La presenza paterna, e pertanto la sua autorità, risulta intaccata anche dal tempo sempre maggiore che si dedica ai mezzi di comunicazione e alla tecnologia dello svago. Inoltre oggi l’autorità è vista con sospetto e gli adulti sono duramente messi in discussione. Loro stessi abbandonano le certezze e perciò non offrono ai figli orientamenti sicuri e ben fondati. Non è sano che si scambino i ruoli tra genitori e figli: ciò danneggia l’adeguato processo di maturazione che i bambini hanno bisogno di compiere e nega loro un amore capace di orientarli e che li aiuti a maturare[196].
177. Dio pone il padre nella famiglia perché, con le preziose caratteristiche della sua mascolinità, «sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E [perché] sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore. Perché i padri troppo controllori annullano i figli»[197]. Alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che «i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno»[198]. Non è bene che i bambini rimangano senza padri e così smettano di essere bambini prima del tempo.
Fecondità allargata
178. Molte coppie di sposi non possono avere figli. Sappiamo quanta sofferenza questo comporti. D’altra parte, sappiamo pure che «il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione […]. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità»[199]. Inoltre «la maternità non è una realtà esclusivamente biologica, ma si esprime in diversi modi»[200].
179. L’adozione è una via per realizzare la maternità e la paternità in un modo molto generoso, e desidero incoraggiare quanti non possono avere figli ad allargare e aprire il loro amore coniugale per accogliere coloro che sono privi di un adeguato contesto familiare. Non si pentiranno mai di essere stati generosi. Adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha. È importante insistere affinché la legislazione possa facilitare le procedure per l’adozione, soprattutto nei casi di figli non desiderati, al fine di prevenire l’aborto o l’abbandono. Coloro che affrontano la sfida di adottare e accolgono una persona in modo incondizionato e gratuito, diventano mediazione dell’amore di Dio che afferma: “Anche se tua madre ti dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (cfr Is 49,15).
180. «La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, al di là dei casi in cui è dolorosamente segnata dalla sterilità. […] A fronte di quelle situazioni in cui il figlio è preteso a qualsiasi costo, come diritto del proprio completamento, l’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo. L’interesse prevalente del bambino dovrebbe sempre ispirare le decisioni sull’adozione e l’affido»[201]. D’altra parte «il traffico di bambini fra Paesi e Continenti va impedito con opportuni interventi legislativi e controlli degli Stati»[202].
181. È opportuno anche ricordare che la procreazione e l’adozione non sono gli unici modi di vivere la fecondità dell’amore. Anche la famiglia con molti figli è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene. Le famiglie cristiane non dimentichino che «la fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso. […] Ognuno di noi, infatti, svolge un ruolo speciale nella preparazione della venuta del Regno di Dio»[203]. La famiglia non deve pensare sé stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale. In tal modo diventa un luogo d’integrazione della persona con la società e un punto di unione tra il pubblico e il privato. I coniugi hanno bisogno di acquisire una chiara e convinta consapevolezza riguardo ai loro doveri sociali. Quando questo accade, l’affetto che li unisce non viene meno, ma si riempie di nuova luce, come esprimono i seguenti versi:
«Le tue mani sono la mia carezza
i miei accordi quotidiani
ti amo perché le tue mani
si adoperano per la giustizia.
Se ti amo è perché sei
il mio amore la mia complice e tutto
e per la strada fianco a fianco
siamo molto più di due»[204].
182. Nessuna famiglia può essere feconda se si concepisce come troppo differente o “separata”. Per evitare questo rischio, ricordiamo che la famiglia di Gesù, piena di grazia e di saggezza, non era vista come una famiglia “strana”, come una casa estranea e distante dal popolo. Proprio per tale ragione la gente faceva fatica a riconoscere la sapienza di Gesù e diceva: «Da dove gli vengono queste cose? […] Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6,2-3). «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55). Questo conferma che era una famiglia semplice, vicina a tutti, inserita in maniera normale nel popolo. Neppure Gesù crebbe in una relazione chiusa ed esclusiva con Maria e Giuseppe, ma si muoveva con piacere nella famiglia allargata in cui c’erano parenti e amici. Questo spiega che, quando tornavano da Gerusalemme, i suoi genitori accettassero che il bambino di dodici anni si perdesse nella carovana per un giorno intero, ascoltando i racconti e condividendo le preoccupazioni di tutti: «Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio» (Lc 2,44). Invece a volte succede che certe famiglie cristiane, per il linguaggio che usano, per il modo di dire le cose, per lo stile del loro tratto, per la ripetizione continua di due o tre temi, sono viste come lontane, come separate dalla società, persino i loro stessi parenti si sentono disprezzati o giudicati da esse.
183. Una coppia di sposi che sperimenta la forza dell’amore, sa che tale amore è chiamato a sanare le ferite degli abbandonati, a instaurare la cultura dell’incontro, a lottare per la giustizia. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo[205], affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello: «Uno sguardo attento alla vita quotidiana degli uomini e delle donne di oggi mostra immediatamente il bisogno che c’è ovunque di una robusta iniezione di spirito famigliare. […] Non solo l’organizzazione della vita comune si incaglia sempre più in una burocrazia del tutto estranea ai legami umani fondamentali, ma, addirittura, il costume sociale e politico mostra spesso segni di degrado»[206]. Invece le famiglie aperte e solidali fanno spazio ai poveri, sono capaci di tessere un’amicizia con quelli che stanno peggio di loro. Se realmente hanno a cuore il Vangelo, non possono dimenticare quello che dice Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). In definitiva, vivono quello che ci viene chiesto in modo tanto eloquente in questo testo: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato» (Lc 14,12-14). Sarai beato! Ecco qui il segreto di una famiglia felice.
184. Con la testimonianza, e anche con la parola, le famiglie parlano di Gesù agli altri, trasmettono la fede, risvegliano il desiderio di Dio, e mostrano la bellezza del Vangelo e dello stile di vita che ci propone. Così i coniugi cristiani dipingono il grigio dello spazio pubblico riempiendolo con i colori della fraternità, della sensibilità sociale, della difesa delle persone fragili, della fede luminosa, della speranza attiva. La loro fecondità si allarga e si traduce in mille modi di rendere presente l’amore di Dio nella società.
Discernere il corpo
185. In questa linea è opportuno prendere molto sul serio un testo biblico che si è soliti interpretare fuori del suo contesto, o in una maniera molto generale, per cui si può disattendere il suo significato più immediato e diretto, che è marcatamente sociale. Si tratta di 1 Cor 11,17-34, dove san Paolo affronta una situazione vergognosa della comunità. In quel contesto alcune persone abbienti tendevano a discriminare quelle povere, e questo si verificava persino nell’incontro conviviale che accompagnava la celebrazione dell’Eucaristia. Mentre i ricchi godevano dei loro cibi prelibati, i poveri facevano da spettatori ed erano affamati: «così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente?» (vv. 21-22).
186. L’Eucaristia esige l’integrazione nell’unico corpo ecclesiale. Chi si accosta al Corpo e al Sangue di Cristo non può nello stesso tempo offendere quel medesimo Corpo operando scandalose divisioni e discriminazioni tra le sue membra. Si tratta infatti di “discernere” il Corpo del Signore, di riconoscerlo con fede e carità sia nei segni sacramentali sia nella comunità, altrimenti si mangia e si beve la propria condanna (cfr v. 29). Questo testo biblico è un serio avvertimento per le famiglie che si richiudono nella loro propria comodità e si isolano, ma più specificamente per le famiglie che restano indifferenti davanti alle sofferenze delle famiglie povere e più bisognose. La celebrazione eucaristica diventa così un costante appello rivolto a ciascuno perché «esamini se stesso» (v. 28) al fine di aprire le porte della propria famiglia ad una maggior comunione con coloro che sono scartati dalla società e dunque ricevere davvero il Sacramento dell’amore eucaristico che fa di noi un solo corpo. Non bisogna dimenticare che «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale»[207]. Quando coloro che si comunicano non accettano di lasciarsi spingere verso un impegno con i poveri e i sofferenti o acconsentono a diverse forme di divisione, di disprezzo e di ingiustizia, l’Eucaristia è ricevuta indegnamente. Invece, le famiglie che si nutrono dell’Eucaristia con la giusta disposizione, rafforzano il loro desiderio di fraternità, il loro senso sociale e il loro impegno con i bisognosi.
La vita nella famiglia in senso ampio
187. Il piccolo nucleo familiare non dovrebbe isolarsi dalla famiglia allargata, dove ci sono i genitori, gli zii, i cugini ed anche i vicini. In tale famiglia larga ci possono essere alcuni che hanno bisogno di aiuto o almeno di compagnia e di gesti di affetto, o possono esserci grandi sofferenze che hanno bisogno di un conforto[208]. L’individualismo di questi tempi a volte conduce a rinchiudersi nella sicurezza di un piccolo nido e a percepire gli altri come un pericolo molesto. Tuttavia, tale isolamento non offre più pace e felicità, ma chiude il cuore della famiglia e la priva dell’orizzonte ampio dell’esistenza.
Essere figli
188. In primo luogo parliamo dei propri genitori. Gesù ricordava ai farisei che l’abbandono dei genitori è contrario alla Legge di Dio (cfr Mc 7,8-13). A nessuno fa bene perdere la coscienza di essere figlio. In ogni persona, «anche se uno diventa adulto, o anziano, anche se diventa genitore, se occupa un posto di responsabilità, al di sotto di tutto questo rimane l’identità di figlio. Tutti siamo figli. E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta. Il grande dono della vita è il primo regalo che abbiamo ricevuto»[209].
189. Per questo «il quarto comandamento chiede ai figli […] di onorare il padre e la madre (cfr Es 20,12). Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio stesso. Infatti contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di ogni altro genere di rispetto fra gli uomini. E nella formulazione biblica del quarto comandamento si aggiunge: “perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore tuo Dio ti dà”. Il legame virtuoso tra le generazioni è garanzia di futuro, ed è garanzia di una storia davvero umana. Una società di figli che non onorano i genitori è una società senza onore […]. È una società destinata a riempirsi di giovani aridi e avidi»[210].
190. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre» (Gen 2,24), afferma la Parola di Dio. Questo a volte non si realizza, e il matrimonio non viene assunto fino in fondo perché non si è compiuta tale rinuncia e tale dedizione. I genitori non devono essere abbandonati né trascurati, tuttavia, per unirsi in matrimonio occorre lasciarli, in modo che la nuova casa sia la dimora, la protezione, la piattaforma e il progetto, e sia possibile diventare realmente «una sola carne» (ibid.). In alcuni matrimoni capita che si nascondano molte cose al proprio coniuge, che invece si dicono ai propri genitori, al punto che contano di più le opinioni dei genitori che i sentimenti e le opinioni del coniuge. Non è facile sostenere questa situazione per molto tempo, ed essa è possibile solo provvisoriamente, mentre si creano le condizioni per crescere nella fiducia e nel dialogo. Il matrimonio sfida a trovare un nuovo modo di essere figli.
Gli anziani
191. «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze» (Sal 71,9). È il grido dell’anziano, che teme l’oblio e il disprezzo. Così come Dio ci invita ad essere suoi strumenti per ascoltare la supplica dei poveri, Egli attende anche da noi che ascoltiamo il grido degli anziani[211]. Questo interpella le famiglie e le comunità, perché «la Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della sua comunità. Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna»[212]. Perciò, «come vorrei una Chiesa che sfida la cultura dello scarto con la gioia traboccante di un nuovo abbraccio tra i giovani e gli anziani!»[213].
192. San Giovanni Paolo II ci ha invitato a prestare attenzione al posto dell’anziano nella famiglia, perché vi sono culture che «in seguito ad un disordinato sviluppo industriale ed urbanistico, hanno condotto e continuano a condurre gli anziani a forme inaccettabili di emarginazione»[214]. Gli anziani aiutano a percepire «la continuità delle generazioni», con «il carisma di ricucire gli strappi»[215]. Molte volte sono i nonni che assicurano la trasmissione dei grandi valori ai loro nipoti e «molte persone possono constatare che proprio ai nonni debbono la loro iniziazione alla vita cristiana»[216]. Le loro parole, le loro carezze o la loro sola presenza aiutano i bambini a riconoscere che la storia non inizia con loro, che sono eredi di un lungo cammino e che bisogna rispettare il retroterra che ci precede. Coloro che rompono i legami con la storia avranno difficoltà a tessere relazioni stabili e a riconoscere che non sono i padroni della realtà. Dunque, «l’attenzione agli anziani fa la differenza di una civiltà. In una civiltà c’è attenzione all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani»[217].
193. La mancanza di memoria storica è un grave difetto della nostra società. È la mentalità immatura dell’“ormai è passato”. Conoscere e poter prendere posizione di fronte agli avvenimenti passati è l’unica possibilità di costruire un futuro che abbia senso. Non si può educare senza memoria: «Richiamate alla memoria quei primi giorni» (Eb 10,32). I racconti degli anziani fanno molto bene ai bambini e ai giovani, poiché li mettono in collegamento con la storia vissuta sia della famiglia sia del quartiere e del Paese. Una famiglia che non rispetta e non ha cura dei suoi nonni, che sono la sua memoria viva, è una famiglia disintegrata; invece una famiglia che ricorda è una famiglia che ha futuro. Pertanto, «in una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa società porta con sé il virus della morte»[218], dal momento che «si strappa dalle proprie radici»[219]. Il fenomeno contemporaneo del sentirsi orfani, in termini di discontinuità, sradicamento e caduta delle certezze che danno forma alla vita, ci sfida a fare delle nostre famiglie un luogo in cui i bambini possano radicarsi nel terreno di una storia collettiva.
Essere fratelli
194. La relazione tra i fratelli si approfondisce con il passare del tempo, e «il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana […]. Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera società»[220].
195. Crescere tra fratelli offre la bella esperienza di una cura reciproca, di aiutare e di essere aiutati. Perciò «la fraternità in famiglia risplende in modo speciale quando vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap»[221]. Bisogna riconoscere che «avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è un’esperienza forte, impagabile, insostituibile»[222], però occorre insegnare con pazienza ai figli a trattarsi da fratelli. Tale tirocinio, a volte faticoso, è una vera scuola di socialità. In alcuni Paesi esiste una forte tendenza ad avere un solo figlio, per cui l’esperienza di essere fratello comincia ad essere poco comune. Nel caso in cui non sia stato possibile avere più di un figlio, si dovrà trovare il modo di far sì che il bambino non cresca solo o isolato.
Un cuore grande
196. Oltre il piccolo cerchio formato dai coniugi e dai loro figli, vi è la famiglia allargata che non può essere ignorata. Infatti «l’amore tra l’uomo e la donna nel matrimonio e, in forma derivata ed allargata, l’amore tra i membri della stessa famiglia - tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari - è animato e sospinto da un interiore e incessante dinamismo, che conduce la famiglia ad una comunione sempre più profonda ed intensa, fondamento e anima della comunità coniugale e familiare»[223]. In tale ambito si inseriscono anche gli amici e le famiglie amiche, ed anche le comunità di famiglie che si sostengono a vicenda nelle difficoltà, nell’impegno sociale e nella fede.
197. Questa famiglia allargata dovrebbe accogliere con tanto amore le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole che devono portare avanti l’educazione dei loro figli, le persone con disabilità che richiedono molto affetto e vicinanza, i giovani che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, quelle separate o vedove che soffrono la solitudine, gli anziani e i malati che non ricevono l’appoggio dei loro figli, fino ad includere nel loro seno «persino i più disastrati nelle condotte della loro vita»[224].Può anche aiutare a compensare le fragilità dei genitori, o a scoprire e denunciare in tempo possibili situazioni di violenza o anche di abuso subite dai bambini, dando loro un amore sano e un sostegno familiare quando i loro genitori non possono assicurarlo.
198. Infine non si può dimenticare che in questa famiglia allargata vi sono anche il suocero, la suocera e tutti i parenti del coniuge. Una delicatezza propria dell’amore consiste nell’evitare di vederli come dei concorrenti, come persone pericolose, come invasori. L’unione coniugale chiede di rispettare le loro tradizioni e i loro costumi, cercare di comprendere il loro linguaggio, limitare le critiche, avere cura di loro e integrarli in qualche modo nel proprio cuore, anche quando si dovrebbe preservare la legittima autonomia e l’intimità della coppia. Questi atteggiamenti sono anche un modo squisito di esprimere la generosità della dedizione amorosa al proprio coniuge.
CAPITOLO SESTO
ALCUNE PROSPETTIVE PASTORALI
199. I dialoghi del cammino sinodale hanno condotto a prospettare la necessità di sviluppare nuove vie pastorali, che cercherò ora di riassumere in modo generale. Saranno le diverse comunità a dover elaborare proposte più pratiche ed efficaci, che tengano conto sia degli insegnamenti della Chiesa sia dei bisogni e delle sfide locali. Senza pretendere di presentare qui una pastorale della famiglia, intendo limitarmi solo a raccogliere alcune delle principali sfide pastorali.
Annunciare il Vangelo della famiglia oggi
200. I Padri sinodali hanno insistito sul fatto che le famiglie cristiane, per la grazia del sacramento nuziale, sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo «la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche»[225]. Per questo hanno sottolineato che «si tratta di far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che “riempie il cuore e la vita intera”, perché in Cristo siamo “liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento” (Evangelii gaudium, 1). Alla luce della parabola del seminatore (cfr Mt 13,3-9), il nostro compito è di cooperare nella semina: il resto è opera di Dio. Non bisogna nemmeno dimenticare che la Chiesa che predica sulla famiglia è segno di contraddizione»[226], ma gli sposi apprezzano che i Pastori offrano loro motivazioni per una coraggiosa scommessa su un amore forte, solido, duraturo, capace di far fronte a tutto ciò che si presenti sulla loro strada. La Chiesa vuole raggiungere le famiglie con umile comprensione, e il suo desiderio «è di accompagnare ciascuna e tutte le famiglie perché scoprano la via migliore per superare le difficoltà che incontrano sul loro cammino»[227]. Non basta inserire una generica preoccupazione per la famiglia nei grandi progetti pastorali. Affinché le famiglie possano essere sempre più soggetti attivi della pastorale familiare, si richiede «uno sforzo evangelizzatore e catechetico indirizzato all’interno della famiglia»[228], che la orienti in questa direzione.
201. «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone»[229]. La pastorale familiare «deve far sperimentare che il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità. Non si tratta soltanto di presentare una normativa, ma di proporre valori, rispondendo al bisogno di essi che si constata oggi, anche nei paesi più secolarizzati»[230]. Inoltre «si è parimenti sottolineata la necessità di una evangelizzazione che denunzi con franchezza i condizionamenti culturali, sociali, politici ed economici, come l’eccessivo spazio dato alla logica del mercato, che impediscono un’autentica vita familiare, determinando discriminazioni, povertà, esclusioni e violenza. Per questo va sviluppato un dialogo e una cooperazione con le strutture sociali, e vanno incoraggiati e sostenuti i laici che si impegnano, come cristiani, in ambito culturale e sociopolitico»[231].
202. «Il principale contributo alla pastorale familiare viene offerto dalla parrocchia, che è una famiglia di famiglie, dove si armonizzano i contributi delle piccole comunità, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali»[232]. Insieme con una pastorale specificamente orientata alle famiglie, ci si prospetta la necessità di «una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale»[233]. Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati.
203. I seminaristi dovrebbero accedere ad una formazione interdisciplinare più ampia sul fidanzamento e il matrimonio, e non solamente alla dottrina. Inoltre, la formazione non sempre permette loro di esprimere il proprio mondo psicoaffettivo. Alcuni portano nella loro vita l’esperienza della propria famiglia ferita, con assenza di genitori e con instabilità emotiva. Occorrerà garantire durante la formazione una maturazione affinché i futuri ministri possiedano l’equilibrio psichico che il loro compito esige. I vincoli familiari sono fondamentali per fortificare la sana autostima dei seminaristi. Perciò è importante che le famiglie accompagnino tutto il processo del seminario e del sacerdozio, poiché aiutano a fortificarlo in modo realistico. In tal senso è salutare la combinazione di tempi di vita in seminario con altri di vita in parrocchia, che permettano di prendere maggior contatto con la realtà concreta delle famiglie. Infatti, lungo tutta la sua vita pastorale il sacerdote si incontra soprattutto con famiglie. «La presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento per la varietà e la complementarietà delle diverse vocazioni nella Chiesa»[234].
204. Le risposte alle consultazioni esprimono anche con insistenza la necessità della formazione di operatori laici di pastorale familiare con l’aiuto di psicopedagogisti, medici di famiglia, medici di comunità, assistenti sociali, avvocati per i minori e le famiglie, con l’apertura a ricevere gli apporti della psicologia, della sociologia, della sessuologia e anche del counseling. I professionisti, specialmente coloro che hanno esperienza di accompagnamento, aiutano a incarnare le proposte pastorali nelle situazioni reali e nelle preoccupazioni concrete delle famiglie. «Itinerari e corsi di formazione destinati specificamente agli operatori pastorali potranno renderli idonei ad inserire lo stesso cammino di preparazione al matrimonio nella più ampia dinamica della vita ecclesiale»[235]. Una buona preparazione pastorale è importante «anche in vista delle particolari situazioni di emergenza determinate dai casi di violenza domestica e di abuso sessuale»[236]. Tutto ciò in nessun modo sminuisce, bensì integra il valore fondamentale della direzione spirituale, delle inestimabili risorse spirituali della Chiesa e della Riconciliazione sacramentale.
Guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio
205. I Padri sinodali hanno affermato in diversi modi che bisogna aiutare i giovani a scoprire il valore e la ricchezza del matrimonio[237]. Devono poter cogliere l’attrattiva di un’unione piena che eleva e perfeziona la dimensione sociale dell’esistenza, conferisce alla sessualità il suo senso più grande, e al tempo stesso promuove il bene dei figli e offre loro il miglior contesto per la loro maturazione ed educazione.
206. «La complessa realtà sociale e le sfide che la famiglia oggi è chiamata ad affrontare richiedono un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio. È necessario ricordare l’importanza delle virtù. Tra esse la castità risulta condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale. Riguardo a questa necessità i Padri sinodali sono stati concordi nel sottolineare l’esigenza di un maggiore coinvolgimento dell’intera comunità privilegiando la testimonianza delle stesse famiglie, oltre che di un radicamento della preparazione al matrimonio nel cammino di iniziazione cristiana, sottolineando il nesso del matrimonio con il battesimo e gli altri sacramenti. Si è parimenti evidenziata la necessità di programmi specifici per la preparazione prossima al matrimonio che siano vera esperienza di partecipazione alla vita ecclesiale e approfondiscano i diversi aspetti della vita familiare»[238].
207. Invito le comunità cristiane a riconoscere che accompagnare il cammino di amore dei fidanzati è un bene per loro stesse. Come hanno detto bene i Vescovi d’Italia, coloro che si sposano sono per la comunità cristiana «una preziosa risorsa perché, impegnandosi con sincerità a crescere nell’amore e nel dono vicendevole, possono contribuire a rinnovare il tessuto stesso di tutto il corpo ecclesiale: la particolare forma di amicizia che essi vivono può diventare contagiosa, e far crescere nell’amicizia e nella fraternità la comunità cristiana di cui sono parte»[239]. Ci sono diversi modi legittimi di organizzare la preparazione prossima al matrimonio, e ogni Chiesa locale discernerà quale sia migliore, provvedendo ad una formazione adeguata che nello stesso tempo non allontani i giovani dal sacramento. Non si tratta di dare loro tutto il Catechismo, né di saturarli con troppi argomenti. Anche in questo caso, infatti, vale che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose»[240]. Interessa più la qualità che la quantità, e bisogna dare priorità – insieme ad un rinnovato annuncio del kerygma – a quei contenuti che, trasmessi in modo attraente e cordiale, li aiutino a impegnarsi in un percorso di tutta la vita «con animo grande e liberalità»[241]. Si tratta di una sorta di “iniziazione” al sacramento del matrimonio che fornisca loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare.
208. È inoltre opportuno trovare i modi, attraverso le famiglie missionarie, le famiglie stesse dei fidanzati e varie risorse pastorali, per offrire una preparazione remota che faccia maturare il loro amore con un accompagnamento ricco di vicinanza e testimonianza. Sono spesso molto utili i gruppi di fidanzati e le proposte di conferenze facoltative su una varietà di temi che interessano realmente ai giovani. Comunque, sono indispensabili alcuni momenti personalizzati, dato che l’obiettivo principale è aiutare ciascuno perché impari ad amare questa persona concreta, con la quale desidera condividere tutta la vita. Imparare ad amare qualcuno non è qualcosa che si improvvisa, né può essere l’obiettivo di un breve corso previo alla celebrazione del matrimonio. In realtà, ogni persona si prepara per il matrimonio fin dalla nascita. Tutto quanto la sua famiglia gli ha dato dovrebbe permettergli di imparare dalla propria storia e renderlo capace di un impegno pieno e definitivo. Probabilmente quelli che arrivano meglio preparati a sposarsi sono coloro che hanno imparato dai propri genitori che cos’è un matrimonio cristiano, in cui entrambi si sono scelti senza condizioni e continuano a rinnovare quella decisione. In questo senso, tutte le azioni pastorali tendenti ad aiutare i coniugi a crescere nell’amore e a vivere il Vangelo nella famiglia, sono un aiuto inestimabile perché i loro figli si preparino per la loro futura vita matrimoniale. Non bisogna nemmeno dimenticare i validi contributi della pastorale popolare. Per fare un semplice esempio, ricordo il giorno di San Valentino, che in alcuni Paesi è sfruttato meglio dai commercianti che non dalla creatività dei pastori.
209. La preparazione di quanti hanno già formalizzato un fidanzamento, quando la comunità parrocchiale riesce a seguirli con buon anticipo, deve anche dare loro la possibilità di riconoscere incompatibilità e rischi. In questo modo si può arrivare ad accorgersi che non è ragionevole puntare su quella relazione, per non esporsi ad un fallimento prevedibile che avrà conseguenze molto dolorose. Il problema è che l’abbaglio iniziale porta a cercare di nascondere o di relativizzare molte cose, si evitano le divergenze, e così solamente si scacciano in avanti le difficoltà. I fidanzati dovrebbero essere stimolati e aiutati a poter esprimere ciò che ognuno si aspetta da un eventuale matrimonio, il proprio modo di intendere quello che è l’amore e l’impegno, ciò che si desidera dall’altro, il tipo di vita in comune che si vorrebbe progettare. Queste conversazioni possono aiutare a vedere che in realtà i punti di contatto sono scarsi, e che la sola attrazione reciproca non sarà sufficiente a sostenere l’unione. Nulla è più volubile, precario e imprevedibile del desiderio, e non si deve mai incoraggiare una decisione di contrarre matrimonio se non si sono approfondite altre motivazioni che conferiscano a quel patto possibilità reali di stabilità.
210. In ogni caso, se si riconoscono con chiarezza i punti deboli dell’altro, occorre avere una fiducia realistica nella possibilità di aiutarlo a sviluppare il meglio della sua persona per controbilanciare il peso delle sue fragilità, con un deciso interesse a promuoverlo come essere umano. Questo implica accettare con ferma volontà la possibilità di affrontare alcune rinunce, momenti difficili e situazioni conflittuali, e la salda decisione di prepararsi a questo. Si devono poter individuare i segnali di pericolo che potrà avere la relazione, per trovare prima di sposarsi i mezzi che permettano di affrontarli con successo. Purtroppo molti arrivano alle nozze senza conoscersi. Si sono solo divertiti insieme, hanno fatto esperienze insieme, ma non hanno affrontato la sfida di mostrare sé stessi e di imparare chi è realmente l’altro.
211. Tanto la preparazione prossima quanto l’accompagnamento più prolungato devono fare in modo che i fidanzati non vedano lo sposarsi come il termine del cammino, ma che assumano il matrimonio come una vocazione che li lancia in avanti, con la ferma e realistica decisione di attraversare insieme tutte le prove e i momenti difficili. La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri. Questi apporti non sono unicamente convinzioni dottrinali, e nemmeno possono ridursi alle preziose risorse spirituali che sempre offre la Chiesa, ma devono essere anche percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici. Tutto ciò configura una pedagogia dell’amore che non può ignorare la sensibilità attuale dei giovani, per poterli mobilitare interiormente. Al tempo stesso, nella preparazione dei fidanzati, si deve poter indicare loro luoghi e persone, consultori o famiglie disponibili, a cui potranno rivolgersi per cercare aiuto quando si presentassero delle difficoltà. Ma non bisogna mai dimenticare di proporre loro la Riconciliazione sacramentale, che permette di porre i peccati e gli errori della vita passata, e della stessa relazione, sotto l’influsso del perdono misericordioso di Dio e della sua forza risanatrice.
La preparazione della celebrazione
212. La preparazione prossima al matrimonio tende a concentrarsi sugli inviti, i vestiti, la festa e gli innumerevoli dettagli che consumano tanto le risorse economiche quanto le energie e la gioia. I fidanzati arrivano sfiancati e sfiniti al matrimonio, invece di dedicare le migliori energie a prepararsi come coppia per il gran passo che faranno insieme. Questa mentalità si riscontra anche in alcune unioni di fatto, che non arrivano mai al matrimonio perché pensano a festeggiamenti troppo costosi, invece di dare priorità all’amore reciproco e alla sua formalizzazione davanti agli altri. Cari fidanzati, abbiate il coraggio di essere differenti, non lasciatevi divorare dalla società del consumo e dell’apparenza. Quello che importa è l’amore che vi unisce, fortificato e santificato dalla grazia. Voi siete capaci di scegliere un festeggiamento sobrio e semplice, per mettere l’amore al di sopra di tutto. Gli operatori pastorali e tutta la comunità possono aiutare a far sì che questa priorità diventi la normalità e non l’eccezione.
213. Nella preparazione più immediata è importante illuminare gli sposi perché vivano con grande profondità la celebrazione liturgica, aiutandoli a comprendere e a vivere il senso di ciascun gesto. Ricordiamo che un impegno così grande come quello che esprime il consenso matrimoniale, e l’unione dei corpi che consuma il matrimonio, quando si tratta di due battezzati, si possono interpretare solo come segni dell’amore del Figlio di Dio fatto carne e unito con la sua Chiesa in alleanza d’amore. Nei battezzati, le parole e i gesti si trasformano in un linguaggio che manifesta la fede. Il corpo, con i significati che Dio ha voluto infondere in esso creandolo, «si trasforma nel linguaggio dei ministri del sacramento, coscienti che nel patto coniugale si manifesta e si realizza il mistero»[242].
214. A volte i fidanzati non percepiscono il peso teologico e spirituale del consenso, che illumina il significato di tutti i gesti successivi. È necessario evidenziare che quelle parole non possono essere ridotte al presente; esse implicano una totalità che include il futuro: «finché la morte non vi separi». Il significato del consenso mostra che «libertà e fedeltà non si oppongono, anzi piuttosto si sostengono mutuamente, tanto nelle relazioni interpersonali, come in quelle sociali. Effettivamente, pensiamo ai danni che producono, nella civiltà della comunicazione globale, l’inflazione di promesse incompiute […]. Onorare la parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare né vendere. Non si possono imporre con la forza, ma nemmeno custodire senza sacrificio»[243].
215. I Vescovi del Kenya hanno osservato che «troppo concentrati sul giorno delle nozze, i futuri sposi si dimenticano che stanno preparandosi per un impegno che dura tutta la vita»[244]. Bisogna aiutare a comprendere che il sacramento non è solo un momento che poi entra a far parte del passato e dei ricordi, perché esercita la sua influenza su tutta la vita matrimoniale, in modo permanente[245]. Il significato procreativo della sessualità, il linguaggio del corpo e i gesti d’amore vissuti nella storia di una coppia di coniugi, diventano una «ininterrotta continuità del linguaggio liturgico», e «la vita coniugale diventa, in un certo senso, liturgia»[246].
216. Si può anche meditare con le letture bibliche, e arricchire la comprensione del significato degli anelli che ci si dona a vicenda, o di altri segni che fanno parte del rito. Ma non sarebbe bene che arrivino al matrimonio senza aver pregato insieme, l’uno per l’altro, chiedendo aiuto a Dio per essere fedeli e generosi, domandando insieme a Dio che cosa Lui si aspetta da loro, e anche consacrando il loro amore davanti a un’immagine di Maria. Coloro che li accompagnano nella preparazione al matrimonio dovrebbero orientarli in modo che sappiano vivere questi momenti di preghiera che possono fare loro molto bene. «La liturgia nuziale è un evento unico, che si vive nel contesto familiare e sociale di una festa. Il primo dei segni di Gesù avvenne al banchetto delle nozze di Cana: il vino buono del miracolo del Signore, che allieta la nascita di una nuova famiglia, è il vino nuovo dell’Alleanza di Cristo con gli uomini e le donne di ogni tempo. […] Frequentemente, il celebrante ha l’opportunità di rivolgersi ad un’assemblea composta da persone che partecipano poco alla vita ecclesiale o appartengono ad altra confessione cristiana o comunità religiosa. Si tratta di una preziosa occasione di annuncio del Vangelo di Cristo»[247].
Accompagnare nei primi anni della vita matrimoniale
217. Dobbiamo riconoscere come un gran valore che si comprenda che il matrimonio è una questione di amore, che si possono sposare solo coloro che si scelgono liberamente e si amano. Ciò nonostante, quando l’amore diventa una mera attrazione o una vaga affettività, questo fa sì che i coniugi soffrano una straordinaria fragilità quando l’affettività entra in crisi o quando l’attrazione fisica viene meno. Dato che queste confusioni sono frequenti, si rende indispensabile accompagnare gli sposi nei primi anni di vita matrimoniale per arricchire e approfondire la decisione consapevole e libera di appartenersi e di amarsi sino alla fine. Molte volte il tempo del fidanzamento non è sufficiente, la decisione di sposarsi si affretta per diverse ragioni, mentre, come se non bastasse, la maturazione dei giovani si è ritardata. Dunque, gli sposi novelli si trovano a dover completare quel percorso che si sarebbe dovuto realizzare durante il fidanzamento.
218. D’altro canto, desidero insistere sul fatto che una sfida della pastorale familiare è aiutare a scoprire che il matrimonio non può intendersi come qualcosa di concluso. L’unione è reale, è irrevocabile, ed è stata confermata e consacrata dal sacramento del matrimonio. Ma nell’unirsi, gli sposi diventano protagonisti, padroni della propria storia e creatori di un progetto che occorre portare avanti insieme. Lo sguardo si rivolge al futuro che bisogna costruire giorno per giorno con la grazia di Dio, e proprio per questo non si pretende dal coniuge che sia perfetto. Bisogna mettere da parte le illusioni e accettarlo così com’è: incompiuto, chiamato a crescere, in cammino. Quando lo sguardo verso il coniuge è costantemente critico, questo indica che non si è assunto il matrimonio anche come un progetto da edificare insieme, con pazienza, comprensione, tolleranza e generosità. Questo fa sì che l’amore venga sostituito a poco a poco da uno sguardo inquisitore e implacabile, dal controllo dei meriti e dei diritti di ciascuno, dalle proteste, dalla competizione e dall’autodifesa. Così diventano incapaci di sostenersi l’un l’altro per la maturazione di entrambi e per la crescita dell’unione. Ai nuovi coniugi è necessario presentare questo con chiarezza realistica fin dall’inizio, in modo che prendano coscienza del fatto che stanno incominciando. Il “sì” che si sono scambiati è l’inizio di un itinerario, con un obiettivo capace di superare ciò che potrebbero imporre le circostanze o gli ostacoli che si frapponessero. La benedizione ricevuta è una grazia e una spinta per questo cammino sempre aperto. Spesso aiuta che si mettano seduti a dialogare per elaborare il loro progetto concreto nei suoi obiettivi, nei suoi strumenti, nei suoi dettagli.
219. Ricordo un ritornello che diceva che l’acqua stagnante si corrompe, si guasta. È quanto accade quando la vita dell’amore nei primi anni del matrimonio ristagna, smette di essere in movimento, cessa di avere quella sana inquietudine che la spinge in avanti. La danza proiettata in avanti con quell’amore giovane, la danza con quegli occhi meravigliati pieni di speranza non deve fermarsi. Nel fidanzamento e nei primi anni di matrimonio la speranza è quella che ha in sé la forza del lievito, quella che fa guardare oltre le contraddizioni, i conflitti, le contingenze, quella che fa sempre vedere oltre. È quella che mette in moto ogni aspettativa per mantenersi in un cammino di crescita. La stessa speranza ci invita a vivere in pieno il presente, mettendo il cuore nella vita familiare, perché il modo migliore di preparare e consolidare il futuro è vivere bene il presente.
220. Il cammino implica passare attraverso diverse tappe che chiamano a donarsi con generosità: dall’impatto iniziale caratterizzato da un’attrazione marcatamente sensibile, si passa al bisogno dell’altro sentito come parte della propria vita. Da lì si passa al gusto della reciproca appartenenza, poi alla comprensione della vita intera come progetto di entrambi, alla capacità di porre la felicità dell’altro al di sopra delle proprie necessità, e alla gioia di vedere il proprio matrimonio come un bene per la società. La maturazione dell’amore implica anche imparare a “negoziare”. Non è un atteggiamento interessato o un gioco di tipo commerciale, ma in definitiva un esercizio dell’amore vicendevole, perché questa negoziazione è un intreccio di reciproche offerte e rinunce per il bene della famiglia. In ogni nuova tappa della vita matrimoniale, occorre sedersi e negoziare nuovamente gli accordi, in modo che non ci siano vincitori e vinti, ma che vincano entrambi. In casa le decisioni non si prendono unilateralmente, e i due condividono la responsabilità per la famiglia, ma ogni casa è unica e ogni sintesi matrimoniale è differente.
221. Una delle cause che portano alla rottura dei matrimoni è avere aspettative troppo alte riguardo alla vita coniugale. Quando si scopre la realtà, più limitata e problematica di quella che si aveva sognato, la soluzione non è pensare rapidamente e irresponsabilmente alla separazione, ma assumere il matrimonio come un cammino di maturazione, in cui ognuno dei coniugi è uno strumento di Dio per far crescere l’altro. È possibile il cambiamento, la crescita, lo sviluppo delle buone potenzialità che ognuno porta in sé. Ogni matrimonio è una “storia di salvezza”, e questo suppone che si parta da una fragilità che, grazie al dono di Dio e a una risposta creativa e generosa, via via lascia spazio a una realtà sempre più solida e preziosa. La missione forse più grande di un uomo e una donna nell’amore è questa: rendersi a vicenda più uomo e più donna. Far crescere è aiutare l’altro a modellarsi nella sua propria identità. Per questo l’amore è artigianale. Quando si legge il passo della Bibbia sulla creazione dell’uomo e della donna, si osserva prima Dio che plasma l’uomo (cfr Gen 2,7), poi si accorge che manca qualcosa di essenziale e plasma la donna, e allora vede la sorpresa dell’uomo: “Ah, ora sì, questa sì!”. E poi sembra di udire quello stupendo dialogo in cui l’uomo e la donna incominciano a scoprirsi a vicenda. In effetti, anche nei momenti difficili l’altro torna a sorprendere e si aprono nuove porte per ritrovarsi, come se fosse la prima volta; e in ogni nuova tappa ritornano a “plasmarsi” l’un l’altro. L’amore fa sì che uno aspetti l’altro ed eserciti la pazienza propria dell’artigiano che è stata ereditata da Dio.
222. L’accompagnamento deve incoraggiare gli sposi ad essere generosi nella comunicazione della vita. «Conformemente al carattere personale e umanamente completo dell’amore coniugale, la giusta strada per la pianificazione familiare è quella di un dialogo consensuale tra gli sposi, del rispetto dei tempi e della considerazione della dignità del partner. In questo senso l’Enciclica Humanae vitae (cfr 10-14) e l’Esortazione apostolica Familiaris consortio (cfr 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita […]. La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (Gaudium et spes, 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti (cfr Rm 2,15), e si fanno accompagnare spiritualmente, tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente»[248]. Rimane valido quanto affermato con chiarezza nel Concilio Vaticano II: «I coniugi [...], di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio: tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno; valutando le condizioni sia materiali che spirituali della loro epoca e del loro stato di vita; e, infine, tenendo conto del bene della comunità familiare, della società temporale e della Chiesa stessa. Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi»[249]. D’altra parte, «il ricorso ai metodi fondati sui “ritmi naturali di fecondità” (Humanae vitae, 11) andrà incoraggiato. Si metterà in luce che “questi metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano la tenerezza fra di loro e favoriscono l’educazione di una libertà autentica” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2370). Va evidenziato sempre che i figli sono un meraviglioso dono di Dio, una gioia per i genitori e per la Chiesa. Attraverso di essi il Signore rinnova il mondo»[250].
Alcune risorse
223. I Padri sinodali hanno indicato che «i primi anni di matrimonio sono un periodo vitale e delicato durante il quale le coppie crescono nella consapevolezza delle sfide e del significato del matrimonio. Di qui l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento (cfr Familiaris consortio, parte III). Risulta di grande importanza in questa pastorale la presenza di coppie di sposi con esperienza. La parrocchia è considerata come il luogo dove coppie esperte possono essere messe a disposizione di quelle più giovani, con l’eventuale concorso di associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità. Occorre incoraggiare gli sposi a un atteggiamento fondamentale di accoglienza del grande dono dei figli. Va sottolineata l’importanza della spiritualità familiare, della preghiera e della partecipazione all’Eucaristia domenicale, incoraggiando le coppie a riunirsi regolarmente per promuovere la crescita della vita spirituale e la solidarietà nelle esigenze concrete della vita. Liturgie, pratiche devozionali ed Eucaristie celebrate per le famiglie, soprattutto nell’anniversario del matrimonio, sono state menzionate come vitali per favorire l’evangelizzazione attraverso la famiglia»[251].
224. Questo cammino è una questione di tempo. L’amore ha bisogno di tempo disponibile e gratuito, che metta altre cose in secondo piano. Ci vuole tempo per dialogare, per abbracciarsi senza fretta, per condividere progetti, per ascoltarsi, per guardarsi, per apprezzarsi, per rafforzare la relazione. A volte il problema è il ritmo frenetico della società, o i tempi imposti dagli impegni lavorativi. Altre volte il problema è che il tempo che si passa insieme non ha qualità. Condividiamo solamente uno spazio fisico, ma senza prestare attenzione l’uno all’altro. Gli operatori pastorali e i gruppi di famiglie dovrebbero aiutare le coppie di sposi giovani o fragili a imparare ad incontrarsi in quei momenti, a fermarsi l’uno di fronte all’altro, e anche a condividere momenti di silenzio che li obblighino a sperimentare la presenza del coniuge.
225. Gli sposi che hanno una buona esperienza di “apprendistato” in questo senso possono offrire gli strumenti pratici che sono stati utili per loro: la programmazione dei momenti per stare insieme gratuitamente, i tempi di ricreazione con i figli, i vari modi di celebrare cose importanti, gli spazi di spiritualità condivisa. Ma possono anche insegnare accorgimenti che aiutano a riempire di contenuto e di significato questi momenti, per imparare a comunicare meglio. Questo è di somma importanza quando si è spenta la novità del fidanzamento. Perché quando non si sa che fare col tempo condiviso, uno o l’altro dei coniugi finirà col rifugiarsi nella tecnologia, inventerà altri impegni, cercherà altre braccia o scapperà da un’intimità scomoda.
226. I giovani sposi vanno anche stimolati a crearsi delle proprie abitudini, che offrono una sana sensazione di stabilità e di protezione, e che si costruiscono con una serie di rituali quotidiani condivisi. È buona cosa darsi sempre un bacio al mattino, benedirsi tutte le sere, aspettare l’altro e accoglierlo quando arriva, uscire qualche volta insieme, condividere le faccende domestiche. Ma nello stesso tempo, è bene interrompere le abitudini con la festa, non perdere la capacità di celebrare in famiglia, di gioire e di festeggiare le belle esperienze. Hanno bisogno di sorprendersi insieme per i doni di Dio e alimentare insieme l’entusiasmo per la vita. Quando si sa celebrare, questa capacità rinnova l’energia dell’amore, lo libera dalla monotonia e riempie di colore e di speranza le abitudini quotidiane.
227. Noi Pastori dobbiamo incoraggiare le famiglie a crescere nella fede. Per questo è bene esortare alla Confessione frequente, alla direzione spirituale, alla partecipazione ai ritiri. Ma non bisogna dimenticare di invitare a creare spazi settimanali di preghiera familiare, perché “la famiglia che prega unita resta unita”. Come pure, quando visitiamo le case, dovremmo invitare tutti i membri della famiglia a un momento per pregare gli uni per gli altri e per affidare la famiglia alle mani del Signore. Allo stesso tempo, è opportuno incoraggiare ciascuno dei coniugi a prendersi dei momenti di preghiera in solitudine davanti a Dio, perché ognuno ha le sue croci segrete. Perché non raccontare a Dio ciò che turba il cuore, o chiedergli la forza per sanare le proprie ferite e implorare la luce di cui si ha bisogno per sostenere il proprio impegno? I Padri sinodali hanno anche evidenziato che «la Parola di Dio è fonte di vita e spiritualità per la famiglia. Tutta la pastorale familiare dovrà lasciarsi modellare interiormente e formare i membri della Chiesa domestica mediante la lettura orante e ecclesiale della Sacra Scrittura. La Parola di Dio non solo è una buona novella per la vita privata delle persone, ma anche un criterio di giudizio e una luce per il discernimento delle diverse sfide con cui si confrontano i coniugi e le famiglie»[252].
228. È possibile che uno dei coniugi non sia battezzato, o che non voglia vivere gli impegni della fede. In tal caso, il desiderio dell’altro di vivere e crescere come cristiano fa sì che l’indifferenza del coniuge sia vissuta con dolore. Ciò nonostante, è possibile trovare alcuni valori comuni da poter condividere e coltivare con entusiasmo. In ogni modo, amare il coniuge non credente, dargli felicità, alleviare le sue sofferenze e condividere la vita con lui è un vero cammino di santificazione. D’altra parte, l’amore è un dono di Dio, e lì dove si diffonde fa sentire la sua forza trasformatrice, in modi a volte misteriosi, fino al punto che «il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente» (1 Cor 7,14).
229. Le parrocchie, i movimenti, le scuole e altre istituzioni della Chiesa possono svolgere diverse mediazioni per curare e ravvivare le famiglie. Per esempio, tramite strumenti come: riunioni di coppie vicine o amiche, ritiri brevi per sposi, conferenze di specialisti su problematiche molto concrete della vita familiare, centri di consulenza matrimoniale, operatori missionari preparati per parlare con gli sposi sulle loro difficoltà e aspirazioni, consulenze su diverse situazioni familiari (dipendenze, infedeltà, violenza familiare), spazi di spiritualità, laboratori di formazione per genitori con figli problematici, assemblee familiari. La segreteria parrocchiale dovrebbe essere in grado di accogliere con cordialità e di occuparsi delle urgenze familiari, o di indirizzare facilmente verso chi possa dare aiuto. C’è anche un sostegno pastorale che si dà nei gruppi di sposi, tanto di servizio che di missione, di preghiera, di formazione o di mutuo aiuto. Questi gruppi offrono l’opportunità di dare, di vivere l’apertura della famiglia agli altri, di condividere la fede, ma al tempo stesso sono un mezzo per rafforzare i coniugi e farli crescere.
230. È vero che molte coppie di sposi spariscono dalla comunità cristiana dopo il matrimonio, ma tante volte sprechiamo alcune occasioni in cui tornano a farsi presenti, dove potremmo riproporre loro in modo attraente l’ideale del matrimonio cristiano e avvicinarli a spazi di accompagnamento: mi riferisco, per esempio, al Battesimo di un figlio, alla prima Comunione, o quando partecipano ad un funerale o al matrimonio di un parente o di un amico. Quasi tutti i coniugi riappaiono in queste occasioni, che potrebbero essere meglio valorizzate. Un’altra via di avvicinamento è la benedizione delle case, o la visita di un’immagine della Vergine, che offrono l’occasione di sviluppare un dialogo pastorale sulla situazione della famiglia. Può anche essere utile affidare a coppie più adulte il compito di seguire coppie più recenti del proprio vicinato, per incontrarle, seguirle nei loro inizi e proporre loro un percorso di crescita. Con il ritmo della vita attuale, la maggior parte degli sposi non saranno disposti a riunioni frequenti, e non possiamo ridurci a una pastorale di piccole élites. Oggi la pastorale familiare dev’essere essenzialmente missionaria, in uscita, in prossimità, piuttosto che ridursi ad essere una fabbrica di corsi ai quali pochi assistono.
Rischiarare crisi, angosce e difficoltà
231. Una parola vada a coloro che nell’amore hanno già invecchiato il vino nuovo del fidanzamento. Quando il vino si invecchia con questa esperienza del cammino, lì appare, fiorisce in tutta la sua pienezza, la fedeltà dei piccoli momenti della vita. È la fedeltà dell’attesa e della pazienza. Questa fedeltà piena di sacrifici e di gioie va come fiorendo nell’età in cui tutto diventa “stagionato” e gli occhi diventano scintillanti in contemplazione dei figli dei propri figli. Così era fin dal principio, ma ormai si è fatto consapevole, sedimentato, maturato nella sorpresa quotidiana della riscoperta giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come insegnava san Giovanni della Croce, «gli amanti vecchi [sono] quelli già esercitati e provati». Essi sono privi «dei fervori sensibili, delle ebollizioni e dei fuochi esterni di fervore. Essi gustano ormai la soavità del vino di amore nella sostanza, già fermentato e posato dentro l’anima»[253]. Questo suppone l’essere stati capaci di superare uniti le crisi e i tempi di angoscia, senza sfuggire dalle sfide e senza nascondere le difficoltà.
La sfida delle crisi
232. La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa. Ogni crisi implica un apprendistato che permette di incrementare l’intensità della vita condivisa, o almeno di trovare un nuovo senso all’esperienza matrimoniale. In nessun modo bisogna rassegnarsi a una curva discendente, a un deterioramento inevitabile, a una mediocrità da sopportare. Al contrario, quando il matrimonio si assume come un compito, che implica anche superare ostacoli, ogni crisi si percepisce come l’occasione per arrivare a bere insieme il vino migliore. È bene accompagnare i coniugi perché siano in grado di accettare le crisi che possono arrivare, raccogliere il guanto e assegnare ad esse un posto nella vita familiare. I coniugi esperti e formati devono essere disposti ad accompagnare altri in questa scoperta, in modo che le crisi non li spaventino né li portino a prendere decisioni affrettate. Ogni crisi nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore.
233. La reazione immediata è fare resistenza davanti alla sfida di una crisi, mettersi sulla difensiva sentendo che sfugge al proprio controllo, perché mostra l’insufficienza del proprio modo di vivere, e questo dà fastidio. Allora si usa il metodo di negare i problemi, nasconderli, relativizzare la loro importanza, puntare solo sul passare del tempo. Ma ciò ritarda la soluzione e porta a consumare molta energia in un occultamento inutile che complicherà ancora di più le cose. I vincoli si vanno deteriorando e si va consolidando un isolamento che danneggia l’intimità. In una crisi non affrontata, quello che più si compromette è la comunicazione. In tal modo, a poco a poco, quella che era “la persona che amo” passa ad essere “chi mi accompagna sempre nella vita”, poi solo “il padre o la madre dei miei figli”, e alla fine un estraneo.
234. Per affrontare una crisi bisogna essere presenti. È difficile, perché a volte le persone si isolano per non mostrare quello che sentono, si fanno da parte in un silenzio meschino e ingannatore. In questi momenti occorre creare spazi per comunicare da cuore a cuore. Il problema è che diventa più difficile comunicare così in un momento di crisi se non si è mai imparato a farlo. È una vera arte che si impara in tempi di calma, per metterla in pratica nei tempi duri. Bisogna aiutare a scoprire le cause più nascoste nei cuori dei coniugi, e ad affrontarle come un parto che passerà e lascerà un nuovo tesoro. Ma le risposte alle consultazioni realizzate rilevano che in situazioni difficili o critiche la maggioranza non ricorre all’accompagnamento pastorale, perché non lo sente comprensivo, vicino, realistico, incarnato. Per questo, cerchiamo ora di accostarci alle crisi matrimoniali con uno sguardo che non ignori il loro carico di dolore e di angoscia.
235. Ci sono crisi comuni che accadono solitamente in tutti i matrimoni, come la crisi degli inizi, quando bisogna imparare a rendere compatibili le differenze e a distaccarsi dai genitori; o la crisi dell’arrivo del figlio, con le sue nuove sfide emotive; la crisi di allevare un bambino, che cambia le abitudini dei genitori; la crisi dell’adolescenza del figlio, che esige molte energie, destabilizza i genitori e a volte li oppone tra loro; la crisi del “nido vuoto”, che obbliga la coppia a guardare nuovamente a sé stessa; la crisi causata dalla vecchiaia dei genitori dei coniugi, che richiedono più presenza, più attenzioni e decisioni difficili. Sono situazioni esigenti, che provocano paure, sensi di colpa, depressioni o stanchezze che possono intaccare gravemente l’unione.
236. A queste si sommano le crisi personali che incidono sulla coppia, legate alle difficoltà economiche, di lavoro, affettive, sociali, spirituali. E si aggiungono circostanze inaspettate che possono alterare la vita familiare e che esigono un cammino di perdono e riconciliazione. Nel momento stesso in cui cerca di fare il passo del perdono, ciascuno deve domandarsi con serena umiltà se non ha creato le condizioni per esporre l’altro a commettere certi errori. Alcune famiglie soccombono quando i coniugi si accusano a vicenda, ma «l’esperienza mostra che con un aiuto adeguato e con l’azione di riconciliazione della grazia una grande percentuale di crisi matrimoniali si supera in maniera soddisfacente. Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare»[254]. «La faticosa arte della riconciliazione, che necessita del sostegno della grazia, ha bisogno della generosa collaborazione di parenti ed amici, e talvolta anche di un aiuto esterno e professionale»[255].
237. È diventato frequente che, quando uno sente di non ricevere quello che desidera, o che non si realizza quello che sognava, ciò sembra essere sufficiente per mettere fine a un matrimonio. Così non ci sarà matrimonio che duri. A volte, per decidere che tutto è finito basta una delusione, un’assenza in un momento in cui si aveva bisogno dell’altro, un orgoglio ferito o un timore indefinito. Ci sono situazioni proprie dell’inevitabile fragilità umana, alle quali si attribuisce un peso emotivo troppo grande. Per esempio, la sensazione di non essere completamente corrisposto, le gelosie, le differenze che possono emergere tra i due, l’attrazione suscitata da altre persone, i nuovi interessi che tendono a impossessarsi del cuore, i cambiamenti fisici del coniuge, e tante altre cose che, più che attentati contro l’amore, sono opportunità che invitano a ricrearlo una volta di più.
238. In queste circostanze, alcuni hanno la maturità necessaria per scegliere nuovamente l’altro come compagno di strada, al di là dei limiti della relazione, e accettano con realismo che non possa soddisfare tutti i sogni accarezzati. Evitano di considerarsi gli unici martiri, apprezzano le piccole e limitate possibilità che offre loro la vita in famiglia e puntano a rafforzare il vincolo in una costruzione che richiederà tempo e sforzo. Perché in fondo riconoscono che ogni crisi è come un nuovo “sì” che rende possibile che l’amore rinasca rafforzato, trasfigurato, maturato, illuminato. A partire da una crisi si ha il coraggio di ricercare le radici profonde di quello che sta succedendo, di negoziare di nuovo gli accordi fondamentali, di trovare un nuovo equilibrio e di percorrere insieme una nuova tappa. Con questo atteggiamento di costante apertura si possono affrontare tante situazioni difficili! In ogni caso, riconoscendo che la riconciliazione è possibile, oggi scopriamo che «un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente»[256].
Vecchie ferite
239. È comprensibile che nelle famiglie ci siano molte difficoltà quando qualcuno dei suoi membri non ha maturato il suo modo di relazionarsi, perché non ha guarito ferite di qualche fase della sua vita. La propria infanzia e la propria adolescenza vissute male sono terreno fertile per crisi personali che finiscono per danneggiare il matrimonio. Se tutti fossero persone maturate normalmente, le crisi sarebbero meno frequenti e meno dolorose. Ma il fatto è che a volte le persone hanno bisogno di realizzare a quarant’anni una maturazione arretrata che avrebbero dovuto raggiungere alla fine dell’adolescenza. A volte si ama con un amore egocentrico proprio del bambino, fissato in una fase in cui la realtà si distorce e si vive il capriccio che tutto debba girare intorno al proprio io. È un amore insaziabile, che grida e piange quando non ottiene quello che desidera. Altre volte si ama con un amore fissato ad una fase adolescenziale, segnato dal contrasto, dalla critica acida, dall’abitudine di incolpare gli altri, dalla logica del sentimento e della fantasia, dove gli altri devono riempire i nostri vuoti o sostenere i nostri capricci.
240. Molti terminano la propria infanzia senza aver mai sperimentato di essere amati incondizionatamente, e questo ferisce la loro capacità di aver fiducia e di donarsi. Una relazione mal vissuta con i propri genitori e fratelli, che non è mai stata sanata, riappare, e danneggia la vita coniugale. Dunque bisogna fare un percorso di liberazione che non si è mai affrontato. Quando la relazione tra i coniugi non funziona bene, prima di prendere decisioni importanti, conviene assicurarsi che ognuno abbia fatto questo cammino di cura della propria storia. Ciò esige di riconoscere la necessità di guarire, di chiedere con insistenza la grazia di perdonare e di perdonarsi, di accettare aiuto, di cercare motivazioni positive e di ritornare a provare sempre di nuovo. Ciascuno dev’essere molto sincero con sé stesso per riconoscere che il suo modo di vivere l’amore ha queste immaturità. Per quanto possa sembrare evidente che tutta la colpa sia dell’altro, non è mai possibile superare una crisi aspettando che solo l’altro cambi. Occorre anche interrogarsi sulle cose che uno potrebbe personalmente maturare o sanare per favorire il superamento del conflitto.
Accompagnare dopo le rotture e i divorzi
241. In alcuni casi, la considerazione della propria dignità e del bene dei figli impone di porre un limite fermo alle pretese eccessive dell’altro, a una grande ingiustizia, alla violenza o a una mancanza di rispetto diventata cronica. Bisogna riconoscere che «ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza»[257]. Comunque «deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano»[258].
242. I Padri hanno indicato che «un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati. Va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti dai maltrattamenti del coniuge a rompere la convivenza. Il perdono per l’ingiustizia subita non è facile, ma è un cammino che la grazia rende possibile. Di qui la necessità di una pastorale della riconciliazione e della mediazione attraverso anche centri di ascolto specializzati da stabilire nelle diocesi»[259]. Nello stesso tempo, «le persone divorziate ma non risposate, che spesso sono testimoni della fedeltà matrimoniale, vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato. La comunità locale e i Pastori devono accompagnare queste persone con sollecitudine, soprattutto quando vi sono figli o è grave la loro situazione di povertà»[260]. Un fallimento matrimoniale diventa molto più traumatico e doloroso quando c’è povertà, perché si hanno molte meno risorse per riorientare l’esistenza. Una persona povera che perde l’ambiente protettivo della famiglia resta doppiamente esposta all’abbandono e a ogni tipo di rischi per la sua integrità.
243. Ai divorziati che vivono una nuova unione, è importante far sentire che sono parte della Chiesa, che “non sono scomunicati” e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale[261]. Queste situazioni «esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipazione alla vita della comunità. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità»[262].
244. D’altra parte, un gran numero di Padri «ha sottolineato la necessità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità»[263]. La lentezza dei processi crea disagio e stanca le persone. I miei due recenti Documenti su tale materia[264] hanno portato ad una semplificazione delle procedure per una eventuale dichiarazione di nullità matrimoniale. Attraverso di essi ho anche voluto «rendere evidente che lo stesso Vescovo nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati»[265]. Perciò, «l’attuazione di questi documenti costituisce una grande responsabilità per gli Ordinari diocesani, chiamati a giudicare loro stessi alcune cause e, in ogni modo, ad assicurare un accesso più facile dei fedeli alla giustizia. Ciò implica la preparazione di un personale sufficiente, composto di chierici e laici, che si consacri in modo prioritario a questo servizio ecclesiale. Sarà pertanto necessario mettere a disposizione delle persone separate o delle coppie in crisi, un servizio d’informazione, di consiglio e di mediazione, legato alla pastorale familiare, che potrà pure accogliere le persone in vista dell’indagine preliminare al processo matrimoniale (cfr Mitis Iudex, art. 2-3)»[266].
245. I Padri Sinodali hanno anche messo in evidenza «le conseguenze della separazione o del divorzio sui figli, in ogni caso vittime innocenti della situazione»[267]. Al di sopra di tutte le considerazioni che si vogliano fare, essi sono la prima preoccupazione, che non deve essere offuscata da nessun altro interesse o obiettivo. Ai genitori separati rivolgo questa preghiera: «Mai, mai, mai prendere il figlio come ostaggio! Vi siete separati per tante difficoltà e motivi, la vita vi ha dato questa prova, ma i figli non siano quelli che portano il peso di questa separazione, non siano usati come ostaggi contro l’altro coniuge, crescano sentendo che la mamma parla bene del papà, benché non siano insieme, e che il papà parla bene della mamma»[268]. È irresponsabile rovinare l’immagine del padre o della madre con l’obiettivo di accaparrarsi l’affetto del figlio, per vendicarsi o per difendersi, perché questo danneggerà la vita interiore di quel bambino e provocherà ferite difficili da guarire.
246. La Chiesa, sebbene comprenda le situazioni conflittuali che i coniugi devono attraversare, non può cessare di essere voce dei più fragili, che sono i figli che soffrono, spesso in silenzio. Oggi, «nonostante la nostra sensibilità apparentemente evoluta, e tutte le nostre raffinate analisi psicologiche, mi domando se non ci siamo anestetizzati anche rispetto alle ferite dell’anima dei bambini. […] Sentiamo il peso della montagna che schiaccia l’anima di un bambino, nelle famiglie in cui ci si tratta male e ci si fa del male, fino a spezzare il legame della fedeltà coniugale?»[269]. Queste brutte esperienze non sono di aiuto affinché quei bambini maturino per essere capaci di impegni definitivi. Per questo, le comunità cristiane non devono lasciare soli i genitori divorziati che vivono una nuova unione. Al contrario, devono includerli e accompagnarli nella loro funzione educativa. Infatti, «come potremmo raccomandare a questi genitori di fare di tutto per educare i figli alla vita cristiana, dando loro l’esempio di una fede convinta e praticata, se li tenessimo a distanza dalla vita della comunità, come se fossero scomunicati? Si deve fare in modo di non aggiungere altri pesi oltre a quelli che i figli, in queste situazioni, già si trovano a dover portare!»[270]. Aiutare a guarire le ferite dei genitori e accoglierli spiritualmente, è un bene anche per i figli, i quali hanno bisogno del volto familiare della Chiesa che li accolga in questa esperienza traumatica. Il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorzi. Per questo, senza dubbio, il nostro compito pastorale più importante riguardo alle famiglie, è rafforzare l’amore e aiutare a sanare le ferite, in modo che possiamo prevenire l’estendersi di questo dramma della nostra epoca.
Alcune situazioni complesse
247. «Le problematiche relative ai matrimoni misti richiedono una specifica attenzione. I matrimoni tra cattolici e altri battezzati “presentano, pur nella loro particolare fisionomia, numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l’apporto che possono dare al movimento ecumenico”. A tal fine “va ricercata […] una cordiale collaborazione tra il ministro cattolico e quello non cattolico, fin dal tempo della preparazione al matrimonio e delle nozze” (Familiaris consortio, 78). Circa la condivisione eucaristica si ricorda che “la decisione di ammettere o no la parte non cattolica del matrimonio alla comunione eucaristica va presa in conformità alle norme generali esistenti in materia, tanto per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani, e tenendo conto di questa situazione particolare, che cioè ricevono il sacramento del matrimonio cristiano due cristiani battezzati. Sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni indicate” (Pont. Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Direttorio per l’Applicazione dei Principi e delle Norme sull’Ecumenismo, 25 marzo 1993, 159-160)»[271].
248. «I matrimoni con disparità di culto rappresentano un luogo privilegiato di dialogo interreligioso […] comportano alcune speciali difficoltà sia riguardo alla identità cristiana della famiglia, sia all’educazione religiosa dei figli. […] Il numero delle famiglie composte da unioni coniugali con disparità di culto, in crescita nei territori di missione e anche nei Paesi di lunga tradizione cristiana, sollecita l’urgenza di provvedere ad una cura pastorale differenziata secondo i diversi contesti sociali e culturali. In alcuni Paesi, dove la libertà di religione non esiste, il coniuge cristiano è obbligato a passare ad un’altra religione per potersi sposare, e non può celebrare il matrimonio canonico in disparità di culto né battezzare i figli. Dobbiamo ribadire pertanto la necessità che la libertà religiosa sia rispettata nei confronti di tutti»[272]. «È necessario rivolgere un’attenzione particolare alle persone che si uniscono in tali matrimoni, non solo nel periodo precedente alle nozze. Sfide peculiari affrontano le coppie e le famiglie nelle quali un partner è cattolico e l’altro non credente. In tali casi è necessario testimoniare la capacità del Vangelo di calarsi in queste situazioni così da rendere possibile l’educazione alla fede cristiana dei figli»[273].
249. «Particolare difficoltà presentano le situazioni che riguardano l’accesso al battesimo di persone che si trovano in una condizione matrimoniale complessa. Si tratta di persone che hanno contratto un’unione matrimoniale stabile in un tempo in cui ancora almeno una di esse non conosceva la fede cristiana. I Vescovi sono chiamati a esercitare, in questi casi, un discernimento pastorale commisurato al loro bene spirituale»[274].
250. La Chiesa conforma il suo atteggiamento al Signore Gesù che in un amore senza confini si è offerto per ogni persona senza eccezioni[275]. Con i Padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli. Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione»[276] e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita[277].
251. Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso»[278].[278]
252. Le famiglie monoparentali hanno origine spesso a partire da «madri o padri biologici che non hanno voluto mai integrarsi nella vita familiare, situazioni di violenza da cui un genitore è dovuto fuggire con i figli, morte di uno dei genitori, abbandono della famiglia da parte di uno dei genitori, e altre situazioni. Qualunque sia la causa, il genitore che abita con il bambino deve trovare sostegno e conforto presso le altre famiglie che formano la comunità cristiana, così come presso gli organismi pastorali parrocchiali. Queste famiglie sono spesso ulteriormente afflitte dalla gravità dei problemi economici, dall’incertezza di un lavoro precario, dalla difficoltà per il mantenimento dei figli, dalla mancanza di una casa»[279].
Quando la morte pianta il suo pungiglione
253. A volte la vita familiare si vede interpellata dalla morte di una persona cara. Non possiamo tralasciare di offrire la luce della fede per accompagnare le famiglie che soffrono in questi momenti[280]. Abbandonare una famiglia quando una morte la ferisce sarebbe una mancanza di misericordia, perdere un’opportunità pastorale, e questo atteggiamento può chiuderci le porte per qualsiasi altra azione evangelizzatrice.
254. Comprendo l’angoscia di chi ha perso una persona molto amata, un coniuge con cui ha condiviso tante cose. Gesù stesso si è commosso e ha pianto alla veglia funebre di un amico (cfr Gv 11,33.35). E come non comprendere il lamento di chi ha perso un figlio? Infatti, «è come se si fermasse il tempo: si apre un abisso che ingoia il passato e anche il futuro. […] E a volte si arriva anche ad accusare Dio. Quanta gente – li capisco – si arrabbia con Dio»[281]. «La vedovanza è un’esperienza particolarmente difficile […] alcuni mostrano di saper riversare le proprie energie con ancor più dedizione sui figli e i nipoti, trovando in questa espressione di amore una nuova missione educativa. […] Coloro che non possono contare sulla presenza di familiari a cui dedicarsi e dai quali ricevere affetto e vicinanza devono essere sostenuti dalla comunità cristiana con particolare attenzione e disponibilità, soprattutto se si trovano in condizioni di indigenza»[282].
255. In generale il lutto per i defunti può durare piuttosto a lungo, e quando un pastore vuole accompagnare questo percorso, deve adattarsi alle necessità di ognuna delle sue fasi. Tutto il percorso è solcato da domande: sulle cause della morte, su ciò che si sarebbe potuto fare, su cosa vive una persona nel momento precedente alla morte... Con un cammino sincero e paziente di preghiera e di liberazione interiore, ritorna la pace. A un certo punto del lutto occorre aiutare a scoprire che quanti abbiamo perso una persona cara abbiamo ancora una missione da compiere, e che non ci fa bene voler prolungare la sofferenza, come se questa fosse un atto di ossequio. La persona amata non ha bisogno della nostra sofferenza, né le risulta lusinghiero che roviniamo la nostra vita. Nemmeno è la migliore espressione di amore ricordarla e nominarla in ogni momento, perché significa rimanere attaccati ad un passato che non esiste più, invece di amare la persona reale che ora si trova nell’al di là. La sua presenza fisica non è più possibile, ma, se la morte è qualcosa di potente, «forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). L’amore possiede un’intuizione che gli permette di ascoltare senza suoni e di vedere nell’invisibile. Questo non è immaginare la persona cara così com’era, bensì poterla accettare trasformata, come è ora. Gesù risorto, quando la sua amica Maria volle abbracciarlo con forza, le chiese di non toccarlo (cfr Gv 20,17), per condurla a un incontro differente.
256. Ci consola sapere che non esiste la distruzione completa di coloro che muoiono, e la fede ci assicura che il Risorto non ci abbandonerà mai. Così possiamo impedire alla morte «di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio»[283]. La Bibbia parla di un Dio che ci ha creato per amore, e che ci ha fatto in modo tale che la nostra vita non finisce con la morte (cfr Sap 3,2-3). San Paolo ci parla di un incontro con Cristo immediatamente dopo la morte: «Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo» (Fil 1,23). Con Lui, dopo la morte ci aspetta ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (cfr 1 Cor 2,9). Il prefazio della Liturgia dei defunti lo esprime magnificamente: «Se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata». Infatti «i nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio»[284].
257. Un modo di comunicare con i nostri cari che sono morti è pregare per loro[285]. Dice la Bibbia che «pregare per i defunti» è cosa «santa e devota» (2 Mac 12,44-45). Pregare per loro «può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore»[286]. L’Apocalisse presenta i martiri mentre intercedono per coloro che soffrono ingiustizia sulla terra (cfr 6,9-11), solidali con questo mondo in cammino. Alcuni santi, prima di morire, consolavano i propri cari promettendo che sarebbero stati loro vicini per aiutarli. Santa Teresa di Lisieux sentiva di voler continuare a fare del bene dal Cielo[287]. San Domenico affermava che «sarebbe stato più utile dopo la morte, […] più potente nell’ottenere grazie»[288]. Sono legami di amore[289], perché «l’unione di coloro che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata […], è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali»[290].
258. Se accettiamo la morte possiamo prepararci ad essa. La via è crescere nell’amore verso coloro che camminano con noi, fino al giorno in cui «non ci sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4). In questo modo ci prepareremo anche a ritrovare i nostri cari che sono morti. Come Gesù restituì a sua madre il figlio che era morto (cfr Lc 7,15), similmente farà con noi. Non sprechiamo energie fermandoci anni e anni nel passato. Quanto meglio viviamo su questa terra, tanto maggiore felicità potremo condividere con i nostri cari nel cielo. Quanto più riusciremo a maturare e a crescere, tanto più potremo portare cose belle al banchetto celeste.
CAPITOLO SETTIMO
RAFFORZARE L’EDUCAZIONE DEI FIGLI
259. I genitori incidono sempre sullo sviluppo morale dei loro figli, in bene e in male. Di conseguenza, la cosa migliore è che accettino questa responsabilità inevitabile e la realizzino in maniera cosciente, entusiasta, ragionevole e appropriata. Poiché questa funzione educativa delle famiglie è così importante ed è diventata molto complessa, desidero trattenermi in modo speciale su questo punto.
Dove sono i figli?
260. La famiglia non può rinunciare ad essere luogo di sostegno, di accompagnamento, di guida, anche se deve reinventare i suoi metodi e trovare nuove risorse. Ha bisogno di prospettare a che cosa voglia esporre i propri figli. A tale scopo non deve evitare di domandarsi chi sono quelli che si occupano di dare loro divertimento e intrattenimento, quelli che entrano nelle loro abitazioni attraverso gli schermi, quelli a cui li affidano per guidarli nel loro tempo libero. Soltanto i momenti che passiamo con loro, parlando con semplicità e affetto delle cose importanti, e le sane possibilità che creiamo perché possano occupare il loro tempo permetteranno di evitare una nociva invasione. C’è sempre bisogno di vigilanza. L’abbandono non fa mai bene. I genitori devono orientare e preparare i bambini e gli adolescenti affinché sappiano affrontare situazioni in cui ci possano essere, per esempio, rischi di aggressioni, di abuso o di tossicodipendenza.
261. Tuttavia l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare. Qui vale il principio per cui «il tempo è superiore allo spazio»[291]. Vale a dire, si tratta di generare processi più che dominare spazi. Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia. Solo così quel figlio avrà in sé stesso gli elementi di cui ha bisogno per sapersi difendere e per agire con intelligenza e accortezza in circostanze difficili. Pertanto il grande interrogativo non è dove si trova fisicamente il figlio, con chi sta in questo momento, ma dove si trova in un senso esistenziale, dove sta posizionato dal punto di vista delle sue convinzioni, dei suoi obiettivi, dei suoi desideri, del suo progetto di vita. Per questo le domande che faccio ai genitori sono: «Cerchiamo di capire “dove” i figli veramente sono nel loro cammino? Dov’è realmente la loro anima, lo sappiamo? E soprattutto: lo vogliamo sapere?»[292].
262. Se la maturità fosse solo lo sviluppo di qualcosa che è già contenuto nel codice genetico, non ci sarebbe molto da fare. La prudenza, il buon giudizio e il buon senso non dipendono da fattori puramente quantitativi di crescita, ma da tutta una catena di elementi che si sintetizzano nell’interiorità della persona; per essere più precisi, al centro della sua libertà. È inevitabile che ogni figlio ci sorprenda con i progetti che scaturiscono da tale libertà, che rompa i nostri schemi, ed è bene che ciò accada. L’educazione comporta il compito di promuovere libertà responsabili, che nei punti di incrocio sappiano scegliere con buon senso e intelligenza; persone che comprendano senza riserve che la loro vita e quella della loro comunità è nelle loro mani e che questa libertà è un dono immenso.
La formazione etica dei figli
263. Anche se i genitori hanno bisogno della scuola per assicurare un’istruzione di base ai propri figli, non possono mai delegare completamente la loro formazione morale. Lo sviluppo affettivo ed etico di una persona richiede un’esperienza fondamentale: credere che i propri genitori sono degni di fiducia. Questo costituisce una responsabilità educativa: con l’affetto e la testimonianza generare fiducia nei figli, ispirare in essi un amorevole rispetto. Quando un figlio non sente più di essere prezioso per i suoi genitori nonostante sia imperfetto, o non percepisce che loro nutrono una preoccupazione sincera per lui, questo crea ferite profonde che causano molte difficoltà nella sua maturazione. Questa assenza, questo abbandono affettivo, provoca un dolore più profondo di una eventuale correzione che potrebbe ricevere per una cattiva azione.
264. Il compito dei genitori comprende una educazione della volontà e uno sviluppo di buone abitudini e di inclinazioni affettive a favore del bene. Questo implica che si presentino come desiderabili comportamenti da imparare e inclinazioni da far maturare. Ma si tratta sempre di un processo che va dall’imperfezione alla maggiore pienezza. Il desiderio di adattarsi alla società o l’abitudine di rinunciare a una soddisfazione immediata per adattarsi a una norma e assicurarsi una buona convivenza, è già in sé stesso un valore iniziale che crea disposizioni per elevarsi poi verso valori più alti. La formazione morale dovrebbe realizzarsi sempre con metodi attivi e con un dialogo educativo che coinvolga la sensibilità e il linguaggio proprio dei figli. Inoltre, questa formazione si deve attuare in modo induttivo, in modo che il figlio possa arrivare a scoprire da sé l’importanza di determinati valori, principi e norme, invece di imporgliele come verità indiscutibili.
265. Per agire bene non basta “giudicare in modo adeguato” o sapere con chiarezza che cosa si deve fare, benché ciò sia prioritario. Molte volte siamo incoerenti con le nostre convinzioni personali, persino quando esse sono solide. Per quanto la coscienza ci detti un determinato giudizio morale, a volte hanno più potere altre cose che ci attraggono, se non abbiamo acquisito che il bene colto dalla mente si radichi in noi come profonda inclinazione affettiva, come gusto per il bene che pesi più di altre attrattive e che ci faccia percepire che quanto abbiamo colto come bene lo è anche “per noi” qui ed ora. Una formazione etica efficace implica il mostrare alla persona fino a che punto convenga a lei stessa agire bene. Oggi è spesso inefficace chiedere qualcosa che esiga sforzo e rinunce, senza mostrare chiaramente il bene che con ciò si potrebbe raggiungere.
266. È necessario maturare delle abitudini. Anche le consuetudini acquisite da bambini hanno una funzione positiva, permettendo che i grandi valori interiorizzati si traducano in comportamenti esterni sani e stabili. Qualcuno può avere sentimenti socievoli e una buona disposizione verso gli altri, ma se per molto tempo non si è abituato per l’insistenza degli adulti a dire “per favore”, “permesso”, “grazie”, la sua buona disposizione interiore non si tradurrà facilmente in queste espressioni. Il rafforzamento della volontà e la ripetizione di determinate azioni costruiscono la condotta morale, e senza la ripetizione cosciente, libera e apprezzata di certi comportamenti buoni non si porta a termine l’educazione a tale condotta. Le motivazioni, o l’attrazione che proviamo verso un determinato valore, non diventano virtù senza questi atti adeguatamente motivati.
267. La libertà è qualcosa di grandioso, ma possiamo perderla. L’educazione morale è un coltivare la libertà mediante proposte, motivazioni, applicazioni pratiche, stimoli, premi, esempi, modelli, simboli, riflessioni, esortazioni, revisioni del modo di agire e dialoghi che aiutino le persone a sviluppare quei principi interiori stabili che possono muovere a compiere spontaneamente il bene. La virtù è una convinzione che si è trasformata in un principio interno e stabile dell’agire. La vita virtuosa, pertanto, costruisce la libertà, la fortifica e la educa, evitando che la persona diventi schiava di inclinazioni compulsive disumanizzanti e antisociali. Infatti la dignità umana stessa esige che ognuno «agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali»[293].
Il valore della sanzione come stimolo
268. Ugualmente, è indispensabile sensibilizzare il bambino e l’adolescente affinché si renda conto che le cattive azioni hanno delle conseguenze. Occorre risvegliare la capacità di porsi nei panni dell’altro e di pentirsi per la sua sofferenza quando gli si è fatto del male. Alcune sanzioni – ai comportamenti antisociali aggressivi – possono conseguire in parte questa finalità. È importante orientare il bambino con fermezza a chiedere perdono e a riparare il danno causato agli altri. Quando il percorso educativo mostra i suoi frutti in una maturazione della libertà personale, il figlio stesso a un certo punto inizierà a riconoscere con gratitudine che è stato un bene per lui crescere in una famiglia e anche sopportare le esigenze imposte da tutto il processo formativo.
269. La correzione è uno stimolo quando al tempo stesso si apprezzano e si riconoscono gli sforzi e quando il figlio scopre che i suoi genitori mantengono viva una paziente fiducia. Un bambino corretto con amore si sente considerato, percepisce che è qualcuno, avverte che i suoi genitori riconoscono le sue potenzialità. Questo non richiede che i genitori siano immacolati, ma che sappiano riconoscere con umiltà i propri limiti e mostrino il loro personale sforzo di essere migliori. Ma una testimonianza di cui i figli hanno bisogno da parte dei genitori è che non si lascino trasportare dall’ira. Il figlio che commette una cattiva azione, deve essere corretto, ma mai come un nemico o come uno su cui si scarica la propria aggressività. Inoltre un adulto deve riconoscere che alcune azioni cattive sono legate alle fragilità e ai limiti propri dell’età. Per questo sarebbe nocivo un atteggiamento costantemente sanzionatorio, che non aiuterebbe a percepire la differente gravità delle azioni e provocherebbe scoraggiamento e irritazione: «Padri, non esasperate i vostri figli» (Ef 6,4; cfr Col 3,21).
270. La cosa fondamentale è che la disciplina non si tramuti in una mutilazione del desiderio, ma in uno stimolo per andare sempre oltre. Come integrare disciplina e dinamismo interiore? Come far sì che la disciplina sia un limite costruttivo del cammino che deve intraprendere un bambino e non un muro che lo annulli o una dimensione dell’educazione che lo inibisca? Bisogna saper trovare un equilibrio tra due estremi ugualmente nocivi: uno sarebbe pretendere di costruire un mondo a misura dei desideri del figlio, che cresce sentendosi soggetto di diritti ma non di responsabilità. L’altro estremo sarebbe portarlo a vivere senza consapevolezza della sua dignità, della sua identità singolare e dei suoi diritti, torturato dai doveri e sottomesso a realizzare i desideri altrui.
Paziente realismo
271. L’educazione morale implica chiedere a un bambino o a un giovane solo quelle cose che non rappresentino per lui un sacrificio sproporzionato, esigere solo quella dose di sforzo che non provochi risentimento o azioni puramente forzate. Il percorso ordinario è proporre piccoli passi che possano essere compresi, accettati e apprezzati, e comportino una rinuncia proporzionata. Diversamente, per chiedere troppo, non si ottiene nulla. La persona, appena potrà liberarsi dell’autorità, probabilmente smetterà di agire bene.
272. La formazione etica a volte provoca disprezzo dovuto a esperienze di abbandono, di delusione, di carenza affettiva, o ad una cattiva immagine dei genitori. Si proiettano sui valori etici le immagini distorte delle figure del padre e della madre, o le debolezze degli adulti. Per questo bisogna aiutare gli adolescenti a mettere in pratica l’analogia: i valori sono compiuti particolarmente da alcune persone molto esemplari, ma si realizzano anche in modo imperfetto e in diversi gradi. Nello stesso tempo, poiché le resistenze dei giovani sono molto legate a esperienze negative, bisogna aiutarli a percorrere una via di guarigione di questo mondo interiore ferito, così che possano accedere alla comprensione e alla riconciliazione con le persone e con la società.
273. Quando si propongono i valori, bisogna procedere a poco a poco, progredire in modi diversi a seconda dell’età e delle possibilità concrete delle persone, senza pretendere di applicare metodologie rigide e immutabili. I contributi preziosi della psicologia e delle scienze dell’educazione mostrano che occorre un processo graduale nell’acquisizione di cambiamenti di comportamento, ma anche che la libertà ha bisogno di essere incanalata e stimolata, perché abbandonata a sé stessa non può garantire la propria maturazione. La libertà situata, reale, è limitata e condizionata. Non è una pura capacità di scegliere il bene con totale spontaneità. Non sempre si distingue adeguatamente tra atto “volontario” e atto “libero”. Qualcuno può volere qualcosa di malvagio con una grande forza di volontà, ma a causa di una passione irresistibile o di una cattiva educazione. In tal caso, la sua decisione è fortemente volontaria, non contraddice l’inclinazione del suo volere, ma non è libera, perché le risulta quasi impossibile non scegliere quel male. È ciò che accade con un dipendente compulsivo dalla droga. Quando la desidera lo fa con tutte le sue forze, ma è talmente condizionato che per il momento non è capace di prendere una decisione diversa. Pertanto la sua decisione è volontaria, ma non libera. Non ha senso “lasciare che scelga con libertà”, poiché di fatto non può scegliere, ed esporlo alla droga non fa altro che aumentare la dipendenza. Ha bisogno dell’aiuto degli altri e di un percorso educativo.
La vita familiare come contesto educativo
274. La famiglia è la prima scuola dei valori umani, dove si impara il buon uso della libertà. Ci sono inclinazioni maturate nell’infanzia che impregnano il profondo di una persona e permangono per tutta la vita come un’emozione favorevole nei confronti di un valore o come un rifiuto spontaneo di determinati comportamenti. Molte persone agiscono per tutta la vita in una certa maniera perché considerano valido quel modo di agire che hanno assimilato dall’infanzia, come per osmosi: “A me hanno insegnato così”; “questo è ciò che mi hanno inculcato”. Nell’ambito familiare si può anche imparare a discernere in modo critico i messaggi dei vari mezzi di comunicazione. Purtroppo, molte volte alcuni programmi televisivi o alcune forme di pubblicità incidono negativamente e indeboliscono valori ricevuti nella vita familiare.
275. Nell’epoca attuale, in cui regnano l’ansietà e la fretta tecnologica, compito importantissimo delle famiglie è educare alla capacità di attendere. Non si tratta di proibire ai ragazzi di giocare con i dispositivi elettronici, ma di trovare il modo di generare in loro la capacità di differenziare le diverse logiche e di non applicare la velocità digitale a ogni ambito della vita. Rimandare non è negare il desiderio, ma differire la sua soddisfazione. Quando i bambini o gli adolescenti non sono educati ad accettare che alcune cose devono aspettare, diventano prepotenti, sottomettono tutto alla soddisfazione delle proprie necessità immediate e crescono con il vizio del “tutto e subito”. Questo è un grande inganno che non favorisce la libertà, ma la intossica. Invece, quando si educa ad imparare a posporre alcune cose e ad aspettare il momento adatto, si insegna che cosa significa essere padrone di sé stesso, autonomo davanti ai propri impulsi. Così, quando il bambino sperimenta che può farsi carico di sé stesso, arricchisce la propria autostima. Al tempo stesso, questo gli insegna a rispettare la libertà degli altri. Naturalmente ciò non significa pretendere dai bambini che agiscano come adulti, ma nemmeno bisogna disprezzare la loro capacità di crescere nella maturazione di una libertà responsabile. In una famiglia sana, questo apprendistato si attua in maniera ordinaria attraverso le esigenze della convivenza.
276. La famiglia è l’ambito della socializzazione primaria, perché è il primo luogo in cui si impara a collocarsi di fronte all’altro, ad ascoltare, a condividere, a sopportare, a rispettare, ad aiutare, a convivere. Il compito educativo deve suscitare il sentimento del mondo e della società come “ambiente familiare”, è un’educazione al saper “abitare”, oltre i limiti della propria casa. Nel contesto familiare si insegna a recuperare la prossimità, il prendersi cura, il saluto. Lì si rompe il primo cerchio del mortale egoismo per riconoscere che viviamo insieme ad altri, con altri, che sono degni della nostra attenzione, della nostra gentilezza, del nostro affetto. Non c’è legame sociale senza questa prima dimensione quotidiana, quasi microscopica: lo stare insieme nella prossimità, incrociandoci in diversi momenti della giornata, preoccupandoci di quello che interessa tutti, soccorrendoci a vicenda nelle piccole cose quotidiane. La famiglia deve inventare ogni giorno nuovi modi di promuovere il riconoscimento reciproco.
277. Nell’ambiente familiare si possono anche reimpostare le abitudini di consumo per provvedere insieme alla casa comune: «La famiglia è il soggetto protagonista di un’ecologia integrale, perché è il soggetto sociale primario, che contiene al proprio interno i due principi-base della civiltà umana sulla terra: il principio di comunione e il principio di fecondità»[294]. Ugualmente, i momenti difficili e duri della vita familiare possono essere molto educativi. È ciò che accade, per esempio, quando sopraggiunge una malattia, perché «di fronte alla malattia, anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. […] Un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano “anestetizzati” verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite»[295].
278. L’incontro educativo tra genitori e figli può essere facilitato o compromesso dalle tecnologie della comunicazione e del divertimento, sempre più sofisticate. Quando sono ben utilizzate possono essere utili per collegare i membri della famiglia malgrado la distanza. I contatti possono essere frequenti e aiutare a risolvere difficoltà[296]. Deve però essere chiaro che non sostituiscono né rimpiazzano la necessità del dialogo più personale e profondo che richiede il contatto fisico, o almeno, la voce dell’altra persona. Sappiamo che a volte questi mezzi allontanano invece di avvicinare, come quando nell’ora del pasto ognuno è concentrato sul suo telefono mobile, o come quando uno dei coniugi si addormenta aspettando l’altro, che passa ore alle prese con qualche dispositivo elettronico. In famiglia, anche questo dev’essere motivo di dialogo e di accordi, che permettano di dare priorità all’incontro dei suoi membri senza cadere in divieti insensati. Comunque, non si possono ignorare i rischi delle nuove forme di comunicazione per i bambini e gli adolescenti, che a volte ne sono resi abulici, scollegati dal mondo reale. Questo “autismo tecnologico” li espone più facilmente alla manipolazione di quanti cercano di entrare nella loro intimità con interessi egoistici.
279. Non è bene neppure che i genitori diventino esseri onnipotenti per i propri figli, che potrebbero aver fiducia solo in loro, perché così impediscono un adeguato processo di socializzazione e di maturazione affettiva. Per rendere efficace il prolungamento della paternità e della maternità verso una realtà più ampia, «le comunità cristiane sono chiamate ad offrire sostegno alla missione educativa delle famiglie»[297], in modo particolare attraverso la catechesi di iniziazione. Per favorire un’educazione integrale abbiamo bisogno di «ravvivare l’alleanza tra la famiglie e la comunità cristiana»[298]. Il Sinodo ha voluto evidenziare l’importanza delle scuole cattoliche, che «svolgono una funzione vitale nell’assistere i genitori nel loro dovere di educare i figli. […] Le scuole cattoliche dovrebbero essere incoraggiate nella loro missione di aiutare gli alunni a crescere come adulti maturi che possono vedere il mondo attraverso lo sguardo di amore di Gesù e che comprendono la vita come una chiamata a servire Dio»[299]. In tal senso, «vanno affermati con decisione la libertà della Chiesa di insegnare la propria dottrina e il diritto all’obiezione di coscienza da parte degli educatori»[300].
Sì all’educazione sessuale
280. Il Concilio Vaticano II prospettava la necessità di «una positiva e prudente educazione sessuale» che raggiungesse i bambini e gli adolescenti «man mano che cresce la loro età» e «tenuto conto del progresso della psicologia, della pedagogia e della didattica»[301]. Dovremmo domandarci se le nostre istituzioni educative hanno assunto questa sfida. È difficile pensare l’educazione sessuale in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità. Si potrebbe intenderla solo nel quadro di una educazione all’amore, alla reciproca donazione. In tal modo il linguaggio della sessualità non si vede tristemente impoverito, ma illuminato. L’impulso sessuale può essere coltivato in un percorso di conoscenza di sé e nello sviluppo di una capacità di dominio di sé, che possano aiutare a far emergere capacità preziose di gioia e di incontro amoroso.
281. L’educazione sessuale offre informazione, ma senza dimenticare che i bambini e i giovani non hanno raggiunto una maturità piena. L’informazione deve arrivare nel momento appropriato e in un modo adatto alla fase che vivono. Non serve riempirli di dati senza lo sviluppo di un senso critico davanti a una invasione di proposte, davanti alla pornografia senza controllo e al sovraccarico di stimoli che possono mutilare la sessualità. I giovani devono potersi rendere conto che sono bombardati da messaggi che non cercano il loro bene e la loro maturità. Occorre aiutarli a riconoscere e a cercare le influenze positive, nel tempo stesso in cui prendono le distanze da tutto ciò che deforma la loro capacità di amare. Ugualmente, dobbiamo accettare che «il bisogno di un nuovo e più adeguato linguaggio si presenta innanzitutto nel momento di introdurre i bambini e gli adolescenti al tema della sessualità»[302].
282. Un’educazione sessuale che custodisca un sano pudore ha un valore immenso, anche se oggi alcuni ritengono che sia una cosa di altri tempi. È una difesa naturale della persona che protegge la propria interiorità ed evita di trasformarsi in un puro oggetto. Senza il pudore, possiamo ridurre l’affetto e la sessualità a ossessioni che ci concentrano solo sulla genitalità, su morbosità che deformano la nostra capacità di amare e su diverse forme di violenza sessuale che ci portano ad essere trattati in modo inumano o a danneggiare gli altri.
283. Frequentemente l’educazione sessuale si concentra sull’invito a “proteggersi”, cercando un “sesso sicuro”. Queste espressioni trasmettono un atteggiamento negativo verso la naturale finalità procreativa della sessualità, come se un eventuale figlio fosse un nemico dal quale doversi proteggere. Così si promuove l’aggressività narcisistica invece dell’accoglienza. È irresponsabile ogni invito agli adolescenti a giocare con i loro corpi e i loro desideri, come se avessero la maturità, i valori, l’impegno reciproco e gli obiettivi propri del matrimonio. Così li si incoraggia allegramente ad utilizzare l’altra persona come oggetto di esperienze per compensare carenze e grandi limiti. È importante invece insegnare un percorso sulle diverse espressioni dell’amore, sulla cura reciproca, sulla tenerezza rispettosa, sulla comunicazione ricca di senso. Tutto questo, infatti, prepara ad un dono di sé integro e generoso che si esprimerà, dopo un impegno pubblico, nell’offerta dei corpi. L’unione sessuale nel matrimonio apparirà così come segno di un impegno totalizzante, arricchito da tutto il cammino precedente.
284. Non bisogna ingannare i giovani portandoli a confondere i piani: l’attrazione «crea, sul momento, un’illusione di unione, eppure senza amore questa “unione” lascia due esseri estranei e divisi come prima»[303]. Il linguaggio del corpo richiede il paziente apprendistato che permette di interpretare ed educare i propri desideri per donarsi veramente. Quando si pretende di donare tutto in un colpo è possibile che non si doni nulla. Una cosa è comprendere le fragilità dell’età o le sue confusioni, altra cosa è incoraggiare gli adolescenti a prolungare l’immaturità del loro modo di amare. Ma chi parla oggi di queste cose? Chi è capace di prendere sul serio i giovani? Chi li aiuta a prepararsi seriamente per un amore grande e generoso? Si prende troppo alla leggera l’educazione sessuale.
285. L’educazione sessuale dovrebbe comprendere anche il rispetto e la stima della differenza, che mostra a ciascuno la possibilità di superare la chiusura nei propri limiti per aprirsi all’accettazione dell’altro. Al di là delle comprensibili difficoltà che ognuno possa vivere, occorre aiutare ad accettare il proprio corpo così come è stato creato, perché «una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato […] Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere se stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente»[304]. Solo abbandonando la paura verso la differenza si può giungere a liberarsi dall’immanenza del proprio essere e dal fascino per sé stessi. L’educazione sessuale deve aiutare ad accettare il proprio corpo, in modo che la persona non pretenda di «cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa»[305].
286. Non si può nemmeno ignorare che nella configurazione del proprio modo di essere, femminile o maschile, non confluiscono solamente fattori biologici o genetici, ma anche molteplici elementi relativi al temperamento, alla storia familiare, alla cultura, alle esperienze vissute, alla formazione ricevuta, alle influenze di amici, familiari e persone ammirate, e ad altre circostanze concrete che esigono uno sforzo di adattamento. È vero che non possiamo separare ciò che è maschile e femminile dall’opera creata da Dio, che è anteriore a tutte le nostre decisioni ed esperienze e dove ci sono elementi biologici che è impossibile ignorare. Però è anche vero che il maschile e il femminile non sono qualcosa di rigido. Perciò è possibile, ad esempio, che il modo di essere maschile del marito possa adattarsi con flessibilità alla condizione lavorativa della moglie. Farsi carico di compiti domestici o di alcuni aspetti della crescita dei figli non lo rendono meno maschile, né significano un fallimento, un cedimento o una vergogna. Bisogna aiutare i bambini ad accettare come normali questi sani “interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna. La rigidità diventa una esagerazione del maschile o del femminile, e non educa i bambini e i giovani alla reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Questa rigidità, a sua volta, può impedire lo sviluppo delle capacità di ciascuno, fino al punto di arrivare a considerare come poco maschile dedicarsi all’arte o alla danza e poco femminile svolgere un incarico di guida. Questo, grazie a Dio, è cambiato, ma in alcuni luoghi certe concezioni inadeguate continuano a condizionare la legittima libertà e a mutilare l’autentico sviluppo dell’identità concreta dei figli e delle loro potenzialità.
Trasmettere la fede
287. L’educazione dei figli dev’essere caratterizzata da un percorso di trasmissione della fede, che è reso difficile dallo stile di vita attuale, dagli orari di lavoro, dalla complessità del mondo di oggi, in cui molti, per sopravvivere, sostengono ritmi frenetici[306]. Ciò nonostante, la famiglia deve continuare ad essere il luogo dove si insegna a cogliere le ragioni e la bellezza della fede, a pregare e a servire il prossimo. Questo inizia con il Battesimo, nel quale, come diceva sant’Agostino, le madri che portano i propri figli «cooperano al parto santo»[307]. Poi inizia il cammino della crescita di quella vita nuova. La fede è dono di Dio, ricevuto nel Battesimo, e non è il risultato di un’azione umana, però i genitori sono strumento di Dio per la sua maturazione e il suo sviluppo. Perciò «è bello quando le mamme insegnano ai figli piccoli a mandare un bacio a Gesù o alla Vergine. Quanta tenerezza c’è in quel gesto! In quel momento il cuore dei bambini si trasforma in spazio di preghiera»[308]. La trasmissione della fede presuppone che i genitori vivano l’esperienza reale di avere fiducia in Dio, di cercarlo, di averne bisogno, perché solo in questo modo «una generazione narra all’altra le tue opere, annuncia le tue imprese» (Sal 144,4) e «il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà» (Is 38,19). Questo richiede che invochiamo l’azione di Dio nei cuori, là dove non possiamo arrivare. Il granello di senape, seme tanto piccolo, diventa un grande arbusto (cfr Mt 13,31-32), e così riconosciamo la sproporzione tra l’azione e il suo effetto. Allora sappiamo che non siamo padroni del dono ma suoi amministratori premurosi. Tuttavia il nostro impegno creativo è un contributo che ci permette di collaborare con l’iniziativa di Dio. Pertanto, «si abbia cura di valorizzare le coppie, le madri e i padri, come soggetti attivi della catechesi […]. È di grande aiuto la catechesi familiare, in quanto metodo efficace per formare i giovani genitori e per renderli consapevoli della loro missione come evangelizzatori della propria famiglia»[309].
288. L’educazione alla fede sa adattarsi a ciascun figlio, perché gli strumenti già imparati o le ricette a volte non funzionano. I bambini hanno bisogno di simboli, di gesti, di racconti. Gli adolescenti solitamente entrano in crisi con l’autorità e con le norme, per cui conviene stimolare le loro personali esperienze di fede e offrire loro testimonianze luminose che si impongano per la loro stessa bellezza. I genitori che vogliono accompagnare la fede dei propri figli sono attenti ai loro cambiamenti, perché sanno che l’esperienza spirituale non si impone ma si propone alla loro libertà. È fondamentale che i figli vedano in maniera concreta che per i loro genitori la preghiera è realmente importante. Per questo i momenti di preghiera in famiglia e le espressioni della pietà popolare possono avere maggior forza evangelizzatrice di tutte le catechesi e tutti i discorsi. Desidero esprimere in modo speciale la mia gratitudine a tutte le madri che pregano incessantemente, come faceva santa Monica, per i figli che si sono allontanati da Cristo.
289. L’esercizio di trasmettere ai figli la fede, nel senso di facilitare la sua espressione e la sua crescita, permette che la famiglia diventi evangelizzatrice, e che spontaneamente inizi a trasmetterla a tutti coloro che le si accostano, anche al di fuori dello stesso ambiente familiare. I figli che crescono in famiglie missionarie spesso diventano missionari, se i genitori sanno vivere questo compito in modo tale che gli altri li sentano vicini e amichevoli, e così che i figli crescano in questo stile di relazione con il mondo, senza rinunciare alla propria fede e alle proprie convinzioni. Ricordiamo che Gesù stesso mangiava e beveva con i peccatori (cfr Mc2,16; Mt 11,19), poteva fermarsi a conversare con la samaritana (cfr Gv 4,7-26), e ricevere Nicodemo di notte (cfr Gv 3,1-21), si lasciava ungere i piedi da una donna prostituta (cfr Lc 7,36-50), e non esitava a toccare i malati (cfr Mc 1,40-45; 7,33). Lo stesso facevano i suoi apostoli, che non erano persone sprezzanti verso gli altri, reclusi in piccoli gruppi di eletti, isolati dalla vita della gente. Mentre le autorità li perseguitavano, loro godevano della simpatia di tutto il popolo (cfr At 2,47; 4,21.33; 5,13).
290. «La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale»[310]. Ciò va collocato nel quadro della convinzione più preziosa dei cristiani: l’amore del Padre che ci sostiene e ci fa crescere, manifestato nel dono totale di Gesù, vivo tra noi, che ci rende capaci di affrontare uniti tutte le tempeste e tutte le fasi della vita. Anche nel cuore di ogni famiglia bisogna far risuonare il kerygma, in ogni occasione opportuna e non opportuna, perché illumini il cammino. Tutti dovremmo poter dire, a partire dal vissuto nelle nostre famiglie: «Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). Solo a partire da questa esperienza, la pastorale familiare potrà ottenere che le famiglie siano al tempo stesso Chiese domestiche e fermento evangelizzatore nella società.
CAPITOLO OTTAVO
ACCOMPAGNARE, DISCERNERE E INTEGRARE LA FRAGILITÀ
291. I Padri sinodali hanno affermato che, nonostante la Chiesa ritenga che ogni rottura del vincolo matrimoniale «è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli»[311]. Illuminata dallo sguardo di Cristo, «la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano»[312]. D’altra parte, questo atteggiamento risulta rafforzato nel contesto di un Anno Giubilare dedicato alla misericordia. Benché sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio, «la Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta»[313]. Non dimentichiamo che spesso il lavoro della Chiesa assomiglia a quello di un ospedale da campo.
292. Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società. Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo. I Padri sinodali hanno affermato che la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio[314].
La gradualità nella pastorale
293. I Padri hanno anche considerato la situazione particolare di un matrimonio solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, «quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio»[315]. D’altra parte è preoccupante che molti giovani oggi non abbiano fiducia nel matrimonio e convivano rinviando indefinitamente l’impegno coniugale, mentre altri pongono fine all’impegno assunto e immediatamente ne instaurano uno nuovo. Coloro «che fanno parte della Chiesa hanno bisogno di un’attenzione pastorale misericordiosa e incoraggiante»[316]. Infatti, ai Pastori compete non solo la promozione del matrimonio cristiano, ma anche «il discernimento pastorale delle situazioni di tanti che non vivono più questa realtà», per «entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al Vangelo del matrimonio nella sua pienezza»[317]. Nel discernimento pastorale conviene «identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale»[318].
294. «La scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti»[319]. In queste situazioni potranno essere valorizzati quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio[320]. Sappiamo che «è in continua crescita il numero di coloro che, dopo aver vissuto insieme per lungo tempo, chiedono la celebrazione del matrimonio in chiesa. La semplice convivenza è spesso scelta a causa della mentalità generale contraria alle istituzioni e agli impegni definitivi, ma anche per l’attesa di una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso). In altri Paesi, infine, le unioni di fatto sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto»[321]. Comunque, «tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza»[322]. È quello che ha fatto Gesù con la samaritana (cfr Gv 4,1-26): rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo.
295. In questa linea, san Giovanni Paolo II proponeva la cosiddetta “legge della gradualità”, nella consapevolezza che l’essere umano «conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita»[323]. Non è una “gradualità della legge”, ma una gradualità nell’esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge. Perché anche la legge è dono di Dio che indica la strada, dono per tutti senza eccezione che si può vivere con la forza della grazia, anche se ogni essere umano «avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo ed assoluto nell’intera vita personale e sociale dell’uomo»[324].
Il discernimento delle situazioni dette “irregolari”[325]
296. Il Sinodo si è riferito a diverse situazioni di fragilità o di imperfezione. Al riguardo, desidero qui ricordare ciò che ho voluto prospettare con chiarezza a tutta la Chiesa perché non ci capiti di sbagliare strada: «due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!»[326]. Pertanto, «sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione»[327].
297. Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione. Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua personale iniziativa, insieme al discernimento del Pastore, può suggerire. Riguardo al modo di trattare le diverse situazioni dette “irregolari”, i Padri sinodali hanno raggiunto un consenso generale, che sostengo: «In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro»[328], sempre possibile con la forza dello Spirito Santo.
298. I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione»[329]. C’è anche il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di «coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido»[330]. Altra cosa invece è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia. I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente»[331], con uno sguardo che discerna bene le situazioni[332]. Sappiamo che non esistono «semplici ricette»[333].
299. Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che «i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti»[334].
300. Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi»[335],le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi[336]. I presbiteri hanno il compito di «accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno»[337]. Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che «orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa»[338].Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale.
Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale
301. Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette “irregolari”, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo. La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale»[339] o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, «possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione»[340]. Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù[341], in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: «Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù»[342].
302. Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilitàe la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali»[343]. In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali[344]. Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta[345]. Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti Padri sinodali: «In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi»[346].
303. A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno.
Le norme e il discernimento
304. È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. […] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare»[347]. È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione[348].
305. Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa «per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite»[349].In questa medesima linea si è pronunciata la Commissione Teologica Internazionale: «La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione»[350]. A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa[351]. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà»[352]. La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà.
306. In qualunque circostanza, davanti a quanti hanno difficoltà a vivere pienamente la legge divina, deve risuonare l’invito a percorrere la via caritatis. La carità fraterna è la prima legge dei cristiani (cfr Gv 15,12; Gal 5,14). Non dimentichiamo la promessa delle Scritture: «Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8); «sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti» (Dn 4,24); «l’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). È anche ciò che insegna sant’Agostino: «Come dunque se fossimo in pericolo per un incendio correremmo per prima cosa in cerca dell’acqua, con cui poter spegnere l’incendio, […] ugualmente, se qualche fiamma di peccato si è sprigionata dal fieno delle nostre passioni e perciò siamo scossi, rallegriamoci dell’opportunità che ci viene data di fare un’opera di vera misericordia, come se ci fosse offerta la fontana da cui prender l’acqua per spegnere l’incendio che si era acceso»[353].
La logica della misericordia pastorale
307. Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza: «I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa»[354]. La tiepidezza, qualsiasi forma di relativismo, o un eccessivo rispetto al momento di proporlo, sarebbero una mancanza di fedeltà al Vangelo e anche una mancanza di amore della Chiesa verso i giovani stessi. Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano. Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture.
308. Tuttavia, dalla nostra consapevolezza del peso delle circostanze attenuanti – psicologiche, storiche e anche biologiche – ne segue che «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno», lasciando spazio alla «misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile»[355]. Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada»[356]. I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37). Gesù «aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente»[357].
309. È provvidenziale che queste riflessioni si sviluppino nel contesto di un Anno Giubilare dedicato alla misericordia, perché anche davanti alle più diverse situazioni che interessano la famiglia, «la Chiesa ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, che per mezzo suo deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno»[358]. Sa bene che Gesù stesso si presenta come Pastore di cento pecore, non di novantanove. Le vuole tutte. A partire da questa consapevolezza, si renderà possibile che «a tutti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del Regno di Dio già presente in mezzo a noi»[359].
310. Non possiamo dimenticare che «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia»[360]. Non è una proposta romantica o una risposta debole davanti all’amore di Dio, che sempre vuole promuovere le persone, poiché «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia»[361]. È vero che a volte «ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa»[362].
311. L’insegnamento della teologia morale non dovrebbe tralasciare di fare proprie queste considerazioni, perché seppure è vero che bisogna curare l’integralità dell’insegnamento morale della Chiesa, si deve sempre porre speciale attenzione nel mettere in evidenza e incoraggiare i valori più alti e centrali del Vangelo[363], particolarmente il primato della carità come risposta all’iniziativa gratuita dell’amore di Dio. A volte ci costa molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio[364]. Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e questo è il modo peggiore di annacquare il Vangelo. È vero, per esempio, che la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio. Pertanto, conviene sempre considerare «inadeguata qualsiasi concezione teologica che in ultima analisi metta in dubbio l’onnipotenza stessa di Dio, e in particolare la sua misericordia»[365].
312. Questo ci fornisce un quadro e un clima che ci impedisce di sviluppare una morale fredda da scrivania nel trattare i temi più delicati e ci colloca piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare. Questa è la logica che deve prevalere nella Chiesa, per «fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali»[366]. Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale. E invito i pastori ad ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro posto nella Chiesa.
CAPITOLO NONO
SPIRITUALITÀ CONIUGALE E FAMILIARE
313. La carità assume diverse sfumature, a seconda dello stato di vita a cui ciascuno è stato chiamato. Già alcuni decenni fa, il Concilio Vaticano II, a proposito dell’apostolato dei laici, metteva in risalto la spiritualità che scaturisce dalla vita familiare. Affermava che la spiritualità dei laici «deve assumere una sua fisionomia particolare» anche dallo «stato del matrimonio e della famiglia»[367] e che le preoccupazioni familiari non devono essere qualcosa di estraneo al loro stile di vita spirituale[368]. Pertanto vale la pena di fermarci brevemente a descrivere alcune caratteristiche fondamentali di questa spiritualità specifica che si sviluppa nel dinamismo delle relazioni della vita familiare.
Spiritualità della comunione soprannaturale
314. Abbiamo sempre parlato della inabitazione di Dio nel cuore della persona che vive nella sua grazia. Oggi possiamo dire anche che la Trinità è presente nel tempio della comunione matrimoniale. Così come abita nelle lodi del suo popolo (cfr Sal 22,4), vive intimamente nell’amore coniugale che le dà gloria.
315. La presenza del Signore abita nella famiglia reale e concreta, con tutte le sue sofferenze, lotte, gioie e i suoi propositi quotidiani. Quando si vive in famiglia, lì è difficile fingere e mentire, non possiamo mostrare una maschera. Se l’amore anima questa autenticità, il Signore vi regna con la sua gioia e la sua pace. La spiritualità dell’amore familiare è fatta di migliaia di gesti reali e concreti. In questa varietà di doni e di incontri che fanno maturare la comunione, Dio ha la propria dimora. Questa dedizione unisce «valori umani e divini»[369], perché è piena dell’amore di Dio. In definitiva, la spiritualità matrimoniale è una spiritualità del vincolo abitato dall’amore divino.
316. Una comunione familiare vissuta bene è un vero cammino di santificazione nella vita ordinaria e di crescita mistica, un mezzo per l’unione intima con Dio. Infatti i bisogni fraterni e comunitari della vita familiare sono un’occasione per aprire sempre più il cuore, e questo rende possibile un incontro con il Signore sempre più pieno. La Parola di Dio dice che «chi odia il suo fratello cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11), «rimane nella morte» (1 Gv 3,14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). Il mio predecessore Benedetto XVI ha detto che «chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio»[370], e che l’amore è in fondo l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio»[371]. Solo «se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,12). Dato che «la persona umana ha una nativa e strutturale dimensione sociale»[372] e «la prima e originaria espressione della dimensione sociale della persona è la coppia e la famiglia»[373], la spiritualità si incarna nella comunione familiare. Pertanto, coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica.
Uniti in preghiera alla luce della Pasqua
317. Se la famiglia riesce a concentrarsi in Cristo, Egli unifica e illumina tutta la vita familiare. I dolori e i problemi si sperimentano in comunione con la Croce del Signore, e l’abbraccio con Lui permette di sopportare i momenti peggiori. Nei giorni amari della famiglia c’è una unione con Gesù abbandonato che può evitare una rottura. Le famiglie raggiungono a poco a poco, «con la grazia dello Spirito Santo, la loro santità attraverso la vita matrimoniale, anche partecipando al mistero della croce di Cristo, che trasforma le difficoltà e le sofferenze in offerta d’amore»[374]. D’altra parte, i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione. I coniugi danno forma con vari gesti quotidiani a questo «spazio teologale in cui si può sperimentare la presenza mistica del Signore risorto»[375].
318. La preghiera in famiglia è un mezzo privilegiato per esprimere e rafforzare questa fede pasquale[376]. Si possono trovare alcuni minuti ogni giorno per stare uniti davanti al Signore vivo, dirgli le cose che preoccupano, pregare per i bisogni famigliari, pregare per qualcuno che sta passando un momento difficile, chiedergli aiuto per amare, rendergli grazie per la vita e le cose buone, chiedere alla Vergine di proteggerci con il suo manto di madre. Con parole semplici, questo momento di preghiera può fare tantissimo bene alla famiglia. Le diverse espressioni della pietà popolare sono un tesoro di spiritualità per molte famiglie. Il cammino comunitario di preghiera raggiunge il suo culmine nella partecipazione comune all’Eucaristia, soprattutto nel contesto del riposo domenicale. Gesù bussa alla porta della famiglia per condividere con essa la Cena eucaristica (cfr Ap 3,20). Là, gli sposi possono sempre sigillare l’alleanza pasquale che li ha uniti e che riflette l’Alleanza che Dio ha sigillato con l’umanità sulla Croce[377]. L’Eucaristia è il sacramento della Nuova Alleanza in cui si attualizza l’azione redentrice di Cristo (cfr Lc 22,20). Così si notano i legami profondi che esistono tra la vita coniugale e l’Eucaristia[378]. Il nutrimento dell’Eucaristia è forza e stimolo per vivere ogni giorno l’alleanza matrimoniale come «Chiesa domestica»[379].
Spiritualità dell’amore esclusivo e libero
319. Nel matrimonio si vive anche il senso di appartenere completamente a una sola persona. Gli sposi assumono la sfida e l’anelito di invecchiare e consumarsi insieme e così riflettono la fedeltà di Dio. Questa ferma decisione, che segna uno stile di vita, è una «esigenza interiore del patto d’amore coniugale»[380], perché «colui che non si decide ad amare per sempre, è difficile che possa amare sinceramente un solo giorno»[381]. Ma questo non avrebbe significato spirituale se si trattasse solo di una legge vissuta con rassegnazione. È un’appartenenza del cuore, là dove solo Dio vede (cfr Mt 5,28). Ogni mattina quando ci si alza, si rinnova davanti a Dio questa decisione di fedeltà, accada quel che accada durante la giornata. E ciascuno, quando va a dormire, aspetta di alzarsi per continuare questa avventura, confidando nell’aiuto del Signore. Così, ogni coniuge è per l’altro segno e strumento della vicinanza del Signore, che non ci lascia soli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
320. C’è un punto in cui l’amore della coppia raggiunge la massima liberazione e diventa uno spazio di sana autonomia: quando ognuno scopre che l’altro non è suo, ma ha un proprietario molto più importante, il suo unico Signore. Nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale e segreta della persona amata e solo Lui può occupare il centro della sua vita. Nello stesso tempo, il principio del realismo spirituale fa sì che il coniuge non pretenda che l’altro soddisfi completamente le sue esigenze. È necessario che il cammino spirituale di ciascuno – come indicava bene Dietrich Bonhoeffer – lo aiuti a “disilludersi” dell’altro[382], a smettere di attendere da quella persona ciò che è proprio soltanto dell’amore di Dio. Questo richiede una spogliazione interiore. Lo spazio esclusivo che ciascuno dei coniugi riserva al suo rapporto personale con Dio, non solo permette di sanare le ferite della convivenza, ma anche di trovare nell’amore di Dio il senso della propria esistenza. Abbiamo bisogno di invocare ogni giorno l’azione dello Spirito perché questa libertà interiore sia possibile.
Spiritualità della cura, della consolazione e dello stimolo
321. «I coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede l’uno per l’altro, nei confronti dei figli e di tutti gli altri familiari»[383]. Dio li invita a generare e a prendersi cura. Ecco perché la famiglia «è sempre stata il più vicino “ospedale”»[384]. Prendiamoci cura, sosteniamoci e stimoliamoci vicendevolmente, e viviamo tutto ciò come parte della nostra spiritualità familiare. La vita di coppia è una partecipazione alla feconda opera di Dio, e ciascuno è per l’altro una permanente provocazione dello Spirito. L’amore di Dio si esprime «attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale»[385].Così i due sono tra loro riflessi dell’amore divino che conforta con la parola, lo sguardo, l’aiuto, la carezza, l’abbraccio. Pertanto, «voler formare una famiglia è avere il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo»[386].
322. Tutta la vita della famiglia è un “pascolo” misericordioso. Ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori [...] non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente» (2 Cor 3,2-3). Ognuno è un «pescatore di uomini» (Lc 5,10) che nel nome di Gesù getta le reti (cfr Lc 5,5) verso gli altri, o un contadino che lavora in quella terra fresca che sono i suoi cari, stimolando il meglio di loro. La fecondità matrimoniale comporta la promozione, perché «amare una persona è attendere da essa qualcosa di indefinibile, di imprevedibile; è al tempo stesso offrirle in qualche modo il mezzo per rispondere a questa attesa»[387]. Questo è un culto a Dio, perché è Lui che ha seminato molte cose buone negli altri nella speranza che le facciamo crescere.
323. È una profonda esperienza spirituale contemplare ogni persona cara con gli occhi di Dio e riconoscere Cristo in lei. Questo richiede una disponibilità gratuita che permetta di apprezzare la sua dignità. Si può essere pienamente presenti davanti all’altro se ci si dona senza un perché, dimenticando tutto quello che c’è intorno. Così la persona amata merita tutta l’attenzione. Gesù era un modello, perché quando qualcuno si avvicinava a parlare con Lui, fissava lo sguardo, guardava con amore (cfr Mc 10,21). Nessuno si sentiva trascurato in sua presenza, poiché le sue parole e i suoi gesti erano espressione di questa domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51).Questo si vive nella vita quotidiana della famiglia. In essa ricordiamo che la persona che vive con noi merita tutto, perché ha una dignità infinita, essendo oggetto dell’immenso amore del Padre. Così fiorisce la tenerezza, in grado di «suscitare nell’altro la gioia di sentirsi amato. Essa si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente»[388].
324. Sotto l’impulso dello Spirito, il nucleo familiare non solo accoglie la vita generandola nel proprio seno, ma si apre, esce da sé per riversare il proprio bene sugli altri, per prendersene cura e cercare la loro felicità. Questa apertura si esprime particolarmente nell’ospitalità[389], incoraggiata dalla Parola di Dio in modo suggestivo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli»(Eb 13,2). Quando la famiglia accoglie, e va incontro agli altri, specialmente ai poveri e agli abbandonati, è «simbolo, testimonianza, partecipazione della maternità della Chiesa»[390]. L’amoresociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa, perché rende presente il kerygma con tutte le sue esigenze comunitarie. La famiglia vive la sua spiritualità peculiare essendo, nello stesso tempo, una Chiesa domestica e una cellula vitale per trasformare il mondo[391].
***
325. Le parole del Maestro (cfr Mt 22,30) e quelle di san Paolo (cfr 1 Cor 7,29-31) sul matrimonio, sono inserite – non casualmente – nella dimensione ultima e definitiva della nostra esistenza, che abbiamo bisogno di recuperare. In tal modo gli sposi potranno riconoscere il senso del cammino che stanno percorrendo. Infatti, come abbiamo ricordato più volte in questa Esortazione, nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazareth e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo. E tuttavia, contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità. Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa.
Preghiera alla Santa Famiglia
Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore del vero amore,
a voi, fiduciosi, ci affidiamo.
Santa Famiglia di Nazaret,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole di Vangelo
e piccole Chiese domestiche.
Santa Famiglia di Nazaret,
mai più ci siano nelle famiglie
episodi di violenza, di chiusura e di divisione;
che chiunque sia stato ferito o scandalizzato
venga prontamente confortato e guarito.
Santa Famiglia di Nazaret,
fa’ che tutti ci rendiamo consapevoli
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
della sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltateci e accogliete la nostra supplica.
Amen.
Dato a Roma, presso San Pietro, nel Giubileo Straordinario della Misericordia, il 19 marzo, solennità di San Giuseppe, dell’anno 2016, quarto del mio Pontificato.
Francesco
NOTE AL TESTO
[1] III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Relatio Synodi, 18 ottobre 2014, 2.
[2] XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Relatio finalis, 24 ottobre 2015, 3.
[3] Discorso a conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,26-27 ottobre 2015, p. 13; cfr Pontificia Commissione Biblica, Fede e cultura alla luce della Bibbia. Atti della Sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica, Torino 1981; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 44; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 52: AAS 83 (1991), 300; Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 69.117: AAS 105 (2013), 1049.1068-1069.
[4] Discorso nell’incontro con le famiglie a Santiago di Cuba (22 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 24 settembre 2015, p. 7.
[5] Jorge Luis Borges, “Calle desconocida”, en Fervor de Buenos Aires, Buenos Aires 2011, 23 (trad. it.: Fervore di Buenos Aires, Milano 2010, 29).
[6] Omelia nella Messa a Puebla de los Ángeles (28 gennaio 1979), 2: AAS 71 (1979), 184.
[7] Cfr ibid.
[8] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 4: AAS 74 (1982), 84.
[9] Relatio Synodi 2014, 5.
[10] Conferenza Episcopale Spagnola, Matrimonio y familia (6 luglio 1979), 3.16.23.
[11] Relatio finalis 2015, 5.
[12] Relatio Synodi 2014, 5.
[13] Relatio finalis 2015, 8.
[14] Discorso al Congresso degli Stati Uniti d’America (24 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 26 settembre 2015, p. 7.
[15] Relatio finalis 2015, 29.
[16] Relatio Synodi 2014, 10.
[17] III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Messaggio, 18 ottobre 2014.
[18] Relatio Synodi 2014, 10.
[19] Relatio finalis 2015, 7.
[20] Ibid., 63.
[21] Conferenza dei Vescovi cattolici della Corea, Towards a culture of life! (15 marzo 2007).
[22] Relatio Synodi 2014, 6.
[23] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Carta dei diritti dalla famiglia (22 ottobre 1983), 11.
[24] Cfr Relatio finalis 2015, 11-12.
[25] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Carta dei diritti dalla famiglia (22 ottobre 1983), Intr.
[26] Ibid., 9.
[27] Relatio finalis 2015, 14.
[28] Relatio Synodi 2014, 8.
[29] Cfr Relatio finalis 2015, 78.
[30] Relatio Synodi 2014, 8.
[31] Relatio finalis 2015, 23; cfr Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016 (12 settembre 2015):L’Osservatore Romano, 2 ottobre 2015, p. 8.
[32] Relatio finalis 2015, 24.
[33] Ibid., 21.
[34] Ibid., 17.
[35] Ibid., 20.
[36] Cfr ibid., 15.
[37] Discorso conclusivo della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano, 26-27 ottobre 2015, p. 13.
[38] Conferenza Episcopale Argentina, Navega mar adentro (31 maggio 2003), 42.
[39] Conferenza Episcopale Messicana, Que en Cristo Nuestra Paz México tenga vida digna (15 febbraio 2009), 67.
[40] Relatio finalis 2015, 25.
[41] Ibid., 10.
[42] Catechesi (22 aprile 2015):L’Osservatore Romano, 23 aprile 2015, p. 7.
[43] Catechesi (29 aprile 2015):L’Osservatore Romano, 30 aprile 2015, p. 8.
[44] Relatio finalis 2015, 28.
[45] Ibid., 8.
[46] Ibid., 58.
[47] Ibid., 33.
[48] Relatio Synodi 2014, 11.
[49] Conferenza Episcopale Colombiana, A tiempos difíciles, colombianos nuevos (13 febbraio 2003), 3.
[50] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 35: AAS 105 (2013), 1034.
[51] Ibid., 164: AAS 105 (2013), 1088.
[52] Ibid.
[53] Ibid., 165: AAS 105 (2013), 1089.
[54] Relatio Synodi 2014, 12.
[55] Ibid., 14.
[56] Ibid., 16.
[57] Relatio finalis 2015, 41.
[58] Ibid., 38.
[59] Relatio Synodi 2014, 17.
[60] Relatio finalis 2015, 43.
[61] Relatio Synodi 2014, 18.
[62] Ibid., 19.
[63] Relatio finalis 2015, 38.
[64] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94.
[65] Relatio Synodi 2014, 21.
[66] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1642.
[67] Ibid.
[68] Catechesi (6 maggio 2015):L’Osservatore Romano(7 maggio 2015), p. 8.
[69] Leone Magno, Epistola Rustico narbonensi episcopo, inquis. IV: PL 54, 1205A; cfr Incmaro di Reims, Epist. 22: PL 126, 142.
[70] Cfr Pio XII, Lett. enc. Mystici Corporis Christi (29 giugno 1943): AAS 35 (1943), 202: «Matrimonio enim quo coniuges sibi invicem sunt ministri gratiae».
[71] Cfr Codice di Diritto Canonico, cc. 1116; 1161-1165; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 832; 848-852.
[72] Codice di Diritto Canonico, c. 1055 § 2.
[73] Relatio Synodi 2014, 23.
[74] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90.
[75] Relatio finalis 2015, 47.
[76]Ibid.
[77] Omelia nella Santa Messa di chiusura dell’VIII Incontro Mondiale delle famiglie, Filadelfia (27 settembre 2015): L´Osservatore Romano, 28-29 settembre 2015, p. 7.
[78] Relatio finalis 2015, 53-54.
[79] Ibid., 51.
[80] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.
[81] Cfr Codice di Diritto Canonico, c. 1055 § 1: «Ad bonum coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum».
[82] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2360.
[83] Ibid., 1654.
[84] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.
[85] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2366.
[86] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), 11-12: AAS 60 (1968), 488-489.
[87] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2378.
[88] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae (22 febbraio 1987), II, 8: AAS 80 (1988), 97.
[89] Relatio finalis 2015, 63.
[90] Relatio Synodi 2014, 57.
[91] Ibid., 58.
[92] Ibid., 57.
[93] Relatio finalis 2015, 64.
[94] Relatio Synodi 2014, 60.
[95] Ibid., 61.
[96] Codice di Diritto Canonico, c. 1136; cfr Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 627.
[97] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Sessualità umana: verità e significato (8 dicembre 1995), 23.
[98] Catechesi (20 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.
[99] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 38: AAS 74 (1982), 129.
[100] Cfr Discorso all’Assemblea diocesana di Roma (14 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 15-16 giugno 2015, p. 8.
[101] Relatio Synodi 2014, 23.
[102] Relatio finalis 2015, 52.
[103] Ibid., 49-50.
[104] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1641.
[105] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 2: AAS 98 (2006), 218.
[106] Esercizi spirituali, Contemplazione per raggiungere l’amore, 230.
[107] Octavio Paz, La llama doble, Barcelona 1993, 35.
[108] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 114, a. 2, ad 1.
[109] Catechesi (13 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, p. 8.
[110] Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 1, ad 2.
[111] Ibid., a. 1.
[112] Catechesi (13 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, p. 8.
[113] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 21: AAS 74 (1982), 106.
[114] Sermone tenuto nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957.
[115] San Tommaso d’Aquino intende l’amore come «vis unitiva» (Summa Theologiae I, q. 20, a. 1, ad 3), riprendendo un’espressione di Dionigi Ps.-Areopagita (De divinis nominibus, IV, 12: PG 3, 709).
[116] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 2.
[117] Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 547-548.
[118] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94.
[119] Catechesi (2 aprile 2014):L’Osservatore Romano, 3 aprile 2014, p. 8.
[120] Ibid.
[121] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90.
[122] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, 123; cfr Aristotele, Etica Nic., 8, 12 (ed. Bywater, Oxford 1984, 174).
[123] Lett. enc. Lumen fidei (29 giugno 2013), 52: AAS 105 (2013), 590.
[124] De sacramento matrimonii, I, 2: in Id. Disputationes, III, 5, 3 (ed. Giuliano, Napoli 1858, 778).
[125] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50.
[126] Ibid., 49.
[127] Cfr Summa Theologiae I-II, q. 31, a. 3, ad 3.
[128] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.
[129] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 26, a. 3.
[130] Ibid., q. 110, a. 1.
[131] Confessioni, VIII, 3, 7: PL 32, 752.
[132] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del loro pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013):AAS 105 (2013), 980.
[133] Angelus (29 dicembre 2013):L’Osservatore Romano, 30-31 dicembre 2013, p. 7.
[134] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del loro pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013): AAS 105 (2013), 978.
[135] Summa Theologiae II-II, q. 24, a. 7.
[136] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48.
[137] Conferenza Episcopale del Cile,La vida y la familia: regalos de Dios para cada uno de nosotros (21 luglio 2014).
[138] Cost. past. Gaudium et spes, 49.
[139] A. Sertillanges, L’amour chrétien, Paris 1920, 174.
[140] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 24, a. 1.
[141] Cfr ibid., q. 59, a. 5.
[142] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 3: AAS 98 (2006), 219-220.
[143] Ibid., 4 : AAS 98 (2006), 220.
[144] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 32, a. 7.
[145] Cfr ibid., II-II, q. 153, a. 2, ad 2: «Abundantia delectationis quae est in actu venereo secundum rationem ordinato, non contrariatur medio virtutis».
[146] Giovanni Paolo II, Catechesi (22 ottobre 1980), 5: Insegnamenti III, 2 (1980), 951.
[147] Ibid., 3.
[148] Id., Catechesi (24 settembre 1980), 4: Insegnamenti III, 2 (1980), 719.
[149] Catechesi (12 novembre 1980), 2: Insegnamenti III, 2 (1980), 1133.
[150] Ibid., 4.
[151] Ibid., 5.
[152] Ibid., 1: 1132.
[153] Catechesi (16 gennaio 1980), 1: Insegnamenti III, 1 (1980), 151.
[154] Josef Pieper, Über die Liebe, München 2014, 174.
[155] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 23: AAS 87 (1995), 427.
[156] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), 13: AAS 60 (1968), 489.
[157] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 49.
[158] Catechesi (18 giugno 1980), 5: Insegnamenti III, 1 (1980), 1778.
[159] Ibid., 6.
[160] Cfr Catechesi (30 luglio 1980), 1: Insegnamenti III, 2 (1980), 311.
[161] Catechesi (8 aprile 1981), 3: Insegnamenti IV, 1 (1981), 904.
[162] Catechesi (11 agosto 1982), 4: Insegnamenti V, 3 (1982), 205-206.
[163] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 5: AAS 98 (2006), 221.
[164] Ibid., 7.
[165] Relatio finalis 2015, 22.
[166] Catechesi (14 aprile 1982), 1: Insegnamenti V, 1 (1982), 1176.
[167] Glossa in quatuor libros sententiarum Petri Lombardi, IV, XXVI, 2 (Quaracchi 1957, 446).
[168] Giovanni Paolo II, Catechesi (7 aprile 1982), 2: Insegnamenti V, 1 (1982), 1127.
[169] Id., Catechesi (14 aprile 1982), 3: Insegnamenti V, 1 (1982), 1177.
[170] Ibid.
[171] Id., Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 10: AAS 71 (1979), 274.
[172] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 1.
[173] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e “unioni di fatto” (26 luglio 2000), 40.
[174] Giovanni Paolo II, Catechesi (31 ottobre 1984), 6: Insegnamenti VII, 2 (1984), 1072.
[175] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 8: AAS 98 (2006), 224.
[176] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 14: AAS 74 (1982), 96.
[177] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.
[178] Ibid.
[179] Catechesi (8 aprile 2015):L’Osservatore Romano,9 aprile 2015, p. 8.
[180] Ibid.
[181] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 51: «Tutti sappiamo che la vita dell’uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati agli orizzonti di questo mondo e non vi trovano né la loro piena dimensione, né il loro pieno senso, ma riguardano il destino eterno degli uomini».
[182] Lettera alla Segretaria generale della Conferenza internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite su popolazione e sviluppo (18 marzo 1994): Insegnamenti XVII, 1 (1994), 750-751.
[183] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 3: Insegnamenti III, 1 (1980), 543.
[184] Ibid.
[185] Discorso nell’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 176.
[186] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.
[187] Catechesi (14 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 15 ottobre 2015, p. 8.
[188] Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’Australia, Lett. past. Don’t Mess with Marriage (24 novembre 2015), 11.
[189] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50.
[190] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 2: Insegnamenti III, 1 (1980), 542.
[191] Cfr Id. Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 30-31: AAS 80 (1988), 1727-1729.
[192] Catechesi (7 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 7-8 gennaio 2015, p. 8.
[193] Ibid.
[194] Catechesi (28 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 29 gennaio 2015, p. 8.
[195] Ibid.
[196] Cfr Relatio finalis 2015, 28.
[197] Catechesi (4 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015, p. 8.
[198] Ibid.
[199] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50.
[200] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 457.
[201] Relatio finalis 2015, 65.
[202] Ibid.
[203] Discorso all’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 178.
[204] Mario Benedetti, “Te quiero”, in Poemas de otros, Buenos Aires 1993, 316.
[205] Cfr Catechesi (16 settembre 2015):L’Osservatore Romano, 17 settembre 2015, p. 8.
[206] Catechesi (7 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2015, p. 8.
[207] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 14: AAS 98 (2006), 228.
[208] Cfr Relatio finalis 2015, 11.
[209] Catechesi (18 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 19 marzo 2015, p. 8.
[210] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.
[211] Cfr Relatio finalis 2015, 17-18.
[212] Catechesi (4 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 5 marzo 2015, p. 8.
[213] Catechesi (11 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 12 marzo 2015, p. 8.
[214] Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 27: AAS 74 (1982), 113.
[215] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Forum internazionale sull’invecchiamento attivo (5 settembre 1980), 5:Insegnamenti III, 2 (1980), 539.
[216] Relatio finalis 2015, 18.
[217] Catechesi (4 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 5 marzo 2015), p. 8.
[218] Ibid.
[219] Discorso all’Incontro con gli anziani (28 settembre 2014):L’Osservatore Romano,29-30 settembre 2014, p. 7.
[220] Catechesi (18 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2015, p. 8.
[221] Ibid.
[222] Ibid.
[223] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 18: AAS 74 (1982), 101.
[224] Catechesi (7 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2015, p. 8.
[225] Relatio Synodi2014, 30.
[226] Ibid., 31.
[227] Relatio finalis 2015, 56.
[228] Ibid., 89.
[229] Relatio Synodi 2014, 32.
[230] Ibid., 33.
[231] Ibid., 38.
[232] Relatio finalis 2015, 77.
[233] Ibid., 61.
[234] Ibid.
[235] Ibid.
[236] Ibid.
[237] Cfr Relatio Synodi 2014, 26.
[238] Ibid., 39.
[239] Conferenza Episcopale Italiana. Commissione episcopale per la famiglia e la vita, Orientamenti pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia (22 ottobre 2012), 1.
[240] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, annotazione 2.
[241] Ibid., annotazione 5.
[242] Giovanni Paolo II, Catechesi (27 giugno 1984), 4: Insegnamenti VII, 1 (1984), 1941.
[243] Catechesi (21 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,22 ottobre 2015, p. 12.
[244] Conferenza Episcopale del Kenya, Messaggio di Quaresima (18 febbraio 2015).
[245] Cfr Pio XI, Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 583.
[246] Giovanni Paolo II, Catechesi (4 luglio 1984), 3.6:Insegnamenti VII, 2 (1984), 9.10.
[247] Relatio finalis 2015, 59.
[248] Ibid., 63.
[249] Cost. past. Gaudium et spes, 50.
[250] Relatio finalis 2015, 63.
[251] Relatio Synodi 2014, 40.
[252] Ibid., 34.
[253] Cantico spirituale B, XXV, 11.
[254] Relatio Synodi 2014, 44.
[255] Relatio finalis 2015, 81.
[256] Ibid., 78.
[257] Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano,25 giugno 2015, p. 8.
[258] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 83: AAS 74 (1982), 184.
[259] Relatio Synodi 2014, 47.
[260] Ibid., 50.
[261] Cfr Catechesi (5 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 6 agosto 2015, p. 7.
[262] Relatio Synodi 2014, 51; cfr Relatio finalis 2015, 84.
[263] Relatio Synodi 2014, 48.
[264] Cfr Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, pp. 3-4; Motu proprio Mitis et Misericors Iesus (15 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, pp. 5-6.
[265] Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015), preambolo, III: L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, p. 3.
[266] Relatio finalis 2015, 82.
[267] Relatio Synodi 2014, 47.
[268] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.
[269] Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano,25 giugno 2015, p. 8.
[270] Catechesi (5 agosto 2015): L’Osservatore Romano,6 agosto 2015, p. 7.
[271] Relatio finalis 2015, 72.
[272] Ibid., 73.
[273] Ibid., 74.
[274] Ibid., 75.
[275] Cfr Bolla Misericordiae Vultus, 12: AAS 107 (2015), 409.
[276] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358; cfr Relatio finalis 2015, 76.
[277]Cfr ibid.
[278] Relatio finalis 2015, 76; cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (3 giugno 2003), 4.
[279] Relatio finalis 2015, 80.
[280] Cfr ibid., 20.
[281] Catechesi (17 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 18 giugno 2015, p. 8.
[282] Relatio finalis 2015, 19.
[283] Catechesi (17 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 18 giugno 2015, p. 8.
[284] Ibid.
[285] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 958.
[286] Ibid.
[287] Cfr Ultimi colloqui, “Quaderno giallo” di Madre Agnese, 17 luglio 1897: Opere complete, Città del Vaticano - Roma 1997, 1028. A tale proposito è significativa la testimonianza delle consorelle circa la promessa di santa Teresa che la sua partenza da questo mondo sarebbe stata «come una pioggia di rose» (ibid., 9 giugno, 991).
[288] Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis prædicatorum, 93: Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, XVI, Roma 1935, 69.
[289] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 957.
[290] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 49.
[291] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 222: AAS 105 (2013), 1111.
[292] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.
[293] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 17.
[294] Catechesi (30 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2015, p. 8.
[295] Catechesi (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 11 giugno 2015, p. 8.
[296] Cfr Relatio finalis 2015, 67.
[297] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8.
[298] Catechesi (9 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 10 settembre 2015, p. 8.
[299] Relatio finalis 2015, 68.
[300] Ibid., 58.
[301] Dich. Gravissimum educationis, 1.
[302] Relatio finalis 2015, 56.
[303] Erich Fromm, The Art of Loving, New York 1956, p. 54 (trad. it.: L’arte di amare, Milano 1978, 72-73).
[304] Lett. enc. Laudato siʼ (24 maggio 2015), 155.
[305] Catechesi (15 aprile 2015): L´Osservatore Romano, 16 aprile 2015, p. 8.
[306] Cfr Relatio finalis 2015, 13-14.
[307] De sancta virginitate, 7, 7: PL 40, 400.
[308] Catechesi (26 agosto 2015): L´Osservatore Romano, 27 agosto 2015, p. 8.
[309] Relatio finalis 2015, 89.
[310] Ibid., 93.
[311] Relatio Synodi 2014, 24.
[312] Ibid., 25.
[313] Ibid., 28.
[314] Cfr ibid., 41.43; Relatio finalis 2015, 70.
[315] Relatio Synodi 2014, 27.
[316]Ibid., 26.
[317] Ibid., 41.
[318] Ibid.
[319] Relatio finalis 2015, 71.
[320] Cfr ibid.
[321] Relatio Synodi 2014, 42.
[322] Ibid., 43.
[323] Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 34: AAS 74 (1982), 123.
[324] Ibid., 9: 90.
[325] Cfr Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 25 giugno 2015, p. 8.
[326] Omelia durante l’Eucaristia celebrata con i nuovi cardinali (15 febbraio 2015): AAS 107 (2015), 257.
[327] Relatio finalis 2015, 51.
[328] Relatio Synodi 2014, 25.
[329] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).
[330] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186.
[331] Relatio Synodi 2014, 26.
[332] Cfr ibid., 45.
[333] Benedetto XVI, Discorso al VII Incontro Mondiale delle Famiglie, Milano (2 giugno 2012), risposta 5: Insegnamenti VIII, 1 (2012), 691.
[334] Relatio finalis 2015, 84.
[335] Ibid., 51.
[336] Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47: AAS 105 (2013), 1038-1040.
[337] Relatio finalis 2015, 85.
[338] Ibid., 86.
[339] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 33: AAS 74 (1982), 121.
[340] Relatio finalis 2015, 51.
[341] Cfr Summa Theologiae I-II, q. 65, a. 3, ad 2; De malo, q. 2, a. 2.
[342] Ibid., ad 3.
[343] N. 1735.
[344] Cfr ibid., 2352; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona sull’eutanasia (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546. Giovanni Paolo II, criticando la categoria della “opzione fondamentale”, riconosceva che «senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore» (Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia [2 dicembre 1984], 17: AAS 77 [1985], 223).
[345] Cfr Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati (24 giugno 2000), 2.
[346] Relatio finalis 2015, 85.
[347] Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4.
[348] Riferendosi alla conoscenza generale della norma e alla conoscenza particolare del discernimento pratico, san Tommaso arriva a dire che «se non vi è che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza della realtà particolare, che si avvicina maggiormente all’agire» (Sententia libri Ethicorum, VI, 6 [ed. Leonina, t. XLVII, 354]).
[349] Discorso a conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,26-27 ottobre 2015, p. 13.
[350] In cerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale (2009), 59.
[351] In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039).
[352] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038-1039.
[353] De catechizandis rudibus, I, 14, 22: PL 40, 327; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 193: AAS 105 (2013), 1101.
[354] Relatio Synodi 2014, 26.
[355] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038.
[356] Ibid., 45: AAS 105 (2013), 1039.
[357] Ibid., 270: AAS 105 (2013), 1128.
[358] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 12: AAS 107 (2015), 407.
[359] Ibid., 5: 402.
[360] Ibid., 9: 405.
[361] Ibid., 10: 406.
[362] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 47: AAS 105 (2013), 1040.
[363] Cfr ibid., 36-37: AAS 105 (2013), 1035.
[364] Forse per scrupolo, nascosto dietro un grande desiderio di fedeltà alla verità, alcuni sacerdoti esigono dai penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna, per cui la misericordia sfuma sotto la ricerca di una giustizia ipoteticamente pura. Per questo vale la pena di ricordare l’insegnamento di san Giovanni Paolo II, il quale affermò che la prevedibilità di una nuova caduta «non pregiudica l’autenticità del proposito» (Lettera al Card. William W. Baum in occasione del corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzeria Apostolica [22 marzo 1996], 5: Insegnamenti XIX, 1 [1996], 589).
[365] Commissione Teologica Internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo (19 aprile 2007), 2.
[366] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 15: AAS 107 (2015), 409.
[367] Decr. Apostolicam actuositatem, 4.
[368] Cfr ibid.
[369] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 49.
[370] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 16: AAS 98 (2006), 230.
[371] Ibid., 39: AAS 98 (2006), 250.
[372] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Christifideles laici (30 dicembre 1988), 40: AAS 81 (1989), 468.
[373] Ibid.
[374] Relatio finalis 2015, 87.
[375] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Vita consecrata (25 marzo 1996), 42: AAS 88 (1996), 416.
[376] Cfr Relatio finalis 2015, 87.
[377] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 57: AAS 74 (1982), 150.
[378] Non dimentichiamo che l’Alleanza di Dio con il suo popolo si esprime come un fidanzamento (cfr Ez 16,8.60; Is 62,5; Os 2,21-22), e la nuova Alleanza si presenta anche come un matrimonio (cfr Ap 19,7; 21,2; Ef 5,25).
[379] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 11.
[380] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 11: AAS 74 (1982), 93.
[381] Id., Omelia nella Santa Messa celebrata per le famiglie a Córdoba - Argentina (8 aprile 1987), 4: Insegnamenti X, 1 (1987), 1161-1162.
[382] Cfr Gemeinsames Leben, München 1973, 18 (trad. it.: La vita comune, Brescia 1973, 46).
[383] Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 11.
[384] Catechesi (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano,(11 giugno 2015), p. 8.
[385] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 12: AAS 74 (1982), 93.
[386] Discorso alla Festa delle Famiglie e veglia di preghiera, Filadelfia (26 settembre 2015): L’Osservatore Romano,28-29 settembre 2015, p. 6.
[387] Gabriel Marcel, Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de l´espérance, Paris 1944, 63.
[388] Relatio finalis 2015, 88.
[389] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 44: AAS 74 (1982), 136.
[390] Ibid., 49: AAS 74 (1982), 141.
[391] Sugli aspetti sociali della famiglia, cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 248-254.
Riprendiamo da La Repubblica del 27/3/2016 un articolo scritto da Massimo Recalcati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/4/2016)
È sempre esistita una corrente della pedagogia che, a diverso titolo, ha preteso di liberarsi dell'educazione considerata come un vero e proprio tabù: le vite dei figli traggono più danno che benefici dall'educazione, la quale non sarebbe altro che una museruola messa da genitori paranoici sulla legittima voglia di libertà dei loro figli. Tra tutti i riferimenti possibili possiamo pensare al recente lavoro di Peter Gray dal titolo, che è già, come si può intendere facilmente, tutto un programma: Lasciateli giocare (Einaudi). La tesi di questo libro è quella che bisogna restituire ai nostri figli la loro autonomia che una concezione aridamente disciplinare della scuola gli ha sottratto. Quella che l'autore definisce "istruzione forzata" appare come una macchina repressiva tale da spegnere la creatività nel nome di una esigenza di controllo e di disciplinamento coatto che proviene dal mondo degli adulti.
Questa rappresentazione della problematica dell'educazione risente di una ideologia libertaria che misconosce la funzione della differenza simbolica tra le generazioni e il ruolo essenziale degli adulti giocato nel processo di formazione. Si tratta di una vera e propria "mutazione antropologica" che è stata descritta con efficacia da Marcel Gauchet in un bel libro titolato Il figlio del desiderio (Vita e pensiero).
Riassumo sinteticamente il suo ragionamento: se c'è stato un tempo dove l'educazione aveva il compito di liberare il soggetto dalla sua infanzia, oggi si tende invece a concepire l'infanzia come un tempo al quale si vorrebbe essere eternamente fedeli, come una sorta di "ideale del sé" puro e incontaminato da tutti quei condizionamenti culturali e sociali che rischiano di corrompere la sua affermazione. Non si tratta più di educare il bambino alla vita adulta ma di liberare il bambino dalla vita degli adulti perché la vita adulta non è una vita, ma solo la sua falsificazione morale.
Nessun tempo come il nostro ha mai esaltato così la centralità del bambino nella vita della famiglia. Tutto pare capovolgersi: non sono più i bambini che si piegano alle leggi della famiglia, ma sono le famiglie che devono piegarsi alle leggi (capricciose) dei bambini. Nanni Moretti ne fornì un esempio esilarante in Caro diario: in una piccola isola delle Eolie i bambini diventano i padroni anarchici della famiglia obbligando tutti gli adulti al telefono a prodigarsi in improbabili imitazioni di animali per poter ottenere il permesso di parlare coi loro genitori. Il compito dell'educazione viene aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole: il soddisfacimento immediato non è solo un comandamento del discorso sociale, ma attraversa anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del limite e del differimento della soddisfazione. Non è forse questa la nuova Legge che governa le nostre vite? Lo spirito del mercato non esige forse la realizzazione del massimo profitto in tempi sempre più brevi?
Gli esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà crescente dei nostri figli di accedere alla dimensione generativa del desiderio poiché la condizione di questo accesso è data dall'incontro con il trauma virtuoso del limite. Solo se la vita riconosce che non tutto è possibile può fare esistere il desiderio come una possibilità autenticamente generativa. Altrimenti il desiderio si eclissa soffocato dalla marea montante della soddisfazione immediata dei bisogni. È un problema cruciale del nostro tempo.
L'elevazione del bambino a nuovo idolo di fronte al quale, al fine di ottenere la sua benevolenza, i genitori si genuflettono, è un effetto di questa erosione più diffusa del discorso educativo. Nella pedagogia falsamente libertaria che oscura il trauma benefico del limite come condizione per il potenziamento del desiderio, l'educazione stessa è diventata un tabù arcaico dal quale liberarsi, una parola insopportabile che nasconde e giustifica subdolamente il sadismo gratuito degli adulti verso l'innocenza dei figli.
In realtà, questa dismissione del concetto di educazione è un modo con il quale gli adulti – che, come ricorda Lacan, sono i veri bambini – tendono a disfarsi del peso della loro responsabilità di contribuire a formare la vita del figlio.
Ne è una prova il sospetto coi quali molti genitori osservano gli insegnanti che si permettono di giudicare negativamente i loro figli o di sottoporli a provvedimenti disciplinari. Dando per scontato il fatto che non esistono genitori ideali, o, che, come sentenziava Freud, il mestiere del genitore è impossibile, cioè è impossibile per un genitore non sbagliare, questo non significa affatto disertare la responsabilità di assumere delle decisioni, di non farsi dettare la Legge dai propri figli.
Non si tratta per i genitori di proporsi come modelli educativi infallibili – niente di peggio per un figlio che avere un padre o una madre che si offrono come misura ideale della vita – ma di fare sentire che esiste sempre un mondo al di là di quello incarnato dell'esistenza del figlio, che l'esistenza di un figlio non può esaurire l'esistenza del mondo.
In un recente colloquio clinico con una famiglia in difficoltà di fronte ad un bambino che ha progressivamente cannibalizzato le loro vite mostrando di non aver alcun rispetto per il senso del limite, il padre, per definirlo, ha usato questa espressione eloquente: «Lui pensa di essere il centro del mondo». Aggiungendo però subito dopo, senza riuscire a trattenere una certa soddisfazione: «Lui non sa quanto per noi questo sia assolutamente vero».
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Riprendiamo da Terra santa, Anno X, n. 5 settembre-ottobre 2015, pp. 36-38 un articolo scritto da David Neuhaus sj, Vicario patriarcale della Comunità ebreofona in Israele. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti e per altri articoli di David Neuhaus, cfr. la sotto-sezione Ebraismo nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (9/4/2016)
Vi è un dialogo, o piuttosto vari dialoghi, in corso sulla Parola e sul mondo. Riguardano quasi tutti gli aspetti della vita, specialmente nel dialogo tra cattolici ed ebrei. Ciò è particolarmente vero in Europa e in America, dove i cristiani sono maggioranza e gli ebrei sono sempre stati minoranza.
Ma cosa sta accadendo sotto questo aspetto in Terra Santa? Anzitutto è importante sottolineare alcune differenze tra il contesto delle Chiese in Europa e nelle Americhe e quello della Chiesa in Terra Santa. Coloro che formularono la Nostra aetate avevano chiaramente in testa le terre a maggioranza cristiana. Per questo i cristiani venivano invitati a comprendere che molta parte del pensiero, del discorso pubblico e dei comportamenti cristiani avevano emarginato ed escluso gli ebrei (e gli altri non cristiani). In Terra Santa erano invece i cristiani a rappresentare una minoranza, spesso emarginata ed esclusa.
Dal settimo secolo, l’Islam è stato la religione dominante in Terra Santa. Così per gran parte dei cristiani locali, il dialogo con i musulmani è una priorità, cosa che non era per gli estensori della Nostra aetate. In Terra Santa il dialogo ebraico-cristiano diventa quasi sempre un «trialogo»: i musulmani non possono essere ignorati.
Rapporti capovolti
I cristiani di Terra Santa vivono in una situazione nella quale i tradizionali rapporti di potere tra una maggioranza cristiana e una minoranza ebraica sono rovesciati. Lo sviluppo di un autentico dialogo a livello locale deve essere formulato in un contesto in cui gli ebrei e i musulmani sono la maggioranza predominante e più forte, mentre i cristiani sono una piccola minoranza. Mentre per gli estensori della Nostra aetate, lo spartiacque nelle relazioni cristiano-giudaiche è la Shoah, che suscitò una presa di coscienza sul prevalere di un insegnamento cristiano di disprezzo per gli ebrei, dal punto di vista di molti cristiani di Terra Santa, la questione della Palestina è al centro delle relazioni con gli ebrei e i musulmani. Se il dialogo in una prospettiva europea include spesso il concentrarsi sulla lotta contro l'antigiudaismo e l'antisemitismo, il focus sulla giustizia e la pace è un elemento essenziale di ogni prospettiva di dialogo interreligioso nel contesto della Terra Santa.
Il comune patrimonio biblico è fondamentale per il dialogo cristiano-ebraico fiorito a partire dal Vaticano II. Ebrei e cristiani scoprono quanto hanno in comune e fino a che punto possono illuminarsi reciprocamente nella lettura di queste Sacre Scritture. E tuttavia il fare esperienza di un patrimonio biblico comune nel contesto della Terra Santa non è privo di ambiguità. La Bibbia è stata utilizzata come testo fondativo delle rivendicazioni dell'ebraismo contemporaneo sulla terra che i palestinesi, musulmani e cristiani, sentono come propria.
Ora che abbiamo delineato questo particolare contesto ci chiediamo: quali sono le prospettive per la promozione di un dialogo interreligioso in Terra Santa oggi, alla luce della Nostra aetate?
Nel 2000, dopo un sinodo durato cinque anni, le Chiese cattoliche di Terra Santa pubblicarono un Piano pastorale generale che include una profonda riflessione sulla Nostra aetate in un documento intitolato Relazioni con i credenti di altre religioni.Esso rappresenta un magistero contestualizzato per la Terra Santa, gettato proprio sul fondamento della Nostra aetate.L'apertura al dialogo interreligioso rappresentato dalla dichiarazione conciliare vi riecheggia: «I nostri Paesi comprendono la terra di questo dialogo per eccellenza, una terra che fa del dialogo la loro vocazione fondamentale e la sfida più grande». Le Chiese cattoliche riflettevano: «Benché i cristiani siano numericamente pochi all'interno delle loro società questo fatto non dovrebbe rappresentare una barriera al dialogo, ma semmai una chiamata a testimoniare i magnanimi valori del Vangelo». Nonostante la situazione di tensione e violenza che esiste tra arabi palestinesi ed ebrei israeliani, le Chiese coraggiosamente cercano di applicare gli insegnamenti della Nostra aetate,sottolineando gli aspetti positivi delle relazioni tra ebrei e cristiani. Oltre al patrimonio biblico che gli ebrei e i cristiani condividono, le Chiese cattoliche segnalano che «nei nostri Paesi, musulmani, cristiani ed ebrei hanno vissuto insieme in una fruttuosa interazione sociale e culturale e ciò è evidente nelle tracce nitide di questa interazione che rinveniamo nella civiltà araba».
Le Chiese cattoliche invitano i cristiani a studiare il «giudaismo così com'è vissuto dagli ebrei oggi e come è creduto nella cornice della storia giudaica e nel contesto della sua realtà nella Terra Santa dei nostri giorni».
Propongono inoltre una relazione con gli ebrei sul piano pratico e basata sulla ricerca comune della verità, della pace e della giustizia. I cristiani di Terra Santa desiderano la «collaborazione con i movimenti per la giustizia e la pace dentro la società ebraica» e una lotta comune contro la discriminazione.
Inoltre, le Chiese di Terra Santa affermano che molte delle Scritture sono condivise da ebrei e cristiani, ma invitano gli ebrei a leggere queste Scritture in modo che possano promuovere la giustizia e la pace anziché l'esclusione e l'occupazione.
Cambiare il mondo
Queste proposte hanno preso forma concreta nei lavori della Commissione per il dialogo con gli ebrei delle Chiese cattoliche in Terra Santa e nei corsi di giudaismo che sono stati introdotti nelle istituzioni cristiane di istruzione superiore in Terra Santa.
Non c'è dubbio che i cristiani di Terra Santa siano profondamente preoccupati dalle continue espressioni di disprezzo per i cristiani e il cristianesimo che emergono da alcuni ebrei e musulmani. Tuttavia, queste manifestazioni di sentimenti anticristiani devono accrescere la nostra determinazione a intavolare rapporti con gli ebrei e i musulmani, al fine di riparare questo mondo in frantumi, che tutti gli abitanti della Terra Santa sono chiamati a condividere.
Nuova linfa
Non potremmo concludere queste riflessioni senza menzionare lo svilupparsi di una nuova popolazione cristiana non araba in Terra Santa e, in particolare, in Israele[1]. Alcuni di questi cristiani hanno origini ebraiche o sono legati ad ebrei da vincoli familiari; molti altri sono giunti in Israele alla ricerca di lavoro o di asilo politico. Essi rappresentano il volto nuovo della Chiesa in Terra Santa. Le vite di questi cristiani, integrati come sono con la popolazione ebraica, aprono nuove prospettive per un dialogo tra una minoranza cristiana che vive nel cuore della società ebraica, adattandosi alla sua cultura e al suo linguaggio. Questi nuovi cristiani sono impegnati in un dialogo giudaico-cristiano inedito e affascinante.
I cristiani israeliani di lingua ebraica in seno alla società ebraica hanno formulato una fede cristiana che non soltanto parla agli ebrei, ma si sente anche a casa in una società e una cultura ebraica. Ciò attribuisce una particolare, creativa e innovativa espressione alla comprensione del fatto che Gesù Cristo è un ebreo e che le radici della Chiesa sono giudaiche. Tramite una cristianità israeliana e di lingua ebraica, Gesù e la sua Chiesa sono reintrodotti nella matrice dell'ebraismo contemporaneo.
Note al testo
[1] In Israele oggi ci sono 160 mila cittadini cristiani, tre quarti dei quali sono arabi palestinesi e un quarto cristiani immigrati che sono inseriti tra la popolazione israeliana ebraica. Inoltre, decine di migliaia di migranti cristiani (lavoratori e richiedenti asilo) residenti a lungo termine.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr le sezioni Cristianesimo, ecumenismo e religioni (sotto-sezione Chiese ortodosse) e I luoghi della storia della Chiesa (sotto-sezione Turchia), oltre alla sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (10/4/2016)
Konstantin Egorovič Makovskij (1839–1915),
Le martiri bulgare (1877)
«Non era rimasto nemmeno un tetto intatto, non una parete in piedi, il tutto era un ammasso di rovine... Guardando di nuovo il mucchio di teschi e scheletri davanti a noi, abbiamo notato che erano tutti piccoli e che gli indumenti che si mescolavano con essi e che li coprivano, erano da donna. Così abbiamo capito che erano tutte donne e ragazze. Dalla mia sella ho contato un centinaio di teschi, non compresi quelli che erano nascosti sotto gli altri nel mucchio orribile, né quelli che erano sparsi lunghi e larghi fra i campi. I teschi erano quasi tutti separati dal resto delle ossa - gli scheletri erano quasi tutti senza il cranio. Tutte queste donne erano state decapitate... e la procedura sembra essere stata la seguente: dopo aver sequestrato la donna, le venivano sfilati attentamente tutti i vestiti fino a lasciarla in camicia, poi messi da parte gli indumenti di pregio, insieme a qualsiasi ornamenti e gioielli che potesse avere su di sé, il maggior numero di loro, a cui interessava l'avrebbe violata, e l’ultimo uomo l'avrebbe uccisa o meno a differenza dell'umore che lo prendeva in quel momento.... Abbiamo guardato dentro la chiesa che era annerita dalla combustione del legno, ma non distrutta, nemmeno tanto danneggiata. Era un edificio poco elevato con il tetto basso, sostenuto da pesanti arcate irregolari, che, da quello che abbiamo visto sembrava appena sufficiente per permettere a un uomo alto a starci sotto. Quello che abbiamo visto era troppo spaventoso per più di uno sguardo frettoloso. Vi era un numero immenso di corpi che erano stati parzialmente bruciati là, e i resti carbonizzati e anneriti sembravano riempire la chiesa a metà, fino agli archi bassi e bui, rendendo l'edificio ancora più basso e ancora più scuro; quei corpi giacevano in uno stato di putrefazione troppo spaventoso a vedersi. Non avevo mai immaginato qualcosa di così orribile. Noi tutti ci siamo allontanati nauseati e deboli, uscendo vacillando da quella spaventosa casa della pestilenza, lieti di ritornare nella strada. Abbiamo camminato sul luogo e abbiamo visto la stessa cosa ripetersi infinitamente più e più volte. Scheletri di uomini con appesi i vestiti e le carni ancora indosso a marcire insieme… teschi di donne, i cui capelli erano trascinati nella polvere... ossa di bambini e neonati ovunque. Qui ci mostrano una casa in cui sono state bruciate vive una ventina di persone, là ci mostrano un'altra in cui una dozzina di ragazze si erano rifugiate, e che, come ampiamente testimoniavano le loro ossa, sono state macellate fino all'ultima. Dappertutto orrori su orrori»[1].
Januarius Aloysius MacGahan, sconosciuto ai più, è il giornalista di origini statunitensi inviato di guerra che descrisse i massacri compiuti contro i villaggi bulgari dalle truppe turche e dagli irregolari turchi, detti Basci-buzuk, nel 1876. I resoconti di MacGahan furono imprtantissimi perché senza di lui i delitti perpetrati dai turchi contro i bulgari sarebbero rimasti scononsciuti ai più e perché i suoi articoli determinarono in Inghilterra un’ondata popolare di sdegno contro l’impero turco ottomano che condusse, infine, all’indipendenza della Bulgaria moderna.
Ne ha parlato recentemente la trasmissione “Vite che non sono le nostre” di RadioTre (qui è possibile riascoltare l’ottimo podcast http://www.rai.tv/dl/portaleRadio/media/ContentItem-546c12b8-162d-4763-9f36-7d6d39fd6261.html).
I fatti avvennero nel 1876 quando, in un ottocento in cui tanti popoli riscoprirono la loro identità nazionale, anche i bulgari lottarono per rendersi indipendenti dall’impero turco che, dopo secoli di conquiste a fil di spada, cominciava ormai ad arretrare.
I turchi repressero rapidamente la sommossa. Ma le truppe turche e gli irregolari turchi – i Basci-buzuk di cui si è già parlato -, andarono ben oltre l’ingaggiare lotta contro gli insorti e giunsero a compiere massacri efferati contro la popolazione civile, sterminando villaggi interi e uccidendo e decapitando donne e bambini, come a Batak.
Januarius MacGahan raggiunse i luoghi degli eccidi nel luglio, tre mesi dopo la repressione della rivolta dell’aprile 1876 come inviato del giornale inglese Daily News. I suoi articoli, pubblicati in Inghilterra, rivelarono alla popolazione una vicenda fin lì sconosciuta. L’opinione pubblica si schierò contro gli eccidi e gli articoli di MacGahan generarono sentimenti ostili alla repressione turca.
I turchi avevano distrutto nei territori nei quali la popolazione bulgara era in maggioranza 58 villaggi (fra i quali Peruštica e Panagjurište, Bracigovo e Batak), demolito cinque monasteri e massacrato 15.000 persone, in massima parte civili.
Wikipedia riferisce che alcuni illustri europei, tra cui Charles Darwin, Oscar Wilde, Victor Hugo e Giuseppe Garibaldi, si espressero contro il comportamento delle truppe turche in Bulgaria, ma non ci è stato possibile controllare la notizia[2].
Un anno dopo, nel 1877, scoppiò la guerra fra turchi e russi e il governo turco chiese aiuto alla Gran Bretagna: il governo britannico si rifiutò di collaborare, a motivo dell'indignazione pubblica causata dai massacri bulgari. La guerra vide la sconfitta dell’impero ottomano, non più supportato dagli inglesi. Si giunse così, nel 1878, al Trattato detto di Santo Stefano che comportava anche la costituzione dello Stato indipendente di Bulgaria e la sua conseguente liberazione dal dominio turco-ottomano.
Se la rivolta d'aprile fallì come rivoluzione, grazie alle notizie che MacGahan portò in occidente fu una potente memoria che decise in positivo solo due anni dopo le sorti del popolo bulgaro.
Per questo il popolo bulgaro venera in MacGahan una figura decisiva per la propria indipendenza: è una delle prime figure di giornalista che con il proprio lavoro di inviato di guerra incise positivamente sulla sorte politica di popoli e nazioni. Viene oggi ricordato in Bulgaria come il “liberatore della Bulgaria”.
Il sepolcro di Januarius MacGahan,
Liberatore della Bulgaria, New Lexington, Ohio
Post-scriptum de Gli scritti
Torniamo a parlare di fatti efferati compiuti da musulmani non per offendere i popoli che hanno l’Islam per religione maggioritaria, bensì, come sempre, per amore verso questi popoli, consapevoli che solo una purificazione della memoria nel mondo turco e nel mondo arabo genererà quegli anticorpi capaci di educare le giovani generazioni a rigettare le derive violente che sono state attive nella storia islamica.
Il cristianesimo, pur avendo alle sue radici Gesù che mai si è macchiato di alcun gesto di violenza, ha conosciuto la violenza. Noi siamo certi, però, che l’aver iniziato da parte del magistero pontificio un cammino di purificazione della memoria (si veda, ad esempio, la Giornata del perdono celebrata da papa Giovanni Paolo II il 12 marzo 2000 con le sette richieste di perdono per colpe commesse da cristiani) ha trasformato lo sguardo dei cristiani sulla storia passata. E siamo altrettanto certi che, se il magistero pontificio ha compiuto per la prima volta ufficialmente una pubblica richiesta di perdono nell’anno 2000, la consapevolezza delle colpe dei cristiani era - ed è diffusa - presso il popolo di Dio ben prima di quella data. Basta leggere i manuali scolastici ed universitari che sono a fondamento del nostro sistema educativo per rendersi conto di quanto noi tutti siamo attenti a formare in maniera critica le giovani generazioni perché sappiano riconoscere le colpe della storia italiana ed europea – il popolo di Dio spesso precede i pronunciamenti magisteriali.
Riteniamo con altrettanta certezza che la nostra esperienza di purificazione della memoria sia di grande giovamento al mondo arabo e turco. Riconoscere nella scuola, nell’università e nel pubblico dibattito le gravi colpe storiche commesse contro la libertà e la dignità dell’uomo da parte di uomini musulmani è un forte antidoto alla violenza futura. Ripetiamo, a scanso di equivoci, che ricordare gli attacchi di guerra ed i massacri compiuti da musulmani non ha il fine di rivendicare territori che non erano di dominio musulmano (vedi, ad esempio il nord Africa per quel che riguarda gli arabi, o la penisola anatolica e Istanbul per quel che riguarda i turchi), bensì ha il senso di ricordare che chi è amico di Dio si nobilita riconoscendo le proprie colpe e permette ai giovani di maturare un ripudio di quella violenza che pure è esistita in passato.
Appendice
J.A. MacGahan, The Turkish Atrocities in Bulgaria: Horrible Scenes at Batak, The Daily News, August 22, 1876, pp. 5-6
N.B. Il testo è stato ripreso dal sito di Owen Mulpetre dedicato a W.T. Stead, che lo ha ripreso a sua volta da The Turkish Atrocities in Bulgaria: Letters of the Special Commissioner of the Daily News, J. A. MacGahan (1876), ristampato in facsimile da Kessinger Publishing, 2010.
Since my letter of yesterday I have supped full of horrors. Nothing has as yet been said of the Turks that I do not now believe; nothing could be said of them that I should not think probable and likely. There is, it seems, a point in atrocity beyond which discrimination is impossible, when mere comparison, calculation, measurement are out of the question, and this point the Turks have already passed. You can follow them no further. The way is blocked up by mountains of hideous facts that repel scrutiny and investigation, over and beyond which you can not see and do not care to go. You feel that it is superfluous to continue measuring these mountains and deciding whether they be a few feet higher or lower, and you do not care to go seeking for molehills among them. You feel that it is time to turn back; that you have seen enough.
But let me tell you what we saw in Batak:- We had some difficulty in getting away from Pestera. The authorities were offended because Mr. Schuyler refused to take any Turkish official with him, and they ordered the inhabitants to tell us that there were no horses, for we had to leave our carriages and take to the saddle. But the people were so anxious that we should go that they furnished horses in spite of the prohibition, only bringing them at first without saddles, by way of showing how reluctantly they did it. We asked them if they could not bring us saddles, also, and this they did with much alacrity and some chuckling at the way in which the Mudir's orders were walked over. Finally we mounted and got off. We had been besieged all the morning by the same people who had blockaded us the night before, or who appeared to be the same, their stories were so much alike. We could do nothing but listen in pity to a few of them—for it would have taken all day to hear each separate tale of misery and suffering—and gave vague promises that we would do all in our power to relieve their misery upon our return to Constantinople. But diplomatic help is, alas! very slow. While ambassadors are exchanging notes and compliments inviting each other to dinner, discussing the matter over their coffee and cigars, making representations to the Porte, and obtaining promises which nobody believes in, these poor people are starving and dying. Many of them decided to seize this opportunity and accompany us to Batak, to visit their ruined homes, and others caught our bridle reins, determined to make us listen to their stories before we should start. One woman caught my horse, and held it until she could show me where a bullet had traversed her arm, completely disabling her from work, and this was only the least of her woes. Husband killed, and little children depending on that broken arm for bread; all of this told in a language so much like Russian that I could understand a great deal of it; so like Russian that I could easily have fancied myself amongst peasants of the Volga, or the denizens of the Gostinoidvor, Moscow. The resemblance is striking, and it is no wonder the Russians sympathise with these people.
You observe the same sort of family likeness about the eyes, that may be always seen among brothers and sisters who are utterly unlike each other in features—tricks of countenance, movements of the hands, tones of the voice, even to that curious, uncertain expression of the face which often in the Russian peasant makes it almost impossible to tell whether he is laughing or crying. A Russian, a Bulgarian, a Servian, a Montenegrin, and a Tchek may meet and talk, each in his own language, and all understand each other. You might as well expect the English north of the Thames not to sympathise with those south of it, in case the latter were under the domination of the Turks, as to try to prevent these Slavonic races from helping each other while groaning under a foreign despotism.
Batak is situated about thirty miles south of Tatar Bazardjik as the crow flies, high up in a spur of the Balkans that here sweeps around to the south from the main range. The road was only a steep mountain path that in places might have tried the agility of a goat. There was a better one, as we learned upon our return, but, with that perversity which distinguishes the Oriental mind, our guide took this one instead. We formed a curious but a somewhat lugubrious procession as we wound up the steep mountain side. First there were our two zaptiehs in their picturesque costumes, bristling with knives and pistols, our guide likewise armed to the teeth, then the five persons who composed our party, mounted on mules and horses decked out with nondescript saddles and trappings, followed by a procession of 50 or 60 women and children who had resolved to accompany us to Batak. Many of the women carried a small child, and a heavy burthen besides, comprising the provisions, clothing, cooking utensils, or harvesting implements, they had begged or borrowed in Pestera. Even children, little girls of nine and ten years, were trudging wearily up the steep mountain side under burthens (sic) too heavy for them; and they would be five or six hours in reaching their destination.
After three hours' climbing by paths so steep that we were obliged to dismount and walk half the time without then seeming quite safe from rolling down into some abyss, mounting higher and higher until we seemed to have got among the clouds, we at last emerged from a thick wood into a delightful little valley that spread out a rich carpet of verdure before our eyes. A little stream came murmuring down through it, upon which there was built a miniature saw-mill. It appears that the people in Batak did a considerable trade in timber, which they worked up from the forests on the surrounding mountains, for we afterwards observed a great number of these little mills, and were even told there were over two hundred in and about the village. The mill-wheels are silent now. This little valley with its rich grassy slopes ought to have been covered with herds of sheep and cattle. Not one was to be seen. The pretty little place was as lonely as a graveyard, or as though no living thing had trod its rich greensward for years. We ascended the slope to the right, and when we reached the top of the ridge which separated it from the next valley, we had a beautiful panorama spread out before us. The mountains here seemed to extend around in a circle, enclosing a tract of country some eight or ten miles in diameter, considerably lower down, which was cut up by a great number of deep hollows and ravines that traversed it in every direction, and seemed to cross and cut off each other without the slightest appearance of anything like reference to a watershed. It looked more like an enlarged photograph of the mountains of the moon than anything else I could think of.
Down in the bottom of one of these hollows we could make out a village, which our guide informed us it would still take us an hour and a half to reach, although it really seemed to be very near. This was the village of Batak , which we were in search of. The hillsides were covered with little fields of wheat and rye that were golden with ripeness. But although the harvest was ripe, and over ripe, although in many places the well-filled ears had broken down the fast-decaying straw that could no longer hold them aloft, and were now lying flat, there was no sign of reapers trying to save them. The fields were is deserted as the little valley, and the harvest was rotting in the soil. In an hour we had neared the village.
As we approached Batak out attention was drawn to some dogs on a slope overlooking the town. We turned aside from the road, and passing over the debris of two or three walls and through several gardens, urged our horses up the ascent toward the dogs. They barked at us in an angry manner, and then ran off into the adjoining fields. I observed nothing peculiar as we mounted until my horse stumbled, when looking down I perceived he had stepped on a human skull partly hid among the grass. It was quite hard and dry, and might, to all appearances, have been there two or three years, so well had the dogs done their work. A few steps further there was another and part of a skeleton, likewise, white and dry. As we ascended, bones, skulls, and skeletons became more frequent, but here they had not been picked so clean, for there were fragments of half dry, half putrid flesh attached to them. At last we came to a little plateau or shelf on the hillside, where the ground was nearly level, with the exception of a little indentation, where the head of a hollow broke through. We rode toward this with the intention of crossing it, but all suddenly drew reign with an exclamation of horror, for right before us, almost beneath our horses' feet, was a sight that made us shudder. It was a heap of skulls, intermingled with bones from all parts of the human body, skeletons nearly entire and rotting, clothing, human hair and putrid flesh lying there in one foul heap, around which the grass was growing luxuriantly. It emitted a sickening odour, like that of a dead horse, and it was here that the dogs had been seeking a hasty repast when our untimely approach interrupted them.
In the midst of this heap, I could distinguish the slight skeleton form, still enclosed in a chemise, the skull wrapped about with a coloured handkerchief, and the bony ankles encased in the embroidered footless stockings worn by Bulgarian girls. We looked about us. The ground was strewed with bones in every direction, where the dogs had carried them off to gnaw them at their leisure. At the distance of a hundred yards beneath us lay the town. As seen from our standpoint, it reminded one somewhat of the ruins of Herculaneum and Pompeii . There was not a roof left, not a whole wall standing; all was a mass of ruins, from which arose as we listened a low plaintive wail, like the “keening” of the Irish over their dead, that filled the little valley and gave it voice. We had the explanation of thin curious sound when we afterwards descended into the village. We looked again at the heap of skulls and skeletons before us, and we observed that they were all small and that the articles of clothing intermingled with them and lying about were all women's apparel. These, then, were all women and girls. From my saddle I counted about a hundred skulls, not including those that were hidden beneath the others in the ghastly heap nor those that were scattered far and wide through the fields. The skulls were nearly all separated from the rest of the bones - the skeletons were nearly all headless. These women had all been beheaded. We descended into the town. Within the shattered walls of the first house we came to was a woman sitting upon a heap of rubbish rocking herself to and fro, wailing a kind of monotonous chant, half sung, half sobbed, that was not without a wild discordant melody. In her lap she held a babe, and another child sat beside her patiently and silently, and looked at us as we passed with wondering eyes. She paid no attention to us, but we bent our ear to hear what she was saying, and our interpreter said it was as follows: “My home, my home, my poor home, my sweet home; my husband, my husband, my dear husband, my poor husband; my home, my sweet home,” and so on, repeating the same words over again a thousand times. In the next house were two engaged in a similar way; one old, the other young, repeating words nearly identical: “I had a home, now I have none; I had a husband, now I am a widow; I had a son, and now I have none; I had five children, and now I have one,” while rocking themselves to and fro, beating their heads and wringing their hands. These were women who had escaped from the massacre , and had only just returned for the first time, having taken advantage of our visit or that of Mr. Baring to do so. They might hare returned long ago, but their terror was so great that they had not dared without the presence and protection of a foreigner, and now they would go on for hours in this way, “keening” this kind of funeral dirge over their ruined homes. This was the explanation of the curious sound we had heard when up on the hill. As we advanced there were more and more; some sitting on the heaps of stones that covered the floors of their houses ; others walking up and down before their doors, wringing their hands and repeating the same despairing wail. There were few tears in this universal mourning. It was dry, hard, and despairing. The fountain of tears had been dried up weeks before, but the tide of sorrow and misery was as great as ever, and had to find vent without their aid. As we proceeded most of them fell into line behind us, and they finally formed a procession of four or five hundred people, mostly women and children, who followed us about wherever we went with their mournful cries. Such a sound as their united voices sent up to heaven I hope never to hear again.
It may be well, before going further, to say something about Batak, so that the reader may form a better idea of what took place here. It was a place of nine hundred houses, and about eight or nine thousand inhabitants. As there are no Census statistics, nor, indeed, trustworthy statistics of any other kind in Turkey , it is impossible to tell exactly what the population of any place is or was. But the ordinary rule of calculating five persons to the house will not hold good in Bulgaria . The Bulgarians, like the Russian peasantry, adhere to the old patriarchal method, and fathers and married sons, with their children and children's children, live under the same roof until the grandfather dies. As each son in his turn gets married, a new room is added to the old building, until with the new generation there will often be twenty or thirty people living under the same roof, all paying obedience and respect to the head of the family. In estimating the population, therefore, by the number of houses, somewhere between eight and ten souls must be counted as the average. Edip Effendi, in his report, states that there were only about fourteen hundred inhabitants in the village, all told. A more impudent falsehood was never uttered, even by a Turk. Mr. Schuyler has obtained their tax-list for this year, and finds that there wore 1,421 able-bodied men assessed to pay the military exemption tax. This number in any European country would indicate a population of about 15,000, but here it would not give more than from 8,000 to 10,000 souls till told, and this is the figure at which the population of the place is estimated by the inhabitants, as well as by the people of Pestera.
I think people in England and Europe generally have a very imperfect idea of what these Bulgarians are. I have always heard them spoken of as mere savages, who were in reality not much more civilized than the American Indians; and I confess that I myself was not far from entertaining the same opinion not very long ago. I was astonished, as I believe most of my readers will be, to learn that there is scarcely a Bulgarian village without its school; that those schools are, where they have not been burnt by the Turks, in a very flourishing condition; that they are supported by a voluntary tax levied by the Bulgarians on themselves, not only without being forced to do it by the Government, but in spite of all sorts of obstacles thrown in their way by the perversity of the Turkish authorities; that the instruction given in these schools is gratuitous, and that all profit alike by it, poor as well as rich; that there is scarcely a Bulgarian child that cannot read and write; and, finally, that the percentage of people who can read and write is as great in Bulgaria as in England and France. Do the people who speak of the Bulgarians as savages happen to be aware of these facts? Again I had thought that the burning of a Bulgarian village meant the burning of a few mud huts that were in reality of little value, and that could be easily rebuilt. I was very much astonished to find that the majority of these villages are in reality well-built towns, with solid stone houses, and that there are in all of them a comparatively large number of people who have attained to something like comfort, and that some of the villages might stand a not very unfavourable comparison with an English or French village. The truth is that these Bulgarians, instead of the savages we have taken them for, are in reality a hardworking, industrious, honest, civilized, and peaceful people. Now, as regards the insurrection, there was a weak attempt at an insurrection in three or four villages, but none whatever in Batak, and it does not appear that a single Turk was killed here.
The Turkish authorities did not even pretend that there was any Turk killed here, or that the inhabitants offered any resistance whatever when Achmet-Agha, who commanded the massacres , came with the Basha-Bazouks and demanded the surrender of their arms. They at first refused, but offered to deliver them to the regular troops or to the Kaimakan at Tartar Bazardjik. This, however, Aschmet-Agha refused to allow, and insisted on their arms being delivered to him and his Bashi-Bazouks. After considerable hesitation and parleying this was done. It must not be supposed that these were arms that the inhabitants had specially prepared for an insurrection. They were simply the arms that everybody, Christians and Turks alike, carried and wore openly as is the custom here. What followed the delivery of arms will best be understood by the continuation of the recital of what we saw yesterday. At the point where we descended into the principal street of the place the people who had gathered around us pointed to a heap of ashes by the roadside, among which could be distinguished a great number of calcined bones. Here a heap of dead bodies had been burned, and it would seem that the Turks had been making some futile and misdirected attempts at cremation.
A little further on we came to an object that filled us with pity and horror. It was the skeleton of a young girl not more than fifteen lying by the roadside, and partly covered with the debris of a fallen wall. It was still clothed in a chemise; the ankles were enclosed in footless stockings, but the little feet, from which the shoes had been taken, were naked, and owing to the fact that the flesh had dried instead of decomposing were nearly perfect. There was a large gash in the skull, to which a mass of rich brown hair, nearly a yard long, still clung, trailing in the dust. It is to be remarked that all the skeletons found here were dressed in a chemise only, and this poor child had evidently been stripped to her chemise, partly in the search for money and jewels, partly out of mere brutality, and afterwards killed. We have tallied with many women who had passed through all parts of the ordeal but the last, and the procedure seems to have been, as follows: They would seize a woman, strip her carefully to her chemise, laying aside articles of clothing that wore valuable, with any ornaments and jewels she might have about her. Then as many of them as cared would violate her, and the last man would kill her or not as the humour took him.
At the next house a man stopped us to show where a blind little brother had been burned alive, and the spot where he had found his calcined bones, and the rough, hard-vizaged man sat down and sobbed like a child. The foolish fellow did not seem to understand that the poor blind boy was better off now, and that he ought really to have thanked the Turks instead of crying about it.
On the other side of the way were the skeletons of two children lying side by side, partly covered with stones, and with frightful, sabre cuts in their little skulls. The number of children killed in these massacres is something enormous. They were often spitted on bayonets, and we have several stories from eye-witnesses who saw the little babes carried about the streets, both here and at Olluk-Kui, on the points of bayonets. The reason is simple. When a Mohammedan has killed a certain number of infidels he is sure of Paradise , no matter what his sins may be. Mahomet probably in tended that only armed men should count, but the ordinary Mussulman takes the precept in its broader acceptation, and counts women and children as well. The advantage of killing children is that it can be done without danger, and that a child counts for as much as an armed man. Here in Batak the Bashi-Bazouks, in order to swell the count, ripped open pregnant women, and killed the unborn infants. As we approached the middle of the town, bones, skeletons, and skulls became more numerous. There was not a house beneath the ruins of which we did not perceive human remains, and the street besides was strewn with them. Before many of the doorways women were walking up and down wailing their funeral chant. One of them caught me by the arm and led me inside of the walls, and there in one corner, half covered with stones and mortar, were the remains of another young girl, with her long hair flowing wildly about among the stones and dust. And the mother fairly shrieked with agony, and beat her head madly against the wall. I could only turn round and walk out sick at heart, leaving her alone with her skeleton. A few steps further on sat a woman on a doorstep, rocking herself to and fro, and uttering moans heartrending beyond anything I could have imagined. Her head was buried in her hands, while her fingers were unconsciously twisting and tearing her hair as she gazed into her lap, where lay three little skulls with the hair still clinging to them. How did the mother come to be saved, while the children were slaughtered? Who knows? Perhaps she was away from the village when the massacres occurred. Perhaps she had escaped with a babe in her arms, leaving these to be saved by the father; or perhaps, most fearful, most pitiful thing of all, she had been so terror-stricken that she had abandoned the three poor little ones to their fate and saved her own life by flight. If this be so, no wonder she is tearing her hair in that terribly unconscious way as she gazes at the three little heads lying in her lap.
And now we begin to approach the church and the schoolhouse. The ground is covered here with skeletons, to which are clinging articles of clothing and bits of putrid flesh; the air is heavy with a faint sickening odour, that grows stronger as we advance. It is beginning to be horrible. The school is on one side of the road, the church on the other. The schoolhouse, to judge by the walls that are in part standing, was a fine large building, capable of accommodating two or three hundred children. Beneath the stones and rubbish that cover the floor to the height of several feet, are the bones and ashes of two hundred women and children burnt alive between those four walls. Just beside the school house is a broad shallow pit. Here were buried a hundred bodies two weeks after the massacre . But the dogs uncovered them in part. The water flowed in, and now it lies there a horrid cesspool, with human remains floating about or lying half exposed in the mud. Nearby, on the bunks of the little stream that runs through the village, is a sawmill. The wheel-pit beneath is full of dead bodies floating in the water. The banks of this stream were at one time literally covered with corpses of men and women, young girls and children, that lay there festering in the sun, and eaten by dogs. But the pitiful sky rained down a torrent upon them, and the little stream swelled and rose up and carried the bodies away, and strewed them far down its grassy banks, through its narrow gorges and dark defiles beneath the thick underbrush and the shady woods as far as Pestera, and even Tatar Buzardjik, forty miles distant. We entered the churchyard, but the odour here became so bad that it was almost impossible to proceed. We take a handful of tobacco, and hold it to our noses while we continue our investigation. The church was not a very large one, and it was surrounded by a low stone wall, enclosing a small churchyard about fifty yards wide by seventy-five long. At first we perceive nothing in particular, and the stench was so great that we scarcely care to look about us, but we see that the place is heaped up with stones and rubbish to the height of five or six feet above the level of the street, and upon inspection we discover that what appeared to be a mass of stones and rubbish is in reality an immense heap of human bodies covered over with a thin layer of stones. The whole of the little churchyard is heaped up with them to the depth of three or four feet, and it is from here that the fearful odour comes. Some weeks after the massacre, orders were sent to bury the dead. But the stench at that time had become so deadly that it was impossible to execute the order, or even to remain in the neighbourhood of the village. The men sent to perform the work contented themselves with burying a few bodies, throwing a little earth over others as they lay, and here in the churchyard they had tried to cover this immense heap of festering humanity by throwing in stones and rubbish over the walls, without daring to enter. They had only partially succeeded. The dogs had been at work there since, and now could be seen projecting from this monster grave, heads, arms, legs, feet, and hands, in horrid confusion. We were told there were three thousand people lying here in this little churchyard alone, and we could well believe it. It was a fearful sight — a sight to haunt one through life. There were little curly heads there in that festering mass, crushed down by heavy stones; little feet not as long as your finger on which the flesh was dried hard, by the ardent heat before it had time to decompose; little baby hands stretched out as if for help; babes that had died wondering at the bright gleam of sabres and the red hands of the fierce-eyed men who wielded them; children who had died shrinking with fright and terror; young girls who had died weeping and sobbing and begging for mercy; mothers who died trying to shield their little ones with their own weak bodies, all lying there together, festering in one horrid mass. They are silent enough now. There are no tears nor cries, no weeping, no shrieks of terror, nor prayers for mercy. The harvests are rotting in the fields, and the reapers are rotting here in the churchyard. We looked into the church which had been blackened by the burning of the woodwork, but not destroyed, nor even much injured. It was a low building with a low roof, supported by heavy irregular arches, that as we looked in seemed scarcely high enough for a tall man to stand under. What we saw there was too frightful for more than a hasty glance. An immense number of bodies had been partly burnt there and the charred and blackened remains, that seemed to fill it half way up to the low dark arches and make them lower and darker still, were lying in a state of putrefaction too frightful to look upon. I h