Fate festeggiare ai vostri bambini Halloween, grande festa cattolica. Sebbene tanti cattolici la osteggino, è la festa della vigilia di Ognissanti. Non oscura in nessun modo le nostre tradizioni ma piuttosto le illumina, di Giovanna Jacob

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Giovanna Jacob pubblicato il 30/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (31/10/2015)

N.B. Il presente articolo suggerisce che potrebbe non esserci alcuna relazione fra la festa di Halloween e l'antica festa di Sanhedrin. Pur divergendo su questo punto, su cui la Jacob potrebbe avere ragione, sentiamo vicina l'impostazione di fondo dell'autrice con il nostro La notte di Halloween e la festa cristiana dei santi: opposizione o continuità? Appunti in chiave educativa per la scuola e la catechesi in forma di recensione a La notte delle zucche. Halloween: storia di una festa di P. Gulisano e B. O’Neill, di Andrea Lonardo.

Alcuni decenni fa la festa americana di Halloween è sbarcata in Europa, seducendo i più giovani. Alcuni anni fa, la propaganda anti-Halloween è sbarcata in Europa, seducendo i cattolici. Questi ultimi non sanno che gli autori della propaganda cui loro credono ciecamente sono tutti nemici giurati della Chiesa di Roma. Come ho spiegato in precedenza, la festa di Halloween è una festa cattolica inventata da immigrati cattolici (irlandesi e francesi) in una nazione puritana. Non potendo sopportare che la festa più popolare degli Usa abbia origini “papiste”, i discendenti dei puritani ne hanno sempre parlato malissimo. Nel XIX secolo misero in giro la voce che la festa cattolica di Halloween discendesse da una festa celtica legata al culto dei morti, nel XX misero in giro la voce che durante quella festa celtica si facessero sacrifici umani al dio della morte. In realtà, come abbiamo visto, la festa di Halloween non ha nessun legame, né diretto né indiretto, col paganesimo antico. La festa da cui discende l’attuale festa di Halloween nacque in Irlanda fra VIII e IX secolo dopo Cristo, quando il paganesimo celtico era del tutto estinto. Halloween significa letteralmente “festa della vigilia di Ognissanti”. Tuttora sopravvivono in varie parti d’Europa feste di origine medievale in onore dei santi e dei morti che somigliano in maniera sorprendente alla celebre festa americana. Dunque Halloween non oscura in nessun modo le nostre tradizioni ma piuttosto le illumina.

Nel Medioevo, che è stato l’evo più cristiano della storia, non solo c’erano più feste legate al calendario liturgico ma ciascuna di esse era preceduta da una festa della vigilia. Di queste feste, oggi sopravvivono solo la festa della vigilia di Natale, il martedì grasso (festa della vigilia del mercoledì delle ceneri) e pure, a pensarci bene, la festa, tipicamente romana, della Befana. Non sfugga infatti che, secondo quanto i genitori raccontano ai bambini prima di metterli a dormire, la Befana passerebbe in ogni casa a portare calze piene di regalini e dolciumi nella notte della vigilia dell’Epifania: “La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte”. A pensarci bene, l’iconografia della Befana ha molte analogie con l’iconografia classica della strega delle favole, che è penetrata a fondo nella festa di Halloween. Ha pure la scopa, classico accessorio da strega. Considerato l’aspetto stregonesco, rischiamo davvero che fra poco i cattolici anti-Halloween comincino a lanciare anatemi e scomuniche contro la simpatica vecchina. Probabilmente già cominciano a sospettare che nell’alto Medioevo ogni anno il 6 gennaio le genti pagane della campagna romana avrebbero fatto sacrifici umani ad una sanguinaria divinità femminile… Vedremo forse volonterosi preti gettare l’acqua santa sui genitori e sui bambini che comprano le bambolette della Befana a piazza Navona durante le feste?

Ma andiamo avanti. Poiché tutte le cruente leggende pseudo-storiche contro Halloween che erano state messe in giro fino a quel momento non erano bastate a convincere il popolo americano a mettere al bando l’odiosa festa “papista”, una trentina di anni fa gli anti-papisti americani alzarono il tiro: misero in giro la voce che nella notte di Halloween tutti gli occultisti, le streghe e i satanisti del mondo facessero cose orribili. In realtà, prima di una trentina anni fa solo alcuni occultisti, fra cui il celebre Alistair Crowley, avevano dato una qualche importanza alla data del 31 ottobre. La notizia, storicamente infondata, secondo cui i celti avrebbero avuto l’abitudine di fare sacrifici umani nella notte che segnava il passaggio dall’estate all’inverno non poteva non colpire la loro fantasia, alquanto malata. Ma appunto, solo a partire dagli anni Ottanta streghe e satanisti si sono appropriati di Halloween. Poiché correva voce che Halloween fosse “la notte delle streghe”, le sedicenti streghe dell’associazione Wicca si sentirono chiamate in causa: “Ma allora è la nostra festa: festeggiamola!” E poiché correva voce che ad Halloween loro stessi facessero cose raccapriccianti, i satanisti pensarono che fosse una buona idea farle veramente. E così una trentina d’anni fa hanno cominciato a festeggiare il capodanno satanico ogni 31 ottobre. Se un giorno questa gente decidesse di celebrare i suoi riti durante la notte del 24 dicembre (e non è detto che qualcuno di loro già non lo faccia), il Natale non smetterebbe di essere la più importante festa cristiana. Perché invece se i satanisti decidono di compiere i loro riti durante la festa cattolica di Halloween i cattolici gliela regalano con tante grazie?

Dunque, la festa americana di Halloween discende direttamente dalla omonima festa irlandese nata nell’alto Medioevo. Se la festa di Ognissanti era dedicata ai santi del paradiso e la festa del 2 novembre era dedicata ai semplici fedeli defunti, invece la festa della vigilia di Ognissanti era dedicata alle anime dannate e alle anime del Purgatorio. Nella notte del 31 ottobre i contadini irlandesi onoravano le anime del Purgatorio esponendo rape illuminate e tenevano simbolicamente alla larga le anime dannate e i demoni sbattendo rumorosamente pentole e padelle. Quando giunse in America, questa tipica festa irlandese si fuse con la festa francese dei fedeli defunti, in cui veniva inscenata la celebre “danza macabra”: un figurante mascherato da morte conduceva alla tomba figuranti mascherati da contadini, cavalieri, re, mendicanti, preti, artigiani, dame e tutti gli altri tipi umani della società di quei tempi. All’usanza irlandese di esporre zucche illuminate e all’usanza francese di sfilare in costume sul tema della danza macabra si aggiunse più tardi anche l’usanza inglese (legata in origine alla festa del Guy Fawkes Day, che tuttora si celebra in Gran Bretagna ogni 5 novembre) di andare di casa in casa a chiedere dolci in cambio di benevolenza: “Dolcetto o scherzetto?”.

Dunque, la festa di Halloween era una festa in cui si ballava, si rideva, si scherzava e si mangiavano dolcetti pensando alla morte, alle anime purganti, alle anime dannate e perfino ai demoni. Infatti, il cristiano può ridere e scherzare, almeno una volta all’anno, anche della morte e del male perché sa che Cristo li ha sconfitti entrambi. Viene in mente un brano da Kristin figlia di Lavrans di Sigrid Undset. Contemplando un dipinto che raffigura una santa alle prese con un drago, Kristin dice: «Mi pare che il drago sia molto piccolo (…) non sembra in grado di potere ingoiare la Vergine». E il frate che l’ha dipinto risponde: «E infatti non c’è riuscito. Eppure non era più grande di così. I draghi e tutti gli strumenti del diavolo ci sembrano grandi finché la paura ci possiede, ma se una creatura aspira a Dio con tutta l’anima sua fino a potersi avvicinare alla sua potenza, la forza del diavolo di colpo viene abbattuta, tanto che i suoi strumenti diventano piccoli e impotenti. I draghi e gli spiriti malvagi sprofondano e non sono più grandi di rane, di gatti e di cornacchie».

Nel corso del XX secolo Halloween si è profondamente “secolarizzata”, perdendo ogni riferimento alle anime dei morti, agli angeli, ai demoni e a tutte le altre realtà soprannaturali e preternaturali. Durante i festeggiamenti i bambini e i ragazzi si travestono da personaggi della letteratura e del cinema horror: streghe, vampiri, zombi, fantasmi eccetera.

I cattolici anti-Halloween sono convinti che quei travestimenti in stile horror possano “fare pubblicità” all’occultismo, alla stregoneria e al satanismo. A questo punto, prima di parlare dell’horror, è opportuno chiarirci le idee su stregoneria, satanismo e occultismo. Allora, mettiamo in chiaro che… le streghe non esistono. Possono esistere donne che si credono streghe e uomini che si credono stregoni, ma non possono esistere streghe e stregoni veri, dotati di autentici poteri magici. Chi non riesce a capire che le streghe non possono esistere, rischia di dare ragione alle folle inferocite e ai giudici che nel Cinquecento perseguitavano le “streghe”. Per la cronaca, l’incendio della “caccia alle streghe” fu acceso nella Germania di Lutero, si estese rapidamente a tutti i paesi protestanti e riuscì a penetrare in alcune zone dei nei paesi cattolici, dove però si estinse completamente in meno di un secolo. Infatti, gli inquisitori di santa romana Chiesa gettavano l’acqua della ragione sul fuoco della superstizione popolare. Tutti gli studi scientifici recenti concordano sul fatto che nella maggioranza dei casi erano i tribunali civili a processare e condannare donne innocenti al rogo sulla base di dicerie infondate e calunniose, non i tribunali religiosi. Se finiva davanti ad un tribunale religioso, una presunta strega poteva ritenersi fortunata. Infatti la maggior parte degli inquisitori faticavano a credere sia alle storie fantasiose raccontate dagli accusatori sia alle storie fantasiose raccontate dalle stesse vittime quando venivano torturate: “Sì è vero, confesso tutto, sono una strega, lo giuro, adesso basta torturarmi”.

Possiamo stare certi che nessuna delle persone processate e giustiziate per stregoneria nel XVI secolo avesse autentici poteri magici. Erano persone normali travolte da accuse calunniose. In ogni caso, nella prima metà del secolo scorso è nata in Inghilterra una associazione di sedicenti streghe e stregoni: Wicca. Sebbene relativamente pochi, gli adepti di Wicca sono presenti in tutti i paesi occidentali, specialmente in quelli anglosassoni. Ma occorre precisare che la stregoneria moderna non ha nessun legame né col paganesimo antico né col satanismo: è una forma di neo-paganesimo romantico, che combina assieme suggestioni culturali varie, da ultimo anche suggestioni ecologiste. Con i loro rituali magici, le sedicenti streghe e i sedicenti stregoni cercano di stabilire un contatto con un qualche dio interiore e con le impersonali forze della natura, non con gli spiriti del male. Quindi, il neo-paganesimo è certamente lontano dal cristianesimo ma è comunque ben diverso dal satanismo. Ad esercitare la stregoneria si fa peccato ma non si fa vera magia, bianca o nera che sia. A fare le messe nere si fa peccato gravissimo (e c’è pure il rischio che, a furia di invocarlo, Satana risponda davvero), ma certamente non c’è bisogno di fare le messe nere per avere a che fare con Satana. A quanto se ne sa, il principe delle tenebre cerca di rovinare la vita anche alle persone che non fanno messe nere. Poiché inoltre lavora meglio se gli uomini non credono alla sua esistenza, probabilmente non gradisce più di tanto che i satanisti gli diano così tanta visibilità mediatica.

Alcuni ex satanisti avvertono che, nella notte di Halloween, i loro ex correligionari vanno nei luoghi in cui si festeggia Halloween a spargere dei potenti malefici, che avrebbero il potere di spingere le ignare vittime alla depressione, alla tossicodipendenza, alla promiscuità sessuale e perfino al suicidio. Non possiamo sapere se questi malefici hanno una reale efficacia preternaturale. Quello che sappiamo è che per cadere in depressione oppure per entrare nel tunnel della tossicodipendenza oppure per contrarre cattive abitudini sessuali oppure per sviluppare manie suicide oppure tutte queste cose insieme non è affatto necessario subire un maleficio nella notte del 31 ottobre o in qualunque altro giorno dell’anno.

Possono esistere donne che si autoproclamano streghe e uomini che si autoproclamano stregoni ma non possono esistere vere streghe e vere stregoni. Insieme a vampiri, zombi, fantasmi e quant’altri, le streghe cattive che volano sulle scope e mangiano i bambini esistono solo nelle favole e nel genere horror. I cattolici anti-Halloween sono convinti che i costumi da strega, vampiro e compagnia orrorosa che vanno in giro per le strade nella notte di Halloween possano avvicinare i giovani all’occultismo e al satanismo. Ancora un poco, e cominceranno a sospettare Biancaneve, Hansel e Gretel e tutte le altre favole incentrate sulle streghe cattive possano avvicinare i bambini alla stregoneria. E ci diranno che i fratelli Grimm, Hans Christian Andersen e tutti gli altri scrittori di fiabe erano tutti massoni, occultisti e satanisti. A questo punto, perché non ipotizzare che le immagini felicemente inquietanti di diavoli, supplizianti e bestie mostruose che adornano le cattedrali medievali siano state tutte concepite da artisti satanisti sotto mentite spoglie cristiane? E perché escludere che il genere giallo sia stato concepito, naturalmente dai massoni, per incoraggiare la pratica dell’omicidio?

Insomma, quanti pensano che l’immaginario orroroso di Halloween esprima una visione satanica della vita, fanno confusione fra l’arte e il soggetto dell’arte. Rappresentare un crimine in un film o un romanzo non significa né commettere quel crimine né esaltare la pratica del crimine in quanto tale. Di norma, nei gialli e nei thriller i “cattivi” commettono dei crimini mentre i “buoni” cercano di scoprire chi sono i “cattivi” e di combatterli. Analogamente, rappresentare il diavolo non significa esaltarlo. Le antiche raffigurazioni artistiche di diavoli, supplizianti e bestie mostruose non invogliano i fedeli ad abbracciare i culti satanici bensì li ammoniscono, spaventandoli, a non imboccare la strada larga in fondo alla quale c’è l’inferno. Analogamente, le streghe della favole fanno tutto fuorché affascinare i piccoli ascoltatori. Quale bambino non ha paura delle streghe? Esse alludono alle persone malvagie in carne ed ossa di cui i bambini devono imparare a non fidarsi, ed hanno pure qualcosa di demoniaco.

Dunque, è difficile credere che i costumi di Halloween possano accendere nei giovani qualche interesse per la stregoneria, il satanismo e l’occultismo. Al massimo, possono accendere in loro l’interesse per la letteratura e il cinema di genere horror. Sebbene non sia esplicitamente cristiano, il genere horror tira implicitamente acqua al mulino della fede. In effetti, gli scrittori del genere “gotico” (nato alla fine del secolo XVIII) e gli scrittori del genere horror (nata alla metà del secolo XIX) esprimono un sentimento di insofferenza verso la mentalità razionalista che spadroneggiava nei secoli XVIII e XIX. Fuggendo dalla luce accecante della scienza positivista, che svuotava illusoriamente la realtà di ogni mistero, gli autori gotico-horror si rifugiavano dentro le oscurità residue che si condensavano nei boschi e negli antichi castelli. E lì, nel buio, credevano di vedere fantasmi, vampiri, streghe e altre figure spaventose, che avevano a che fare direttamente o indirettamente con la tomba o l’oltretomba.

In effetti, al cuore del genere gotico-horror c’è il tema della morte, che viene vista come un evento spaventoso ma anche come porta d’accesso al grande mistero che sta oltre la morte stessa. E quando quella porta si socchiudeva appena, lo scrittore poteva intravedere il fuoco dell’inferno, ma anche qualche riflesso del paradiso. Si potrebbe dire che fantasmi, vampiri, streghe, non morti, zombi e le altre figure fantastiche che vivono nella letteratura gotica-horror siano le discendenti romantiche di quel popolo di diavoli, supplizianti e bestie mostruose che brulicano sui muri e sui capitelli delle cattedrali medievali. E si potrebbe dire che l’antenato letterario diretto del genere gotico-horror sia l’Inferno di Dante, che abbonda di immagini macabre e raccapriccianti, degne dell’horror-splatter più recente. Se la maggior parte delle opere gotico-horror sono implicitamente cristiane, alcune lo sono esplicitamente. È il caso del Dracula di Bram Stoker: Dracula è un seduttore demoniaco che entra nelle camere delle fanciulle in piena notte e arretra di fronte ai crocifissi. Il suo morso mortale allude chiaramente al gesto sessuale.

Dalla letteratura gotica-horror del secolo XIX è disceso il cinema horror del secolo XX. Alcuni registi hanno ben chiaro che il genere horror è implicitamente cristiano. «Perché le piace filmare il Male?», ha chiesto un giornalista di Studi Cattolici a Dario Argento. Che ha risposto: «Perché credo in Dio. Sono un credente e quindi credo nel Maligno e ne ho paura» (cfr. Claudio Pollastri, “Vado a Messa ma vivo tra spettri e lupi”, Studi Cattolici, n° 616, giugno 2012). Ma i registi cristiani credenti sono da sempre in minoranza all’interno dell’industria cinematografica.

Nella seconda metà del secolo scorso, al genere horror classico, che discende dall’horror romantico, si è affiancato anche il genere horror splatter. In esso gli elementi soprannaturali si attenuano o scompaiono del tutto mentre la violenza si ingigantisce oltre i limiti del sopportabile. Nei film horror-splatter non ci sono streghe o vampiri ma serial-killer in carne ed ossa che commettono delitti efferati, di cui vengono mostrati tutti i dettagli più raccapriccianti. La maggior parte degli osservatori concorda sul fatto che i personaggi dell’horror classico fanno più paura dei serial-killer dell’horror-splatter, sebbene i primi siano totalmente fantastici e i secondi siano molto realistici. Nella vita può sempre capitare, speriamo di no, di incontrare un serial-killer oppure un banale criminale, pronto a farci del male solo per prenderci pochi soldi, mentre non ci potrà mai capitare di incontrare una vera strega o un vero vampiro. Per quale misteriosa ragione dunque i personaggi fantastici dell’horror ci fanno più paura dei personaggi realistici dello splatter? La misteriosa ragione è che quei personaggi fantastici esistono davvero o meglio alludono a… entità che esistono davvero. Non le possiamo percepire con i sensi ma ne intuiamo la presenza a livello inconscio ed onirico. È il diavolo con le sue legioni, probabilmente.

Sorprende il fatto che, sebbene la maggior parte degli autori di film horror siano atei o agnostici, tuttavia la maggior parte dei film horror contengono elementi soprannaturali e preternaturali. È come se anche gli atei e gli agnostici intuissero, confusamente, inconsciamente, che quello di cui il loro io cosciente nega l’esistenza in realtà esiste. In effetti, il sentimento della paura è in grado di suscitare l’intuizione fuggevole dell’inferno, che a sua volta suscita, per contrasto, l’intuizione del paradiso. Si può essere attratti dalle cose spaventose e orrorose, e quindi anche dalle opere horror, proprio perché il sentimento della paura, sebbene spiacevole, permette di intravedere, in una maniera singolare, ciò che sta oltre le apparenze materiali delle cose.

In conclusione, se anche Halloween fosse soltanto una sorta di festival del cinema horror, come in parte già è, ce la dovremmo tenere stretta, in quest’epoca di materialismo trionfante. Infatti, una festa horror può essere tutto fuorché una festa materialista.

Redazione de Gliscritti | Sabato 31 Ottobre 2015 - 10:27 am | | Default

Che cos’è una famiglia?, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo dal web una traduzione dal francese a cura di Silvio Brachetta (che abbiamo radicalmente rivisto) dell’intervento tenuto da Fabriche Hadjadj nel corso del primo Grenelle tenutosi a Parigi, presso il Palais de la Mutualité, l’8/3/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e, per la maternità surrogata, Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (27/10/2015)

1. Cos’è una famiglia? Qualcuno si potrebbe stupire che noi siamo qui, insieme, per porre tale questione e alcuni non mancheranno di pensare che il nostro approccio non potrà che condurre o alla ripetizione di cose banali, o alla complicazione delle cose semplici. Noi non avremmo, secondo alcuni, altre possibilità, dopo una simile domanda, se non sfondare porte aperte o spaccare un capello in quattro.

Allo stesso tempo - lo si intuisce -, le evidenze primarie si nascondono sempre nella loro stessa luminosità. La famiglia non è simile solo al naso sulla mia faccia, troppo vicino per essere visto, o al paesaggio cento volte attraversato, così ben noto che svanisce. È, soprattutto, come una sorgente che rischiara e fonda le altre cose, ma che non può, d’altro canto, essere fondata e chiarita da se stessa. Dinanzi a questa sorgente siamo come degli uccelli notturni che volessero guardare il sole in faccia.

Noi tutti proveniamo da una famiglia, siamo tutti riconosciuti da un cognome, abbiamo tutti una certa famiglia d’origine. La famiglia è un fondamento. Ora, se essa è un fondamento, non sapremo come «fondare la famiglia». Se essa si pone al principio delle nostre vite concrete, diviene impossibile giustificarla o esplicarla, perché bisognerebbe richiamare un principio anteriore - e la famiglia non sarebbe più che una realtà secondaria e derivata, non una matrice.

I teorici che vorrebbero che la prima comunità umana sia stata istituita da un contratto ratificato tra individui asessuati e solitari, dichiarano essi stessi che la loro è una finzione, una ipotesi di lavoro e non una realtà[1]. Non esiste, a livello umano, un principio anteriore alla famiglia. Non si può dunque esplicarlo o giustificarlo, ma solamente esplicitarne la presenza, che ci sta sempre di fronte.

Ed è per questo che è così difficile opporre argomenti a coloro i quali attaccano la famiglia nella sua evidenza. Sostenere che l’uomo discende dalla scimmia è più facile che sostenere che un bambino discende da un uomo e da una donna poiché, nel primo caso, la tesi reclama effettivamente delle spiegazioni (numerose anche), mentre nel secondo non c’è niente da spiegare: non è nemmeno una teoria, ma un dato assolutamente originale, come l’esistenza del mondo esterno. E come provare che il mondo esterno esiste? Come mostrare a qualcuno che il sole è chiaro?

2. E tuttavia il sole svela i colori e quindi, indirettamente, si manifesta. E la famiglia, di cui dobbiamo parlare, rivela e si svela. La si può contestare quanto si vuole, ma essa si rivela. Essa non si rivela che sulle strade, in noi, nelle nostre mutande. Oso dire, piaccia o no, che essa si rivela bene tanto alla chiesa, che in una serata Lgbt; tanto nella barba di un frate cappuccino, che nei seni di una Femen. Solo se si fosse angeli, la famiglia non si manifesterebbe.

Tale manifestazione è così irresistibile che noi assistiamo, negli ultimi decenni, a una strana inversione dei ruoli nei confronti della famiglia da parte degli stessi che volevano sbarazzarsi della famiglia. Coloro i quali denunciavano la famiglia come l’istituzione repressiva e oppressiva per definizione vogliono oggi fare del bambino il prodotto di una manipolazione genetica (giacché l’uguaglianza reclama che due femmine o due maschi possano comunque averne, con i propri gameti). Tutto questo è andato ben al di là dell’oppressione o della repressione, poiché ciò significa correre verso una fabbricazione pura e semplice e fare del bambino, dispoticamente, l’oggetto d’una pianificazione, il compimento di un’astrazione e, più ancora, una cavia da laboratorio. Questa contraddizione prova che non si può decostruire il naturale, ma soltanto costruirne accanto il simulacro, così come si fabbrica un’intelligenza artificiale da quel poco che abbiamo capito dell’intelligenza umana.

3. Cos’è dunque una famiglia? Le persone che hanno un atteggiamento positivo verso di essa insistono su alcuni elementi definitori. Li sintetizzerei in tre punti:

1) La famiglia è, innanzi tutto, il luogo del primo amore. È fondamentale che i genitori si amino e che il bambino sia amato: altrimenti la famiglia non potrà che disseccarsi e decomporsi.

2) La famiglia è il luogo della prima educazione. Il bambino vi nasce a partire da un progetto genitoriale responsabile, dove si guarda al suo futuro, alla sua edificazione, alla sua qualificazione con la maggiore competenza raggiungibile.

3) La famiglia umana è anche un luogo di rispetto delle libertà. I genitori si sono uniti per un contratto e, attraverso la loro missione educativa, essi debbono contribuire non a rinforzare la dipendenza, ma a promuovere l’autonomia del bambino.

Noi insistiamo spesso su queste caratteristiche, poiché partiamo dal bene del bambino. Ma così facendo ci perdiamo l’essenza della famiglia sicché, anche se pensiamo di difenderla, affiliamo invece le armi che permettono d’attaccarla. Preoccupandosi troppo del benessere del bambino, ci si dimentica dell’essere del bambino. Attardandosi troppo sui doveri dei genitori, ci si dimentica dell’essere del padre e della madre. Gli elementi che abbiamo da proporre - amore, educazione, libertà - dicono tutto fuorché l’essenziale: sapere che i genitori sono i genitori e il bambino è il loro bambino.

4. Ed ecco la conseguenza fatale: pretendendo di fondare la famiglia perfetta sull’amore, sull’educazione e sulla libertà, quello che si fonda, in verità, non è la perfezione della famiglia, ma l’eccellenza dell’orfanatrofio. Non v’è dubbio: in un orfanatrofio eccellente si amano i bambini, li si educano e si rispettano le loro persone. Si pensa di essere così in qualche modo nella completezza di un progetto genitoriale, poiché prendersi cura dei bambini è il progetto costitutivo di una tale impresa.

Ma non considerare la famiglia che a partire dall’amore, dall’educazione e dalla libertà, fondarla sul bene del bambino come individuo e non come figlio, e sui doveri dei genitori come educatori e non come genitori, significa proporre una famiglia già defamiglizzata. Perché si potrà sempre dire che un padre e una madre possono essere meno amorevoli, meno competenti e meno rispettosi che due maschi o due femmine, e certamente meno efficaci che tutta un’organizzazione composta dei migliori specialisti. Questa organizzazione d’individui competenti potrà passare per la migliore delle famiglie e la migliore delle famiglie s’identificherà con il migliore degli orfanatrofi.

5. Perché abbiamo così facilmente perduto l’essenza della famiglia? Ma perché il principio della famiglia è troppo elementare, troppo infimo, troppo animale in apparenza; e dunque vergognoso (non si parla forse di «parti vergognose» del corpo?). Voi avete compreso che il principio della famiglia è nel sesso. Anche quando si tratta di una famiglia adottiva, o nel caso di una famiglia spirituale, dove il padre è il padre abate e i fratelli sono i monaci, gli alti e puri termini di uso comune vengono presi primariamente dalla sessualità. I nomi padre e figli si enunciano a partire da questo fondamento sensibile, che è la nostra fecondità carnale.

È perché un uomo ha conosciuto una donna e dal loro abbraccio, per sovrabbondanza, sono nati dei bambini, che esistono i nomi di famiglia, padre, madre, figli, figlie, sorelle e fratelli. La parola «fraternità», che completa il motto repubblicano [«Liberté, Égalité, Fraternité», ndr], procede essa stessa dal sesso e dalla famiglia naturale. Quanto alla nota teoria del genere, che crede di poter affermare che la mascolinità e la femminilità non sono che delle costruzioni sociali, poggia anch’essa sulla differenza tra i sessi, senza cui l’idea stessa del maschile e del femminile non potrebbe concepirsi.

6. La famiglia è dunque il primo luogo dove si genera la differenza sessuale, la differenza generazionale e persino la differenza tra queste due differenze. La differenza tra i sessi, a partire dalla fecondità propria alla loro unione, crea la differenza generazionale, che non ha nulla d’analogo con quella sessuale. Il divieto fondamentale dell’incesto è un segnale, ma anche il fatto che quando l’uomo si unisce a sua moglie non cerca primariamente di avere un bambino: cerca prima di unirsi alla moglie e il bambino arriva, sopraggiunge.

La famiglia annoda così cinque tipi di legami: coniugale (dell’uomo e della donna), filiale (dai genitori ai figli), fraterno (tra i figli) - a cui s’aggiungono altri due, spesso ignorati, ma decisivi per situare la famiglia storicamente e già politicamente. Il quarto è il legame nonni-nipoti, che permette d’attenuare l’influenza dei genitori e d’aprire il tempo della famiglia a quello della tradizione[2]. C’è poi un quinto tipo di legame che tende a relativizzare l’ideale di coppia, pur di non trascurare la suocera. Voglio parlare della “grande famiglia” – ciò che potremmo chiamare la «teoria del genere». Attraverso questo legame l’alleanza coniugale si duplica in un’alleanza, per così dire, tribale e apre lo spazio della famiglia a quello della società.

Ora, la particolarità di questi legami familiari è che non si fondano primariamente su una decisione, ma su un desiderio. E non provengono da una convenzione preliminare, ma da uno slancio naturale. Ovviamente, il desiderio dev’essere assunto nella decisione (o piuttosto nel consenso) e la natura si sviluppa attraverso aspetti convenzionali. Ma prima ci sarà qualcosa che scorre attraverso di noi, un dono che viene dall’altro e torna all’altro e, quindi, supera i nostri calcoli. Questo ci porta oltre noi stessi, oltre i nostri progetti individuali (chi può programmare di avere una suocera?), poiché ci si apre al sesso opposto e a una nuova generazione. Così siamo interessati a un’epoca che non è più la nostra.

7. Diciamolo semplicemente: nessun calcolo può avere per risultato una nascita. Nessuno può dirsi onestamente: “Ecco, io sono pronto, sono maturo abbastanza, abbastanza competente per avere un figlio; so perfettamente come diventare un uomo completo; ho il diritto sovrano di portarlo al mondo e di essere il suo padrone”. Come dunque potremmo avere il diritto d’allevare un bambino, quando siamo noi per primi così bisognosi da non comprendere il mistero della vita?

Allora non si tratta di un diritto ma di un fatto. Il bambino sopraggiunge secondo un dono della natura, di cui non siamo mai degni realmente. Egli è il frutto di un amore sessuale e non il risultato di un proposito diretto, perché nessuna impudenza umana, tecnica o morale può legittimamente stare all’origine della sua venuta. Se la sua presenza rilevasse una nostra competenza, allora lo domineremmo assolutamente ed egli non sarebbe che un ingranaggio in un qualche dispositivo - una tappa in un percorso - e non l’avvenimento della vita, che comincia e ci oltrepassa sempre. Quando un bambino dice ai suoi genitori “non ho scelto io di nascere”, essi potrebbero rispondere: “nemmeno noi abbiamo scelto; ci sei stato donato e proveremo a cambiare la nostra sorpresa in gratitudine”.

8. Possiamo ora riprendere a parlare dei tre elementi di cui abbiamo parlato in precedenza - l’amore, l’educazione e la libertà - e vedere come questi si specificano in seno alla famiglia, a partire da questo dono che ci oltrepassa.

Prima specificità: l’amore familiare è essenzialmente un amore senza preferenze. Esso non guarda alla scelta né alla comparazione. Ciò è particolarmente vero per il rapporto tra genitori e figli. L’amore dei genitori e dei figli è fondato sulla filiazione medesima e non su delle affinità elettive. Lo si capisce molto bene quando il padre è un lettore di Tito Livio, mentre il figlio si dedica ai videogiochi. Mai si sarebbero sognati di trovarsi in un medesimo ambiente. Mai avrebbero formato un club insieme. Ma la famiglia è il contrario di un club elettivo o selettivo. I legami di sangue spezzano le catene del partito così come le catenelle del capriccio.

Il bimbo è sempre così come i genitori non lo avrebbero mai voluto, ma anche come a loro piace e, quindi, sono disposti ad accettarlo incondizionatamente. E i genitori sono sempre ciò che i bambini vorrebbero dagli eroi dei films - Charles Ingalls, per esempio, o Yoda - ma anche quelli che essi amano, nonostante tutto, di quest’amore costitutivo, che precede la coscienza propria di se stessi. I genitori sono dunque coloro che essi devono onorare senza condizioni.

La famiglia è ancora l’amore del vecchio “rinco” e del giovane abbrutito - ed è questo che la rende così meravigliosa e ne fa la scuola della carità. La carità è l’amore soprannaturale del prossimo, di colui che non abbiamo scelto o che ci è antipatico, in un primo momento. Tuttavia, i principali “prossimi” - che non siamo stati noi a scegliere e che spesso ci sono insopportabili - sono proprio i nostri parenti.

9. Seconda specificità: nella famiglia, il legame educativo si fonda su di un’autorità senza competenza. Non si aspetta d’essere un buon padre o una buona madre per avere un figlio. In caso contrario, saremmo sempre in attesa. La paternità vi cade addosso, poiché il desiderio si è rivolto verso una donna. Che rapporto c’è tra i due? La biologia vi vede una continuità. Ma la fenomenologia (diciamo la lettura dell’esperienza vissuta) mostra una sproporzione radicale, se non una rottura tra il desiderio erotico e l’accoglienza di un bambino. La paternità non è qualcosa che esiste anticipatamente. È la presenza del bambino che dona questa paternità: è lui che ci riveste all’improvviso come di un abito troppo grande.

Si può comprendere, nel caso, la reticenza del fabbricatore del «migliore dei mondi possibili» [cf la teodicea di G. Leibnitz, ndr]: “Come può avere il diritto di crescere un bambino chi si è semplicemente coricato con una donna? Come può concedere una qualunque competenza educativa la sua libido bestiale?” Tale riluttanza conduce fatalmente al regno dei precettori e dei pedagoghi e alla messa al bando dei genitori reali. Il padre è, allora, rimpiazzato dall’esperto e la famiglia dall’azienda professionale.

Ma, nella famiglia, non si tratta subito di progetto educativo, ma di realtà della filiazione. Non è la competenza che fonda l’autorità. È l’autorità ricevuta, nonostante le sue debolezze, che si mette alla ricerca di una certa competenza, senza dubbio, ma che possiede anche una propria efficienza, benché paradossale. L’autorità senza competenza ha un valore in se, inestimabile. Da una parte, il padre vi mostra che non è il Padre (con la maiuscola) e che lui stesso è un figlio - e dunque egli deve rivolgersi verso un’autorità più in alto della sua, assieme a suo figlio. D’altra parte, giacché la sua autorità non è solo una competenza, ma un dono, il padre non può fare del bambino la sua creatura, e cercare di formarlo sulla propria scala di valori: deve accoglierlo come un mistero. E in questo consiste l’autorità più profonda, che si distingue da tutte le competenze funzionali. Essa non istruisce il bambino in vista di tale o tale qualificazione particolare, ma gli manifesta il mistero dell’esistenza come dono ricevuto.

10. Infine, la terza specificità, che resta in linea con le precedenti: nella famiglia si esercita una libertà senza un diploma. Essa, l’avevamo già visto, non è la libertà d’indipendenza o la libertà puramente decisionale, ma una libertà di accogliere ciò che viene donato. Il progetto genitoriale è rapidamente infranto per l’avventura familiare, poiché si tratta davvero di un’avventura e non di una previsione. Tutte le antiche tragedie attestano sempre la messa in scena di storie familiari. Ma c’è anche un fatto ordinario, che appartiene piuttosto alla commedia secondo Molière: i figli o la figlia non hanno padri e madri se non per separarsene, fondare un’altra famiglia e sposare un buon partito, che di solito non è il migliore agli occhi dei genitori.

La famiglia è sempre in eccesso su se stessa, non soltanto per il dono della nascita, ma anche per le alleanze esteriori che produce e verso le quali si dirige. C’è la vostra suocera e quella dei figli: c’è questa estensione, da parente a parente che, secondo Aristotele, costituisce il villaggio e poi la Città.

Questa libertà senza diploma, che vi lancia in un’avventura e, allo stesso tempo, in un dramma, risponde a dei legami che non sono contrattuali. Sarebbe bello non vivere che di contratti e poter aggiustare i rapporti secondo convenienza, e fuggire non appena si avverte la crisi. In alternativa, è possibile cambiare partner, ma non si possono sostituire i bambini. E si può diventare amici di uno più vecchio, ma non si può, senza ipocrisia, diventare amici del proprio padre. Così come la differenza sessuale impedisce la fusione, anche la differenza generazionale blocca il livellamento. Il tutto avviene secondo un ordine causale, con una gerarchia offerta: un patrimonio ereditato, che invita la libertà ad aprirsi alle distinzioni della realtà e non a sprofondare nell’indifferenziazione di una presunta onnipotenza.

11. Possiamo ora approcciare la famiglia nel segreto della sua essenza. Essa non è una cosa tra le altre, ma il focolare. E non un “focolare chiuso”, ma un focolare radiante. Un punto focale, pittoricamente, non è un oggetto che appare in una prospettiva, ma il punto dal quale si genera la prospettiva. Un focolare è anche un fuoco, cioè luce e calore e, quindi, un qualcosa non illuminato da qualcos’altro, ma da se stesso e a se stesso manifestato. Voglio dire che la famiglia, prima di essere un oggetto di pensiero, è ciò a partire da cui abbiamo iniziato a pensare. Lo si dimentica spesso, come ci si dimentica il sole, come se non fosse chiaro ciò da cui siamo tenuti e per cui siamo spinti in avanti. Da questo oblio e dalla finzione individualista che ne segue, noi abbiamo la tendenza a dissociare la logica da ciò che è genealogico. Noi poniamo l’uomo come individuo dotato di ragione e rifiutiamo di riconoscerlo come figlio dei suoi padri. Tuttavia è entrambe le cose. La tradizione cristiana ce lo ricorda divinamente. Per essa, il Logos è il nome greco della ragione, ma è pure il nome evangelico del Figlio.

Che cos’è dunque una famiglia? Si può supporlo da ciò che abbiamo detto: la famiglia è il fondamento carnale dell’apertura alla trascendenza. La differenza sessuale, generazionale e la differenza di entrambe c’insegna a guardare l’altro in quanto altro. È il luogo del dono e dell’accoglimento incalcolabile di una vita che si dispiega con noi - e anche malgrado noi - e ci getta sempre più profondamente nel mistero dell’esistenza.

12. È questo il primo luogo dell’esistenza, che è anche il luogo della resistenza. Resistenza all’ideologia, ai ben pensanti, alla programmazione. La famiglia è la comunità originale, offerta inizialmente dalla natura e non istituita soltanto per convenzione. Essa dunque dona sempre, per la sua connessione al sesso, un contrappunto all’artifizio e fornisce uno spazio per quella che può essere definita una verifica.

L’uomo pubblico può coltivare la sua immagine di facciata e mostrare il suo più bel profilo sociale, ma qual è il suo volto in privato, davanti alla moglie e ai figli? Il grande Ercole, che ha vinto i mostri, si ritrova patetico dinnanzi a Deianira. Il giovane genio, che ostenta sicurezza, si vergogna a farsi vedere con sua madre e suo padre, che ne attestano l’origine comune. La volontà di potenza è sempre un ostacolo alla prossimità familiare. Questo perché il totalitarismo, così come il liberalismo e l’impresa tecnologica, così come il fondamentalismo religioso, cominciano sempre con il porre la famiglia sotto tutela, prima di tentare di distruggerla.

Note al testo

[1] Rousseau scrive nell’introduzione del suo “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” (1754): «Cominciamo dunque col respingere tutti i fatti». Ma, all’inizio del “Contratto sociale” (I, 2), non può fare a meno di ammettere il fatto fondamentale: «La più antica di tutte le società e la sola naturale è quella della famiglia».

[2] Penso all’uso greco della papponimia: «Secondo un certo costume, il fatto che un uomo dia al figlio il nome del nonno [papponimia, appunto, ndr], conferma e suppone, ad un tempo, come tutti i genitori ritrovino i loro stessi genitori attraverso i figli. La permutazione simbolica implica come minimo la successione di tre generazioni per fabbricare l’istituto umano» (Pierre Legendre, “Filiation”, Lezione IV, Fayard, 1990, p. 62).

Redazione de Gliscritti | Martedì 27 Ottobre 2015 - 2:56 pm | | Default
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1/ Si costruisce più civiltà intorno alla tavola che con un tablet, di Fabrice Hadjadj 2/ ​Sospesi tra il pane quotidiano e il pancarré industriale, di Fabrice Hadjadj

1/ Si costruisce più civiltà intorno alla tavola che con un tablet, di Fabrice Hadjadj

​Riprendiamo da Avvenire dell’11/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, oltre a cliccare sul tag fabrice_hadjadj, cfr. la sotto-sezione Filosofia contemporanea nella sezione Storia e filosofia

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

Le discussioni a riguardo del Sinodo sulla famiglia si sono molto focalizzate sull’ammissione dei «divorziati risposati» alla Tavola eucaristica – come se la prospettiva non fosse cambiata da ventuno secoli a questa parte (perché, lo ricordo, questo problema si è posto fin dai primi tempi della Chiesa)… A dire il vero non siamo più a quel punto. Siamo in un’epoca in cui la questione è molto più rudimentale: come fare affinché la famiglia si ritrovi intorno a una tavola, molto semplicemente?

Abbiamo dimenticato ciò che i nostri padri sapevano: la tavola è un oggetto ultratecnologico, al punto che accanto ad essa le sofisticherie moderne appaiono come  cose grossolane. Un rapido sguardo al materiale già lo prova: passare da una tavola in ciliegio massiccio a una fatta con gli ultimi ritrovati in materia di superconduttori sarebbe uno scadimento evidente (un po’ come sostituire il minestrone della nonna con un beverone sintetico).

 Ma questo non è che un indizio. Il grande vantaggio della tavola su tutti i nostri apparecchi futuristi si manifesta soprattutto nel campo del multimediale. Là dove la tecnologia riesce a favorire solamente la comunicazione virtuale, la tavola tende a organizzare la comunione vivente.

Ecco dei commensali realmente presenti, che scaturiscono come busti siamesi da uno stesso centauro immobile, riuniti e aperti come i rami fioriti di un unico albero mistico, e che si mostrano nella loro specificità umana, vale a dire animale e al tempo stesso razionale, con le bocche che a volte parlano e a volte mangiano, le mani che levano i calici e si passano i piatti in modo da rinnovare una sostanza personale che nessun download potrà mai fornire.

E mentre i siti dove ci conduce la navigazione numerica sono legati alla nostra età e ai nostri interessi, il pasto ci avvicina agli altri innanzitutto perché essi hanno fame come noi; ecco perché la tavola è l’incomparabile medium dell’incontro con altre generazioni – dai nonni ai nipoti –, con persone che non condividono le nostre idee ma che volentieri condividono la nostra bistecca, e persino con altre specie – giacché il cagnolino sotto la tavola recupera le molliche

Si può capire, allora, che la civiltà si costruisce in questo luogo, nella difficile attenzione per imparare a comportarsi a tavola, affinché i nostri gomiti non disturbino quelli che ci siedono accanto, per chiedere dicendo «per favore» e ricevere dicendo «grazie».

Ma ci siamo sottomessi al progresso tecno-economico e abbiamo rinunciato alla civiltà. Tablet
e smartphone si sono impossessati della parola «conviviale», ridefinita da Steve Jobs, e il tempo si è destrutturato sotto il flusso delle news e del divertimento
sempre disponibili e sotto la pressione di un lavoro che non segue più i ritmi del corpo e delle stagioni ma la cadenza infaticabile delle macchine.

Ormai la famiglia è scoppiata sotto lo stesso tetto. Ciascuno ha il suo orario capriccioso, ciascuno sta davanti al suo schermo tattile, e non gli resta altro da fare che mangiare in fretta, per conto proprio, cibo già pronto nell’anta del frigorifero, seguendo i consigli dietetici di Mypersonaltrainer.com.

Già negli anni cinquanta Günther Anders diceva che la televisione aveva distrutto la tavola familiare e che da allora il focolare domestico non aveva più nessun punto di convergenza. Con tutto ciò che ci attrezza individualmente all’informazione continua, l’esplosione è completa. Il divorzio dai propri cari e dunque da sé stessi è spesso la conseguenza dell’alta fedeltà a questo apparato tecnico: il tessuto familiare non si tesse più; il suo telaio – la tavola – è stato messo nei rifiuti. Ecco perché la nostra prima rivendicazione sociale dovrebbe unirsi al grido della mamma di quando eravamo bambini: «A tavola!».

2/ ​Sospesi tra il pane quotidiano e il pancarré industriale, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 18/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, oltre a cliccare sul tag fabrice_hadjadj, cfr. la sotto-sezione Filosofia contemporanea nella sezione Storia e filosofia

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

Non parlerò del Pane del Cielo ma del pane comune, non consacrato, sul quale si può pronunciare una benedizione senza troppa reticenza. Anche se, al momento di benedire il pasto, sono talvolta colto da un’esitazione. È opportuno proferire quelle antiche parole su una fetta di pancarrè industriale? Devo rendere grazie anche per i pesticidi, i fitofarmaci, gli additivi chimici, il glutine manipolato che conferisce alla nostra tartina la sua "inimitabile morbidezza" degna di un materasso permaflex? 

Posso cantare: «Benedetto sia Dio per il pirimfos-metile e il piperonil-butossido»? Non dovrei aggiungere alla mia preghiera anche un’intercessione per i mugnai ammalati a causa degli insetticidi per lo stoccaggio? Ma, in fin dei conti, sono proprio sicuro di avere un’idea abbastanza chiara della catena di produzione e di distribuzione che ha permesso a questo prodotto di arrivare sulla mia tavola?

È vero che nella nostra cara Europa la carestia non c’è più. Il pane sembra diventato disponibile per tutti e in abbondanza. Perciò mi si potrebbe ribattere, e non a torto, che le mie osservazioni sono quelle di un bambino viziato e ingrato. Ma questo non farebbe che confermare l’esistenza del problema: un bambino viziato è già un po’ sciupato anche se non allo stesso modo di un bambino affamato…

Il nostro pane quotidiano obbedisce ormai allo stesso rapporto che c’è tra il software e  l’hardware - il filosofo americano Albert Borgmann lo chiama «il paradigma del dispositivo (tecnologico)». Un tale dispositivo unisce sempre, come le due facce di una stessa medaglia, la disponibilità di un prodotto all'opacità della sua produzione, o ancora una commodity e un meccanismo. Il glamour del pane offerto sotto i riflettori della pubblicità nasconde un apparato oscuro da cui dipende la mia comodità.

Scrive Borgmann: «Nell’universo moderno dell’abbondanza e della disponibilità, il nostro contatto col mondo è ridotto a consumo senza sforzo e visione senza profondità. La fetta di pane che ho preso al supermercato non mi fa più pensare a un campo di grano, una mietitura, un mugnaio, un forno, né a una mano che benedice e spezza il pane. Il mio sguardo si ferma alla superficie, al suo colore, la sua struttura. Posso immaginare che dietro la sua brillante opacità ci sia una certa infrastruttura tecnica, probabilmente un business agroalimentare e una panificazione automatizzata situati chissà dove. Ma la mia comprensione del meccanismo è vaga quanto la mia coscienza della sua esistenza. Alla fine, in questo ambiente naturale di comodità superficiali, tendo a diventare superficiale io stesso». 

Il problema del nostro pane quotidiano non è innanzitutto dietetico o ecologico. È fenomenologico, legato alla percezione delle cose che abbiamo al giorno d’oggi. Ieri, col Padre Nostro, il pane sembrava provenire dal Dio invisibile, ma attraverso di esso si vedevano «la terra e il lavoro degli uomini», le spighe, il contadino, il mietitore, il mulino, il panettiere… Erano persone conosciute in paese, con cui forse ci si dava del tu

Oggi, il pane appare provenire da un’invisibile agro-tecno-industria, e tutto quello che vediamo è questa fetta bella e liscia come un MacBook. Se vogliamo saperne un po’ di più facciamo ricorso ad altri apparecchi opachi e alla competenza degli esperti. E il nostro immaginario resta sempre più vuoto con un campo di grano ridotto a un’etichetta e a delle equazioni chimiche che governano il reale. Si può capire allora che al momento di benedire il pane la mano resti per un attimo sospesa, prima di acconsentire, malgrado tutto, a fare il segno della croce comprendendo che una redenzione è a maggior ragione necessaria.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Ottobre 2015 - 4:29 pm | | Default
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1/ Fedeltà dell’amore, di papa Francesco 2/ Promesse ai bambini, di papa Francesco

1/ Fedeltà dell’amore, di papa Francesco

Riprendiamo sul nostro sito la catechesi tenuta da papa Francesco nell’udienza generale del 21/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella scorsa meditazione abbiamo riflettuto sulle importanti promesse che i genitori fanno ai bambini, fin da quando essi sono pensati nell’amore e concepiti nel grembo.

Possiamo aggiungere che, a ben guardare, l’intera realtà famigliare è fondata sulla promessa - pensare bene questo: l’identità famigliare è fondata sulla promessa -: si può dire che la famiglia vive della promessa d’amore e di fedeltà che l’uomo e la donna si fanno l’un l’altra. Essa comporta l’impegno di accogliere ed educare i figli; ma si attua anche nel prendersi cura dei genitori anziani, nel proteggere e accudire i membri più deboli della famiglia, nell’aiutarsi a vicenda per realizzare le proprie qualità ed accettare i propri limiti. E la promessa coniugale si allarga a condividere le gioie e le sofferenze di tutti i padri, le madri, i bambini, con generosa apertura nei confronti dell’umana convivenza e del bene comune. Una famiglia che si chiude in sé stessa è come una contraddizione, una mortificazione della promessa che l’ha fatta nascere e la fa vivere. Non dimenticare mai: l’identità della famiglia è sempre una promessa che si allarga, e si allarga a tutta la famiglia e anche a tutta l’umanità.

Ai nostri giorni, l’onore della fedeltà alla promessa della vita famigliare appare molto indebolito. Da una parte, perché un malinteso diritto di cercare la propria soddisfazione, a tutti i costi e in qualsiasi rapporto, viene esaltato come un principio non negoziabile di libertà. D’altra parte, perché si affidano esclusivamente alla costrizione della legge i vincoli della vita di relazione e dell’impegno per il bene comune. Ma, in realtà, nessuno vuole essere amato solo per i propri beni o per obbligo. L’amore, come anche l’amicizia, devono la loro forza e la loro bellezza proprio a questo fatto: che generano un legame senza togliere la libertà. L’amore è libero, la promessa della famiglia è libera, e questa è la bellezza. Senza libertà non c’è amicizia, senza libertà non c’è amore, senza libertà non c’è matrimonio.

Dunque, libertà e fedeltà non si oppongono l’una all’altra, anzi, si sostengono a vicenda, sia nei rapporti interpersonali, sia in quelli sociali. Infatti, pensiamo ai danni che producono, nella civiltà della comunicazione globale, l’inflazione di promesse non mantenute, in vari campi, e l’indulgenza per l’infedeltà alla parola data e agli impegni presi!

Sì, cari fratelli e sorelle, la fedeltà è una promessa di impegno che si auto-avvera, crescendo nella libera obbedienza alla parola data. La fedeltà è una fiducia che “vuole” essere realmente condivisa, e una speranza che “vuole” essere coltivata insieme. E parlando di fedeltà mi viene in mente quello che i nostri anziani, i nostri nonni raccontano: “A quei tempi, quando si faceva un accordo, una stretta di mano era sufficiente, perché c’era la fedeltà alle promesse. E anche questo, che è un fatto sociale, ha origine nella famiglia, nella stretta di mano dell’uomo e la donna per andare avanti insieme, tutta la vita.

La fedeltà alle promesse è un vero capolavoro di umanità! Se guardiamo alla sua audace bellezza, siamo intimoriti, ma se disprezziamo la sua coraggiosa tenacia, siamo perduti. Nessun rapporto d’amore – nessuna amicizia, nessuna forma del voler bene, nessuna felicità del bene comune – giunge all’altezza del nostro desiderio e della nostra speranza, se non arriva ad abitare questo miracolo dell’anima. E dico “miracolo”, perché la forza e la persuasione della fedeltà, a dispetto di tutto, non finiscono di incantarci e di stupirci. L’onore alla parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare e vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure custodire senza sacrificio.

Nessun’altra scuola può insegnare la verità dell’amore, se la famiglia non lo fa. Nessuna legge può imporre la bellezza e l’eredità di questo tesoro della dignità umana, se il legame personale fra amore e generazione non la scrive nella nostra carne.

Fratelli e sorelle, è necessario restituire onore sociale alla fedeltà dell’amore: restituire onore sociale alla fedeltà dell’amore! È necessario sottrarre alla clandestinità il quotidiano miracolo di milioni di uomini e donne che rigenerano il suo fondamento famigliare, del quale ogni società vive, senza essere in grado di garantirlo in nessun altro modo. Non per caso, questo principio della fedeltà alla promessa dell’amore e della generazione è scritto nella creazione di Dio come una benedizione perenne, alla quale è affidato il mondo.

Se san Paolo può affermare che nel legame famigliare è misteriosamente rivelata una verità decisiva anche per il legame del Signore e della Chiesa, vuol dire che la Chiesa stessa trova qui una benedizione da custodire e dalla quale sempre imparare, prima ancora di insegnarla e disciplinarla. La nostra fedeltà alla promessa è pur sempre affidata alla grazia e alla misericordia di Dio. L’amore per la famiglia umana, nella buona e nella cattiva sorte, è un punto d’onore per la Chiesa! Dio ci conceda di essere all’altezza di questa promessa. E preghiamo anche per i Padri del Sinodo: il Signore benedica il loro lavoro, svolto con fedeltà creativa, nella fiducia che Lui per primo, il Signore - Lui per primo! -, è fedele alle sue promesse. Grazie.

2/ Promesse ai bambini, di papa Francesco

Riprendiamo sul nostro sito la catechesi tenuta da papa Francesco nell’udienza generale del 14/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi siccome le previsioni del tempo erano un po’ insicure e si prevedeva la pioggia, questa udienza si fa contemporaneamente in due posti: noi qui in piazza e 700 malati nell’Aula Paolo VI che seguono l’udienza nel maxischermo. Tutti siamo uniti e salutiamo loro con un applauso.

La parola di Gesù è forte oggi: “Guai al mondo per gli scandali”. Gesù è realista e dice: “E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo a causa del quale avviene lo scandalo”. Io vorrei, prima di iniziare la catechesi, a nome della Chiesa, chiedervi perdono per gli scandali che in questi ultimi tempi sono accaduti sia a Roma che in Vaticano, vi chiedo perdono.

Oggi rifletteremo su un argomento molto importante: le promesse che facciamo ai bambini. Non parlo tanto delle promesse che facciamo qua e là, durante la giornata, per farli contenti o per farli stare buoni (magari con qualche innocente trucchetto: ti do una caramella e promesse simili…), per invogliarli ad impegnarsi nella scuola o per dissuaderli da qualche capriccio. Parlo di altre promesse, delle promesse più importanti, decisive per le loro attese nei confronti della vita, per la loro fiducia nei confronti degli esseri umani, per la loro capacità di concepire il nome di Dio come una benedizione. Sono promesse che noi facciamo loro.

Noi adulti siamo pronti a parlare dei bambini come di una promessa della vita. Tutti diciamo: i bambini sono una promessa della vita. E siamo anche facili a commuoverci, dicendo ai giovani che sono il nostro futuro, è vero. Ma mi domando, a volte, se siamo altrettanto seri con il loro futuro, con il futuro dei bambini e con il futuro dei giovani! Una domanda che dovremmo farci più spesso è questa: quanto siamo leali con le promesse che facciamo ai bambini, facendoli venire nel nostro mondo? Noi li facciamo venire al mondo e questa è una promessa, cosa promettiamo loro?

Accoglienza e cura, vicinanza e attenzione, fiducia e speranza, sono altrettante promesse di base, che si possono riassumere in una sola: amore. Noi promettiamo amore, cioè amore che si esprime nell’accoglienza, nella cura, nella vicinanza, nell’attenzione, nella fiducia e nella speranza, ma la grande promessa è l’amore. Questo è il modo più giusto di accogliere un essere umano che viene al mondo, e tutti noi lo impariamo, ancora prima di esserne coscienti. A me piace tanto quando vedo i papà e le mamme, quando passo fra voi, portarmi un bambino, una bambina piccoli e chiedo: “Quanto tempo ha?” –“Tre settimane, quattro settimane… chiedo la benedizione del Signore”. Anche questo si chiama amore. L’amore è la promessa che l’uomo e la donna fanno ad ogni figlio: fin da quando è concepito nel pensiero. I bambini vengono al mondo e si aspettano di avere conferma di questa promessa: lo aspettano in modo totale, fiducioso, indifeso. Basta guardarli: in tutte le etnie, in tutte le culture, in tutte le condizioni di vita! Quando accade il contrario, i bambini vengono feriti da uno “scandalo”, da uno scandalo insopportabile, tanto più grave, in quanto non hanno i mezzi per decifrarlo. Non possono capire cosa succede. Dio veglia su questa promessa, fin dal primo istante. Ricordate cosa dice Gesù? Gli Angeli dei bambini rispecchiano lo sguardo di Dio, e Dio non perde mai di vista i bambini (cfr Mt 18,10). Guai a coloro che tradiscono la loro fiducia, guai! Il loro fiducioso abbandono alla nostra promessa, che ci impegna fin dal primo istante, ci giudica.

E vorrei aggiungere un’altra cosa, con molto rispetto per tutti, ma anche con molta franchezza. La loro spontanea fiducia in Dio non dovrebbe mai essere ferita, soprattutto quando ciò avviene a motivo di una certa presunzione (più o meno inconscia) di sostituirci a Lui. Il tenero e misterioso rapporto di Dio con l’anima dei bambini non dovrebbe essere mai violato. È un rapporto reale, che Dio lo vuole e Dio lo custodisce. Il bambino è pronto fin dalla nascita per sentirsi amato da Dio, è pronto a questo. Non appena è in grado di sentire che viene amato per sé stesso, un figlio sente anche che c’è un Dio che ama i bambini.

I bambini, appena nati, incominciano a ricevere in dono, insieme col nutrimento e le cure, la conferma delle qualità spirituali dell’amore. Gli atti dell’amore passano attraverso il dono del nome personale, la condivisione del linguaggio, le intenzioni degli sguardi, le illuminazioni dei sorrisi. Imparano così che la bellezza del legame fra gli esseri umani punta alla nostra anima, cerca la nostra libertà, accetta la diversità dell’altro, lo riconosce e lo rispetta come interlocutore. Un secondo miracolo, una seconda promessa: noi – papà e mamma – ci doniamo a te, per donare te a te stesso! E questo è amore, che porta una scintilla di quello di Dio! Ma voi, papà e mamme, avete questa scintilla di Dio che date ai bambini, voi siete strumento dell’amore di Dio e questo è bello, bello, bello!

Solo se guardiamo i bambini con gli occhi di Gesù, possiamo veramente capire in che senso, difendendo la famiglia, proteggiamo l’umanità! Il punto di vista dei bambini è il punto di vista del Figlio di Dio. La Chiesa stessa, nel Battesimo, ai bambini fa grandi promesse, con cui impegna i genitori e la comunità cristiana. La santa Madre di Gesù – per mezzo della quale il Figlio di Dio è arrivato a noi, amato e generato come un bambino – renda la Chiesa capace di seguire la via della sua maternità e della sua fede. E san Giuseppe – uomo giusto, che l’ha accolto e protetto, onorando coraggiosamente la benedizione e la promessa di Dio – ci renda tutti capaci e degni di ospitare Gesù in ogni bambino che Dio manda sulla terra.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Ottobre 2015 - 4:28 pm | | Default

Il rabbino Di Segni: "Noi ebrei esempio di integrazione". Un’intervista di Stefania Rossini a Rav Riccardo Di Segni

Riprendiamo dal sito de L’Espresso  un’intervista di Stefania Rossini a Rav Riccardo Di Segni pubblicata il 16/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. MULTICULTURALISMO? La convivenza alla prova: il contributo dell'ebraismo, di Giorgio Israel e la sotto-sezione Ebraismo.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

N.B. de Gli scritti. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato ad ascoltare sempre con grande attenzione non solo la voce dell’ebraismo biblico, ma anche quella del popolo ebraico vivente ora. È una voce plurale, piena di sfumature a secondo dei suoi esponenti, talvolta misericordiosa e talvolta affilata come una lama, ma che noi abbiamo il dovere di ascoltare  e di non sottovalutare. È una voce che ci ricorda un punto di vista diverso sulla storia dell’Europa e del mondo, un punto di vista diverso sull’integrazione e l’accoglienza, un punto di vista diverso sulla realtà della persecuzione, punti di vista con i quali siamo chiamati a dialogare, anche se taluni aspetti non ci trovassero d’accordo, non dimenticando mai che l’ebraismo ha un legame indissolubile con Israele, ma che, insieme, ne è profondamente distinto.

Il rabbino Di Segni: "Noi ebrei esempio di integrazione". Un’intervista di Stefania Rossini a Rav Riccardo Di Segni

"Io so’ judio romano..." Quando il rabbino capo Riccardo Di Segni deve trovare una sintesi che renda al meglio la sua identità, il suo credo, l’amore per la sua città e il travaglio della sua gente, ricorre al verso di un sonetto di Crescenzo Dal Monte, considerato il Gioacchino Belli della Roma ebraica. È infatti con questo intreccio di sentimenti che la guida spirituale della più grande comunità ebraica italiana, la più antica della diaspora occidentale, osserva il mondo infiammato dai nuovi conflitti religiosi e dagli esodi smisurati.

Lo incontriamo nel suo studio blindato all’interno della Sinagoga, dove ci parlerà di sé e di quanto accade senza risparmiare giudizi e senza nascondere timori, stemperandoli semmai, quando i toni rischiano di farsi duri, in qualche battuta romanesca intrisa di umorismo ebraico.

Rabbino Di Segni, di fronte alla doppia emergenza delle guerre di religione e delle migrazioni di popoli, quanto può aiutarci la millenaria esperienza degli ebrei?
«Molto. Possiamo fornire modelli di integrazione perché sappiamo che si può essere cittadini o esclusi o partecipi o discriminati o diversi o uguali. Quanto accade è per noi un déjà vu. In quegli uomini e donne con valige e figli, fermati dalle polizie di frontiera o ammassati sui barconi, noi rivediamo noi stessi. E insieme all’identificazione scatta la solidarietà. Eppure...»

Eppure?
«È brutale dirlo, ma c’è una differenza sostanziale perché quantitativa. Anche la più forte comunità ebraica, come quella francese, conta al massimo 300 mila persone. È facile integrare un numero contenuto di profughi. Qui però si tratta di milioni, di uno spostamento di popoli che cambierà completamente i connotati dell’Europa».

Ne ha paura?
«La preoccupazione è molto forte. Per tradizione noi siamo solidali con chi scappa e vigili rispetto ai rischi. Che sono quelli del fanatico con la testa caricata da pensieri religiosi deviati, che scarica il suo mitra in un supermercato ebraico, ma sono anche quelli legati ad altri segnali».

Si riferisce all’antisemitismo delle destre europee?
«Anche a sinistra ci sono segnali, e non solo nei gruppi estremisti. Un massimo esponente democratico del comune di Roma, di cui non faccio il nome per carità civica, pensando di essere spiritoso ha detto un giorno che non dovremmo votare perché siamo israeliani. Ha capito il clima?»

Posso però chiederle che cosa fate per sfatare questo pregiudizio? Anche persone meno superficiali vi rimproverano di essere sempre dalla parte dei governi israeliani.
«Non dobbiamo certo giustificarci: siamo italiani come e più di molti altri e abbiamo contribuito a edificare questo Paese. Ma un’identità non si taglia con l’accetta. In ogni uomo sentimenti e passioni sono sempre distribuiti. Noi abbiamo un legame solido sia con questa nazione che con lo Stato di Israele. È nell’Islam che la religione implica la nazionalità. Per gli islamici l’ebreo non è dissociabile dallo Stato di Israele. Per questo con loro il dialogo interreligioso è difficile».

Con il cattolicesimo va invece meglio. Le piace papa Bergoglio?
«È un papa molto interessante con il quale si riesce a dialogare. Ma purtroppo il suo messaggio, che viene visto soprattutto come amore, è pericoloso per l’ebraismo».

Perché?
«Perché ripropone l’idea che, con l’arrivo di Gesù, il Dio dell’Antico Testamento è cambiato: prima era severo e vendicativo, poi è diventato il Dio dell’amore. Quindi gli ebrei sono giustizialisti e i cristiani buoni e misericordiosi. È un’aberrazione teologica molto antica, che è rimasta una sorta di malattia infantile del cristianesimo».

Ne ha parlato con il papa?
«Sì e gli ho anche detto che continuare a usare, come fa lui, il termine “farisei” con una connotazione negativa può rinforzare il pregiudizio in un pubblico non preparato».

Che cosa gli ha risposto?
«Mi ha detto: “Capisco benissimo. Io sono gesuita e anche la parola “gesuita” fa un brutto effetto”. Ho visto che poi ci è stato più attento».

Cogliamo l’occasione perché ci spieghi la differenza sostanziale tra un prete e un rabbino.
«È semplice: il prete è un sacerdote, il rabbino no. Il rabbino è un maestro che deve insegnare e deve far applicare la tradizione».

E la religione?
«Il rabbino è responsabile del fatto che i riti siano officiati secondo le regole. Si occupa, per esempio, del controllo degli alimenti perché una parte considerevole del rito ebraico riguarda appunto quello che si può e non si può mangiare, ed è sempre più difficile fare distinzioni in una società di cibi industrializzati. È il mio campo di specializzazione. E poi saprà che i rabbini prendono moglie».

Lei quando si è sposato?
«Presto, a 25 anni con una ragazza di 19. Mi ero laureato in medicina e da un po’ mi ero lasciato alle spalle la mia stagione movimentista».

Quindi ha fatto il Sessantotto?
«Sì, ne fui sedotto ed è stato molto interessante, perché c’era l’occasione di far vacillare il mondo baronale, patetico e autoreferenziale che guidava l’istruzione in Italia. Ma non ero un leader, ero un gregario: assemblee, cortei, occupazione dell’Istituto di Igiene e poco altro».

È ancora di sinistra?
«Perché, c’è ancora una sinistra?»

Le piacerebbe che ce ne fosse una?
«Mah, bisognerebbe vedere, potrebbero esserci molti drammi. Pensi a noi ebrei: siamo figli ripudiati dal padre, anzi padri ripudiati dai figli. Certe cose le abbiamo inventate noi e poi ci hanno cacciato via».

Lei è anche vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica. Con le sue idee come ha fatto ad aderire all’ultimo Family day?
«Io non ho aderito, ho mandato una lettera che invitava a una discussione non ideologica. Ma loro ne hanno fatto, appunto, un uso strumentale e ideologico».

Ci dica allora la sua posizione sulle unioni omosessuali.
«Penso che potremo arrivare al contratto civile, che è una cosa ben diversa dal matrimonio».

Non crede che siamo comunque in ritardo sul resto del mondo occidentale? Israele, per esempio, riconosce da tempo i matrimoni omosessuali celebrati all’estero.
«Israele è uno Stato democratico che non applica la legge rabbinica, ma quella del Parlamento».

Che ne pensa della scelta di designare un’italiana, Fiamma Nirenstein, come ambasciatrice di Israele in Italia?
«È ancora in corso una procedura di approvazione. Mi chiedo, però, se sia lecito che una persona che è stata deputata al Parlamento italiano venga ora a rappresentare uno Stato estero».

Siamo quasi alla fine del nostro incontro e non abbiamo ancora parlato della Shoah.
«Ne dobbiamo parlare?»

È strano che me lo chieda. Non è un elemento essenziale dell’identità ebraica moderna?
«Ho conosciuto la Shoah con il latte materno da una madre sfuggita alla razzia degli ebrei romani perché si era rifugiata con i miei fratelli in un casolare delle Marche, vicino a mio padre partigiano, medaglia d’argento della Resistenza. A 5 anni ho ascoltato il primo racconto sui campi nazisti da una cugina di mio padre sopravvissuta ad Auschwitz. Le pare che non m’interessi?»

Sta dicendo che ne teme la retorica?
«Insieme alla banalizzazione. La mia preoccupazione è sempre stata quella che l’identità ebraica basata soltanto sulla Shoah sia un’identità avvelenata, un’identità di morte non di vita. È un discorso che fatico a fare anche nella mia comunità».

Le hanno fatto effetto quei numeri segnati sulle braccia dei profughi siriani?
«Mi ha fatto effetto che si usassero parole come deportazione per un semplice accorgimento di triage. Nella medicina delle catastrofi, la prima cosa che si fa è quella. E poi un conto è il pennarello su un ferito o un profugo e un conto il tatuaggio sul prigioniero. Anche questo uso delle parole fa parte della banalizzazione. La Shoah è un unicum che ci deve far ricordare soprattutto l’importanza della convivenza con il vicino e con il diverso. Qualcuno dice che l’Europa nasce da Auschwitz. Non vorrei che finisse con un’altra Auschwitz».

Non ci spaventi, rabbino. Che cosa intende?
«Provi a pensare a quei milioni di persone di cui abbiamo parlato e li immagini tra vent’anni. Lei riesce a vedere un futuro di convivenza pacifica?».

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Ottobre 2015 - 4:27 pm | | Default

Frodo non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare a Mordor. Parola di scienziato. Un gruppo di ricercatori inglesi ha fatto un calcolo paradossale: "La Compagnia dell'anello" descritta da Tolkien ha avuto cibo a sufficienza durante il suo viaggio verso la Terra d'Ombra? Per gli studiosi la risposta è no: sarebbe servito troppo pane elfico (con una nota critica de Gli scritti)

Riprendiamo da La Repubblica del 17/9/2015 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Chesterton, Tolkien, Lewis, nella sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

N.B. de Gli scritti. Pubblichiamo questo articolo solo per mostrare quanto sia facile non comprendere nulla della poetica di J.R.R. Tolkien se si prescinde dalla sua rielaborazine della «tipologia», di quel metodo di lettura, cioè, che sa cogliere nel racconto un’ombra o figura di ciò che sarà (il procedimento è abituale nell’interpretazione biblica).

Frodo Baggins e i suoi compagni quando sono partiti da Gran Burrone avevano una buona scorta di pane elfico. Sarebbe bastato a sfamarsi fino a Mordor? Secondo gli scienziati no. Hanno fatto un calcolo paradossale di calorie e ne è venuto fuori che la dieta della "Compagnia dell'anello" descritta da Tolkien ne Il Signore degli Anelli sarebbe stata troppo esigua per riuscire nell'impresa. La ricerca è stata effettuata dagli studiosi Skye Rosetti e Krisho Manoharan. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of interdisciplinary science topics dell'Università di Leicester.

Punto di partenza della ricerca, il conteggio delle calorie necessarie per una compagnia composta da nove membri: quattro hobbit, un elfo, tre umani e un nano, in viaggio per ben 92 giorni. Secondo Rosetti e Manoharan sarebbero state necessarie  minimo 1.780.214,59 calorie. Per stabilire l'apporto calorico necessario al gruppo, gli scienziati hanno prima calcolato il metabolismo basale di ogni genere coinvolto, ossia il valore minimo di energia richiesta perché le cellule sopravvivano. Secondo la stima, un umano della Terra di Mezzo avrebbe quindi bisogno di circa 1.700 calorie al giorno, un elfo di 1400 mentre un hobbit, che misurando circa 107 centimetri camminerebbe a un passo più spedito degli altri consumando di conseguenza di più, di 1.800 calorie.

Tenendo conto di questi dati, i due ricercatori hanno quindi basato i successivi calcoli sulla quantità di cibo necessaria per affrontare i 92 giorni di cammino sul Lembas, il pane elfico citato da Tolkien, presente anche nella trilogia cinematografica e unico alimento conosciuto a portata di mano dei viaggiatori.

Nell'opera del romanziere questi dolci a base di cereali sono stati descritti come molto sottili, fatti di farina, di color marrone chiaro all'esterno e ripieni di crema all'interno. Una bomba calorica da circa 2.638,5 secondo gli studiosi, che sono poi passati alla stima delle razioni minime necessarie per la sopravvivenza di ogni personaggio.

Per restare in vita, la Compagnia dell'Anello avrebbe dovuto consumare in totale 677 Lembas al giorno: 214 ripartiti fra Gandalf, Aragorn e Boromir, 99 per il nano Gimli, 60 per Legolas e 304 per gli hobbit. La conclusione dei due ricercatori? Oltre 62mila dolcetti sarebbero un peso eccessivo da trasportare per chiunque, figurarsi per un gruppo di 9 persone impegnate a raggiungere il cuore di Mordor.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Ottobre 2015 - 4:26 pm | | Default
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1/ Giacomo Poretti: Dio, cosa vuoi da noi? Anticipazione di «Al paradiso è meglio credere», il nuovo romanzo del comico che fa trio con Aldo e Giovanni, di Giacomo Poretti 2/ Il nuovo libro di Giacomo Poretti «Al Paradiso è meglio credere». Antonio, un finto prete sulle tracce dell'aldilà, di Fulvio Panzeri

1/ Giacomo Poretti: Dio, cosa vuoi da noi? Anticipazione di «Al paradiso è meglio credere», il nuovo romanzo del comico che fa trio con Aldo e Giovanni, di Giacomo Poretti

Riprendiamo da Avvenire del 18/10/2015 un testo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

Salivamo in silenzio, avevo la strana impressione che don Angelo sapesse tutto, e che mi avesse portato lì, lontani dal mondo, solo io e lui, per darmi la possibilità di liberarmi del mio peso. 
Invece a un certo punto disse: «Quest’anno, a ottobre, saranno 48 anni di sacerdozio. Ho sempre cercato di servire il mio datore di lavoro là in alto come meglio ho potuto, ma non ho mai rinunciato alla mia passeggiata solitaria o con un amico, come sto facendo oggi con lei. Se un povero, anziano parroco si può permettere di darle un consiglio: ecco, non abbia paura di prendersi un pomeriggio per sé. Sono arrivato perfino a dire delle bugie, a inventarmi degli impegni, ma non ho mai rinunciato alla mia passeggiata del mercoledì o giovedì pomeriggio tra queste vette incantevoli: mi fermo, ringrazio il Signore della vita che mi ha dato, Gli chiedo perdono dei miei difetti, dei miei limiti anche come parroco, perché anche noi parroci siamo difettosi – disse ridendo – e poi Gli chiedo perdono perché sono un bugiardo, ma lo faccio per te, Signore, per stare solo con te un paio d’ore. Questi pomeriggi sono il mio weekend, sono il mio pub, sono la mia playstation, mi ricaricano, e così vado avanti». 

Ci fu un attimo di silenzio, e poi trovai il coraggio di fare quella domanda. «Don Angelo… perché ci ha fatti?». Mi sorrise come si fa con un bambino che ha commesso una marachella e poi iniziò a parlare. «Una volta un uomo si presentò da un rabbino e gli rivolse la stessa domanda che mi ha fatto lei. Il rabbino prese un bastone e cominciò a picchiare quell’uomo sulla schiena, e alla fine lo scacciò urlando che quella era l’unica domanda che non bisognava fare a Dio. Io non ho la sapienza del rabbino e, stia tranquillo, non le spaccherò il mio bastone in testa, ma anch’io penso che dobbiamo accettare il mistero dei disegni del nostro architetto». 

Intuendo probabilmente che ero un po’ deluso dalla sua risposta, aggiunse: «Nel suo caso credo che l’abbia creata per mostrare la pista giusta agli sciatori», poi scoppiò in una fragorosa risata. Mi unii alla risata, ma dentro sentivo che la mia domanda, quella che mi teneva sveglio la notte, non solo non aveva risposta, ma nemmeno gli interlocutori giusti ai quali rivolgerla. Di Dio, poi, non ne parliamo: in quel momento pensai che fosse solo una mia tragica necessità, nulla più. Proprio su quel sentiero, un giorno, avevo pensato che fingendomi prete sarei arrivato più vicino alle risposte: nei libri letti sull’altare avrei trovato la risposta ai miei dubbi, la consuetudine alla preghiera mi avrebbe accostato alla verità. In quella frase di quattro secondi, «Io sono un prete», si è condensata improvvisamente tutta la mia vita – tutto il mio groviglio inestricabile, il mio disordine, la mia mancanza di metodo, le mie angosce, i miei aneliti, la mia voglia di felicità, la mia disperazione – e non sapendo che forma prendere, che strada percorrere, nell’attesa di un ordine da parte della mia volontà, di un cenno di qualcosa che appartenesse al mio io, che facesse per così dire le funzioni del padrone di casa, insomma in assenza di tutto questo, quel magma inconscio decise da sé: parlò per me, senza che io sapessi che cosa aveva in mente. Forse quella parte che prese la parola voleva la mia salvezza più del mio io cosciente. 

Scendemmo verso Staffal in silenzio, le gambe mi facevano più male che a salire, ma le cose più dolenti erano i pensieri. «Che bisogno avevi di crearci? Non Te ne stavi forse immerso nella Tua incalcolabile potenza, non eri così perfetto in ogni attributo che non mancavi di nulla? Che cosa Ti ha spinto, cosa ha mosso la Tua perfetta immobilità? Di cosa hai avuto bisogno ancora, che già non possedevi? Non eri felice in Te stesso? Non sei Tu il padrone, il signore di tutto? Ogni Tuo spazio, anche il più recondito, ogni secondo, ogni ora, anche la più remota, non l’hai pensata Tu, non l’hai creata Tu? Non esiste uno spazio e un tempo che Tu non abbia riempito, vero? Tu sei Colui che sei? Chi Ti minaccia? Sei così forte da aver creato, con l’uomo, il Tuo possibile nemico? Se l’uomo è davvero libero, può non riconoscere il Tuo disegno. E se davvero siamo liberi e non marionette, Tu puoi perire per colpa nostra? Puoi scomparire nel nulla, e noi con Te? Non hai truccato le carte, vero? Stai accettando questa sfida e umilmente Ti metti in gioco alla pari?». 

«Perché accetti questo, perché? Cosa Ti spinge? Cosa si è incrinato nella Tua perfezione? Ti sei separato da Te stesso? Hai diviso Te stesso che sei l’Uno, che sei l’Essere, in miliardi di brandelli? Che cos’hai fatto, che la mia mente non riesce a pensare? Hai bisogno di noi, di me, Dio? Provo a chiederTi cosa Ti ha spinto, nel momento che Ti sei deciso, alla nostra creazione? Ti sei sentito solo? Mi schiaccia, mi opprime e mi assale la nausea a provare a pensare alla Tua presenza eterna, all’essere che è sempre stato e sempre sarà: questo pensiero è di una potenza insuperabile! Ma dall’alto della Tua perfezione assoluta, che nessun occhio può contemplare, ci hai fatti uguali a Te? Immagine di Te? Davvero accetti questa uguaglianza? Che cosa vuoi da noi?».

2/ Il nuovo libro di Giacomo Poretti «Al Paradiso è meglio credere». Antonio, un finto prete sulle tracce dell'aldilà, di Fulvio Panzeri

Riprendiamo da Avvenire del 18/10/2015 una recensione di Fulvio Panzeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

In una dimensione dove il surreale si alterna alla riflessione più profonda, Giacomo Poretti approda al romanzo, con una storia che riflette sul tema del Paradiso e dell’Aldilà, in un modo anticonvenzionale. Infatti quello che ci racconta è un Paradiso immaginato, seguendo le domande dell’uomo contemporaneo, sempre più confuso sia sulla dimensione della fede, sia su quella dell’entità dell’eterno. 

Di fronte alla domanda sul perché Dio abbia creato la vita e alla constatazione che «suscitando la vita con la libertà che ci ha accordato», creando «la possibilità del dolore immenso e terribile: lo spavento metafisico, la sorpresa che sgomenta e atterrisce», Poretti indaga tutta una serie di interrogativi che nascono, non tanto in relazione a chi lo incontra nella fede, risolvendo l’enigma 
e quindi pacificandosi nella speranza del Paradiso, ma che riguardano chi non riesce ad arrivare a questo dono, perché troppo debole o fragile, e si chiede se il suo destino è quello di rimanere per sempre «dentro al dolore cieco e soverchiante». 

Nel romanzo Al Paradiso è meglio credere, in uscita martedì per Mondadori (pp.120, euro 17,50), Giacomo Poretti affronta questi temi alti con un tocco brioso, attraverso una storia che si svolge in un futuro prossimo, nel 2053, quando Antonio Martignoni, vittima di un incidente stradale, si ritrova in Paradiso, dove lo segue una signora affascinante e dove un burocrate celeste, che ha i tratti nientemeno di Jean-Paul Sartre, gli pone numerose domande. A lui sarà affidato un compito particolare, quello di mettere per iscritto su un file, in un tempo dove l’uso della scrittura manuale è proibito, la storia della sua vita; un racconto, il suo, destinato agli uomini rimasti su una Terra arrivata ai limiti della desolazione. 

Infatti il testo è destinato a diventare uno dei tanti 'messaggi in bottiglia' lanciati dal Cielo per gli uomini che sono rimasti nella condizione di dolore e di impossibilità a risolvere l’enigma dell’esistenza. Il file viene ritrovato, nascosto in un vecchio computer, e la sua lettura ci rivelerà il vero volto del Martignoni, un uomo che dopo i trent’anni, stanco della vita, dopo un’ultima passeggiata in montagna, testimone di un tragico incidente, viene colto da una profonda nostalgia della fede, dal desiderio di «spiare Dio da vicino».

Non ha dubbi perciò quando sceglie di assumere la nuova identità del sacerdozio pur nella consapevolezza di essere un finto prete, colto da tanti sensi di colpa, prima come parroco in un paesino ai piedi del Monte Rosa e poi in una Milano tormentata, misteriosa, dove improvvisamente iniziano a scomparire le persone anziane. 

Non raccontiamo di più: lasciamo al lettore la possibilità di scoprire il sorprendente finale di una storia che sembra guardare, in un’ottica tutta italiana, agli esempi del Lewis delle Lettere di Berlicche, ma anche con echi che vanno nella direzione dell’ultimo Evelyn Waugh, dove un certo sarcasmo viene risolto con benevola leggerezza.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Ottobre 2015 - 4:24 pm | | Default
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Addio Mossul, dello scrittore iracheno Majed Aziza

Riprendiamo dal sito CulturaCattolica.it un testo scritto dallo scrittore iracheno cristiano Majed Aziza, tradotto da don Pierre Laurent Cabantous e pubblicato on-line su quel sito il 6/10/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)

Lettera d’addio dello scrittore iracheno cristiano Majed Aziza alla sua città, Mossul, dopo la decisione degli islamisti dell’ISIS di espellere tutti i cristiani

Espulsi lasciamo la nostra città Mossul, umiliati dai detentori del nuovo islam. La lasciamo per la prima volta nella storia. E, partendo, ringraziamo i nostri vicini, vicini che pensavamo ci avrebbero protetto come lo facevano un tempo e che si sarebbero ribellati contro la furia di questi criminali del XXI° secolo, dicendo loro che noi siamo gli autentici figli di questa città e che ne siamo i fondatori.

Ci facciamo coraggio dicendoci che possiamo contare su di loro, fratelli valorosi che mostreranno di che pasta sono fatti (lett. “di che legno si scaldano”).

Ma ci hanno abbandonato, lasciandoci trascinare fuori dalla città, verso l’ignoto. Hanno chiuso gli occhi, mentre lasciavamo dietro di noi la nostra storia, le tombe dei nostri antenati, le nostre case, il nostro patrimonio e tutto ciò che è caro al nostro cuore. Ci hanno abbandonato, mentre dicevamo addio ai nostri quartieri, alla moschea di Giona (che conteneva anche la tomba di questo profeta e che, per questo motivo, è stata distrutta dagli jihadisti dello stato islamico in Iraq e nel Levante (ISIS). Addio anche all’arcivescovado, alla chiesa di Maskinta e a quella d’Ain Kibrit… Addio a tutti voi! Non ci saremo più per le vostre feste e cerimonie, matrimoni e funerali.

La fine dei millenni passati insieme

Addio ai nostri parenti seppelliti a Mossul. Li lasciamo, cacciati dalla nostra città. Ci perdonino se non possiamo andare sulle loro tombe in occasione delle feste religiose. Addio ai resti mortali di mio nonno Elias, del mio zio paterno – padre Mikhail –, ai miei zii materni Ibrahim et Mikhail Haddad che mi hanno trasmesso la passione del giornalismo, addio al mio zio paterno Estefan Aziza, il primo martire della famiglia, addio al convento di San Giorgio, addio ai ponti della mia città, alle sue mura e ai suoi terreni di gioco, alla sua università e al suo centro culturale.

Perdonateci, vecchi amici, fratelli e nobili figli della nostra città. Perdonate le nostre mancanze. Se possiamo aver mancato ai nostri doveri nei vostri confronti ciò non toglie che abbiamo vissuto insieme centinaia, anzi migliaia di anni, costruendo Mossul con il sudore della nostra fronte.

E oggi, ci guardate da lontano, mentre siamo scacciati, umiliati agli occhi di tutti. Gli assassini del Daech (acronimo arabo di ISIS) ci hanno cacciato dalle nostre case e dalle nostre città. Addio a tutti voi. E grazie. Lasciamo, sotto costrizione, una terra che abbiamo nutrito con il nostro sangue.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Ottobre 2015 - 4:23 pm | | Default
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1/ Discorso del Santo Padre a conclusione dei lavori della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi 2/ Relazione finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco, al termine della XIV Assemblea generale ordinaria (4-25 ottobre 2015) sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”

1/ Discorso del Santo Padre a conclusione dei lavori della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco a conclusione dei lavori della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, il 24/10/2015 e la Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco votata nello stesso giorno e approvata subito prima del discorso di papa Francesco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (24/10/2015)

Care Beatitudini, Eminenze, Eccellenze,
cari fratelli e sorelle,

vorrei innanzitutto ringraziare il Signore che ha guidato il nostro cammino sinodale in questi anni con lo Spirito Santo, che non fa mai mancare alla Chiesa il suo sostegno.

Ringrazio davvero di cuore S. Em. il Cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, S. Ecc. Mons. Fabio Fabene, Sotto-segretario, e con loro ringrazio il Relatore S. Em. il Cardinale Peter Erdő e il Segretario Speciale S. Ecc. Mons. Bruno Forte, i Presidenti delegati, gli scrittori, i consultori, i traduttori e tutti coloro che hanno lavorato instancabilmente e con totale dedizione alla Chiesa: grazie di cuore!

Ringrazio tutti voi, cari Padri Sinodali, Delegati Fraterni, Uditori, Uditrici e Assessori, Parroci e famiglie, per la vostra partecipazione attiva e fruttuosa.

Ringrazio anche gli “anonimi” e tutte le persone che hanno lavorato in silenzio contribuendo generosamente ai lavori di questo Sinodo.

Siate sicuri tutti della mia preghiera, affinché il Signore vi ricompensi con l’abbondanza dei suoi doni di grazia!

Mentre seguivo i lavori del Sinodo, mi sono chiesto: che cosa significherà per la Chiesa concludere questo Sinodo dedicato alla famiglia?

Certamente non significa aver concluso tutti i temi inerenti la famiglia, ma aver cercato di illuminarli con la luce del Vangelo, della tradizione e della storia bimillenaria della Chiesa, infondendo in essi la gioia della speranza senza cadere nella facile ripetizione di ciò che è indiscutibile o già detto.

Sicuramente non significa aver trovato soluzioni esaurienti a tutte le difficoltà e ai dubbi che sfidano e minacciano la famiglia, ma aver messo tali difficoltà e dubbi sotto la luce della Fede, averli esaminati attentamente, averli affrontati senza paura e senza nascondere la testa sotto la sabbia.

Significa aver sollecitato tutti a comprendere l’importanza dell’istituzione della famiglia e del Matrimonio tra uomo e donna, fondato sull’unità e sull’indissolubilità, e ad apprezzarla come base fondamentale della società e della vita umana.

Significa aver ascoltato e fatto ascoltare le voci delle famiglie e dei pastori della Chiesa che sono venuti a Roma portando sulle loro spalle i pesi e le speranze, le ricchezze e le sfide delle famiglie di ogni parte del mondo.

Significa aver dato prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente sulla famiglia.

Significa aver cercato di guardare e di leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio, per accendere e illuminare con la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività.

Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri.

Significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite.

Significa aver affermato che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori.

Significa aver cercato di aprire gli orizzonti per superare ogni ermeneutica cospirativa o chiusura di prospettive, per difendere e per diffondere la libertà dei figli di Dio, per trasmettere la bellezza della Novità cristiana, qualche volta coperta dalla ruggine di un linguaggio arcaico o semplicemente non comprensibile.

Nel cammino di questo Sinodo le opinioni diverse che si sono espresse liberamente – e purtroppo talvolta con metodi non del tutto benevoli – hanno certamente arricchito e animato il dialogo, offrendo un’immagine viva di una Chiesa che non usa “moduli preconfezionati”, ma che attinge dalla fonte inesauribile della sua fede acqua viva per dissetare i cuori inariditi[1].

E – aldilà delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo, per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato[2]. Il Sinodo del 1985, che celebrava il 20° anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, ha parlato dell’inculturazione come dell’«intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo, e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane»[3]. L’inculturazione non indebolisce i valori veri, ma dimostra la loro vera forza e la loro autenticità, poiché essi si adattano senza mutarsi, anzi essi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture[4].

Abbiamo visto, anche attraverso la ricchezza della nostra diversità, che la sfida che abbiamo davanti è sempre la stessa: annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, difendendo la famiglia da tutti gli attacchi ideologici e individualistici.

E, senza mai cadere nel pericolo del relativismo oppure di demonizzare gli altri, abbiamo cercato di abbracciare pienamente e coraggiosamente la bontà e la misericordia di Dio che supera i nostri calcoli umani e che non desidera altro che «TUTTI GLI UOMINI SIANO SALVATI» (1 Tm 2,4), per inserire e per vivere questo Sinodo nel contesto dell’Anno Straordinario della Misericordia che la Chiesa è chiamata a vivere.

Cari Confratelli,

l’esperienza del Sinodo ci ha fatto anche capire meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono. Ciò non significa in alcun modo diminuire l’importanza delle formule, delle leggi e dei comandamenti divini, ma esaltare la grandezza del vero Dio, che non ci tratta secondo i nostri meriti e nemmeno secondo le nostre opere, ma unicamente secondo la generosità illimitata della sua Misericordia (cfr Rm 3,21-30; Sal 129; Lc 11,37-54). Significa superare le costanti tentazioni del fratello maggiore (cfr Lc 15,25-32) e degli operai gelosi (cfr Mt 20,1-16). Anzi significa valorizzare di più le leggi e i comandamenti creati per l’uomo e non viceversa (cfr Mc 2,27).

In questo senso il doveroso pentimento, le opere e gli sforzi umani assumono un significato più profondo, non come prezzo dell’inacquistabile Salvezza, compiuta da Cristo gratuitamente sulla Croce, ma come risposta a Colui che ci ha amato per primo e ci ha salvato a prezzo del suo sangue innocente, mentre eravamo ancora peccatori (cfr Rm 5,6).

Il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla salvezza del Signore (cfr Gv 12,44-50).

Il beato Paolo VI, con parole stupende, diceva: «Possiamo quindi pensare che ogni nostro peccato o fuga da Dio accende in Lui una fiamma di più intenso amore, un desiderio di riaverci e reinserirci nel suo piano di salvezza [...]. Dio, in Cristo, si rivela infinitamente buono [...]. Dio è buono. E non soltanto in sé stesso; Dio è – diciamolo piangendo – buono per noi. Egli ci ama, cerca, pensa, conosce, ispira ed aspetta: Egli sarà – se così può dirsi – felice il giorno in cui noi ci volgiamo indietro e diciamo: Signore, nella tua bontà, perdonami. Ecco, dunque, il nostro pentimento diventare la gioia di Dio»[5].

Anche san Giovanni Paolo II affermava che «la Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia […] e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore, di cui essa è depositaria e dispensatrice»[6].

Anche Papa Benedetto XVI disse: «La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio [...] Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo. Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza (cfr Gv 10,10)»[7].

Sotto questa luce e grazie a questo tempo di grazia che la Chiesa ha vissuto, parlando e discutendo della famiglia, ci sentiamo arricchiti a vicenda; e tanti di noi hanno sperimentato l’azione dello Spirito Santo, che è il vero protagonista e artefice del Sinodo. Per tutti noi la parola “famiglia” non suona più come prima, al punto che in essa troviamo già il riassunto della sua vocazione e il significato di tutto il cammino sinodale[8].

In realtà, per la Chiesa concludere il Sinodo significa tornare a “camminare insieme realmente per portare in ogni parte del mondo, in ogni Diocesi, in ogni comunità e in ogni situazione la luce del Vangelo, l’abbraccio della Chiesa e il sostegno della misericordia di Dio!

Grazie!

Note al testo

[1] Cfr Lettera al Gran Cancelliere della “Pontificia Universidad Católica Argentina” nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015.

[2] Cfr Pontificia Commissione Biblica, Fede e cultura alla luce della Bibbia. Atti della Sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica, LDC, Leumann 1981; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 44.

[3] Relazione finale (7 dicembre 1985): L’Osservatore Romano, 10 dicembre 1985, 7.

[4] «In forza della sua missione pastorale, la Chiesa deve mantenersi sempre attenta ai mutamenti storici e all’evoluzione delle mentalità. Non certamente per sottomettervisi, ma per superare gli ostacoli che si possono opporre all’accoglienza dei suoi consigli e delle sue direttive» (Intervista al Card. Georges Cottier ne La Civiltà Cattolica, 3963-3964, 8 agosto 2015, p. 272).

[5] Omelia, 23 giugno 1968: Insegnamenti VI (1968), 1177-1178.

[6] Enc. Dives in misericordia, 13. Disse anche: «Nel mistero pasquale … Dio ci appare per quello che è: un Padre dal cuore tenero, che non si arrende dinanzi all’ingratitudine dei suoi figli ed è sempre disposto al perdono» (Giovanni Paolo II, Regina Coeli, 23 aprile 1995: Insegnamenti XVIII, 1 [1995], 1035). E così descriveva la resistenza alla misericordia: «La mentalità contemporanea, forse più di quella dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende, altresì, ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo» (Lett. Enc. Dives in misericordia [30 novembre 1980], 2).

[7] Regina Coeli, 30 marzo 2008: Insegnamenti IV, 1 (2008), 489-490; e parlando del potere della misericordia afferma: «È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio - la sua santità, il potere della verità e dell’amore» (Omelia nella Domenica della Divina Misericordia, 15 aprile 2007: Insegnamenti III, 1 [2007], 667).

[8] Un’analisi acrostica della parola “famiglia” ci aiuta a riassumere la missione della Chiesa nel compito di:
F
ormare le nuove generazioni a vivere seriamente l’amore non come pretesa individualistica basata solo sul piacere e sull’“usa e getta”, ma per credere nuovamente all’amore autentico, fecondo e perpetuo, come l’unica via per uscire da sé, per aprirsi all’altro, per togliersi dalla solitudine, per vivere la volontà di Dio, per realizzarsi pianamente, per capire che il matrimonio è lo «spazio in cui si manifesta l’amore divino; per difendere la sacralità della vita, di ogni vita; per difendere l’unità e l’indissolubilità del vincolo coniugale come segno della grazia di Dio e della capacità dell’uomo di amare seriamente» (Omelia nella Messa di apertura del Sinodo, 4 ottobre 2015: L’Osservatore Romano, 5-6 ottobre 2015, p. 7) e per valorizzare i corsi prematrimoniali come opportunità di approfondire il senso cristiano del Sacramento del matrimonio;
Andare verso gli altri perché una Chiesa chiusa in sé stessa è una Chiesa morta; una Chiesa che non esce dal proprio recinto per cercare, per accogliere e per condurre tutti verso Cristo è una Chiesa che tradisce la sua missione e la sua vocazione;
Manifestare e diffondere la misericordia di Dio alle famiglie bisognose, alle persone abbandonate, agli anziani trascurati, ai figli feriti dalla separazione dei genitori, alle famiglie povere che lottano per sopravvivere, ai peccatori che bussano alle nostre porte e a quelli lontani, ai diversamente abili e a tutti coloro che si sentono feriti nell’anima e nel corpo e alle coppie lacerate dal dolore, dalla malattia, dalla morte o dalla persecuzione;
Illuminare le coscienze, spesso accerchiate da dinamiche dannose e sottili, che cercano perfino di mettersi al posto di Dio creatore: tali dinamiche devono essere smascherate e combattute nel pieno rispetto della dignità di ogni persona;
Guadagnare e ricostruire con umiltà la fiducia nella Chiesa, seriamente diminuita a causa dei comportamenti e dei peccati dei propri figli; purtroppo la contro-testimonianza e gli scandali commessi all’interno della Chiesa da alcuni chierici hanno colpito la sua credibilità e hanno oscurato il fulgore del suo messaggio salvifico;
Lavorare intensamente per sostenere e incoraggiare le famiglie sane, le famiglie fedeli, le famiglie numerose che nonostante le fatiche quotidiane continuano a dare una grande testimonianza di fedeltà agli insegnamenti della Chiesa e ai comandamenti del Signore;
Ideare una rinnovata pastorale famigliare che si basi sul Vangelo e rispetti le diversità culturali; una pastorale capace di trasmettere la Buona Novella con linguaggio attraente e gioioso e di togliere dai cuori dei giovani la paura di assumere impegni definitivi; una pastorale che presti una attenzione particolare ai figli che sono le vere vittime delle lacerazioni famigliari; una pastorale innovativa che attui una preparazione adeguata al Sacramento matrimoniale e sospenda le pratiche vigenti che spesso curano più l’apparenza di una formalità che un’educazione a un impegno che duri per tutta la vita;
Amare incondizionatamente tutte le famiglie e in particolare quelle che attraversano un momento di difficoltà: nessuna famiglia deve sentirsi sola o esclusa dall’amore o dall’abbraccio della Chiesa; il vero scandalo è la paura di amare e di manifestare concretamente questo amore.

2/ Relazione finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco, al termine della XIV Assemblea generale ordinaria (4-25 ottobre 2015) sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”

Indice

SIGLE

AA Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Apostolicam Actuositatem   (18 novembre 1965)
AG Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Ad Gentes (7 dicembre   1965)
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica (15 agosto 1997)
CiV Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate (29 giugno   2009)
DC Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Istruzione Dignitas   Connubii (25 gennaio 2005)
DCE Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est (25 dicembre   2005)
DeV San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Dominum et Vivificantem   (18 maggio 1986)
GS Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes   (7 dicembre 1965)
EdE San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia   (17 aprile 2003)
EG Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (24 novembre   2013)
EN Beato Paolo VI, Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi (8   dicembre 1975)
EV San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae (25   marzo 1995)
FC San Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio   (22 novembre 1981)
IL III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Le sfide   pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, Instrumentum   Laboris (24 giugno 2014)
LF Francesco, Lettera Enciclica Lumen Fidei (29 giugno 2013)
LG Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium   (21 novembre1964)
LS Francesco, Enciclica Laudato Si' (24 maggio 2015)
MV Francesco, Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015)
NA Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Nostra Aetate (28 ottobre   1965)
NMI San Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte   (6 gennaio 2001)
RM San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris Missio (7   dicembre 1990)
VS San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Veritatis Splendor (6   agosto 1993)

INTRODUZIONE

1. Noi Padri, riuniti in Sinodo intorno a Papa Francesco, Lo ringraziamo per averci convocato a riflettere con Lui, e sotto la Sua guida, sulla vocazione e la missione della famiglia oggi. A Lui offriamo il frutto del nostro lavoro con umiltà, nella consapevolezza dei limiti che esso presenta. Possiamo tuttavia affermare che abbiamo costantemente tenuto presenti le famiglie del mondo, con le loro gioie e speranze, con le loro tristezze e angosce. I discepoli di Cristo sanno che «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS, 1). Ringraziamo il Signore per la generosa fedeltà con cui tante famiglie cristiane rispondono alla loro vocazione e missione, anche dinanzi a ostacoli, incomprensioni e sofferenze. A queste famiglie va l’incoraggiamento di tutta la Chiesa che unita al suo Signore e sorretta dall’azione dello Spirito, sa di avere una parola di verità e di speranza da rivolgere a tutti gli uomini. Lo ha ricordato Papa Francesco nella celebrazione con cui si è aperta l’ultima tappa di questo cammino sinodale dedicato alla famiglia: «Dio non ha creato l’essere umano per vivere in tristezza o per stare solo, ma per la felicità, per condividere il suo cammino con un’altra persona che gli sia complementare […]. È lo stesso disegno che Gesù […] riassume con queste parole: “Dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne” (Mc 10,6-8; cf. Gen 1,27; 2,24)». Dio «unisce i cuori di un uomo e una donna che si amano e li unisce nell’unità e nell’indissolubilità. Ciò significa che l’obiettivo della vita coniugale non è solamente vivere insieme per sempre, ma amarsi per sempre! Gesù ristabilisce così l’ordine originario ed originante. […] solo alla luce della follia della gratuità dell’amore pasquale di Gesù apparirà comprensibile la follia della gratuità di un amore coniugale unico e usque ad mortem» (Omelia della Messa di apertura del Sinodo, 4 ottobre 2015).

2. Grembo di gioie e di prove, la famiglia è la prima e fondamentale “scuola di umanità” (cf. GS, 52). Nonostante i segnali di crisi dell’istituto familiare, nei vari contesti, il desiderio di famiglia resta vivo nelle giovani generazioni. La Chiesa, esperta in umanità e fedele alla sua missione, annuncia con convinzione profonda il “Vangelo della famiglia”: ricevuto con la Rivelazione di Gesù Cristo e ininterrottamente insegnato dai Padri, dai Maestri della spiritualità e dal Magistero della Chiesa. La famiglia assume per il cammino della Chiesa un’importanza speciale: «Tanto era l’amore che [Dio] ha incominciato a camminare con l’umanità, ha incominciato a camminare con il suo popolo, finché giunse il momento maturo e diede il segno più grande del suo amore: il suo Figlio. E suo Figlio dove lo ha mandato? In un palazzo? In una città? A fare un’impresa? L’ha mandato in una famiglia. Dio è entrato nel mondo in una famiglia. E ha potuto farlo perché quella famiglia era una famiglia che aveva il cuore aperto all’amore, aveva le porta aperte» (Francesco, Discorso alla Festa delle Famiglie, Philadelphia, 27 settembre 2015). Le famiglie di oggi sono inviate come “discepoli missionari” (cf. EG, 120). In questo senso è necessario che la famiglia si riscopra come soggetto imprescindibile per l’evangelizzazione.

3. Sulla realtà della famiglia, il Papa ha chiamato a riflettere il Sinodo dei Vescovi. «Già il convenire in unum attorno al Vescovo di Roma è evento di grazia, nel quale la collegialità episcopale si manifesta in un cammino di discernimento spirituale e pastorale» (Francesco, Discorso in occasione della Veglia di preghiera in preparazione al Sinodo Straordinario sulla famiglia, 4 ottobre 2014). Nell’arco di due anni si sono svolte l’Assemblea Generale Straordinaria (2014) e l’Assemblea Generale Ordinaria (2015), che hanno assunto il compito di ascolto dei segni di Dio e della storia degli uomini, nella fedeltà al Vangelo. Il frutto del primo appuntamento sinodale, al quale il Popolo di Dio ha dato il suo importante contributo, è confluito nella Relatio Synodi. Il nostro dialogo e la nostra riflessione sono stati ispirati da un triplice atteggiamento. L’ascolto della realtà della famiglia oggi, nella prospettiva della fede, con la complessità delle sue luci e delle sue ombre. Lo sguardo sul Cristo, per ripensare con rinnovata freschezza ed entusiasmo la rivelazione, trasmessa nella fede della Chiesa. Il confronto nello Spirito Santo, per discernere le vie con cui rinnovare la Chiesa e la società nel loro impegno per la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. L’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia. La famiglia, oltre che sollecitata a rispondere alle problematiche odierne, è soprattutto chiamata da Dio a prendere sempre nuova coscienza della propria identità missionaria. L’Assemblea sinodale è stata arricchita dalla presenza di coppie e di famiglie all’interno di un dibattito che le riguarda direttamente. Conservando il prezioso frutto dell’Assemblea precedente, dedicato alle sfide sulla famiglia, abbiamo rivolto lo sguardo alla sua vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo contemporaneo.

I PARTE
LA CHIESA IN ASCOLTO DELLA FAMIGLIA

4. Il mistero della creazione della vita sulla terra ci riempie di incanto e stupore. La famiglia basata sul matrimonio dell’uomo e della donna è il luogo magnifico e insostituibile dell’amore personale che trasmette la vita. L’amore non si riduce all’illusione del momento, l’amore non è fine a se stesso, l’amore cerca l’affidabilità di un “tu” personale. Nella promessa reciproca di amore, nella buona e nella cattiva sorte, l’amore vuole continuità di vita, fino alla morte. Il desiderio fondamentale di formare la rete amorevole, solida ed intergenerazionale della famiglia si presenta significativamente costante, al di là dei confini culturali e religiosi e dei cambiamenti sociali. Nella libertà del “sì” scambiato dall’uomo e dalla donna per tutta la vita, si fa presente e si sperimenta l’amore di Dio. Per la fede cattolica il matrimonio è segno sacro in cui diventa efficace l’amore di Dio per la sua Chiesa. La famiglia cristiana pertanto è parte della Chiesa vissuta: una “Chiesa domestica”.

La coppia e la vita nel matrimonio non sono realtà astratte, rimangono imperfette e vulnerabili. Per questo è sempre necessaria la volontà di convertirsi, di perdonare e di ricominciare. Nella nostra responsabilità, come Pastori, ci preoccupiamo per la vita delle famiglie. Desideriamo prestare ascolto alla loro realtà di vita e alle loro sfide, ed accompagnarli con lo sguardo amorevole del Vangelo. Desideriamo dare loro forza ed aiutarle a cogliere la loro missione oggi. Desideriamo accompagnarle con cuore grande anche nelle loro preoccupazioni, dando loro coraggio e speranza a partire dalla misericordia di Dio.

Capitolo I
La famiglia e il contesto antropologico-culturale

Il contesto socio-culturale

5. Docili a ciò che lo Spirito Santo ci chiede, ci avviciniamo alle famiglie di oggi nella loro diversità, sapendo che «Cristo, il nuovo Adamo […] rivela pienamente l’uomo a se stesso» (GS, 22).Volgiamo la nostra attenzione alle sfide contemporanee che influiscono su molteplici aspetti della vita. Siamo consapevoli dell’orientamento principale dei cambiamenti antropologico-culturali, in ragione dei quali gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali nella loro vita affettiva e familiare. D’altra parte, bisogna egualmente considerare gli sviluppi di un individualismo esasperato che snatura i legami familiari, facendo prevalere l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri, togliendo forza ad ogni legame. Pensiamo alle madri e ai padri, ai nonni, ai fratelli e alle sorelle, ai parenti prossimi e lontani, e al legame tra due famiglie che tesse ogni matrimonio. Non dobbiamo tuttavia dimenticare la realtà vissuta: la solidità dei legami familiari continua ovunque a tenere in vita il mondo. Rimane grande la dedizione alla cura della dignità di ogni persona – uomo, donna e bambini –, dei gruppi etnici e delle minoranze, così come alla difesa dei diritti di ogni essere umano di crescere in una famiglia. La loro fedeltà non è onorata se non si riafferma una chiara convinzione del valore della vita familiare, in particolare facendo affidamento alla luce del Vangelo anche nelle diverse culture. Siamo consapevoli dei forti cambiamenti che il mutamento antropologico culturale in atto determina in tutti gli aspetti della vita, e rimaniamo fermamente persuasi che la famiglia sia dono di Dio, il luogo in cui Egli rivela la potenza della sua grazia salvifica. Anche oggi il Signore chiama l’uomo e la donna al matrimonio, li accompagna nella loro vita familiare e si offre ad essi come dono ineffabile; è uno dei segni dei tempi che la Chiesa è chiamata a scrutare e interpretare «alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico» (GS, 4).

Il contesto religioso

6. La fede cristiana è forte e viva. In alcune regioni del mondo, si osserva una rilevante contrazione dell’incidenza religiosa nello spazio sociale, che influisce sulla vita delle famiglie. Questo orientamento tende a relegare la dimensione religiosa nella sfera privata e familiare, e rischia di ostacolare la testimonianza e la missione delle famiglie cristiane nel mondo attuale. Nei contesti sociali di benessere avanzato, le persone rischiano di affidare ogni speranza alla esasperata ricerca del successo sociale e della prosperità economica. In altre regioni del mondo, gli effetti negativi di un ordine economico mondiale ingiusto inducono a forme di religiosità esposte a estremismi settari e radicali. Occorre pure menzionare i movimenti animati dal fanatismo politico-religioso, spesso ostile al cristianesimo. Creando instabilità e seminando disordine e violenza, essi sono causa di tante miserie e sofferenze per la vita delle famiglie. La Chiesa è chiamata ad accompagnare la religiosità vissuta nelle famiglie per orientarla verso un senso evangelico.

Il cambiamento antropologico

7. Nelle diverse culture, la relazione e l’appartenenza sono valori importanti che forgiano l’identità degli individui. La famiglia offre la possibilità alla persona di realizzarsi e di contribuire alla crescita degli altri nella società più ampia. La stessa identità cristiana ed ecclesiale ricevuta nel Battesimo fiorisce nella bellezza della vita familiare. Nella società odierna si osservano una molteplicità di sfide che si manifestano in misura maggiore o minore in varie parti del mondo. Nelle diverse culture, non pochi giovani mostrano resistenza agli impegni definitivi riguardanti le relazioni affettive, e spesso scelgono di convivere con un partner o semplicemente di avere relazioni occasionali. La diminuzione della natalità è il risultato di vari fattori, tra cui l’industrializzazione, la rivoluzione sessuale, il timore della sovrappopolazione, i problemi economici, la crescita di una mentalità contraccettiva e abortista. La società dei consumi può anche dissuadere le persone dall’avere figli anche solo per mantenere la loro libertà e il proprio stile di vita. Alcuni cattolici hanno difficoltà a condurre le loro vite in accordo con l’insegnamento della Chiesa cattolica sul matrimonio e la famiglia, e a vedere in tale insegnamento la bontà del progetto creativo di Dio per loro. I matrimoni in alcune parti del mondo diminuiscono, mentre le separazioni e i divorzi non sono rari.

Le contraddizioni culturali

8. Le condizioni culturali che agiscono sulla famiglia mostrano in grandi aree del mondo un quadro contrastante, anche sotto l’influenza massiccia dei media. Da un lato, il matrimonio e la famiglia godono di grande stima ed è tuttora dominante l’idea che la famiglia rappresenti il porto sicuro dei sentimenti più profondi e più gratificanti. Dall’altro lato, tale immagine ha talvolta i tratti di aspettative eccessive e di conseguenza di pretese reciproche esagerate. Le tensioni indotte da una esasperata cultura individualistica del possesso e del godimento generano all’interno delle famiglie dinamiche di insofferenza e di aggressività. Si può menzionare anche una certa visione del femminismo, che denuncia la maternità come un pretesto per lo sfruttamento della donna e un ostacolo alla sua piena realizzazione. Si registra poi la crescente tendenza a concepire la generazione di un figlio come mero strumento per l’affermazione di sé, da ottenere con qualsiasi mezzo.

Una sfida culturale odierna di grande rilievo emerge da quell’ideologia del “gender” che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo. Nella visione della fede, la differenza sessuale umana porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio (cf. Gn 1,26-27). «Questo ci dice che non solo l’uomo preso a sé è immagine di Dio, non solo la donna presa a sé è immagine di Dio, ma anche l’uomo e la donna, come coppia, sono immagine di Dio. […] Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione – nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna. La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. […] La rimozione della differenza […]è il problema, non la soluzione» (Francesco, Udienza generale, 15 aprile 2015).

Conflitti e tensioni sociali

9. La qualità affettiva e spirituale della vita familiare è gravemente minacciata dalla moltiplicazione dei conflitti, dall’impoverimento delle risorse, dai processi migratori. Violente persecuzioni religiose, particolarmente nei riguardi delle famiglie cristiane devastano zone intere del nostro pianeta, creando movimenti di esodo e di immense ondate di rifugiati che esercitano grandi pressioni sulle capacità delle terre di accoglienza. Le famiglie provate in questo modo, molto spesso, sono forzate allo sradicamento e condotte alla soglia della dissoluzione. La fedeltà dei cristiani alla loro fede, la loro pazienza e il loro attaccamento ai paesi di origine è sotto ogni aspetto ammirevole. Gli sforzi di tutti i responsabili politici e religiosi per diffondere e proteggere la cultura dei diritti dell’uomo sono ancora insufficienti. Bisogna ancora rispettare la libertà di coscienza e promuovere la coesistenza armoniosa tra tutti i cittadini fondata sulla cittadinanza, l’uguaglianza e la giustizia. Il peso di politiche economiche e sociali inique, anche nelle società del benessere, incide gravemente sul mantenimento dei figli, sulla cura dei malati e degli anziani. La dipendenza dall’alcol, dalle droghe o dal gioco d’azzardo è talora espressione di queste contraddizioni sociali e del disagio che ne consegue nella vita delle famiglie. L’accumulo di ricchezza nelle mani di pochi e la distrazione di risorse destinate al progetto familiare accrescono l’impoverimento delle famiglie in molte regioni del mondo.

Fragilità e forza della famiglia

10. La famiglia, fondamentale comunità umana, nell’odierna crisi culturale e sociale, patisce dolorosamente il suo indebolimento e la sua fragilità. Nondimeno essa mostra di poter trovare in se stessa il coraggio di fronteggiare l’inadeguatezza e la latitanza delle istituzioni nei confronti della formazione della persona, della qualità del legame sociale, della cura dei soggetti più vulnerabili. È dunque particolarmente necessario apprezzare adeguatamente la forza della famiglia, per poterne sostenere le fragilità. Una tale forza risiede essenzialmente nella sua capacità di amare e di insegnare ad amare. Per quanto ferita possa essere una famiglia, essa può sempre crescere a partire dall’amore.

Capitolo II
La famiglia e il contesto socio-economico

La famiglia insostituibile risorsa della società

11. «La famiglia è una scuola di umanità più ricca [...] è il fondamento della società» (GS, 52).L’insieme dei rapporti di parentela, al di là del ristretto nucleo familiare, offre un prezioso sostegno nell’educazione dei figli, nella trasmissione dei valori, nella custodia dei legami tra le generazioni, nell’arricchimento di una spiritualità vissuta. Mentre in alcune regioni del mondo questo dato appartiene profondamente alla cultura sociale diffusa, altrove esso appare soggetto a logoramento. Di certo, in un’epoca di accentuata frammentazione delle situazioni di vita, i molteplici livelli e le sfaccettature delle relazioni tra familiari e parenti costituiscono spesso gli unici punti di connessione con le origini e i legami familiari. Il sostegno della rete familiare è ancor più necessario dove mobilità lavorativa, migrazioni, catastrofi e fuga dalla propria terra compromettono la stabilità del nucleo parentale.

Politiche in favore della famiglia

12. Le autorità responsabili del bene comune debbono sentirsi seriamente impegnate nei confronti di questo bene sociale primario che è la famiglia. La preoccupazione che deve guidare l’amministrazione della società civile è quella di permettere e promuovere politiche familiari che sostengano e incoraggino le famiglie, in primo luogo quelle più disagiate. È necessario riconoscere più concretamente l’azione compensativa della famiglia nel contesto dei moderni “sistemi di welfare”: essa ridistribuisce risorse e svolge compiti indispensabili al bene comune, contribuendo a riequilibrare gli effetti negativi della disequità sociale. «La famiglia merita una speciale attenzione da parte dei responsabili del bene comune, perché è la cellula fondamentale della società, che apporta legami solidi di unione sui quali si basa la convivenza umana e, con la generazione e l’educazione dei suoi figli, assicura il rinnovamento e il futuro della società» (Francesco, Discorso all’Aeroporto di El Alto in Bolivia, 8 luglio 2015).

Solitudine e precarietà

13. Nei contesti culturali in cui le relazioni sono rese fragili da stili di vita egoistici, la solitudine diventa sempre più una condizione diffusa. Spesso solo il senso della presenza di Dio sostiene le persone dinanzi a questo vuoto. La sensazione generale di impotenza nei confronti di una realtà socio-economica opprimente, della crescente povertà e della precarietà lavorativa, impone sempre più spesso la ricerca di impiego lontano dalla famiglia, al fine di poterla sostenere. Tale necessità determina lunghe assenze e separazioni che indeboliscono le relazioni e isolano i membri della famiglia gli uni dagli altri. È responsabilità dello Stato creare le condizioni legislative e di lavoro per garantire l’avvenire dei giovani e aiutarli a realizzare il loro progetto di fondare una famiglia. La corruzione, che mina talvolta queste istituzioni, intacca profondamente la fiducia e la speranza delle nuove generazioni, e non solo di esse. Le conseguenze negative di questa sfiducia sono evidenti: dalla crisi demografica alle difficoltà educative, dalla fatica nell’accogliere la vita nascente all’avvertire la presenza degli anziani come un peso, fino al diffondersi di un disagio affettivo che talvolta sfocia nella aggressività e nella violenza.

Economia ed equità

14. Il condizionamento materiale ed economico ha un influsso sulla vita familiare nei due sensi: può contribuire alla sua crescita e facilitare il suo sbocciare oppure ostacolare il suo fiorire, la sua unità e la sua coerenza. Le coercizioni economiche escludono l’accesso delle famiglie all’educazione, alla vita culturale e alla vita sociale attiva. L’attuale sistema economico produce diverse forme di esclusione sociale. Le famiglie soffrono in modo particolare i problemi che riguardano il lavoro. Le possibilità per i giovani sono poche e l’offerta di lavoro è molto selettiva e precaria. Le giornate lavorative sono lunghe e spesso appesantite da lunghi tempi di trasferta. Questo non aiuta i familiari a ritrovarsi tra loro e con i figli, in modo da alimentare quotidianamente le loro relazioni. La «crescita in equità» esige «decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate» (EG, 204) e una promozione integrale dei poveri diventi effettiva. Politiche familiari adeguate sono necessarie alla vita familiare come condizione di un avvenire vivibile, armonioso e degno.

Povertà ed esclusione

15. Alcuni gruppi sociali e religiosi si trovano ovunque ai margini della società: migranti, zingari, senzatetto, profughi e rifugiati, gli intoccabili secondo il sistema delle caste e coloro che sono affetti da malattie con stigma sociale. Anche la Santa famiglia di Nazaret ha conosciuto l’esperienza amara della emarginazione e del rifiuto (cf. Lc 2,7; Mt 2,13-15). La parola di Gesù sul giudizio finale, a tale riguardo, è inequivocabile: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il sistema economico attuale produce nuovi tipi di esclusione sociale, che rendono spesso i poveri invisibili agli occhi della società. La cultura dominante e i mezzi di comunicazione contribuiscono ad aggravare questa invisibilità. Ciò accade perché: «in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza!» (Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro mondiale dei movimenti popolari, 28 ottobre 2014). In tale quadro, desta particolare preoccupazione la condizione dei bambini: vittime innocenti dell’esclusione, che li rende veri e propri “orfani sociali” e li segna tragicamente per tutta la vita. Nonostante le enormi difficoltà che incontrano, molte famiglie povere ed emarginate si sforzano di vivere con dignità nella loro vita quotidiana, affidandosi a Dio che non delude e non abbandona nessuno.

Ecologia e famiglia

16. La Chiesa, grazie all’impulso del magistero pontificio, auspica un profondo ripensamento dell’orientamento del sistema mondiale. In questa prospettiva, collabora allo sviluppo di una nuova cultura ecologica: un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità. Dal momento che tutto è intimamente connesso, come afferma Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si', è necessario approfondire gli aspetti di una “ecologia integrale” che includa non solo le dimensioni ambientali, ma anche quelle umane, sociali ed economiche, per lo sviluppo sostenibile e la custodia del creato. La famiglia, che fa parte in modo rilevante dell’ecologia umana, deve essere adeguatamente protetta (cf. Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 38). Per mezzo della famiglia apparteniamo all’insieme della creazione, contribuiamo in modo specifico a promuovere la cura ecologica, impariamo il significato della corporeità e il linguaggio amorevole della differenza uomo-donna e collaboriamo al disegno del Creatore (cf. LS, 5, 155). La consapevolezza di tutto questo esige una vera e propria conversione da attuare in famiglia. In essa «si coltivano le prime abitudini di amore e cura per la vita, come per esempio l’uso corretto delle cose, l’ordine e la pulizia, il rispetto per l’ecosistema locale e la protezione di tutte le creature. La famiglia è il luogo della formazione integrale, dove si dispiegano i diversi aspetti, intimamente relazionati tra loro, della maturazione personale» (LS, 213).

Capitolo III
Famiglia, inclusione e società

La terza età

17. Uno dei compiti più gravi e urgenti della famiglia cristiana è di custodire il legame tra le generazioni per la trasmissione della fede e dei valori fondamentali della vita. La maggior parte delle famiglie rispetta gli anziani, li circonda di affetto e li considera una benedizione. Uno speciale apprezzamento va alle associazioni e ai movimenti familiari che operano in favore degli anziani, sotto l’aspetto spirituale e sociale, in particolare in collaborazione con i sacerdoti in cura di anime. In alcuni contesti, gli anziani sono percepiti come una ricchezza in quanto assicurano la stabilità, la continuità e la memoria delle famiglie e delle società. Nelle società altamente industrializzate, ove il loro numero tende ad aumentare mentre decresce la natalità, essi rischiano di essere percepiti come un peso. D’altra parte le cure che essi richiedono mettono spesso a dura prova i loro cari. «Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna. Sono uomini e donne dai quali abbiamo ricevuto molto. L’anziano non è un alieno. L’anziano siamo noi: fra poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se noi non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno a noi» (Francesco, Udienza generale, 4 marzo 2015).

18. La presenza dei nonni in famiglia merita una peculiare attenzione. Essi costituiscono l’anello di congiunzione tra le generazioni, e assicurano un equilibrio psico-affettivo attraverso la trasmissione di tradizioni e di abitudini, di valori e virtù, in cui i più giovani possono riconoscere le proprie radici. Inoltre, i nonni collaborano con frequenza con i loro figli nelle questioni economiche, educative e nella trasmissione della fede ai nipoti. Molte persone possono constatare che proprio ai nonni debbono la loro iniziazione alla vita cristiana. Come dice il libro del Siracide: «Non trascurare i discorsi dei vecchi, perché anch’essi hanno imparato dai loro padri; da loro imparerai il discernimento e come rispondere nel momento del bisogno» (Sir 8,9). Auspichiamo che nella famiglia, nel succedersi delle generazioni, la fede sia comunicata e custodita come preziosa eredità per i nuovi nuclei familiari.

La vedovanza

19. La vedovanza è un’esperienza particolarmente difficile per chi ha vissuto la scelta matrimoniale e la vita familiare come dono. Essa, tuttavia, presenta allo sguardo della fede diverse possibilità da valorizzare. Nel momento in cui si trovano a vivere questa esperienza, alcuni mostrano di saper riversare le proprie energie con ancor più dedizione sui figli e i nipoti, trovando in questa espressione di amore una nuova missione educativa. Il vuoto lasciato dal coniuge scomparso, in certo senso, è colmato dall’affetto dei familiari che valorizzano le persone vedove, consentendo loro di custodire così anche la preziosa memoria del proprio matrimonio. Coloro che non possono contare sulla presenza di familiari a cui dedicarsi e dai quali ricevere affetto e vicinanza, devono essere sostenuti dalla comunità cristiana con particolare attenzione e disponibilità, soprattutto se si trovano in condizioni di indigenza. Le persone vedove possono celebrare una nuova unione sacramentale senza nulla togliere al valore del precedente matrimonio (cf. 1 Cor 7,39). All’inizio e nello sviluppo della sua storia, la Chiesa ha manifestato un’attenzione speciale nei confronti delle vedove (cf. 1Tim 5,3-16), giungendo persino a istituire l’“ordo viduarum”, che potrebbe oggi venir ristabilito.

L’ultima stagione della vita e il lutto in famiglia

20. La malattia, l’infortunio o la vecchiaia che conducono alla morte si ripercuotono su tutta la vita familiare. L’esperienza del lutto diventa particolarmente lacerante quando la perdita riguarda i piccoli e i giovani. Questa dolorosa esperienza richiede una speciale attenzione pastorale anche attraverso il coinvolgimento della comunità cristiana. La valorizzazione della fase conclusiva della vita è oggi tanto più necessaria quanto più si tenta di rimuovere in ogni modo il momento del trapasso. La fragilità e dipendenza dell’anziano talora vengono sfruttate iniquamente per mero vantaggio economico. Numerose famiglie ci insegnano che è possibile affrontare le ultime tappe della vita valorizzando il senso del compimento e dell’integrazione dell’intera esistenza nel mistero pasquale. Un gran numero di anziani è accolto in strutture ecclesiali dove possono vivere in un ambiente sereno e familiare sul piano materiale e spirituale. L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. La loro pratica è legale in molti Stati. La Chiesa, mentre contrasta fermamente queste prassi, sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati, e di promuovere in ogni modo la dignità e il valore della persona fino al termine naturale della vita.

Persone con bisogni speciali

21. Uno sguardo speciale occorre rivolgere alle famiglie delle persone con disabilità, in cui l’handicap, che irrompe nella vita, genera una sfida, profonda e inattesa, e sconvolge gli equilibri, i desideri, le aspettative. Ciò determina emozioni contrastanti e decisioni difficili da gestire ed elaborare, mentre impone compiti, urgenze e nuove responsabilità. L’immagine familiare e l’intero suo ciclo vitale vengono profondamente turbati. Meritano grande ammirazione le famiglie che accettano con amore la difficile prova di un figlio disabile. Esse danno alla Chiesa e alla società una testimonianza preziosa di fedeltà al dono della vita. La famiglia potrà scoprire, insieme alla comunità cristiana, nuovi gesti e linguaggi, forme di comprensione e di identità, nel cammino di accoglienza e cura del mistero della fragilità. Le persone con disabilità costituiscono per la famiglia un dono e un’opportunità per crescere nell’amore, nel reciproco aiuto e nell’unità. La Chiesa, famiglia di Dio, desidera essere casa accogliente per le famiglie con persone disabili (cf. Giovanni Paolo II, Omelia in occasione del Giubileo della comunità con i disabili, 3 dicembre 2000). Essa collabora a sostenere la loro relazione ed educazione familiare, e offre cammini di partecipazione alla vita liturgica della comunità. Per diversi disabili abbandonati o rimasti soli le istituzioni ecclesiali di accoglienza costituiscono spesso l’unica famiglia. Ad esse il Sinodo esprime viva gratitudine e profondo apprezzamento. Tale processo di integrazione risulta più difficile in quelle società in cui perdura lo stigma e il pregiudizio – persino teorizzato in chiave eugenetica. Per contro, molte famiglie, comunità e movimenti ecclesiali scoprono e celebrano i doni di Dio nelle persone con bisogni speciali, particolarmente la loro singolare capacità di comunicazione e di aggregazione. Una speciale attenzione va rivolta alle persone disabili che sopravvivono ai loro genitori e alla famiglia più ampia che li ha sostenuti lungo la vita. La morte di coloro da cui sono stati amati e che essi hanno amato li rende particolarmente vulnerabili. La famiglia che accetta con lo sguardo della fede la presenza di persone con disabilità potrà riconoscere e garantire la qualità e il valore di ogni vita, con i suoi bisogni, i suoi diritti e le sue opportunità. Essa solleciterà servizi e cure, e promuoverà compagnia ed affetto, in ogni fase della vita.

Le persone non sposate

22. Molte persone che vivono senza sposarsi non soltanto sono dedite alla propria famiglia d’origine, ma spesso rendono grandi servizi nella loro cerchia di amici, nella comunità ecclesiale e nella vita professionale. Nondimeno, la loro presenza e il loro contributo sono spesso trascurati, e questo procura loro un certo senso di isolamento. Fra di esse, non di rado, si possono trovare nobili motivazioni che li impegnano totalmente nell’arte, nella scienza e per il bene dell’umanità. Molti, poi, mettono i loro talenti a servizio della comunità cristiana nel segno della carità e del volontariato. Vi sono poi coloro che non si sposano perché consacrano la vita per amore di Cristo e dei fratelli. Dalla loro dedizione, la famiglia, nella Chiesa e nella società, è grandemente arricchita.

Migranti, profughi, perseguitati

23. Merita particolare attenzione pastorale l’effetto del fenomeno migratorio sulla famiglia. Esso tocca, con modalità differenti, intere popolazioni, in diverse parti del mondo. La Chiesa ha esercitato in questo campo un ruolo di primo piano. La necessità di mantenere e sviluppare questa testimonianza evangelica (cf. Mt 25,35) appare oggi più che mai urgente. La storia dell’umanità e una storia di migranti: questa verità è inscritta nella vita dei popoli e delle famiglie. Anche la nostra fede lo ribadisce: siamo tutti dei pellegrini. Questa convinzione deve suscitare in noi comprensione, apertura e responsabilità davanti alla sfida della migrazione, tanto di quella vissuta con sofferenza, quanto di quella pensata come opportunità per la vita. La mobilità umana, che corrisponde al naturale movimento storico dei popoli, può rivelarsi un’autentica ricchezza tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie. Altra cosa è la migrazione forzata delle famiglie, frutto di situazioni di guerra, di persecuzione, di povertà, di ingiustizia, segnata dalle peripezie di un viaggio che mette spesso in pericolo la vita, traumatizza le persone e destabilizza le famiglie. L’accompagnamento dei migranti esige una pastorale specifica rivolta alle famiglie in migrazione, ma anche ai membri dei nuclei familiari rimasti nei luoghi d’origine. Ciò deve essere attuato nel rispetto delle loro culture, della formazione religiosa ed umana da cui provengono, della ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni, anche mediante una cura pastorale specifica. «È importante guardare ai migranti non soltanto in base alla loro condizione di regolarità o di irregolarità, ma soprattutto come persone che, tutelate nella loro dignità, possono contribuire al benessere e al progresso di tutti, in particolar modo quando assumono responsabilmente dei doveri nei confronti di chi li accoglie, rispettando con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che li ospita, obbedendo alle sue leggi e contribuendo ai suoi oneri» (Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale dei migranti e del rifugiato 2016, 12 settembre 2015). Le migrazioni appaiono particolarmente drammatiche e devastanti per le famiglie e per gli individui quando hanno luogo al di fuori della legalità e sono sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani. Lo stesso può dirsi quando riguardano donne o bambini non accompagnati, costretti a soggiorni prolungati nei luoghi di passaggio, nei campi profughi, dove è impossibile avviare un percorso di integrazione. La povertà estrema e altre situazioni di disgregazione inducono talvolta le famiglie perfino a vendere i propri figli per la prostituzione o per il traffico di organi.

24. L’incontro con un nuovo paese e una nuova cultura è reso tanto più difficile quando non vi siano condizioni di autentica accoglienza e accettazione, nel rispetto dei diritti di tutti e di una convivenza pacifica e solidale. Questo compito interpella direttamente la comunità cristiana: «la responsabilità di offrire accoglienza, solidarietà e assistenza ai rifugiati è innanzitutto della Chiesa locale. Essa è chiamata ad incarnare le esigenze del Vangelo andando incontro, senza distinzioni, a queste persone nel momento del bi­sogno e della solitudine» (Pontificio Consiglio Cor Unum e Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti, I Rifugiati, una sfida alla solidarietà, 26). Il senso di spaesamento, la nostalgia delle origini perdute e le difficoltà di integrazione mostrano oggi, in molti contesti, di non essere superati e svelano sofferenze nuove anche nella seconda e terza generazione di famiglie migranti, alimentando fenomeni di fondamentalismo e di rigetto violento da parte della cultura ospitante. Una risorsa preziosa per il superamento di queste difficoltà si rivela proprio l’incontro tra famiglie, e un ruolo chiave nei processi di integrazione è svolto spesso dalle donne, attraverso la condivisione dell’esperienza di crescita dei propri figli. In effetti, anche nella loro situazione di precarietà, esse danno testimonianza di una cultura dell’amore familiare che incoraggia le altre famiglie ad accogliere e custodire la vita, praticando la solidarietà. Le donne possono trasmettere alle nuove generazioni la fede viva nel Cristo, che le ha sostenute nella difficile esperienza della migrazione e ne è stata rafforzata. Le persecuzioni dei cristiani, come anche quelle di minoranze etniche e religiose, in diverse parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, rappresentano una grande prova: non solo per la Chiesa, ma anche per l’intera comunità internazionale. Ogni sforzo va sostenuto per favorire la permanenza di famiglie e comunità cristiane nelle loro terre di origine. Benedetto XVI ha affermato: «Un Medio Oriente senza o con pochi cristiani non è più il Medio Oriente, giacché i cristiani partecipano con gli altri credenti all’identità così particolare della regione» (Esortazione Apostolica Ecclesia in Medio Oriente, 31).

Alcune sfide peculiari

25. In alcune società vige ancora la pratica della poligamia; in altri contesti permane la pratica dei matrimoni combinati. Nei paesi in cui la presenza della Chiesa cattolica è minoritaria sono numerosi i matrimoni misti e di disparità di culto, con tutte le difficoltà che essi comportano riguardo alla configurazione giuridica, al Battesimo, all’educazione dei figli e al reciproco rispetto dal punto di vista della diversità della fede. In questi matrimoni può esistere il pericolo del relativismo o dell’indifferenza, ma vi può essere anche la possibilità di favorire lo spirito ecumenico e il dialogo interreligioso in un’armoniosa convivenza di comunità che vivono nello stesso luogo. In molti contesti, e non solo occidentali, si va diffondendo ampiamente la prassi della convivenza che precede il matrimonio o anche quella di convivenze non orientate ad assumere la forma di un vincolo istituzionale. A questo si aggiunge spesso una legislazione civile che compromette il matrimonio e la famiglia. A causa della secolarizzazione, in molte parti del mondo, il riferimento a Dio è fortemente diminuito e la fede non è più socialmente condivisa.

I bambini

26. I bambini sono una benedizione di Dio (cf. Gn 4,1). Essi devono essere al primo posto nella vita familiare e sociale, e costituire una priorità nell’azione pastorale della Chiesa. «In effetti, da come sono trattati i bambini si può giudicare la società, ma non solo moralmente, anche sociologicamente, se è una società libera o una società schiava di interessi internazionali.[…] I bambini ci ricordano […] che siamo sempre figli […].E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta» (Francesco, Udienza generale, 18 marzo 2015).Tuttavia, spesso i bambini diventano oggetto di contesa tra i genitori e sono le vere vittime delle lacerazioni familiari. I diritti dei bambini sono trascurati in molti modi. In alcune aree del mondo, essi sono considerati una vera e propria merce, trattati come lavoratori a basso prezzo, usati per fare la guerra, oggetto di ogni tipo di violenza fisica e psicologica. Bambini migranti vengono esposti a vari tipi di sofferenza. Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Nelle società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, sono in crescita situazioni familiari degradate. Nelle grandi metropoli e nelle loro periferie si aggrava drammaticamente il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada.

La donna

27. La donna ha un ruolo determinante nella vita della persona, della famiglia e della società. «Ogni persona umana deve la vita a una madre, e quasi sempre deve a lei molto della propria esistenza successiva, della formazione umana e spirituale» (Francesco, Udienza Generale, 7 gennaio 2015). La madre custodisce la memoria e il senso della nascita per una vita intera: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Resta vero, però, che la condizione femminile nel mondo è soggetta a grandi differenze che derivano in prevalenza da fattori socio-culturali. La dignità della donna ha bisogno di essere difesa e promossa. Non si tratta semplicemente di un problema di risorse economiche, ma di una diversa prospettiva culturale, come evidenzia la difficile condizione delle donne in vari paesi di recente sviluppo. In numerosi contesti, ancora oggi, essere donna suscita discriminazione: il dono stesso della maternità è penalizzato anziché valorizzato. D’altra parte, essere sterile per una donna, in alcune culture, è una condizione socialmente discriminante. Non bisogna nemmeno dimenticare i fenomeni crescenti di violenza di cui le donne sono vittime all’interno delle famiglie. Lo sfruttamento delle donne e la violenza esercitata sul loro corpo sono spesso unite all’aborto e alla sterilizzazione forzata. A ciò si aggiungano le conseguenze negative di pratiche connesse alla procreazione, quali l’utero in affitto o il mercato dei gameti e degli embrioni. L’emancipazione femminile richiede un ripensamento dei compiti dei coniugi nella loro reciprocità e nella comune responsabilità verso la vita familiare. Il desiderio del figlio ad ogni costo non ha portato a relazioni familiari più felici e solide, ma in molti casi ha aggravato di fatto la diseguaglianza fra donne e uomini. Può contribuire al riconoscimento sociale del ruolo determinante delle donne una maggiore valorizzazione della loro responsabilità nella Chiesa: il loro intervento nei processi decisionali, la loro partecipazione al governo di alcune istituzioni, il loro coinvolgimento nella formazione dei ministri ordinati.

L’uomo

28. L’uomo riveste un ruolo egualmente decisivo nella vita della famiglia, con particolare riferimento alla protezione e al sostegno della sposa e dei figli. Modello di questa figura è San Giuseppe, uomo giusto, il quale nell’ora del pericolo «prese con sé il bambino e sua madre nella notte» (Mt 2,14) e li portò in salvo. Molti uomini sono consapevoli dell’importanza del proprio ruolo nella famiglia e lo vivono con le qualità peculiari dell’indole maschile. L’assenza del padre segna gravemente la vita familiare, l’educazione dei figli e il loro inserimento nella società. La sua assenza può essere fisica, affettiva, cognitiva e spirituale. Questa carenza priva i figli di un modello adeguato del comportamento paterno. Il crescente impiego lavorativo della donna fuori casa non ha trovato adeguata compensazione in un maggior impegno dell’uomo nell’ambito domestico. Nel contesto odierno la sensibilità dell’uomo al compito di protezione della sposa e dei figli da ogni forma di violenza e di avvilimento si è indebolita. «Il marito – dice Paolo – deve amare la moglie “come il proprio corpo” (Ef 5,28); amarla come Cristo “ha amato la Chiesa e ha dato sé stesso per lei” (v. 25). Ma voi mariti […] capite questo? Amare la vostra moglie come Cristo ama la Chiesa? […] L’effetto di questo radicalismo della dedizione chiesta all’uomo, per l’amore e la dignità della donna, sull’esempio di Cristo, deve essere stato enorme, nella stessa comunità cristiana. Questo seme della novità evangelica, che ristabilisce l’originaria reciprocità della dedizione e del rispetto, è maturato lentamente nella storia, ma alla fine ha prevalso» (Francesco, Udienza Generale, 6 maggio 2015).

I giovani

29. Molti giovani continuano a vedere il matrimonio come il grande anelito della loro vita e il progetto di una famiglia propria come la realizzazione delle loro aspirazioni. Essi assumono concretamente, tuttavia, atteggiamenti diversi di fronte al matrimonio. Spesso sono indotti a rimandare le nozze per problemi di tipo economico, lavorativo o di studio. Talora anche per altri motivi, come l’influenza delle ideologie che svalutano il matrimonio e la famiglia, l’esperienza del fallimento di altre coppie che essi non vogliono rischiare, il timore verso qualcosa che considerano troppo grande e sacro, le opportunità sociali ed i vantaggi economici che derivano dalla convivenza, una concezione meramente emotiva e romantica dell’amore, la paura di perdere la libertà e l’autonomia, il rifiuto di qualcosa concepito come istituzionale e burocratico. La Chiesa guarda con apprensione alla sfiducia di tanti giovani verso il matrimonio, e soffre per la precipitazione con cui tanti fedeli decidono di porre fine all’impegno coniugale per instaurarne un altro. I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa. È perciò necessario discernere più attentamente le motivazioni profonde della rinuncia e dello scoraggiamento. I giovani possono acquistare maggior fiducia nei confronti della scelta matrimoniale grazie a quelle famiglie che, nella comunità cristiana, offrono loro l’esempio affidabile di una testimonianza durevole nel tempo.

Capitolo IV
Famiglia, affettività e vita

La rilevanza della vita affettiva

30. «Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l’uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cf. Gv 7,37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio (cf. Gv19, 34)» (DCE, 7). Il bisogno di prendersi cura della propria persona, di conoscersi interiormente, di vivere meglio in sintonia con le proprie emozioni e i propri sentimenti, di cercare relazioni affettive di qualità, deve aprirsi al dono dell’amore altrui e al desiderio di costruire reciprocità creative, responsabilizzanti e solidali come quelle familiari. La sfida per la Chiesa è di aiutare le coppie nella maturazione della dimensione emozionale e nello sviluppo affettivo attraverso la promozione del dialogo, della virtù e della fiducia nell’amore misericordioso di Dio. Il pieno impegno di dedizione, richiesto nel matrimonio cristiano, è un forte antidoto alla tentazione di un’esistenza individuale ripiegata su stessa.

La formazione al dono di sé

31. Lo stile delle relazioni familiari incide in modo primario sulla formazione affettiva delle giovani generazioni. La velocità con la quale si compiono i mutamenti della società contemporanea rende più difficile l’accompagnamento della persona nella formazione dell’affettività per la sua maturazione. Esso esige anche un’azione pastorale appropriata, ricca di conoscenza approfondita della Scrittura e della dottrina cattolica, e dotate di strumenti educativi adeguati. Un’opportuna conoscenza della psicologia della famiglia sarà d’aiuto perché sia trasmessa in modo efficace la visione cristiana: questo sforzo educativo sia avviato già con la catechesi dell’iniziazione cristiana. Questa formazione avrà cura di rendere apprezzabile la virtù della castità, intesa come integrazione degli affetti, che favorisce il dono di sé.

Fragilità e immaturità

32. Nel mondo attuale non mancano tendenze culturali che mirano ad imporre una sessualità senza limiti di cui si vogliono esplorare tutti i versanti, anche quelli più complessi. La questione della fragilità affettiva è di grande attualità: una affettività narcisistica, instabile e mutevole non aiuta la persona a raggiungere una maggiore maturità. Vanno denunciati con fermezza: la grande diffusione della pornografia e della commercializzazione del corpo, favorita anche da un uso distorto di internet; la costrizione alla prostituzione e il suo sfruttamento. In questo contesto, le coppie sono talvolta incerte, esitanti e faticano a trovare i modi per crescere. Molti sono quelli che tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale. La crisi della coppia destabilizza la famiglia e può arrivare, attraverso le separazioni e i divorzi, a produrre serie conseguenze sugli adulti, i figli e la società, indebolendo l’individuo e i legami sociali. Il calo demografico, dovuto ad una mentalità antinatalista e promosso dalle politiche mondiali di “salute riproduttiva”, minaccia il legame tra le generazioni. Ne deriva anche un impoverimento economico e una generalizzata perdita di speranza.

Tecnica e procreazione umana

33. La rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana ha introdotto la possibilità di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie, non necessariamente eterosessuali e regolarmente coniugate. Questo fenomeno si è presentato negli ultimi tempi come una novità assoluta sulla scena dell’umanità, e sta acquistando una sempre maggiore diffusione. Tutto ciò ha profonde ripercussioni nella dinamica delle relazioni, nella struttura della vita sociale e negli ordinamenti giuridici, che intervengono per tentare di regolamentare pratiche già in atto e situazioni differenziate. In questo contesto la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. Occorre muovere dalla convinzione che l’uomo viene da Dio e vive costantemente alla Sua presenza: «La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta “l’azione creatrice di Dio” e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» (Congregazione della Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, Introd., 5; cf. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 53).

La sfida per la pastorale

34. Una riflessione capace di riproporre le grandi domande sul significato dell’essere uomini, trova un terreno fertile nelle attese più profonde dell’umanità. I grandi valori del matrimonio e della famiglia cristiana corrispondono alla ricerca che attraversa l’esistenza umana anche in un tempo segnato dall’individualismo e dall’edonismo. Occorre accogliere le persone con comprensione e sensibilità nella loro esistenza concreta, e saperne sostenere la ricerca di senso. La fede incoraggia il desiderio di Dio e la volontà di sentirsi pienamente parte della Chiesa anche in chi ha sperimentato il fallimento o si trova nelle situazioni più difficili. Il messaggio cristiano ha sempre in sé la realtà e la dinamica della misericordia e della verità, che in Cristo convergono: «La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre» (MV, 12). Nella formazione alla vita coniugale e familiare, la cura pastorale terrà conto della pluralità delle situazioni concrete. Se da una parte, bisogna promuovere percorsi che garantiscano la formazione dei giovani al matrimonio, dall’altra, occorre accompagnare coloro che vivono da soli o senza costituire un nuovo nucleo familiare, restando frequentemente legati alla famiglia d’origine. Anche le coppie che non possono avere figli devono essere oggetto di una particolare attenzione pastorale da parte della Chiesa, che le aiuti a scoprire il disegno di Dio sulla loro situazione, a servizio di tutta la comunità. Tutti hanno bisogno di uno sguardo di comprensione, tenendo conto che le situazioni di distanza dalla vita ecclesiale non sempre sono volute, spesso sono indotte e a volte anche subite. Nell’ottica della fede non ci sono esclusi: tutti sono amati da Dio e stanno a cuore all’agire pastorale della Chiesa.

II PARTE
LA FAMIGLIA NEL PIANO DI DIO

35. Il discernimento della vocazione della famiglia nella molteplicità delle situazioni che abbiamo incontrato nella prima parte, ha bisogno di un orientamento sicuro per il cammino e l’accompagnamento. Questa bussola è la Parola di Dio nella storia, che culmina in Gesù Cristo «Via, Verità e Vita» per ogni uomo e donna che costituiscono una famiglia. Ci poniamo dunque in ascolto di quello che la Chiesa insegna sulla famiglia alla luce della Sacra Scrittura e della Tradizione. Siamo convinti che questa Parola risponda alle attese umane più profonde di amore, verità e misericordia, e risvegli potenzialità di dono e di accoglienza anche nei cuori spezzati e umiliati. In questa luce, noi crediamo che il Vangelo della famiglia cominci con la creazione dell’uomo ad immagine di Dio che è amore e chiami all’amore l’uomo e la donna secondo la sua somiglianza (cf. Gn 1,26-27). La vocazione della coppia e della famiglia alla comunione di amore e di vita perdura in tutte le tappe del disegno di Dio malgrado i limiti e i peccati degli uomini. Questa vocazione è fondata sin dall’inizio in Cristo redentore (cf. Ef 1,3-7). Egli restaura e perfeziona l’alleanza matrimoniale delle origini (cf. Mc 10,6), guarisce il cuore umano (cf. Gv 4,10), gli dà la capacità di amare come Lui ama la Chiesa offrendosi per essa (cf. Ef 5,32).

36. Questa vocazione riceve la sua forma ecclesiale e missionaria dal legame sacramentale che consacra la relazione coniugale indissolubile tra gli sposi. Lo scambio del consenso, che la istituisce, significa per gli sposi l’impegno di reciproca donazione e accoglienza, totale e definitiva, in «una sola carne» (Gn 2,24). La grazia dello Spirito Santo fa dell’unione degli sposi un segno vivo del legame di Cristo con la Chiesa. La loro unione diviene così, per tutto il corso della vita, una sorgente di grazie molteplici: di fecondità e di testimonianza, di guarigione e di perdono. Il matrimonio si realizza nella comunità di vita e di amore, e la famiglia diventa evangelizzatrice. Gli sposi, fatti suoi discepoli, sono accompagnati da Gesù nel cammino verso Emmaus, lo riconoscono allo spezzare del pane, fanno ritorno a Gerusalemme nella luce della sua risurrezione (cf. Lc 24,13-43). La Chiesa annuncia alla famiglia il suo legame con Gesù, in virtù dell’incarnazione per la quale Egli è parte della Santa Famiglia di Nazaret. La fede riconosce nel legame indissolubile degli sposi un riflesso dell’amore della Trinità divina, che si rivela nell’unità di verità e misericordia proclamata da Gesù. Il Sinodo si rende interprete della testimonianza della Chiesa, che rivolge al popolo di Dio una parola chiara sulla verità della famiglia secondo il Vangelo. Nessuna distanza impedisce alla famiglia di essere raggiunta da questa misericordia e sostenuta da questa verità.

Capitolo I
La famiglia nella storia della salvezza

La pedagogia divina

37. Dato che l’ordine della creazione è determinato dall’orientamento a Cristo, occorre distinguere senza separare i diversi gradi mediante i quali Dio comunica all’umanità la grazia dell’alleanza. In ragione della pedagogia divina, secondo cui il disegno della creazione si compie in quello della redenzione attraverso tappe successive, occorre comprendere la novità del sacramento nuziale in continuità con il matrimonio naturale delle origini, basato sull’ordine della creazione. In questa prospettiva va inteso il modo dell’agire salvifico di Dio anche nella vita cristiana. Poiché tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Lui (cf. Col 1,16), i cristiani sono «lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli» (AG, 11). L’incorporazione del credente nella Chiesa mediante il battesimo si compie pienamente con gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana. In quella Chiesa domestica che è la sua famiglia, egli intraprende quel «processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio» (FC, 9), attraverso la conversione continua all’amore che salva dal peccato e dona pienezza di vita. Nelle sfide contemporanee della società e della cultura, la fede rivolge lo sguardo a Gesù Cristo nella contemplazione e nell’adorazione del suo volto. Egli ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio. «Ogni volta che torniamo alla fonte dell’esperienza cristiana si aprono strade nuove e possibilità impensate» (Francesco, Discorso in occasione della Veglia di preghiera in preparazione al Sinodo sulla famiglia, 4 ottobre 2014).

L’icona della Trinità nella famiglia

38. La Scrittura e la Tradizione ci aprono l’accesso a una conoscenza della Trinità che si rivela con tratti familiari. La famiglia è immagine di Dio che «nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore» (Giovanni Paolo II, Omelia durante S. Messa nel Seminario Palafoxiano di Puebla de Los Angeles, 28 gennaio 1979). Dio è comunione di persone. Nel battesimo, la voce del Padre designa Gesù come suo Figlio amato, e in questo amore ci è dato di riconoscere lo Spirito Santo (cf. Mc 1,10-11). Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé e ha redento l’uomo dal peccato, non solo ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale, ma ha anche elevato il matrimonio a segno sacramentale del suo amore per la Chiesa (cf. Mt 19,1-12; Mc 10,1-12; Ef 5,21-32). Nella famiglia umana, radunata da Cristo, è restituita la “immagine e somiglianza” della Santissima Trinità (cf. Gn 1,26), mistero da cui scaturisce ogni vero amore. Da Cristo, attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia dello Spirito Santo, per testimoniare il Vangelo dell’amore di Dio fino al compimento dell’Alleanza nell’ultimo giorno alla festa di nozze dell’Agnello (cf. Ap 19,9; Giovanni Paolo II, Catechesi sull’amore umano). L’alleanza di amore e fedeltà, di cui vive la Santa Famiglia di Nazaret, illumina il principio che dà forma ad ogni famiglia, e la rende capace di affrontare meglio le vicissitudini della vita e della storia. Su questo fondamento, ogni famiglia, pur nella sua debolezza, può diventare una luce nel buio del mondo. «Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi che cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile; ci faccia vedere come è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale» (Paolo VI, Discorso tenuto a Nazaret, 5 gennaio 1964).

La famiglia nella Sacra Scrittura

39. L’uomo e la donna, con il loro amore fecondo e generativo, continuano l’opera creatrice e collaborano col Creatore alla storia della salvezza attraverso il succedersi delle genealogie (cf. Gn 1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.16; 25,11; 28,3; 35,9.11; 47,27; 48,3-4). La realtà matrimoniale nella sua forma esemplare è tratteggiata nel libro della Genesi, a cui rimanda anche Gesù nella sua visione dell’amore nuziale. L’uomo si sente incompleto perché privo di un aiuto che gli “corrisponda”, che gli “stia di fronte” (cf. Gn 2,18.20) in un dialogo paritario. La donna partecipa, quindi, della stessa realtà dell’uomo, rappresentata simbolicamente dalla costola, ossia della medesima carne, come si proclama nel canto d’amore dell’uomo: «questa volta essa è veramente carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2,23). I due diventano, così, “una carne sola” (cf. Gn 2,24). Questa realtà fondante dell’esperienza matrimoniale è esaltata nella formula della reciproca appartenenza, presente nella professione d’amore pronunciata dalla donna del Cantico dei Cantici. La formula ricalca quella dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (cf. Lv 26,12): «il mio amato è mio e io sono sua…io sono del mio amato e il mio amato è mio» (Ct 2,16; 6,3). Significativo è, poi, nel Cantico, l’intreccio costante della sessualità, dell’eros e dell’amore, così come l’incontro della corporeità con la tenerezza, il sentimento, la passione, la spiritualità e la donazione totale. Nella consapevolezza che può esserci la notte dell’assenza e del dialogo interrotto tra lui e lei (cc. 3 e 5), permane, nondimeno, la certezza della potenza dell’amore contro ogni ostacolo: «forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). La profezia biblica, per celebrare l’alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo, ricorrerà non solo al simbolismo nuziale (cf. Is 54; Ger 2,2; Ez 16), ma all’intera esperienza familiare, come attesta in modo particolarmente intenso il profeta Osea. La sua drammatica esperienza matrimoniale e familiare (cf. Os 1-3) diventa segno della relazione tra il Signore e Israele. Le infedeltà del popolo non cancellano l’amore invincibile di Dio che il profeta raffigura come un padre, il quale guida e stringe a sé “con vincoli d’amore” il proprio figlio (cf. Os 11,1-4).

40. Nelle parole di vita eterna che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli, con il suo insegnamento sul matrimonio e la famiglia, possiamo riconoscere tre tappe fondamentali nel progetto di Dio. All’inizio, c’è la famiglia delle origini, quando Dio creatore istituì il matrimonio primordiale tra Adamo ed Eva, come solido fondamento della famiglia. Dio non solo ha creato l’essere umano maschio e femmina (cf. Gn 1,27), ma li ha anche benedetti perché fossero fecondi e si moltiplicassero (cf. Gn 1,28). Per questo, «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Questa unione, poi, ferita dal peccato, nella forma storica del matrimonio all’interno della tradizione di Israele ha conosciuto diverse oscillazioni: fra la monogamia e la poligamia, fra la stabilità e il divorzio, fra la reciprocità e la subordinazione della donna all’uomo. La concessione di Mosè circa la possibilità del ripudio (cf. Dt 24,1ss), che persisteva al tempo di Gesù, si comprende all’interno di questo quadro. Infine, la riconciliazione del mondo caduto, con l’avvento del Salvatore, non solo reintegra il progetto divino originario, ma conduce la storia del Popolo di Dio verso un nuovo compimento. L’indissolubilità del matrimonio (cf. Mc 10,2-9), non è innanzitutto da intendere come giogo imposto agli uomini bensì come un dono fatto alle persone unite in matrimonio.

Gesù e la famiglia

41. L’esempio di Gesù è paradigmatico per la Chiesa. Il Figlio di Dio è venuto nel mondo in una famiglia. Nei suoi trenta anni di vita nascosta a Nazaret – periferia sociale, religiosa e culturale dell’Impero (cf. Gv 1,46) – Gesù ha visto in Maria e Giuseppe la fedeltà vissuta nell’amore. Egli ha inaugurato la sua vita pubblica con il segno di Cana, compiuto ad un banchetto di nozze (cf. Gv 2,1-11). Ha annunciato il vangelo del matrimonio come pienezza della rivelazione che recupera il progetto originario di Dio (cf. Mt 19,4-6). Ha condiviso momenti quotidiani di amicizia con la famiglia di Lazzaro e le sue sorelle (cf. Lc 10,38) e con la famiglia di Pietro (cf. Mt 8,14). Ha ascoltato il pianto dei genitori per i loro figli, restituendoli alla vita (cf. Mc 5,41; Lc 7,14-15) e manifestando così il vero significato della misericordia, la quale implica il ristabilimento dell’Alleanza (cf. Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia, 4). Ciò appare chiaramente negli incontri con la donna samaritana (cf. Gv 4,1-30) e con l’adultera (cf. Gv 8,1-11), nei quali la percezione del peccato si desta davanti all’amore gratuito di Gesù. La conversione «è un impegno continuo per tutta la Chiesa che “comprende nel suo seno i peccatori” e che, “santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento”. Questo sforzo di conversione non è soltanto un’opera umana. È il dinamismo del “cuore contrito” attirato e mosso dalla grazia a rispondere all’amore misericordioso di Dio che ci ha amati per primo» (CCC, 1428). Dio offre gratuitamente il suo perdono a chi si apre all’azione della sua grazia. Ciò avviene mediante il pentimento, unito al proposito di indirizzare la vita secondo la volontà di Dio, effetto della sua misericordia attraverso la quale Egli ci riconcilia con sé. Dio mette nel nostro cuore la capacità di poter seguire la via dell’imitazione di Cristo. La parola e l’atteggiamento di Gesù mostrano chiaramente che il Regno di Dio è l’orizzonte entro il quale ogni relazione si definisce (cf. Mt 6,33). I vincoli familiari, pur fondamentali, «non sono però assoluti» (CCC, 2232). In modo sconvolgente per chi lo ascoltava, Gesù ha relativizzato le relazioni familiari alla luce del Regno di Dio (cf. Mc 3,33-35; Lc 14,26; Mt 10,34-37; 19,29; 23,9). Questa rivoluzione degli affetti che Gesù introduce nella famiglia umana costituisce una chiamata radicale alla fraternità universale. Nessuno rimane escluso dalla nuova comunità radunata nel nome di Gesù, poiché tutti sono chiamati a far parte della famiglia di Dio. Gesù mostra come la condiscendenza divina accompagni il cammino umano con la sua grazia, trasformi il cuore indurito con la sua misericordia (cf. Ez 36,26) e lo orienti al suo compimento attraverso il mistero pasquale.

Capitolo II
La Famiglia nel Magistero della Chiesa

Gli insegnamenti del Concilio Vaticano II

42. Sulla base di ciò che ha ricevuto da Cristo, la Chiesa ha sviluppato nel corso dei secoli un ricco insegnamento sul matrimonio e la famiglia. Una delle espressioni più alte di questo Magistero è stata proposta dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, che dedica un intero capitolo alla dignità del matrimonio e della famiglia (cf. GS, 47-52). Esso così definisce matrimonio e famiglia: «L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall’alleanza dei coniugi, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale. E così, è dall’atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l’istituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino» (GS, 48). Il «vero amore tra marito e moglie» (GS, 49) implica la mutua donazione di sé, include e integra la dimensione sessuale e l’affettività, corrispondendo al disegno divino (cf. GS, 48-49). Ciò rende chiaro che il matrimonio, e l’amore coniugale che lo anima, «sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole» (GS, 50). Inoltre, viene sottolineato il radicamento in Cristo degli sposi: Cristo Signore «viene incontro ai coniugi cristiani nel sacramento del matrimonio» (GS, 48) e con loro rimane (sacramentum permanens). Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cf. LG, 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino.

Paolo VI

43. Il Beato Paolo VI, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, con l’Enciclica Humanae Vitae, ha messo in luce il legame intrinseco tra amore coniugale e generazione della vita:«l’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori» (HV, 10). Nell’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi, Paolo VI ha evidenziato il rapporto tra la famiglia e la Chiesa: «Nell’ambito dell’apostolato di evangelizzazione proprio dei laici, è impossibile non rilevare l’azione evangelizzatrice della famiglia. Essa ha ben meritato, nei diversi momenti della storia della Chiesa, la bella definizione di “Chiesa domestica”, sancita dal Concilio Vaticano II. Ciò significa che, in ogni famiglia cristiana, dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della Chiesa intera. Inoltre la famiglia, come la Chiesa, deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia» (EN, 71).

Giovanni Paolo II

44. San Giovanni Paolo II ha dedicato alla famiglia una particolare attenzione attraverso le sue catechesi sull’amore umano e sulla teologia del corpo. In esse, egli ha offerto alla Chiesa una ricchezza di riflessioni sul significato sponsale del corpo umano e sul progetto di Dio riguardo al matrimonio e alla famiglia sin dall’inizio della creazione. In particolare, trattando della carità coniugale, ha descritto il modo in cui i coniugi, nel loro mutuo amore, ricevono il dono dello Spirito di Cristo e vivono la loro chiamata alla santità. Nella Lettera alle famiglie Gratissimam Sane e soprattutto con l’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, Giovanni Paolo II ha indicato la famiglia come “via della Chiesa”, ha offerto una visione d’insieme sulla vocazione all’amore dell’uomo e della donna, ha proposto le linee fondamentali per la pastorale della famiglia e per la presenza della famiglia nella società. «Nel matrimonio e nella famiglia si costituisce un complesso di relazioni interpersonali – nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità –, mediante le quali ogni persona umana è introdotta nella “famiglia umana” e nella “famiglia di Dio”, che è la Chiesa» (FC, 15).

Benedetto XVI

45. Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus Caritas Est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cf. DCE, 2). Egli ribadisce che «il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (DCE, 11). Inoltre, nella Enciclica Caritas in Veritate, evidenzia l’importanza dell’amore familiare come principio di vita nella società, luogo in cui s’apprende l’esperienza del bene comune. «Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale» (CiV, 44).

Francesco

46. Papa Francesco, nell’Enciclica Lumen Fidei affronta così il legame tra la famiglia e la fede: «Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia. Penso anzitutto all’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio […] Promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti» (LF, 52). Nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, il Papa richiama la centralità della famiglia tra le sfide culturali odierne: «La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali. Nel caso della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli. Il matrimonio tende ad essere visto come una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno. Ma il contributo indispensabile del matrimonio alla società supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia» (EG, 66). Papa Francesco ha inoltre dedicato ai temi relativi alla famiglia un ciclo organico di catechesi che ne approfondiscono i soggetti, le esperienze e le fasi della vita.

Capitolo III
La famiglia nella dottrina cristiana

Matrimonio nell’ordine della creazione e pienezza sacramentale

47. L’ordine della redenzione illumina e compie quello della creazione. Il matrimonio naturale, pertanto, si comprende pienamente alla luce del suo compimento sacramentale: solo fissando lo sguardo su Cristo si conosce fino in fondo la verità sui rapporti umani. «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (GS, 22). Risulta particolarmente opportuno comprendere in chiave cristocentrica le proprietà naturali del matrimonio, che costituiscono il bene dei coniugi (bonum coniugum), che comprende unità, apertura alla vita, fedeltà e indissolubilità. Alla luce del Nuovo Testamento secondo cui tutto è stato creato per mezzo di Cristo e in vista di lui (cf. Col 1,16; Gv 1,1ss), il Concilio Vaticano II ha voluto esprimere apprezzamento per il matrimonio naturale e per gli elementi positivi presenti nelle altre religioni (cf. LG, 16; NA, 2) e nelle diverse culture, nonostante limiti e insufficienze (cf. RM, 55). Il discernimento della presenza dei “semina Verbi” nelle altre culture (cf. AG, 11) può essere applicato anche alla realtà matrimoniale e familiare. Oltre al vero matrimonio naturale ci sono elementi positivi presenti nelle forme matrimoniali di altre tradizioni religiose. Queste forme - comunque fondate sulla relazione stabile e vera di un uomo e una donna -, riteniamo siano ordinate al sacramento. Con lo sguardo rivolto alla saggezza umana dei popoli, la Chiesa riconosce anche questa famiglia come cellula basilare necessaria e feconda della convivenza umana.

Indissolubilità e fecondità dell’unione sponsale

48. L’irrevocabile fedeltà di Dio all’alleanza è il fondamento dell’indissolubilità del matrimonio. L’amore completo e profondo tra i coniugi non si basa solo sulle capacità umane: Dio sostiene questa alleanza con la forza del suo Spirito. La scelta che Dio ha fatto nei nostri confronti si riflette in certo modo nella scelta del coniuge: come Dio mantiene la sua promessa anche quando falliamo, così l’amore e la fedeltà coniugale valgono “nella buona e nella cattiva sorte”. Il matrimonio è dono e promessa di Dio, che ascolta la preghiera di coloro che chiedono il suo aiuto. La durezza di cuore dell’uomo, i suoi limiti e la sua fragilità di fronte alla tentazione sono una grande sfida per la vita comune. La testimonianza di coppie che vivono fedelmente il matrimonio mette in luce il valore di questa unione indissolubile e suscita il desiderio di rinnovare continuamente l’impegno della fedeltà. L’indissolubilità corrisponde al desiderio profondo di amore reciproco e duraturo che il Creatore ha posto nel cuore umano, ed è un dono che Egli stesso fa ad ogni coppia: «quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Mt 19,6; cf. Mc 10,9). L’uomo e la donna accolgono questo dono e se ne prendono cura affinché il loro amore possa essere per sempre. Di fronte alla sensibilità del nostro tempo e alle effettive difficoltà a mantenere gli impegni per sempre, la Chiesa è chiamata a proporre le esigenze e il progetto di vita del Vangelo della famiglia e del matrimonio cristiano.«San Paolo, parlando della nuova vita in Cristo, dice che i cristiani – tutti – sono chiamati ad amarsi come Cristo li ha amati, cioè “sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,21), che significa al servizio gli uni degli altri. E qui introduce l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa. È chiaro che si tratta di una analogia imperfetta, ma dobbiamo coglierne il senso spirituale che è altissimo e rivoluzionario, e nello stesso tempo semplice, alla portata di ogni uomo e donna che si affidano alla grazia di Dio» (Francesco, Udienza Generale, 6 maggio 2015). Ancora una volta è un annuncio che dà speranza!

I beni della famiglia

49. Il matrimonio è la «comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla generazione e educazione della prole» (CIC, can. 1055 - §1). Nella reciproca accoglienza, i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita. Nella fede e con la grazia di Cristo, essi riconoscono i doni che Dio offre loro e si impegnano in suo nome di fronte alla Chiesa. Dio consacra l’amore degli sposi e ne conferma l’indissolubilità, offrendo loro la sua grazia per vivere la fedeltà, l’integrazione reciproca e l’apertura alla vita. Rendiamo grazie a Dio per il matrimonio perché, attraverso la comunità di vita e d’amore, i coniugi cristiani conoscono la felicità e sperimentano che Dio li ama personalmente, con passione e tenerezza. L’uomo e la donna, individualmente e come coppia – ha ricordato Papa Francesco – «sono immagine di Dio». La loro differenza «non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad immagine e somiglianza di Dio» (Udienza generale, 15 aprile 2015). Il fine unitivo del matrimonio è un costante richiamo al crescere e all’approfondirsi di questo amore. Nella loro unione di amore gli sposi sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura reciproca e il perdono vicendevole. In questo amore celebrano i loro momenti felici e si sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita.

50. La fecondità degli sposi, in senso pieno, è spirituale: essi sono segni sacramentali viventi, sorgenti di vita per la comunità cristiana e per il mondo. L’atto della generazione, che manifesta la «connessione inscindibile» tra valore unitivo e procreativo – messo in evidenza dal Beato Paolo VI (cf. HV, 12) - deve essere compreso nell’ottica della responsabilità dei genitori nell’impegno per la cura e l’educazione cristiana dei figli. Questi sono il frutto più prezioso dell’amore coniugale. Dal momento che il figlio è una persona, egli trascende coloro che lo hanno generato. «Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo. E per i genitori ogni figlio è se stesso, è differente, è diverso» (Francesco, Udienza generale, 11 febbraio 2015). La bellezza del dono reciproco e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia. Le relazioni familiari concorrono in modo decisivo alla costruzione solidale e fraterna dell’umana società, irriducibile alla convivenza degli abitanti di un territorio o dei cittadini di uno Stato.

Verità e bellezza della famiglia

51. Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda alle famiglie che sono fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per sempre. Nella famiglia matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero d’amore della Santa Trinità. «È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita» (CCC, 1657). Il Vangelo della famiglia nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati (cf. Lc 13,6-9).La Chiesa, in quanto maestra sicura e madre premurosa, pur riconoscendo che tra i battezzati non vi è altro vincolo nuziale che quello sacramentale, e che ogni rottura di esso è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli che faticano nel cammino della fede. «Pertanto, senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. […] Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (EG, 44). Questa verità e bellezza va custodita. Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni» (FC, 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione.

Capitolo IV
Verso la pienezza ecclesiale della famiglia

L’intimo legame tra Chiesa e famiglia

52. La benedizione e la responsabilità di una nuova famiglia, sigillata nel sacramento ecclesiale, comporta la disponibilità a farsi sostenitori e promotori, all’interno della comunità cristiana, dell’alleanza fondamentale fra uomo e donna. Questa disponibilità, nell’ambito del legame sociale, della generazione dei figli, della protezione dei più deboli, della vita comune, comporta una responsabilità che ha diritto di essere sostenuta, riconosciuta e apprezzata. In virtù del sacramento del matrimonio ogni famiglia diventa a tutti gli effetti un bene per la Chiesa. In questa prospettiva sarà certamente un dono prezioso, per l’oggi della Chiesa, considerare anche la reciprocità tra famiglia e Chiesa: la Chiesa è un bene per la famiglia, la famiglia è un bene per la Chiesa. La custodia del dono sacramentale del Signore coinvolge non solo la singola famiglia, ma la stessa comunità cristiana, nel modo che le compete. Di fronte all’insorgere della difficoltà, anche grave, di custodire l’unione matrimoniale, il discernimento dei rispettivi adempimenti e delle relative inadempienze dovrà essere approfondito dalla coppia con l’aiuto dei Pastori e della comunità.

La grazia della conversione e del compimento

53. La Chiesa rimane vicina ai coniugi il cui legame si è talmente indebolito che si presenta a rischio di separazione. Nel caso in cui si consumi una dolorosa fine della relazione, la Chiesa sente il dovere di accompagnare questo momento di sofferenza, in modo che almeno non si accendano rovinose contrapposizioni tra i coniugi. Particolare attenzione deve essere soprattutto rivolta ai figli, che sono i primi colpiti dalla separazione, perché abbiano a soffrirne meno possibile: «quando papà e mamma si fanno del male, l’anima dei bambini soffre molto» (Francesco, Udienza generale, 24 giugno 2015). Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo (cf. Gv 1,9; GS, 22) ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. Nella prospettiva della pedagogia divina, la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. È auspicabile che nelle Diocesi si promuovano percorsi di discernimento e coinvolgimento di queste persone, in aiuto e incoraggiamento alla maturazione di una scelta consapevole e coerente. Le coppie devono essere informate sulla possibilità di ricorrere al processo di dichiarazione della nullità del matrimonio.

54. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico – ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove – può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile. Differente invece è il caso in cui la convivenza non sia stabilita in vista di un possibile futuro matrimonio, ma nell’assenza del proposito di stabilire un rapporto istituzionale. La realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna, dei matrimoni tradizionali e, fatte le debite differenze, anche delle convivenze, è un fenomeno emergente in molti Paesi. Inoltre, la situazione di fedeli che hanno stabilito una nuova unione richiede una speciale attenzione pastorale: «In questi decenni […] è molto cresciuta la consapevolezza che è necessaria una fraterna e attenta accoglienza, nell’amore e nella verità, verso i battezzati che hanno stabilito una nuova convivenza dopo il fallimento del matrimonio sacramentale; in effetti, queste persone non sono affatto scomunicate» (Francesco, Udienza generale, 5 agosto 2015).

La misericordia nel cuore della rivelazione

55. La Chiesa parte dalle situazioni concrete delle famiglie di oggi, tutte bisognose di misericordia, cominciando da quelle più sofferenti. Con il cuore misericordioso di Gesù, la Chiesa deve accompagnare i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta. La misericordia è «il centro della rivelazione di Gesù Cristo» (MV, 25). In essa risplende la sovranità di Dio, con cui Egli è fedele sempre di nuovo al suo essere, che è amore (cf. 1 Gv 4, 8), e al suo patto. «È proprio nella sua misericordia che Dio manifesta la sua onnipotenza» (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 30, art. 4; cf. Messale Romano, Colletta della XXVI Domenica del Tempo Ordinario). Annunciare la verità con amore è esso stesso un atto di misericordia. Nella Bolla Misericordiae Vultus, Papa Francesco afferma: «La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore». E prosegue: «Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia» (MV, 21). Gesù è il volto della misericordia di Dio Padre: «Dio ha tanto amato il mondo […] perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui (il Figlio)» (Gv 3,16-17)

III PARTE
LA MISSIONE DELLA FAMIGLIA

56. Fin dall’inizio della storia, Dio è stato prodigo di amore nei riguardi dei suoi figli (cf. LG, 2), così che essi hanno potuto avere la pienezza della vita in Gesù Cristo (cf. Gv 10,10). Attraverso i sacramenti dell’Iniziazione Cristiana, Dio invita le famiglie a introdursi in questa vita, a proclamarla e a comunicarla agli altri (cf. LG, 41). Come Papa Francesco ci ricorda con forza, la missione della famiglia si estende sempre al di fuori nel servizio ai nostri fratelli e sorelle. È la missione della Chiesa alla quale ciascuna famiglia è chiamata a partecipare in modo unico e privilegiato. «In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario» (EG, 120). In tutto il mondo, nella realtà delle famiglie, possiamo vedere tanta felicità e gioia, ma anche tante sofferenze e angosce. Vogliamo guardare a questa realtà con gli occhi con cui anche Cristo la guardava quando camminava tra gli uomini del suo tempo. Il nostro atteggiamento vuole essere di umile comprensione. Il nostro desiderio è di accompagnare ciascuna e tutte le famiglie perché scoprano la via migliore per superare le difficoltà che incontrano sul loro cammino. Il Vangelo è sempre anche segno di contraddizione. La Chiesa non dimentica mai che il mistero pasquale è centrale nella Buona Notizia che annunciamo. Essa desidera aiutare le famiglie a riconoscere e ad accogliere la croce quando si presenta davanti a loro, perché possano portarla con Cristo nel cammino verso la gioia della risurrezione. Questo lavoro richiede «una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno» (EG, 25). La conversione poi tocca profondamente lo stile e il linguaggio. È necessario adottare un linguaggio che sia significativo. L’annunzio deve far sperimentare che il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità. Non si tratta soltanto di presentare una normativa, ma di annunciare la grazia che dona la capacità di vivere i beni della famiglia. La trasmissione della fede rende oggi più che mai necessario un linguaggio in grado di raggiungere tutti, specialmente i giovani, per comunicare la bellezza dell’amore familiare e far comprendere il significato di termini come donazione, amore coniugale, fedeltà, fecondità, procreazione. Il bisogno di un nuovo e più adeguato linguaggio si presenta innanzitutto nel momento di introdurre i bambini e gli adolescenti al tema della sessualità. Molti genitori e molte persone che sono impegnati nella pastorale hanno difficoltà a trovare un linguaggio appropriato e al tempo stesso rispettoso, che metta insieme la natura della sessualità biologica con la complementarità che si arricchisce reciprocamente, con l’amicizia, con l’amore e con la donazione dell’uomo e della donna.

Capitolo I
La formazione della famiglia

La preparazione al matrimonio

57. Il matrimonio cristiano non può ridursi ad una tradizione culturale o a una semplice convenzione giuridica: è una vera chiamata di Dio che esige attento discernimento, preghiera costante e maturazione adeguata. Per questo occorrono percorsi formativi che accompagnino la persona e la coppia in modo che alla comunicazione dei contenuti della fede si unisca l’esperienza di vita offerta dall’intera comunità ecclesiale. L’efficacia di questo aiuto richiede anche che sia migliorata la catechesi prematrimoniale – talvolta povera di contenuti – che è parte integrante della pastorale ordinaria. Anche la pastorale dei nubendi deve inserirsi nell’impegno generale della comunità cristiana a presentare in modo adeguato e convincente il messaggio evangelico circa la dignità della persona, la sua libertà e il rispetto per i suoi diritti. Vanno tenute ben presenti le tre tappe indicate da Familiaris Consortio (cf. 66): la preparazione remota, che passa attraverso la trasmissione della fede e dei valori cristiani all’interno della propria famiglia; la preparazione prossima, che coincide con gli itinerari di catechesi e le esperienze formative vissute all’interno della comunità ecclesiale; la preparazione immediata al matrimonio, parte di un cammino più ampio qualificato dalla dimensione vocazionale.

58. Nel cambiamento culturale in atto spesso vengono presentati modelli in contrasto con la visione cristiana della famiglia. La sessualità è spesso svincolata da un progetto di amore autentico. In alcuni Paesi vengono perfino imposti dall’autorità pubblica progetti formativi che presentano contenuti in contrasto con la visione umana e cristiana: rispetto ad essi vanno affermati con decisione la libertà della Chiesa di insegnare la propria dottrina e il diritto all’obiezione di coscienza da parte degli educatori. Peraltro, la famiglia, pur rimanendo spazio pedagogico primario (cf. Gravissimum Educationis, 3), non può essere l’unico luogo di educazione alla sessualità. Occorre, per questo, strutturare veri e propri percorsi pastorali di supporto, rivolti sia ai singoli sia alle coppie, con una particolare attenzione all’età della pubertà e dell’adolescenza, nei quali aiutare a scoprire la bellezza della sessualità nell’amore. Il cristianesimo proclama che Dio ha creato l’uomo come maschio e femmina, e li ha benedetti affinché formassero una sola carne e trasmettessero la vita (cf. Gen 1, 27-28; 2, 24). La loro differenza, nella pari dignità personale, è il sigillo della buona creazione di Dio. Secondo il principio cristiano, anima e corpo, come anche sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare.

Emerge dunque l’esigenza di un ampliamento dei temi formativi negli itinerari prematrimoniali, così che questi diventino dei percorsi di educazione alla fede e all’amore, integrati nel cammino dell’iniziazione cristiana. In questa luce, è necessario ricordare l’importanza delle virtù, tra cui la castità, condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale. L’itinerario formativo dovrebbe assumere la fisionomia di un cammino orientato al discernimento vocazionale personale e di coppia, curando una migliore sinergia tra i vari ambiti pastorali. I percorsi di preparazione al matrimonio siano proposti anche da coppie sposate in grado di accompagnare i nubendi prima delle nozze e nei primi anni di vita matrimoniale, valorizzando così la ministerialità coniugale. La valorizzazione pastorale delle relazioni personali favorirà l’apertura graduale delle menti e dei cuori alla pienezza del piano di Dio.

La celebrazione nuziale

59. La liturgia nuziale è un evento unico, che si vive nel contesto familiare e sociale di una festa. Il primo dei segni di Gesù avvenne al banchetto delle nozze di Cana: il vino buono del miracolo del Signore, che allieta la nascita di una nuova famiglia, è il vino nuovo dell’Alleanza di Cristo con gli uomini e le donne di ogni tempo. La preparazione delle nozze occupa per lungo tempo l’attenzione dei nubendi. Essa rappresenta un tempo prezioso per loro, per le loro famiglie e i loro amici, che deve arricchirsi della sua dimensione propriamente spirituale ed ecclesiale. La celebrazione nuziale è occasione propizia di invitare molti alla celebrazione dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia. La comunità cristiana, attraverso una partecipazione cordiale e gioiosa, accoglierà nel suo grembo la nuova famiglia affinché, come Chiesa domestica, si senta parte della più grande famiglia ecclesiale. La liturgia nuziale dovrebbe essere preparata attraverso una catechesi mistagogica che faccia percepire alla coppia che la celebrazione della loro alleanza si compie “nel Signore”. Frequentemente, il celebrante ha l’opportunità di rivolgersi ad un’assemblea composta da persone che partecipano poco alla vita ecclesiale o appartengono ad altra confessione cristiana o comunità religiosa. Si tratta di una preziosa occasione di annuncio del Vangelo di Cristo, che può suscitare, nelle famiglie presenti, la riscoperta della fede e dell’amore che vengono da Dio.

I primi anni della vita familiare

60. I primi anni di matrimonio sono un periodo vitale e delicato durante il quale le coppie crescono nella consapevolezza delle loro vocazione e missione. Di qui l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento. La parrocchia è il luogo dove coppie esperte possono essere messe a disposizione di quelle più giovani, con l’eventuale concorso di associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità. Occorre incoraggiare gli sposi a un atteggiamento fondamentale di accoglienza del grande dono dei figli. Va sottolineata l’importanza della spiritualità familiare, della preghiera e della partecipazione all’Eucaristia domenicale, invitando le coppie a riunirsi regolarmente per promuovere la crescita della vita spirituale e la solidarietà nelle esigenze concrete della vita. L’incontro personale con Cristo attraverso la lettura della Parola di Dio, nella comunità e nelle case, specialmente nella forma della “lectio divina”, costituisce una fonte di ispirazione per l’agire quotidiano. Liturgie, pratiche devozionali ed Eucaristie celebrate per le famiglie, soprattutto nell’anniversario del matrimonio, nutrono la vita spirituale e la testimonianza missionaria della famiglia. Non di rado, nei primi anni di vita coniugale, si verifica una certa introversione della coppia, con il conseguente isolamento dal contesto comunitario. Il consolidamento della rete relazionale tra le coppie e la creazione di legami significativi sono necessari per la maturazione della vita cristiana della famiglia. I movimenti e i gruppi ecclesiali spesso garantiscono tali momenti di crescita e di formazione. La Chiesa locale, integrando tali apporti, assuma l’iniziativa di coordinare la cura pastorale delle giovani famiglie. Nella fase iniziale della vita coniugale particolare avvilimento procura la frustrazione del desiderio di avere figli. Non di rado, in questa si annunciano motivi di crisi che sfociano rapidamente nella separazione. Anche per tali ragioni è particolarmente importante la vicinanza della comunità ai giovani sposi, attraverso il sostegno affettuoso e discreto di famiglie affidabili.

La formazione dei presbiteri e di altri operatori pastorali

61. È necessario un rinnovamento della pastorale alla luce del Vangelo della famiglia e dell’insegnamento del Magistero. Per questo, occorre provvedere ad una più adeguata formazione dei presbiteri, dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, dei catechisti e degli altri operatori pastorali, che devono promuovere l’integrazione delle famiglie nella comunità parrocchiale, soprattutto in occasione dei cammini di formazione alla vita cristiana in vista dei sacramenti. In particolare i seminari, nei loro itinerari di formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale, devono preparare i futuri presbiteri a divenire apostoli della famiglia. Nella formazione al ministero ordinato non si può tralasciare lo sviluppo affettivo e psicologico, anche partecipando in modo diretto a percorsi adeguati. Itinerari e corsi di formazione destinati specificamente agli operatori pastorali potranno renderli idonei ad inserire lo stesso cammino di preparazione al matrimonio nella più ampia dinamica della vita ecclesiale. Nel periodo di formazione, i candidati al presbiterato vivano dei periodi congrui con la propria famiglia e siano guidati nel fare esperienze di pastorale familiare per acquisire una conoscenza adeguata della situazione attuale delle famiglie. La presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento della varietà e complementarità delle diverse vocazioni nella Chiesa. La dedizione di questo prezioso ministero potrà ricevere vitalità e concretezza da una rinnovata alleanza tra le due principali forme di vocazione all'amore: quella del matrimonio, che sboccia nella famiglia cristiana, basata sull’amore di elezione, e quella della vita consacrata, immagine della comunione del Regno, che parte dall’accoglienza incondizionata dell’altro come dono di Dio. Nella comunione delle vocazioni si attua uno scambio fecondo di doni, che ravviva e arricchisce la comunità ecclesiale (cf. At 18,2). La direzione spirituale della famiglia può essere considerata uno dei ministeri parrocchiali. Si suggerisce che l’Ufficio diocesano per la famiglia e gli altri Uffici pastorali possano intensificare la loro collaborazione in questo campo. Nella formazione permanente del clero e degli operatori pastorali, è auspicabile che si continui a curare con strumenti appropriati la maturazione della dimensione affettiva e psicologica, che sarà loro indispensabile per l’accompagnamento pastorale delle famiglie, anche in vista delle particolari situazioni di emergenza determinate dai casi di violenza domestica e di abuso sessuale.

Capitolo II
Famiglia, generatività, educazione

La trasmissione della vita

62. La presenza delle famiglie numerose nella Chiesa è una benedizione per la comunità cristiana e per la società, poiché l’apertura alla vita è esigenza intrinseca dell’amore coniugale. In questa luce, la Chiesa esprime viva gratitudine alle famiglie che accolgono, educano, circondano di affetto e trasmettono la fede ai loro figli, in modo particolare quelli più fragili e segnati da disabilità. Questi bambini, nati con bisogni speciali, attraggono l’amore di Cristo e chiedono alla Chiesa di custodirli come una benedizione. È purtroppo diffusa una mentalità che riduce la generazione della vita alla sola gratificazione individuale o di coppia. I fattori di ordine economico, culturale ed educativo esercitano un peso talvolta determinante contribuendo al forte calo della natalità che indebolisce il tessuto sociale, compromette il rapporto tra le generazioni e rende più incerto lo sguardo sul futuro. Anche in questo ambito occorre partire dall’ascolto delle persone e dar ragione della bellezza e della verità di una apertura incondizionata alla vita come ciò di cui l’amore umano ha bisogno per essere vissuto in pienezza. Si coglie qui la necessità di divulgare sempre più i documenti del Magistero della Chiesa che promuovono la cultura della vita. La pastorale familiare dovrebbe maggiormente coinvolgere gli specialisti cattolici in materia biomedica nei percorsi di preparazione al matrimonio e nell’accompagnamento dei coniugi.

La responsabilità generativa

63. Secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cf. Gen 1,27-28). In questo modo il Creatore ha reso partecipe l’uomo e la donna dell’opera della sua creazione e li ha contemporaneamente resi strumenti del suo amore, affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana. I coniugi si apriranno alla vita formandosi «un retto giudizio: tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno; valutando le condizioni sia materiali che spirituali della loro epoca e del loro stato di vita; e, infine, tenendo conto del bene della comunità familiare, della società temporale e della Chiesa stessa» (GS, 50; cf. VS, 54-66). Conformemente al carattere personale e umanamente completo dell’amore coniugale, la giusta strada per la pianificazione familiare è quella di un dialogo consensuale tra gli sposi, del rispetto dei tempi e della considerazione della dignità del partner. In questo senso l’Enciclica Humanae Vitae (cf. 10-14) e l’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio (cf. 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita. Occorre esortare ripetutamente le giovani coppie a donare la vita. In questo modo può crescere l’apertura alla vita nella famiglia, nella Chiesa e nella società. Attraverso le sue numerose istituzioni per bambini la Chiesa può contribuire a creare una società, ma anche una comunità di fede, che siano più a misura di bambino. Il coraggio di trasmettere la vita viene notevolmente rafforzato laddove si crea un’atmosfera adatta ai piccoli, nella quale viene offerto aiuto e accompagnamento nell’opera di educazione della prole (cooperazione tra parrocchie, genitori e famiglie).

La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (GS, 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti (cf. Rm 2,15), e si fanno accompagnare spiritualmente, tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente. Per amore di questa dignità della coscienza la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto. Il ricorso ai metodi fondati sui «ritmi naturali di fecondità» (HV, 11) andrà incoraggiato. Si metterà in luce che «questi metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano la tenerezza fra di loro e favoriscono l’educazione di una libertà autentica» (CCC, 2370). Va evidenziato sempre che i figli sono un meraviglioso dono di Dio, una gioia per i genitori e per la Chiesa. Attraverso di essi il Signore rinnova il mondo.

Il valore della vita in tutte le sue fasi

64. La vita è dono di Dio e mistero che ci trascende. Per questo, non si devono in alcun modo scartarne gli inizi e lo stadio terminale. Al contrario, è necessario assicurare a queste fasi una speciale attenzione. Oggi, troppo facilmente «si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (EG, 53). A questo riguardo, è compito della famiglia, sostenuta dalla società tutta, accogliere la vita nascente e prendersi cura della sua fase ultima. Riguardo al dramma dell’aborto, la Chiesa anzitutto afferma il carattere sacro e inviolabile della vita umana e si impegna concretamente a favore di essa (cf. EV, 58). Grazie alle sue istituzioni, offre consulenza alle gestanti, sostiene le ragazze-madri, assiste i bambini abbandonati, è vicina a coloro che hanno sofferto l’aborto. A coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza. Allo stesso modo, la Chiesa non solo sente l’urgenza di affermare il diritto alla morte naturale, evitando l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, ma si prende anche cura degli anziani, protegge le persone con disabilità, assiste i malati terminali, conforta i morenti, rigetta fermamente la pena di morte (cf. CCC, 2258).

Adozione e affido

65. L’adozione di bambini, orfani e abbandonati, accolti come propri figli, nello spirito della fede assume la forma di un autentico apostolato familiare (cf. AA, 11), più volte richiamato e incoraggiato dal Magistero (cf. FC, 41; EV, 93). La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, al di là dei casi in cui è dolorosamente segnata dalla sterilità. Tale scelta è segno eloquente dell’accoglienza generativa, testimonianza della fede e compimento dell’amore. Essa restituisce reciproca dignità ad un legame interrotto: agli sposi che non hanno figli e a figli che non hanno genitori. Vanno perciò sostenute tutte le iniziative volte a rendere più agevoli le procedure di adozione. Il traffico di bambini fra Paesi e Continenti va impedito con opportuni interventi legislativi e controlli degli Stati. La continuità della relazione generativa ed educativa ha come fondamento necessario la differenza sessuale di uomo e donna, così come la procreazione. A fronte di quelle situazioni in cui il figlio è preteso a qualsiasi costo, come diritto del proprio completamento, l’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo. L’interesse prevalente del bambino dovrebbe sempre ispirare le decisioni sull’adozione e l’affido. Come ha ricordato Papa Francesco, «i bambini hanno il diritto di crescere in una famiglia, con un papà e una mamma» (Udienza ai Partecipanti al Colloquio internazionale sulla complementarità tra uomo e donna, promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, 17 novembre 2014). Nondimeno, la Chiesa deve proclamare che, laddove è possibile, i bambini hanno diritto a crescere nella loro famiglia natale con il maggior sostegno possibile.

L’educazione dei figli

66. Una delle sfide fondamentali, fra quelle che sono poste alle famiglie oggi, è sicuramente quella educativa, resa più impegnativa e complessa dalla realtà culturale attuale e dalla grande
influenza dei media. Vanno tenute in debito conto le esigenze e le attese di famiglie capaci di essere nella vita quotidiana, luoghi di crescita, di concreta ed essenziale trasmissione della fede, della spiritualità e delle virtù che danno forma all’esistenza. La famiglia di origine è spesso il grembo della vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata: pertanto si esortano i genitori a chiedere al Signore il dono inestimabile della vocazione per qualcuno dei loro figli. Nel campo educativo sia tutelato il diritto dei genitori di scegliere liberamente il tipo di educazione da dare ai figli secondo le loro convinzioni e a condizioni accessibili e di qualità. Occorre aiutare a vivere l’affettività, anche nella relazione coniugale, come un cammino di maturazione, nella sempre più profonda accoglienza dell’altro e in una donazione sempre più piena. Va ribadita in tal senso la necessità di offrire cammini formativi che alimentino la vita coniugale e l’importanza di un laicato che offra un accompagnamento fatto di testimonianza viva. È di grande aiuto l’esempio di un amore fedele e profondo fatto di tenerezza, di rispetto, capace di crescere nel tempo e che nel suo concreto aprirsi alla generazione della vita fa l’esperienza di un mistero che ci trascende.

67. Nelle diverse culture, gli adulti della famiglia conservano una insostituibile funzione educativa. Tuttavia, in molti contesti, stiamo assistendo ad un progressivo indebolimento del ruolo educativo dei genitori, a motivo di un’invasiva presenza dei media all’interno della sfera familiare, oltre che per la tendenza a delegare o a riservare ad altri soggetti questo compito. D’altra parte, i media (specialmente i social media) uniscono i membri della famiglia anche a distanza. L’uso della e-mail e di altri social media può tenere uniti i membri della famiglia nel tempo. Oltre tutto i media possono essere un’occasione per l’evangelizzazione dei giovani. Si richiede che la Chiesa incoraggi e sostenga le famiglie nella loro opera di partecipazione vigile e responsabile nei confronti dei programmi scolastici ed educativi che interessano i loro figli. Vi è unanime consenso nel ribadire che la prima scuola di educazione è la famiglia e che la comunità cristiana si pone a sostegno ed integrazione di questo insostituibile ruolo formativo. Si ritiene necessario individuare spazi e momenti d’incontro per incoraggiare la formazione dei genitori e la condivisione di esperienze tra famiglie. È importante che i genitori siano coinvolti attivamente nei cammini di preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, in qualità di primi educatori e testimoni di fede per i loro figli.

68. Le scuole cattoliche svolgono una funzione vitale nell’assistere i genitori nel loro dovere di educare i figli. L’educazione cattolica favorisce il ruolo della famiglia: assicura una buona preparazione, educa alle virtù e ai valori, istruisce negli insegnamenti della Chiesa. Le scuole cattoliche dovrebbero essere incoraggiate nella loro missione di aiutare gli alunni a crescere come adulti maturi che possono vedere il mondo attraverso lo sguardo di amore di Gesù e che comprendono la vita come una chiamata a servire Dio. Le scuole cattoliche risultano così rilevanti per la missione evangelizzatrice della Chiesa. In molte regioni le scuole cattoliche sono le uniche ad assicurare autentiche opportunità per i bambini di famiglie povere, specialmente per le giovani, offrendo loro un’alternativa alla povertà e una via per dare un vero contributo alla vita della società. Le scuole cattoliche dovrebbero essere incoraggiate a portare avanti la loro azione nelle comunità più povere, servendo i membri meno fortunati e più vulnerabili della nostra società.

Capitolo III
Famiglia e accompagnamento pastorale

Situazioni complesse

69. Il sacramento del matrimonio, come unione fedele e indissolubile tra un uomo e una donna chiamati ad accogliersi reciprocamente e ad accogliere la vita, è una grande grazia per la famiglia umana. La Chiesa ha la gioia e il dovere di annunciare questa grazia a ogni persona e in ogni contesto. Essa sente oggi, in modo ancora più urgente, la responsabilità di far riscoprire ai battezzati come la grazia di Dio opera nella loro vita - anche nelle situazioni più difficili - per condurli alla pienezza del sacramento. Il Sinodo, mentre apprezza ed incoraggia le famiglie che onorano la bellezza del matrimonio cristiano, intende promuovere il discernimento pastorale delle situazioni in cui l’accoglienza di questo dono fatica ad essere apprezzata, oppure è in vario modo compromessa. Mantenere vivo il dialogo pastorale con questi fedeli, per consentire la maturazione di una coerente apertura al Vangelo del matrimonio e della famiglia nella sua pienezza, è una grave responsabilità. I pastori devono identificare gli elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale di coloro che sono affidati dal Signore alla loro cura.

70. La pastorale proponga con chiarezza il messaggio evangelico e colga gli elementi positivi presenti in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più ad esso. In molti Paesi un crescente numero di coppie convivono, senza alcun matrimonio né canonico, né civile. In alcuni Paesi esiste il matrimonio tradizionale, concertato tra famiglie e spesso celebrato in diverse tappe. In altri Paesi invece è in crescita il numero di coloro che, dopo aver vissuto insieme per lungo tempo, chiedono la celebrazione del matrimonio in chiesa. La semplice convivenza è spesso scelta a causa della mentalità generale contraria alle istituzioni e agli impegni definitivi, ma anche per l’attesa di una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso). In altri Paesi, infine, le unioni di fatto diventano sempre più numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma anche per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto. Tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino di conversione verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo.

71. La scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti. In molte circostanze, la decisione di vivere insieme è segno di una relazione che vuole realmente orientarsi ad una prospettiva di stabilità. Questa volontà, che si traduce in un legame duraturo, affidabile e aperto alla vita può considerarsi un impegno su cui innestare un cammino verso il sacramento nuziale, scoperto come il disegno di Dio sulla propria vita. Il cammino di crescita, che può condurre al matrimonio sacramentale, sarà incoraggiato dal riconoscimento dei tratti propri dell’amore generoso e duraturo: il desiderio di cercare il bene dell’altro prima del proprio; l’esperienza del perdono richiesto e donato; l’aspirazione a costituire una famiglia non chiusa su se stessa e aperta al bene della comunità ecclesiale e dell’intera società. Lungo questo percorso potranno essere valorizzati quei segni di amore che propriamente corrispondono al riflesso dell’amore di Dio in un autentico progetto coniugale.

72. Le problematiche relative ai matrimoni misti richiedono una specifica attenzione. I matrimoni tra cattolici e altri battezzati «presentano, pur nella loro particolare fisionomia, numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l’apporto che possono dare al movimento ecumenico». A tal fine «va ricercata […] una cordiale collaborazione tra il ministro cattolico e quello non cattolico, fin dal tempo della preparazione al matrimonio e delle nozze» (FC, 78). Circa la condivisione eucaristica si ricorda che «la decisione di ammettere o no la parte non cattolica del matrimonio alla comunione eucaristica va presa in conformità alle norme generali esistenti in materia, tanto per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani, e tenendo conto di questa situazione particolare, che cioè ricevono il sacramento del matrimonio cristiano due cristiani battezzati. Sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni indicate […]» (Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Direttorio per l’Applicazione dei Principi e delle Norme per l’Ecumenismo, 25 marzo 1993, 159-160).

73. I matrimoni con disparità di culto rappresentano un luogo privilegiato di dialogo interreligioso nella vita quotidiana, e possono essere un segno di speranza per le comunità religiose, specialmente dove esistono situazioni di tensione. I membri della coppia condividono le rispettive esperienze spirituali, oppure un cammino di ricerca religiosa se uno dei due non è credente (cf. 1 Cor 7, 14). I matrimoni con disparità di culto comportano alcune speciali difficoltà sia riguardo alla identità cristiana della famiglia, sia all’educazione religiosa dei figli. Gli sposi sono chiamati a trasformare sempre più il sentimento iniziale di attrazione nel desiderio sincero del bene dell’altro. Questa apertura trasforma anche la diversa appartenenza religiosa in una opportunità di arricchimento della qualità spirituale del rapporto. Il numero delle famiglie composte da unioni coniugali con disparità di culto, in crescita nei territori di missione e anche nei Paesi di lunga tradizione cristiana, sollecita l’urgenza di provvedere ad una cura pastorale differenziata secondo i diversi contesti sociali e culturali. In alcuni Paesi, dove la libertà di religione non esiste, il coniuge cristiano è obbligato a passare ad un’altra religione per potersi sposare, e non può celebrare il matrimonio canonico in disparità di culto né battezzare i figli. Dobbiamo ribadire pertanto la necessità che la libertà religiosa sia rispettata nei confronti di tutti.

74. I matrimoni misti e i matrimoni con disparità di culto presentano aspetti di potenzialità feconde e di criticità molteplici di non facile soluzione, più a livello pastorale che normativo, quali l’educazione religiosa dei figli, la partecipazione alla vita liturgica del coniuge, la condivisione dell’esperienza spirituale. Per affrontare in modo costruttivo le diversità in ordine alla fede, è necessario rivolgere un’attenzione particolare alle persone che si uniscono in tali matrimoni, non solo nel periodo precedente alle nozze. Sfide peculiari affrontano le coppie e le famiglie nelle quali un partner è cattolico e l’altro non credente. In tali casi è necessario testimoniare la capacità del Vangelo di calarsi in queste situazioni così da rendere possibile l’educazione alla fede cristiana dei figli.

75. Particolare difficoltà presentano le situazioni che riguardano l’accesso al battesimo di persone che si trovano in una condizione matrimoniale complessa. Si tratta di persone che hanno contratto un’unione matrimoniale stabile in un tempo in cui ancora almeno una di esse non conosceva la fede cristiana. I Vescovi sono chiamati a esercitare, in questi casi, un discernimento pastorale commisurato al loro bene spirituale.

76. La Chiesa conforma il suo atteggiamento al Signore Gesù che in un amore senza confini si è offerto per ogni persona senza eccezioni (MV, 12). Nei confronti delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, la Chiesa ribadisce che ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, vada rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4). Si riservi una specifica attenzione anche all’accompagnamento delle famiglie in cui vivono persone con tendenza omosessuale. Circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia» (Ibidem). Il Sinodo ritiene in ogni caso del tutto inaccettabile che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso.

Accompagnamento in diverse situazioni

77. La Chiesa fa proprie, in un’affettuosa condivisione, le gioie e le speranze, i dolori e le angosce di ogni famiglia. Stare vicino alla famiglia come compagna di cammino significa, per la Chiesa, assumere un atteggiamento sapientemente differenziato: a volte, è necessario rimanere accanto ed ascoltare in silenzio; altre volte, si deve precedere per indicare la via da percorrere; altre volte ancora, è opportuno seguire, sostenere e incoraggiare. «La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (EG, 169). Il principale contributo alla pastorale familiare lo offre la parrocchia, che è famiglia di famiglie, in cui si armonizzano gli apporti di piccole comunità, movimenti ed associazioni ecclesiali. L’accompagnamento richiede sacerdoti specificatamente preparati. L’istituzione di centri specializzati dove sacerdoti, religiosi e laici imparino a prendersi cura di ogni famiglia, con particolare attenzione verso quelle in difficoltà.

78. Un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente. Il dramma della separazione spesso giunge alla fine di lunghi periodi di conflitto, che fanno ricadere sui figli le sofferenze maggiori. La solitudine del coniuge abbandonato, o che è stato costretto ad interrompere una convivenza caratterizzata da continui e gravi maltrattamenti, sollecita una particolare cura da parte della comunità cristiana. Prevenzione e cura nei casi di violenza familiare richiedono una stretta collaborazione con la giustizia per agire contro i responsabili e proteggere adeguatamente le vittime. Inoltre, è importante promuovere la protezione dei minori dall’abuso sessuale. Nella Chiesa sia mantenuta la tolleranza zero in questi casi, insieme all’accompagnamento delle famiglie. Sembrerebbe poi opportuno tenere in considerazione le famiglie nelle quali alcuni membri svolgono attività che comportano particolari esigenze, come quei militari, che si trovano in uno stato di separazione materiale e di una prolungata lontananza fisica dalla famiglia, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Tornati dagli ambienti di guerra, non raramente costoro sono colpiti da una sindrome post-traumatica e sono turbati nella coscienza che rivolge loro gravi domande morali. Una peculiare attenzione pastorale è qui necessaria.

79. L’esperienza del fallimento matrimoniale è sempre dolorosa per tutti. Lo stesso fallimento, d’altra parte, può diventare occasione di riflessione, di conversione e di affidamento a Dio: presa coscienza delle proprie responsabilità, ognuno può ritrovare in Lui fiducia e speranza. «Dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del mistero di Dio, sgorga e scorre senza sosta il grande fiume della misericordia. Questa fonte non potrà mai esaurirsi, per quanti siano quelli che vi si accostano. Ogni volta che ognuno ne avrà bisogno, potrà accedere ad essa, perché la misericordia di Dio è senza fine» (MV, 25). Il perdono per l’ingiustizia subita non è facile, ma è un cammino che la grazia rende possibile. Di qui la necessità di una pastorale della conversione e della riconciliazione attraverso anche centri di ascolto e di mediazione specializzati da stabilire nelle Diocesi. Va comunque promossa la giustizia nei confronti di tutte le parti coinvolte nel fallimento matrimoniale (coniugi e figli). La comunità cristiana e i suoi Pastori hanno il dovere di chiedere ai coniugi separati e divorziati di trattarsi con rispetto e misericordia, soprattutto per il bene dei figli, ai quali non si deve procurare ulteriore sofferenza. I figli non possono essere un oggetto da contendersi e vanno cercate le forme migliori perché possano superare il trauma della scissione familiare e crescere in maniera il più possibile serena. In ogni caso la Chiesa dovrà sempre mettere in rilievo l’ingiustizia che deriva molto spesso dalla situazione di divorzio.

80. Le famiglie monoparentali hanno origini diverse: madri o padri biologici che non hanno voluto mai integrarsi nella vita familiare, situazioni di violenza da cui un genitore è dovuto fuggire con i figli, morte di uno dei genitori, abbandono della famiglia da parte di uno dei genitori, e altre situazioni. Qualunque sia la causa, il genitore che abita con il bambino deve trovare sostegno e conforto presso le altre famiglie che formano la comunità cristiana, così come presso gli organismi pastorali parrocchiali. Queste famiglie sono spesso ulteriormente afflitte dalla gravità dei problemi economici, dall’incertezza di un lavoro precario, dalla difficoltà per il mantenimento dei figli, dalla mancanza di una casa. La stessa sollecitudine pastorale dovrà essere manifestata nei riguardi delle persone vedove, delle ragazze madri e dei loro bambini.

81. Quando gli sposi sperimentano problemi nelle loro relazioni, devono poter contare sull’aiuto e l’accompagnamento della Chiesa. L’esperienza mostra che con un aiuto adeguato e con l’azione di riconciliazione della grazia dello Spirito Santo una grande percentuale di crisi matrimoniali si superano in maniera soddisfacente. Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare. Il perdono tra gli sposi permette di riscoprire la verità di un amore che è per sempre e non passa mai (cf. 1 Cor 13,8). Nell’ambito delle relazioni familiari la necessità della riconciliazione è praticamente quotidiana. Le incomprensioni dovute alle relazioni con le famiglie di origine, il conflitto tra abitudini culturali e religiose diverse, la divergenza circa l’educazione dei figli, l’ansia per le difficoltà economiche, la tensione che sorge a seguito di dipendenze e della perdita del lavoro. Sono alcuni dei motivi ricorrenti di tensioni e conflitti. La faticosa arte della riconciliazione, che necessita del sostegno della grazia, ha bisogno della generosa collaborazione di parenti ed amici, e talvolta anche di un aiuto esterno e professionale. Nei casi più dolorosi, come quello dell’infedeltà coniugale, è necessaria una vera e propria opera di riparazione alla quale rendersi disponibili. Un patto ferito può essere risanato: a questa speranza occorre educarsi fin dalla preparazione al matrimonio. È fondamentale l’azione dello Spirito Santo nella cura delle persone e delle famiglie ferite, la recezione del sacramento della Riconciliazione e la necessità di cammini spirituali accompagnati da ministri esperti.

82. Per tanti fedeli che hanno vissuto un’esperienza matrimoniale infelice, la verifica dell’invalidità del matrimonio rappresenta una via da percorrere. I recenti Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus e Mitis et Misericors Iesus hanno condotto ad una semplificazione delle procedure per la eventuale dichiarazione di nullità matrimoniale. Con questi testi, il Santo Padre ha voluto anche «rendere evidente che il Vescovo stesso nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati» (MI, preambolo, III). L’attuazione di questi documenti costituisce dunque una grande responsabilità per gli Ordinari diocesani, chiamati a giudicare loro stessi alcune cause e, in ogni modo, ad assicurare un accesso più facile dei fedeli alla giustizia. Ciò implica la preparazione di un personale sufficiente, composto di chierici e laici, che si consacri in modo prioritario a questo servizio ecclesiale. Sarà pertanto necessario mettere a disposizione delle persone separate o delle coppie in crisi, un servizio d’informazione, di consiglio e di mediazione, legato alla pastorale familiare, che potrà pure accogliere le persone in vista dell’indagine preliminare al processo matrimoniale (cf. MI, Art. 2-3).

83. La testimonianza di coloro che anche in condizioni difficili non intraprendono una nuova unione, rimanendo fedeli al vincolo sacramentale, merita l’apprezzamento e il sostegno da parte della Chiesa. Essa vuole mostrare loro il volto di un Dio fedele al suo amore e sempre capace di ridonare forza e speranza. Le persone separate o divorziate ma non risposate, che spesso sono testimoni della fedeltà matrimoniale, vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato.

Discernimento e integrazione

84. I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Quest’integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti. Per la comunità cristiana, prendersi cura di queste persone non è un indebolimento della propria fede e della testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale: anzi, la Chiesa esprime proprio in questa cura la sua carità.

85. San Giovanni Paolo II ha offerto un criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido» (FC, 84). È quindi compito dei presbiteri accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno.

Inoltre, non si può negare che in alcune circostanze «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» (CCC, 1735) a causa di diversi condizionamenti. Di conseguenza, il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla «imputabilità soggettiva» (Pontificio Consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000, 2a). In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. Perciò, pur sostenendo una norma generale, è necessario riconoscere che la responsabilità rispetto a determinate azioni o decisioni non è la medesima in tutti i casi. Il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi.

86. Il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. FC, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa.

Capitolo IV
Famiglia ed evangelizzazione

La spiritualità familiare

87. La famiglia, nella sua vocazione e missione, è veramente un tesoro della Chiesa. Tuttavia, come afferma san Paolo nei riguardi del Vangelo, «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7). Sulla porta d’ingresso della vita della famiglia, afferma Papa Francesco, «sono scritte tre parole […]: “permesso?”, “grazie”, “scusa”. Infatti queste parole aprono la strada per vivere bene nella famiglia, per vivere in pace. Sono parole semplici, ma non così semplici da mettere in pratica! Racchiudono una grande forza: la forza di custodire la casa, anche attraverso mille difficoltà e prove; invece la loro mancanza, a poco a poco apre delle crepe che possono farla persino crollare» (Francesco, Udienza generale, 13 maggio 2015). L’insegnamento dei Pontefici invita ad approfondire la dimensione spirituale della vita familiare a partire dalla riscoperta della preghiera in famiglia e dell’ascolto in comune della Parola di Dio, da cui scaturisce l’impegno di carità. Nutrimento principale della vita spirituale della famiglia è l’Eucaristia, specialmente nel giorno del Signore, quale segno del suo profondo radicarsi nella comunità ecclesiale (cf. Giovanni Paolo II, Dies Domini, 52;66). La preghiera domestica, la partecipazione alla liturgia e la pratica delle devozioni popolari e mariane sono mezzi efficaci di incontro con Gesù Cristo e di evangelizzazione della famiglia. Ciò metterà in evidenza la speciale vocazione degli sposi a realizzare, con la grazia dello Spirito Santo, la loro santità attraverso la vita matrimoniale, anche partecipando al mistero della croce di Cristo, che trasforma le difficoltà e le sofferenze in offerta d’amore.

88. In famiglia la tenerezza è il legame che unisce i genitori tra loro e questi con i figli. Tenerezza vuol dire dare con gioia e suscitare nell’altro la gioia di sentirsi amato. Essa si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente. Trattare con delicatezza e rispetto significa curare le ferite e ridonare speranza, in modo da ravvivare nell’altro la fiducia. La tenerezza nei rapporti familiari è la virtù quotidiana che aiuta a superare i conflitti interiori e relazionali. Al riguardo, Papa Francesco ci invita a riflettere: «Abbiamo il coraggio di accogliere con tenerezza le situazioni difficili e i problemi di chi ci sta accanto, oppure preferiamo le soluzioni impersonali, magari efficienti ma prive del calore del Vangelo? Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo! Pazienza di Dio, vicinanza di Dio, tenerezza di Dio» (Omelia in occasione della Santa Messa della Notte nella Solennità del Natale del Signore, 24 dicembre 2014).

La famiglia soggetto della pastorale

89. Se la famiglia cristiana vuole essere fedele alla sua missione, essa dovrà ben comprendere da dove essa scaturisce: non può evangelizzare senza essere evangelizzata. La missione della famiglia abbraccia l’unione feconda degli sposi, l’educazione dei figli, la testimonianza del sacramento, la preparazione di altre coppie al matrimonio e l’accompagnamento amichevole di quelle coppie o famiglie che incontrano difficoltà. Da qui l’importanza di uno sforzo evangelizzatore e catechetico indirizzato all’interno della famiglia. Al riguardo, si abbia cura di valorizzare le coppie, le madri e i padri, come soggetti attivi della catechesi, specialmente nei confronti dei figli, in collaborazione con sacerdoti, diaconi, persone consacrate e catechisti. Questo sforzo inizia sin dalle prime frequentazioni serie della coppia. È di grande aiuto la catechesi familiare, in quanto metodo efficace per formare i giovani genitori e per renderli consapevoli della loro missione come evangelizzatori della propria famiglia. Inoltre, è molto importante sottolineare il nesso tra esperienza familiare e iniziazione cristiana. La comunità cristiana tutta deve diventare il luogo in cui le famiglie nascono, si incontrano e si confrontano insieme, camminando nella fede e condividendo percorsi di crescita e di reciproco scambio.

90. La Chiesa deve infondere nelle famiglie un senso di appartenenza ecclesiale, un senso del “noi” nel quale nessun membro è dimenticato. Tutti siano incoraggiati a sviluppare le proprie capacità e a realizzare il progetto della propria vita a servizio del Regno di Dio. Ogni famiglia, inserita nel contesto ecclesiale, riscopra la gioia della comunione con altre famiglie per servire il bene comune della società, promuovendo una politica, un’economia e una cultura al servizio della famiglia, anche attraverso l’utilizzo dei social network e dei media. Si auspica la possibilità di creare piccole comunità di famiglie come testimoni viventi dei valori evangelici. Si avverte il bisogno di preparare, formare e responsabilizzare alcune famiglie che possano accompagnarne altre a vivere cristianamente. Vanno pure ricordate e incoraggiate le famiglie che si rendono disponibili a vivere la missione “ad gentes”. Infine, si segnala l’importanza di collegare la pastorale giovanile con la pastorale familiare.

Il rapporto con le culture e con le istituzioni

91. La Chiesa «che ha conosciuto nel corso dei secoli condizioni d’esistenza diverse, si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare nella sua predicazione il messaggio di Cristo a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli» (GS 58). È importante dunque, tener conto di queste culture e rispettare ciascuna di esse nelle sue particolarità. Conviene pure richiamare ciò che scriveva il Beato Paolo VI: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture» (EN, 20). La pastorale matrimoniale e familiare necessita di stimare quegli elementi positivi che s’incontrano nelle diverse esperienze religiose e culturali, i quali rappresentano una “praeparatio evangelica”. Nell’incontro con le culture, tuttavia, un’evangelizzazione attenta alle esigenze della promozione umana della famiglia non potrà sottrarsi alla franca denunzia dei condizionamenti culturali, sociali, politici ed economici. L’egemonia crescente della logica del mercato, che mortifica gli spazi e i tempi di un’autentica vita familiare, concorre anche ad aggravare discriminazioni, povertà, esclusioni, violenza. Tra le diverse famiglie che versano in condizioni di indigenza economica, a causa della disoccupazione o della precarietà lavorativa o della mancanza di assistenza socio-sanitaria, non di rado accade che alcuni, non potendo accedere al credito, si trovino ad essere vittime dell’usura e si vedano a volte costretti ad abbandonare le loro case e perfino i loro bambini. A tale riguardo, si suggerisce di creare strutture economiche di sostegno adeguato per aiutare tali famiglie o capaci di promuovere la solidarietà familiare e sociale.

92. La famiglia è «la cellula prima e vitale della società» (AA, 11). Essa deve riscoprire la sua vocazione a sostegno del vivere sociale in tutti i suoi aspetti. È indispensabile che le famiglie, attraverso il loro aggregarsi, trovino le modalità per interagire con le istituzioni politiche, economiche e culturali, al fine di edificare una società più giusta. Per questo vanno sviluppati il dialogo e la cooperazione con le strutture sociali, e vanno incoraggiati e sostenuti i laici che si impegnano, come cristiani, in ambito culturale e socio-politico. La politica deve rispettare in modo particolare il principio della sussidiarietà e non limitare i diritti delle famiglie. È importante a tal proposito considerare la “Carta dei diritti della Famiglia” (cf. Pontificio Consiglio per la Famiglia, 22 ottobre 1983) e la “Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo” (10 dicembre 1948). Per i cristiani che operano in politica l’impegno per la vita e la famiglia deve avere la priorità, giacché una società che trascura la famiglia ha perduto la sua apertura al futuro. Le associazioni familiari, impegnate nel lavoro comune insieme a gruppi di altre tradizioni cristiane, hanno tra i loro scopi principali, tra gli altri, la promozione e la difesa della vita e della famiglia, della libertà di educazione e della libertà religiosa, dell’armonizzazione fra il tempo per il lavoro e il tempo per la famiglia, la difesa delle donne nel lavoro, la tutela dell’obiezione di coscienza.

L’apertura alla missione

93. La famiglia dei battezzati è per sua natura missionaria e accresce la propria fede nell’atto di donarla agli altri, prima di tutto ai propri figli. Il fatto stesso di vivere la comunione familiare è la sua prima forma di annuncio. In effetti, l’evangelizzazione comincia dalla famiglia, nella quale non si trasmette soltanto la vita fisica, ma anche la vita spirituale. Il ruolo dei nonni nella trasmissione della fede e delle pratiche religiose non deve essere dimenticato: sono i testimoni del legame tra le generazioni, custodi di tradizioni di saggezza, preghiera e buon esempio. La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale.

CONCLUSIONE

94. Nel corso di quest’Assemblea noi Padri sinodali, riuniti intorno a Papa Francesco, abbiamo sperimentato la tenerezza e la preghiera di tutta la Chiesa, abbiamo camminato come i discepoli di Emmaus e riconosciuto la presenza di Cristo nello spezzare il pane alla mensa eucaristica, nella comunione fraterna, nella condivisione delle esperienze pastorali. Ci auguriamo che il frutto di questo lavoro, ora consegnato nelle mani del Successore di Pietro, dia speranza e gioia a tante famiglie nel mondo, orientamento ai pastori e agli operatori pastorali e stimolo all’opera dell’evangelizzazione. Concludendo questa Relazione, chiediamo umilmente al Santo Padre che valuti l’opportunità di offrire un documento sulla famiglia, perché in essa, Chiesa domestica, risplenda sempre più Cristo, luce del mondo.

Preghiera alla Santa Famiglia

Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore dell’amore vero,
a voi con fiducia ci rivolgiamo.

Santa Famiglia di Nazareth,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole del Vangelo
e piccole Chiese domestiche.

Santa Famiglia di Nazareth,
mai più nelle famiglie si faccia esperienza
di violenza, chiusura e divisione:
chiunque è stato ferito o scandalizzato
conosca presto consolazione e guarigione.

Santa Famiglia di Nazareth,
ridesta in tutti la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
la sua bellezza nel progetto di Dio.

Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltate, esaudite la nostra supplica.

Amen.

Votazioni dei singoli numeri della Relazione finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco

Padri presenti: 265

[Due terzi: 177]

Non sono indicate le astensioni

Numero SI NO
1 260 0
2 257 0
3 255 1
4 256 2
5 256 3
6 249 9
7 248 9
8 245 9
9 254 4
10 253 7
11 256 1
12 253 5
13 255 5
14 256 5
15 255 5
16 254 8
17 259 1
18 258 1
19 255 5
20 257 3
21 256 4
22 252 4
23 253 4
24 255 5
25 242 15
26 256 2
27 251 9
28 257 4
29 249 8
30 250 7
31 253 7
32 249 6
33 246 12
34 245 11
35 259 2
36 256 3
37 252 6
38 251 5
39 255 3
40 255 6
41 253 7
42 257 2
43 254 6
44 247 11
45 249 6
46 254 5
47 246 11
48 253 6
49 253 5
50 252 6
51 250 11
52 252 5
53 244 15
54 236 21
55 243 14
56 248 10
57 257 2
58 247 14
59 258 3
60 259 1
61 254 7
62 259 0
63 237 21
64 247 11
65 252 7
66 258 0
67 259 0
68 253 3
69 236 21
70 213 47
71 218 42
72 229 29
73 236 24
74 223 36
75 205 52
76 221 37
77 247 11
78 250 8
79 246 14
80 253 6
81 253 7
82 244 16
83 248 12
84 187 72
85 178 80
86 190 64
87 255 3
88 252 4
89 257 2
90 255 5
91 248 12
92 256 4
93 255 2
94 253 5

Redazione de Gliscritti | Sabato 24 Ottobre 2015 - 8:04 pm | | Default

«Famiglia e unioni, siamo consapevoli e preoccupati dei rischi eppure sereni». Una lettera importante di Raffaella e Giuseppe Butturini, presidenti nazionali di “Famiglie numerose” al direttore di Avvenire Marco Tarquinio

Riprendiamo da Avvenire del 20/10/2015 una lettera di Raffaella e Giuseppe Butturini, presidenti nazionali di “Famiglie numerose” al direttore di Avvenire Marco Tarquinio, con la risposta di Tarquinio stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e, per la maternità surrogata, Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (20/10/2015)

1/ La lettera di Raffaella e Giuseppe Butturini, presidenti nazionali di “Famiglie numerose” 

Caro direttore,
il disegno di legge Cirinnà sulle unioni omosessuali e sulle convivenze di fatto è dunque passato dalla Commissione Giustizia – dove non ha completato l’iter – direttamente all’aula del Senato. Qualche ragione ci sarà, ma l’uso della forza in una materia così seria e divisiva non porta da nessuna parte, se non alla perdita di eventuali ragioni, se non ad accrescere le contrapposizioni e a motivare ancor di più chi sta promuovendo una raccolta di firme contro il ddl o chi pensa a un nuovo evento pubblico. Iniziative più che legittime, ma sulla cui opportunità ed efficacia ci sono diversità di pareri nel Paese e nello stesso associazionismo familiare.

C’è chi crede nella emendabilità del ddl, riferendolo all’art. 2 della Costituzione (formazioni sociali) e non all’art. 29 (famiglia fondata sul matrimonio) ed escludendo rimandi alle norme del codice civile sul matrimonio, adozioni da parte di coppie omosessuali e pratica dell’utero in affitto. C’è chi, invece, lo ritiene inemendabile perché resterebbe comunque un matrimonio con altro nome dalle gravi e persino devastanti conseguenze. Per di più non si può ignorare che chi sostiene il ddl Cirinnà difficilmente accetterebbe lo stravolgimento della sua proposta. 

Che dire? Certamente lo Stato ha il diritto di fare leggi e nessuna società sarà mai come noi che crediamo alla famiglia “bella” (e di sempre) la vorremmo: siamo una “parte” non possiamo imporci, ma proporci e magari attrarre. Sappiamo che nessuna legge sarà perfetta e che le leggi civili non sempre corrispondono al diritto naturale; già lo scriveva nel 535 il Digesto dell’imperatore Giustiniano, affermando che il «diritto civile non si allontana mai del tutto dal diritto naturale o delle genti, ma neppure obbedisce a esso in ogni aspetto». 
È certo che non si può negare a due persone, anche dello stesso sesso, di unirsi per tutta la vita. Ma è ancor più certo che non si può mettere sullo stesso piano il matrimonio e la “famiglia costituzionale” con altri tipi di unione. Don Milani – “Avvenire” l’ha ricordato spesso – ha insegnato una volta per tutte che «non c’è nulla di più ingiusto quanto fare parti uguali fra realtà diseguali».

E in Italia bisogna cominciare a chiedersi perché mai le famiglie con figli (e altri carichi famigliari) – realtà senza potere ma cariche di vita e di speranza – continuino a essere colpite da pesanti, continue e diffuse discriminazioni e diminuzioni di ruolo. Cambiare questo stato di cose non è forse una grande priorità? Eppure, se non ci saranno imprevisti (pur possibili), in base ai rapporti di forza in Parlamento, con l’attuale maggioranza di governo o con il consenso di altre forze una legge sulle “unioni civili” alla fine si farà. 

Che fare? L’esperienza ci dice che una raccolta di firme così come un nuovo evento di piazza sarebbero più una testimonianza che una reale possibilità di bloccare la legge. Ma è altrettanto vero che tali strumenti allargano il coinvolgimento delle persone e accrescono la consapevolezza dei problemi. Non è poi detto che gli emendamenti al ddl siano per forza inefficaci; se ben mirati possono davvero cambiare la legge. E non è un mistero che, per noi, la pace e l’unione delle realtà sociali, civili e religiose sono un bene necessario

Perché allora non ricominciare daccapo, con un testo nuovo, stavolta scritto guardando seriamente in faccia la nostra realtà italiana e tenendo conto – in piena libertà di coscienza – della forza potenzialmente unificante o divisiva di una iniziativa legislativa così delicata? Perché non trovare una strada comune e punti di intesa, lontani da ogni ideologizzazione, perché fondati sul rispetto di tutti? I senatori ci pensino, perché la posta in gioco prima di essere “politica” è umana è morale.

Tutti possono e devono rendersi conto che l’attuale disegno di legge non si limiterebbe ad allargare la realtà del matrimonio e della famiglia, ma la stravolgerebbe, mettendo a rischio la stessa struttura della società e aprendo la strada alla mercificazione della donna e del bambino. 

Questa è l’esperienza, la preoccupazione il pensiero di mamme e papà di tante famiglie numerose: felici di esserlo e certi che la famiglia riconosciuta dalla Costituzione italiana – uno sposo e una sposa aperti ai figli – è bella e ci sarà sempre. Una certezza e una felicità che, in definitiva, non vengono solo da noi. Talvolta ci ritroviamo fragili, “in vasi di creta”, ma il “Vasaio” non ci abbandona, spingendoci sempre al rispetto, all’accoglienza per ogni persona e situazione, aprendoci al dialogo. Per questo siamo sereni, perché la famiglia che nasce da una mamma e un papà – immagine quotidiana dell’Amore più grande – c’è e resiste

Raffaella e Giuseppe Butturini, presidenti nazionali di “Famiglie numerose” 

2/ La risposta di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire

Apprezzo molto, cari presidenti, il tono e gli argomenti che usate e la sensibilità con cui lo fate. Credo che siano frutto di quella consapevole abitudine al dialogo che è davvero naturale per chi vive la realtà di una “famiglia numerosa” e di un laico metodo di lavoro associativo che vi porta felicemente a riunire con concretezza e alta idealità persone credenti – cristiane o di altre fedi – e non credenti.

Condivido anche le vostre preoccupazioni e perplessità su opzioni e strumenti usati in Parlamento e nella società sulla delicata frontiera della progettata normativa sulle “unioni civili” anche e soprattutto per persone dello stesso sesso. In tutta franchezza, nonostante la ragionevolezza di suggerimenti e appunti che tornate a proporre, penso sia difficile che il Pd fermi le macchine del lavoro parlamentare e si impegni per realizzare un testo normativo nuovo e più saggio, ma mi piace continuare a credere che ci sia ancora spazio per interventi di qualità.

Emendamenti, cioè, che correggano le insostenibili leggerezze simil–matrimoniali del ddl Cirinnà e che scongiurino l’evidente rischio – attraverso la cosiddetta stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner – di aprire la porta alla legalizzazione del commercio legato alla disumana pratica dell’«utero in affitto», che voi richiamate con la tragica e assolutamente realistica immagine della «mercificazione della donna e del bambino».

Per il resto vedo e denuncio da tempo anch’io – come voi, come il segretario generale della Cei, il vescovo Galantino e come tanti altri autorevoli analisti e interpreti della società italiana – che nel nostro Paese c’è una priorità da troppi anni ignorata o almeno sottovalutata dalla gran parte dei politici (e dagli opinionisti): il sostegno alla famiglia costituzionale, madre e padre con figli, secondo le vostre parole la «famiglia “bella” e di sempre», il naturale grembo della vita. Senza questo rispetto pieno ed effettivo nessun altro rispetto ha davvero contenuto e nessuna comunità umana ha degno futuro. 

Grazie della vostra impegnata serenità e della forza buona a cui date voce

Marco Tarquinio, direttore di Avvenire

Redazione de Gliscritti | Martedì 20 Ottobre 2015 - 12:00 pm | | Default

1/ Introduzione a "Sine Dominico non possumus". I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, di Giuseppe Micunco 2/ Gli atti dei martiri Saturnino presbitero e compagni, martiri di Abitene

1/ Introduzione a "Sine Dominico non possumus". I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, di Giuseppe Micunco

Riprendiamo da Senza la domenica non possiamo vivere. Atti del XXIV Congresso Eucaristico nazionale (Bari 21-29 maggio 2005), Levante Editore, Bari, 2005, pp. 261-274, un testo di Giuseppe Micunco già edito in Sine dominico non possumus. I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale (Testo degli Atti dei martiri di Abitene, con introduzione, traduzione e note di G. Micunco, presentazione di Vito Angiuli), Ecumenica editrice, Bari, 2004. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Medjez el Bab, l'antica Mambressa, oggi in Tunisia, sul fiume Medjerda, 
nelle cui vicinanze era l'antica Abitene, oggi Chouchoud el-Batin

Presentazione di mons. Vito Angiuli, Provicario generale dell'Arcidiocesi di Bari-Bitonto

Sine dominico non possumus.L'avere scelto questa celebre espressione dei martiri di Abitene come tema per il Congresso Eucaristico Nazionale di Bari (21-29 maggio 2005) ha quasi naturalmente fatto nascere il desiderio di conoscere meglio il testo del martirio dei santi Saturnino, Dativo e molti altri in Africa sotto Diocleziano. Si è pensato di riproporlo in una nuova traduzione, con testo latino a fronte, in una forma che, pur mantenendo il rigore scientifico, potesse essere accessibile a tutti[1].

Il resoconto degli interrogatori è particolarmente interessante anche per il nostro tempo. Nel dialogo con il loro persecutore, durante il processo condotto tra terribili torture, le parole dei martiri, apparentemente così semplici e disarmanti, appaiono fresche nella loro immediatezza. A ben vedere, esse sono impregnate di Sacra Scrittura, di spirito di contemplazione e di preghiera, di fede profonda, sia che si tratti del vecchio presbitero Saturnino come del lettore Emerito, della giovane vergine Vittoria o del piccolo Ilarione. Al proconsole Anulino, che vorrebbe gli fossero consegnati i libri sacri per bruciarli, unanimemente rispondono che essi custodiscono la Scrittura nei loro cuori e che essa è scritta «non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivo, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del cuore» (cap. XI; cfr 2 Cor 3,3); Vittoria ribadisce che i veri fratelli non sono quelli della carne, ma, risponde, «quelli che osservano i precetti di Dio» (cap. XVI; cfr Mt 12,50); Emerito dichiara che l'Eucaristia è l'essenza stessa della loro vita, la linfa che scorre dalla vite ai tralci, per cui senza di essa «non possono essere» (cap. XI; cfr Gv 15,5). Non ha dunque senso, e non esiste da nessuna parte un cristiano senza la "Pasqua domenicale"; sono talmente una cosa sola che «l'uno non può sussistere senza l'altra» (cap. XII).

E vivono la Scrittura e l'Eucaristia nel perdono dei nemici: «ben ricordando l'insegnamento del vangelo, il martire chiedeva perdono per i suoi nemici» (cap. VI, cfr Mt 5,44; Lc 23,24) e pregano, come Stefano (cfr At 7,60): «O Dio altissimo, non imputare loro questi peccati». Vivono Scrittura e Eucaristia nel continuo rendimento di grazie, e anche tra i tormenti non cessano di rendere lode a Dio: «Ti rendo grazie, o Dio». La loro vita, il loro martirio, la loro morte, tutto è "rendimento di grazie", Eucaristia.

Il testo, curato dal prof. Giuseppe Micunco, si presenta particolarmente ricco e stimolante. L'Introduzione,oltre a inquadrare storicamente la vicenda dei martiri di Abitene durante la persecuzione di Diocleziano (303-304), analizzandone le circostanze e le motivazioni, a pochi anni ormai dall'editto di libertà religiosa di Costantino, propone, a partire da una puntuale analisi del lessico, gli elementi teologici, biblici e patristici che permettono di leggere in maniera chiara e documentata il testo. Approfondisce, soprattutto, il significato del termine dominicum,della realtà meravigliosa che costituiva per la primitiva comunità cristiana la "Pasqua domenicale", in un nesso tra scrittura, liturgia, vita, così stretto da costituire in sostanza la causa della persecuzione e del martirio.

La traduzione, chiara e scorrevole, segue molto fedelmente il testo latino ed è accompagnata da un ricco corredo di note linguistiche, storico-culturali, biblico-patristiche, che rendono più fruibile il testo. In Appendice,è riportata una antologia di testi dei Padri, da Ignazio di Antiochia a Fulgenzio di Ruspe, su Eucaristia e martirio. Completano il lavoro gli indici dei passi biblici e patristici.

È la martyrìa,la testimonianza fondamentale che i martiri di Abitene ci hanno trasmesso, a prezzo del loro sangue: con il Congresso Eucaristico Nazionale di Bari vogliamo farne memoria e riproporla alla fede delle comunità cristiane.

"Sine Dominico non possumus". I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, di Giuseppe Micunco. Introduzione

I. I martiri di Abitene e il Dominicum

1. «Senza il dominicum non possiamo essere»

Sine dominico non possumus:«Senza il dominicum non possiamo». La testimonianza che i martiri della cittadina africana di Abitene[2] (nell'odierna Tunisia) resero a Cristo durante la persecuzione di Diocleziano, agli inizi del IV secolo, si può ricondurre tutta a questa confessione di fede: sono stati arrestati mentre celebravano il dominicum;il dominicum è l'unica loro ragion d'essere; e per averlo celebrato vengono torturati e messi a morte. «Senza il dominicum non possiamo» (cap. XII), attesta per tutti uno dei martiri, il lettore Emerito. Non aggiunge altro. Potrebbe voler dire «non possiamo vivere»:sembrerebbe il completamento più logico e immediato della frase. Ma potremmo completare anche «non possiamo far nulla»,rifacendoci all'affermazione di Gesù: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5), a proposito della vite e dei tralci, anche con un riferimento eucaristico.

Ma è forse più opportuno integrare «non possiamo essere», riprendendo un'espressione che nel testo stesso ricorre poco più avanti: il proconsole Anulino dice a Emerito di non voler sapere se lui sia cristiano o meno, ma se ha partecipato alla celebrazione del dominicum,e l'autore degli Atti dei martiri di Abitene commenta: «Come se il cristiano possa essere senza il dominicum (quasi christianus sine dominico esse possit)»,dato che «l'uno non è in grado di essere (valeat esse)senza l'altro».

È, dunque, una questione di identità: il dominicum è l'essenza stessa del cristiano, il suo statuto (in dominico christianum constitutum:«è il dominicum,che costituisce, che fa il cristiano»), è anzi il cristiano stesso («se senti il nome cristiano,sappi che lì c'è il dominicum»).Una identità ontologica, prima ancora che esistenziale o etica o spirituale.

Le accuse che portano all'arresto, alle torture, alla condanna a morte, ruotano anche intorno ad altre due parole, la "colletta" (cioè la 'riunione, assemblea') e le Scritture, ma, a ben vedere, il punto centrale è il dominicum,a cui si legano strettamente la "colletta" e le Scritture. Ma cos'è il dominicum?

2. Il dominicum,"Pasqua domenicale"

Dominicum è il neutro sostantivato dell'aggettivo dominicus,"del Signore (Dominus)",e da solo significa "una cosa che è del Signore", che appartiene a lui, al Dominus.Sappiamo che Dominus, equivalente del greco Kyrios,indica il Signore glorioso, il Risorto. L'aggettivo neutro dominicum potrebbe sottintendere un sostantivo, poi caduto, ma di cui ha assunto il valore (come dominica dies, "il giorno del Signore", caduto dies, è diventato la Domenica).

Per dominicum le possibilità sono diverse:

dominicum corpus: "il corpo del Signore", offerto in sacrificio, divino nutrimento dei fedeli (cfr Agostino, anim. 1,1,14: sacrificium corporis dominici offertur);

dominicum sacrificium:"il sacrificio del Signore", di cui l'Eucaristia è sacramento (cfr Cipriano, epist.63,4,1: sacrifici dominici sacramentum);

dominicum sacramentum:"il sacramento del Signore", "forza" dei fedeli (cfr Agostino, serm. dub. 363,2: vim dominici sacramenti);

dominicum mysterium:"il mistero del Signore", della sua Pasqua (cfr Rufina, hist. 5,23,2: dominicum paschae celebrare mysterium);

dominicum pascha:"la Pasqua del Signore", il suo mistero di morte e risurrezione (cfr Girolamo, epist. 96,20: dominicum pascha celebrare);

dominicum convivium:"il convito del Signore" (ma anche la "mensa, la cena", cfr Agostino, serm. 46,36; 90,1: convivium dominicum; sacramentum mensae dominicae):il termine comprende bene anche lo stare insieme dei fratelli nella carità per la celebrazione della cena;

dominicum diem: "il giorno del Signore" (in questo caso il termine sottinteso, è diem, accusativo di dies,nome che può essere sia maschile che femminile; cfr Agostino[3], quaest. test. 112,1: duplici genere dominicus dies appellatur, primum quia in initio factus a Domino est, deinde quia in eo resurrexit, «per un doppio ordine di motivi viene chiamato "il giorno del Signore", prima di tutto perché in principio fu fatto dal Signore, poi perché in quel giorno è risorto»): questo giorno è "il giorno ottavo eterno" (cfr Agostino, civ. 22.30: dominicus dies velut octavus aeternus);in maniera privilegiata è la "domenica di Pasqua" (cfr Agostino, serm. 315,1: incipit legi a dominico Paschae, «si comincia a leggere dalla domenica di Pasqua»).

È bene mettere insieme un po' tutti questi valori, riprendendo l'espressione di Paolo «cena del Signore» (kyriakòn dèipnon,1 Cor 11,20), Isidoro di Siviglia (orig. 6,18,16): «la cena è detta 'del Signore', perché in quel giorno il Salvatore fece la Pasqua con i suoi discepoli» (cena dominico dieta est quia in eo die Salvator pascha cum suis discipulis fecerit):la spiegazione può apparire paradossale, perché, secondo il nostro modo di ragionare, il Signore Gesù celebrò la pasqua con i suoi discepoli nel giorno che noi chiamiamo "giovedì santo", ma, in realtà, secondo il giusto modo di vedere di Isidoro, anche quella celebrazione 'pasquale' si fonda sull'intero mistero pasquale, di Cristo, della sua morte e risurrezione, quello che in maniera piena celebriamo nel giorno di Pasqua che è la domenica, "il primo giorno della settimana" (Mt 28,1), "il primo giorno dopo il sabato" (Lc 24,1), "il giorno del Signore" (Ap 1,10): è la Pasqua che fa il giorno del Signore, la domenica (e il giorno che ha fatto il Signore», Sal 117,24); non la domenica la Pasqua. Isidoro mette insieme il sacramento dell'Eucaristia, il mistero della Pasqua, il giorno del Signore, il convito, il radunarsi dei suoi discepoli nella carità per la celebrazione del sacrificio di salvezza.

In realtà il termine dominicum comprende tutti questi valori: è il giorno del Signore, nel quale si celebra il sacramento del sacrificio del Signore, il suo mistero di morte e risurrezione, la sua pasqua, nella cena del corpo del Signore, convito del Signore con i fratelli.

Una espressione sintetica, che potrebbe riassumere tutto questo, è forse "celebrare la Pasqua domenicale": il termine 'Pasqua' contiene l'idea di sacrificio (dell'Agnello pasquale, dell'Antico e del Nuovo Testamento), di sacramento/mistero (la celebrazione che fa vivere il mistero pasquale di morte e risurrezione), di cena/convito (mangiare insieme la Pasqua: festa gioiosa dei fratelli); il termine 'domenicale' lega la pasqua alla domenica, al giorno della risurrezione del Signore, al giorno dell'incontro gioioso del Risorto con i discepoli, un valore, quest'ultimo, già implicito nel termine "celebrare", che in latino indica prima di tutto 'concorso di gente', 'gente che si raduna per una festa pubblica o per altro pubblico evento'.

La Pasqua domenicale è la "festa primordiale", perché senza di essa nessun'altra realtà cristiana avrebbe senso, "potrebbe essere": «se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede» (cfr 1 Cor 15,14); la risurrezione di Cristo dalla morte è la nostra salvezza, è la nostra speranza, è la nostra luce, è la nostra vita, è il nostro "essere"[4]. Questo mistero pasquale di morte e di risurrezione si vive nella celebrazione del sacramento del corpo e sangue del Signore, insieme ai fratelli, nel giorno che ha fatto il Signore.

Un ultimo valore, ma non per questo meno importante, troviamo nel termine dominicum, ed è quello di "casa del Signore", luogo della celebrazione, basilica; in alcuni casi si tratta chiaramente del luogo in cui si devono radunare i fedeli[5], altre volte il termine sembra indicare contemporaneamente il luogo e i fedeli che vi si radunano per il dominicum o la celebrazione stessa[6]: è la felice ambiguità che ancora abbiamo tra chiesa/edificio e chiesa/comunità cristiana. È interessante, a tal riguardo, che il termine greco kyriakòn (il corrispondente del lat. dominicum)si sia conservato nelle lingue anglosassoni (vd. ingl. church,ted. kirche) a indicare la chiesa, sia edificio che comunità. La pasqua domenicale implica, dunque, questo ulteriore valore: tempio o casa che sia, la Pasqua non è una celebrazione solo 'spirituale', ma 'fisica': ha bisogno di un luogo per la celebrazione; anche Gesù ha cercato un luogo per celebrare la Pasqua con i suoi discepoli. Vale la pena di notare, infine che tutti, o quasi, i valori che abbiamo individuato nel termine dominicum si ritrovano in un testo molto antico (inizio del II secolo), di un pagano per giunta, Plinio il Giovane, il quale, sia pure dall'esterno, e sostanzialmente senza capirci niente, scrivendo all'imperatore Traiano (ep.X, 96) circa il comportamento da tenere nei confronti dei cristiani, nota i seguenti elementi fondamentali del dominicum[7]:

- i cristiani sono soliti (quindi è una loro 'legge')

- radunarsi (convenire)

- in un giorno stabilito, preciso (stato die)

- prima dell'alba (ante lucem: è un riferimento indiretto alla notte della pasqua di risurrezione[8])

- di cantare un canto a Cristo come a un dio (Plinio non comprende bene se si tratti di un uomo o di un dio)

- di stringersi in un giuramento a non fare del male (se sacramento non in scelus aliquod obstringere: Plinio non può comprendere che il termine sacramentum ha assunto un nuovo significato, quello della celebrazione eucaristica e dell'impegno all'amore per Dio e per i fratelli)

- di prendere insieme un cibo comune e innocuo (ad capiendum cibum promiscuum et innoxium:anche qui Plinio rileva soltanto che vengono usati alimenti comuni, evidentemente pane e vino, privi di ogni pericolo per alcuno; non può comprendere che si tratta del pane eucaristico, del Corpo del Signore).

3. Il dominicum negli Atti dei martiri di Abitene

Celebrare il dominicum

Nei diciassette capitoli degli Atti il termine dominicum compare ben 19 volte[9]. Lo si ritrova nelle espressioni celebrare dominicum[10], agere dominicum[11], convenire in dominicum[12]. Il termine celebrare indica in latino prima di tutto grande concorso di gente e, quindi, mette in evidenza soprattutto il ritrovarsi dei fratelli; il verbo agere sottolinea che si tratta di una 'azione' liturgica; il convenire sottolinea invece il radunarsi da vari luoghi per l'assemblea liturgica. La celebrazione esprime e consolida la carità fraterna (spesso è presente l'espressione cum fratribus,"con i fratelli": VII, VIII, XVI); si svolge con grande solennità (gloriosissime, XII), con grande pietà e devozione (magno religionis devotione, VIII), nella pace (securi, IX).

Il luogo della celebrazione del dominicum. La casa dell'ottavo giorno

La celebrazione del dominicum,durante la quale i martiri vengono arrestati, si svolge nella casa di Ottavio Felice (cap. II); anche le altre celebrazioni si erano svolte in una casa privata, quella di Emerito (cuius in domo collectae factae sunt: «in casa sua si sono tenute le assemblee liturgiche», capp. X, XI; in domo meo egimus dominicum, «in casa mia abbiamo celebrato il dominicum»). Queste case sono delle vere chiese domestiche e avevano dignità di tempio o di 'basilica': l'editto persecutorio di Diocleziano ordinava di distruggere le basiliche, ma gli edifici sacri veri e propri dovevano essere ancora davvero pochi[13]: l'editto è rivolto dunque soprattutto contro queste chiese domestiche, questi luoghi in cui si fanno le "collette", cioè le riunioni di culto, le assemblee liturgiche, luoghi che possono a pieno titolo chiamarsi anche basiliche, cioè "case del re"[14]. Nel cap. XII Emerito chiama la sua casa, in cui si sono tenute le "collette", dominicum: «siamo convenuti nel dominicum»:la sua casa è la "casa del Signore", la "chiesa" del Signore; anche nelle parole di Emerito dominicum può essere insieme il luogo della celebrazione e la celebrazione stessa.

Avanzo l'ipotesi (ma per i cristiani dei primi secoli non erano insoliti questi giochi di parole, soprattutto quando volevanodire in maniera velataqualcosa di importante che i profani non dovevanosapere) che l'autore degli Atti quando dice che furono arrestati mentre celebravano il dominicum in casa di OttavioFelice (in domo Octavi Felicis), giochi sul termine Octavi(che può essere genitivotanto di Octavius quanto di Octavus),sottintendendo diei "del giorno", volendoquindi far intendere ai cristiani "nella casa dell'ottavo giorno", del giorno della risurrezione di Cristo, giorno anche "felice", come fu presto definita la notte della Pasqua (pensiamo all'«o felice notte!» dell'Exultet)[15]; il numero pasquale otto viene da Pietro (1 Pt3,20-1) indicato a significare la comunità dei salvati: «nell'arca poche persone, otto in tutto, furono salvateper mezzo dell'acqua, figura, questa, del battesimo, che ora salva voi»:e i più antichi battisteri furono anche per questo ottagonali.

Una tale interpretazione risolverebbe anche il problema della 'contraddizione' (per alcuni segno di una redazione più tarda del testo) tra la notizia del cap. II (il dominicum si stavacelebrando in casa di Ottavio Felice) e quella del cap. X-XI (le celebrazioni si tenevano in casa di Emerito), contraddizione, in realtà, superabile «pensando che i fedeli fossero stati arrestati nel domicilio di Ottavio Felice, ma che, in passato, si fossero riuniti presso Emerito»[16]: la casa della celebrazione potrebbe essere solo quella di Emerito, la casa Octavi Felias,potrebbe volerricordare ai cristiani che la celebrazione avviene nell'ottavo giorno, giorno «felice» della risurrezione del Signore.

È legge celebrare il dominicum

Il dominicum si celebra «sempre», secondo una consolidata «consuetudine» (ex more, II; semper,XII; non potest intermitti, «non si può interrompere, non si può smettere di celebrarlo», IX, X), secondo quanto prescrive una legge fondata sulla Scrittura (lex sic iubet, lex sic docet, X): lex, come vedremo, è, in questo testo, praticamente sinonimo di Scrittura: celebrare il dominicum obbedisce all'ordine dato dal Signore, secondo quanto riferisce Paolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta viho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane... e disse: "... fate questo in memoria di me"» (1 Cor 11,23-24).

Lo si celebra perché sine dominico non possumus (e senza la Pasqua domenicale non possiamo (essere)», XI); perché Christianus sine dominico esse non potest («il cristiano non può essere senza la Pasqua domenicale», XII); perché in dominico christianum constitutum («il cristiano è fondato sulla Pasqua domenicale», XII); perché dominicum est spes solusque christianorum «la Pasqua domenicale è speranza e salvezzadei cristiani», XIII); egi dominicum quia salvator est Christus (e ho partecipato alla Pasqua domenicale perché Cristo è il salvatore»).

Il dominicum e la Sacra Scrittura

Parte essenziale ha nel dominicum la lettura della Sacra Scrittura: si dice nel cap. XII: ad Scripturas dominicos legendas in dominicum convenimus semper,«sempre siamo convenuti alla Pasqua domenicale (e nel luogo in cui si celebra la Pasqua domenicale) per leggere le Scritture del Signore».

Sembra quasi che la lettura delle Scritture sia il fine principale per cui ci si raduna nel dominicum;e, in realtà, la lettura della Parola di Dio aveva senza dubbio uno spazio molto più ampio e significativo nella prassi liturgica della chiesa antica[17], su cui ha influito certamente la prassi giudaica e veterotestamentaria[18], ma anche la difficoltà materiale di averetante copie scritte della Scrittura (la carta e i libri erano ancora un lusso che pochi si potevano permettere, e a questa carenza suppliva la prassi di lunghe letture).

Non è un caso che l'editto persecutorio di Diocleziano prenda di mira, oltre che i luoghi di culto, i libri sacri, soprattutto le Scritture. Le Scritture vengono menzionate per un totale di 33 volte, in vario modo: 15 volte Scripturae (dette: dominicae,«del Signore», 8 v.; sanctae, «sante», 2 v.; divinae, «divine», 1 v.); 2 volte Testamento,i «Testamenti» (praticamente sinonimo di Scripturae, sono detti socrosancta, «sacrosanti» e divina,«divini»): 10 volte lex,la «legge» (certo anche per influsso dell'Antico Testamento chiamato dai Giudei "la Legge"; è detta 2 volte Dei,«di Dio»; 1 v.: «del Signore», «divina», «santa», «santissima», «sacra»): 1 volta è detta vox dominica, «la voce, la parola del Signore»; 3 volte, infine, abbiamo citazioni dirette della Scrittura: praecepta evangelii,«il precetto evangelico» (cap. VI: Mt 5,44; cfr Lc 23,34); evangelica professio,«l'affermazione del Vangelo» (cap. XVI: Mt 12,50); Apostolus,«l'Apostolo (Paolo)», (cap. XI: 2 Cor 3,3). Al proconsole che pretende la consegna dei libri delle Scritture, i martiri rispondono, citando Paolo, che essi «le possiedono sì, ma nel loro cuore, scritte non con l'inchiostro, ma dallo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del loro cuore» (cap. XI; vd. anche capp. XIII, XIV). Nell'elenco dei martiri (cap. II) figurano due lettori (Saturnino il giovane, e Felice), ma anche Emerito è lettore (cap. X), e Ampelio è definito custos legis,«custode della legge» (cap. XIII). Il presbitero Saturnino è definito doctor,«dottore» della legge, della parola di Dio, per la quale libenter supplicia sustinebat,«con gioia sopportava i supplizi» (cap. X).

Il dominicum e l'Eucaristia

Non si fa alcun cenno esplicito, e può apparire strano (visto che persino Plinio nel testo prima riportato ne parla), al proprio dell'Eucaristia, al pane e al vino, al corpo e al sangue di Cristo. Anche qui, a mio parere, deve avere influito la disciplina dell'arcano: non si poteva parlare ai profani (qui poi siamo in un processo contro i cristiani) delle cose sante di Dio, rischiando di esporle al pubblico dileggio. I martiri, però, all'Eucaristia fanno ugualmente riferimento nelle preghiere, nelle brevi invocazioni che rivolgono al Signore. Ben otto volte troviamo esplicitamente l'espressione "rendimento di grazie"/"rendere grazie", che, come sappiamo, è la traduzione latina del greco eucharistìa/eucharistèo.Troviamo: gratiarum actio, «rendimento di grazie» (cap. V); gratias tibi ago, «ti rendo grazie» (2 volte nel cap. VI); gratias tibi ago, Deus,«ti rendo grazie, Dio» (cap. X); gratias ago Deo regnorum, «rendo grazie a Dio che regna» (cap. VI); Deo gratias, «(rendiamo) grazie a Dio» (capp. V, XVII); nec sufficio tibi gratias agere,«non posso renderti grazie degnamente», espressione che ricorda alcune nostre formule liturgiche. Il "rendimento di grazie", l'Eucaristia, i martiri la celebrano nella realtà della vita offrendo il loro corpo e versando il loro sangue in unione col corpo e col sangue del sacrificio di Cristo.

La cosa appare chiara anche da alcuni particolari del racconto del loro martirio, che l'ignoto autore degli Atti,mette bene in evidenza, come il fatto che per subire i tormenti vengano «appesi al cavalletto», lo strumento di tortura (suspensum in equuleo,cap. VII; cum penderet equuleo,cap. VII), «innalzati» sul cavalletto (in equuleum sublevare,cap. V), come Cristo fu appeso, fu innalzato sulla croce: e anche per loro lo strumento del supplizio su cui vengono innalzati diventa un trono di gloria. Il loro corpo è dato in pabulum,"pasto e pascolo" ai carnefici (cap. X), come il corpo di Cristo sottoposto alla passione, ma che solo così può diventare il "corpo dato per noi", il pane dell'Eucaristia. E gli uncini dei carnefici colpiscono soprattutto i "fianchi", latera,cioè il costato dei martiri, e dal loro costato sgorga copioso il sangue (cum... latera sulcarentur, profluensque sanguinis unda... emanaret,«il costato veniva ferito, e uscendo a onda ne sgorgava il sangue», cap. VI), come il sangue che uscì dal costato di Cristo sulla croce (cfr Gv 19,34)[19]; e il sangue di un martire è 'nutrimento' quasi e forza per gli altri martiri (il giovane Saturnino, ad esempio, bagnato dal sangue del padre, recreatus, medelam potius quam tormenta sentiebat,«rigenerato, avvertiva un risanamento piuttosto che i tormenti», cap. XIV), come il sangue di Cristo è nutrimento e forza per i fedeli. È, peraltro, abbastanza agevole comprendere questo stretto legame tra la passione dei martiri, la passione di Cristo e l'Eucaristia, se si considerano anche altri Atti dei martiri,o le riflessioni che sul martirio hanno fatto i Padri della chiesa.

Il dominicum e la collecta. Il ruolo del presbitero

Il termine collecta,«colletta», cioè riunione, assemblea, compare 20 volte[20]: 3 sole volte col verbo celebrare,più spesso con facere[21] o con esse in[22],nel senso di "partecipare", "essere presente a". Spesso associato a dominicum (vd., ad esempio, collectam et dominicum celebrassent, cap. V[23]), indica piuttosto il radunarsi dei fratelli in assemblea, in comunione, per la celebrazione del dominicum, della Pasqua domenicale: un momento però non marginale, ma sostanziale, sentito già come parte integrante della celebrazione[24].

Oggi il termine "colletta" lo utilizziamo nella liturgia per indicare la prima orazione del presidente dell'assemblea, detta appunto oggi "orazione colletta", ma che doveva essere anticamente oratio ad collectam,cioè "orazione recitata per i fedeli riuniti per la messa": prima che si aggiungessero riti di ingresso, Kyrie e Gloria, subito dopo il saluto (Pax vobiscum oppure Dominus vobiscum)la Messa cominciava con l'oratio ad collectam,che indicava ai fedeli lo scopo di quella celebrazione e le disposizioni che dovevano avere, anche in relazione al tempo liturgico.

Il termine "colletta" lo utilizziamo oggi anche per raccolte di denaro a favore dei poveri o di qualche necessità della chiesa; collette di questo tipo fatte durante la celebrazione liturgica esprimono la carità dell'assemblea riunita, e hanno quindi anche una valenza liturgica e, in qualche modo, una connessione col principale significato del termine[25].

L'idea del radunarsi è chiara anche per altri sinonimi usati accanto a collecta,e cioè collectio (dalla stessa radice di collecta,indica ancora meglio l'azione del radunarsi, cap. V); congregatio (cap. VI: ci ricorda una espressione dell'Ubi caritas: congregavit nos in unum Christi amor:«ci ha radunati in unità l'amore di Cristo»): O per verbi come colligere,"raccogliere, radunare" (nos collegimus,«ci siamo radunati in assemblea», cap. V; vd. anche cap. IX: hos omnes colligeres,«radunavi tutti costoro»): adunare,«radunare, raccogliere in un unico luogo» (omnes ipse adunasset,«lui aveva radunato tutti», cap. X); convenire (cap. XIV). Perché la "colletta", e quindi la celebrazione del dominicum, sia valida, è indispensabile la presenza del presbitero: al proconsole che lo interroga su chi sia stato il responsabile della riunione, il martire Telica risponde: «Il presbitero Saturnino e tutti», risposta stupenda (e anche altri martiri diranno la stessa cosa), che indica con chiarezza come tutta la comunità si sentisse «un popolo di sacerdoti» (cfr 1 Pt1,9); christiani sumus: nos collegimus,«siamo cristiani: noi abbiamo fatto l'assemblea» (cap. VI). Nello stesso tempo, però, Telica, al proconsole che gli chiede quale tra i suoi compagni sia il presbitero, lo indica, «non per tradirlo», precisa l'autore degli Atti, «ma per rendere chiaro che essi avevano celebrato validamente (integre)l'assemblea, dato che insieme a loro c'era stato anche il presbitero».

II. IL QUADRO STORICO

La persecuzione di Diocleziano, negli anni 303-304, durante la quale cade la vicenda dei martiri di Abitene, si scatena inaspettata e violenta dopo quaranta anni di pace, anni in cui la comunità cristiana aveva potuto crescere e diffondersi dappertutto. Ed è stata una persecuzione generale, che ha riguardato cioè tutto l'impero e non singole province, e sistematica, che ha cercato cioè di cancellare radicalmente il cristianesimo, colpendo, oltre che i cristiani, anche e prima di tutto i loro pastori, i libri sacri, i luoghi di culto, le assemblee liturgiche. Vediamo prima, schematicamente e rapidamente come ci si arriva, poi di comprenderne le ragioni.

1. Dalla persecuzione di Decio a quella di Diocleziano

La persecuzione di Decio (249-251) era stata la settima, secondo la ricostruzione di sant'Agostino, che, aggiungendo poi quelle di Valeriano, di Aureliano e di Diocleziano, arriva al numero di dieci, che egli accosta alle dieci piaghe d'Egitto: prima c'erano state le persecuzioni di Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino il Trace. La persecuzione di Decio è la prima persecuzione generale e nasce da una «reazione tradizionalista: ritorna al potere il senato, sia pure rappresentato da un generale di origine pannonica (ma con parentele italiche), e si delinea una radicale politica anticristiana. (...) Mai lo Stato romano era arrivato a tanto di intolleranza: all'intransigenza ideale cristiana si opponeva l'intransigenza di Stato pagana»[26].

Tra i martiri c'è lo stesso vescovo di Roma Fabiano; viene incarcerato Origene (liberato alla morte dell'imperatore, morirà tre anni dopo, 254); molti sono i lapsi,i "caduti", cioè i cristiani che, per timore del martirio, vengono meno alla loro fede. Ma la Chiesa, pur così duramente colpita (anzi proprio perché così duramente colpita, avrebbe detto Tertulliano, per il quale il sangue dei martiri era "seme" di nuovi cristiani), «acquistò nuova forza di proselitismo» (Mazzarino).

Nel giugno del 251 Decio morì in uno scontro (ad Abritto, presso il Mar Nero) contro i Goti e i cristiani videro in questo una punizione divina. Il poeta cristiano Commodiano, in un poema (Carmen apologeticum) con toni, immagini ed espressioni presi dall'Apocalisse, canta questa vittoria dei Goti: «Molti segni saranno i termini fissati per così grande peste, ma il loro inizio sarà la nostra settima persecuzione. Ecco però già bussa alla porta e cinge la spada, colui che presto traverserà il fiume (Danubio) con i Goti irrompenti, e sarà con loro il re Apollion, tremendo nel nome, che disperderà con le armi la persecuzione contro i santi» (vv. 807-812). Il re Apollion (cfr Ap 9,11), è Kniva, re dei Goti, che sconfigge e uccide Decio.

Dopo il breve regno (251-253) di Treboniano Gallo, presto ucciso dai suoi stessi soldati, è acclamato imperatore Valeriano (253-260), un senatore, che, con due editti (257 e 258), scatena una nuova sanguinosa persecuzione. È un momento difficile per l'impero di Roma: infierisce la peste e, oltre i Goti, altri barbari (Franchi, Alemanni) premono alle frontiere. I 'tradizionalisti' incolpano di tutto i cristiani: «pareva che la vendetta degli dèi, negletti nei loro templi e offesi dalla vittoria cristiana, si abbattesse sulla cosa pubblica»[27].

Vittime illustri di questa persecuzione sono il nuovo vescovo di Roma Sisto, il suo diacono Lorenzo, e il vescovo di Cartagine Cipriano. Commodiano la descrive con toni apocalittici e vede in Valeriano un nuovo Nerone (Nero redivivus). Nel 260, dopo tre anni e mezzo di persecuzione, Valeriano viene sconfitto a Edessa dai Persiani di Sàpore I, alleati con i Goti, e fatto prigioniero.

La sconfitta di Valeriano appare ai cristiani ancora come una punizione divina. Il nuovo imperatore Gallieno (260-268), figlio di Valeriano, e già associato dal padre all'impero, prende atto dell'assurdità della persecuzione dei cristiani (l'impero era ormai considerato 'cristiano' dagli altri popoli, soprattutto in Oriente, mentre l'imperatore li perseguitava!) e la sospende con un editto che apre per la Chiesa cristiana un lungo periodo di pace che durerà, come si è detto, quaranta anni: in genere poco valutato, questo editto, parecchio prima di quello di Costantino del 313, già riconosce ufficialmente il diritto di libertà di culto ai cristiani.

Questo non toglie che gli imperatori, preoccupati della restaurazione dell'impero, restino fedeli alla tradizione pagana. Così Claudio il Gotico (268-270), che a differenza di Gallieno restituisce autorità al Senato. Così Aureliano (270-275), che, preoccupato della difesa dei confini dell'impero e di restaurare la 'concordia' all'interno, favorisce il culto del Sol Invictus,per il quale dedica a Roma un tempio (consacrato il 25 dicembre, al solstizio invernale, quando il sole comincia a crescere: i cristiani vi sostituiranno la festa del Natale) e istituisce dei sacerdoti, e del quale si riterrà in qualche modo manifestazione: l'imperatore dominus et deus natus,si considera partecipe della divinità, sacratissimus imperator. Ma la militia Christi,i cristiani, l'intransigente 'servizio militare' al seguito di Cristo, che non a caso chiamava sacramentum,cioè giuramento militare di obbedienza fino alla morte, la celebrazione dei misteri di Cristo, resisteva. Il filosofo neoplatonico Porfirio proprio in questi anni scriveva la sua opera Contro i cristiani,ma era costretto a riconoscere «che i templi erano ormai abbandonati, mentre "grandissime case" si erano costruite per il culto dei cristiani. Il dio Sole di Aureliano non si conciliava con Cristo»[28]. Aureliano fu ucciso dai suoi soldati.

Dai loro soldati furono uccisi anche i loro successori, Claudio Tacito (275-276), Probo (276-282), Aurelio Caro (282-283); Carino (283-285), figlio di Caro; suo fratello Numeriano (283-284) fu invece ucciso in battaglia. I cristiani potevano continuare a prosperare in pace.

Nel 285 viene acclamato imperatore un ufficiale dalmata, Valerio Diocle (= gloria di Giove), che prese il nome di Diocleziano. Il suo programma è quello di restaurare in maniera stabile l'impero: per meglio governarlo, per meglio difendere i confini, si associa un altro 'Augusta', Massimiano; nel 293 nomina due 'Cesari', uno per sé in Oriente Galerio e uno per Massimiano in Occidente, Costanzo Cloro: è la celebre tetrarchia; all'abdicazione dei due Augusti, i Cesari diventeranno Augusti e nomineranno a loro volta altri due Cesari. Sappiamo che il sistema non funzionerà a lungo, ma per ora Diocleziano può considerarsi il restaurator imperii:assume per sé il titolo di 'Giovio', mentre Massimiano quello di 'Erculio'. La venerazione e il culto (per Giove e per Ercole) che questi titoli comportano non hanno in un primo momento conseguenze per i cristiani, che, dopo quaranta anni di pace e di libertà, non temono ormai altre persecuzioni.

2. La persecuzione di Diocleziano

Diocleziano e i cristiani

Diocleziano doveva ritenere che «alla salvezza di quel vecchio mondo, nel suo vecchio contenuto, si opponeva soprattutto il grande fatto spirituale: il cristianesimo», ma «il suo genio di uomo di stato gli suggeriva che non c'era da tentare la lotta». Questo il giudizio di Mazzarino[29], secondo il quale Diocleziano si decise per la persecuzione soltanto negli ultimi anni del suo impero (a partire dal 303), molto probabilmente per la pressione di intellettuali, soprattutto neoplatonici come Plotino, il già ricordato Porfirio (tra il 270 e il 280 aveva scritto un'opera Contro i cristiani, in 15 libri!), Ierace (discepolo di Porfirio, autore nel 303 di un libello contro i cristiani, dal titolo L'amico della verità),avversi al cristianesimo; quasi certamente per insistenza del suo Cesare, Galerio, «un fanatico odiatore della nuova religione», afferma il Lortz[30], il quale ritiene comunque che «tuttavia la persecuzione rientrava nella linea complessiva del piano generale di questo imperatore che voleva ridare all'impero l'antica forza e, a tale scopo, tutto ciò che non fosse pagano doveva essere sterminato come non romano»[31]. In conclusione, sostiene Moreschini, «la persecuzione, anche se non voluta esplicitamente da Diocleziano in quanto lotta di religione, si svolse pur sempre nell'ambito delle direttive restauratrici della tetrarchia»[32].

Galerio e il culto della dea delle montagne

Certo Galerio deve avere avuto una parte importante nel convincere Diocleziano, soprattutto dopo la importante vittoria da lui riportata sui Persiani nel 297: «il prestigio del Cesare d'Oriente si trovò accresciuto in seguito a questo splendido successo», rileva Zeiller[33], una vittoria, peraltro, dopo la quale, secondo alcuni, Diocleziano potrebbe aver introdotto nel cerimoniale di corte il rito della 'adorazione' (la proskynesis,la prostrazione alla presenza dell'imperatore), traendola proprio dall'etichetta persiana»[34], Galerio ebbe modo di far pesare maggiormente sull'imperatore le sue vedute personali, anche in campo religioso. L'avversione al cristianesimo, in particolare, gli sarebbe venuta dalla adesione, sua e della maggior parte dei suoi soldati, al culto della dea delle montagne, di cui la madre, una transdanuviana[35], mulier admodum superstitiosa («donna oltremodo superstiziosa»), era «fanatica adoratrice, se non pure sacerdotessa»[36]. Riferisce Lattanzio: «quasi tutti i giorni faceva sacrifici in onore di queste divinità e le carni che avanzavano dai sacrifici erano distribuite in pasto agli abitanti del paese. I cristiani, naturalmente se ne astenevano, anzi, mentre essa con gli altri prendeva parte a quei conviti sacri, essi digiunavano e pregavano con fervore»[37]. La notizia è importante perché potrebbe spiegare, almeno in parte, l'accanimento, nella persecuzione, contro le assemblee liturgiche dei cristiani e dei loro 'pasti sacri'.

Il fanatismo che Galerio aveva ereditato dalla madre e la pressione di ufficiali che, anche per far carriera, volevano eliminare dall'esercito ogni elemento sospetto di tiepidezza verso le istituzioni, spinsero Galerio prima di tutto ad un'opera di 'epurazione' tra i soldati cristiani, soprattutto tra gli ufficiali, in un secondo momento ad una persecuzione vera e propria, profittando anche della debolezza dell'ormai vecchio imperatore Diocleziano.

L'inizio della persecuzione

Occasione dell'inizio della persecuzione fu un fatto tipicamente 'romano', degno della migliore superstizione. Durante un sacrificio ad Antiochia, nel 302, la consultazione delle viscere degli animali sacrificati non diede i segni augurali desiderati, e della cosa furono accusati i cristiani, che avrebbero 'sabotato', diciamo così, il rito, facendosi il segno della croce. Si cominciò allora a pretendere, a palazzo, poi nell'esercito, che anche i cristiani sacrificassero, pena il congedo dall'esercito: non siamo ancora alla persecuzione sanguinosa. Infine Galerio, vero istigatore della persecuzione, dovette convincere Diocleziano della inevitabilità della cosa: «Diocleziano - nota Lattanzio - governò peraltro felice e in pace, finché non cominciò a perseguitare la Chiesa e a mettere le mani addosso ai suoi santi». Evidentemente «Lattanzio attribuisce al solo Diocleziano la responsabilità della persecuzione, per quanto l'influenza malefica di Galerio fosse molto notevole e decisiva»[38].

3. Gli editti della persecuzione di Diocleziano

Racconta Eusebio (hist. eccl.,VIII, 2,4): «Era il diciannovesimo anno del regno di Diocleziano (303), il mese di Distro, che i Romani chiamano marzo, nel quale, mentre si avvicinava la passione del Salvatore, fu emanato dovunque un editto dell'imperatore che ordinava non solamente di radere al suolo le chiese, ma di distruggere anche le Scritture col fuoco, e proclamava inoltre che quanti occupavano delle cariche fossero destituiti, e i membri della casa fossero privati della libertà, se avessero persistito nella professione del cristianesimo»[39].

Questo primo editto fu promulgato il 24 febbraio del 303 a Nicomedia, residenza orientale di Diocleziano e del suo cesare Galerio, ma già il giorno prima, il 23 febbraio, la chiesa di Nicomedia era stata occupata dalla polizia, saccheggiata e demolita, mentre i libri liturgici venivano dati al fuoco. L'editto giunse in Palestina il mese successivo, per questo Eusebio dice che fu emanato a marzo, poco prima della Pasqua (che quell'anno cadeva il 18 aprile), e ne vedeva così una coincidenza con la passione del Signore. Oltre alla distruzione delle chiese e dei libri sacri e alla destituzione dalle cariche (per chi ne fosse titolare), di cui parla Eusebio, era prevista per tutti la privazione del diritto di stare in giudizio, e per gli schiavi cristiani l'impossibilità di ottenere la libertà.

Sempre nel 303 furono emanati un secondo editto, con il quale si punivano con l'arresto non solo i capi delle chiese, ma anche i chierici di ogni ordine, e un terzo editto, con il quale si comminavano gravi torture fino alla morte per gli ostinati.

Nella primavera del 304 (Diocleziano è malato e Galerio è ormai padrone della situazione) un quarto editto, impose l'obbligo generale, per tutti i cristiani senza distinzione, di sacrificare agli dèi (prima di tutto all'imperatore), pena la morte.

Illustri le vittime della persecuzione: tra gli altri, Marcellino e Pietro, Agnese, Lucia, Cassiano. Gravissima la perdita di libri sacri: andarono distrutti i libri della biblioteca della Chiesa romana, gli archivi pontifici, tanti antichi testi della Scrittura e dei Padri (pensiamo solo ai seimila, secondo la tradizione, testi di Origene, di cui ci è pervenuta solo una piccola parte).

III. GLI ATTI DEI MARTIRI DI ABITENE

La vicenda dei martiri di Abitene cade in questi anni. Ne abbiamo notizia dagli Atti, che un ignoto autore ha stilato, e dei quali è stata da alcuni messa in dubbio l'autenticità[40]: sarebbero tardi e sarebbero stati composti per ragioni legate alla controversia, disciplinare e dottrinale, in atto tra il IV e V secolo tra cattolici e donatisti nella chiesa africana. I donatisti[41], dottrinalmente sostenitori di una chiesa "resto d'Israele", un ristretto corpo di "salvati", aspiravano al martirio e giudicavano con grande rigidità quei cristiani, soprattutto chierici, che per debolezza avessero consegnato i libri sacri (i cosiddetti traditores),ritenendo di doverli escludere senza remissione dalla comunione ecclesiale. Un donatista avrebbe, perciò, scritto questi Atti,per esaltare la eroica testimonianza dei martiri e condannare i traditores,che macchiavano l'integrità e la purezza della chiesa.

I donatisti, peraltro, nella Conferenza di Cartagine del 411, alla quale partecipò anche Agostino, e che vide a confronto 286 vescovi cattolici contro 279 vescovi donatisti, per dichiarare invalida una riunione che si era tenuta a Cirta nel 305, e nella quale era stato nominato un vescovo cattolico, ricorrevano proprio agli Atti dei martiri di Abitene,che avrebbero dimostrato, dal loro punto di vista, che mai quella riunione si sarebbe potuta tenere, data la persecuzione in atto che proibiva qualsiasi tipo di assemblea cristiana. Ma i cattolici sostenevano, di contro, che proprio quegli Atti dimostravano che le riunioni si tenevano lo stesso, nonostante il divieto imposto dall'editto. Agostino, in particolare, in un'opera che riferisce di quella Conferenza[42], racconta: «I cattolici rispondevano che molto più facilmente si sarebbero potuti incontrare in una casa dodici uomini in quel tempo in cui anche raduni di moltitudini solevano verificarsi, per quanto infierisse la persecuzione, come era dimostrato proprio dalle gesta dei martiri, che durante la loro passione confessavano di avere partecipato alla 'colletta' e al dominicum»[43].

Il fatto che, a parere di alcuni[44], l'autore potrebbe essere stato un donatista, non toglie storicità e autenticità agli Atti,che, peraltro, dovrebbero essere stati composti anche abbastanza presto, visto che l'autore si propone come un testimone diretto dei fatti; alla fine del cap. IV, infatti, nota: «Gli scontri di questi loro combattimenti, non li esporrò con le mie parole, ma piuttosto con quelle dei martiri stessi». La ricostruzione più vicina alla verità appare quella di Gordini[45]: «Un redattore cristiano, forse contemporaneo agli avvenimenti, integrò il testo ufficiale dell'interrogatorio dei martiri con brevi commenti ed un rapido cenno sul susseguirsi dei fatti. Più tardi un compilatore donatista, per sostenere le idee della propria setta, apportò delle variazioni, aggiungendo un preambolo ed una appendice[46] in cui attaccava violentemente i cattolici. Sfrondando quindi il testo di queste due parti, si può sostanzialmente ricostruire il dialogo veramente splendido intessuto dai cristiani col giudice».

IV. ABITENE

Abitene (Abitinae)era una città della provincia romana detta Africa proconsularis,nell'odierna Tunisia, situata, secondo una indicazione di Agostino[47], a sud ovest dell'antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda[48]. È attestata come sede episcopale dai tempi di Cipriano, che ricorda (nelle Sententiae episcoporum del settimo concilio cartaginese del 256, tenuto sotto la sua presidenza) un vescovo Saturninus ab Abitinis (nei diversi codici abbiamo anche lezioni diverse: Avitinis, Vitinis)[49]. Vescovi di Abitene sono ricordati anche negli Atti della Conferenza di Cartagine del 411, prima ricordata: sono presenti alla conferenza un Maximus episcopus Abitinensis (Gesta 201,1,99) e un Vietar episcopus Abitinensis (Gesta 215,1,45). Vescovi di Abitene sono ancora menzionati nei concili del 525 e del 649[50]. Si è proposto di recente[51] una localizzazione di Abitene nel sito delle rovine di Henchir Chachoud, in un'ansa del fiume Medjerda, ipotesi confermata dalla scoperta di due iscrizioni che collocavano la città (indicata col nome di AVITINA o AVITNA) a 4 km a sud ovest di Membressa, e, più precisamente, nella località detta "Chouchoud el-Batin", nome che nella seconda parte, "el-Batin", sembra voler far memoria proprio dei martiri di Abitene[52].

V. NOTA CRITICA

La prima collezione di Atti dei martiri è stata quella del benedettino T. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta,Parigi 1689 (Ratisbona 1859)[53]. Per gli Atti dei martiri di Abitine una edizione migliore curò Baluzius (Miscellaneo,ed. Mansi 1761, p. 17), edizione utilizzata dal Migne[54], che tenne conto anche di altre edizioni (Surio, Henschen), oltre che del cod. 930 della Bibliotheca Colbertina.

[…]

VI. SOMMARIO DEGLI ATTI

L'editto di Diocleziano, la persecuzione dei cristiani: traditores e martiri.

Arresto dei martiri di Abitine, mentre celebravano la Pasqua domenicale. Elenco dei martiri.

I martiri vengono trasferiti da Abitine a Cartagine per essere processati. A Cartagine un prodigio celeste già aveva, tempo prima, difeso le Scritture.

I martiri giungono a Cartagine cantando inni, lieti di affrontare la lotta.

Il proconsole Anulino interroga Dativo e lo sottopone alla tortura. Si fa avanti Telica, confessa la sua fede; anche lui è sottoposto al supplizio.

Continua il supplizio di Telica, che oppone agli editti imperiali la legge di Dio; difende il diritto dei cristiani a radunarsi per il culto; rivolge la sua preghiera al Signore.

Anulino torna ad interrogare Dativo. Un pagano, Fortunaziano, lo accusa di avere sedotto sua sorella Vittoria e averla così convinta a farsi cristiana. Vittoria reagisce, affermando la propria libera scelta. Dativo viene sottoposto al supplizio.

Un altro pagano, Pompeiano, rivolge accuse calunniose contro Dativo, che confessa ancora la propria fede e viene ulteriormente torturato.

Viene la volta del presbitero Saturnino: sostiene l'importanza che la celebrazione della Pasqua domenicale ha per i cristiani; sostiene con forza il supplizio; rivolge la sua preghiera al Signore.

Si fa avanti Emerito; dice che le riunioni si sono tenute nella sua casa; confessa la sua fede; subisce il supplizio.

Ancora interrogato, Emerito attesta che senza la Pasqua domenicale i cristiani non possono vivere. Interrogato se possiede le Scritture, dice di possederle nel cuore.

Il proconsole e i carnefici sembrano stanchi. Ma è la volta di Felice; il martire attesta che il cristiano è fondato sulla Pasqua domenicale: l'uno non può essere senza l'altra. Viene battuto con le verghe fino alla morte. Così un altro martire col suo stesso nome.

Segue il martirio di Ampelio, di Rogaziano, di Quinto, di Massimiano, di un altro Felice: tutti attestano la loro fede nelle Scritture e nella Pasqua domenicale.

Viene interrogato e torturato il giovane Saturnino, figlio del presbitero, che segue in tutto il padre nella professione di fede e nella passione.

Scende la notte, i carnefici sono stanchi. Anulino cerca di vincere i rimanenti martiri interrogandoli tutti insieme, ma tutti restano saldi nella loro fede.

È la volta di Vittoria, che alla palma della verginità aggiunge quella del martirio. Non tiene in alcun conto la presenza del fratello: i suoi fratelli sono quelli che osservano i precetti del Signore.

Martirio del piccolo Ilarione, figlio del presbitero Saturnino. A nulla valgono le minacce del proconsole: Ilarione sostiene come un adulto la sua battaglia, rendendo grazie a Dio per il suo martirio.

2/ Gli atti dei martiri Saturnino presbitero e compagni, martiri di Abitene

Riprendiamo dal sito della Conferenza episcopale italiana la traduzione degli Atti del Martirio dei santi Saturnino, Dativo e molti altri in Africa sotto Diocleziano a cura di G. Micunco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Medjez-el-Bab, Arco di trionfo, resti 

Martirio dei santi Saturnino, Dativo e molti altri in Africa sotto Diocleziano

1. La persecuzione di Diocleziano e l'arresto dei martiri (capp. 1-2) [N.B. de Gli scritti: è evidente nel primo paragrafo che l'ultimo redattore del testo è un donatista, mentre il resto del testo, più antico, non avrà più parole così dure contro coloro che fuggirono dal martirio]

I. Ai tempi di Diocleziano e Massimiano[55], il diavolo dichiarò guerra ai cristiani[56] in questo modo: si dovevano ricercare i sacri e santi Testamenti del Signore e le divine Scritture perché fossero bruciati[57]; si dovevano abbattere le basiliche[58] del Signore; si doveva proibire di celebrare i sacri riti e le santissime riunioni del Signore. Ma l'esercito del Signore Dio[59] non accettò tanto tremendo editto, ebbe orrore dei sacrileghi ordini: subito afferrò le armi della fede[60], scese in combattimento: la lotta non era contro gli uomini, ma piuttosto contro il diavolo[61]. E ci furono alcuni che caddero dal cardine della fede e consegnarono ai pagani le Scritture del Signore e i divini Testamenti perché fiamme sacrileghe li bruciassero[62]; furono, però, moltissimi quelli che morirono da forti, per custodire quei libri, versando per essi con gioia il proprio sangue[63]. Costoro, pieni di Dio, vinto e abbattuto il diavolo, levando nella loro passione la palma della vittoria, martiri tutti, firmavano con il proprio sangue contro i traditori e i loro alleati la sentenza con la quale li avevano rigettati dalla comunione ecclesiale. Non sarebbe stato giusto infatti che nella chiesa di Dio ci fossero insieme martiri e traditori[64].

II. Accorrevano pertanto da ogni parte verso il campo di battaglia immense schiere di confessori[65], e ciascuno, dove trovava il nemico[66], lì piantava l'accampamento del Signore. E così, risuonando la tromba di guerra nella città di Abitene[67], nella casa di Ottavio Felice[68], lì i gloriosi martiri levarono le insegne del Signore; e lì, dai magistrati di quella colonia e dai soldati di stanza in quel luogo, proprio mentre celebravano, come di consueto, la Pasqua domenicale[69], ecco che vengono catturati. Sono il presbitero Saturnino[70] con i suoi quattro figli, cioè Saturnino il giovane, e Felice, entrambi lettori[71], Maria, vergine consacrata[72], e il piccolo Ilarione; e così anche Dativo, che pure era senatore, Felice, un altro Felice, Emerito, Ampelio, Rogaziano, Quinto, Massimiano, Telica, Rogaziano, Rogato, Gennaro, Cassiano, Vittoriano, Vincenzo, Ceciliano, Restituta, Prima, Eva, Rogaziano, Givalio, Rogato, Pomponia, Seconda, Gennara, Saturnina, Martino, Danto, Felice, Margherita, Maggiore, Onorata, Regiola, Vittorino, Pelusio, Fausto, Daciano, Matrona, Cecilia, Vittoria, Erettina, Seconda, un'altra Matrona, un'altra Gennara[73]. Tutti costoro, catturati, venivano condotti al foro[74] ed erano pieni di esultanza.

2. Martirio di Dativo e Telica: "per noi è legge celebrare il dominicum". La funzione del presbitero (capp. V-VI)

V. Dai funzionari vengono quindi tradotti davanti al proconsole; si fa presente che i magistrati di Abitene hanno inviato dei cristiani che, trasgredendo il divieto degli Imperatori e dei Cesari[75], avevano tenuto l'assemblea per celebrare la Pasqua domenicale[76]. Il proconsole interroga per primo Dativo e gli chiede di che condizione sociale sia e se abbia partecipato all'assemblea. Poiché quello si professa cristiano e confessa di avere partecipato all'assemblea, gli viene richiesto chi avesse organizzato la santissima assemblea. E subito dà ordine ai suoi funzionari di innalzarlo sul cavalletto[77] e, una volta disteso su di esso, straziarlo con gli uncini. Ma, mentre i carnefici eseguivano questi crudeli ordini con atroce rapidità, e piantati accanto a lui infierivano anche a parole, e, denudati i fianchi del martire per straziarlo, gli stavano addosso con gli uncini levati, d'un tratto Telica, fortissimo martire, si gettò tra i torturatori e gridò: «Siamo cristiani. Da noi stessi - disse - ci siamo radunati per l'assemblea». Subito il proconsole arse di furore e, gemendo, perché gravemente ferito dalla spada dello Spirito[78], fece infliggere gravissimi colpi al martire di Cristo, lo fece stendere sul cavalletto e lo fece dilaniare con gli uncini che stridevano su di lui. Purtuttavia, il gloriosissimo martire Telica, proprio di mezzo alla rabbia dei carnefici si rivolgeva al Signore e gli rendeva grazie[79] con queste preghiere: «Rendo grazie a Dio. Nel tuo nome[80], Cristo, Figlio di Dio[81], libera i tuoi servi[82]».

VI. Il martire pregava così. Il proconsole gli chiese: «Chi ha organizzato, insieme a te, la vostra riunione?». E quello, mentre il carnefice infieriva con maggiore crudeltà, con voce chiara rispose: «Il presbitero Saturnino e noi tutti»[83]. O martire, così tu davi a tutti il primato! Non pose, infatti, al primo posto il presbitero, e poi i fratelli, ma mise il presbitero insieme ai fratelli, associandoli nell'unica confessione di fede. E poiché, allora, il proconsole cercava Saturnino, glielo indicò: e fece questo non per tradire il compagno, che egli, peraltro, vedeva bene come stesse combattendo insieme a lui allo stesso modo contro il diavolo, ma perché a quello fosse chiaro che essi avevano celebrato validamente[84] l'assemblea, dal momento che insieme a loro c'era stato anche il presbitero. Intanto, insieme alla voce sgorgava il sangue, mentre supplicava il Signore: ben ricordando l'insegnamento del vangelo[85], il martire chiedeva perdono per i suoi nemici, proprio mentre dilaniavano il suo corpo. E infatti, proprio tra i gravissimi tormenti procurati dalle ferite, con queste parole riprendeva parimenti i suoi torturatori e il proconsole: «Voi agite ingiustamente, o infelici; voi agite contro Dio. O Dio altissimo, non imputare loro questi peccati[86]. Voi state peccando, o infelici; voi agite contro Dio. Osservate i comandamenti del Dio altissimo. Voi agite ingiustamente, o infelici; voi dilaniate degli innocenti. Non abbiamo ucciso nessuno; non abbiamo frodato nessuno[87]. Dio, abbi misericordia. Ti rendo grazie, Signore; dammi la forza di soffrire per il tuo nome. Libera i tuoi servi dalla schiavitù di questo mondo[88]. Ti rendo grazie; non potrò mai renderti grazie abbastanza[89]». E mentre con maggiore violenza i suoi fianchi venivano incisi dai colpi inferti dagli uncini, e un'onda copiosa di sangue sgorgava a tratti violenti, udì che il proconsole gli diceva: «Comincerai a provare quello che dovete patire». E lui aggiunse: «Per la sua gloria. Rendo grazie a Dio che regna. Vedo già il regno eterno, il regno che non si corrompe[90]. Signore Gesù Cristo, noi siamo cristiani, siamo al tuo servizio; tu sei la nostra speranza[91], tu sei la speranza dei cristiani». Mentre pregava così, mentre il diavolo per bocca del proconsole continuava a dire: «Avresti dovuto osservare l'editto degli Imperatori e dei Cesari», stremato ormai nel corpo, ma vittorioso nell'animo, con voce ancora forte e ferma proclamò: «Non mi curo se non della legge di Dio[92] che ho appreso. Quella osservo, per quella morirò, in quella per me è il compimento di tutto[93]: fuori di quella non ve n'è un'altra». A queste parole del gloriosissimo martire, era proprio Anulino che ancora di più nei suoi tormenti si tormentava. Quando infine la sua rabbia si fu saziata delle feroci torture, disse: «Basta!». Lo fece chiudere in carcere e lo destinò a una passione degna di tale martire.

3. Martirio di Saturnino di Emerito e di felice: "senza il dominicum non possiamo essere" (capp. X-XII)

X. Intanto il presbitero Saturnino, sospeso sul cavalletto bagnato dal sangue da poco sparso dai martiri[94], si sentiva confortato a restare saldo nella fede di coloro sul cui sangue era disteso. Interrogato se fosse lui il promotore e se fosse stato proprio lui a radunare tutti in assemblea, rispose: «Anch'io fui presente all'assemblea»[95]. Egli così diceva, ma intanto il lettore Emerito, balzando al combattimento proprio mentre il presbitero sosteneva la lotta, disse: «Il promotore sono io: è nella mia casa che si sono tenute le assemblee[96]». Ma il proconsole, che ormai già tante volte era risultato sconfitto, vedeva con terrore gli attacchi di Emerito, e pertanto, rivolto verso il presbitero, gli chiese: «Perché agivi contro l'editto imperiale, Saturnino?». E Saturnino gli replicò: «Non si può smettere di celebrare la Pasqua domenicale: così ordina la nostra legge[97]». E allora il proconsole: «Sarebbe stato però tuo dovere non disprezzare il divieto imperiale, ma osservarlo, e non prendere iniziative contro l'editto degli Imperatori». E, con parole che già da tempo aveva imparato ad usare riguardo ai martiri, spronò il torturatore a infierire contro di lui, e questi non fu affatto pigro nell'obbedirgli fedelmente. I carnefici, così, si buttano sul corpo senile del presbitero e, con rabbia furiosa, rotti i legamenti dei nervi, lo dilaniano con supplizi da far gemere, e con torture di nuovo tipo, raffinate, trattandosi di un sacerdote di Dio[98]. Avresti potuto vedere infierire i carnefici come mossi da fame rabbiosa a pascersi di ferite, e, aperte le viscere, con orrore di chi stava a guardare, avresti visto biancheggiare tra il rosso del sangue le ossa messe a nudo. Perché nelle pause tra una tortura e l'altra l'anima non venisse meno sì da abbandonare il corpo, mentre lo attendeva ancora il supplizio, con tali parole il presbitero supplicava il Signore: «Ti prego, Cristo, esaudiscimi. Ti rendo grazie, o Dio. Fa' che io sia decapitato! Ti prego, Cristo, abbi misericordia. Figlio di Dio, soccorrimi». Intanto il proconsole insisteva: «Perché agivi contro l'editto?». E il presbitero: «La nostra legge così comanda; la nostra legge così insegna»[99] replicò. O risposta davvero ammirevole e divina, degna di un presbitero e dottore che merita ogni lode! Da presbitero predica anche tra i tormenti la santità di quella legge per la quale con gioia sostiene i supplizi. Spaventato a sentir pronunziare la parola 'legge'[100], Anulino finalmente disse: «Basta!». Lo fece ricondurre sotto custodia in carcere e lo riservò al supplizio da lui bramato.

XI. Fatto poi venire avanti Emerito, il proconsole gli chiese: «Nella tua casa si sono tenute le assemblee contro l'editto degli Imperatori?». E Emerito, inondato di Spirito Santo[101], gli rispose: «Nella mia casa abbiamo celebrato la Pasqua domenicale». Quello replicò: «Perché davi il permesso di entrare da te?». Rispose: «Poiché sono miei fratelli e non potevo proibirglielo»[102]. Replicò: «Ma proibirglielo sarebbe stato tuo dovere». Ma lui: «Non potevo, perché senza la Pasqua domenicale non possiamo essere»[103]. Subito ordina che anche lui sia disteso sul cavalletto e, una volta disteso, sia torturato. Mentre pativa tremendi colpi da parte di nuovi carnefici, che intanto si erano dati il cambio, disse: «Ti prego, Cristo, soccorrimi. E voi, infelici, state agendo contro il comandamento di Dio». Il proconsole lo interruppe: «Non avresti dovuto accoglierli in casa». Rispose: «Non potevo far altro se non accoglierli, perché sono miei fratelli». E il proconsole: «Ma prima veniva l'editto degli Imperatori e dei Cesari». E di contro, il piissimo martire: «Prima viene Dio che è più grande, poi gli Imperatori[104]. Ti prego, Cristo. Ti rendo lode, Cristo Signore. Dammi la forza di patire». Mentre così pregava, intervenne il proconsole: «Hai qualche libro delle Scritture nella tua casa?». Gli rispose: «Le ho, ma nel mio cuore»[105]. E il proconsole: «Ma nella tua casa le hai, o no?». Il martire Emerito rispose: «Nel mio cuore le ho. Ti prego, Cristo. A te la lode. Liberami, Cristo: patisco per il tuo nome. Per poco patisco; con gioia patisco[106], Cristo Signore. Che io non sia confuso[107]». O martire, che, ricordando la parola dell'Apostolo, la legge del Signore la tenne scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivo, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del suo cuore[108]! O martire degno della legge sacra e suo diligentissimo custode, che avendo in orrore il crimine dei traditori[109], per impedire la distruzione delle Scritture del Signore, le ripose nel segreto del suo petto! Preso atto di ciò, il proconsole disse: «Basta!» e, mettendo agli atti la sua confessione insieme alla confessione degli altri, disse: «Secondo i vostri meriti e in conseguenza della vostra confessione, pagherete tutti la pena che vi meritate».

XII. La rabbia ferina, sazia dei tormenti dei martiri, la bocca sporca di sangue[110], dava ormai segni di stanchezza. Ma fattosi avanti al combattimento Felice, tale di nome, ma anche per la sua passione, mentre tutta la schiera del Signore restava salda, incorrotta ed invitta, il tiranno, la mente prostrata, la voce bassa, l'animo e il corpo disfatti, disse: «Spero che voi facciate la scelta che vi permetta di continuare a vivere, quella di osservare gli editti». Di contro, i confessori del Signore, invitti martiri di Cristo, quasi a una sola voce dissero: «Siamo cristiani: non possiamo osservare altra legge se non quella santa del Signore fino all'effusione del sangue». Colpito da queste parole, l'avversario[111] diceva a Felice: «Non ti chiedo se tu sei cristiano, ma se hai partecipato all'assemblea o se hai qualche libro delle Scritture»[112]. O stolta e ridicola richiesta del giudice! Gli ha detto: «Non dire se sei cristiano», e poi ha aggiunto: «Dimmi invece se hai partecipato all'assemblea». Come se un cristiano possa essere senza la Pasqua domenicale[113], o la Pasqua domenicale si possa celebrare senza che ci sia un cristiano! Non lo sai, Satana[114], che è la Pasqua domenicale a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Pasqua domenicale[115], sicché l'uno non può sussistere senza l'altra, e viceversa? Quando senti dire "cristiano", sappi che vi è un'assemblea che celebra il Signore; e quando senti dire "assemblea", sappi che lì c'è il cristiano[116]. Insomma è il martire che ti fa il processo e ti mette in ridicolo. Per la sua risposta sei tu a rimanere battuto. «L'assemblea - disse - l'abbiamo celebrata con ogni solennità, e per leggere le Scritture del Signore siamo sempre convenuti nella Pasqua domenicale[117]». Anulino, gravemente confuso da questa professione di fede, fa battere il martire con le verghe, fino a che quello, esanime, compiuta la sua passione, si unì, raggiungendo in fretta i seggi tra gli astri[118], all'assemblea celeste. Ma a quel Felice segue un altro Felice, uguale nel nome e nella professione di fede, simile a lui nella passione. Venuto infatti a combattimento, con pari valore, anche lui squassato dalle battiture delle verghe, spirato in carcere tra i tormenti, fu associato al martirio del primo Felice.

4. Anche le donne tra i martiri: il martirio della vergine Vittoria (cap. XVI)

XVI. Non poteva il piissimo sesso femminile, né il coro delle sacre vergini, essere privato della gloria di sì nobile combattimento: tutte le donne, con l'aiuto di Cristo Signore, nella persona di Vittoria vennero a combattimento e conseguirono la corona[119]. Vittoria, infatti, la più santa fra le donne, il fiore delle vergini, onore e dignità dei confessori del Signore, nobile di nascita, santissima per la pietà, temperante nei costumi, nella quale i doni naturali risplendevano per il candore della sua purezza, e alla bellezza del corpo corrispondeva più bella la fede dello spirito e l'incontaminatezza della santità[120], si rallegrava di dover conseguire (dopo quella della verginità) una seconda palma, come martire del Signore[121]. In lei, infatti, già dall'infanzia rifulgevano luminosi i segni della sua purezza, e già in età di fanciulla era manifesto il rigore della sua castissima anima, e, in qualche modo, la dignità della futura passione. Infine, dopo che nella pienezza della sua verginità raggiunse l'età adulta, i genitori volevano costringerla, pur contro la volontà e l'opposizione della ragazza, alle nozze, e le stavano dando i genitori, suo malgrado, uno sposo[122]; per sfuggire al 'predone'[123], la ragazza, di nascosto, si era gettata giù da un precipizio, ma sostenuta da brezze leggere venute in suo soccorso, l'aveva accolta incolume la terra nel suo grembo[124]. Né avrebbe potuto in seguito patire anche per Cristo Signore, se fosse morta allora solo per preservare la sua purezza. Liberata pertanto dalle fiaccole nuziali[125], ed elusi insieme i genitori e il promesso sposo, balzando via quasi dal bel mezzo della celebrazione stessa delle nozze, si rifugiò, incontaminata vergine, nella chiesa, tempio di purezza e porto di castità; e lì con illibata purezza custodì in perpetua verginità la sacratissima chioma del suo capo consacrato e votato a Dio[126]. Lei dunque, affrettandosi al martirio, portava come palma trionfale nella destra il fiore della sua purezza. E al proconsole, che l'interrogava sulla sua fede, con voce chiara rispose: «Sono cristiana». Il fratello Fortunaziano, uomo togato e suo difensore, diceva con vane argomentazioni che lei era uscita di mente[127], ma Vittoria rispose: «La mia mente sta ben salda in me, e non sono mai cambiata». Il proconsole le replicò: «Vuoi andare via con tuo fratello Fortunaziano?». Rispose: «Non voglio, perché sono cristiana: i miei fratelli sono quelli che osservano i precetti di Dio[128]». O fanciulla fondata sull'autorità della legge divina! O vergine gloriosa degnamente consacrata al Re eterno[129]! O martire beatissima, così glorificata dalla sua professione di fede fondata sul vangelo, che rispose con le parole stesse del Signore: «I miei fratelli sono coloro che osservano i precetti di Dio»[130]. Udito ciò, Anulino mise da parte l'autorità del giudice e scese a parole persuasive con la fanciulla: «Pensa a te - le disse -. Tu vedi che tuo fratello con tanto ardore si preoccupa della tua salvezza». Ma la martire di Cristo gli replicò: «La mia mente sta ben salda in me, e non sono mai cambiata. Ho partecipato anch'io all'assemblea e ho celebrato la Pasqua domenicale con i fratelli, perché sono cristiana». Appena ebbe udito ciò, Anulino, agitato dalle furie[131], arse d'ira; relegò in carcere insieme agli altri la santissima fanciulla martire di Cristo e tutti destinò alla passione del Signore.

5. Anche i fanciulli tra i martiri: il martirio di Ilarione (cap. XVII)

XVII. Ma restava ancora Ilarione, uno dei figli del presbitero martire Saturnino, che appariva più grande della sua tenera età a motivo della sua grande devozione. Egli, avendo fretta di unirsi ai tormenti di suo padre e dei suoi fratelli, era ben lontano dal provare terrore per le terribili minacce del tiranno, e anzi non le tenne in nessun conto[132]. Gli veniva chiesto: «Hai seguito tuo padre e i tuoi fratelli?». E prontamente da quel piccolo corpo viene fuori una voce giovanile; il minuto petto del fanciullo si apre tutto alla confessione del Signore[133], con questa risposta: «Sono cristiano, e di mia spontanea volontà ho partecipato all'assemblea con mio padre e con i miei fratelli». Ti sarebbe parso di sentire la voce di suo padre, il martire Saturnino, venir fuori dalla bocca del suo dolce figlio, e la sua lingua confessava Cristo Signore sicura dietro l'esempio del fratello. Ma il proconsole, stolto, non capiva che contro di lui, non gli uomini, ma Dio stesso combatteva nei suoi martiri, né comprendeva che in quella età di fanciullo c'era un animo di adulto; e riteneva che il fanciullo potesse essere spaventato con quelle minacce che spaventano di solito i bambini. E così gli disse: «Ti taglierò i capelli, il naso e le orecchie, e poi ti lascio andare così». Ma a queste minacce il piccolo Ilarione, già glorioso per le virtù mostrate dal padre e dai suoi fratelli, lui che aveva imparato già dai suoi a disprezzare i tormenti, con voce chiara rispondeva: «Fa' pure tutto quello che vuoi fare, perché io sono cristiano». Si dà subito ordine che sia messo in carcere anche lui, e si sente la voce di Ilarione che dice con grande gaudio: «Rendo grazie a Dio»[134], Qui viene portata a compimento la lotta del grande combattimento. Qui il diavolo viene battuto e vinto[135]. Qui si allietano i martiri di Cristo, rallegrandosi in eterno per la gloria futura destinata alla loro passione.

Note al testo

[1] Sine dominico non possumus. I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale (Testo degli Atti dei martiri di Abitene, con introduzione, traduzione e note di G. Micunco, presentazione di Vito Angiuli), Ecumenica Editrice, Bari 2004.

[2] Si è preferito conservare la più comune dizione "Abitene": alcuni propongono "Abitine" (così nei testi latini: Abitinae),altri "Abitina" (così in base ad alcune iscrizioni). Sulla identificazione di questa cittadina africana vd. più avanti [la parte IV].

[3] Ma dies dominicus è già attestato in Tertulliano, cor. 3.

[4] Ritroveremo tutti questi termini nelle parole dei martiri di Abitene […].

[5] Cfr Girolamo, a. Abr. 2343: dominicum quod vocatur aureum aedificore coeptum est,«si cominciò a costruire la basilica detta aurea», una chiesa in Antiochia, poi consacrata (dominicum aureum dedicatur a. Abr. 2362).

[6] Cfr, ad esempio, Cipriano, eleem. 15, p. 384,21: in dominicum sine sacrificio venis, «vieni in chiesa (o alla celebrazione domenicale) senza partecipare al sacrificio» (Cipriano si rivolge ad una matrona "benestante e ricca", che non si cura di fare la sua offerta di denaro); Agostino, serm. 32,25: discant venire ad dominicum, «imparino a venire in chiesa (o alla celebrazione domenicale)».

[7] Elementi che è possibile ritrovare anche nel racconto che fa san Giustino martire nella sua prima Apologia (nn. 65-67). Giustino chiama la domenica "giorno del sole": così era detto nella terminologia profana quel giorno, ma per Giustino era il «primo giorno, nel quale Dio, mutando la tenebra e la materia creò il mondo, e anche perché Gesù Cristo nostro salvatore, in quello stesso giorno risorse da morte». La domenica è ancora chiamata "giorno del sole" nelle lingue anglosassoni (ingl. sunday;ted. sonntag).

[8] Sulla celebrazione domenicale notturna, vd. D. Rops, L'église des apôtres et des martyres,trad. it., Torino 1969, vol. I, p. 211.

[9] In 11 capitoli su 17: II, V, VII, VIII, IX, X, XI (2), XII (5), XIII (2), XIV (2), XVI.

[10] 9 v.: II, V, VII, VIII, IX, XII (2), XIII, XVI.

[11] 3 v.: XI, XIV (2).

[12] 1 v.: XII.

[13] Commentando Eusebio di Cesarea, hist. eccl.,VIII, 1,5, a proposito delle «chiese» ai tempi della persecuzione di Diocleziano, M. Ceva (in Eusebio di Cesarea. Storia ecclesiastica, Milano 1979, p. 435, n. 4), precisa: "Poiché nella metà del terzo secolo non esisteva ancora, né poteva esistere, un'architettura religiosa cristiana ufficiale, il termine "chiese" indica qui semplicemente gli òikoi ekklesias,cioè dei luoghi di riunione strutturati secondo la tradizione ellenistico-romana della ricca residenza privata, adattati alle nuove esigenze delle congregazioni cristiane. Il più antico esempio di òikos ekklesias sicuramente databile (200-230) si trova a Dura Europos (oggi Qalat el Salihiye), al confine tra la Siria e la Mesopotamia. Soltanto in età costantiniana, con il riconoscimento ufficiale della funzione pubblica, cioè religiosa, sociale e politico-amministrativa del Cristianesimo, si ebbe la nascita e il rapido sviluppo di un'architettura cristiana ufficiale rappresentata particolarmente dalla basilica, spettacolare nelle dimensioni e nella ricchezza dei materiali usati nella sua costruzione». [Per una diversa posizione che invita a riconoscere, invece, la presenza di edifici cristiani appartenenti alla comunità, cfr. ???]

[14] Dal gr. basiléus, "re", la basilica era propriamente il luogo in cui si amministrava la giustizia civile; i cristiani utilizzarono il termine per il Re della giustizia divina e, una volta ottenuta la libertà religiosa, utilizzarono anche l'impianto architettonico delle basiliche pagane.

[15] Questo, peraltro, sarebbe l'unico caso in cui il personaggio sarebbe indicato con due nomi, Ottavio Felice: in tutti gli altri casi degli Atti abbiamo sempre solo un nome.

[16] G. Caldarelli, Atti dei martiri (a cura di), Alba 1975, p. 625.

[17] Basti ricordare ancora la testimonianza di Giustino: «Nel giorno detto del sole, convengono tutti nello stesso luogo, sia quelli della città, sia quelli della campagna, e, finché il tempo lo permette, si leggono le memorie degli Apostoli, oppure le scritture dei profeti; poi, quando il lettore ha cessato, chi presiede l'assemblea parla ammonendo ed esortando a imitare esempi così belli» (apol.I, 67).

[18] Celebre il passo del libro di Neemia (Ne 8,1ss.), in particolare v. 3 (desse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno») e v. 8 (eleggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura»).

[19] Sono espressioni che ritornano nell'inno Vexilla regis di Venanzio Fortunato (VI secolo): Vexilla regis prodeunt,/fulget crucis mysterium,/qua come carnis conditor/suspensus est patibulo:/quo vulneratus insuper/mucrone diro lanceae/ut nos lavaret crimine,/manavit unda et sanguine, «Avanzano i vessilli del re, rifulge il mistero della croce, per il quale il creatore della carne con la sua carne fu appeso al patibolo; ferito poi dalla punta crudele della lancia, per lavarci dal peccato, versò acqua e sangue».

[20] Di cui 2 al plurale: dominicum,invece, non compare mai al plurale.

[21] 8 v.: V, VII, X, XI, XII, XIII (2 v.), XVII.

[22] 6 v.: V, VII, VIII, X, XII, XVI.

[23] Una associazione che ritroviamo anche in un testo di Agostino (collectam et dominicum egisse, in brev. coll. Don. 3,17,32), un testo che si riferisce proprio ai martiri di Abitene, e che sembra quasi una citazione dagli Atti di quel martirio (vd. anche p. 272).

[24] Più sopra (p. 264-65 e nota) lo abbiamo visto messo in rilievo sia nel racconto di Plinio, che in quello di Giustino.

[25] Un uso attestato già nella chiesa primitiva, come quella organizzata da Paolo per la chiesa di Gerusalemme, cfr Rm 15,26; 2 Cor 8-9; in particolare, per le collette di domenica («ad ogni primo giorno della settimana») vd. 1 Cor 16,1-2.

[26] S. Mazzarino, L'impero romano, Bari 1996 (I ed. 1973), vol. II, p. 523.

[27] S. Mazzarino, op. cit., p. 527.

[28] S. Mazzarino, op. cit., p. 578.

[29] S. Mazzarino, op. cit.,p. 594.

[30] J. Lortz, Storia della Chiesa,trad. it. Alba 1969, p. 111.

[31] È anche il giudizio di D. Rops (op. cit.,p. 394): «Man mano che il sistema tetrarchico progrediva nella via dell'organizzazione centralizzatrice dello Stato, esso doveva sopportare sempre meno ogni non conformismo».

[32] C. Moreschini, Cristianesimo e impero,Firenze 1973, p. 15, che riferisce il parere di altri studiosi.

[33] G. Zeiller, in A. Fliche-V. Martin, Storia della Chiesa,trad. it, Torino 1959, vol. II, p. 568.

[34] Alla prostrazione sarebbero stati tenuti anche gli ufficiali prima di prendere il comando, e questo avrebbe creato dei problemi per i cristiani: Zeiller (ibid.) ritiene poco probabile la cosa.

[35] Veniva, come tanti soldati dell'esercito di Galerio, dalla regione oltre il Danubio, dalla quale la popolazione civile si era dovuta trasferire, dopo la guerra condotta da Aureliano contro i Carpi (272); era stata così creata la provincia della Dacia nova,sulla destra del Danubio: il termine transdanuviano usato da Lattanzio (De mortibus persecutorum 9) equivale a barbara (cfr S. Prete, Lattanzio. De mortibus persecutorum,1-16; 21-22; 52, Bologna 1962, p. 66).

[36] Così Zeiller (ibid),che prende le notizie da Lattanzio (De mort. pers. 11: «Deorum montium cultrix»). «Le iscrizioni della Dacia e della Mesia indicano in Silvanus, Diana, Liber Pater,le divinità in culto colà. Lattanzio tuttavia, pare che voglia far notare il carattere montanaro e semibarbaro della famiglia di Galerio» (S. Prete, op. cit.,p. 71).

[37] Lattanzio, De mort. pers. 11.

[38] P. Calliari, Lattanzio. La morte dei persecutori,Alba 1965, p. 60, nota 6.

[39] La traduzione è di M. Ceva, op. cit.

[40] Importanti raccolte degli Acta martyrum (vd. H. Musurillo, The Acts af the Christian Martyrs, Oxford 1972; AA. VV., Atti e passioni dei martiri, Vicenza 1987) non li riportano per questo motivo.

[41] Così detti da Donato vescovo di Cartagine dal 315 al 355, che promosse e guidò lo scisma che da lui prese nome e che funestò per circa un secolo la chiesa nordafricana.

[42] S. Agostino, Breviculus collationis cum donatistis,111,32.

[43] Anche Agostino conosce gli Atti dei martiri di Abitene,anzi nell'ultima espressione su riportata (confitebantur se collectam et dominicum egisse),come abbiamo già notato, sembra citarli espressamente (cfr supra,p. 268, nota 22).

[44] Vd., ad esempio, D. Ruiz Bueno, Actas de los martires,Madrid 1968, pp. 970-971.

[45] G. D. Gordini, in Bibliotheca Sanctorum,Roma 1968, XI, 682-683, s. v. Saturnino.

[46] Questi due testi, presenti nell'edizione del Migne, giustamente non sono riportati nell'edizione di Ruiz Bueno, che abbiamo seguito per il presente lavoro (vd.più avanti, Nota critica).

[47] Contra epist. Parmeniani, III, 6,2 = CSEL 51, p. 141.

[48] Vd. J. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Altertumwissenschaft,I, 1,101, s.v. Abitinae.

[49] Cipriano, sent. episc.,64 (= CSEL 3, p. 456).

[50] Harduinus, Acta conciliorum II, 1082 B; III, 749 C.

[51] J. Mesnage, L'Afrique chrétienne. Évêchés et ruines antiques,Paris 1912, p. 43.

[52] Cfr S. Lancel, Actes de la Conférence de Carthage en 411, Paris 1991, t. IV (Indices),pp. 1296-1297.

[53] La collezione di Ruinart ha fatto da base per tutte le successiveraccolte. L'unica moderna che possa reggere il confronto con la sua è quella di H. Leclerq, Les martyres, recueil des pièces authentiques sur les martyres, depuis les origines du christianisme jusqu'au XX siècle, Paris 1902.

[54] J. P. Migne, Patrologia Latina,Parigi 1844-1864, VIII, 688 ss.

[55] L'autore non precisa l'anno. Da S. Agostino (brev. coll. Don., 17) sappiamo che il martirio avvenne «quando Diocleziano era console per la nona volta e Massimiano per l'ottava volta, il giorno prima delle idi di febbraio», quindi il 12 di febbraio dell'anno 304.

[56] È il «diavolo» il vero avversario dei testimoni di Cristo, come si dice poco più avanti: «la lotta non era contro gli uomini, ma piuttosto contro il diavolo», riprendendo la parola di Paolo: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6, 12). Cfr. anche cap. VII (il diavolo parla per bocca del proconsole Anulino), cap. IX (Anulino è il diavolo stesso).

[57] Nell'editto di Diocleziano l'ordine di bruciare i libri sacri è al secondo posto (prima viene quello di distruggere i luoghi di culto); ma per i cristiani viene prima di tutto la Parola di Dio; peraltro, i luoghi sacri si possono avere altrove, o si possono ricostruire, mentre la perdita dei libri è per certi versi irreparabile: pensiamo a quanti antichi codici della Scrittura o dei Padri devono essere andati distrutti... «Testamenti» è qui equiparato a «Scritture». Il codice colbertino ha, invece di Testamenta, la lezione sacramenta, che ritiene equivalente a magisteria, quindi a "insegnamenti autorevoli" da custodire come sotto "giuramento" (sacramentum).

[58] Il termine indica qui semplicemente le case in cui le comunità cristiane si riunivano; il luogo di riunione, sarà chiamato anche direttamente dominicum (cap. XII).

[59] L'espressione richiama subito il Dominus Deus sabaoth, di Is 6, 3: «Santo, santo, santo, il Signore Dio degli eserciti». Ma la comunità cristiana, e la vita cristiana, era intesa come militia Christi, un "militare" agli ordini di Cristo; non a caso il greco mystérion, che indicava i sacramenti della vita cristiana a partire dal battesimo, fu tradotto in latino con sacramentum, il termine che indicava il "giuramento" che prestavano i soldati e con cui si impegnavano fino alla morte a combattere per la patria. Tutto il passo utilizza un linguaggio da battaglia.

[60] Cfr. Ef 6, 13 ss.

[61] Cfr. Ef 6, 12 e nota 2.

[62] Sono i cosiddetti traditores, dal verbo tradere, "consegnare": sono propriamente i "consegnatori" (dei libri delle Scritture); il termine ha assunto, anche per causa loro, il significato attuale di "traditori". Detestati dalla comunità cristiana, furono anche all'origine dello scisma attuato dai donatisti.

[63] Le Scritture sono Cristo stesso: versare il sangue per custodire le Scritture è versare il sangue per Cristo e per i fratelli. Nel «sangue versato» è possibile vedere un primo riferimento al sacrificio di Cristo e all'Eucaristia; ce ne saranno tanti altri: il sacrificio dei martiri viene continuamente associato a quello di Cristo.

[64] È soprattutto in espressioni di questo genere che è possibile avvertire la polemica donatista, ma una posizione ugualmente rigorosa è possibile ritrovare anche nel Cipriano del De lapsis e di molte epistole.

[65] È il titolo con cui vengono definiti coloro che confessavano, o professavano, pubblicamente la propria fede cristiana, anche, come in questo caso, a rischio o a prezzo della vita.

[66] Altro modo di definire il diavolo, l'"avversario", Satana (nome che in ebraico significa appunto "avversario").

[67] Abitene è oggi molto probabilmente Chouchoud el-Batin (in Tunisia), nome che nella seconda parte "el-Batin" sembra conservare memoria proprio dell'antica Abitene. Contro la lezione Alutinensi (Colb.), Henschen ha il nostro Abitinensi («ex duobus antiquis codicibus»,  "sulla base di due antichi codici", come lui stesso riferisce). La stessa grafia (Alutinensium. Alutinensem) il codice colbertino propone anche negli altri passi in cui ricorre il toponimo Abitine.

[68] È il proprietario della casa in cui era riunita la comunità cristiana al momento dell'arresto (nel cap. XIV si dice che altre riunioni di culto si erano tenute nella casa di Emerito). Solo in questo caso abbiamo nome (quello della gens: Ottavio) e cognome (Felice): c'è la possibilità che si giochi su Octavi (genitivo di Octavius, ma anche di Octavus) per indicare l'ottavo giorno, il giorno del Signore, e la comunità dei salvati (cfr. 1 Pt 3, 20-21).

[69] Abbiamo scelto di tradurre così dominicum, in quanto il termine, che contiene vari significati, si riferisce soprattutto alla domenica come giorno del Risorto. Importante la sottolineatura «come di consueto». Henschen ha dominica sacramenta, "i sacramenti del Signore", sulla base del codice Trevirense.

[70] Saturnino è il «presbitero», il responsabile ecclesiastico di questa comunità cristiana: viene chiamato sempre con questo titolo, l'"anziano", che nel Nuovo Testamento si dà a quelli che oggi noi chiamiamo vescovi e sacerdoti; solo una volta viene detto «sacerdote di Dio» (cap. X), e una volta «dottore», cioè 'maestro', (sempre nel cap. X): solo con la sua presenza la Pasqua domenicale viene celebrata validamente (integre).

[71] Grande importanza aveva nella chiesa antica la figura del lettore, per l'ampio spazio che si dedicava alla lettura della Parola di Dio (vd. poi più avanti, cap. XII). Non è un caso che l'Apocalisse riporti come prima beatitudine quella del lettore: «Beato colui che legge» (Ap 1, 3), il lettore dell'assemblea riunita per il culto. Più avanti (cap. X) anche Emerito ha il titolo di lettore.

[72] La presenza di questa vergine consacrata, e poi quella di Vittoria (cap. XVI) ella pure votata alla verginità, dice della grande diffusione di questo stato all'interno della comunità cristiana.

[73] Cinquanta cristiani in tutto, 32 uomini e 18 donne.  Il Migne legge i due nomi Margarita, Maior come un solo nome Margarita maior, Margherita maggiore, ma tale lezione si giustificherebbe solo con la presenza di una Margarita minor, che non c'è.

[74] La piazza della città antica, circondata dai principali edifici civili e religiosi, e in cui si svolgeva buona parte della vita pubblica. Qui sta per il luogo in cui si amministrava la giustizia (anche oggi il termine "foro" ha praticamente solo questa valenza).

[75] È il divieto imposto dall'editto di Diocleziano, qui attribuito a tutta la tetrarchia, ai due Imperatori, gli Augusti Diocleziano e Massimiano, e ai due Cesari, Galerio e Costanzo Cloro.

[76] Abbiamo preferito tradurre così collectam et dominicum celebrassent, propriamente «avevano celebrato la "colletta" (cioè l'assemblea) e la Pasqua domenicale». Il Migne legge collectam dominicam, «l'assemblea del Signore», espressione che, però, ricorrerebbe qui l'unica volta.

[77] Il cavalletto (equuleus, class. eculeus, diminutivo di equus, "cavallo") è uno strumento di legno, a forma appunto di cavallo, su cui veniva posto colui che doveva essere torturato. Il termine "innalzare" (lat sublevare, "levare in alto") viene qui utilizzato, invece del più comune conicere (gettare, porre), per introdurre un riferimento alla passione di Gesù, che «fu innalzato» sulla croce, come sottolinea soprattutto Giovanni, dando al verbo anche un significato di esaltazione nella gloria (vd. Gv  12, 32).

[78] Cfr. Ap 2, 16: «Combatterò contro di loro con la spada della mia bocca», con lo Spirito che esce dalla bocca di Dio, cioè con la sua Parola.

[79] Questo «rendimento di grazie», che ritornerà tante volte sulla bocca dei martiri, è la vera Eucaristia celebrata in unione al sacrificio eucaristico di Cristo: una Eucaristia della vita (cfr. 1 Tess 5, 18: «In ogni cosa rendete grazie»), per la quale il corpo e il sangue dei martiri vengono offerti in sacrificio al Padre.

[80] Cfr. At 4, 12: «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».

[81] Cfr. 1 Gv 4, 15: «Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio».

[82] È la preghiera del Padre nostro: «Liberaci dal male» (e dal Maligno), Mt 6, 13.

[83] Anche se è la presenza del presbitero, che la presiede, a rendere valida la celebrazione liturgica, è però tutta la chiesa a "fare" la celebrazione, l'assemblea liturgica: viene rivendicato l'ufficio sacerdotale dei cristiani, di tutto il popolo di Dio (cfr. 1 Pt 2, 9; Ap 1, 6).

[84] L'assemblea liturgica, che pure viene sentita e vissuta come celebrazione di tutta la comunità, è validamente costituita (integre, cioè "integralmente", in tutti i suoi elementi costitutivi) solo se c'è il "presbitero", il rappresentante cioè di coloro ai quali Cristo ha affidato il compito di celebrare l'Eucaristia; per questo compito ha istituito gli apostoli, ai quali soli ha comandato: «Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11, 25).

[85] Cfr. Mt 5, 44: «Amate i vostri nemici»; Lc 23, 34: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Il perdono dato da Gesù sulla croce ai suoi nemici, venne presto imitato dai martiri, come qui fanno quelli di Abitene: l'amore per i nemici dovette sembrare alle primitive comunità cristiane il precetto più rivoluzionario dell'insegnamento di Gesù.

[86] Sono le parole di Stefano, che, durante il suo martirio, chiede il perdono per i suoi persecutori (cfr. At 7, 60).

[87] I cristiani hanno sempre potuto mettere innanzi la loro condotta irreprensibile, a confronto con la condotta dei pagani, per denunciare quanto ingiusta fosse la loro persecuzione; vd., ad esempio, Tertulliano, apolog., 45-49; Lettera a Diogneto, 5-6. Seguivano in questo l'esortazione di Pietro: «La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (1 Pt 2, 12); «e se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi!... nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così Dio vuole, soffrire operando il bene, che facendo il male» (1 Pt 3, 14-17).

[88] La morte è liberazione dalla schiavitù del mondo e del peccato; in Rm 6, 6, Paolo lo dice del battesimo e della morte dell'uomo vecchio, che «è stato crocifisso con Cristo», i martiri lo dicono riguardo a questo definitivo "battesimo" di sangue: «Il martirio è il battesimo per il quale, appena usciti dal mondo, siamo uniti a Dio» (Cipriano).

[89] Queste ultime parole di preghiera sembrano un'eco di preghiere liturgiche, del tipo: «I nostri inni di benedizioni non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva». Solo Cristo con il suo sacrificio è perfetto rendimento di grazie al Padre, cfr. Eb 7, 26-27: il sacrificio dei martiri ha senso e valore solo unito a quello di Cristo.

[90] Reminiscenze diverse della Scrittura: per «vedo già il regno eterno», cfr. At 7, 55-56: «Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: "Ecco io vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio"». Per il «regno che non si corrompe», cfr. 1 Pt 1, 3-4: «(Dio) ci ha rigenerati mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza viva, per un'eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce». L'attesa del regno esprime il valore escatologico dell'Eucaristia celebrata dai martiri: «venga il tuo regno» (Mt 6, 10); «annunziate la morte del Signore finché egli venga» dice Paolo (1 Cor 11, 26) a proposito dell'Eucaristia.

[91] Cfr. 1 Tm 1, 1: «Cristo Gesù nostra speranza».

[92] Qui, ma anche altrove più avanti, viene affermata con fede la priorità e superiorità della legge di Dio rispetto a quella degli uomini, sul modello di quanto avevano già fatto Pietro e Giovanni, i quali, a chi voleva loro imporre di non predicare la Parola, avevano obiettato: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4, 19-20). Un principio, peraltro, già affermato anche dal mondo greco classico, vd. Socrate in Platone, apol. 20, e Sofocle, Antigone vv. 450-460.  Un riferimento, inoltre, va sicuramente fatto alla testimonianza dei fratelli Maccabei, cfr. 2 Mac 7, 2: «Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le patrie leggi» e 7, 30: «Non obbedisco al comando del re, ma ascolto il comando della legge che è stata data ai nostri padri per mezzo di Mosè». «Il culto dei "sette fratelli Maccabei" si diffuse fino nell'Occidente, ai quali vennero dedicate molte chiese. Il racconto intitolato Passione dei santi Maccabei incontrò larga diffusione e servì da modello a diversi atti dei martiri» (La Bibbia di Gerusalemme, nota ad loc.).

[93] Contro la lezione consumor (Migne), «vengo consumato», è preferibile senz'altro quella adottata da Ruiz consummor, «sono portato al sommo, al compimento, alla perfezione del mio essere cristiano», espressione che riprende, peraltro, quella di Gesù sulla croce: consummatum est, in genere tradotta «tutto è compiuto» (Gv 19, 30), ma che vuole significare che il summum, cioè il punto più alto, il punto di arrivo, il fine (gr. télos), è stato raggiunto: «per questo io sono nato e per questo io sono venuto» (Gv 18, 37), dice Gesù a Pilato, riferendosi alla testimonianza alla verità che sta per rendere con la sua morte in croce. È strano che sia Ruiz che Caldarelli (che segue il testo latino curato da Ruiz) traducano rispettivamente: «en ella quero consumar mi vida» ("in essa chiedo di consumare la mia vita"), e «in quella vivo e soffro» (?).

[94] Come i martiri dell'Apocalisse, che« hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello» (Ap 7, 14), così i martiri sono bagnati, quasi lavati, nel sangue che i fratelli che stanno spargendo, seguendo l'Agnello: questo sangue, come quello di Cristo nell'Eucaristia, diventa per loro sostegno e forza per la "buona battaglia".

[95] Il presbitero Saturnino si mette sullo stesso piano di tutta la comunità: anche lui è stato uno dei partecipanti, non il promotore: promotori della celebrazione sono tutti, come dirà tra poco un altro martire, il lettore Emerito.

[96] I martiri sono stati arrestati mentre celebravano la Pasqua domenicale in casa di Ottavio Felice (vd. cap. II). Qui Emerito si riferisce (al plurale) ad altre celebrazioni che si sono tenute nella sua abitazione: evidentemente le case messe a disposizione per il culto dovevano essere più di una. Secondo alcuni, invece, qui ci sarebbe una contraddizione con la notizia del cap. II, indizio di una compilazione tarda e 'redazionale' di questi Atti. Il Migne ha al singolare collecta facta fuit, che riferisce evidentemente alla sola colletta durante la quale i martiri sono stati arrestati; è preferibile la lezione di Ruiz, al plurale.

[97] Come già notato prima (vd. nota 61), l'obbligo di celebrare la Pasqua domenicale senza interruzioni viene dalla parola del Signore (cfr. 1 Cor 11, 25), qui detta «legge», la nuova legge del vangelo che ha sostituito la "legge" mosaica.

[98] Abbiamo qui l'unico caso in cui Saturnino viene detto «sacerdote» e «sacerdote di Dio», invece che «presbitero», certamente per mettere in maggiore risalto e condannare l'azione sacrilega del proconsole e dei carnefici contro l'"unto del Signore". Nel Nuovo Testamento mai il termine sacerdote è attribuito a responsabili delle comunità cristiane; tale titolo, quando non si riferisce al mondo giudaico e all'Antico Testamento, è riservato a Cristo, unico e vero "sommo sacerdote" e al popolo di Dio; col tempo, gradualmente, ma già dal II secolo, lo si è attribuito anche ai vescovi e ai presbiteri.

[99] Ancora la contrapposizione tra legge umana e legge divina (vd. sopra, nota 46).

[100] L'insistenza di Saturnino sull'autorità della «legge» mette in apprensione il proconsole, che teme venga proposta una nuova autorità politica, una possibile rivolta contro lo Stato; un po' come Pilato che teme che Gesù possa costituire una minaccia per il potere di Cesare; anche Pilato quando sente pronunziare dai Giudei la parola "legge", nota Giovanni, «ebbe ancor più paura» (Gv 19, 8) [N.B. de Gli scritti: questa affermazione potrebbe essere facilmente contestata, poiché Pilato percepisce che non c’è alcun pericolo politico da parte di Gesù e dei suoi: pericoloso politicamente è il sinedrio che sobillerebbe la folla, provocando una rivolta, se Gesù non fosse crocifisso].

[101] Vd. sopra, nota 59.

[102] Come fossero fratelli di sangue, ma, come sarà poi detto esplicitamente dalla martire Vittoria (cap. XVI), «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 50).

[103] È l'espressione, centrale e fondamentale nella testimonianza dei martiri di Abitene. Qui abbiamo aggiunto nella traduzione il verbo «essere», riprendendolo da una simile espressione del cap. XII. Il riferimento più immediato qui, trattandosi dell'Eucaristia, potrebbe essere a Gv 15, 5: «senza di me non potete far nulla», dice Gesù utilizzando l'immagine della vite e dei tralci.

[104] Viene ancora una volta affermato il primato della legge divina, qui con un più chiaro ed esplicito riferimento alla testimonianza di Pietro e Giovanni in At 4, 19.

[105] Come sarà esplicitamente dichiarato poco più avanti, qui Emerito mette in pratica quanto dice l'apostolo Paolo: «voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Cor 3, 3). I martiri sono diventati essi stessi quella Scrittura che possiedono nel loro cuore. La stessa risposta daranno, più avanti, anche altri martiri.

[106] Reminiscenze diverse della Scrittura: «nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo» (1 Pt 4, 13-14);  «Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove» (1 Pt 1, 6); «considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove» (Gc 1, 2); «(i giusti) anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé» (Sap 3, 4-5).

[107] Cfr. Sal 118, 31.

[108] Cfr. 2 Cor 3, 3.

[109] Come già ricordato, sono coloro che, venendo meno nella fede, hanno 'consegnato' (lat. tradere) i libri sacri, invece di custodirli affrontando il martirio.

[110] Personificazione della furia persecutoria, che ricorda certamente la "bestia" e la "grande prostituta" dell'Apocalisse, figure in cui è simbolicamente indicata Roma nella sua persecuzione contro i cristiani; cfr. soprattutto Ap 12, 17: «Il drago si infuriò... e se ne andò a fare guerra... contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù»; e Ap 16, 6: «quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù».

[111] Sempre il diavolo, il nemico, Satana.

[112] La richiesta del proconsole, che appare, come viene rilevato dall'autore degli Atti subito dopo, «stolta e ridicola», ha un duplice senso: il primo risponde al tentativo di ridurre la fede cristiana a pratica puramente privata e spirituale, che così non urta nessuno; il secondo senso risponde alla preoccupazione che angustia il proconsole, quella cioè di impedire che siano disattesi il culto dell'imperatore e i sacrifici della religione nazionale, elementi che hanno motivato, in ultima analisi, la persecuzione di Diocleziano. Ma la fede cristiana è sostanziata di Parola di Dio e di Eucaristia al punto che, come sarà detto subito dopo, il cristiano non sarebbe nemmeno se non ci fosse la Pasqua domenicale, con la lettura delle Sacre Scritture e la partecipazione all'Eucaristia.

[113] È la stessa fondamentale affermazione già incontrata nel cap. XI, qui però con il verbo esse, «essere» (che, peraltro, non compare nel testo del Migne). Il verbo «essere» è sempre, comunque, ricavabile dalla successiva espressione valeat esse, «sia in grado di essere».

[114] Non solo il diavolo parla per bocca di Anulino, ma Anulino è Satana stesso.

[115] Suona come una anticipazione, con parole diverse, di una celebre affermazione della teologia moderna: «L'Eucaristia fa la chiesa, la chiesa fa l'Eucaristia». Si tratta di affermazioni di capitale importanza: la Pasqua domenicale è l'essere stesso del cristiano, che senza di quella non avrebbe alcun senso, in quanto con quella totalmente coincide: il cristiano èla Pasqua domenicale.

[116] Anche questo è di grandissima importanza: il cristiano è comunità, è comunione; non ha senso il cristiano isolato; la sua identità è quella di popolo di Dio, di chiesa.

[117] Da questa affermazione si rileva la grande importanza, e di conseguenza, il largo spazio, che doveva avere nella celebrazione della Pasqua domenicale la lettura delle Sacre Scritture, al punto da sembrare qui quasi il fine principale per cui ci si raduna in assemblea. In questo passo l'epressione latina in dominicum convenimus sembra dare al termine che traduciamo con "Pasqua domenicale" un valore di "luogo della celebrazione".

[118] Piuttosto che "tribunale della giustizia divina", intenderei l'espressione del testo siderea tribunalia, appunto, come «seggi celesti»; anche al singolare il termine tribunal designa, piuttosto e prima ancora che l'ufficio del tribunale, il luogo, i seggi su cui i giudici prendevano posto; a maggior ragione qui al plurale. Peraltro, questa immagine, come quella successiva dell'«assemblea celeste» rimandano ancora al libro dell'Apocalisse, a liturgie celesti come quella di Ap 4, 4 ss.

[119] La corona dei vincitori delle gare atletiche passa a indicare la corona dei martiri, vincitori nella lotta contro l'"avversario"; per la "corona" come premio, in questo senso, vd. 2 Tm 4, 8; 1 Pt 5, 4; Ap 2, 10.

[120] Cfr. Pr 31, 30: «Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare»; 1 Pt 3, 3-4: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore - capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l'interno del vostro cuore con un'anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio».

[121] Nello stesso modo viene da S. Ambrogio esaltata Agnese, vittima lei pure, a Roma, della persecuzione di Diocleziano: «Avete dunque in una sola vittima un doppio martirio, di castità e di fede. Rimase vergine e conseguì la palma del martirio» (de virg. 1, 2, 9).

[122] Aveva ben altro Sposo al quale legare la propria vita; anche qui potremmo riprendere le parole di Ambrogio, che attesta che a chi voleva lusingarla con la promessa di uno sposo Agnese rispose: «È un'offesa allo Sposo attendere un amante. Mi avrà chi mi ha scelta per primo» (de virg. 1, 2, 8).

[123] A chi l'avrebbe 'depredata' della sua verginità, al promesso sposo, o, anche, al diavolo, vero avversario e predone anche in questa situazione.

[124] Qualcuno vede come poco verosimile questo episodio: «Alcuni particolari sulla storia di Vittoria, riferiti nel cap. XVI, hanno qualche cosa di leggendario e fanno ricordare altre tradizioni della stessa epoca, per es. quella del martire Venanzio da Camerino, precipitato incolume in un burrone, ma le altre vicende narrate appaiono verosimili» (Caldarelli, op. cit., p. 626).

[125] Quelle con cui, secondo il costume del tempo, si accompagnava, appunto, la sposa alla casa dello sposo nel giorno delle nozze.

[126] Oggi le vergini consacrate tagliano i capelli come segno, appunto, della loro consacrazione; qui appare l'usanza opposta, forse in ossequio alla parola di Paolo: «è vergogna per una donna tagliarsi i capelli» (1 Cor 11, 6); o rifacendosi ancora al voto di nazireato degli uomini, per il quale «non passerà rasoio sul capo» (Gdc 13, 5).

[127] È la follia del Vangelo: anche di Gesù «dicevano: È fuori di sé» (Mc 3, 21); o la follia della croce: «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23).

[128] Come sarà sottolineato poco più avanti dall'autore degli Atti, qui Vittoria risponde con le parole di Gesù nel Vangelo: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 50).

[129] Ricorda la vergine sposa del Salmo 44. «Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; al Re piacerà la tua bellezza. Egli è il tuo Signore: prostrati a lui» (Sal 44, 11-12).

[130] Cfr. Mt 12, 50.

[131] Le Furie erano, nella mitologia classica, la personificazione della vendetta divina contro coloro che si erano macchiati di delitti di sangue. Qui, con la minuscola, sono il peso della inutile crudeltà e della impotenza del tiranno di fronte alla eroica testimonianza dei martiri.

[132] La vicenda di questo giovanissimo martire ricorda ancora quella dei sette fratelli Maccabei: «il re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza del giovinetto, che non teneva in nessun conto le torture» (2 Mac 7, 12).

[133] Anche i più piccoli confessano il nome del Signore; cfr. Sal 8, 3: «Con la bocca dei fanciulli e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari», ripreso da Gesù, cfr. Mt 21, 16.

[134] Fino alla fine la testimonianza  dei martiri di Abitene è un rendimento di grazie, una Eucaristia.

[135] Già dall'inizio (cap. I) la lotta dei martiri è stata presentata come una lotta contro il diavolo, contro il mistero di iniquità che tenta inutilmente di prevalere sul regno di Dio e sui suoi fedeli.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:19 pm | | Default

Troppa paura di dire “no”. Questa è una cultura che non regge il fallimento, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da La stampa del 13/10/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educazione, nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

«La colpa non è dei maestri, che coi pazzi devono fare i pazzi. Infatti se non dicessero ciò che piace ai ragazzi, resterebbero soli nelle scuole... E allora? Degni di rimprovero sono i genitori che non esigono per i loro figli una severa disciplina dalla quale possano trarre giovamento... essi devono abituare gradualmente i giovani alle fatiche, lasciare che si imbevano di letture serie e che conformino gli animi ai precetti della sapienza... Invece i fanciulli nelle scuole giocano».  

Questa geremiade appartiene ad Agamennone, maestro sbeffeggiato da Encolpio e Ascilto, giovani protagonisti del Satyricon di Petronio, che rispondono all’ennesima ramanzina del fallito, scappando da scuola e avventurandosi per le vie della città, irte di peripezie che mostrano loro che avrebbero fatto meglio a studiare un po’ di più prima di affrontare il mondo, improvvisando. È il racconto comico di una società decadente, quella neroniana, con una scuola al passo con la decadenza.  

I tempi non cambiano, soprattutto quelli di crisi si somigliano. Così qualche giorno fa, in una scuola italiana, una bambina di prima elementare, annoiata dalla lezione, ha chiesto di andare al bagno ma, passata sotto le sbarre del cancello di ingresso, ha preso la via di casa e in pochi minuti è tornata dalla mamma, sgomenta tanto quanto l’insegnante.  

Di chi sarà la colpa? Dei genitori, degli insegnanti, della scuola, dei ragazzi? Con il senso di colpa non si va lontano, serve invece un po’ di buon senso. Noi insegnanti siamo a volte bersagliati da genitori, che non riescono a sopportare che, nella cultura del successo e della prestazione, il figlio possa fallire: fallito piuttosto sarà l’insegnante che non riesce a fare amare libri e teoremi, e a tenere la disciplina. Ma d’altro canto anche noi abbiamo le nostre responsabilità. Qualche decennio fa la nostra cultura ha eroso lentamente l’autorità, identificandola con l’autoritarismo. Ma con l’acqua sporca dell’autoritarismo avevamo buttato via il bambino dell’autorevolezza. Oggi, forti di un po’ di senso storico e di risultati, siamo chiamati a rifondare l’autorità su altre basi, più stabili. I ragazzi cercano genitori e maestri capaci di porre loro mete e limiti, confrontandosi con i quali, possono provare la consistenza di principi su cui fondare le proprie esistenze ancora informi. Ma se ad essere informe è colui al quale chiedono una forma? 

Abbiamo troppa paura
di dire dei no, di porre regole, di proporre mete alte e impegnative, perché i nostri ragazzi potrebbero fallire o perché a quelle mete e quei sentieri non crediamo più. Eppure così cresce una generazione incapace di riconoscere il principio di realtà
, affondando nelle sabbie mobili di quello di piacere, che rende tutto un gioco da bambini tiranni, come nel racconto di Buzzati. Ma il gioco è divertente proprio perché ha delle regole, e non perché un tiranno possa rinegoziarle quando perde, altrimenti il gioco si trasforma in farsa. E noi non vogliamo personaggi da farsa come quelli di Petronio, che si perdono sollecitati e manipolati da tutti i piaceri che li allettano, resi letteralmente impotenti dal loro stesso desiderio sempre soddisfatto, incapaci di prendere posizione sulla realtà, in una società divisa - a detta dell’autore antico - in due gruppi «quelli che derubano e quelli che si lasciano derubare»... del futuro, prima di tutto. A genitori e insegnanti, nuovamente alleati, il compito di strappare i ragazzi dalla tirannia del non senso.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:18 pm | | Default

1/ L’accoglienza dei rifugiati nelle parrocchie di Roma 2/ La Chiesa in cammino con i profughi e gli stranieri: la proposta di un itinerario formativo

1/ L’accoglienza dei rifugiati nelle parrocchie di Roma

Riprendiamo sul nostro sito una nota pubblicata su sito della Caritas diocesana di Roma il 3/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Sono più di ottanta le parrocchie e gli istituti religiosi di Roma che hanno dato la disponibilità per accogliere almeno un rifugiato dopo l’appello di Papa Francesco ad aprire le porte. Un numero importante a cui si aggiungeranno nei prossimi mesi altre iniziative di solidarietà – gemellaggi tra parrocchie, adozione di famiglie da parte di altre famiglie, iniziative di sostegno economico, locali da utilizzare per la formazione – che coinvolgeranno tutte le comunità della diocesi e che la Caritas diocesana promuoverà a partire dal 2016.

Alla prima scadenza del 30 settembre, non definitiva, 62 parrocchie, 13 istituti religiosi, 2 seminari, 2 case famiglia e 2 istituti pontifici hanno aderito alla proposta della Caritas per la “prima accoglienza” – rivolta a richiedenti protezione internazionale ancora non riconosciuti che saranno inviati dalla Prefettura di Roma – o per la “seconda accoglienza”, per rifugiati già riconosciuti e che hanno terminato il periodo di assistenza nel circuito dell’accoglienza dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) cui aderisce la Caritas stessa. Mentre sono in corso i sopralluoghi tecnici, che termineranno a metà ottobre, finora sono 17 le parrocchie risultate idonee ad accogliere subito (12 prima accoglienza, 5 seconda); 8 parrocchie dovranno effettuare importanti lavori di ristrutturazione e adeguamento e saranno pronte tra due mesi, 14 sono risultate non idonee a ospitare in quanto incompatibili con le normative. A questo numero vanno aggiunte 16 parrocchie che già collaborano stabilmente con la Caritas diocesana nell’accoglienza dei senza dimora e alle quali è stato chiesto di lasciare gli spazi disponibili per il prossimo “Piano Freddo” (novembre 2015-marzo 2016) e che, al termine di questi, potranno dedicarsi a ospitare famiglie. Altre 8 parrocchie, inoltre, mettono a disposizione spazi per promuovere le scuole di italiano e mense diurne.

«Una straordinaria partecipazione delle parrocchie data la novità e l’originalità della richiesta» ha detto monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma, per il quale «l’appello di Papa Francesco ha aperto il cuore dei romani. Occorre considerare – ha commentato monsignor Feroci – che le nostre comunità sono state chiamate dal Santo Padre a qualcosa che va oltre l’ordinario e la storia pastorale di tutta la Chiesa italiana ed europea. I complessi parrocchiali non sono stati pensati per fare questo tipo di accoglienza. Sono anzitutto luoghi di culto e di insegnamento, così come avviene per i luoghi di tutte le altre religioni. A questo va poi aggiunto che a settembre l’attività pastorale non è ancora ripresa in pieno e oltre quaranta comunità parrocchiali hanno visto avvicendarsi i propri parroci che in questi giorni si stanno insediando. Per questi era impossibile poter aderire in tempi così stretti all’appello. Purtroppo sui media sono state date letture distorte e offensive; addirittura ci risulta che sono stati offerti soldi a dei rifugiati siriani per indossare una telecamera nascosta e andare a chiedere accoglienza fermando i sacerdoti per strada. Vorrei invece che fosse compreso l’enorme sforzo che i parroci stanno facendo insieme alle comunità».

2/ La Chiesa in cammino con i profughi e gli stranieri: la proposta di un itinerario di approfondimento per le parrocchie “Ero forestiero e mi avete ospitato…”

Riprendiamo sul nostro sito una nota pubblicata su sito della Caritas diocesana di Roma il 2/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Non è possibile restare indifferenti dinanzi alle tragiche immagini di migliaia di rifugiati che bussano alle nostre porte, la coscienza di ogni cristiano è interpellata direttamente. «Il Vangelo – ha detto Papa Francesco – ci chiama, ci chiede di essere “prossimi”, dei più piccoli e abbandonati». Soprattutto durante il Giubileo della Misericordia. Il 6 settembre 2015 il Santo Padre ha rivolto un appello «alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa» per ospitare una famiglia di profughi, «incominciando dalla mia diocesi di Roma».
Straordinaria e impegnativa è stata la risposta delle nostre comunità che fin dal primo momento, con il coordinamento della Caritas diocesana, si sono mobilitate.

Il fenomeno delle migrazioni è vasto e con molte sfaccettature. Semplificare spiegazioni e possibili soluzioni rischia di banalizzare la complessità, rafforzare i germi dell’ignoranza, trasformare una tragedia epocale in un sondaggio di opinioni in cui una soluzione vale un’altra; rischia di far crescere l’ebola del razzismo, già così, purtroppo, presente nelle parole e nei fatti di tanti.

Per questo, la Caritas Diocesana, l’Ufficio Catechistico e l’Ufficio Migrantes (per la Pastorale delle migrazioni) propongono alle comunità parrocchiali anche un percorso di approfondimento: un itinerario di sei incontri tenuti da esperti per coinvolgere e informare le comunità parrocchiali sui temi delle migrazioni e sulla pastorale dell’accoglienza.

I contenuti dell’itinerario, le modalità ed il numero degli incontri potranno essere concordati, rivisti e riadattati in base alle esigenze delle comunità.

Contatti
Per avviare i percorsi nelle parrocchie:
Caritas diocesana di Roma
Segreteria di Direzione
Tel. 06.69886424 – E-mail: direzione@caritasroma.it

Ufficio Catechistico
Segreteria
Tel. 06.69886301

Ufficio Migrantes
Segreteria
Tel. 06.69886558

1° Incontro Ero straniero e mi avete ospitato: accoglienza identità della Chiesa.
Se Carità è sinonimo di Chiesa, l’immigrazione, l’accoglienza dell’ultimo, possono essere un’opportunità per fare Chiesa? In questo incontro si vuole riflettere insieme sul significato di accogliere, di aprire le nostre comunità all’altro, al più debole, non solo come segno di fratellanza ma anche come opportunità di sperimentare il Vangelo nella propria vita, di fare comunione.

2° Incontro Dall’altra parte del mare: perché si migra nel mondo.
Non possiamo parlare di immigrazione senza parlare di conflitti ma anche di missionarietà, di educazione alla pace e di mondialità. In questo incontro verranno affrontati i temi delle migrazioni nel mondo, delle cause delle migrazioni, delle rotte utilizzate, dei contesti sociali e politici dai quali provengono gli immigrati che arrivano in Italia ed in Europa, ma anche della solidarietà internazionale, delle prospettive e del cambiamento generato dalle migrazioni.
Seguirà la testimonianza di un rifugiato accolto in Italia.

3° Incontro Essere straniero oggi in Italia.
Si parte da una considerazione: l’essere straniero è una condizione, almeno all’inizio, sfavorevole. Quali sono gli atteggiamenti che quotidianamente abbiamo nei confronti degli stranieri e quali i loro vissuti. Quali pregiudizi e stereotipi, legati alle diverse culture e religioni viviamo reciprocamente e quale futuro possiamo pensare per il nostro Paese e la nostra Città. Seguirà la testimonianza di un migrante e/o l’incontro con il rappresentante di una altra confessione religiosa.

4° Incontro Testimonianze di vita e di fede.
Nell’urgenza di offrire ai migranti il sostegno e l’aiuto di cui oggettivamente hanno bisogno, a volte rischiamo di mettere tra parentesi la ricchezza di fede e di cultura, le tradizioni di vita di cui sono portatori. Si propone quindi un incontro/testimonianza con uno o più migranti cattolici, laici, religiosi o sacerdoti, che ci parleranno della propria esperienza di fede, di come vive la Chiesa e come è incarnato il Vangelo nei propri Paesi di origine, spesso in contesti di guerra, di povertà, a volte anche di mancanza di libertà religiosa e di persecuzione.

5° Incontro L’Islam in mezzo a noi
La maggior parte dei migranti nella città di Roma è di religione cristiana, ma i nuovi richiedenti protezione internazionale sono spesso di religione islamica. Che cosa è importante sapere delle loro tradizioni religiose per poter comunicare e dialogare in modo costruttivo e il più possibile senza fraintendimenti? Come le persone di fede islamica sono abituate a rapportarsi con i cristiani nei loro Paesi di origine? E’ garantita la libertà religiosa? Cosa pensano di noi? Questo incontro vuole offrire strumenti che facilitino la convivenza e sostengano, in modo più consapevole, il “dialogo della vita” a cui siamo chiamati dal contesto storico attuale.

6° Incontro Andata e ritorno: leggi vecchi e nuove sull’immigrazione in Italia.
L’Italia ha intrapreso da tempo un percorso legislativo nella gestione delle migrazioni che prosegue, seppure con difficoltà e disomogeneità. Superati i proclami politici e le ideologie, riflettiamo in questo incontro sulle politiche migratorie in Italia, sulla sua legislazione, sulle prospettive di evoluzione o di involuzione.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:17 pm | | Default
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Respirare, camminando nel Parco dell’Uccellina. Due itinerari a piedi. Appunti di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Per ulteriori itinerari, cfr. la sezione I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

1/ Percorso Delle Torri

Il percorso detto delle Torri, permette di respirare, camminando nel creato, a 2 ore di macchina da Roma. Il percorso prevede un itinerario di 7 km circa che si percorre in 3 ore. Il biglietto di accesso al Parco si acquista presso il Centro Visite di Alberese a 10 euro (Anno 2015; ridotto di euro 5 per ragazzi dai 6 ai 14 anni, over 65, gruppi con 20 paganti minimo).

Dal Centro un bus-navetta - compreso nel prezzo e con orari variabili a seconda delle stagioni - porta fino alla località Pratini dalla quale poi si prosegue a piedi (sotto le 20 persone non è necessaria una prenotazione, mentre al di sopra di tale numero si è tenuti a percorrere l’itinerario con una guida del Parco stesso; in estate la guida è obbligatoria; si consiglia sempre di telefonare al Centro per avere informazioni, prima di giungere ad Albarese, per conoscere orari e condizioni poiché esse variano di stagione in stagione).

Si cammina per un primo tratto di strada asfaltata per deviare poi a destra su sentiero, in una natura magnifica. Si giunge alla Torre di Castelmarino (la sua forma attuale è del XII secolo) che ha un panorama straordinario sulla pineta sottostante a livello del mare. Dopo un breve tratto all’indietro si riprende il sentiero che conduce fino alla spiaggia, costeggiando da un tratto in poi il canale che sfocia nel mare. Dalla spiaggia si risale a fianco del promontorio di Collelungo e si sale all'omonima Torre (la sua forma attuale con la fortificazione a scarpa è del XVI sec.). Dalla Torre di Collelungo si riscende per sentiero alla strada asfaltata da cui si ritorna in località Pratini per riprendere il bus-navetta.

Consiglio l’itinerario senza riserve a chiunque sia in grado di camminare per 3 ore consecutive. Si respira nel silenzio e in mezzo ad una natura semplice, ma incontaminata.

Il percorso ha anche un interesse storico perché permette di divenire consapevoli del sistema di torri difensive che cercò di proteggere le coste toscane – similmente avvenne per gran parte delle coste della penisola italiana – in un primo tempo contro gli attacchi dei musulmani arabi nell’alto medioevo. Solo per fornire un esempio del pericolo, basta ricordare che Roselle – la cui sede episcopale venne trasferita poi a Grosseto – venne distrutta dai saraceni nell’anno 935. Gli Aldobrandeschi, che governavano allora la città, si ritirarono allora nell’interno e costruirono con i sopravvissuti la città di Sovana, perché era troppo rischioso risiedere sulla costa.

Le torri vennero poi totalmente ristrutturate a partire dal XVI secolo per gli attacchi dei turchi musulmani che per un secolo esercitarono costanti attacchi. Nella seconda metà del '500 il duca Cosimo de’ Medici ristrutturò le Torri di Castelmarino, Collelungo, Cala di Forno su opere "già fatte dagli antichi per scoperta e sicurezza di quei mari e di quel paese". Nello stesso periodo tutte le altre torri fuori del territorio granducale furono restituite alla loro funzione difensiva e di avvistamento, mentre altre vennero costruite ex novo in modo da formare un sistema difensivo ininterrotto che si estendeva lungo tutta la costa della penisola.

2/ Percorso Sulle orme dei monaci benedettini, con l’Abbazia di San Rabano e Torre Uccellina

L’itinerario è di 9,5 Km circa, con una durata di 5 ore circa, più impegnativo del precedente. La partenza è sempre dal Centro Visite di Alberese con il bus-navetta che porta in località Pratini da dove si prosegue a piedi.

Il sentiero sale sui Monti dell'Uccellina, raggiungendo, in un’ampia radura tra alte piante di leccio, l’abbazia benedettina abbandonata di San Rabano. A pochi metri vi è Torre Uccellina(XIV sec.). Il complesso è situato ad una altezza di circa 320 m. s.l.m., in una sella tra poggio Uccellina (347 m. s.l.m.) e poggio Lecci (417 m. s.l.m.)

Il complesso abbaziale di San Rabano è indicato al tempo della fondazione dell’attuale complesso, avvenuta nei primi del secolo XII, come Monasterium Arborense o Monasterium de Arboresio o Alberese.

L'etimologia, la stessa da cui deriva il toponimo alberese, riferisce o alla parola arbor, albero, o ad albarium, per la pietra biancastra dei monti dell'Uccellina. L’abbazia è nota nelle fonti anche come Sancta Maria de Arboresio e Domus et loci ordinis Sancti Benedecti de Arboresio. Taluni ritengono che il nome sia passato all’abbazia da un più antico romitorio sorto nelle vicinanze.

L’indicazione “di San Rabano” sarebbe nata come deformazione del nome Sancti Rafani Praeceptor, titolo con il quale viene indicato il costruttore della chiesa di Albarese terminata nel 1587. In questo modo la dedicazione ad un santo che portava tale nome potrebbe avere fondamento.

Il complesso dell’abbazia sorse all’inizio nell'XI secolo come insediamento benedettino, ma raggiunse il pieno sviluppo nel successivo ad opera dei cistercensi. Il primo documento relativo all'abbazia che si conosce è datato al 1101: è una risoluzione riguardante il contenzioso tra il vescovo di Roselle e l'abbazia per quanto riguarda la riscossione di decime.

Papa Innocenzo II trasferì all'abate il controllo di tutti i monasteri cistercensi fino al confine laziale. Seguì alla fioritura un periodo di declino al punto che nel 1303 papa Bonifacio VIII incaricò il priorato pisano dei cavalieri di Gerusalemme di "vigilare, custodire, difendere, amministrare le terre e il monastero di Alberese".

Nel 1336 l’abbazia viene indicata come “fortilizio”, indicando cambiamenti nell’utilizzo del sito. Nel XIV secolo il dominio del fortilizio fu causa di discordie fra Siena e Pisa e nel 1438 Siena, ormai padrona assoluta della zona, fece smantellare l'abbazia trasferendo nel 1475 la sede del priorato nelle nuove strutture di Alberese.

Il complesso architettonico è composto da una chiesa, dal relativo monastero e da una torre d'avvistamento detta "dell'Uccellina". A motivo dell’utilizzo nella costruzione di materiale di recupero, la struttura sembra basarsi su costruzione pre-esistenti.

Il tiburio ottagono della cupola è da alcuni indicato come bizantino ma sembra invece rapportabile alla cultura del romanico lombardo. L'arco del portale e della finestra absidale sono secondo alcuni alto medievali e secondo altri più tardi.

Il rimando a San Rabano (anche se la dedicazione non fosse suffragata dalle fonti antiche) invita a ricordare che Rabano Mauro fu abate di Fulda (780 ca. - 856) e che fu uno dei protagonisti della cultura carolingia. Nato a Magonza in Franconia, studiò come oblato (consacrato)nella celebre scuola del monastero benedettino di Fulda, fondata nel 744 da san Bonifacio Winfrid (680-755).

Da lì si spostò a Tours in Francia, per proseguire la sua formazione alla Schola Palatina fondata da Carlo Magno e guidata dal grande teologo e filosofo, il beato Alcuino (735-804), il quale poi gli impose il soprannome di Mauro (dal discepolo di san Benedetto)

Dopo il periodo trascorso in Francia, ritornò a Fulda, dove venne ordinato sacerdote nell’814 e dall’817 divenne direttore della Scuola, per divenire poi nell’822 abate del grande monastero che governò per 20 anni. Rabano Mauro fu il più grande dotto del suo tempo, trasmise alla sua epoca tutto il sapere teologico dei Padri della Chiesa e insieme ad Alcuino, contribuì sostanzialmente alla vita spirituale dell’età carolingia, meritando il titolo di “Precettore della Germania”

Spiegò e commentò molti libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ma la sua opera più importante fu il “De Universo”, un compendio enciclopedico in 22 libri di tutto il sapere del suo tempo; compilò anche un ‘Martirologio’, elenco dei santi venerati con note della loro vita o del martirio. Gli viene attribuito dalla tradizione il celebre inno Veni Creator Spiritus.

Come abate di Fulda e come arcivescovo di Magonza, alla cui sede episcopale venne infine eletto, espletò con sollecitudine un’attività pastorale intensa, anche con la convocazione di Sinodi e la costruzione di chiese. Morì il 4 febbraio 856 a Magonza e le sue reliquie vennero deposte nel monastero di Sant’Albano e poi risistemate in luogo visibile al culto, dal suo successore Albrect di Brandenburgo. 

Le reliquie vennero distrutte nel corso della Riforma Protestante. Dante lo ricorda tra gli spiriti sapienti del cielo del Sole (Paradiso, XII, 139). La sua ricorrenza liturgica è il 4 febbraio.

3/ Ulteriori itinerari nel Parco dell’Uccellina

Il Parco presenta ulteriori itinerari, alcuni dei quali percorribili anche in bicicletta e attrezzati per persone con disabilità.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:16 pm | | Default

Punti estremi dell’invasione arabo-musulmana nel primo millennio: l’odierna Saint Tropez ed il passo del Gran San Bernardo 1/ Fraxinetum Saracenorum, di Carlo Carosi 2/ Maiòlo, santo

1/ Fraxinetum Saracenorum, di Carlo Carosi

Riprendiamo dal sito http://www.cfinot.eu/stropez/ uno studio di Carlo Carosi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulle invasioni arabo-musulmane nel I millennio, vedi la sotto-sezione Alto medioevo nella sezione Storia e filosofia, in particolare Gli arabi nel Lazio nei secoli IX e X, di Giuseppe Cossuto e Daniele Mascitelli e Andalusia: dal mito alla storia. Appunti per un accostamento realistico a al-Andalus, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

L'odierno Fort Freinet sopra Saint Tropez, un tempo testa 
di ponte dell'invasione arabo-musulmana nel I millennio

[…] ecclesiam Sancti Torpetis martiris,
que est sita in comitatu Forojuliense in territorio
quod vocatur Fraxinito, iuxta mare […]
(Cartulaire de l’Abbaye de S.Victor de Marseille, carta n.595 dell’anno 1056)

All’alba d’un giorno d’estate dell’anno 889, la pacifica gente del villaggio che sorgeva all’imboccatura del Sinus Sambracitanus, ove adesso è l’abitato di Saint Tropez, ebbe l’amara sorpresa di avvistare un piccolo convoglio di navi saracene che si stava dirigendo verso terra.

Gettata l’ancora nelle placide acque della baia, un manipolo di musulmani, armati sino ai denti, si apprestava a piombare sulle loro case. In preda al terrore, gli abitanti, radunatisi nella minuscola chiesa, presero le reliquie del Santo patrono, gli arredi sacri, e fuggirono con le fanciulle e i bambini verso le vicine montagne.

I saraceni, dopo avere saccheggiato il villaggio, raggiunsero i borghi sparsi sulle pendici di quei colli e uccisero quasi tutti gli abitanti. Divenuti ben presto padroni dell’intero territorio circostante, i musulmani si stanziarono stabilmente in quelle località che Ibn Hawqal, un mercante di Baghdad gran viaggiatore, a cui dobbiamo interessanti descrizioni della realtà geografica conosciuta nella seconda metà del X secolo, così descriveva:

“Il Ğabal ′al qalâl era deserto da lunga età, ma aveva acque, buone terre, culture e seminati da fornire sussistenza a chi vi riparasse. Capitatavi una man di musulmani, presero ad abitarlo e vi si mantennero a fronte de′ Franchi, i quali, atteso la fortezza del luogo, non poterono nulla contro di essi.”

I Saraceni crearono qui una sorta di ‘testa di ponte’, una comoda base stabile da cui irradiarsi per le scorrerie e in cui raccogliere le prede destinate ai possedimenti di Spagna. Le cronache latine dell’epoca designano il loro insediamento con il nome di Fraxinetum Saracenorum.

Si tratta, con tutta probabilità, del castrum di La Garde Freinet, al limite settentrionale dell’insenatura, posto al colmo di un rilievo roccioso difeso da una densissima spinarum silva che domina le placide acque dell’ampia baia naturale alla cui estremità è ubicato attualmente l’abitato di Saint Tropez. Diedero inizio a sistematiche incursioni nel territorio tra il Rodano e le Alpi e sulle coste provenzali e liguri. Saccheggiarono la Riviera di Ponente, l’ Appennino e l'Oltregiogo padano, e depredarono i territori di Aqui, Alba e dell'alto Tortonese. Raggiunsero poi ai passi alpini, li traversarono, devastando il territorio italico e si spinsero fino alla Svizzera, dove assalirono il monastero di S. Gallo.

Una prima spedizione punitiva operata nell’anno 932 dalla flotta bizantina che incrociava nelle acque della Sardegna e della Corsica, si limitò a distruggere le navi dei Mori alla fonda nell’insenatura prospiciente il Frassineto, senza peraltro attaccare i loro covi in terraferma.

Deciso a porre fine alle continue scorrerie e alle rapine, il re Ugo di Provenza, dieci anni più tardi, chiamata in aiuto la flotta bizantina sferrò un poderoso attacco costringendo i Saraceni a fuggire sul monte Mauro (omnes in Montem Maurum fugere compulit). Era ormai sul punto di annientarli quando ebbe notizia che Berengario, Marchese d’Ivrea, aveva raccolto un esercito e si apprestava a scendere in Italia. Per paura di perdere il regno, interruppe le operazioni militari, licenziò la flotta greca e stipulò un vero e proprio patto di alleanza con i Saraceni perché impedissero il transito alle truppe del rivale attraverso i valichi alpini. Oltre a determinare la ripresa delle incursioni e dei saccheggi, quel patto scellerato fece assumere un nuovo ruolo ai Saraceni nei confronti delle forze politiche dell’occidente europeo.

Grazie al consenso dei feudatari cristiani, accecati dalla sete di potere e dalle reciproche gelosie, essi si attestano sui valichi alpini e di là controllano il passaggio dei pellegrini ed impongono i loro balzelli. Da allora nessuno poteva transitare per andare a Roma a pregare sulle tombe dei beatissimi apostoli, senza che fosse preso dai Mori o lasciato libero col pagamento di un forte riscatto.

Il cronista Frodoardo, vissuto nella prima metà del secolo X, in più passi dei suoi Annales Rhemenses ricorda la presenza dei Saraceni sulle Alpi. Una presenza che, col passare degli anni, secondo le parole del cronista, non sembra più dedita a depredare e massacrare i malcapitati, ma piuttosto a riscuotere dai pellegrini una sorta di pedaggio (a viatoribus Romam petentibus tributum accipiunt, et sic eos transire permittunt).

Il segnale per la “crociata” che avrebbe portato alla distruzione del covo di Frassineto fu determinato dalla cattura di S.Maiolo, abate di Cluny, al passo del Gran S.Bernardo, mentre faceva ritorno alla sua abbazia, nell’anno 972. Caduto in un’imboscata tesagli dai Saraceni in prossimità del ponte di Orcières, l’abate era stato ferito e condotto prigioniero fra le gole alpine. Dopo un mese di prigionia, con grande sollievo per l’intera cristianità, era stato liberato dietro pagamento del favoloso riscatto di mille libbre d’argento. Rodolfo il Glabro racconta l’episodio con dovizia di particolari:

“Avvenne allora che il beato padre Maiolo, di ritorno dall’Italia, incontrasse questi Saraceni in una stretta gola delle Alpi. Essi lo catturarono e lo trascinarono via con tutto il suo seguito in una zona impervia (ad remotiora montis); per giunta il Padre aveva una seria ferita a una mano per avere con questa fermato volontariamente un colpo di lancia diretto ad uno dei suoi. Dopo essersi spartiti tutti i suoi averi, gli chiesero se in patria disponeva di ricchezze sufficienti per procurare a sé e ai suoi il riscatto della prigionia. L’uomo di Dio, che con tuto il suo prestigio era persona di grande affabilità (erat totius affabilitatis), rispose che lui non aveva nulla di suo a questo mondo, e non intendeva divenire proprietario di beni materiali; ma non negò che sotto di lui vi fossero parecchie persone che risultavano in possesso di vaste proprietà e di molte ricchezze (amplorum fundorum et pecuniarum domini). Gli ingiunsero allora di mandare uno dei suoi compagni a ritirare il denaro per il suo riscatto; e ne stabilirono l’ammontare, precisandone il peso e la quantità: mille libre d’argento, di modo che a ciascuno di loro sarebbe toccata nella divisione una libbra.” (Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, a cura di G.Cavallo e G.Orlandi, Milano, 1999, p.25).

L’affronto subito dall’abate Maiolo suscitò un vasto movimento di sdegno e indusse i principi cristiani ad intraprendere, fra il 975 e il 980, una campagna d’armi condotta dal conte Guglielmo d’Arles collegato con tutta la nobiltà di Provenza e di Liguria. L’ultimo a cadere fu l’oppidum di La Garde Freinet, ma non già in seguito ad uno scontro armato fra gli opposti schieramenti, ma ad opera di un inganno. La Cronaca di Novalesa narra con dovizia di particolari il singolare episodio, accaduto al tempo in cui gli uomini del conte Rotbaldo e di Arduino il Glabro assediavano i Mori del Frassineto.

“Nel tempo in cui i predoni stavano al Frassineto e si spingevano ovunque a portar saccheggi e razzie era con loro un tale di nome Aimone. Costui una volta uscì con gli altri per devastare i campi, per rubare tesori, cavalli, bovini ed altre cose, e per rapire giovani donne e fanciulli. Avvenne che nella distribuzione del bottino era toccata in sorte ad Aimone una bellissima fanciulla. Ma, sorta per essa una contestazione con altri pretendenti, sopravvenne uno dei capi saraceni che gli tolse la fanciulla; egli umiliato restò escluso. Volendo Dio finalmente liberare il popolo cristiano, si fissò talmente nel cuore di Aimone, sì da indurlo a tradire quel luogo e gli uomini in esso dimoranti. Si portò difatti Aimone presso il conte Rotbaldo al quale disse: ‘Ecco, vi metto nelle mani i vostri nemici, solo capaci di nequizie’. Rotbaldo meravigliato gli rispose che, se ciò avesse fatto, lo avrebbe ricompensato. Ordinò a tutti i suoi guerrieri e ad Arduino di mettersi a disposizione del Saracino per aiutarlo in una certa impresa. Tutti accorsero e seguirono Aimone.”

Fu così che, a causa di una donna e per il tradimento di Aimone, che aprì le porte della rocca, le forze degli assedianti poterono irrompere sui Saraceni facendo strage dei difensori. Tornata la vita alla normalità, il ricordo dei Saraceni e delle loro gesta passò alla leggenda, per tramandare racconti di rapine, di gente inerme terrorizzata, di accordi segreti con i fomentatori di disordini e di guerre civili, di unioni scellerate con bande di briganti e grassatori. La costa dell’alto Tirreno ed i paesi del suo interno furono liberati dall’incubo delle devastazioni. Molti di quegli abitanti che avevano cercato rifugio dalle scorrerie nelle gole nascoste o sui picchi impervi dei rilievi montuosi, ridiscesero verso la costa e le vallate e nei borghi abbandonati la vita riprese faticosamente il suo corso.

Gli abitanti di Saint Tropez, in particolare, riconsacrata la loro chiesa, vi ricollocarono le reliquie di San Torpete, martire al tempo di Nerone, del quale ci è giunta una Passio, composta nel VI o all'inizio del VII secolo. Gli Atti del martirio di S. Torpete, ad opera dei Bollandisti, che attestano la devozione per il santo pisano già dal IX secolo, e il Martirologio Romano, che contiene l’Elogio del santo martire, costituiscono le uniche scarse fonti sulla figura di Torpete. Il Santo, giunto a Pisa al seguito dell'imperatore, incarcerato per la sua fede, fu sottoposto a numerose torture, dalle quali uscì indenne, finché non venne decapitato nell’anno 68.

Passio Sancti Torpetis, in Acta Sanctorum, Maii, IV, […] Hoc vobis praeceptum ut in Gradu ad mare ibidem decolletur. Et venerunt in Gradum Arnensem: exierunt ripam fluminis. S. Torpes dixit: “Dominus Deus meus,suscipe spiritum meum”. Nihil aliud dixit, nisi oculos levavit in caelum, et sic decollatus est. Ministri autem invenerunt naviculam modicam foris, quae iam nullam utilitatem facere poterat […] et miserunt in ea corpus Iusti et canem et gallum cum eo: et tam diu ibidem steterunt, dum eam non viderent.

Il corpo del martire fu abbandonato su una barca, alla foce dell’Arno, insieme con un cane ed un gallo che avrebbero dovuto cibarsi del suo cadavere. Spinta dalle correnti, la barca approdò sulle coste provenzali, ove fu eretta una chiesa attorno alla quale sorse borgo che ancor oggi porta il suo nome. Il culto di San Torpete fu importato a Genova dai mercanti pisani che eressero in suo onore una chiesa nella piazza del mercato, non lontana dalla loggia che i Pisani possedevano nell’area curiale dei Della Volta. La chiesa primitiva , distrutta dal bombardamento francese del 1684, risaliva almeno al XII secolo, e di essa è traccia anche negli atti dei notai genovesi. Divenne quindi chiesa gentilizia della nobile famiglia dei Cattaneo, alla quale è tuttora affidato il giuspatronato. Nel 1290 sulla facciata di questa chiesa, furono esposti alcuni anelli della catena del porto pisano, portati a Genova come trofeo dalla flotta di Corrado Doria che aveva forzato il porto della città rivale. L’erudito Luigi Tomaso Belgrano ricorda con orgoglio i forti legami esistenti con la comunità genovese:

Nell'anno 1470 Giovanni Cossa, luogotenente generale del re Renato in Provenza, concedette in feudo a Raffaello da Garessio la signoria del luogo di Saint-Tropez, allora deserto; ed il Garessio vi condusse dalla riviera ligustica ben sessanta famiglie, le quali edificaronvi il presente borgo ed una nuova chiesa in onore di quel santo. L'origine adunque della moderna città di Saint-Tropez è cosa nostra; ed i suoi abitatori, con nobile compiacenza, ricordano tuttora i vincoli onde sono a noi collegati. Ne è prova la Società delle regate, ivi costituitasi nel 1862; la quale fondandosi appunto su questi legami, chiedeva per mezzo del Maire al nostro Municipio il dono di due stendardi, l'uno divisato ai colori nazionali e l'altro ornato della temuta croce dell'antica Repubblica Genovese, da distribuirsi in premio a coloro che avessero trionfato nelle solenni corse del 18 maggio 1864. Il Municipio assentiva di buon grado alla domanda; e spediva a Saint-Tropez due superbi vessilli, i quali venivano accolti da que' cittadini col più vivo trasporto, in mezzo alle grida di evviva alla Metropoli della Liguria.” (L.T.Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, Genova 1875, p.48, n.3)

2/ Maiòlo, santo

Riprendiamo dal sito della Treccani Enciclopedie on line la voce “Maiòlo, santo”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (9/8/2015)

Maiòlo (fr. Maïeul), santo. - Quarto abate di Cluny (Valensolle o Avignone 910 circa - Souvigny 994). Fuggito giovinetto con il fratello dalla Provenza a causa delle lotte feudali in cui furono uccisi entrambi i genitori e tutti i loro beni andarono persi durante le incursioni saracene, divenuto monaco guidò l’abbazia di Cluny dal 954 alla morte. Diffuse grandemente la riforma cluniacense in Occidente. Nel 972 la sua cattura da parte dei Saraceni provocò una mobilitazione generale della nobiltà provenzale che, nella battaglia di Tourtor, sconfisse gli infedeli e liberò la regione della loro presenza. Maiolo mise pace nelle liti tra l’imperatrice Adelaide e il figlio, l’imperatore Ottone II che nel 983, alla morte di papa Benedetto VII, gli offrì la tiara papale che M. rifiutò. Morì nel 994 in viaggio verso Parigi, a Souvigny, chiamato da Ugo Capeto per riformare l’abbazia di Saint Denis. Prima di morire fece eleggere il futuro sant’Odilone alla guida di Cluny, il quale chiederà poi di essere seppellito accanto al suo padre e maestro. Nel 1063 San Pier Damiani consacrerà la chiesa iniziata da Odilone e dedicata a Maiolo. Festa nel Martirologio Romano, 11 maggio.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:15 pm | | Default

Il dramma dei padri separati. Poveri e soli, di Luciano Moia

Riprendiamo da Avvenire del 13/10/2015 un articolo di Luciano Moia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Ogni anno in Italia circa 360mila persone vengono travolte dal dramma della separazione (50mila divorzi e 90 separazioni). A questo numero si devono aggiungere i cosiddetti orfani di padre vivo, cioè i minori che vivono sulla propria pelle le sconfitte – e spesso le incomprensioni e gli egoismi – degli adulti. Quanti sono? Forse più di un milione – ma non esistono statistiche aggiornate – considerando separazioni e divorzi nell’ultimo decennio. Vuol dire che negli ultimi dieci anni gli abitanti di una città ideale più grande di Roma hanno sopportato le sofferenze derivanti da una delle più brucianti delusioni che si possano vivere, la disgregazione della propria famiglia. Numeri imponenti che avrebbero dovuto suggerire interventi e politiche mirate. Invece, come ben sanno i separati, non si è fatto quasi nulla, se non rendere più agevole e più rapido lo scioglimento dei matrimoni.

Mentre da tempo la Chiesa – come emerge con chiarezza anche dal Sinodo in corso – riflette sulle modalità più opportune per risultare più accogliente nei confronti delle persone separate e divorziate, per le istituzioni pubbliche l’aspetto della prevenzione fa parte evidentemente del politicamente scorretto.

Ma qualche segnale di risveglio e di attenzione da parte della società civile e dell’associazionismo per fortuna non manca. Lo dimostra la prima ricerca realizzata grazie alla collaborazione diretta delle associazioni di separati. L’ha promossa l’Istituto di antropologia per la cultura della persona e della famiglia, in collaborazione con l’Associazione famiglie separate cristiane e il Centro di Ateneo ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano.

Il dossier, concluso prima dell’estate, è condensato adesso in un libro che affianca ai dati del sondaggio, dieci interviste a madri e padri separati. I risultati della ricerca permettono di offrire uno spaccato inedito del pianeta separazione. Tra i tanti spunti viene confermato, per esempio, che la separazione è sempre e comunque l’anticamera della precarietà e spesso di una povertà autentica, che apre la strada a una vita comunque più difficile, che porta a un isolamento crescente, che conduce a una situazione esistenziale più fragile. Dalla ricerca emerge una realtà filmata in presa diretta, con tutto il peso di situazioni quasi insostenibili, all’interno di una cornice in cui parlare di emergenza sembra quasi un eufemismo.

Difficile descrivere in modo diverso, tra tanti altri dati, la situazione di autentica povertà in cui versano i padri separati. Un terzo di loro (30,6%), pagato l’assegno di mantenimento, dichiara di poter contare su un reddito residuo mensile che va dai 300 al 700 euro. Il 17% dai 100 ai 300 euro al giorno per sprofondare in una sopravvivenza da clochard, se non ci fossero le reti Caritas e degli altri enti assistenziali per soddisfare, almeno in parte, i bisogni più immediati.

Ma confermato, pur con cifre che nessuno immaginava così drammatiche, l’assioma separazione-povertà, la ricerca – a cui hanno collaborato circa 30 associazioni di separati – presenta anche sorprendenti smentite. Non è affatto vero per esempio che la convivenza di prova sia una garanzia per la durata della relazione, secondo una certa interpretazione di etica libertaria che punta il dito contro il vincolo matrimoniale come laccio che imprigiona e spegne la fantasia. Anzi, tra coloro che si separano il 14,6% di coppie ha alle spalle una convivenza. Tra costoro la rottura della relazione avviene dopo quattro anni. C’è poi un 12,6% che arriva da un matrimonio civile. In questo caso la separazione si verifica dopo sette anni. Si registrano addirittura separazioni (2,4%) tra i cosiddetti “Lat” (living apart togheter), coloro cioè che convivono e spesso hanno figli, pur abitando in case diverse.

Il maggior numero di separazioni (70,4) viene segnalato dopo un matrimonio religioso, ma il dato va letto in relazione al numero assoluto di nozze all’altare che – almeno fino a un decennio fa – rappresentava la schiacciante maggioranza del totale. In ogni caso i matrimoni religiosi sono quelli di maggiore durata. Chi si separa, lo fa in media solo dopo nove anni. Dati che devono comunque far riflettere sull’assenza di interventi legislativi mirati. Per esempio la mediazione familiare, finalizzata non tanto ad assestare il colpo di grazia al rapporto coniugale in tempi quanto più rapidi possibile, ma a verificare invece le possibilità di ricostruirlo. La ricerca conferma tra l’altro che non esistono tentativi di conciliazione da parte del giudice. La durata media delle udienze? Quindici minuti, ad indicare, come sottolineato dalla maggior parte degli intervistati, che quando si arriva in tribunale “i giochi sono già fatti”.

Per quanto riguarda il rapporto con i figli le esperienze di padri e di madri sono diametralmente opposte. Mentre il 72,7% delle donne separate vede tutti i giorni i propri figli, questa possibilità è riservata solo al 9.2% degli uomini. C’è un 14,2% di padri che racconta di riuscirci solo “più volte al mese” e addirittura un 13,9% che ammette con sconforto che “non ho mai visto i miei figli nell’ultimo anno”. Punto culminante di una povertà relazionale che rende la vita dei padri separati decisamente peggiore rispetto a quella delle donne. Evidente come, in questo vuoto di rapporti, l’appartenenza associativa sia spesso l’unico approdo per tanti padri separati, che nella condivisione delle esperienze, cercano soprattutto risposte di tipo informativo, mentre le madri chiedono di socializzare e di scambiare esperienze, anche di fede.

La “militanza” risulta in ogni caso cruciale per tutti gli intervistati. Capacità di mediazione, accoglienza e mutuo-aiuto sono elementi che, conclude la ricerca, «permettono di affinare la consapevolezza di sé e di sviluppare un atteggiamento di fiducia e di speranza nella realtà sociale e nei propri scopi di vita». Almeno per quella sempre più esigua percentuale di padri separati che riesce a tirare avanti fino alla fine del mese.

I tanti eventi dolorosi nei nuclei che si disgregano

Il legame tra separazioni e forme di povertà. È lo studio realizzato dalla Caritas che ha coinvolto la rete dei servizi della stessa Caritas e quella dei consultori familiari di ispirazione cristiana. «Dalla voce degli operatori intervistati e da quelle dei genitori separati si evidenziano almeno tre aree di vulnerabilità su cui è bene porre attenzione», scrive il direttore di Caritas italiana, don Francesco Soddu, nell’introduzione al volume che sintetizza la ricerca (Povertà e vulnerabilità dei genitori separati. Bisogni intercettati ed espressi nel circuito ecclesiale, Edb, pp. 128). Ecco le aree a rischio: «Difficoltà relative all’ambito materiale (il problema casa, l’accesso ai beni di prima necessità, le difficoltà nel far fronte alle spese quotidiane); difficoltà relative all’area psicologica e relazionale (aumento dei disturbi psicosomatici, senso di solitudine, depressione); difficoltà che riguardano la sfera della genitorialità (dopo la separazione, il rapporto con i propri figli può cambiare e anche subire un peggioramento)». Il 55% di coloro che si sono rivolti alla rete Caritas per chiedere aiuto sono uomini. Mentre nei consultori familiari sono prevalenti le donne (68,9%). L’età va dai 35 ai 54 anni. Tra le motivazioni la povertà (44,8%), il disagio abitativo (30,9), la richiesta di ascolto (27) e di assistenza psicologica (25,3).

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:14 pm | | Default

Russia. Fra Athos e Gerusalemme, di Andrej Desnickij

Riprendiamo da Avvenire del 13/10/2015 un testo di Andrej Desnickij. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Chiese ortodosse nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Il convegno La libertà e il totalitarismo
Il prossimo convegno internazionale della Fondazione Russia Cristiana si tiene giovedì 15 e venerdì 16 ottobre sul tema «L’io, la sua libertà e il potere. La persona e i totalitarismi». Giovedì, presso la scuola 'La traccia' di Calcinate (Bg), si apre con lo spettacolo «Il poeta, la libertà e il potere: Osip Mandel’štam» realizzato dal gruppo 'Scena sintetica'. Il giorno dopo il convegno entra nel vivo, all’Università Cattolica di Milano, con studiosi e testimoni russi, ucraini, italiani e francesi, come lo slavista Georges Nivat, la studiosa della poesia russa Svetlana Mart’janova, lo slavista Adriano Dell’Asta e il biblista russo Andrej S. Desnickij, del quale anticipiamo parte dell’intervento. Desnickij è nato a Mosca nel 1968. Laureato in filologia, si dedica alla traduzione scritturistica specializzandosi all’Università di Amsterdam e dal 1994 lavora all’Accademia delle Scienze russa. Dal 1999 lavora anche all’Istituto di traduzione biblica, dove coordina il lavoro di traduzione dei testi scritturistici nelle diverse lingue dell’ex Urss. È direttore scientifico dell’Istituto di Orientalistica dell’Accademia delle Scienze russa.

Mosca. Una fedele ortodossa accende una candela
nella chiesa di San Tommaso, nella parte sud della capitale

Russia. Fra Athos e Gerusalemme, di Andrej Desnickij

Mi sono battezzato nella Chiesa ortodossa russa quasi trent’anni fa, nella primavera del 1986, solo un paio d’anni prima che in Urss diventasse possibile e di moda andare in chiesa. Oggi, a distanza di trent’anni, molti di quelli che erano giunti alla Chiesa ancor prima della caduta del regime sovietico oppure all’inizio degli anni ’90, provano un senso di delusione. L’ortodossia, come ogni altra tradizione cristiana, ha visto epoche diverse, e le tentazioni del potere, della ricchezza e del successo sono forti. Non esiste sulla terra una comunità a cui nel corso dei secoli non si sia appiccicato qualcosa di superfluo, e la Chiesa non fa eccezione.

In venticinque anni di “rinascita religiosa”, come si chiamava nel nostro paese il processo, iniziato da Gorbaciov, di riabilitazione della Chiesa e di sua liberazione dal rigido controllo dello Stato, ci siamo fatti prendere troppo dalle forme esteriori. Abbiamo costruito mura di mattoni, mentre bisognava creare delle istituzioni. Abbiamo incitato la pietà popolare, mentre bisognava occuparsi di educazione. Abbiamo ripubblicato vecchi libri, mentre bisognava rispondere alle nuove sfide del tempo. Abbiamo cercato di convincere lo Stato di quanto gli fossimo utili e necessari, mentre occorreva aprire un dialogo con la società. Abbiamo conquistato un potere, mentre avremmo dovuto preoccuparci di conquistare la fiducia. Volevamo radunare tesori sulla terra e ne abbiamo radunati parecchi.

Ma perché è successo così, e che cosa dobbiamo fare per uscire dal circolo vizioso? Di questo si potrebbe discutere all’infinito, e tutte le spiegazioni saranno sempre approssimative. Voglio qui riportare una lunga citazione tratta da una conversazione di padre Aleksandr Šmeman a Radio Liberty sulla cultura russa: «L’antica Rus’ non ha dovuto vivere un lungo, complesso e sovente doloroso processo di conciliazione fra cultura e cristianesimo, di cristianizzazione dell’ellenismo e di ellenizzazione del cristianesimo - un processo che contraddistingue cinque-sei secoli di storia bizantina. Essa non aveva praticamente ancora alcuna storia. Ma questo significa che il cristianesimo bizantino fu recepito dalla Rus’ contemporaneamente sia come fede, sia anche come cultura, e che in questo modo il massimalismo tipico della fede cristiana divenne praticamente anche una delle basi fondamentali della nostra cultura. Convertendosi al cristianesimo bizantino, la Rus’ non si interessò né di Platone, né di Aristotele, né di tutta la tradizione dell’ellenismo, che per la Bisanzio cristiana restavano una realtà viva e vitale. L’antica Rus’ non degnò la 'cultura' bizantina di una briciola di attenzione, di interesse, non vi mise per nulla l’anima. Gli storici sottolineano che, nonostante i numerosi legami ecclesiastici e politici con Costantinopoli, la Rus’ si protendeva con tutta l’anima non verso di essa, ma verso Gerusalemme e l’Athos.Verso Gerusalemme, in quanto luogo della storia reale di Cristo, della Sua spoliazione e passione, e verso l’Athos, la montagna monastica, in quanto luogo della reale ascesi cristiana. Più di tutte le sottigliezze del dogma bizantino e di tutta la magnificenza del mondo della cultura cristiana di Bisanzio, l’autocoscienza della Rus’ era colpita dalla figura del Cristo evangelico, crocifisso e umiliato, come pure dalla figura del monaco austero, dell’asceta. Il cristianesimo russo iniziò sorprendentemente senza scuola e senza una tradizione scolastica, e la cultura russa si trovò da subito concentrata sul tempio e sulla liturgia... Per questo ogni tipo di creatività, ogni ricerca, ogni cambiamento veniva percepito come una rivolta, quasi come una bestemmia e un gesto anarchico, e in tal modo l’essenza della cultura, come continuità creativa, non si è realizzata».

Naturalmente, qui padre Aleksandr fa delle grosse generalizzazioni. Bisogna anche aggiungere che il superamento di questa scissione tra fede e cultura è stato uno dei temi fondamentali della letteratura classica russa e in particolare della filosofia religiosa, che erano riuscite a fare molto, anche se purtroppo questo non è bastato a scongiurare la catastrofe del 1917. Anche noi, giungendo alla Chiesa negli anni ’80 e nei primi ’90, tendevamo appunto a questa sintesi, intuendo che la cultura russa classica era custodita dalla Chiesa, più che dal partito, e che questa cultura era per sua natura cristiana, anche quando i suoi portatori non avevano alcun legame con la vita ecclesiale.

Ma padre Aleksandr, mi sembra, ha delineato con grande esattezza il problema fondamentale e ha fornito la diagnosi basilare, che si ripresenta in varie forme nelle diverse generazioni, anche se questa diagnosi ha bisogno di puntualizzazioni e precisazioni in vari aspetti.

In Dostoevskij c’è una frase più volte citata (anche dallo stesso padre Aleksandr in questa stessa conversazione): «Mostrate a uno studente russo una carta del firmamento, della quale prima egli non abbia avuto alcuna idea, e il giorno dopo ve la renderà corretta». Pochi però prestano attenzione a questo fatto: e cioè che non si tratta del parere dello scrittore, ma di una descrizione denigratoria degli scolari russi offerta da uno straniero, e che viene riferita da Aleša Karamazov.

Ed ecco la conclusione tratta da queste parole, nell’opera di Dostoevskij, dallo studente russo Kolja: «Eh, ma questo è proprio vero! - e Kolja, a un tratto, scoppiò in una bella risata. - Verissimo, è proprio così! E bravo il tedesco! Però quel testone non ha osservato il lato buono, non vi sembra? Presuntuosi, va bene! Ma questo deriva dall’età, questo è un difetto che si può correggere, se sarà necessario correggerlo; però in compenso noi abbiamo anche un grande spirito indipendente, quasi fin dall’infanzia, e non quel loro spirito servile da bottegai davanti a qualunque autorità riconosciuta».

È un dialogo molto russo: la Russia si guarda nell’Occidente come in uno specchio, sia pure un po’ deformato, che la presenta quindi in una luce caricaturale. Guardandosi in esso, contemporaneamente vede se stessa con gli occhi dell’Occidente e comprende le sue differenze dall’Occidente. È inimmaginabile che al posto del “tedesco” ci sia un “cinese” o un “indiano”. La Russia si percepisce come una parte importantissima dell’Occidente e contemporaneamente come un non-Occidente, ma non è d’accordo di essere “da meno” o “di minor livello'” dell’Occidente. In parole povere: sì, noi viviamo nel medesimo sistema di coordinate del “tedesco”' (di un cinese non si potrebbe dire la stessa cosa), ma viviamo tuttavia a modo nostro.

E dunque, a proposito della carta del firmamento: Šmeman dice che questo è il diretto prosieguo del medesimo fascino per la verità assoluta e definitiva. E gli studenti russi dopo il XX secolo sono ancora i giovani comunisti sovietici. Sono abituati a pensare che ad ogni domanda sostanziale esista solo un’unica risposta giusta, e ogni azione sia vietata oppure obbligatoria per tutti. Purtroppo, liberarsi dalle specificità del pensiero sovietico non è semplice come sostituire falce e martello con una croce ortodossa... E poi, il pensiero sovietico stesso non è forse una delle tante degenerazioni del fascino che i russi provano per l’assoluto?

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:13 pm | | Default

Michel Onfray: «Ateo e di sinistra, dico che la maternità surrogata è un crimine». Un’intervista di Marco Dotti

Riprendiamo dal sito Vita un’intervista di Marco Dotti a Michel Onfray pubblicato il 4/8/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Michel Onfray, photo © Joëlle Dollé

Lo chiamano "diritto" e invocano una legge. Ma dietro le parole, ci sono i corpi di molte, troppe donne ridotte al silenzio e al dolore. La maternità surrogata commerciale è la prova-chiave che svela come dietro la retorica dei diritti si nasconda l'insidia della più mostruosa e cinica delle abiezioni: l'indifferenza. La sinistra italiana tace. Ne parliamo in un'intervista esclusiva con il filosofo francese Michel Onfray

I decisori sono sotto pressione, la parte mondana dell'opinione pubblica, tra un Martini e un corteo, confonde diritto e desiderio, mentre una sinistra ridotta a brand mischia rivendicazione e capriccio, legalismo e pratiche di sfruttamento "legale" del corpo altrui. Grande è la confusione sotto il cielo. Ma sotto il cielo italiano, la confusione è ancora più grande. Qui, il fronte laico si è completamente disimpegnato e, dove non lo ha fatto, ha lasciato il dibattito sulla maternità surrogata nelle mani di semplificazioni che ricordano certi dibattiti da bar sport (con tutto il rispetto per i tanti bar sport sparsi per il Belpaese): i bianchi da un lato e i neri dall'altro. Nel mezzo resta la questione, solo sfiorata da un continuo rimpallo di responsabilità. In Francia, al contrario, qualcosa si muove. Molti laici hanno firmato un appello, #stopsurrogacy, contro la maternità surrogata commerciale. Tra queste firme, ha destato scalpore quella del filosofo Michel Onfray, dichiaratamente anarchico, ateo, edonista. Abbiamo incontrato Onfray, noto ai lettori italiani per i suoi saggi sull'ateismo estremo, l'uso dei piaceri e libri come Il post-anarchismo spiegato a mia nonna (Eleuthera, 2013) o il discusso Trattato di ateologia (Fazi, 2007).

Michel Onfray, la sua firma figura in testa a un appello «per l’immediata sospensione della maternità surrogata». Può spiegare al lettore italiano ciò che la inquieta e che cosa l’ha spinta a firmare e impegnarsi contro la legalizzazione di questa pratica?

Prendiamoci del tempo e prendiamola un po' alla larga. Dunque, in un mondo ideale, potrei anche essere per quella che in Francia chiamiamo «gestation pour autrui» e in Italia chiamate «maternità surrogata». Se vivessimo in questo mondo ideale, degli amici, senza mai farne questione di denaro, potrebbero portare in sé il bambino altrui in una logica contrattuale, ma obbligatoriamente affettiva. Se le cose stessero così, allora non avrei problemi a sottoscrivere questo tipo di maternità. Per una coppia, che sia eterosessuale o omosessuale, una donna legata dal vincolo di amicizia porterebbe alla nascita un bambino e ne diverrebbe la madrina, legandosi alla sua educazione e alla sua formazione. Sarebbe, in questo senso, una maniera di definire un’altra famiglia, di fare altrimenti una famiglia. Ma per fare questo, le parti in gioco in questa avventura dovrebbero conoscersi prima, durante e dopo.

Nella sua prospettiva, anche in una famiglia - chiamiamola così – allargata, un legame affettivo e relazionale dovrebbe essere alla base di questa maternità condivisa...

Esattamente. Affinché questo avvenga, dovrebbe esserci proprio un legame affettivo, sentimentale, fra tutte le persone coinvolte, bambino compreso ovviamente. La madrina civile si impegnerebbe a mantenere un ruolo nella costruzione dell’identità affettiva e spirituale, materiale e concreta del bambino. La parentalità sarebbe quindi aperta, ridefinita, allargata come ha detto lei poco fa. La decostruzione della famiglia tradizionale con una coppia eterosessuale di genitori si volgerebbe quindi a tutto vantaggio di una famiglia dove il sentimento farebbe la legge. In questa configurazione la legge non avrebbe voce in capitolo perché non avrebbe nulla da dire. Come impedire a persone che si amano di dar forma al loro amore, se non contraddicono alcuna legge?

Questo, in un mondo ideale. Ma la realtà è ben diversa... E qui torniamo all'appello #stopsurrogacy. Perché dire no?

Perché la realtà è molto, molto diversa e i progetti di legge sulla maternità surrogata ignorano l’affettività, il sentimento, la costruzione della personalità e della soggettività del bambino a partire dall’ambiente che lo vuole e lo costituisce. In questo senso, la maternità surrogata, di cui Pierre Bergé [l'industriale della moda, compagno di Yves Saint Laurent, ndt] è il «pensatore» si racchiude nella definizione riduttiva di «utero in affitto», come se stessimo parlando della cassiera di un supermercato che «affitta» la sua forza lavoro per un salario! La definizione si muove nella stessa linea di pensiero.

Insomma, forzando un po’ il ragionamento potremmo dire che i modaioli – e la moda, sappiamo, è la dittatura più subdola e sottile – trattano le madri come cassiere dei loro negozi di lusso. Pensano che col denaro si possa comprare o «affittare tutto»… Come in un supermercato globale, chi ha soldi va negli Usa o in una boutique di prima classe, chi non li ha va in Ucraina o in India come si va al discount…

Non c’è modo migliore per trasformare in merce tanto il corpo della donna, quanto la vita del bambino. Senza parlare dello sperma e dell’ovulo dei genitori, assimilati a bulloni e viti di una macchina senz’anima. Ma qui, abbiamo a che fare con il vivente e il vivente non è una merce, non è un prodotto monetizzabile. Dei poveri non vogliamo più nemmeno la forza lavoro, ci bastano le macchine per quello. Allora, che cosa resta ai poveri?

Già, che cosa resta ? Il corpo, forse…

Siccome le macchine hanno preso il monopolio della forza lavoro, ai poveri non resta che diventare essi stessi macchine, affittando o vendendo il proprio corpo, parti di quel corpo o i suoi prodotti derivati. La prostituzione diventa così «locazione di orifizi», la donazione di sangue o di sperma «vendita di sangue o di sperma». Allo stesso modo, la donazione di organi che persone ridotte a questo grado di miseria potrebbero presto vendere (anzi: già lo fanno) diventano oggetto di affari commerciali sempre più su larga scale. In India, la gente già vende reni o cornee, mentre non sono pochi gli Stati dove è in vigore la pena di morte per coloro che commerciano gli organi dei condannati. Anzi, programmano l’esecuzione proprio in tal senso. Pare sia il caso della Cina o, almeno, così si dice.

Tutto è possibile, d’altronde, in un mondo dove tutto è mercificato e dove la sinistra – o il brand che ne rimane – è talmente succube di questa mercificazione da essere totalmente cieca rispetto alla questione della maternità surrogata.

Non è stupefacente il fatto che la destra liberale sia favorevole al fatto che tutto possa essere messo in vendita. Ma che ciò che si presenta come la «sinistra» voglia questo è puramente, semplicemente abietto.

Tanto più abietto, quanto più la questione della maternità surrogata in sé condensa tutti i grandi nodi del nostro tempo: la disparità economica, che diventa disparità biomedica, biopolitica, le nuove - e antiche schiavitù. E la questione di una medicina e di una tecnica che stanno mutando radicalmente e rischiano di travolgere - là dove non l'hanno già fatto - ciò che rimane del mutualismo e delle istituzioni di welfare...

Partiamo dal fatto che questa tecnica medica è estremamente complessa. Di conseguenza è estremamente costosa. La medicina liberale, che permette ai ricchi di comprare tutto ciò che vogliono a prezzi esorbitanti, tra notevoli benefici e guadagni da questo mercato. Sul pianeta, avremo così cliniche per miliardari dove si realizzerà tutto ciò che è tecnicamente fattibile, anche se umanamente mostruoso. Dicono che è un processo inevitabile: chi potrà impedirlo? E come? La medicina che non è dichiaratamente liberale non avrà i mezzi per esistere su questo mercato. Non ci sarà più una medicina a due velocità, ma una medicina per coloro che hanno i mezzi per concedersela e farmacie per i moribondi per tutti gli altri – è questa la strada su cui si è messa la Francia. Poiché non abbiamo più i mezzi per curare i cittadini, poiché non possiamo più curare patologie cardiache, tumori, traumi, fratture attraverso la medicina di base, allora puntiamo tutto su una medicina di alto profilo non più per curare, ma per rispondere ai capricci soggettivi e alle patologie individuali.

Torniamo insomma alla logica del capriccio anaffettivo che, in un contesto di mercificazione totale, sorregge l’ideologia della maternità surrogata e una logica che potremmo chiamare dei diritti del disumano...

«Io voglio un bambino, ne ho diritto!». Lo esige il ricco ottantenne che si annoia nel suo ospizio di lusso. «Voglio essere inseminata con lo sperma di mio figlio in stato di morte cerebrale», dirà la madre che ha appena perso il figlio durante un incidente. «Voglio clonare le cellule del cadavere di mio marito morto e sepolto, poi farmi inseminare, perché sento la sua mancanza » dirà la vedova inconsolabile, incapace di comporsi nel proprio lutto…

Il «diritto al bambino» è suscettibile di essere accolto a condizione di accettare battersi per il «dovere nei confronti del bambino», quindi?

Che cosa ci immaginiamo, che il bambino potrà vivere una vita serena, equilibrata, armoniosa, mentalmente soddisfacente per lui, per gli altri, per chi gli sta accanto e per la sua discendenza, quando saprà che è stato comprato, venduto, che è frutto di un incesto o tra sua nonna e suo padre morti o che è il prodotto di un cadavere decomposto ?

«Godere e far godere, senza far del male né a te né a nessuno, ecco la morale»- Così scrive nel suo Manifesto Edonista. La nascita di un bambino è quella dell'essere più vulnerabile, perché il bambino non ha mai chiesto di nascere e proprio su questo - come già osservava Immanuel Kant nella sua Metafisica dei costumi - si fonda il suo diritto. Questa posizione è in contraddizione con l'individualismo liberista, assoluto, oramai prevalente che considera il bambino proprio e altrui come un artefatto... Eppure, anche i liberisti amano chiamarsi "libertari"

Il libertario che sono non va confuso con un liberale o un liberista, cose che non sono. Il libertario vuole che il regno della libertà sia il più esteso possibile. Ma la libertà non è la licenza. La libertà, per me, resta banalmente la possibilità di fare ciò che non nuoce agli altri, nella misura in cui gli altri non abbiano però deciso che io nuoccio loro per il semplice fatto di esistere. La licenza è il fatto di fare ciò che vogliamo, quando vogliamo, come vogliamo. La licenza è liberticida.

E il liberale?

Il liberale pretende che il mercato detti legge per tutti. La libertà interessa al liberare solo quando la considera un modo per arricchirsi. Il libertario pensa che il liberale ha ragione su tutto, ma che dovrebbe andare più in là e rinunciare a ciò che ostacola il libero esercizio della sua pura soggettività: lo Stato, l'esercito, la polizia, la moneta, la difesa. Deve rinunciarvi per lasciare che l'individuo si esprima. Ma un libertario - e io sono un libertario - rifiuta la mercificazione del corpo. I liberali e i liberisti no, non la rifiutano. Anzi, la mettono nel loro programma.

Crede quindi che la critica alla maternità surrogata sia una battaglia in cui laici, atei, donne e uomini di sinistra si possano fieramente e sinceramente impegnare, senza timore di venir tacciati di - cosa che capita spesso in Italia - essere "cripto-cattolici"?

Per opporsi ci sono molte ragioni e molto diverse tra loro. I cristiani lo fanno lo fanno in nome di altri valori rispetto ai miei: difendono la famiglia tradizionale e il matrimonio eterosessuale, la famiglia monogamica e la sessualità improntata sulla procreazione, il rifiuto della contraccezione e la proibizione dell'aborto. Io no. D'altronde, l'omosessualità, il matrimonio omosessuale, l'adozione da parte di omosessuali (che io difendo) vengono spesso condannati con il pretesto che sarebbero contro natura. Non posso sottoscrivere questa posizione, ovviamente. Ma poi, ci sono cristiani che dicono il giusto e lottano per il rifiuto della mercificazione del corpo. Che cosa dovrei dire di loro? Che sbagliano? Che mentono? No, questo manicheismo produce molti danni al pensiero: gli amici dei nostri amici non sono sempre nostri amici e i nemici dei nostri nemici non sono per forza nostri amici. Questa logica binaria obbliga molti a difendere un errore con il pretesto che la verità è difesa da quelli che consideriamo nostri nemici! Quando da destra si criticavano i gulag sovietici, l'uomo di sinistra che mi sento di essere diceva: ha ragione! Quando i cattolici dicono che un bambino non può essere comprato o venduto e che non si può iniziare un percorso esistenziale sereno in questa configurazione, allora l'ateo che mi sento di essere dice che i cattolici hanno ragione. Dire che sono nel torto solo perché sono cattolici sarebbe un crimine ideologico. La verità, la giustizia sono talvolta di destra, talvolta di sinistra, talvolta cristiane e talvolta atee. Questo non impedisce di essere, come lo sono io, ateo e di sinistra, poiché è la grandezza della sinistra e l'onore dell'ateismo evitare - nella prima - l'intolleranza e - nel secondo - il settarismo. Intolleranza e settarismo: ecco due vizi contro i quali alcuni lottano quando se li trovano davanti, ben disposti nel campo nemico, ma che troppi finiscono per amare, quando se li ritrovano dentro casa propria.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:11 pm | | Default

La regina tenebrosa che inventò il gelato… Caterina de’ Medici, di Franco Cardini

Riprendiamo da Avvenire del 9/8/2015 la prima parte di un articolo di Franco Cardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Oggi Caterina de’ Medici, regina di Francia, è molto conosciuta per due motivi che vanno di moda: la gastronomia e la magia. Le si attribuisce – o comunque si attribuisce ai cuochi fiorentini ch’essa si portò dietro a Parigi – l’invenzione sia dei dolcetti rotondi dei quali i francesi vanno matti, i macarons, sia del gelato, che ha notoriamente conquistato il mondo. Essa è inoltre conosciuta per la sua passione per l’astrologia e le profezie: era risaputo che accanto a lei stava costantemente un ambiguo fiorentino dei poteri del quale si sussurravano meraviglie, Cosimo Ruggeri, per non parlare dei suoi rapporti con il «mago» Michel de Notre-Dame, più conosciuto con lo pseudonimo di Nostradamus, l’autore delle enigmatiche Terzine che secondo alcune conterrebbero infallibili ancorché non troppo comprensibili profezie.

È ben nota anche la sua silhouette che, per la verità di solito un po’ troppo abbellita, è comparsa più volte in film e sceneggiati storici sul grande e sul piccolo schermo: accigliata, misteriosa, sempre nerovestita in omaggio a quella che era la moda del suo tempo, il maturo Cinquecento, ma anche in quanto perpetuamente abbigliata a lutto dopo la morte incidentale di suo marito Enrico II durante un torneo. E sì che il suo regale consorte l’aveva a lungo e pubblicamente cornificata: tutti conoscono la sua passione per l’affascinante Diana di Poitiers. In realtà le vicende storiche di Caterina, nata a Firenze nel 1519 e figlia di colui che allora ne era il signore, Lorenzo duca di Urbino (figlio di Piero, nato a sua volta da Lorenzo detto «il Magnifico» e fratello di quel Giovanni che sarebbe divenuto papa Leone X) non furono mai né troppo felici, né troppo facili. Sua madre, Madeleine de la Tour d’Auvergne, morì poco dopo il parto; e nemmeno il padre le sopravvisse a lungo.

Caterina era il frutto di un matrimonio politico imposto dal prozio papa per rafforzare i rapporti tra casa Medici e corona di Francia: che tuttavia condussero a un’infelice alleanza politica tra papa Clemente VII (un altro Medici!) e Francesco I di Francia, quindi alla cacciata del potente casato dalla città del giglio e al suo ritorno, nel 1530, sotto l’egida dell’imperatore Carlo V. Il nuovo protettore della dinastia la insignì addirittura di un titolo feudale: da allora i Medici sarebbero stati duchi di Firenze, quindi garanti ereditari della fedeltà di Firenze all’impero al di là del gradimento o meno dei fiorentini.

Ma il re di Francia, insieme con il papa, continuava a guardare a Firenze come a una potenza amica da non perdere: e fu così che venne organizzato, nel 1533, il matrimonio politico tra Caterina e il terzogenito del monarca, Enrico duca di Orléans, certo non destinato tuttavia al trono. Invece caso volle che lo sfavorito cadetto divenisse, con la morte di chi avrebbe avuto diritto all’eredità regale, a sua volta re; e Caterina quindi regina. Fu un regno triste il suo, così messa nell’angolo da un marito che la disprezzava, la trascurava e l’umiliava preferendole la prestigiosa amante Diana di Poitiers. Ma Enrico II nel 1559 morì in seguito alla ferite riportate durante un torneo: e Caterina si trovò reggente e quindi regina- madre durante il regno di ben tre suoi figli, che dovettero convivere con l’intrigante e violenta alta nobiltà dei Guisa e dei Borbone e affrontare le conseguenze della Riforma protestante sotto forma di lotta accanita tra cattolici e «ugonotti», cioè calvinisti.

Sulla regina, che stava ormai invecchiando, si allunga l’ombra della corresponsabilità della triste «Notte di San Bartolomeo», il 24 agosto 1572, che del resto non fu per nulla l’unico massacro di quel conflitto che annoverò carnefici e vittime da entrambe le parti.

[…]

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Ottobre 2015 - 10:10 pm | | Default

Il matrimonio è misericordia, non dottrina. Breve nota di Andrea Lonardo

Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Famiglia, affettività, sessualità, nella sezione Giustizia, carità e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (16/10/2015)

Jan van Eyck, I coniugi Arnolfini, 1434,
National Gallery, Londra. Nello specchio
al centro del quadro i coniugi Arnolfini sono
riflessi  di spalle e nella cornice dello specchio
sono 10 scene della passione di Cristo

Nello sguardo misericordioso di Gesù il matrimonio non è “dottrina” o “dogma”, bensì “misericordia”. Gesù risponde agli scribi che gli chiedono perché Mosè aveva concesso il permesso del ripudio: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma» (Mc 10,5). La durezza del cuore è esattamente il contrario della misericordia: l’amore si spezza quando muore la misericordia.

Ai tempi di Gesù il divorzio era “ normale” sia in ambiente ebraico che pagano. Gesù, che è il volto della misericordia, muta lo sguardo su tutto ciò che fin lì era stata la “norma”: egli vive e propone l’amore verso lo straniero, l’amore verso il peccatore, l’amore verso i pubblicani e le prostitute, l’amore verso il povero, l’amore verso il nemico, l’amore verso l’adultera. Tutti questi “amori” sono espressioni della medesima carità.

Come canta l’inno alla carità: «La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13,4-8).

Solo chi è misericordioso può riprendere con sé e continuare ad amare il coniuge che lo ha tradito.

Gesù da origine ed, insieme, porta a compimento. È il matrimonio stesso in sé, prima ancora che quello religioso, che già tende ad un amore che non finisce per il peccato o per il cambiamento dell’altro. È lo stesso matrimonio ebraico che già tende alla misericordia.

Isaia aveva annunziato, infatti: «Come una donna abbandonata
e con l’animo afflitto, ti ha richiamata il Signore.
Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù?
– dice il tuo Dio.
Per un breve istante ti ho abbandonata,
ma ti raccoglierò con immenso amore.
In un impeto di collera
ti ho nascosto per un poco il mio volto;
ma con affetto perenne
ho avuto pietà di te,
dice il tuo redentore, il Signore» (Is 54,6-8).

Osea si era fatto, nella sua stessa esistenza personale, immagine di un Dio che ama la sposa che non lo merita.

Nella tradizione rabbinica del tempo di Gesù si discuteva quando il divorzio ed un nuovo matrimonio fossero possibili:

«La scuola di Shammai insegna che il marito non deve divorziare dalla propria moglie a meno che abbia trovato in lei qualcosa di immorale, conformemente al testo che dice: “Avendo trovato in lei qualcosa di vergognoso” (Dt 24,1). La scuola di Hillel opina invece: Anche se essa ha bruciato il suo cibo. Rabbi Aqiba dice: Anche se trova un’altra più bella di lei, conformemente al testo che dice “che accada anche se essa non trovi grazia ai suoi occhi” (Dt 24,1)» (Mishnah, Ghittin VIII,9-10).

Per Shammai, rabbino più rigorista, il divorzio era possibile solo se l’uomo scopriva l’adulterio della moglie (“qualcosa di immorale”), mentre Hillel, più lassista, permetteva il divorzio anche se la donna non sapeva cucinare. Ovviamente non era previsto che fosse la moglie a poter divorziare, ma era solo il maschio a poter ottenere di separarsi dalla donna che aveva sposato. Rabbi Aqiba, il rabbino che aiutò Bar Kokhba nella rivolta contro i romani riconoscendolo come inviato da Dio e che morì per questo martire, famoso anche per la sua storia di amore con la moglie Rachel che lo sostenne per tutta la vita, aveva invece secondo la Mishnah una posizione ancora più duttile, ritenendo possibile il divorzio anche se una donna non trovava più grazia agli occhi del marito.

Anche il mondo greco e romano conosceva l’istituto del divorzio. L’antichità ha conservato contratti di separazione come quello di Zois ed Antipatro che dichiarano di essersi accordati

«di essere separati l’uno dall’altro, rompendo l’unione formatasi per contratto davanti allo stesso tribunale nel corrente anno XVII di Cesare Augusto, e Zois riconosce di aver ricevuto da Antipatro di mano dalla casa di lui ciò che egli ebbe in dote: abiti per il valore di 120 dracme d’argento e un paio di orecchini d’oro. Perciò d’ora in poi è nullo il contratto di matrimonio, e né Zois né un altro per lei potrà procedere contro Antipatro per richiedere la restituzione della dote, né alcuna delle due parti contro l’altra per quanto riguarda la coabitazione o altra materia fino al presente giorno, a partire dal quale è lecito a Zois sposare un altro uomo e ad Antipatro un’altra donna, senza che nessuno dei due sia perseguibile».

Tutto questo appare ormai sorpassato all’arrivo di Gesù. Con lui ormai è iniziato il nuovo regime della misericordia: il matrimonio appartiene alla novità cristiana.

Ci si accorge di questa novità, quando non si guarda al matrimonio dal proprio punto di vista, ma da quello del possibile peccato dell'altro. Se non sono io a voler lasciare qualcuno, ma è l'altro ad abbandonarmi, perché sono invecchiata o malato o perché l'altro si è innamorato di un altra dopo decenni di matrimonio, se sono io a rimanere senza quella persona a cui tengo e che mi ha promesso amore e insieme alla quale abbiamo educato i nostri figli, ecco che la misericordia non è più cosa ovvia: perché io soffro, perché io provo rancore. Gesù non solo ha voluto essere misura dell'amore, ma ancor più grazia che lo sostiene, perché tutto in me mi spingerebbe alla rabbia - e, difatti, quanta rabbia noi vediamo nelle separazioni. Solo la misericordia e non un cuore duro può far dire a chi è stato abbandonato - siano futili o serissimi i motivi del suo gesto, siano le responabilità di entrambi o solo di chi si allontana - : «Non smetterò di amare». Tutto cambia se io non chiedo misericordia per me, ma riesco a concederla a chi in un dato momento o anche per anni sembra non amarmi più.     

Ricordo la storia di una donna che fu lasciata dal marito per una donna più giovane. Il marito aveva riscoperto emozioni che non provava più e con la freschezza della nuova compagna sembrava rinato, mentre la più anziana si disperava: cercò anche lei una compagnia, ma poi si rassegnò, accorgendosi che era inutile.

Lui, improvvisamente, scoprì di avere un tumore e pian piano la malattia si aggravò. La più giovane, ad un certo punto, lo lasciò, perché non voleva farsi carico della malattia del suo compagno.

La moglie si riavvicinò al marito lentamente, a motivo del dolore subito. La donna ebbe misericordia. Fu donna di misericordia. Tornò da me alla morte del marito, dicendo che lui aveva lasciato questa vita, mentre si tenevano per mano. Era morto piangendo insieme a lei, perché aveva riscoperto di star morendo come marito amato da sua moglie, nonostante i tanti anni vissuti lontano. Ecco una storia di misericordia.

Non solo una storia di misericordia, ma ancor più una storia bella. perché la misericordia è bella, perché tutti noi vorremmo che l'altro avesse un cuore che continua ad amare anche quando noi pecchiamo, anche quando il nostro carattere ci porta a richiuderci su noi stessi, anche quando siamo petulanti per la nostra paura di non essere amati, anche quando invecchiamo, anche quando la malattia ci rende meno interessanti di un tempo.

Con queste brevi riflessioni non si vuole entrare nel merito delle questioni canoniche e disciplinari che vanno anch'esse affrontate con misericordia e alle quali solo i vescovi con il papa possono dare un orientamento, ma solo proporre che il Sinodo torni a far risplendere la misericordia che è annunziata da Gesù come cuore del matrimonio, senza svilirla come “dottrina” o “dogma”, termini in sé altissimi, ma che nel linguaggio corrente sono purtroppo percepiti come antitetici alla misericordia: la nuova visione del matrimonio proposta da Gesù è misericordia.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 15 Ottobre 2015 - 11:50 pm | | Default

Quel tè tra le baracche, di Zouhir Louassini

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 6/10/2015 un articolo scritto da Zouhir Louassini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr. la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

Era come se il destino volesse realizzare il suo desiderio. «Il bene si fa e si dimentica» diceva. La malattia, nei suoi ultimi anni di vita, gli ha fatto dimenticare tutto. Le persone che, come me, l’hanno conosciuto e alle quali ha cambiato completamente la vita, invece, se lo ricordano; per sempre.

Io dovevo insegnargli la lingua del Paese dove era arcivescovo; lui mi ha insegnato ad amare l’altro senza aspettarsi nulla in cambio. «La vostra religione è molto difficile per me», gli dicevo scherzando. «Se qualcuno mi dà uno schiaffo io non posso porgergli l’altra guancia. Come minimo, gli do due schiaffi!» replicavo.

Sorrideva, cosciente che il cammino di Cristo è difficile. Pochi riescono a capire il senso di una fede che ha messo l’essere umano al centro dell’universo. Pochi, inclusi i cristiani, soprattutto i cristiani, si rendono conto di quanto è difficile e faticoso seguire la via di Gesù, per quanto possa sembrare molto chiara e semplice. Il mio amico francescano ci provava e lo faceva, con i gesti non con le parole.

Un giorno mi chiede di accompagnarlo in macchina, una vecchia Simca, se non ricordo male. È colma di roba, vestiti, alimenti, cereali per bambini. Seduto nel sedile al suo fianco, noto che è “in borghese”: nessuna croce né anello. Niente collare bianco. Nulla che possa rivelare chi sia. Guida tra le strade di Tangeri e mi rendo subito conto che si sta dirigendo verso Dchar Bendhibane, un quartiere periferico e malfamato, dove non ero mai stato prima. Povertà ovunque, sentieri fangosi e strade difficili da attraversare. Padre Antonio — così lo chiamavo — prosegue a fatica il suo tragitto fino ad arrivare in una stradina “dimenticata dal Signore”, una bidonville delle peggiori.

È evidente: non è la prima volta che viene qui. Una signora di un’ottantina d’anni esce di casa, seguita da tutta la famiglia. Subito dopo, un susseguirsi di porte che si aprono e tanta gente che inizia ad avvicinarsi a lui. Lo abbracciano, lo salutano. Io mi metto da parte guardando la scena, stupefatto. Mi chiedo come abbia fatto a creare amicizie in una zona tanto pericolosa che nemmeno la polizia si azzarda a frequentare. Lui è tranquillissimo, io molto meno.

La vecchietta mi abborda sorridendo e chiedendomi se sono io il suo traduttore. Ho capito perché mi ha portato. Serve qualcuno per spiegargli tutto quello che dicono. Padre Antonio si difendeva con l’arabo parlato in Marocco, ma non riusciva a mantenere una lunga conversazione.

Con una diligenza quasi surreale, in quel luogo, la gente si mise a distribuire tutto quello che aveva portato Antonio, come tutti lo chiamavano. C’era tanta povertà ma anche tanta dignità. Era chiaro che non sapevano chi fosse. La signora ci ha invitato a “casa” sua. Tè verde e rghayef, una specie di crèpe marocchina, pesante e piena d’olio, che piaceva all’arcivescovo. Si parlava del più e del meno e io traducevo quando serviva. In nessun momento si è parlato di religione. Eravamo in quel momento solo donne e uomini e bambini. Esseri umani, senza altri aggettivi. Era bello.

Spero che padre Antonio mi perdoni, dall’aldilà, per aver raccontato questo episodio della sua vita. Lui non voleva che si sapesse. Gli eventi di questi ultimi tempi — immigrati, rifugiati, muri, razzismi, fanatismi — servano come attenuanti per giustificare questa mia testimonianza, “non autorizzata” da una persona che non è più tra noi. Uomini come l’antico arcivescovo di Tangeri ci danno una lezione di vita e ci insegnano come interpretare le parole di Gesù.

Io che sono di cultura musulmana ho imparato da padre Antonio Peteiro che le religioni, se non servono ad avvicinare gli esseri umani, sono inutili. È grazie a lui e a persone come lui, che ho imparato a non confondere religiosità e spiritualità. Ho imparato soprattutto che la fede non può diventare mai un’ideologia, se non si vuole che svanisca il suo significato più umano e più profondo.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:16 am | | Default
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Ma Cicerone userebbe il 3Dtouch?, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 27/9/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, oltre a cliccare sul tag fabrice_hadjadj, cfr. la sotto-sezione Filosofia contemporanea nella sezione Storia e filosofia

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

Cosa c'è di più datato dell'innovazione? Che cosa di più opposto al progresso umano? Certo, siamo passati dalla penna d'oca alla penna, dalla penna alla macchina da scrivere, dalla macchina da scrivere alla videoscrittura, dalla videoscrittura allo smartphone a comandi vocali, eccetera.

Ma nel frattempo ci siamo dimenticati di progredire con la penna d'oca. Anzi, siamo regrediti, perché non sappiamo più cosa sia la calligrafia e neanche siamo più in grado di scrivere frasi armoniose come quelle di Cicerone.

Qualche tempo fa un ragazzo sventolava davanti a me il suo iPhone 6s Plus, fiero del suo schermo 3Dtouch (notare già, in questi termini che mettono la maiuscola in mezzo a una parola e che mescolano cifre e lettere, tutto lo sforzo per disimparare a scrivere e parlare bene). «Ma cosa sai fare con questo?», gli chiesi allungandogli una matita e un foglio di carta, cioè tutto quel che serve per diventare Dante o Raffaello.

Purtroppo non era capace di scrivermi neppure una piccola poesia, per non dire un sonetto. A quel punto ho lasciato stare. Il poveretto si era battuto per essere ammesso in un prestigioso master in business administration e temevo che si lasciasse andare alla più nera disperazione rendendosi conto di quanto il suo apparente successo l'avesse reso più incompetente di un uomo del Quattrocento.

Qualcuno di certo obietterà: «Bisogna dunque ritornare indietro? L'innovazione non è forse caratteristica unica dell'uomo?». Prima di tutto non ho detto che bisogna tornare indietro; dico al contrario che bisogna andare avanti, cercando di creare nuovi capolavori forti e duraturi come quelli di Dante, o reinventando la povertà con lo stesso genio di Francesco d'Assisi.

Quanto alla storia della “caratteristica unica dell'uomo”, da una parte non tutto ciò che è caratteristico dell'uomo gli è necessariamente essenziale, come ad esempio sgozzare il suo simile per prendergli il portamonete (cosa che nessun animale predatore ha mai fatto); d'altra parte, mi sembra che dal punto di vista neodarwinista l'innovazione sia il nerbo della lotta per la sopravvivenza: dunque l'uomo sarebbe molto più originale non innovando…

Ma, veramente, non credo a questo modo di vedere l'evoluzione. Esso deriva più dal paradigma tecno-economico che non dalla natura stessa. E tuttavia ci rivela qualcosa di molto interessante: l'innovazione è la guerra. Non serve per far progredire ma per schiacciare il concorrente.

In fondo l'innovazione si oppone a qualsiasi nuovo inizio. Il suo paradigma tecno-economico ci impedisce di aprirci al “paradigma della primavera”. Perché siamo commossi dalla primavera? Non c'è alcuna innovazione ma un rinnovamento. Ora, il rinnovamento non è forse una specie di ripetizione?

No, è invece una novità che avviene nella profondità di un soggetto (l'albero nella sua linfa) e non dal lato degli oggetti (neo-fiori di sintesi), una novità talmente nuova che per affermarsi non ha bisogno distruggere ciò che la precede (perché l'innovazione è datata, l'ho detto all'inizio, è essenzialmente un processo di obsolescenza che, sotto le apparenze dell' hi-tech, ultimamente ciò che moltiplica sono i rifiuti).

Il rinnovamento conserva il soggetto, si carica della sua storia con tutti i suoi inverni e gli offre un avvenire oltre il freddo della morte. È il simbolo dell'ispirazione, della conversione, di tutte le risurrezioni interiori. Non si tratta più dell'oggetto enne-più-unesimo che si sostituisce all'oggetto ennesimo, pur restando in concorrenza tra loro dato che si trovano sullo stesso piano; si tratta di un soggetto insostituibile, tu, io, che improvvisamente cambia d'ordine, e al suo sguardo tutte le cose, anche le più vecchie, anche le più comuni, appaiono come nuove mentre sgorgano nella freschezza della loro sorgente eterna.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:15 am | | Default
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L'arte del tappeto? Imita l'arte del Creatore, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 4/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, oltre a cliccare sul tag fabrice_hadjadj, cfr. la sotto-sezione Filosofia contemporanea nella sezione Storia e filosofia

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

«Il tempo di imparare a vivere, ed è già troppo tardi», dice il poeta. Molto spesso, è all'età in cui si comincia a fare bilanci che si diventa infine maturi per le scelte professionali della gioventù. E così, oggi sono abbastanza filosofo per rendermi conto che forse sarebbe stato meglio per me essere non professore di filosofia né autore di teatro, ma mercante di tappeti e magari, se non è vietato spingere la propria ambizione così in alto, fabbricante di tappeti.

Quando penso all'arte del tappeto e alla sua diffusione tra gli uomini (un'arte tenuta un tempo in grandissima considerazione nella laguna di Venezia, ma spazzata via dalla rivoluzione industriale) mi viene una stretta al cuore. È quello che ho sempre cercato di fare; anche sul piano del pensiero, il mio modello è il tappeto orientale fatto a mano - «mille nodi ripetuti mille volte su mille fili incrociati».

Come William Morris, credo che in un certo modo le "arti minori" superino di molto le "arti maggiori". Le arti maggiori (e cioè le belle arti) producono opere monumentali che stanno accanto alla nostra vita quotidiana e ci mettono nella posizione di spettatori affascinati: si esce di casa per andare al teatro, si smettono le faccende domestiche o la discussione coi familiari per guardare un film o ascoltare un concerto.

Le "arti minori", spesso ridotte ad arti "decorative" oppure ad "artigianato", producono opere atmosferiche, opere che sposano la nostra vita quotidiana: è la vita stessa il dipinto, e l'arte non ha più altra funzione che provvedere una cornice che ne aumenti la grazia.

È così per un bel mobile di famiglia, con sagomature ed intarsi. Ci si mettono le mutande e i calzini, ma l'atto di mettere o prendere le mutande e i calzini è avvolto da quella poesia silenziosa che un mobile ikea non può dare. Così anche per scarpe fatte su misura da un calzolaio amico: forse saranno un po' meno comode e certamente meno alla moda di un paio di nike, ma si cammina sul suolo della sollecitudine e del saper fare di uomini…

E l'arte del tappeto allora? La pongo leggermente al di sopra della calzoleria (che è certamente essa stessa infinitamente al di sopra dell'alta finanza e delle nanotecnologie). Non soltanto supera alla grande l'iconoclastia delle avanguardie contemporanee - producendo fin dall'inizio capolavori fatti per essere calpestati - ma permette di riorganizzare lo spazio familiare attorno alla bellezza. Un tappeto non è appeso al muro, non occupa spazio: fa spazio, dispone l'ospitalità, e non per una persona soltanto, come il vestito o le scarpe, ma per il calore di una piccola comunità.

Infatti, avere tanto splendore sotto i piedi, tanti motivi fatti per attirare il nostro sguardo ma che al contrario cercano di nascondersi sotto le nostre suole, ci spinge a guardare diversamente il nostro prossimo e ci suggerisce che questi sia ancora più bello. Questo prato addomesticato e radioso eleva i nostri gesti più comuni (prendere un caffè, parlare di tutto e di niente, giocare coi bambini) mentre una moquette sintetica tende a impigliarli nella malinconia... In questo senso, ogni bel tappeto è un tappeto volante.

Ho detto che il tappeto rappresenta per me un modello. In verità, l'arte del tappeto imita l'arte del Creatore. Ogni vero donatore si nasconde dietro il suo dono (altrimenti non è più dono, ma bisogno di vanagloria): Dio crea facendo spazio alle sue creature, uno spazio così generoso che esse possono dimenticarlo facilmente. Si fa discreto come un tappeto che porta e illumina il mondo, mostra le cose e per questo non mostra sé stesso.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:14 am | | Default
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Due interventi su Jürgen Habermas di Vittorio Possenti e Silvano Zucal

Riprendiamo da Avvenire del 23/9/2015 due articolo di Vittorio Possenti e Silvano Zucal. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

1/ Habermas. Ma la religione lo separa dal «gemello» Ricoeur, di Vittorio Possenti

Salvo eccezioni recenti, la comprensione tra cultura francese e cultura tedesca è risultata difficile per motivi antichi, tra cui la disfatta francese a Sedan nel 1870 ad opera della Germania prussiana. Ma già prima l’invettiva del tedesco H. Heine contro i suoi connazionali metteva in guardia i francesi: «Da una Germania liberata avete da temere più che da tutta la Santa Alleanza». Con la fine della seconda guerra mondiale le questioni della democrazia, della pace e i primi vagiti della comunità europea hanno favorito un’intesa tra i due Paesi. In ciò si radica la valutazione positiva del pensiero di Habermas da parte di Ricoeur su cui si sofferma il numero di Esprit.

Al di là della comune aspirazione verso i valori democratici, rimane stimolante cogliere la peculiarità dei due filosofi. Entrambi sono postmetafisici, ma in modo diverso: Habermas rinnova spesso la sua confessione di post-metafisico, Ricoeur ha invece compiuto sforzi per entrare nella terra promessa dell’ontologia ma ha infine riconosciuto che l’operazione non gli apparteneva. Il punto di discrimine sembra essere la religione. Habermas la integra nella società attraverso il riconoscimento del contributo che può dare alla vita buona e alla cura delle ferite dell’esistenza.

Questo discorso merita rispetto e consenso, anche alla luce del detto evangelico che suona: «Chi non è contro di voi è per voi». Non sembra però che Habermas intenda inserire – nonostante la affermata comune genesi di filosofia e teologia in un lontano passato – la religione in profondità nella cultura come sorgente di animazione perenne, riconoscendo sino in fondo il valore perenne del fatto religioso. In ogni caso nella condizione spirituale contemporanea segnata da un esteso secolarismo, quella di Habermas risulta forse la maggior valutazione positiva della religione che può essere compiuta da un filosofo agnostico e antropocentrico.

L’opzione post-metafisica implica infatti spesso l’antropocentrismo. Della triade «Dio-uomo-mondo» la prospettiva antropocentrica punta solo sul secondo termine, di modo che l’oggetto del filosofare è esclusivamente il mondo umano: etica, politica, diritto, scienza. È agevole verificare quanto il pensiero di Habermas è assimilabile a questo nucleo, e con lui quello di molti filosofi dell’occidente attuale, il cui dialogo è appunto agevolato dalla pregiudiziale post-metafisica.

Ricoeur, in quanto pensatore credente, è intimamente aperto al problema religioso e a quello di Dio, con una particolare attenzione al mistero del male, alla colpa, alla finitezza, alla prospettiva biblica: l’orizzonte è post-metafisico ma non antropocentrico. Il problema politico di Ricoeur non è stato l’etica comunicativa del discorso ma la persona e con ciò il programma enunciato dal filosofo francese: «Possa io vivere una vita compiuta, con e per gli altri, sotto istituzioni giuste». In ciò si solidifica il compito del personalismo rivolto alla società e alla politica, sotto la regola della dignità del soggetto e della giustizia. A mio parere il pensiero antropocentrico di Habermas rimane fortemente scoperto sul lato del diritto, dove la posizione preferita appare insufficiente per il rifiuto del diritto naturale (ossia interno alla natura umana), a favore del solo diritto positivo. Ciò è coerente con l’atteggiamento post-metafisico dal momento che il concetto di natura umana è metafisico. Habermas e Ricoeur possono comunque offrire all’Europa burocratica e in forte crisi di identità una salutare scossa che la volga verso l’utopia, intesa positivamente come una direzione di marcia verso una società più giusta e fraterna.

2/ In dialogo con Ratzinger sulla società post-secolare, di Silvano Zucal

Negli anni Settanta Achille Ardigò amava introdurre i suoi numerosi studenti all’Università di Bologna al pensiero, per molti aspetti arduo, di Habermas. Ne aveva intuito un segno distintivo: la passione per la democrazia e per i suoi presupposti etici non poteva che portarlo a confrontarsi anche con le grandi tradizioni religiose e, in particolare, con il cristianesimo. Sulla scia di Ardigò coglieranno acutamente la portata di questa cifra altri studiosi come Michele Nicoletti e Piergiorgio Grassi. Il vertice del confronto con il cristianesimo sarà il dialogo con Ratzinger del 2004 alla Katholische Akademie di Monaco su «i fondamenti prepolitici dello Stato liberale». Habermas vi analizzerà il rapporto tra religione e Stato liberaldemocratico: tema per lui rilevante, che emerge nel discorso «Fede e sapere » del 2001. Già prima aveva riconosciuto un rilievo particolare all’esperienza religiosa: offriva alle persone consolazione e «importanti risorse di creazione di senso» nell’esistenza (così affermava in Il ruolo sociale della religione del 1975). Nel 1999 riconosceva un influsso reciproco tra filosofia e religione e ammetteva che la sua stessa teoria dell’«agire comunicativo » è un’eredità del cristianesimo salvo, ovviamente, mantenere un’autonomia di metodo della filosofia nei confronti della teologia.

Nel dialogo con Ratzinger, Habermas fa un passo in più. Riconosce al linguaggio religioso la capacità di custodire ed esprimere delle 'ragioni' che il discorso pubblico non potrà ignorare. Egli chiede sempre alla coscienza credente di rispettare il pluralismo delle tradizioni religiose e le pratiche dello Stato di diritto. È però aperto a una feconda reciprocità, postulando un processo di apprendimento reciproco tra pensiero laico e religioso. La ragione secolare deve, a suo dire, essere «sempre disponibile a imparare e a tenersi osmoticamente aperta – senza per questo sacrificare la propria autonomia – su tutti e due questi fronti». Chiede sempre «un compito cooperativo, in cui entrambe le parti sono chiamate ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa». Solo in tal modo si può costruire una «sfera pubblica polifonica». Se la religione si nega al pluralismo e alla tolleranza rischia di sviluppare un potenziale distruttivo. Così la ragione secolare che si sottrae alla voce delle tradizioni religiose si priva di quel prezioso apparato concettuale che la teologia ha dispiegato.

Habermas intravede una «società post-secolare», che ha perso la certezza che la religione scompaia dal mondo per effetto della modernizzazione: in essa decolla un «cambio di coscienza » in virtù del quale il pensiero laico considera il cristianesimo e la religione in generale una forma di sapere legittimo da cui poter apprendere contenuti semantici importanti. I grandi temi religiosi come il male, la colpa, la responsabilità o la giustizia sono necessari per la sopravvivenza di una società democratica.

L’atteggiamento della filosofia nei confronti del cristianesimo non deve essere soltanto di rispetto ma anche, umilmente, una disposizione a imparare. Le tradizioni religiose custodiscono qualcosa che «altrove è andato perduto»: la capacità di «percepire ed esprimere» la vita mancata, i fallimenti esistenziali, le patologie sociali. Anche nel recente Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia (2015), Habermas ha sottolineato come la rinnovata vitalità di movimenti e fondamentalismi religiosi implichi una doppia sfida: da un lato elaborare nuovi modelli di convivenza, dall’altro ripensare il rinnovato ruolo delle comunità religiose troppo prematuramente confinate nella sfera del privato. La scommessa di Habermas è per una convivenza «riflessivamente illuminata» e non deve far scalpore un’affermazione come questa: «Mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicista della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalista dei cittadini credenti».

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:13 am | | Default

Mozarabico, ovvero “tra gli arabi”. Storia e valore dell’antico rito ispano-mozarabico.Un’intervista a Juan Miguel Ferrer Grenesche di Roberto Rotondo

Riprendiamo dal sito della rivista 30Giorni del 01/02 2011 un’intervista a monsignor Juan Miguel Ferrer Grenesche. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione l'Alto medioevo nella sezione Storia e filosofia. Per approfondimenti sui Mozarabi - chi non conosce i mozarabi e la loro difficile storia non ha capito niente della storia dell'Andalusia - cfr. lo studio Andalusia: dal mito alla storia. Appunti per un accostamento realistico a al-Andalus, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

Intervista con monsignor Juan Miguel Ferrer Grenesche, sottosegretario della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, sul rito  liturgico nato nel IV secolo nella penisola iberica, in particolare nelle regioni dell’antico regno visigoto di Toledo: non solo ha messo al riparo la fede del popolo dall’arianesimo, ma è stato praticato anche durante i secoli di dominazione araba.

Giunto fino a noi con il suo ricchissimo patrimonio di orazioni per la celebrazione della messa, la sua storia è anche una lezione di inculturazione della fede in una specifica area geografica

Ogni giorno nella Cattedrale di Toledo, in Spagna, si celebra la messa e si recitano le lodi secondo l’antichissimo rito ispano-mozarabico. È una liturgia della Chiesa cattolica nata nel IV secolo nella penisola iberica – più precisamente nelle regioni appartenenti all’antico regno visigoto di Toledo – che non solo ha messo al riparo la fede del popolo dall’arianesimo, ma è stata praticata anche durante i secoli di dominazione araba (mozarabico vuol dire infatti “tra gli arabi”). Giunto fino a noi con il suo ricchissimo patrimonio di orazioni per la celebrazione della messa, la sua storia è anche una lezione di inculturazione della fede in una specifica area geografica, tanto che secondo molti non è possibile capire le radici spirituali della Spagna, soprattutto della devozione mariana spagnola, senza tener conto di questo antichissimo rito.

Abbiamo chiesto a monsignor Juan Miguel Ferrer Grenesche, dottore in Liturgia, sottosegretario  della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, massimo esperto del rito mozarabico, di darci le coordinate di questo tesoro liturgico. Monsignor Ferrer Grenesche, nato a Madrid nel 1961 e ordinato sacerdote a Toledo nel 1986, prima della nomina in Curia a Roma è stato vicario generale dell’Arcidiocesi di Toledo.

Monsignor Ferrer, perché il rito mozarabico è così prezioso?
JUAN MIGUEL FERRER GRENESCHE: Per le caratteristiche distintive della liturgia eucaristica, che sono la tendenza alla conservazione delle forme antiche, la semplicità dei riti iniziali, l’abbondanza di “antifone e canti fissi” o quasi fissi come, ad esempio, il canto della pace, il canto “ad accedentes” per la comunione, l’antifona per l’orazione dopo la comunione, la benedizione in preparazione alla comunione, il calendario fortemente cristocentrico e con grande preponderanza delle celebrazioni dei martiri.

Si parla spesso della grande varietà eucologica del rito mozarabico, ovvero del gran numero delle preghiere eucaristiche…
Se a Roma alcune parti della preghiera eucaristica sono variabili, in Spagna lo è tutta la preghiera eucaristica, le orazioni e le monizioni dell’Ordo Missae. Ma un altro elemento è il carattere iniziatico-partecipativo. Il popolo interviene costantemente, soprattutto ascoltando le preghiere (di solito ampie, ma strutturate secondo precise regole retoriche per giungere, non solo a Dio, ma anche al popolo) ma pure con le acclamazioni e i canti (specialmente con l’Amen pronunciato 33 volte in ogni messa e con l’Alleluia).
In questo stesso senso va intesa la modalità solenne della frazione del pane – nella quale la sacra specie viene suddivisa in nove parti che si collocano a forma di croce sulla patena, mentre si ripercorrono i principali momenti del mistero di Cristo – o la modalità di recitazione cadenzata del Padre nostro da parte del sacerdote con i successivi Amen del popolo dopo ognuna delle sue frasi.
Un ultimo elemento distintivo del rito mozarabico è l’integrazione di elementi di altre tradizioni liturgiche. Il gusto per la conservazione delle sue forme antiche non ha impedito al rito di accogliere, nel corso dei secoli, apporti di diverse parti del mondo cristiano senza perdere di vista, tuttavia, i suoi elementi originali: l’influsso, molto probabile, del canto e del cerimoniale bizantino – largamente testimoniato in un’ampia zona della penisola, da Murcia a Malaga, tra la fine del secolo VI e quella del VII – o l’accoglienza di elementi liturgici alessandrini – tra i quali la preghiera eucaristica – probabilmente giunti da Roma e Milano ai tempi di sant’Ambrogio e di san Leone Magno; la recezione di alcune romanizzazioni progressive soprattutto a partire dal secolo XI, come il Gloria, l’oratio post Gloriam, la Completuria e le successive assimilazioni di rubriche e di arte liturgica.

A cosa si deve una tale ricchezza?
Al fatto che i Padri della Chiesa ispanica, anche scrivendo numerosi trattati (tra i quali quelli di Isidoro di Siviglia, Paciano di Barcellona, Ildefonso e Julián di Toledo), preferirono concentrare il loro insegnamento non in opere teologiche che a quel tempo sarebbero rimaste a uso di pochi, ma nella liturgia, di cui avrebbe beneficiato tutto il popolo. Da qui la redazione di un patrimonio eucologico dal valore teologico e spirituale straordinario e difficilmente raggiungibile. I grandi assi teologico-spirituali delle loro opere liturgiche sono il superamento del paganesimo e la superiorità della verità e del culto cristiani; la vita come “sequela Christi” secondo l’esempio dei martiri; l’equilibrio tra ascesi e amore per il creato, al cospetto delle affermazioni priscillianiste; l’affermazione indiscutibile della divinità e umanità di Cristo rispetto all’arianesimo e alle reminiscenze docetiste, nonché una fortissima pietà mariana incentrata sulla maternità virginale di Maria; il valore e la grandezza del monachesimo senza disprezzo per il matrimonio; la chiara presenza dello Spirito Santo nella vita e nel culto della Chiesa. Tra i maestri che maggiormente influenzarono il loro pensiero vanno citati a giusto titolo san Girolamo, san Leone Magno, sant’Ambrogio, sant’Agostino e san Gregorio Magno

Quali sono state le tappe storiche fondamentali nello sviluppo del rito mozarabico?
Il periodo d’oro è tra il VI e l’VIII secolo, ma io partirei dall’inizio del secolo IV, con due episodi per me di massima rilevanza per quanto concerne il processo di cristianizzazione dei popoli ispanici: il primo è il Concilio di Elvira (306), vicino all’odierna Granada, che riunisce numerosi vescovi della zona ma anche dell’interno della penisola, come Melanzio, vescovo di Toledo, l’antica capitale della Carpetana, dove la fede era già radicata e la struttura ecclesiale stabilita in tutti i suoi elementi. Il secondo: la sagra dei martiri. Come in altre parti dell’Impero, sotto Diocleziano le comunità cristiane già consolidate si riempiono di martiri e superano questa forte prova dando testimonianza di costanza e fermezza nella fede, poco prima di ottenere la “tolleranza” e, entro breve tempo, la “ufficialità”.
Il secolo IV è importante perché è il secolo della nascita delle “scuole esegetico-teologiche”, e sarà anche quello delle grandi controversie dottrinali e degli statuti conciliari, che anticipano la nascita, nel secolo successivo, delle liturgie scritte e più avanti ancora dei libri liturgici propriamente detti. Il secolo V, infatti, sarà quello della letteratura teologica e pastorale, delle grandi codificazioni conciliari e della nascita dei “Riti” come espressioni globali della fede, con una tradizione esegetico-teologica, un ordinamento canonico-disciplinare, una spiritualità e alcuni libri liturgici propri, dando luogo a una fase di sviluppo in cui convergono tutti gli elementi di un autentico processo di inculturazione della fede nei diversi contesti del mondo antico. Così avvenne anche nella Hispania romana.

L’Annunciazione, miniatura mozarabica, 
Tratado de San Ildefonso acerca de la
virginidad de Maria
, fol. 66

Cosa cambiò con le invasioni barbariche?
Le invasioni barbariche, o, meglio, la graduale assunzione del potere politico e sociale nell’Impero romano d’Occidente da parte dei nuovi popoli, interruppe o frenò questo processo nelle diverse aree geografiche. Ma il problema non fu tanto che i barbari distruggevano tutto, quanto il fatto che riaprirono la questione ariana. Inoltre, frammentando l’unità politica del vecchio Impero, provocarono migrazioni di popoli che portarono a una decadenza economica, con ripercussioni sulle forze intellettuali e artistiche, che frenò la realizzazione di libri e la costruzione di chiese.
La questione ariana all’inizio mette in forte difficoltà i vescovi cattolici ispanici, perché i re visigoti a cui erano sottomessi davano sempre più spazio e protezione ai vescovi ariani, che dividevano le comunità e rischiavano di far perdere la vera fede al popolo. Questo però fu anche un momento di riflessione per i vescovi cattolici che, dopo la conversione dei re visigoti al cattolicesimo, cominciarono  a comporre testi liturgici proprio per far sì che il passaggio del popolo dall’arianesimo al cattolicesimo fosse una conversione reale e che la vera fede fosse di tutti, visigoti e ispano-romani. Fu questa la molla che fece scattare il processo di formazione del rito e qui bisogna parlare soprattutto di Ildefonso di Toledo, che compose molte messe e celebrazioni per la liturgia delle Ore, ma che sviluppò anche tutta una pietas intorno a Maria Vergine e Madre ­ – Vergine perché madre di Dio e madre perché è madre di Cristo Gesù. Questo anche contro l’eresia ariana che negava la divinità di Gesù.
Ma sarà tra il 589, data in cui si celebra il III Concilio di Toledo, e il 711 che si avrà l’epoca d’oro del rito già allora noto come “ispano”
. Tra il 589 e la metà del secolo VII, infatti, si ha il periodo della grande composizione dei testi e della codificazione in libri, cosicché, già dopo il IV Concilio di Toledo (633), si può parlare di una definizione solenne e completa del rito, in un processo che si prolunga fino alla sua stessa soppressione nel Concilio di Burgos dell’anno 1080.

È un periodo storico quasi tutto segnato dalla dominazione araba. Come è potuto sopravvivere e svilupparsi il rito mozarabico?
Difficile dare una risposta generale perché la situazione non è stata la stessa in ogni punto della Spagna. Inoltre parliamo di un periodo di tempo lunghissimo: i musulmani sono arrivati all’inizio dell’VIII secolo e hanno lasciato Granada ai tempi della scoperta dell’America. Possiamo però dire che all’inizio essi non hanno potuto influire molto sugli usi e le credenze, perché erano una minoranza militare e politica e si limitavano a tenere la situazione sotto controllo.
I problemi arrivarono, invece, da alcuni cristiani di origine visigotica, che non erano realmente convertiti al cattolicesimo, e che grazie alla presenza degli arabi pensarono di ritornare al loro arianesimo facendosi musulmani
. Questo fenomeno ha fatto sì che ci fosse un periodo difficile per il cattolicesimo. I vescovi cercarono di spiegare ai musulmani in cosa consisteva la vera fede cattolica, respingendo le accuse di politeismo e idolatria, ma questa politica di dialogo non ebbe un gran risultato, perché i musulmani si irrigidirono nelle loro posizioni e alcuni mozarabico-cristiani finirono per sposare tesi sbagliate come quelle di Elipando di Toledo.
Ci furono anche dei tentativi, come quello che ebbe come centro Cordoba, di convertire al cristianesimo i musulmani e questo provocò la persecuzione: fu l’epoca  dei martiri cordobesi, che in tutta l’Andalusia andarono al martirio.

Fu la riforma gregoriana a segnare la fine del rito mozarabico come rito di tutta la Spagna a favore del rito romano?
No, fu un processo molto più lungo ed elaborato. Già prima della riforma gregoriana era cominciato a livello politico un processo di avvicinamento da parte dei regni cattolici del nord della Spagna verso l’Europa. Era un’Europa postcarolingia e cluniacense e i re d’Aragona e di Castiglia pensavano che l’adozione del rito romano avrebbe aiutato i loro progetti d’integrazione al resto dell’Europa.
I monaci di rito romano cominciarono così a stabilirsi in Spagna sotto la protezione dei re e quindi i due riti, romano e mozarabico, cominciarono a essere presenti entrambi. Fino al già citato Concilio di Burgos del 1080, in cui, sotto la guida della corona della Castiglia, il rito romano diventa quello ufficiale. Da quel momento, man mano che Aragona e Castiglia riprendevano territori agli arabi, quei territori venivano restituiti al rito romano e i vescovi venivano nominati tra i monaci francesi di rito romano. Così il rito romano è tornato a essere predominante in Spagna e alla fine sostanzialmente solo Toledo ha conservato il privilegio di poter celebrare la liturgia mozarabica intorno alle sei parrocchie che c’erano in città quando Alfonso VI, nel 1085, conquistò la città cacciando gli arabi.

E poi?
La sopravvivenza del rito ispano-mozarabico limitatamente alle antiche parrocchie di Toledo ebbe momenti più o meno felici fino al regno dei re cattolici e all’episcopato del cardinale Francisco Jiménez de Cisneros (1495-1517). Quando questi assunse il progetto di rieditare i libri liturgici, l’antica liturgia versava certamente in una situazione critica di decadenza degli elementi materiali, di mancanza di adeguata formazione del clero e di dispersione dei fedeli. L’opera del Cisneros assicurò la sopravvivenza del rito e lo vincolò particolarmente alla Cattedrale primaziale, con la creazione della Cappella mozaraba del Corpus Christi; garantì al contempo anche la dignità del vecchio rito permettendone la celebrazione in alcuni altri posti significativi, come la sede universitaria di Salamanca. I libri del Cisneros (messale e breviario) permetteranno la conservazione dell’eucologia, delle letture proprie e delle strutture rituali di una parte della tradizione ispana (che presto avrebbe preso il nome di tradizione “baetica” o andalusa, per conservarsi nei libri del Cisneros sotto la denominazione di versione “a stampa”) per la messa e la liturgia delle Ore. Questi libri consacrano tuttora l’integrazione, che si andava realizzando, di alcuni elementi romano-toletani, soprattutto nelle rubriche, nel calendario, nello spazio celebrativo e nelle suppellettili per il culto.

La chiesa di San Miguel de Escalada, a trenta chilometri da León, fu 
fondata nel 913 da monaci in fuga da Cordoba. Gli archi moreschi del
portico a forma di ferro di cavallo sono tipici dell’architettura mozarabica

In epoca moderna quali sono stati i momenti più importanti?
Con la fine del secolo XVIII lo spirito erudito postridentino e il genio del “secolo dei Lumi” convergono in una nuova edizione del messale e del breviario auspicata dal cardinale Francisco Antonio de Lorenzana (1772-1800). Questa sarà la versione universalmente diffusa per il tramite della sua pubblicazione all’interno della collana del Migne (Patrologia Latina 85 e 86). Nel secolo XIX l’interesse degli studiosi per la questione “mozarabica” culminerà con le edizioni del benedettino francese Férotin, che mette in luce la ricchezza dei manoscritti mozarabici della Castiglia settentrionale dando luogo alla riscoperta di un’altra tradizione ispana (quella che prenderà il nome di “manoscritta”). Tale fu il fervore che queste riscoperte suscitarono, da destare sospetti circa l’“autenticità” della tradizione presente nei libri stampati a suo tempo dal Cisneros, che è andata poi recuperando credito grazie agli studi realizzati dopo il Concilio Vaticano II dal grande esperto del rito, dom Jordi Pinell, e dai suoi allievi di Sant’Anselmo a Roma e da altri professori in Spagna.
In tal modo, nell’attuale messale ispano-mozarabico, pubblicato secondo i principi della costituzione Sacrosanctum Concilium e sotto la direzione e il patrocinio del cardinale arcivescovo di Toledo Marcelo González Martín, si sono potute riunire le ricchezze di entrambe le tradizioni, a stampa e manoscritta, ricorrendo alla proposta di due cicli celebrativi laddove necessario.

E oggi?
Si può dire che, dal secolo VIII, la ricchezza del patrimonio eucologico del rito ispano-mozarabico non è mai stata tanto accessibile quanto oggi. Di fatto, lo dimostrano le numerose tesi dottorali pubblicate negli ultimi decenni in materia, al pari delle diverse celebrazioni occasionali del rito in tutte le regioni della Spagna e in luoghi e circostanze di risonanza universale: basti citare, tra le altre, la celebrazione presieduta da papa Giovanni Paolo II nella Basilica Vaticana (1992), quella presieduta dall’arcivescovo primate di Toledo, il cardinale Francisco Álvarez Martínez, sempre nella Basilica di San Pietro, in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000, su invito dello stesso Comitato organizzatore, o, infine, quella presieduta dal vescovo ausiliare di Toledo, monsignor Joaquín Carmelo Borobia Isasa a Québec, in Canada, in occasione del Congresso eucaristico internazionale dell’anno 2008.

Non è rimasto solo un tesoro per studiosi ed eruditi quindi…
Di fatto è un rito per una minoranza. Ma dopo il Concilio si sono anche volute aprire le porte di questo tesoro agli altri cattolici spagnoli e del mondo con una ampia possibilità di celebrare queste messe o la liturgia delle Ore con il rito mozarabico, previo permesso del vescovo, anche in luoghi dove non ci sono comunità mozarabiche.
Certo resta una liturgia che non viene celebrata con un grande numero di fedeli, ma la porta è aperta, così che le persone che amano avvicinarsi al mistero non soltanto con lo studio teorico ma in una esperienza vitale come è quella della celebrazione, possano trovare nel rito mozarabico questa ricchezza.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:12 am | | Default
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Utero in affitto, India e Nepal frenano (da Avvenire)

Riprendiamo da Avvenire del 4/9/2015 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)


Uno dei bambini ottenuti con maternità surrogata (pagando cioè una madre nepalese perché li gestasse con fecondazione artificiale, recuperati dai genitori paganti subito dopo il terremoto del Nepal lasciando spesso tra le macerie le madri "affittate")

Le corti supreme del Nepal e dell'India sono intervenute in questi giorni per esaminare possibili restrizioni della pratica dell'"utero in affitto" allarmate per il moltiplicarsi dei casi che coinvolgono donne locali "assoldate" da coppie straniere.

A Kathmandu il massimo tribunale del Nepal ha diramato una ordinanza con cui pone uno stop provvisorio a tutte le attività che implichino l'utilizzazione di donne nepalesi per mettere al mondo figli da assegnare a coppie straniere. In particolare la Corte vuole non solo verificare l'opportunità di proteggere meglio le madri surrogate, spesso sfruttate, ma anche determinare se l'accesso ai bambini nati con questo processo possa essere aperto anche alle coppie omosessuali, che arrivano in Nepal da Israele, Francia e Stati Uniti.

Intanto in India, altro Paese dove l'utero in affitto è ampiamente praticato in migliaia di cliniche non sempre autorizzate a farlo, il giudice della Corte suprema Ranjan Gogoi ha fissato per il 15 settembre un'udienza in cui si dibatterà se limitare, o addirittura proibire, la materità surrogata. L'avvocato indiano Jayashree Wad ha presentato una istanza in cui chiede che la Corte abolisca un regolamento del 2013 utilizzato da quanti operano nel business delle madri surrogate in assenza di appropriate leggi per un settore che, solo in India, muove due miliardi di dollari l'anno.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:10 am | | Default
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Caro Hawking, il Big Bang non esclude Dio, di Sergio Givone

Riprendiamo da Avvenire del 27/9/2015 un testo di Sergio Givone. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti,. cfr. la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

Einstein e Lemaître. Il termine Big Bang venne coniato da Hoyle 
per ironizzare sull'ipotesi di una concentrazione
originaria di energia che proprio il gesuita danese -
qui a colloquio con Einstein - aveva per primo ipotizzato 

Sentieri filosofici alla tedesca

Sembra quasi una risposta “preventiva” a quanto affermato ieri da Stephen Hawking, in un’intervista alla “Repubblica”, lo stralcio del volume di Sergio Givone “I sentieri della filosofia”, curato da Ugo Perone per Rosenberg & Sellier (pagine 110, euro 11,00) che anticipiamo in questa pagina. Il libro raccoglie i testi di un ciclo di lezioni tenute da Givone a Berlino per la Scuola di alta formazione filosofica. Qui Givone affronta le domande fondamentali del pensiero umano, da “che cos’è la filosofia?” agli interrogativi sulla narrazione, sul mito, sull’ermeneutica, sull’estetica.

Dice ancora qualcosa il nome di Dio agli uomini di oggi? Secondo Nietzsche, poco o nulla. Lo stesso annuncio che «Dio è morto» è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la frase a proposito di questo o di quello. Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi [...]. 

Che morte di Dio appaia come un evento che è ormai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio [...], vede in Dio il nemico dell’uomo. Perciò gli muove guerra. Per il nichilismo niente di tutto ciò. Quella di Dio è una grande idea. Talmente alta e nobile che, come afferma quel perfetto nichilista che è Ivan Karamazov, c’è da stupire che sia venuta in mente a un “animale selvaggio” come l’uomo. Però destinata a dissolversi come rugiada al sole sotto i raggi spietati della scienza. 

Rimasto senza Dio, l’uomo deve fare i conti con la realtà. Deve imparare a vivere sotto un cielo da cui non può più venirgli alcun soccorso né consolazione. Quindi, deve riappropriarsi della sua vita terrena e soltanto terrena. Con quanto di buono e prezioso la terra ha da offrire una volta che Dio è uscito di scena. Ma siccome non c’è nulla di buono e prezioso se non in forza dei nostri stessi limiti, diciamo pure in forza del nostro destino di morte (infatti come potremmo amarci gli uni gli altri se fossimo immortali?), sia lode al nulla! Questo dice il nichilismo

Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice. Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il nichilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo dal male. Precisamente lo scandalo che l’ateismo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consapevole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancellato del tutto Dio, persino come idea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordine del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie [...]. 

Spostiamo ora la nostra attenzione su un altro piano. Dove in questione sono scienza e religione. Affermando, come gli è accaduto recentemente, che una “teoria unificata dell’universo” è ormai a portata di mano, Stephen Hawking ha riproposto quello che per Einstein era un sogno irrealizzabile, ossia la riunificazione in un solo campo delle forze dell’infinitamente piccolo (forza nucleare e radioattività) e delle forze dell’infinitamente grande (elettromagnetismo e gravità). Lasciamo stare se Hawking abbia ragione o pecchi di ottimismo. Chiediamoci piuttosto da dove Hawking tragga l’idea che fa da corollario alla sua affermazione: quella per cui tale teoria metterebbe Dio definitivamente fuori gioco. E dire che proprio Hawking solo qualche anno fa ne aveva ammesso la possibilità. Lo stesso vale per Einstein. Per non parlare di Cantor, la cui teoria degli insiemi prospetta gli infiniti (al plurale) l’uno dentro l’altro, come in un gioco di scatole cinesi, ed evoca Dio come infinito degli infiniti (ma anche come ultimo orizzonte in cui la ragione fa naufragio). Sia come sia il problema Dio appariva aperto e invece ora non più. Se non risolto, accantonato su base fisicomatematica prima ancora che su altra base (ad esempio etica). 

In altri termini, quel che viene sostenuto da Hawking è che di Dio non c’è alcun bisogno per spiegare il passaggio dallo stato assolutamente inerziale dell’inizio al Big Bang. Nulla infatti vieta di pensare che lo stato iniziale contenga già, prima della sua esplosione – e dunque in un tempo solo immaginario e non ancora reale –, tutte le informazioni necessarie a produrre l’esplosione stessa. Se il successivo processo entropico viene fatto regredire fino al grado zero, dove l’entropia è nulla ma le informazioni ci sono e contengono nel tempo immaginario la totalità delle cose che poi si svilupperanno nel tempo reale, è come se ci fosse dato di giungere al limite estremo dell’universo (per non dire dell’essere) e poi fare ancora un passo. Un passo a nord del Polo Nord, per usare la paradossale metafora di Hawking

Che cos’è questo? Un salto nel nulla? Un tentativo di costruire, nel cuore stesso del nulla, una postazione da cui osservare il prodursi della realtà, il suo venire alla luce, il suo offrirsi a uno sguardo capace di descriverne perfettamente la manifestazione? Certo è un salto nel grado zero della realtà. Diciamo pure: un salto nello zero. E allora perché stupirsi? Lo zero è un numero. Ma un numero straordinario. Simboleggia ciò che sta prima dell’uno, ma al tempo stesso contiene l’uno, se è vero che zero elevato a potenza zero dà uno. Contiene non solo quel che non è ancora ma addirittura quel che esso nega. Posto lo zero, è posto anche l’uno. E con l’uno la serie infinita dei numeri, con i numeri il prima e il dopo, vale a dire il tempo, col tempo la possibilità che le cose siano... Accade con il numero zero quel che accade con il concetto di nulla: ce ne serviamo per indicare una realtà negativa, realtà che non esiste, eppure grazie a essi compiamo operazioni altrimenti impossibili o riusciamo a pensare ciò che diversamente resterebbe impensato (l’indeterminazione, la libertà, e così via). 

Nondimeno... Se ci limitiamo a considerare lo zero un analogo del nulla, quasi che lo zero fosse in matematica quel che il nulla è in metafisica, perdiamo di vista la differenza essenziale. Lo zero è qualcosa. È un numero, appunto. Un simbolo. È qualcosa che ha pur sempre a che fare con qualcosa, anche quando questo qualcosa è una realtà puramente negativa o realtà che sta prima della realtà, come il tempo immaginario che sta prima del tempo reale.

Invece posto il nulla, non è posto alcunché [...]: il nulla non designa nulla e soprattutto non ha a che fare con dei fatti, ma semmai col senso o col non senso delle cose. Come quando dico: questo non significa nulla. Oppure: il nulla è il senso del tutto. Oppure: Dio ha tratto il mondo fuori dal nulla. Come intendere queste affermazioni?

In un solo modo, se si vuole evitare di cadere nell’assurdo: come affermazioni che non riguardano questo o quel fatto, né la totalità dei fatti, né l’essere, ma il senso dell’essere. Quando dico che Dio ha tratto il mondo fuori da nulla, non sto affatto descrivendo il processo che ha innescato il Big Bang, cioè una serie di fatti. Al contrario, sto dicendo (magari a torto, ma questo non è qui in discussione) che il mondo ha senso, visto che Dio, che poteva abbandonarlo al nulla, lo ha invece tratto fuori dal nulla e quindi lo ha “salvato”. Due piani, dunque, da tenere ben distinti. Per gli astrofisici si tratta di spiegare com’è fatto il mondo. Per i filosofi e per i teologi, se il mondo abbia o non abbia un senso. Chiamare o non chiamare Dio quel principio di spiegazione è irrilevante, così come è fuori luogo applicare a una teoria fisica la nozione di disegno salvifico o intelligente che sia.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:08 am | | Default

Lettera del cardinale vicario Agostino Vallini ai parroci dopo il Convegno diocesano 2014. Iniziazione cristiana, età della Cresima, Padrini e madrine, Catechesi e scuole cattoliche

Riprendiamo sul nostro sito la lettera inviata dal cardinale vicario Agostino Vallini ai parroci dopo il Convegno diocesano 2014.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2015)

Vicariato di Roma

Lettera del Cardinale Vicario ai Parroci dopo il Convegno diocesano 2014

Carissimi Parroci,

come promesso, vi scrivo per comunicarvi le indicazioni pastorali sulle questioni rimaste aperte al termine del Convegno del giugno scorso: “Un popolo che genera i suoi figli. Comunità e famiglia nelle grandi tappe dell’iniziazione cristiana”. Sono state maturate nel Consiglio dei Prefetti e vanno considerate nel contesto degli orientamenti di fondo del Convegno stesso, che tutti abbiamo condiviso e che è utile richiamare per cenni.

1/ La “maternità” della Chiesa nelle nostre comunità

L’Iniziazione cristiana è espressione e frutto della maternità della Chiesa. Adoperiamoci per far crescere la consapevolezza e la responsabilità che ogni comunità parrocchiale è “madre”. In un tempo di “orfananza” – come ci ha ricordato il Papa – la Chiesa vuole amare tutti e servire genitori e figli a vivere la fede. In questa prospettiva l’Eucarestia domenicale risplenda di bellezza e sia l’esperienza più alta della famiglia ecclesiale. I catechisti e ogni altro operatore pastorale esprimano la maternità della Chiesa e sostengano l’amore della comunità verso ogni suo figlio.

2/ L’ineludibile coinvolgimento della famiglia

Coinvolgere e accompagnare i genitori ad essere veri educatori è il fine a cui devono tendere gli itinerari di Iniziazione cristiana, quale sviluppo del cammino battesimale.

Un vero rinnovamento dell’Iniziazione cristiana parte dalla pastorale battesimale e post­battesimale. Chi chiede il Battesimo per il proprio bambino esprime, seppure implicitamente, il desiderio di essere accompagnato nella vita cristiana. È proprio nei primi anni di vita di un bambino che gli itinerari di fede per genitori sono orientati a dare un senso cristiano all’esistenza e non soltanto finalizzati alla celebrazione dei sacramenti. A tale scopo è indispensabile aumentare il numero dei catechisti del dopo-battesimo [1].

È importantissimo, però, coinvolgere le famiglie anche nelle grandi tappe della Prima Comunione e della Confermazione. Per i genitori che non hanno proseguito il cammino cristiano negli anni dopo il Battesimo, l’accompagnamento dei figli alla catechesi in parrocchia è una grande occasione per riscoprire la fede e farla maturare. Per questo il Convegno ha sottolineato l'urgenza di andare incontro alle esigenze delle famiglie, scegliendo anche orari e stili di incontri che facilitino la partecipazione - in particolare la domenica mattina o la sera dei giorni lavorativi - ascoltandole, incoraggiandole e proponendo esplicitamente la fede. Dove nascono gruppi di giovani famiglie, la vita della comunità si rinnova.

3/ La catechesi sia innanzitutto annunzio del Vangelo e “trafittura dei cuori”

Papa Francesco ha sottolineato che l’annuncio del kerygma deve essere l’elemento decisivo di una catechesi che sappia parlare al cuore facendo scoprire l’essenza del Vangelo e la bellezza della misericordia di Dio. Gli itinerari di Iniziazione cristiana siano con più evidenza annuncio della novità della fede anche per i genitori.

 Nella nostra diocesi esistono tante positive esperienze a cui fare riferimento. Incoraggio a sperimentare forme innovative di catechesi, nelle quali sacerdoti, catechisti e famiglie interagiscano, a farle conoscere e a dialogare su di esse a livello di prefetture. Queste esperienze siano coordinate dal Vescovo di Settore insieme all’Ufficio Catechistico del Vicariato.

Le tre questioni pratiche

Dopo aver ascoltato i suggerimenti dei Prefetti e tenuti presenti sia i documenti del Sinodo diocesano che la Nota del Consiglio Episcopale del 1° settembre 1998, mi pare di poter dare le seguenti indicazioni e orientamenti sulle tre questioni rimaste aperte:

-l’età della Cresima

-la questione dei padrini

-la preparazione ai sacramenti dell’Eucarestia e della Cresima degli alunni delle Scuole cattoliche.

1/ L’età della Cresima

Nelle varie Prefetture si registrano pareri diversi. La Nota del Consiglio Episcopale, La Cresima sigillo dello Spirito (1 settembre 1998) - un documento che vi invito a rileggere per i tanti buoni suggerimenti ivi contenuti – circa l’età della Cresima si esprime così: “E’ necessario che ogni parrocchia stabilisca e attui un progetto di formazione cristiana globale che copra l’arco dell’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, stabilita dal Sinodo dai 6 ai 14 anni circa” (p. 7).

I Prefetti hanno rilevato che, dove ci sono tradizioni consolidate in merito ad una determinata età della celebrazione del sacramento, non è opportuno intervenire con norme diverse: molto varie infatti sono le tradizioni delle comunità parrocchiali. Tuttavia si ritiene opportuno indicare un orientamento perché si cammini insieme verso la stessa meta.

a) Una corretta teologia della Cresima annuncia che con questo sacramento il Signore riconferma il dono fatto al momento del Battesimo, come un padre conferma il proprio figlio perché la sua esistenza sia considerata un bene e trovi il coraggio di donarsi agli altri. La Confermazione ha un valore peculiare che non può essere confuso con il dono dell’ammissione alla Mensa eucaristica. La crisi della Confermazione, con tanti ragazzi che hanno ricevuto la Prima Comunione e non ricevono la Cresima, è specchio di una società che non conferma più nel bene le nuove generazioni: le lascia “orfane”.

b) Dalle risposte al questionario sull’Iniziazione cristiana del 2011 è risultato che la maggior parte delle parrocchie (126 su 214 questionari ricevuti) celebra la Confermazione dei ragazzi tra la III media ed I anno delle superiori. Poiché una prassi unitaria aiuta tutti, rendendo il cammino pastorale di ogni parrocchia meno esposto a contestazioni, ogni cambiamento vada nella direzione di orientare la celebrazione della Confermazione a partire da quest’età (14anni) e non prima di essa.

c) È necessario essere fermi nello stabilire che per la tappa della Confermazione il tempo richiesto per la preparazione non sia inferiore a due anni, con l’eventuale aggiunta dei primi mesi dell’anno successivo, così come già chiedeva la citata Nota La cresima sigillo dello Spirito.

d) I due anni di preparazione siano proposti all’interno di un cammino continuato di Iniziazione cristiana. L’itinerario avvenga dentro una seria e libera esperienza di gruppo di adolescenti, da incoraggiare e sostenere molto.

e) È importante che le comunità parrocchiali coinvolgano i ragazzi, insieme ai giovani di qualche anno più grandi, nell’animazione di una Messa domenicale diversa da quella animata dai bambini.

f) I ragazzi vengano gradualmente coinvolti nei servizi di carità, in oratorio o in altra esperienza, mediante un cammino serio e gioioso di formazione, di preghiera e di vita di gruppo, dove ci si accoglie come fratelli e non solo come amici. I ragazzi attendono proposte alte e concrete che li aiutino a guardare con coraggio in avanti, nel periodo in cui desiderano staccarsi da tutte le modalità della loro infanzia.

g) Il cammino di gruppo negli anni delle superiori deve essere preparato negli anni dell’Iniziazione cristiana: un’esperienza bella ed attraente, vissuta fra la tappa dell’ammissione alla Mensa eucaristica e quella della Confermazione, incoraggerà la prosecuzione del cammino dopo la Confermazione.

h) Tutto ciò non è facile, ma è appassionante. Le esperienze offerte dal Servizio di pastorale vocazionale, dal Servizio di pastorale giovanile, come quelle sperimentate dal Cammino Neocatecumenale, dal Centro Oratori Romani e dall’Azione Cattolica, con i campi estivi di formazione, ci incoraggiano a proseguire su questa via.

i) L’Ufficio Catechistico ha iniziato a pubblicare dei video per la formazione dei catechisti con specifica attenzione ad un rinnovamento degli itinerari della tappa della Confermazione. Inoltre, l’iniziativa della Festa dei cresimandi a maggio e il Pellegrinaggio notturno dei cresimati ad ottobre sono altre due occasioni preziose per aiutare i ragazzi a scoprire la loro appartenenza alla Chiesa diocesana.

l) L’Ufficio di Pastorale scolastica e per l’Insegnamento della Religione Cattolica è disponibile perché maturi nelle comunità parrocchiali un confronto più approfondito fra catechisti della Confermazione e gli Insegnanti di Religione, nel rispetto dei diversi ruoli, per essere sempre più al servizio della crescita dei ragazzi.

2/ La questione dei padrini

Conosco bene le difficoltà e anche le angustie di coscienza che i parroci vivono nell’ammettere come padrini o madrine persone che, secondo le norme della Chiesa, non sono idonei. D’altra parte non è in mio potere abolire i padrini, come alcuni suggeriscono. Comunque, resta fermo quanto stabilisce il can. 892, secondo il quale il confermando, “per quanto è possibile”, può essere assistito da un padrino[2]. In attesa di eventuali orientamenti che potranno venire dal Sinodo del prossimo ottobre su La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo, è necessario adottare una sana prudenza pastorale che rifugga sia da lassismi che da durezze inopportune.

Una proposta molto opportuna è quella di incoraggiare i ragazzi e le loro famiglie a scegliere madrine e padrini idonei fin dall’inizio del cammino della tappa della Confermazione, senza attendere gli ultimi momenti quando la celebrazione è ormai vicina. Si potranno così aiutare i ragazzi e le famiglie a riflettere sul ruolo dei padrini e a suggerire come orientarsi nella scelta.

3/ L’Iniziazione cristiana e le Scuole cattoliche

Le Scuole cattoliche sono opere della comunità ecclesiale e come tali preziosi ambienti di vita nei quali può maturare la fede dei ragazzi. La Chiesa diocesana esprime riconoscenza per il lavoro che esse svolgono, oggi in particolare tra tante difficoltà, ed incoraggia la collaborazione feconda con le parrocchie per proporre vere esperienze ecclesiali, attraverso la qualità della formazione scolastica e cristiana.

Per l’Iniziazione cristiana dei loro alunni il Sinodo diocesano aveva stabilito: “Le scuole cattoliche… assicurino la partecipazione dei fanciulli e dei ragazzi agli itinerari di catechesi e di iniziazione sacramentale predisposti dalle comunità parrocchiali, salvo i casi dove esistono oggettive condizioni di supplenza e particolari situazioni riconosciute e approvate dal Vescovo Ausiliare… in tali circostanze la preparazione avvenga fuori dell’orario scolastico e mantenga uno stretto raccordo con le parrocchie dei ragazzi”[3].

Queste indicazioni restano in vigore. Nondimeno in questi ultimi vent’anni la situazione pastorale si è significativamente modificata e non possiamo non tenerne conto. I ritmi quotidiani di vita delle famiglie sono sempre più serrati e costringono spesso i genitori a vivere l’intera giornata lontano da casa e quindi a scegliere per i figli, anche per questo motivo, scuole fuori del territorio parrocchiale e ad orario prolungato. Il numero delle Prime Comunioni e ancor più delle Cresime registra una netta flessione, mentre cresce quello dei ragazzi che in ogni caso non frequentano le parrocchie, e per i quali la scuola cattolica può rappresentare l’unico contatto con la Chiesa. Inoltre è sempre più frequente la circostanza di ragazzi non battezzati che, in occasione dei sacramenti della Prima Comunione e della Cresima dei compagni di classe, chiedono i sacramenti.

 Tutto ciò considerato, sembra ragionevole consentire, in via eccezionale e previa autorizzazione del Vescovo Ausiliare, itinerari di Iniziazione cristiana anche nelle Scuole cattoliche che lo richiedano. In questi casi vanno assicurate le seguenti condizioni:

-poiché non è infrequente che la gestione della scuola sia stata ceduta ad altri soggetti, si richiede previamente la verifica della denominazione di “Scuola cattolica” da parte del competente Ufficio del Vicariato;

-la Scuola cattolica procuri di essere inserita organicamente nel cammino pastorale del territorio, attraverso la comunicazione, la collaborazione e l’intesa con il Parroco e con il Prefetto;

-gli itinerari di Iniziazione cristiana si svolgano in sintonia con quelli della parrocchia territoriale e non in forma autonoma;

-gli itinerari non si limitino alla catechesi scolastico-dottrinale, ma curino la formazione e l’esperienza dell’intera vita cristiana (catechesi, liturgia, carità) all’interno di un progetto con una seria fondazione della credibilità e della bellezza della fede e dei suoi contenuti, guidato da un centro pastorale. A tal fine, è bene proporre ai ragazzi attività di servizio caritativo o di volontariato, anche nel periodo estivo;

-per non confonderli con l’attività scolastica, gli itinerari siano metodologicamente distinti dall’insegnamento scolastico della Religione Cattolica e siano svolti in orari differenti da quelli delle lezioni;

-è compito della Scuola cattolica, che si assume l’onere e l’onore di proporre l’Iniziazione cristiana, di curare che sia offerta ai ragazzi e alle loro famiglie l’opportunità di partecipare stabilmente all’Eucarestia domenicale nella scuola stessa o nelle parrocchie di appartenenza;

-nel caso in cui i ragazzi non risiedono nel territorio parrocchiale dove ha sede la scuola - il che vale soprattutto per gli alunni delle scuole medie superiori - le Scuole cattoliche curino, per quanto è possibile, di stabilire rapporti con le parrocchie di appartenenza degli alunni al fine di incoraggiare la partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale e soprattutto l’inserimento in esse degli alunni al termine degli anni di frequenza alla scuola stessa.

-i catechisti, per quanto possibile, siano diversi dai docenti dei ragazzi, perché essi non abbiano mai da temere alcunché per un equivoco scambio di ruoli. Siano adeguatamente preparati, secondo le linee e i programmi del Vicariato, partecipino alla vita ecclesiale e diano buona testimonianza di vita cristiana.

Su tutto quanto precede, il Vescovo Ausiliare, coadiuvato dall’Ufficio Scuola e dall’Ufficio Catechistico del Vicariato, favorisca l’armonia tra la parrocchia e la comunità educante scolastica e vigili sull’effettiva collaborazione, promuovendo, per quanto è possibile, iniziative congiunte.

Carissimi Parroci, vi ringrazio tanto dell’impegno per rinnovare gli itinerari di Iniziazione cristiana. Il Signore benedica voi, i ragazzi e le loro famiglie, insieme con i catechisti, preziosi vostri collaboratori nella trasmissione della fede.

Dal Vicariato, 25 gennaio 2015

Agostino Card. Vallini

Vicario Generale del Santo Padre per la Diocesi di Roma

Note al testo

[1] L’Ufficio Catechistico ha pubblicato ad experimentum l’ultima parte del Sussidio di accompagnamento delle famiglie dopo il Battesimo. Questa IV parte del sussidio si aggiunge alle altre tre già rese disponibili: si intitola «Quando tuo figlio ti domanderà ...» (Dt 6,20) ed è rivolto alle famiglie con figli da 3 a 6 anni (lo si trova on-line sul sito dell’Ufficio catechistico).

[2] Codice di Diritto Canonico, can. 892: “Il confermando sia assistito per quanto è possibile dal padrino, il cui compito è provvedere che il confermando si comporti come vero testimone di Cristo e adempia fedelmente gli obblighi inerenti allo stesso sacramento”.

[3] Libro del Sinodo, I parte, cap. 2, p. 136.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 12 Ottobre 2015 - 09:07 am | | Default

Avviso ai bisomici, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo sul nostro sito una traduzione apparsa su di un Profilo FB dell’articolo scritto da Fabrice Hadjadj sull’Echo magazine de Genève il 6/8/2014 e ripubblicato su diversi blog dopo che Charlie Hebdo in prima pagina aveva utilizzato un riferimento alla trisomia 21 per deridere una persona. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (8/10/2015)

Il grande rabbino Abraham Karelitz si alzava e si scopriva il capo ogni qual volta vedeva una persona affetta da trisomia 21. — Perché le accordate onori che rifiutate ai grandi di questo mondo? gli domandavano — Perché, rispondeva lui, se Dio non ha concesso a questa persona una così grande capacità di studiare la Torah è perché è già più perfetta e più avanzata di me nel cammino della santità.

Noi abbiamo dimenticato questa lezione. Trattiamo i bambini trisomici con la stessa bontà con cui fino a poco tempo fa si trattavano gli ebrei, giudicati come dei parassiti e degli Untermenschen [sub-umani]. Li bracchiamo, li rintracciamo, li sterminiamo. Ciò è meno evidente perché la stanza della morte è il ventre di una povera madre consenziente, reclutata dal culto della performance.

Che volete mai? Il suo piccolo non avrebbe avuto altro che la gioia di vivere, e non l’orgoglio di riuscire. Sarebbe stato solamente umano, e non un grande squalo della finanza. Non sarebbe andato all’Alta Scuola di Commercio né al Politecnico, avrebbe soltanto riso, pianto, giocato, strapazzato le buone maniere, si sarebbe buttato tra le braccia di sconosciuti, avrebbe posto domande sconcertanti, metafisiche...  Avrebbe anche pregato con cuore semplice, e questo è terribile poiché bisogna avere il cuore duro e calpestare i propri concorrenti.
— Andiamo, smettetela con la vostra ironia, sarebbe stato infelice. Avrebbe sofferto!
Voi credete dunque che avrebbe sofferto più di qualunque altro individuo sano, prima o poi, e soprattutto verso la fine? Pensate che sarebbe stato più infelice di tutti quei tristi padroni del mondo che si sono raffinati nella menzogna, che si appropriano indebitamente di fondi e fanno orgie di viagra?
— Ma non sarebbe stato un bambino come gli altri.
— Sarebbe stato più bambino degli altri
. Perché in sé portava l'infanzia eterna. Sì, eliminare un piccolo trisomico è essere due volta infanticida.
Uno sconvolgente spot intitolato «Dear future mom» (5 milioni di visualizzazioni su Youtube), e diffuso su TF1, Canal+, M6, ecc., presenta dei giovani trisomici nell’atto di rivolgersi a una madre che potrebbe portare in grembo uno di loro, e le confidano di vivere una vera vita, con le sue sofferenze e le sue gioie... Ma questo messaggio non è piaciuto al big boss del Big Brother, come chiamo il Consiglio Superiore per la Radiotelevisione. Lo scorso 25 luglio ha dichiarato che come «pubblicità progresso» quello spot rischiava di «non suscitare un’adesione spontanea e unanime». Credevo che un simile genere di adesione fosse riservato alle bestie, che agiscono per istinto. Ma no, deve essere l’adesione dei telespettatori bisomici, i quali però si ritengono superiori ai loro fratelli trisomici.

Dear Future Mom

Redazione de Gliscritti | Giovedì 08 Ottobre 2015 - 11:21 pm | | Default
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«Per Dio il matrimonio non è utopia adolescenziale, ma un sogno senza il quale la sua creatura sarà destinata alla solitudine! Infatti la paura di aderire a questo progetto paralizza il cuore umano». Papa Francesco nell’apertura del Sinodo dei vescovi sulla famiglia

Riprendiamo sul nostro sito l'omelia tenuta da papa Francesco nella XXVII domenica del Tempo Ordinario, 4 ottobre 2015, per l’apertura della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, nella Basilica Vaticana. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

«Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,12).

Le Letture bibliche di questa domenica sembrano scelte appositamente per l’evento di grazia che la Chiesa sta vivendo, ossia L’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema della famiglia che con questa celebrazione eucaristica viene inaugurata.

Esse sono incentrate su tre argomenti: il dramma della solitudine, l’amore tra uomo-donna e la famiglia.

La solitudine

Adamo, come leggiamo nella prima Lettura, viveva nel Paradiso, imponeva i nomi alle altre creature esercitando un dominio che dimostra la sua indiscutibile e incomparabile superiorità, ma nonostante ciò si sentiva solo, perché «non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gen 2,20) e sperimentò la solitudine.

La solitudine, il dramma che ancora oggi affligge tanti uomini e donne. Penso agli anziani abbandonati perfino dai loro cari e dai propri figli; ai vedovi e alle vedove; ai tanti uomini e donne lasciati dalla propria moglie e dal proprio marito; a tante persone che di fatto si sentono sole, non capite e non ascoltate; ai migranti e ai profughi che scappano da guerre e persecuzioni; e ai tanti giovani vittime della cultura del consumismo, dell’usa e getta e della cultura dello scarto.

Oggi si vive il paradosso di un mondo globalizzato dove vediamo tante abitazioni lussuose e grattacieli, ma sempre meno il calore della casa e della famiglia; tanti progetti ambiziosi, ma poco tempo per vivere ciò che è stato realizzato; tanti mezzi sofisticati di divertimento, ma sempre di più un vuoto profondo nel cuore; tanti piaceri, ma poco amore; tanta libertà, ma poca autonomia… Sono sempre più in aumento le persone che si sentono sole, ma anche quelle che si chiudono nell’egoismo, nella malinconia, nella violenza distruttiva e nello schiavismo del piacere e del dio denaro.

Oggi viviamo, in un certo senso, la stessa esperienza di Adamo: tanta potenza accompagnata da tanta solitudine e vulnerabilità; e la famiglia ne è l’icona. Sempre meno serietà nel portare avanti un rapporto solido e fecondo di amore: nella salute e nella malattia, nella ricchezza e nella povertà, nella buona e nella cattiva sorte. L’amore duraturo, fedele, coscienzioso, stabile, fertile è sempre più deriso e guardato come se fosse roba dell’antichità. Sembrerebbe che le società più avanzate siano proprio quelle che hanno la percentuale più bassa di natalità e la percentuale più alta di aborto, di divorzio, di suicidi e di inquinamento ambientale e sociale.

L’amore tra uomo e donna

Leggiamo ancora nella prima Lettura che il cuore di Dio rimase come addolorato nel vedere la solitudine di Adamo e disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18). Queste parole dimostrano che nulla rende felice il cuore dell’uomo come un cuore che gli assomiglia, che gli corrisponde, che lo ama e che lo toglie dalla solitudine e dal sentirsi solo. Dimostrano anche che Dio non ha creato l’essere umano per vivere in tristezza o per stare solo, ma per la felicità, per condividere il suo cammino con un’altra persona che gli sia complementare; per vivere la stupenda esperienza dell’amore: cioè amare ed essere amato; e per vedere il suo amore fecondo nei figli, come dice il salmo che è stato proclamato oggi (cfr Sal 128).

Ecco il sogno di Dio per la sua creatura diletta: vederla realizzata nell’unione di amore tra uomo e donna; felice nel cammino comune, feconda nella donazione reciproca. È lo stesso disegno che Gesù nel Vangelo di oggi riassume con queste parole: «Dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne» (Mc 10,6-8; cfr Gen 1,27; 2,24).

Gesù, di fronte alla domanda retorica che Gli è stata fatta – probabilmente come un tranello, per farLo diventare all’improvviso antipatico alla folla che lo seguiva e che praticava il divorzio come realtà consolidata e intangibile –, risponde in maniera schietta e inaspettata: riporta tutto all’origine, all’origine della creazione, per insegnarci che Dio benedice l’amore umano, è Lui che unisce i cuori di un uomo e una donna che si amano e li unisce nell’unità e nell’indissolubilità. Ciò significa che l’obiettivo della vita coniugale non è solamente vivere insieme per sempre, ma amarsi per sempre! Gesù ristabilisce così l’ordine originario ed originante.

La famiglia

«Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10,9). È una esortazione ai credenti a superare ogni forma di individualismo e di legalismo, che nascondono un gretto egoismo e una paura di aderire all’autentico significato della coppia e della sessualità umana nel progetto di Dio.

Infatti, solo alla luce della follia della gratuità dell’amore pasquale di Gesù apparirà comprensibile la follia della gratuità di un amore coniugale unico e usque ad mortem.

Per Dio il matrimonio non è utopia adolescenziale, ma un sogno senza il quale la sua creatura sarà destinata alla solitudine! Infatti la paura di aderire a questo progetto paralizza il cuore umano.

Paradossalmente anche l’uomo di oggi – che spesso ridicolizza questo disegno – rimane attirato e affascinato da ogni amore autentico, da ogni amore solido, da ogni amore fecondo, da ogni amore fedele e perpetuo. Lo vediamo andare dietro agli amori temporanei ma sogna l’amore autentico; corre dietro ai piaceri carnali ma desidera la donazione totale.

Infatti, «ora che abbiamo pienamente assaporato le promesse della libertà illimitata, cominciamo a capire di nuovo l’espressione “tristezza di questo mondo”. I piaceri proibiti hanno perso la loro attrattiva appena han cessato di essere proibiti. Anche se vengono spinti all’estremo e vengono rinnovati all’infinito, risultano insipidi perché sono cose finite, e noi, invece, abbiamo sete di infinito» (Joseph Ratzinger, Auf Christus schauen. Einübung in Glaube, Hoffnung, Liebe, Freiburg 1989, p. 73).

In questo contesto sociale e matrimoniale assai difficile, la Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella fedeltà, nella verità e nella carità. Vivere la sua missione nella fedeltà al suo Maestro come voce che grida nel deserto, per difendere l’amore fedele e incoraggiare le numerosissime famiglie che vivono il loro matrimonio come uno spazio in cui si manifesta l’amore divino; per difendere la sacralità della vita, di ogni vita; per difendere l’unità e l’indissolubilità del vincolo coniugale come segno della grazia di Dio e della capacità dell’uomo di amare seriamente.

La Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella verità che non si muta secondo le mode passeggere o le opinioni dominanti. La verità che protegge l’uomo e l’umanità dalle tentazioni dell’autoreferenzialità e dal trasformare l’amore fecondo in egoismo sterile, l’unione fedele in legami temporanei. «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità» (Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 3).

E la Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella carità che non punta il dito per giudicare gli altri, ma –  fedele alla sua natura di  madre – si sente in dovere di cercare e curare le coppie ferite con l’olio dell’accoglienza e della misericordia; di essere “ospedale da campo”, con le porte aperte ad accogliere chiunque bussa chiedendo aiuto e sostegno; di più, di uscire dal proprio recinto verso gli altri con amore vero, per camminare con l’umanità ferita, per includerla e condurla alla sorgente di salvezza.

Una Chiesa che insegna e difende i valori fondamentali, senza dimenticare che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27); e che Gesù ha detto anche: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). Una Chiesa che educa all’amore autentico, capace di togliere dalla solitudine, senza dimenticare la sua missione di buon samaritano dell’umanità ferita.

Ricordo san Giovanni Paolo II quando diceva: «L’errore e il male devono essere sempre condannati e combattuti; ma l’uomo che cade o che sbaglia deve essere compreso e amato […] Noi dobbiamo amare il nostro tempo e aiutare l’uomo del nostro tempo» (Discorso all’Azione Cattolica Italiana, 30 dicembre 1978: Insegnamenti I [1978], 450). E la Chiesa deve cercarlo, accoglierlo e accompagnarlo, perché una Chiesa con le porte chiuse tradisce sé stessa e la sua missione, e invece di essere un ponte diventa una barriera: «Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli» (Eb 2,11).

Con questo spirito chiediamo al Signore di accompagnarci nel Sinodo e di guidare la sua Chiesa per l’intercessione della Beata Vergine Maria e di san Giuseppe, suo castissimo sposo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:43 pm | | Default

1/ La teoria del gender esiste ed è presente nella “Buona scuola”: lo afferma sulle reti nazionali la stessa Valeria Fedeli, promotrice di una legge in merito. Alcune considerazioni sulla maggiore importanza della questione dell’omoparentalità o omogenitorialità rispetto alla questione se esita o meno una teoria del gender, di Giovanni Amico 2/ Gender, un problema che non riguarda solo la scuola, di Massimo Introvigne

1/ La teoria del gender esiste ed è presente nella “Buona scuola”: lo afferma sulle reti nazionali la stessa Valeria Fedeli, promotrice di una legge in merito. Alcune considerazioni sulla maggiore importanza della questione dell’omoparentalità o omogenitorialità rispetto alla questione se esita o meno una teoria del gender, di Giovanni Amico

Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

È veramente buffo - il termine è scelto per non essere maleducati! - come alcune personalità politiche oscillino fra il dichiarare che non esiste alcuna “teoria gender” e l’affermazione contraria che essa esiste e che deve entrare nei programmi scolastici, anzi vi sarebbe già entrata con la “Buona scuola”, come afferma questa volta la stessa senatrice Valeria Fedeli, vice-presidente del Senato e promotrice di una delle tre proposte di legge relative al gender in discussione in Parlamento, a Radiodue nella trasmissione Un giorno da pecora del 28/9/2015.

Valeria Fedeli a Un Giorno da Pecora, 28 settembre 2015

Ovviamente tali politici hanno alle spalle non solo i gruppi che spingono in direzione di una svolta che dia priorità al genere sul sesso, ma anche docenti universitari che cercano di fondare scientificamente tale primato (si veda, fra tutti, Vittorio Lingiardi che nel volume La personalità e i suoi disturbi (scritto insieme a Francesco Gazzillo, Raffaello Cortina Editore, 2014) dedica l’intero ottavo capitolo al tema, sostenendo che ciò che è decisivo nello sviluppo personale è l’identità di genere, che è diversa sia dal dato biologico, sia dal ruolo di genere, sia dall’orientamento sessuale della persona; a suo dire sono gli omofobi la categoria di pazienti che manifesta un disagio psichico bisognoso di cura psicologica (la categoria degli omofobi viene ad includere secondo l'autore anche coloro che danno invece priorità al sesso sul genere).

A noi sembra che ci vorrà molto tempo per giungere ad un consenso scientifico veramente fondato e che una maggiore prudenza sul tema sarebbe davvero consigliabile, se non si vuole essere presto smentiti. Ci sembra che l’Italia sia molto più avanti di diversi paesi del Nord Europa e del Nord America che hanno aperto senza discutere agli effetti civili che vengono fatti discendere apoditticamente dalle cosiddette “teorie di genere”, dimenticando che la maggioranza dei paesi europei, si vedano ad esempio i paesi dell’est, ma ancor più la maggioranza dei paesi del mondo, sono assolutamente contrari a tali posizioni (non si dimentichi che papa Francesco utilizza in proposito il termine “colonizzazione ideologica”, collegando la teoria del gender alle visioni eurocentriche che tanto male hanno fatto in età colonialista per la pretesa occidentale di dettare legge al mondo intero su tali materie).

La nostra nazione si rivela ancora una volta più equilibrata di altri paesi. Non è per niente in ritardo, bensì sta cercando una via italiana, come sempre più moderata, proprio perché più seria nel considerare le evidenti esagerazioni di chi passa senza colpo ferire da una pacata riflessione psicologica sull’importanza del genere a sventolare presunti diritti alla paternità ed alla maternità, senza minimamente prendere in considerazioni eventuali diritti dei nascituri e dei bambini.

Le posizioni politiche dei diversi partiti italiani stanno rapidamente evolvendo verso l’affermazione di una netta differenziazione fra l’istituto della famiglia e una qualsivoglia regolamentazione che preveda diritti e doveri di coppie dello stesso sesso.

Proprio la questione dei figli sembra essere il punto di discrimine, poiché nell’istituto familiare la disponibilità a generare bambini è condizione essenziale dell’istituto stesso, mentre i diversi partiti italiani si stanno orientando non solo a non pretendere la disponibilità alla generazione come condizione per il riconoscimento di una coppia omosessuale, ma, molto di più, ad escludere il fatto stesso di una doppia paternità o maternità, vietando il cosiddetto “utero in affitto”.

Ci sembra che decisivo sia, da un punto di vista politico, soffermarsi allora sulla questione della cosiddetta omoparentalità o omogenitorialità.

Un bambino ha diritto a non essere obbligato a chiamare madre la compagna della madre o padre il compagno del padre. Come ogni minorenne deve essere educato all’amore al proprio genitore e, quindi, al rispetto delle scelte del suo genitore, ma non deve essere obbligato ad utilizzare terminologie come “ho due papà”, oppure “ho due mamme”, contrarie alla verità dei fatti.

Potrà così voler bene alla compagna della mamma, potrà così avere rispetto e non inimicizia verso di lei (lo stesso dicasi se vivrà con suo padre e con il compagno del padre stesso), ma lo stesso cercare anche solo inconsciamente – poiché non si deve dimenticare che l’inconscio esiste – altrove la figura paterna o quella materna di cui è mancante

2/ Gender, un problema che non riguarda solo la scuola, di Massimo Introvigne

Riprendiamo da Il Messaggero del 17/9/2015 un articolo scritto da Massimo Introvigne. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

Il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini ha inviato una circolare alle scuole italiane per precisare che «la teoria del gender non rientra nei programmi scolastici» ai sensi della legge sulla "Buona scuola", e in un'intervista ha parlato di «truffa culturale perpetrata da chi insiste che la teoria, in quei programmi, c'è». Ha ragione? Ha torto?

Si deve dare atto al ministro Giannini di non essersi mai appassionata, a differenza di altri politici italiani, all'uso delle scuole come «campi di rieducazione» alla teoria del gender: l'espressione è del cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, ma è stata ripresa e fatta propria da Papa Francesco in un discorso dell'11 aprile 2015. Il ministro, inoltre, si era impegnata, di fronte al Parlamento, quando la "Buona scuola" fu approvata, a intervenire presso i presidi precisando che la legge non doveva essere usata per introdurre nelle scuole propaganda a favore della teoria del gender. Con la circolare rispetta questo impegno, e fa bene.

Parlando di «truffa culturale» c'è però il rischio che la Giannini sia arruolata, forse contro le sue intenzioni, nel partito - in cui militano alcuni suoi collaboratori - di chi sostiene che la teoria del gender «non esiste» ed è una «invenzione del Vaticano» o di Papa Francesco, che l'ha denunciata una decina di volte definendola durante la sua visita a Napoli un «errore della mente umana».

No, la teoria del gender esiste, è nata negli Stati Uniti proprio con questo nome, ed è la teoria che distingue il genere, maschile o femminile, che ciascuno potrebbe liberamente scegliersi, dal sesso biologico, determinato dall'anatomia per cui nasciamo maschio o femmina con certe caratteristiche evidenti. Certamente ci sono versioni diverse della teoria del gender, da quelle pionieristiche di Margaret Sanger alla versione classica di Simone de Beauvoir e a quella più radicale di Judith Butler, che assorbe totalmente il sesso nel genere.

Ma il nucleo è sempre lì, ed è bene espresso in un documento, che lo promuove, di un organismo governativo italiano, l'Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale (Unar), nelle sue linee guida per i giornalisti intese a evitare la discriminazione degli omosessuali. Qui si parla del «senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna». Ovvero ciò che permette a un individuo di dire: «Io sono un uomo, io sono una donna», indipendentemente dal sesso anatomico di nascita. La possibilità di definirsi uomo o donna indipendentemente dalle caratteristiche anatomiche è appunto il cuore della teoria del gender. E la teoria è accolta anche da sentenze italiane che ammettono la possibilità di cambiare sesso all'anagrafe sulla base di un semplice: «sentirsi» uomo o donna, anche qui prescindendo totalmente dall'anatomia.

Che c'entra il gender con la "Buona scuola"? Che l'allarme non fosse totalmente infondato lo ha ammesso la stessa Giannini in Parlamento, promettendo l'intervento che ha ora messo in atto, e la Camera, su iniziativa dei deputati Roccella e Pagano, ha approvato insieme con la "Buona scuola" un ordine del giorno che ha impegnato il governo, nell'applicazione della legge, «ad escludere ogni interpretazione che apra alle cosiddette "teorie del gender?"».

Dov'era il problema? Nella norma della legge sulla "Buona scuola", che chiede di promuovere nelle scuole iniziative per studenti, docenti e genitori «sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119». Queste «tematiche» sono indicate dalla legge 119, quella sul cosiddetto femminicidio, con riferimento, tra l'altro, all'esigenza di «superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell'essere donne e uomini, ragazzi e ragazze, bambine e bambini nel rispetto dell'identità di genere». Certo, le leggi sono sempre interpretabili, ma non è poi così difficile leggere in questa norma un invito a superare lo «stereotipo» secondo cui si è uomini o donne in relazione a un dato anatomico insuperabile: e questo «superamento» è appunto l'essenza della teoria del gender.

Il problema non è nato con la "Buona scuola". Se anche la legge sulla "Buona scuola" fosse abrogata rimarrebbero la legge sul femminicidio, i piani anti-discriminazione, le attività dell'Unar: tutte cose in gran parte antecedenti al governo Renzi. È contro una dinamica quotidiana di penetrazione del gender nelle scuole che tanti genitori protestano e un milione di persone sono andate in piazza il 20 giugno a Roma. Non si tratta di politicizzare lo scontro o di prendersela con il ministro Giannini, che si è impegnata a cercare di frenare la deriva. Ma anche il ministro e il Ministero farebbero bene a prendere atto che il problema esiste, lasciando ai propagandisti più ideologizzati tesi bizzarre come quella, davvero esotica, secondo cui a non esistere sarebbe la stessa teoria del gender.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:42 pm | | Default

1/ Naledi. L’antenato che viene dal Pleistocene, di Fiorenzo Facchini 2/ Preistoria: l’«uomo di Naledi» aveva un’anima?, di Fiorenzo Facchini

1/ Naledi. L’antenato che viene dal Pleistocene, di Fiorenzo Facchini

Riprendiamo da Avvenire dell’11/9/2015 un articolo di Fiorenzo Facchini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione L'uomo e le sue origini nella sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

L’albero genealogico dell’umanità si è arricchito di un nuovo rappresentante: l’Homo naledi. È stato trovato in una grotta del Sudafrica, non molto lontano da giacimenti preistorici già noti per avere fornito reperti riferibili ad Australopiteci (Sterkfontein, Swartkrans). Non è stata effettuata ancora una datazione assoluta dei reperti, ma si tratterebbe di un giacimento plio-pleistocenico e potrebbero riferirsi, secondo la prime notizie, a 2,5 milioni di anni fa, un’epoca in cui il genere Homo era presente in alcune regioni dell’Africa, ma più a nord (Malawi, Tanzania, Kenya, Etiopia), nella forma di Homo habilis, ben conosciuto ai paleoantropologi, vissuto 2-2,5 milioni di anni fa, e ritenuto da molti rappresentante dei primi uomini a motivo di vari aspetti morfologici che la distaccano dalle forme australopitecine e soprattutto per la produzione sistematica dell’industria su ciottolo (chopper e chopping tools). Homo naledi sarebbe una forma diversa o potrebbe assimilarsi all’habilis? Bisognerà attendere studi morfologici completi, anche se al momento si preferisce distinguerlo.

La denominazione: Homo naledi, si riallaccia alla parola 'naledi' che significa 'stella' in linguaggio locale, per il fatto che il sistema di caverne in cui è stato trovato si chiama Rising star. Questo antenato africano è rappresentato dai resti di bambini e adulti, trovati nella grotta nel corso di due spedizioni (nel novembre 2013 e nel marzo 2014). Si tratta di 1550 reperti riferibili a 15 individui.

Homo naledi poteva avere una statura di 150 cm, un peso di 45 chilogrammi. Le dimensioni del cervello sarebbero di poco superiori a quelle dello scimpanzé. Ma questo non sarebbe un grosso problema, perché anche Homo habilis non aveva una grande capacità cranica. Anche l’uomo di Flores e di Dmanissi (di 1,8 milioni di anni fa, trovato in Georgia), avevano una bassa capacità cranica.

Non sono segnalate con il nuovo reperto industrie litiche, a differenza degli altri giacimenti di Homo abilis sopra ricordati. La presenza di molti individui nella medesima cavità indurrebbe a pensare a un trattamento dei defunti, che porterebbe a epoche molto antiche le pratiche tafonomiche, di cui andrebbe cercato il possibile valore simbolico. Quale scenario deposizionale si possa immaginare per i numerosi reperti trovati nella 'Dinaledi Chamber' della caverna è per ora oggetto di ipotesi. Come sono andati a finire in quella grotta? Occorre andare molto cauti nelle interpretazioni, esaminare bene i reperti e vedere se possono esserci tracce di trattamenti particolari.

Sarà interessante il confronto con altre serie preistoriche, come quella del sito di Atapuerca, in Spagna (una grotta di 400.000 anni fa), dove è stato trovato un pozzo con numerose ossa di vari individui. Come pure sarà interessante il confronto con i reperti neandertaliani del giacimento di Krapina (Croazia), di 130.000 anni fa, che presentano anche tracce di cannibalismo. Si apre il campo per le diverse ipotesi. L’uomo Naledi si aggiungerebbe ad altri reperti del genere Homo descritti ai primordi della umanità: Homo habilis, Homo rudolfensis, Homo ergaster, Homo erectus, Homo floresiensis. Dunque una nuova specie umana? Parlare di specie per l’uomo preistorico è sempre problematico e discutibile. È un modo convenzionale per segnalare rappresentanti dell’umanità con qualche aspetto particolare, ma deve essere preso con beneficio di inventario, quasi a indicare una forma con qualche variazione rispetto ad altre più note.

Per il ritrovamento di Naledi va rilevata l’assenza di strumenti litici, che però, se la grotta non è stata abitata dall’uomo, non è un motivo per escludere uno psichismo umano. Caso mai potrebbe essere proprio il trasferimento di resti umani in un luogo protetto un motivo per attribuire i reperti a un ominide fornito di psichismo umano. Il materiale scheletrico è stato elencato, ma non ancora studiato. Elemento decisivo per una plausibile interpretazione resta la datazione, l’epoca a cui i reperti vanno attribuiti. Ma la loro numerosità e le condizioni del ritrovamento li rendono comunque di sicuro interesse dal punto di vista paleoantropologico e culturale.

Homo Naledi

Si tratta di oltre 1500 reperti ossei relativi ad almeno 15 individui di varie età. Alto circa un metro e mezzo, l’Homo Naledi, dal nome del luogo del ritrovamento, aveva gambe lunghe, mani con dita ricurve, piedi simili ai nostri e un cervello di dimensioni ridotte. I resti erano disposti in modo tale da far pensare a una deliberata abitudine a disporre dei corpi dopo la morte da parte di un ominide fornito di psichismo umano.

Per formulare ipotesi concrete sono però necessari accertamenti scientifici più approfonditi.

2/ Preistoria: l’«uomo di Naledi» aveva un’anima?, di Fiorenzo Facchini

Riprendiamo da Avvenire del 25/9/2015 un articolo di Fiorenzo Facchini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

I reperti di Homo Naledi, scoperto in una grotta nel Sud Africa e vissuto due milioni e mezzo di anni fa, sono stati annunciati con grande enfasi dai media nei giorni scorsi come una nuova specie umana. Qualcuno si è chiesto: con questa scoperta cambia qualcosa nella paleoantropologia? Cambia qualcosa per la visione cristiana delle origini dell’uomo?

Sono domande legittime che possiamo porci.

Per rispondere alla prima domanda occorrerebbe una collocazione cronologica più precisa. Manca invece una datazione assoluta. Ciò rende problematica ogni interpretazione, che sarebbe di incomparabile interesse data la numerosità dei reperti. Certamente se essi risalissero all’epoca indicata, la presenza del genere Homo in Sud Africa sarebbe più antica di quanto finora si conosce in base a qualche reperto del genere Homo (habilis) segnalato in altri siti, quali Sterkfontein (Stw53) e Drimolen, di 1,5-2 milioni di anni, per avvicinarsi a quella di Homo habilis/ rudolfensis di 2-2,5 milioni di anni fa, trovato però più a nord (Tanzania, Kenya Etiopia).

Inoltre viene da chiedersi se il centro sudafricano di ominizzazione sia autonomo o dipenda da quelli più a nord; una ipotesi che forse resta più probabile, a motivo della ricca documentazione nella fase preumana e in quella umana per quelle regioni. La Rift Valley, secondo le vedute di Yves Coppens sulla East Side Story, resterebbe ancora il bacino privilegiato per le origini dell’uomo, con la formazione di un ambiente aperto a seguito del diradarsi della foresta nelle regioni orientali della Valle del Rift.

Qualche aspetto di primitività (bassa capacità cranica, dita alquanto ricurve, attitudine anche arrampicatoria), descritti per Homo Naledi, unitamente ad altri più evoluti (cranio globulare, mano capace di usare strumenti), si adatterebbe bene a epoca molto antica e alle prime fasi della ominizzazione. Un altro problema che si pone è come tanti resti umani (si parla di 1500 reperti riferibili a 15 individui, adulti e bambini) siano finiti in quella cavità. Sembrano non presentare segni di frattura né intenzionale né accidentale. Precipitati nella grotta? Gettati o trasferiti dopo la morte? In questo caso come interpretarlo? Quale significato potrebbe avere l’accumulo di ossa non potendosi riferire, se intenzionale, a un comportamento animale? Individui umani rimasti intrappolati nella grotta? Domande che si pongono, anche a prescindere dalla datazione. Esami accurati dei reperti potrebbero suggerire interpretazioni interessanti, come è avvenuto per altri accumuli di ossa dell’uomo preistorico (Krapina, Atapuerca).

L’altra domanda – che cosa cambia per il credente – ha invece una sola risposta: nulla. Tutte le domande sulle origini dell’uomo che interessano il credente sono quelle di significato, di senso: perché c’è l’uomo sulla terra? Quale rapporto con il mondo animale? Sono questioni che rimandano a considerazioni di ordine filosofico o religioso, alle quali la paleoantropologia non è in grado di rispondere, ma eventualmente solleva problemi.

Riconoscendo all’uomo, quello preistorico (anche per le prime forme), come all’uomo di oggi, la dimensione spirituale, cioè l’anima, si deve ammettere che essa non venga da una combinazione di cellule o da un’organizzazione cerebrale, ma costituisca un arricchimento voluto da Dio creatore, poste determinate condizioni, quando e come ha voluto, così come avviene nell’animazione di ogni essere umano.

Questa affermazione è di principio e non si basa su osservazioni empiriche. È il «salto ontologico» di cui parlava Giovanni Paolo II. Caso mai si può discutere sui segni del comportamento che possono denotare la presenza dello spirito. A nostro modo di vedere la cultura, come capacità di progetto e di simbolo, espressa anche nei prodotti della tecnologia, può suggerire la presenza dell’uomo. Ma l’identificazione del livello evolutivo in cui si manifesta l’identità spirituale dell’uomo è un problema che non coinvolge la fede.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:42 pm | | Default
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Ciò che manca alla politica. Perché Francesco scalda anche gli Usa, di Mauro Magatti

Riprendiamo da Avvenire del 27/9/2015 un articolo di Mauro Magatti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

Papa Francesco (VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images)

Il calore, l’entusiasmo, la gioia che hanno attraversato l’opinione pubblica, i media e la politica americana nei primi giorni del viaggio di papa Francesco sono andati al di là di ogni aspettativa. Tanto più tenendo conto che la cultura degli Stati Uniti, gelosa del pluralismo delle sue Chiese (cristiane), ha sempre guardato il papato con un certo distacco. Un distacco che, forse per la prima volta nella storia, pare superato proprio in questi giorni. Che cosa è accaduto? Certo, una parte della spiegazione va cercata nella capacità di papa Francesco di entrare in sintonia con tutti. Il suo stile caloroso e diretto raggiunge direttamente il cuore e la vita delle persone. Facendo crollare muri e diffidenze. Ma non si tratta solo di questo. C’è qualcosa di più profondo che si è mosso con questo viaggio americano, qualcosa che passa dalla persona del Santo Padre, per andarne oltre. È come se Francesco fosse in grado di riempire un vuoto che, nelle democrazie avanzate, tutti avvertono, ma che pure non si sa riconoscere né tanto meno colmare.

Nell’ultima parte del ’900 la capacità della politica di produrre significati condivisi si è infatti significativamente ridotta, a tutto vantaggio di un funzionalismo tecno-economico che si caratterizza per la sua neutralità valoriale. Tutti parlano, ma nessuno dice niente. Come se l’unico problema della vita comune fosse quello di far funzionare l’economia, i trasporti, la sanità, la giustizia, etc., lasciando poi sulle spalle di ogni individuo l’onere di costruire il senso della propria vita. In un gioco in cui sono evidenti non solo le conseguenze sulla vita democratica – impoverita, caotica, impersonale – ma anche la fatica a riprodurre l’idea di bene comune e persino di dignità della persona umana.

In questa situazione – per molti aspetti problematica – si profila la possibilità di una relazione nuova tra politica e religione, e specificatamente Chiesa cattolica. Cosa che si era già intravista in anni passati – specie con Giovanni Paolo II – ma che con papa Francesco trova nuovi e importanti sviluppi. Ci sono tre aspetti che permettono di cogliere la direzione di tale trasformazione.

In primo luogo, il profilo globale del papato attuale: un Papa sudamericano dentro una organizzazione che ha il suo fulcro nella Roma europea, ma che si estende in tutti i continenti. Ciò fa del Papa uno dei pochissimi soggetti capaci di uno sguardo planetario, in grado cioè di parlare all’uomo in quanto tale, di ogni latitudine e di ogni cultura. Si potrà essere d’accordo o meno. Ma si tratta di qualcosa che la politica non riesce a fare, invischiata come è nel suo spazio territoriale. Effetto che è stato addirittura palpabile nella standing ovation tributata dall’assemblea Onu alla fine del discorso di Francesco.

In secondo luogo, la natura istituzionale e insieme personale del papato. Il fatto che la persona del Papa sia il riferimento supremo di una comunità che coinvolge più di un miliardo e duecento milioni di persone nel mondo lo rende mediaticamente ipernotiziabile. Ciò significa la possibilità di avere voce nella sfera pubblica internazionale ed essere in grado di parlare a tutti, e non solo ai fedeli cattolici.

In terzo luogo, in un mondo funzionalizzato, si chiede alla religione, alla Chiesa, al Papa, ciò che il resto della società non sa più offrire: apertura al mistero e al senso; importanza per la vita di ogni persona, anche di chi è scartato; tenerezza, umanità. Una domanda che papa Francesco, che unifica in modo così naturale nella propria persona quello che dice, quello che fa e quello che è, soddisfa in modo davvero efficace. Con Francesco si ha una grande istituzione che, nel suo capo, fa coincidere la parola con l’azione. E questo spiazza completamente, e attrae, il mondo contemporaneo.

Si tratta di aspetti molto importanti. La 'politica' di Francesco è del tutto diversa da quella a cui siamo abituati: egli parla e costruisce convergenze ampie e trasversali attorno a temi che nessuno osa più affrontare per paura di perdere consensi. Temi peraltro essenziali, che hanno a che fare con la nostra condizione umana e la nostra vita insieme. In questo modo, il Papa si pone su un piano che ormai sfugge completamente ai sistemi democratici contemporanei. Per questo, chi cerca di strumentalizzare le sue parole e i suoi gesti, tirandole da una parte o dall’altra, manca completamente il bersaglio.

Con il primo Papa sudamericano, siamo dunque entrati in un nuovo secolo nei rapporti tra politica e religione. Per la Chiesa, si tratta di un’occasione straordinaria. Mai come in questo momento, c’è spazio per una Chiesa coraggiosa, libera, ardente. Una Chiesa disposta a farsi attraversare dallo Spirito, che prende parola perché ama e serve davvero ogni uomo con lo stesso sguardo misericordioso da cui è essa stessa guardata dal Padre creatore. Di questa Chiesa, che papa Francesco fa oggi risplendere, il mondo intero ha enorme bisogno.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:41 pm | | Default

È un “sacro vuoto” la libertà dell’Occidente, di Wael Farouq, musulmano e docente di Lingua araba all’Università del Cairo

Riprendiamo sul nostro sito un estratto dell’intervento sul numero del mensile "Tracce" del 10/02/2015 di Wael Farouq, docente di Lingua araba all’Università del Cairo e Visiting Professor alla Cattolica di Milano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà. 

Tutto è effimero

Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro  che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione. 

L’uniformità

I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano – e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva. 

Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé. 

Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo? 

Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione

Gli immigrati

L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero

In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine

Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo. 

(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:40 pm | | Default

Lezioni di sesso alla danese: “Fate figli presto”. Svolta nei corsi scolastici per arginare il crollo del tasso di natalità. Ora si insegna che è meglio non aspettare a procreare, di Andrea Tarquini

Riprendiamo da La Repubblica del 24/9/2015 un articolo scritto da Andrea Tarquini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

Care ragazze, cari ragazzi, fate pure sesso se vi piacete o vi amate, o anche solo se ne avete semplicemente voglia. Ma per favore fate solo sesso sicuro, e non solo per non contrarre malattie: pensate alla contraccezione, non diventate mamme né papà troppo presto. Finora, in tutto il mondo, o almeno in ogni paese dove l’educazione sessuale è materia scolastica o prassi familiare e sociale diffusa, il suo principale messaggio è stato questo.

Ma nell’avanzata, civilissima Danimarca adesso hanno deciso di cambiare musica: l’educazione sessuale deve anche insegnare ai giovani che il fine del sesso è la procreazione, e che se si decide troppo tardi di avere figli le probabilità di metterli al mondo scendono, perché cala la fertilità. Insomma, arriva un nuovo capitolo di quella storia infinita chiamata rivoluzione sessuale, cominciata ben prima del Sessantotto. E non a caso, arriva dal Grande Nord. Più precisamente, dal piccolo prospero paese definito da statistiche e indagini Onu come il più felice del mondo. 

Che cosa è successo a Copenhagen, tanto da spingere a una svolta apparentemente così radicale? Semplice: non bastano né il welfare, tra i più generosi del mondo, né la prosperità, né un’economia postindustriale e di eccellenze tecnologiche e una crescita economica inferiore a quella della vicina potenza regionale, la Svezia, però molto più lusinghiera che quasi ovunque altrove in Europa. Non bastano le certezze che lo Stato ti offre dalla culla alla tomba, passando dall’assegno mensile equivalente a minimo 700 euro a ogni giovane studente. Il tasso di natalità, anche nel bel regno nordico, è calato e continua a calare. È “appena” di 1,9 bimbi per donna, per quanto fredde e assurde possano suonare queste statistiche. Esperti indipendenti e governativi avvertono: ci vuole un tasso d’incremento delle nascite di almeno 2,1 bambini per ogni cittadina.

Questione di vita o di morte per il futuro del modello danese, tra i più efficienti nel Grande Nord. Perché se non si riuscirà ad alzare il tasso di natalità — avverte Sex & Samfund (Sesso e società, l’organizzazione indipendente che fornisce ad asili scuole e comunità i materiali e i programmi per l’educazione sessuale) in futuro la Danimarca avrà troppo pochi cittadini in età lavorativa. Troppo pochi contribuenti per il fisco e per le ritenute indispensabili a rendere sostenibile welfare, pensioni, ogni capitolo dello Stato sociale danese. Poco importa che alcuni mesi fa Copenhagen abbia avuto a livello politico una svolta a destra, con la bella, elegante e spregiudicata premier socialista Helle Thorning- Schmidt sconfitta dal leader della destra Loekke Rasmussen: su certi temi il consenso tende a essere bipartisan.

E allora che succede? Semplice: i programmi e i materiali per l’educazione sessuale, che appunto comincia al più tardi alle elementari, si adeguano.

Come si fa sesso, quali differenze fisiologiche e non solo esistono tra uomo e donna sono temi che continuano a essere insegnati ai bimbi nel modo più spregiudicato: modelli di organi femminili, corsi su come s’indossa un profilattico o come si usa la pillola, filmati e disegni più che espliciti. Sempre continuando a lanciare il messaggio sui pericoli della gravidanza precoce, problema sociale gravissimo, ad esempio, negli Stati Uniti a cui tutte le società di cultura scandinava guardano ogni giorno. Ma adesso Sex & Samfund corregge anche il tiro: dire solo che è male restare incinte troppo presto è un falso segnale. Allora gli insegnanti e i programmi dovranno spiegare che altrettanto sbagliato è rinviare troppo il momento in cui si deciderà di avere figli

Non si parla di “bimbi per la patria” di triste memoria, ma di futuro sostenibile del modello nordico, spiegano fonti vicine al governo. Perché sia i maschietti danesi sia le loro mogli, compagne o fidanzatine, come quasi ovunque in Europa (con poche eccezioni, vedi la Svezia grazie a un’economia robustissima, all’apertura senza uguali ai migranti, al superwelfare) rinviano sempre di più il momento di mettere al mondo bimbi. Sia lei che lui privilegiano la carriera. E la maggioranza delle famiglie, dice un sondaggio dell’organizzazione, ha in media uno o due figli anche se ne sognava tre o più. Pochi figli, insomma, avverte Copenhagen, significa welfare e società solidale non più sostenibili, un pericolo per il futuro di quella scarsa pattuglia di bambini. E allora via, facciamo partire dalla scuola una nuova èra dei baby-boomers. Se l’iniziativa avrà successo o no, in una società scettica quanto libera come tutte quelle del Nord, resta questione aperta.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:39 pm | | Default

Condanne a morte. Il silenzio italiano sui sauditi, di Paolo Mieli

Riprendiamo dal Corriere della sera del 30/9/2015 un articolo scritto da Paolo Mieli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Carcere e pena di morte nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)

Non ha mandato soltanto i caccia Rafale a bombardare le basi dell’Isis in Siria, il presidente francese François Hollande si è anche solennemente pronunciato perché sia salvata la vita di Mohammed al Nimr. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, non ha fatto né una cosa, né l’altra. E se possiamo capire le ragioni di prudenza che hanno determinato la scelta di non correre il rischio di provocare un secondo «caso Gheddafi» (cioè l’abbattimento di una tirannide senza calcolare gli effetti di questa nobile impresa), non riusciamo a comprendere i motivi del mancato pronunciamento sul caso che riguarda l’Arabia Saudita. Tanto più che il giornale del Pd, L’Unità, si è meritoriamente impegnato, per la penna di Umberto De Giovannangeli, in questa battaglia civile. Scriviamo «meritoriamente» perché in generale la pena di morte fa notizia - soprattutto sulla stampa di sinistra - solo quando è inflitta negli Stati Uniti. Se invece è eseguita in un Paese arabo che è o potrebbe essere nostro alleato o partner commerciale, allora ci si distrae. Pessima usanza che non giova alle campagne internazionali contro la pena di morte.

Ali Mohammed al Nimr, nipote di un assai famoso oppositore sciita al regime dell’Arabia Saudita, aveva 17 anni quando, nel febbraio 2012, venne arrestato per aver preso parte a una manifestazione nella provincia di Qatif, ed è stato condannato a morte il 27 maggio scorso. Tra il 1985 e il 2013 oltre duemila persone sono morte in Arabia Saudita sotto la scure del boia. Da agosto 2014 a giugno 2015 le decapitazioni sono state, secondo Amnesty International, 175, una ogni due giorni. Degli uccisi, circa la metà erano stranieri che, non disponendo di un adeguato servizio di interpreti, mediante tortura venivano indotti a firmare confessioni per loro incomprensibili. Il ritmo delle esecuzioni si è intensificato al punto che nel maggio scorso è stato pubblicato un bando per il reclutamento di otto nuovi «funzionari religiosi» da adibire al taglio delle teste. Lo scrittore Tahar Ben Jelloun ha minuziosamente descritto cosa accadrà ad Ali al Nimr il giorno dell’esecuzione: «sarà decapitato, poi crocifisso, e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione». Come accadde, scrive Ben Jelloun, al grande poeta sufi del decimo secolo, Al Halla: il suo corpo fu evirato, crocifisso e lasciato marcire al sole. Un’abitudine non nuova, dunque.

E non c’è solo al Nimr. Il blogger Raif Badawi è incarcerato a Gedda dove deve scontare una pena a dieci anni di prigione. Il tutto su una base d’accusa di apostasia per aver cliccato «mi piace» su una pagina Facebook di arabi cristiani e per aver, su un suo blog Saudi Free Liberals Forum, mosso qualche critica (che nella sentenza viene definita «insulto») ad alcune personalità politiche e religiose. Gli viene rimproverato anche di «aver riportato alcune citazioni dai libri di Albert Camus». E per aver menzionato Camus, alla galera si accompagna, da quest’anno, una pena aggiuntiva: un migliaio di colpi di verga (Mille frustate per la libertà è il titolo del libro scritto da sua moglie Ensaf Haidar, rifugiata in Canada, dove si parla di questo ulteriore «dettaglio»). Dall’inizio del 2015 Raif riceve con regolarità una quantità terribile di colpi di sferza: cinquanta ogni «santo venerdì dell’Islam». E il supplizio continuerà finché, appunto, le frustate non saranno state mille. In una lettera al settimanale tedesco Der Spiegel, pubblicata a marzo, Raif ha raccontato di aver ricevuto la prima dose di scudisciate al cospetto di una folla plaudente di fronte alla moschea di Gedda e di non spiegarsi come è riuscito a essere sopravvissuto ai cinquanta colpi di un «bastone di legno bianco» con cui è stato battuto in ogni parte del corpo. E qui va fatta un’osservazione: l’11 gennaio scorso, due giorni dopo che Raif aveva ricevuto la sua prima razione di frustate, l’ambasciatore saudita a Parigi partecipava contrito alla manifestazione di solidarietà per gli uccisi della redazione di Charlie Hebdo . Grande e pressoché unanime fu il plauso mondiale per l’iniziativa di pubblico cordoglio senza che nessuno rilevasse quell’impropria presenza.

In giugno poi, meno di un mese dopo la condanna a morte di Ali al Nimr, il saudita Faisal bin Hassan Trad è stato nominato presidente del gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. E sono stati pochissimi a sollevare obiezioni. Ma le contraddizioni non si fermano qui. La scrittrice egiziana Nawal El Saadawi si è unita alla campagna dell’Unità a favore di Ali al Nimr: «Di fronte a vicende come la sua», ha scritto, «non è possibile accettare un’indignazione a corrente alternata: giustamente l’Occidente ha condannato con la massima durezza, almeno a parole, i tagliagole dell’Isis, inorridendo di fronte alle decapitazioni filmate. Ma anche il giovane saudita, se la comunità internazionale non agirà su Riad, sarà decapitato e crocifisso su una pubblica piazza. Forse non ci sarà un video che immortalerà questa barbarie, ma la sostanza non cambia».

Infine, su sollecitazione dei radicali torinesi il sindaco della città Piero Fassino, il presidente della Regione Sergio Chiamparino e l’assessore alla Cultura Antonella Parigi hanno chiesto al Salone del libro di rigettare l’ipotesi «scellerata» (così l’ha definita il partito di Marco Pannella) che l’Arabia Saudita sia «ospite d’onore 2016» del Salone stesso. La decisione definitiva sarà presa il 6 ottobre. Speriamo bene.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Ottobre 2015 - 5:38 pm | | Default

Proposta di un itinerario verso la Cresima, di Andrea Lonardo (in dialogo con padre Maurizio Botta e don Davide Lees)

Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni La Confermazione e Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (2/10/2015) 

Nota bene. Queste brevi note hanno l’unica intenzione di accompagnare i video proposti sul canale Youtube catechisti Roma, aiutando a comprendere l’itinerario generale della proposta. Non sono pertanto esaustivi. La prima parte sugli incontri iniziali e la terza sui sette doni dello Spirito sono debitrici ai lunghi dialoghi che ho avuto con padre Maurizio Botta, mentre la seconda sulle tre virtù teologali è debitrice ad un lungo confronto con don Davide Lees. 

Raffaello, Fede, speranza e carità, Predella
della Pala Baglioni, presso i Musei Vaticani

Premessa

L’itinerario, pur essendo molto dettagliato in alcuni suoi punti, non ha l’intenzione di offrire delle tappe pre-definite. Vuole piuttosto essere uno stimolo ad elaborare un itinerario ad hoc, realizzato insieme da sacerdoti e catechisti, che si adatti alla specifica comunità nella quale viene proposto. Le singole tappe sono quindi puramente indicative e, ovviamente, modificabili da parte di ognuno. 

1/ GLI INCONTRI INIZIALI: DIRE SUBITO PERCHE’ PROPONIAMO LORO LA CONFERMAZIONE

È bene che fin dall’inizio e non alla fine si mostri perché abbiamo bisogno dello Spirito Santo, perché la Confermazione è un dono grandissimo.

Due video sono stati preparati per presentare questa prima tappa (tutti i video proposti in questo articolo sono disponibili sul Canale You Tube Catechisti Roma): 

1 - Raccontare ai ragazzi la forza della Confermazione - Prima parte

2 - Raccontare ai ragazzi la forza della Confermazione - Seconda parte

Decisivo è spiegare fin dall’inizio cosa è la Cresima. Essa non è la conferma che i ragazzi danno al “sì” dei loro genitori, altrimenti la Confermazione non sarebbe un sacramento, non sarebbe un dono, bensì solo un impegno. Presentare in questa maniera la Cresima, come una conferma che i ragazzi danno, è presentare il cristianesimo in maniera moralistica.

La Confermazione è, invece, essere confermati da Dio Padre che ripete il suo sì al nostro essere figli. Dio, dopo averci generato nel Battesimo, ci ridice il suo sì, ci dice che non si è pentito di averci dato la vita, anzi ci dona la sua forza, perché possiamo essere sicuri che nella vita riusciremo a vivere una vita bella se accetteremo il suo aiuto.

Un’immagine che mi sembra efficace  per mostrare ai ragazzi il vero significato della Confermazione è sempre quella di un giorno nel quale stavo camminando e mi è venuto in mente mio padre dal cielo – i miei sono morti da anni – che mi guardava e mi diceva: “Bravo, sono fiero di te, è bello quello che stai facendo, quello che dici, il modo in cui stai facendo il prete. Ce la farai, vai avanti così, che la tua vita serve agli altri, non la stai sprecando”.

Nonostante le apparenze, io sono abbastanza insicuro e questo sguardo mi ha dato forza. I ragazzi che iniziano il cammino della Confermazione sono molto insicuri. Con il dono dello Spirito Santo, con il dono della Confermazione e della sua forza, Dio vuole dire loro che ce la faranno a divenire un giorno sposi, padri, cittadini cristiani.

Confermazione evoca l’idea della forza, del coraggio, della sicurezza di essere in grado di fare il bene, se Dio ce ne da la forza.

Ho fatto riferimento al diventare grandi, al diventare un giorno padri, perché i ragazzi hanno bisogno che si alzi l’asticella, che non si banalizzi il cammino della vita, che non si parli di cose basse e banali.

Ma certo c’è anche la forza di essere fin da ora all’altezza della parola data, di saper difendere gli amici più deboli, di saper amare gli amici e le ragazze e così via. Serve forza per amare. Ecco perché abbiamo bisogno della Cresima.

Nei video troverete un’immagine simile molto potente in Harry Potter, che ha bisogno di essere confermato per affrontare il male, la morte, Voldemort. Non dobbiamo dimenticare che ai ragazzi piace la mitologia, da Tolkien a Lewis (che hanno inventato una mitologia cristiana), ecc. perché restituisce loro l’idea della lotta per il bene e della necessità di essere cavalieri che vivono con onore, dinanzi alle grandi questioni della vita.

Quanto detto è vero anche se lo si pensa al contrario, cioè a partire dalla difficoltà di proporre la Confermazione a tutti coloro che hanno celebrato la Comunione. In realtà, la crisi della Confermazione è espressione oltre che di una crisi sacramentale, anche della crisi di un mondo adulto che non sa più confermare i giovani e che dinanzi alle grandi dice: “Boh. Non lo so, I don’t know, decidi tu”.

Dio invece vuole confermare tutto ciò che ha già donato. In fondo la Cresima non aggiunge apparentemente nulla al Battesimo. Lo Spirito è già stato dato. Ma la Cresima aggiunge, da un altro punto di vista, tantissimo: perché Dio conferma ciò che ha donato. Non basta che Dio sia nostro Padre, ma vuole che ne siamo veramente convinti, che non dubitiamo dell’amore che ci ha dato e che ci darà.

Questa Confermazione è proprio opera dello Spirito. Fare esperienza dello Spirito non è come fare per sbaglio una sola volta un gesto evangelico. Fare esperienza dello Spirito è essere così permeati dallo Spirito che qualsiasi cosa accade noi – ed i ragazzi – sappiamo amare, sperare, credere. Se si tentasse un paragone con uno sport, ad esempio il tennis, avrà esperienza del tennis non uno che prende per la prima volta in mano la racchetta e dopo una ventina di tentativi manda la pallina dall’altra parte del campo e casomai, fa anche punto per sbaglio. No! Ha esperienza del tennis uno come Roger Federer che risponde con un colpo straordinario dovunque tu gli piazzi la pallina. Così è di chi è guidato dallo Spirito: dinanzi ai momenti sempre cangianti della vita, sempre risponde vivendo la forza e la gioia cristiana.

Si potrebbero qui leggere i testi paolini che spiegano che lo Spirito Santo è lo Spirito di Cristo, quello che unisce la nostra vita alla sua, rendendoci cristiani.

Video aggiuntivi

Suggerisco anche altri video che possono aiutare a riflettere con i ragazzi su cosa sia la Confermazione. Sul canale Youtube Gli scritti si possono vedere:

- Giovanni Falcone: “Importante non è stabilire se uno ha paura, ma imparare a non farsene condizionare”

- Andrea Lonardo. King's Cross Station, Harry Potter e il Binario 9 e 3/4

2/ LE TRE VIRTÙ TEOLOGALI, FEDE, SPERANZA E CARITÀ

Dopo gli incontri iniziali sul significato della Confermazione e sulla bellezza di vivere un’ “esperienza spirituale”, cioè di vivere come cristiani, la nostra proposta è che un tempo lungo e disteso (anche di un anno e mezzo) del cammino può essere dedicato alle tre virtù teologali, fede, speranza e carità.

Qui il video che presenta l’intero itinerario sulle tre virtù ( i successivi presenteranno invece l’itinerario articolato su ognuna di esse):

10 - Fede, speranza, carità, itinerario di preparazione alla Cresima

La nostra proposta nasce innanzitutto dalla consapevolezza che il cammino deve avere un cuore, deve essere ordinato in maniera da poter essere ricordato: serve insomma uno schema che non sia arido, ma nemmeno disordinato e poco chiaro.

In secondo luogo deve essere evidente una differenza rispetto all’itinerario vissuto da bambini per prepararsi alla mensa eucaristica. Lì era più centrale l’aspetto più “oggettivo” della fede, perché i bambini amano conoscere. Qui serve un grande cambiamento, perché i ragazzi vogliono comprendere tutto in maniera più “personale”, anche se non si deve mai dimenticare la verità della fede. Proprio la fede, la speranza e la carità, permettono di riprendere tutto ciò che si è conosciuto e vissuto nel cammino cristiano da bambini, in maniera radicalmente nuova e più personale.

Infine, le tre virtù teologali sono estremamente importanti per la Sacra Scrittura. Se le si confronta, ad esempio, con i doni dello Spirito, questi ultimi appaiono una sola volta nella Scrittura. Invece le virtù emergono con grande forza nell’insegnamento degli apostoli, fin dal primo scritto del Nuovo Testamento, la prima lettera ai Tessalonicesi, che ne parla al capitolo primo. Ma si pensi soprattutto al famoso inno alla carità in 1 Cor 13 (“tre sono le cose che restano, la fede, la speranza e la carità”) o ai passaggi della lettera ai Romani.

Estremamente importante è sottolineare, a livello educativo, che la virtù è qualcosa di diverso da un singolo atto. Una cosa, ad esempio, è fare un atto azzardato, una cosa è essere persone che affrontano la paura sempre; una cosa è fare un gesto di carità, un’altra è essere buoni. La virtù è, insomma, un habitus, un’abitudine, nel senso più alto della parola. Con i ragazzi è bello scoprire che la virtù matura poco a poco – e così anche il vizio – e che anche la coscienza si addormenta o si desta a seconda della vita che si vive.

Ancora più importante è scoprire con loro che la vita in Cristo non è un fare, ma un essere. Essere generosi, essere persone di speranza o essere persone egoiste e tristi è essere persone diverse, non solo fare cose diverse.

Le tre virtù sono presentate nell’itinerario tenendo sempre a mente il “punto” della vita del ragazzo dove è presente un’apertura verso di esse, consapevoli che noi siamo fatti per Dio e che la nostra vita è come un grido che attende che Dio si riveli, rivelandoci così la grandezza della nostra umanità.

La nostra proposta è che:

A/ La fede sia presentata in relazione al nostro desiderio di conoscere

B/ La speranza sia presentata in relazione alla scoperta del desiderio che si misura con la necessità delle scelte

C/ La carità sia presentata in relazione al desiderio di imparare ad amare.

Ben tre encicliche, una di papa Francesco (Lumen fidei) e due di papa Benedetto XVI (Deus catitas est e Spe salvi), sono state dedicate in anni recenti alle virtù teologali. La loro grande ricchezza è decisiva nell'aiutare nella preparazione dell'itinerario.

Questi i video già disponibili on-line sulla fede, sempre sul Canale Youtube Catechisti Roma

11 - La fede (I) Cosa desidero conoscere?

12 - La fede (II) “Bucare” il cielo? 

13 - La fede (III) è un dono? 

14 - La fede (IV) di Abramo e Maria 

15 - La fede (V) cambia la vita?

Trovate di seguito la traccia di un possibile itinerario sulla virtù della fede. Leggendolo, potrete vedere come si sottolinea con esso che l’uomo – e il ragazzo stesso – è l’unico essere che desidera conoscere e conoscere tutto. Vuole sapere da dove ha origine l’universo, quali siano le leggi che lo regolano. Si insiste sulla bontà della scienza e sulle sue origini ebraiche e cristiane, sul fatto che la maggior parte degli scienziati sono credenti, ma si sottolinea soprattutto che la scienza non basta. La scienza, infatti, non dice cosa è bene o male, cosa possiamo sperare, se vale la pena sposarsi e diventare padri, se è triste non avere amici e così via. Ci si sofferma sul fatto che esiste una conoscenza peculiare che è quella personale, quella delle persone che amiamo:  è conoscenza pur essendo diversa dalla conoscenza scientifica. I ragazzi desiderano conoscere gli amici, conoscere se stessi, conoscere il cuore della ragazza che amano, conoscere il proprio padre: la conoscenza personale avviene per “rivelazione”.

Si apre così il parallelo con la fede. Dio non si può conoscere se non per rivelazione. Dio trascende talmente l’uomo che a maggior ragione non può essere conosciuto con la nostra ricerca, se egli non si rivela. Dio si rivela perché ha un volto. Chi ci rivela il volto di Dio è Gesù. Quanti idoli ha costruito l’uomo nella storia, finché non è venuto il Figlio di Dio a farsi carne!

Dalla fede come risposta d’amore a Dio che si è rivelato nell’amore si giunge poi ai modi in cui è possibile oggi incontrare Dio (il discorso proseguirà poi con la carità e con la presenza di Dio nel volto del bisognoso). Si propone così ai ragazzi la preghiera personale e si riscoprono con loro la Confessione e l’Eucarestia domenicale. L’itinerario potrebbe aprirsi qui ad una riflessione sul Credo, non necessariamente considerandolo articolo per articolo, ma piuttosto aiutandoli a percepire l’unità della professione di fede e le sue conseguenze per la vita. Se Dio è Padre e si è rivelato in Cristo, può non darci la vota eterna? D’altro canto come può esistere la vita eterna, se Dio non esiste o non è Padre? E così via sui tanti annunci di grazia che il Credo implica.

2.1/ LA FEDE E IL DESIDERIO DI CONOSCERE

Tema Punti centrali Possibile attività Testi ecc.
1. La differenza dell'uomo dall'animale Ampiezza della conoscenza: il suo orizzonte è illimitato! (cioè è aperto a Dio).
"Conoscenza" è un concetto "analogo", che copre tante realtà, e che non si limita né al mero contenuto "digitalizzabile" e neanche al "concettuale".
Segnalare le particolarità della conoscenza personale (analogatum princeps).
Emerge la differenza fra l'uomo e l'animale
Brainstorming su cosa viene in mente ai ragazzi quando si parla di conoscenza (deve essere un po' sintetizzato per gruppi tematici) Gb 38-40 (38,1-12.16-18.22-27.33-41; 39,19s. 26s; 40,1-5)
2. La conoscenza non è solo informazione L'enorme espansione di Internet, l'aumento illimitato di dati disponibili on-line, può far perdere di vista che la conoscenza non è il puro accumulo di dati. Bisogna, invece, andare al cuore dei problemi, saper capire cosa vale davvero, dove c'è bellezza e dignità Si può vedere qualche video della Playlist Educare all'uso dei social network del Canale Youtube Catechisti Roma 1 Sam 16: l'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore
3. La conoscenza personale La conoscenza che amiamo, oltre a quella scientifica, è quella personale che avviene per rivelazione.
Emerge la differenza tra la conoscenza quantitativa e qualitativa delle persone (le due realtà sono collegate, ma anche diverse). Emerge la differenza fra scienza e conoscenze umane, altrettanto necessarie.
Dovrebbero emergere:
- l'ascoltarsi, il parlare insieme, lo stare insieme, il condividere esperienze, perdonarsi, aiutarsi, ecc.
Gioco su quanto si conoscono. Attività: far emergere punti principali su come si conosce bene una persona? Brani dei libri sapienziali sul cuore; 
Manzoni: "il cuore è un guazzabuglio"
4. È possibile conoscere Dio? Il grande desiderio dell'uomo: "bucare il cielo".
Far prendere coscienza ai ragazzi che è impossibile conoscere Dio, assolutamente trascendente. È impossibile conoscere Dio alle sole forze dell'uomo.
  Lc 10,21-22 ("nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre...") 
1 Cor 2
5. La conoscenza di Cristo Si può conoscere Dio solo perché lui si è rivelato e si rivela a noi, pienamente nel Figlio Gesù Cristo.
Gesù Cristo mediatore e pienezza della rivelazione (sono i due termini biblici scelti dalla Dei Verbum, che non sceglie né una cristologia dogmatica, né una narrativa, bensì vuole prima presentare il ruolo di Gesù nella rivelazione di Dio).
Cristo rivela il volto della misericordia di Dio.
Fargli indicare degli amici di
Dio (anche gente semplice).
Com'è che conoscono così bene Dio?
- Gv 1 Dio nessuno l'ha mai visto, il Figlio ce lo ha rivelato - Mt 16,13-20 - Madre Teresa,Chi è Gesù per me
6. La fede è un dono Si può accogliere questa rivelazione solo per un
dono di Dio: LA FEDE
Sulla conoscenza di Dio gli si fa poi riprendere le cose dette sulla conoscenza delle persone.
Si può riflettere sul fatto che i dono sono oggettivi, anche se noi li rifiutiamo: se nasce un bambino, è un fatto, anche se non ci commuovessimo. così è del dono della venuta di Gesù  
7. La fede è la risposta a Dio, la giusta risposta. L'obbedienza della fede. Abramo e Maria "GUARDA LE STELLE DEL CIELO"
Portarli a sentire la chiamata di Dio e a chiedere la fede per rispondere, per obbedire, per fidarsi.
Testimonianza di un catechista che racconti dell'essersi fidato di Dio e testimonianza al contempo delle sue difficoltà. Sotto un cielo stellato, la lettura di Gen 15,1-6 Gen 15,1-6 Lc 1-2
8. Il dialogo con Dio Introduzione alla preghiera.
È personale ed ecclesiale. Parola nostra e di Dio.
Spontanea e ricevuta.
La vita interiore. La sua differenza con Internet e con la sua superficialità.
Poter ascoltare la Parola di Dio non come un testo scolastico o storico, bensì come Parola che Dio dice oggi a te, una parola viva ed efficace
Cosa è la bellezza?
Esperienze di silenzio in cui li coinvolgiamo con momenti vissuti insieme di silenzio. Un'esperienza di porsi davanti alla Scrittura come Parola di Dio rivolta a loro: "Cosa mi dice Dio?" Proporre un dialogo in un monastero di clausura
Sap: Desiderare la sapienza più della salute e della bellezza
9. Lo stare con Dio Eucarestia e Confessione.
Comunità non come semplice amicizia, ma come relazione che ha al centro il Cristo.
Riprendere il sacramento della Riconciliazione in chiave interpersonale.
Potrebbe essere positivo fargli prendere coscienza del legame tra la riconciliazione con Dio e quella coi fratelli.
   
10. Eccomi La Parola di Dio interpella. Si accoglie rispondendo.
Si risponde con la nostra persona:  "Eccomi!"
La fede che credo, la fede con la quale mi abbandono a Dio.
Mostrare il legame fra il Simbolo di fede ed il mio sì, il mio abbandono alla volontà di Dio.
PICCOLO RITO CONCLUSIVO SULLA FEDE Mostrare l'unità dei 3 Simboli di fede, quello pasquale interrogativo battesimale, il Simbolo degli apostoli e quello niceno-costantinopolitano  

Purtroppo non siamo ancora riusciti a girare i video sulla speranza e sulla carità, ma trovate di seguito lo schema che seguiremo.

B/ La speranza sia presentata in relazione alla scoperta del desiderio che si misura con la necessità delle scelte. Noi desideriamo tante cose, ma alcune sono per noi più importanti di altre. Mille capricci non valgono un desiderio vero. Il desiderio vero non riguarda le cose, ma le persone, l’amore, Dio. Per raggiungere un desiderio sono obbligato a scegliere. Ma scegliere e rinunciare a tante cose non è brutto, se amo veramente ciò che raggiungerò. Scoprire che tutto è un inganno, alla fine dei conti, o sperare? Il vero nome della speranza è il nome di Dio. Ma il Dio vero vuole che noi non amiamo solo lui, bensì ci impegniamo a realizzare la nostra vocazione a servizio dei fratelli.

2.2. LA SPERANZA E LA SCOPERTA DEL DESIDERIO CHE SI MISURA CON LA NECESSITA’ DELLE SCELTE

Tema Punti centrali Possibili attività Testi ecc.
1. Bisogni e desideri Rendersi conto di come la loro volontà sia sempre attiva, ogni minuto della loro attività conscia. La differenza fra capricci, bisogni e desideri. Mappare la giornata secondo ciò che si vuole o non si vuole Mc 1,32-38: una giornata di Gesù Qo 8 O giovane, segui pure i desideri del tuo cuore
2. La grandezza del desiderio Cogliere la differenza tra ciò che vogliono quotidianamente e il dinamismo della loro volontà, che non è mai appagato da qualsiasi cosa raggiunta.
Tanti passatempi e la loro differenza dai veri desideri
   
3. Il dramma della scelta L'impasse: desiderio di  tutto, ma dover lasciare qualcosa (decidere è recidere!)    
4. La scoperta della volontà di Dio Se Dio ha una vocazione in serbo per me, quella è la via della mia felicità, è il mio tutto. Nella sua volontà è la nostra pace (Dante: "In sua voluntade è nostra pace")! Nella determinatezza limitata della sua volontà per me vi è il mio "tutto"!    
5. Il filo della speranza Dio guida il suo popolo perché trovi una speranza contro ogni speranza    La figura di Abramo in Rm
6. Il discernimento Come capire la volontà di Dio?   Lc 18,18-23 J.H. Newman, Leadkindly light Gv La verità vi renderà liberi Cf. Teresa di Lisieux
7. Seguire Cristo Se c'è anche Dio, lui vuole  qualcosa da me? Lui mi ha creato... Quale è la sua volontà su di me?   Con il testo del giovane ricco presentare la sequela di Cristo come il nostro vivere nella volontà di Dio, nella speranza e non nella visione, vedendo solo un passo alla volta
8. La grande speranza 2 livelli di speranza. La speranza cristiana è fondamentalmente la speranza del paradiso, della vita eterna.   Lc 18,24-27
9. Le piccole speranze Ma la verità della fede cristiana risplende nel suo dare valore ad ogni piccola speranza, che non è spenta, ma esaltata dalla grande speranza che è Dio. Nel cercare il Regno di Dio anche tutto il resto ci sarà dato, 100 volte tanto. 
La grande speranza e le piccole speranze altrettanto importanti (Spe salvi)
  Lc 18,28-30
10. La semina nella carne o nello Spirito La semina come immagine della speranza.
Capire che possiamo scegliere dove riporre la nostra speranza: nella carne o nello Spirito.
Domande: Dove semino?
Cosa spero di raccogliere? RITO DI SEMINA sulla speranza
Gal 6,7-10

C/ La carità sia presentata in relazione al desiderio di imparare ad amare. I ragazzi sanno quanto è importante l’amore. Lascerebbero tutto per la possibilità di parlare un’ora con un amico o con una ragazza. Ma pian piano scoprono che l’amore deve essere purificato. Che spesso chiamiamo amore l’egoismo. E che non appena l’altro ci delude o ci tradisce, l’amore si muta in indifferenza o addirittura in odio. L’amore non deve solo essere purificato, deve anche essere salvato da un perdono più grande, che superi gli errori e i peccati.

L’itinerario vuole far emergere il bisogno che l’amore sia illuminato e guarito sia nell’amicizia, sia nel rapporto con i propri genitori, sia nei rapporti con l’innamorata/o, sia nell’amore verso se stessi. L’incarnazione e la croce rivelano per la prima volta nella storia l’esistenza di un amore che è amore, proprio quando non è amato. Quell’amore ci fa desiderare di essere alla sua altezza.

2.3. LA CARITA’ E IL DESIDERIO DI IMPARARE AD AMARE

Tema Punti centrali Possibili attività Testi ecc.
1. Far le cose con amore L'amore compare fin dalle cose più piccole della vita. Le cose si possono fare per paura di una punizione, in vista di un altro bene, oppure "con amore", scoprendo in tutte il loro senso, un valore intrinseco; questo aiuta a vivere il presente.
Si può accennare che viene dal rapportare a Dio ciò che si fa!
La stessa cosa può essere fatta con amore oppure così, tanto per farla (p.e. apparecchiare una tavola!) Col 3,23
2. Amicizia e amore Far capire che l'amicizia è una cosa molto delicata, che
facilmente viene ferita o deformata.
Chi troverà un vero amico?
Gesù, amico dell'uomo
L'amicizia come realtà altissima
  Sir 6,5-17 Aelredo di Riveaux,Amicizia Spirituale(qualche estratto)
3. Amore in famiglia Gioie e fatiche. Guardare con riconoscenza al dono di essere stati amati. guardare se gli adulti riescono a guardarsi con riconoscenza l'un l'altro, ad esempio marito e moglie Ascoltare la testimonianza di due sposi da molto tempo  
4. Scoprire il mistero dell'altro sesso L'intensità e la fragilità dell'amore.
Intuiamo che nell'amare e essere amati vi è la felicità, il senso della vita. L'amore comporta anche sofferenza.
Amare non è guardarsi negli occhi, ma guardare insieme nella stessa direzione
   
5. Amare se stessi Amarsi si distingue dall'egoismo.
Amare Dio Creatore, scoprire che Dio mi ha voluto e mi vuole.
"Cerchi una prova e sei tu stesso la prova" (Balthasar). Noi siamo la prova dell'esistenza di Dio, eppure non ci amiamo!
   
6. Dio ci ama? Annuncio dell'amore di Dio in Cristo Gesù (una specie di
kerygma). Dio ci ha predestinati prima della creazione del mondo (Ef 1,4)
  Riprendere Genesi 1-2 Cfr. articolo sulla creazione di Andrea Lonardo e video sulla creazione per le Comunioni su Catechisti Roma Youtube  
7. "Come io ho amato voi" L'annunzio che Dio è misericordia: esiste il vero Dio e gli altri sono idoli, ma la sua verità non offende, perché è quella del bambino di Betlemme e del Crocifisso di Gerusalemme
Amore disinteressato. Perdono. Amare i nemici.
Appare una nuova forza di amore, la sua sorgente!
Perché l'Islam rifiuta la verità storica della morte in croce di Gesù e afferma che la croce è un'invenzione di ebrei e cristiani e Gesù è asceso al cielo in corpo e anima senza prima morire Lc 6,27-38
8. Amare Cristo nel volto del povero Dio si è nascosto nel volto del povero. Scoprire la fraternità con tutti, a partire da chi è più debole, è scoprire l'amore gratuito, l'amore preferenziale per chi ha più bisogno. Amore vuol dire esattamente non partire dal nostro punto di vista, ma dal bisogno di chi ha bisogno. Un amore che non scoprisse il povero non sarebbe amore. Ma non si tratta solo di donare, perché questo può offendere ancor più chi è nel bisogno. Si tratta di valorizzare la presenza dell'altro. Attraverso esperienze comunitarie, come il digiuno del Mercoledì delle Ceneri e del Venerdì Santo o come la partecipazione alle Raccolte del cibo per gli Empori della Caritas, si possono vivere prime esperienze di servizio.
È fondamentale invitare persone che raccontino le loro storie di vita. Ma anche insegnare che bisogna mettere mano al proprio portafoglio e non solo a quello dei genitori
Mt 25
9. La carità è eterna Con l'inno alla carità si può parlare della carità come "forma di tutte le virtù", ciò che rende bene ogni cosa che è bene. Gioco: cambiare il termine "carità" in 1 Cor 13 con il nome dei ragazzi 1Cor 13
10. La carità è sostenuta dalla Chiesa La comunità cristiana.
La differenza tra la comitiva, l'amicizia, e la comunità cristiana. Non siamo amici, ma fratelli che si amano
  Dio è amore e noi ci amiamo 1Gv 4,8-16
11. Nei nostri cuori Lo Spirito Santo ci fa partecipi dell'amore che Dio è, dell'amore tra il Padre e il Figlio, della natura di Dio RITO CONCLUSIVO: invocazione dello Spirito Santo. Rom 5,1-5

3. I sette doni dello Spirito Santo, i 7 vizi e le 7 virtù

Alla presentazione delle tre virtù teologali (che può prendere un anno  più di cammino) può seguire la presentazione dei sette doni dello Spirito e del Rito stesso della Confermazione. Ma è importante dire subito che spesso la presentazione dei 7 doni a se stanti a volte non riesce ad incidere. Spesso i ragazzi la sentono come astratta.

Può aiutarci allora la tradizione della Chiesa che ha sempre spiegato i doni non a se stanti, ma mostrandone il legame con i vizi e le virtù. I doni dello Spirito, infatti, aiutano l’uomo a vincere i vizi e a raggiungere le virtù che desideriamo. A Roma San Filippo Neri era solito utilizzare questa trilogia: dono, vizio, virtù. I ragazzi sono all’inizio più interessati ai vizi che alle virtù, ma, vedendone gli opposti, riescono ad innamorarsi delle virtù e dei doni.

Sette video accompagnano questo itinerario:

3 - Gola, Astinenza, Timor di Dio. I 7 doni dello Spirito Santo 

4 - Ira, Pazienza, Pietà. I 7 doni dello Spirito Santo

5 - Lussuria, Castità, Scienza. I 7 doni dello Spirito Santo

6 - Avarizia, Liberalità, Consiglio. I 7 doni dello Spirito Santo

7 - Accidia, Fervore di spirito, Fortezza. I 7 doni dello Spirito Santo

8 - Invidia, Carità fraterna, Intelletto. I 7 doni dello Spirito Santo

9 - Superbia, Umiltà, Sapienza. I 7 doni dello Spirito Santo

Nel pellegrinaggio alle sette chiese San Filippo Neri utilizzava gli antichi settenari dei doni dello Spirito Santo, dei vizi e delle virtù per la catechesi che si svolgeva durante l’itinerario. Questi settenari sono stati ripresi con sapienza oggi nello stesso itinerario (si vedano, ad esempi, gli itinerari guidati da d. Fabio Rosini e da p. Maurizio Botta dell’Oratorio di San Filippo). Ne forniamo alcuni tratti, perché possono essere utili anche per strutturare il cammino di catechesi in preparazione alla Cresima.

Le preghiere preparate espressamente da san Filippo, invocano il perdono dei sette peccati capitali, chiedendo con la forza dei sette doni dello Spirito Santo, di poter vivere le sette virtù contrarie.

Ogni tappa sottolinea così, da un lato, che il nostro cuore è inclinato al vizio, che senza la grazia nessuno riesce a sfuggire alla bruttezza di quel vizio. Ma, dall’altro, si sottolinea per ognuna delle sette tappe che ogni uomo ha un desiderio di virtù. Tutti, senza esclusione alcuna, desiderano la virtù, desiderano ogni virtù.

Cristo, soprattutto, è colui che possiede tali virtù perché ha il dono dello Spirito. I sette doni dello Spirito che Cristo ci offre non sono che sette modalità della possibilità di vivere una vita nuova.

Nel riferimento del vizio alla virtù e della virtù al dono dello Spirito, emerge così con più evidenza, nella pedagogia di san Filippo come di molti maestri spirituali del tempo, il significato di ognuno di essi.

- 1/ Dalla Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella) a San Pietro, san Filippo proponeva di meditare su timor di Dio, gola e astinenza. Con termini moderni si potrebbe dire che l’astinenza è la capacità di porsi dei confini. Senza confini, in realtà, non si è liberi. Una nazione è libera solo quando sa difendere i propri confini. L’aver paura di uscire dai limiti è una cosa sana. Esiste, cioè, una valenza positiva del timore. Così la gola è l’incapacità di porsi dei confini, mentre l’astinenza è la capacità di essere liberi, sapendo porre dei limiti. Chi ha vissuto pienamente il timor di Dio è il Cristo. Egli aveva il timore di non fare la volontà di Dio. Perciò nella sua vita sapeva godere delle cose, ma anche rinunciare ad esse, nella piena disponibilità alla volontà del Padre.

- 2/ Camminando verso San Paolo fuori le Mura, san Filippo proponeva la riflessione su pietà, ira e pazienza. Anche qui il vizio è tutto dell’uomo che, nell’ira, bestemmia ciò che gli manca. Infatti, ci sono persone che si lamentano sempre. La virtù della pazienza, invece, è la capacità di benedire l’esistente, attendendo la pienezza che Dio darà. La virtù della pazienza è un nostro reale desiderio e nessuna cultura approva, in realtà, l’ira. Cristo ha il dono della pietà, ha una vita intrisa di pietà, benedice tutto ciò che esiste. Lo si vede, per esempio, nella moltiplicazione dei pani. Non si adira, bensì pazientemente trasforma ciò che esiste in bene. Così la pietà corrobora la virtù della pazienza.

- 3/ Giungendo a San Sebastiano era la volta di scienza, lussuria e castità. Si potrebbe dire, con termini moderni, che il dono della scienza è la capacità di conoscere e guardare l’altro come Cristo lo guarda. Nella lussuria noi facciamo, invece, dell’altro un oggetto, una nostra proiezione. Nella castità, invece, lo amiamo realmente. Si comprende il valore della castità non appena si diventa padri di una ragazza: un padre non può tollerare che sua figlia sia guardata solo come un oggetto da chicchessia. L’amore guarda all’altro così come lo guarda Dio. La scienza, così, corrobora la virtù e insegna a guardare la donna e l’uomo così come Cristo li guardava.

- 4/ A San Giovanni in Laterano, san Filippo ricordava il consiglio, l’avarizia e la prodigalità. Dinanzi ad ogni bivio della vita serve un consiglio per decidersi. Cristo ha avuto il dono del consiglio che guida le decisioni. L’uomo è spesso schiavo dell’avarizia: non prende una decisione perché questo vorrebbe dire rinunciare a qualcosa. Nel momento vocazionale molti sono paralizzati dalla rinuncia. Invece la prodigalità è la virtù del saper rinunciare quando si è stati ben consigliati, quando si è compresa la volontà di Dio.

- 5/ A Santa Croce era la volta di fortezza, accidia e fervore. Si potrebbe dire oggi che Cristo ha il dono della fortezza. Ha il dono di essere come una quercia, di sostenere ogni situazione. Il vizio dell’accidia, invece, si manifesta nelle disavventure: quando esse arrivano tanti si ritirano dal gioco. Il fervore è il desiderio di non arrendersi, che viene a mancare, se non ci sostiene Cristo con il dono della fortezza.

- 6/ A San Lorenzo fuori le Mura, Filippo insisteva su intelletto, invidia e carità fraterna. Si potrebbe spiegare ricordando che il dono dell’intelletto consiste nell’accorgersi della presenza dell’altro, nel saper vedere la sua vita, il suo bisogno. Nell’invidia, invece, l’altro è visto come un nemico. Solo nell’amore fraterno si riesce a vederlo come fratello. Cristo ha il dono dell’intelletto e ci spinge ad amarci gli uni gli altri: «Come io vi ho amati».

- 7/ Infine giungendo a Santa Maria Maggiore, era la volta di sapienza, superbia e umiltà. Cristo è la sapienza e dice: «Imparate da me che sono umile e mite di cuore». Egli è umile mentre noi siamo superbi. È nostro desiderio sconfiggere la superbia: non appena qualcuno ha anche solo una venatura di superbia ci appare repellente. L’umiltà è già teologica, ma il dono della sapienza la porta a compimento.

Attività che può accompagnare la presentazione dei tre settenariPellegrinaggio dei cresimandi e dei cresimandi nella notte con p. Maurizio Botta e d. Andrea Lonardo.

Quest’anno venerdì sera (19.00-23.00 circa) 16 ottobre 2015.

Si parte da Santa Francesca Romana al Colosseo e si raggiunge Santa Croce in Gerusalemme passando per Santo Stefano Rotondo, i Santi Quattro Coronati, San Giovanni in Laterano.

Ulteriori testi che possono aiutare ad approfondire i vizi, le virtù e i doni su www.gliscritti.it

4/ La Chiesa come madre

Se i tre punti precedenti presentano l’itinerario tematico ed alcune attività, non si deve però dimenticare che la forza della catechesi è legata alla testimonianza di una comunità che accoglie i ragazzi.

A/L’eucarestia domenicale non più con i bambini, ma con i giovani. I ragazzi fanno esperienza della Chiesa innanzitutto nell’Eucarestia domenicale. Sarebbe bene che il sacerdote responsabile del cammino delle Cresime animasse con i ragazzi ogni domenica l’Eucarestia, presiedendola. I ragazzi amano staccarsi dalla Messa animata dalle famiglie dei bambini per inserirsi progressivamente in una liturgia animata dalla comunità giovanile di quella parrocchia. Senza la scoperta della liturgia domenicale e senza l’appassionarsi ad essa imparando ad animarla, il cammino di catechesi manca del suo elemento più importante.

B/ I campi estivi. I ragazzi fanno esperienza della Chiesa quando vengono aiutati a vivere momenti intensi come nell’esperienza dei campi estivi, che uniscono al gioco, la serietà della catechesi e della liturgia e del servizio reciproco e la scoperta della meraviglia del creato. Dedicare tempo ed energie a questi momenti è decisivo nell’accompagnare i ragazzi ad un’esperienza di fede viva e vera.

C/ Il servizio di animatori nei GREST. I ragazzi hanno bisogno non solo di attenzioni, ma anche di scoprire che possono servire, possono dare una mano, possono iniziare a testimoniare il Signore. Sentono che un cammino che non li rende protagonisti è, in fondo, inutile. Uno dei momenti in cui è possibile coinvolgerli progressivamente perché scoprano che c’è bisogno di loro e che sono in grado di servire i fratelli è l’esperienza degli oratori estivi (GREST, ORES; oratori estivi, ecc.) così come dei campi estivi dei bambini più piccoli. In questi momenti essi sono chiamati a mettersi a disposizione perché altri, i più piccoli, crescano. Ma, vivendo intensamente queste esperienze e vivendole animandone anche i momenti esplicitamente liturgici (non ci deve mai essere un GREST senza la messa domenicale, anche se celebrata alla sera e non più al mattino perché la domenica le famiglie si recano fuori Roma, per animatori, bambini e genitori dei bambini), scoprono che quel servizio serve anche a loro per crescere.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 01 Ottobre 2015 - 12:45 am | | Default