1/ [Non c’è gesto più islamofobo che censurare la nostra vita comunitaria e nascondere il nostro vero volto di fronte ai musulmani come se noi per primi li ritenessimo non in grado di accettare ciò che siamo. Non all’altezza. Tutti in blocco fanatici e ottusi], di Michele Serra
Presepe, di Giovanni Lonardo
Riprendiamo da La Repubblica del 29/11/2015 una nota da L’amaca di Michele Serra. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sottosezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi e pastorale. Vedi anche la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio. Vedi anche il tag presepe e, soprattutto, l'articolo Il piccolo grande presepe dei dimenticati, di Davide Rondoni [N.B. de Gli scritti: come fare un Presepe includente a scuola, in chiave inter-culturale].
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Quando in una scuola pubblica si sceglie di non fare il presepe o di rinunciare ai canti di Natale per non urtare la suscettibilità dei non cristiani, non si fa torto solamente alle “nostre tradizioni”, come lamentano gli ultras dell’identità tradita. Si fa torto all’idea stessa della convivenza fra culture: in un colpo solo, si tradiscono usanze profondamente radicate anche fra gli italiani laici e si abbandona l’idea stessa di un futuro, se non di tolleranza, di reciproca sopportazione. Negando il passato, si ripudia il futuro.
Non c’è gesto più islamofobo che censurare la nostra vita comunitaria e nascondere il nostro vero volto di fronte ai musulmani come se noi per primi li ritenessimo non in grado di accettare ciò che siamo. Non all’altezza. Tutti in blocco fanatici e ottusi. Ma proprio perché è diventato urgente, nella contingenza storica, capire meglio quanti di loro sono in grado di sopportare “Tu scendi dalle stelle” (io credo molti) e quanti invece intendono la loro cultura come la sola rispettabile e la sola praticabile, è decisivo presentarci per ciò che siamo, fare le stesse cose che faremmo e dire le stesse cose che diremmo anche a prescindere dalla loro presenza. È un test, quello della tolleranza, che spetta a quella comunità superare, non al resto della società italiana facilitare. Se un musulmano è ospite a casa mia non gli offro vino e carne di maiale; ma certo non nascondo le bottiglie e i salami. Come posso rispettarlo, se non ho rispetto per me stesso?
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2/ Essere laici non significa negare la religione, di Antonio Polito
Riprendiamo dal Corriere della sera del 28/11/2015 un articolo scritto da Antonio Polito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
«Un concerto di canti religiosi a Natale, dopo quello che è successo a Parigi, sarebbe stata una provocazione pericolosa». Lo ha detto il preside dell’istituto Garofani di Rozzano, e meno male che la sua autorità si ferma alle porte della scuola, perché se fosse diventato sindaco (è stato candidato di una lista civica) chissà che altro avrebbe potuto proibire per evitare provocazioni: tutte queste donne a capo scoperto, per esempio; o il rock, musica satanica; o lo spudorato consumo di alcol in pubblico.
Pur essendo favorevoli all’idea di dare più poteri ai presidi nelle scuole, dobbiamo confessare che ieri abbiamo vacillato di fronte a questa performance. Purtroppo, spesso per pura ignoranza, c’è chi in Italia confonde l’obbligo alla laicità del nostro sistema educativo con la negazione della religione. Il nostro preside, che gestisce una scuola in cui il 20% degli studenti è straniero, ritiene che il suo compito sia quello di nascondere ai genitori musulmani che il restante 80% è fatto da cristiani.
Invece di promuovere un dialogo, per esempio spiegando ai bimbi cristiani in che cosa consista il credo dei loro compagni di banco islamici e viceversa, il preside promuove il silenzio, la censura, estesa fino al canto di Natale (c’è un istituto a Fonte Nuova, in provincia di Roma, dove hanno addirittura fatto sparire il bambinello dal presepe). In compenso la scuola di Rozzano trabocca di alberi di Natale e di Babbi Natale, quasi come a dire che far festa si può, ma senza religione.
Il guaio è che il 25 dicembre, per quanto multietnici vogliamo diventare, si celebra la nascita di un personaggio storico chiamato Gesù Cristo. Che tra l’altro, è rispettato e venerato anche dalla religione islamica, come potrebbero spiegare tutti i genitori musulmani che ieri, intervistati davanti alla scuola, hanno tenuto a precisare che non si sarebbero sentiti neanche lontanamente offesi da Tu scendi dalle stelle . Dunque, cari presidi italiani, sinite parvulos ...
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Riprendiamo da Avvenire del 28/11/2015 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Basta con i paragoni tra il sistema giudiziario di Riad e quello del Daesh, il sedicente Stato islamico. Il ministero della Giustizia saudita ha deciso di citare in giudizio un utente di Twitter che, a proposito di una recente condanna a morte per apostasia, ha scritto che si tratta di una sanzione «in stile Daesh». «Mettere in discussione la correttezza della sentenza di un tribunale – ha affermato una fonte del ministero – vuol dire mettere in discussione la giustizia e il sistema giudiziario del regno, che si basano sulla legge islamica, che garantisce i diritti e la dignità umana».
Una «giustizia» che non ha evitato a Riad un record negativo: 151 condanne a morte eseguite nel 2015, quasi il doppio delle 88 di tutto il 2014. E lo scorso gennaio, Middle East Eye ha pubblicato uno studio da cui emerge che il codice penale saudita coincide in gran parte con quello che il Daesh applica nei territori occupati di Siria e Iraq. Entrambi prevedono la condanna a morte per blasfemia, omosessualità, tradimento e omicidio, la lapidazione per gli adulteri sposati, le frustate per quelli non sposati e il taglio degli arti per furti e rapine. Del resto, il libro sacro dei musulmani indica espressamente le pene da applicare per alcuni crimini o reati. Si tratta dei «limiti di Dio» (hudud, in arabo) che non vanno trasgrediti. Diventa così difficile, per chiunque voglia sottolineare il proprio attaccamento alla sharia, sottrarsene senza incorrere nelle ire delle frange più estremiste. «Ecco i limiti di Dio, non li sfiorate! E coloro che trasgrediscono i termini di Dio, quelli sono i prevaricatori» (Corano 2, 229).
Se Daesh e Riad appaiono simili quanto al velo di segretezza che avvolge i processi, Il paragone però si ferma lì. Non essendo uno Stato, Daesh «non ha alcuna legittimazione a decidere di uccidere la gente», come ebbe a dire il portavoce del ministero saudita degli Interni. In pochi casi, questa «differenza» ha permesso di salvare qualche condannato, come il blogger Raif Badawi, condannato a mille frustate. In molti altri casi, le pressioni internazionali sono sembrate invece senza effetto. Secondo Amnesty International, oltre 50 persone sono a «elevato rischio di esecuzione imminente in Arabia Saudita».
Tra queste, il giovane sciita Alì Mohammad al-Nimr (aveva 17 anni al momento dell’arresto), condannato alla decapitazione e alla crocifissione. Nonostante questo, ogni paragone tra il sistema giudiziario saudita e la presunta «giustizia » amministrata da banditi del Daesh è fuorviante. All’ombra del Califfato, infatti, abbiamo assistito a esecuzioni sommarie di civili e militari, allo sgozzamento di ostaggi locali e occidentali, allo sfollamento di intere comunità cristiane e all’abuso sessuale contro ragazze e madri di confessioni ritenute «eretiche». Il tutto “mediatizzato” con ogni mezzo di comunicazione grazie a una macchina propagandistica infernale che vomita ogni settimana, quasi a farne un vanto, decine di video e di foto del supplizio «amministrato in nome di Dio».
Daesh si distingue anche per l’introduzione di nuove crudeli modalità di uccisione che nessun codice penale islamico, anche il più estremo, ha mai previsto: omosessuali gettati nel vuoto, condannati arsi vivi, annegati in gabbie, colpiti con il lanciarazzi e persino schiacciati da un carro armato.
Riprendiamo da La Repubblica del 24/11/2015 un articolo scritto da Massimo Recalcati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Impugnando insieme il mitra e il Corano, i terroristi dell’Is uccidono vite innocenti in nome della Legge di Dio: possono sparare freddamente, a bruciapelo, contro giovani sconosciuti senza provare la minima emozione, senza avere alcun dubbio sulla necessità della loro crudeltà.
Se il loro braccio è armato direttamente da Dio, la loro forza scaturisce dal sentirsi espressioni della volontà di un Essere supremo che li libera da ogni senso di colpa e dalla paura umana della morte. Il loro Dio, infatti, li ricompenserà con una vita ultraterrena fatta di godimenti senza limiti: abbeverarsi di sostanze estasianti, possedere innumerevoli vergini, bearsi in un mondo dove tutto è permesso li solleverà da una vita terrena fatta di stenti e disperazione.
Il loro martirio è richiesto da una Legge che non è quella degli uomini, ma quella di un Essere supremo che saprà riconoscere e premiare giustamente la loro fedeltà assoluta. La loro vera vita non è questa, ma è in un altro mondo. L’esistenza dell’Occidente impuro gli consente di identificarsi al giustiziere senza macchia che serve la Legge di un Dio folle.
Tuttavia, il paradiso a cui anelano coincide paradossalmente con quella rappresentazione della vita dei giovani occidentali che odiano ma dalla quale, in realtà, si sentono esclusi. Il meccanismo che presiede la loro volontà omicida è drammaticamente elementare. Si chiama “proiezione”: essendosi identificati coi redentori dell’umanità, con gli unici e autentici cavalieri della fede, con la purezza intransigente del martire, proiettano i loro desideri più impuri nell’Occidente corrotto che s’incaricano di distruggere per emendare quella parte scabrosa di se stessi che non riescono a riconoscere come tale.
In questo senso sono davvero anime morte che uccidono le esistenze di cui invidiano la vita e la libertà. Jacques Lacan ha fatto notare che quando l’uomo calpesta la Legge della parola per rispondere ad una Legge che è totalmente al di là degli uomini, che trascende ogni limite che questa Legge impone, esso si incammina lungo il sentiero tetro della perversione.
Ogni volta che qualcuno diviene giustiziere, ogni volta che uccide in nome di una Causa che trascende la vita particolare dell’uomo, egli diventa un “crociato”, un militante della Fede che disprezzando la Legge (imperfetta) degli uomini vuole affermare quella (perfetta) del suo Idolo.
In questo senso profondo la psicologia del terrorista dell’Is è perversa. Essa agisce in nome di una Causa, di un Essere supremo che odia gli infedeli, ordinando la loro epurazione fisica. La depravazione dell’Occidente li rinsalda nei loro ideali ascetici che non sono solo uno stile di vita tra gli altri, ma che vorrebbe essere imposto come il solo stile di vita possibile.
I loro cuori bruciano di spirito di vendetta: farsi esplodere o uccidere è un modo per avvicinarsi a Dio, per accedere ad un paradiso di carne che li beatificherà eternamente. L’ingenuità di questa costruzione può rapire la vita dei più giovani che, come ricorda Gesù nella parabola della donna adultera, sono gli ultimi a lasciare la piazza, a lasciare cadere dalla loro mani le pietre del giudizio…
I terroristi coltivano perversamente l’orrore per suscitare l’angoscia nel loro nemico. Nessuna forma di terrorismo sino ad oggi è stata così meticolosa nel coltivare mediaticamente questa strategia. Mostrare in diretta lo sgozzamento dei prigionieri, trascinare nella polvere i loro cadaveri sghignazzando, ammonire severamente l’Occidente che la sua libertà pacifica, conquistata nei secoli, ha i giorni contati, mostrare, insomma, l’orrore senza veli serve a provocare l’angoscia nell’Altro.
È il loro ricatto perverso: non si tratta di semplicemente di impaurire l’Occidente, né di colpire bersagli determinati come accadeva per il terrorismo che abbiamo già conosciuto, ma di corrodere dall’interno la sua stessa vita, di rendere la nostra vita in generale meno sicura, meno certa, esposta al rischio della morte casuale dell’atto terrorista che, come sappiamo, non potrà mai in nessun modo essere totalmente prevenuto.
Essendo dappertutto, non-circoscritto, il pericolo non genera più una paura localizzata all’oggetto considerato minaccioso (l’obiettivo cosiddetto sensibile), ma si diffonde ovunque, attraversa le nostre vite diventando puro panico collettivo. Inoculare l’angoscia trasformandola in panico è, dunque, l’obiettivo massimo della strategia terrorista. Essi vogliono vedere negli occhi dell’Occidente lo smarrimento e il terrore rendendo la nostra vita prigioniera.
Per questa ragione la prima risposta che, come insegna la psicoanalisi, è sempre necessario dare alla perversione è quella di respingere l’angoscia, di sottrarsi alla sua ipnosi maligna, di rifiutarsi di cedere sulla nostra libertà.
Riprendiamo dal Corriere della sera del 24/11/2015 un articolo scritto da Monica Ricci Sargentini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e, per la maternità surrogata, Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Le prime a lanciare il sasso sono state le femministe francesi di fronte alle crescenti domande di iscrizione allo stato civile dei bambini nati da madre surrogata in California, Russia, India o altrove. Il prossimo 2 febbraio all’Assemblea Nazionale si terrà un convegno per l’Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa») cui parteciperanno ricercatori, parlamentari francesi ed europei, associazioni femministe. L’assise è stata lanciata da Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese, impegnata da anni nella lotta contro la maternità surrogata con la sua associazione Corp (Collettivo per il rispetto della persona) e autrice del saggio Corps en miettes («Corpi sbriciolati», Flammarion).
Agacinski, che è docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, spiega:
«Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa (…) Fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione (…)».
In Italia finora la battaglia contro la gestazione per altri era stata condotta soprattutto dai cattolici ma in queste ultime settimane il dibattito sulla legge sulle unioni civili ha riportato in campo l’argomento e le femministe italiane, soprattutto quelle della differenza, si sono sentite in dovere di pronunciarsi. Ognuna partendo da sé, come è sempre stato. La prima a scendere in campo senza se e senza ma è stata Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano : «Non esiste un diritto di avere figli a tutti i costi, eppure ce lo vogliono far credere: finito il tempo delle grandi aggregazioni e dei partiti, è un nuovo modo di fare politica cercando consensi. L’utero in affitto si innesta in questa tendenza, anche se è nato prima, negli Usa, con gli effetti che sappiamo. È la strada attuale per lo sfruttamento del corpo delle donne».
Domenica 22 novembre alla Casa Internazionale delle Donne di Roma il gruppo del Mercoledì ha indetto un incontro dal titolo eloquente: Curare la differenza. Tra gender, generazione, relazioni sessuali e famiglie arcobaleno. C’erano moltissime femministe storiche: Letizia Paolozzi, Maria Luisa Boccia, Lea Melandri, Bia Sarasini, Franca Fossati, Claudia Mancina, Elettra Deiana, Paola Tavella, Ida Dominijanni. Per citarne solo alcune. Ma sono intervenuti anche rappresentanti della comunità Lgbt: Aurelio Mancuso, Tommaso Giartosio, Andrea Maccarone. E Stefano Ciccone per l’associazione maschile plurale.
L’idea era quella di recuperare lo spazio per una riflessione sulle scelte di vita e di relazione a partire dalla pratica della cura senza dividersi nella polarizzazione semplicistica tra la negazione di ogni possibile cambiamento per ancorarsi a stereotipi rassicuranti e l’utilizzo disinvolto delle bio-tecnologie e del mercato per trovare risposte a desideri anch’essi rassicuranti. A partire da alcune domande: Come rispettare la libertà e l’autonomia di ciascuna donna? Come permettere la realizzazione di desideri senza mettere in gioco la libertà dell’altra? Non c’è il rischio di farne una mera questione di mercato? C’è differenza tra il desiderio di maternità e il desiderio di paternità, senza donne? Perché questo desiderio non sceglie l’adozione? Non riconoscendo nessuna differenza fra desiderio di maternità e desiderio di paternità, ritenendo che l’accesso alla genitorialità biologica sia un diritto universale e neutro, non ricadiamo nella conservazione dell’universo simbolico patriarcale?
Paola Tavella, giornalista e autrice di un libro contro le tecniche di procreazione assistita dal titolo Madri Selvagge, non ha molti dubbi:
«Io penso – dice – che un essere umano non si possa né vendere né comprare. Da un’indagine femminista indipendente su questa tematica viene fuori che l’80% delle donne che vengono affittate sono analfabete. In India si stanno muovendo per chiedere il divieto di questa pratica. Lì le donne vengono tenute nei capannoni, quando capiscono quello che sta succedendo scappano e le suocere, i mariti, le riportano indietro».
Tavella è convinta che la legge sulle unioni civili vada approvata al più presto ma con la stepchild adoption limitata alla presenza di una madre come è attualmente in Germania.
«È doveroso – spiega – fare una sanatoria per i bambini che sono già nati dall’utero in affitto ma impedire che ne arrivino altri. E poi si fa una battaglia insieme per le adozioni. Perché le donne e gli uomini di fronte alla procreazione non sono sullo stesso piano. Non possiamo organizzare scientificamente di fare nascere un figlio senza madre, che non avrà mai una madre».
Celeste Costantino, deputata di Sel, non crede nel concetto di dono: «Non penso che esista la gratuità però potrebbe esserci un elemento di autodeterminazione nel decidere di prestare il proprio corpo. Solo che l’input dovrebbe arrivare da chi si offre e non da chi ne fa richiesta. Così come sono le prostitute a rivendicare la loro libertà di farlo, così dovrebbe essere per la maternità surrogata».
Clelia Mori, insegnante e pittrice, parte da sé: «Io non potrei mai dare a nessun altro qualche cosa che ho costruito con il mio corpo. Ho provato a pensare di fare l’utero in affitto e mi sono sentita male. Perché questo mio dono d’amore deve essere così infinito e perché mi deve essere chiesto da una persona che non vive con me, che non mi ama, che non ha una relazione con me. Devo amare talmente un’altra persona da regalargli un mio figlio perché mi si chiede un dono. C’è qualcosa che mi fa male fisicamente. Non mi va bene questo. Non è un percorso corretto».
Ida Dominijanni, giornalista e filosofa, è d’accordo con Cecilia D’Elia che bisogna evitare di definire la maternità surrogata solo negativamente. Però, riflette, «due gay o due donne non sono la stessa cosa. Un contratto tra due donne può trovare un terreno di condivisione più facilmente che tra una coppia di gay omosessuali e tra una donna». Dominijanni mette in guardia contro «l’indifferenziazione sessuale sostenuta dal mercato e dai diritti». La tendenza è chiara, dice, «nella società americana i corpi stanno diventando indistinguibili. Ci sono ottime ragioni per rilanciare la scommessa della differenza tenendo presente, però, che è una scommessa difficile».
Il dibattito è tutt’altro che chiuso.
Riprendiamo da Avvenire del 26/11/2015 un testo di Antonio Spadaro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e media nella sezione Catechesi, famiglia e scuola.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Cambiano gli strumenti della comunicazione, non cambia il nostro bisogno di comunicare: questo il messaggio di «Quando la fede si fa social», il nuovo saggio di padre Antonio Spadaro che la casa editrice Emi pubblica nella collana “Segni dei tempi” (pagine 64, euro 5). Una riflessione rapida e documentata, nel quale il direttore di “Civiltà Cattolica” passa in rassegna opportunità e limiti dei media digitali, soffermandosi con particolare attenzione sulle caratteristiche che possono fare della Rete un luogo di relazioni autentiche, anche alla luce del Vangelo e del magistero di papa Francesco. Anticipiamo un brano del libro.
L’esistenza “virtuale” appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale.
Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa, una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Le sfere esistenziali coinvolte nella presenza in Rete sono infatti da indagare meglio nel loro intreccio. Si apre davanti a noi un mondo “intermediario”, ibrido, la cui ontologia andrebbe indagata meglio in ordine alla comprensione teologica.
Certamente una parte della nostra capacità di vedere e ascoltare è ormai palesemente “dentro” la Rete, per cui la connettività è ormai in fase di definizione come un diritto la cui violazione incide profondamente sulle capacità relazionali e sociali delle persone. La nostra stessa identità viene sempre di più vista come un valore da pensare come disseminato in vari spazi e non semplicemente legato alla nostra presenza fisica, alla nostra realtà biologica. [...]
Come osserva papa Francesco, nella parabola evangelica del “prossimo”, cioè del “comunicatore”, il levita e il sacerdote «non videro la realtà di un loro prossimo, ma la “pseudo-realtà” di un “estraneo” da cui era meglio tenersi a distanza». E oggi questo è il rischio: «che alcuni media stabiliscano una “legge” e una “liturgia” capaci di indurci a ignorare il nostro prossimo reale per cercare e servire altri interessi».
Ciò vale anche per le “leggi” e le “liturgie” cristiane: evangelizzare non significa affatto fare “propaganda” del Vangelo. Non significa «trasmettere» messaggi di fede. Il Vangelo non è un messaggio tra i tanti altri. Dunque evangelizzare non significa «inserire contenuti dichiaratamente religiosi» su Facebook e Twitter. E inoltre la verità del Vangelo non trae il suo valore dalla sua popolarità o dalla quantità di attenzione (dei “mi piace”) che riceve. Al contrario il Papa ribadisce la necessità a essere disponibili verso gli altri uomini e donne che ci stanno attorno, a «coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana».
Testimoniare dunque significa innanzitutto vivere una vita ordinaria alimentata dalla fede in tutto: visione del mondo, scelte, orientamenti, gusti, e quindi anche modo di comunicare, di costruire amicizie e di relazionarsi fuori e dentro la Rete. E di conseguenza anche, come ha scritto il Papa, «testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita».
La Chiesa in Rete è chiamata dunque non a essere una «emittenza» di contenuti religiosi, ma una «condivisione» del Vangelo in una società complessa. Il Vangelo non è merce da vendere in un “mercato” saturo di informazioni. Spesso risulta molto efficace un messaggio discreto capace di suscitare interesse, desiderio della verità e muovere la coscienza. Questo permette di evitare la trappola dell’assuefazione a un annuncio che viene ritenuto già noto, già visto, già ascoltato. Nella testimonianza occorre apprendere dall’episodio dell’incontro del Cristo risorto con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), dove il Signore si accosta ai due uomini «col volto triste», aprendo con delicatezza il loro cuore al riconoscimento del mistero.
La possibile separazione tra connessione e incontro, tra condivisione e relazione implica il fatto che oggi le relazioni, paradossalmente, possono essere mantenute senza rinunciare alla propria condizione di egoistico isolamento. Sherry Turkle ha riassunto questa condizione nel titolo di un suo libro: Insieme ma soli. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è “vicino”, cioè prossimo, chi è “connesso” con me.
Qual è il rischio, dunque? Quello di essere “lontano” da un mio amico che abita vicino ma che non è su Facebook e usa poco l’email, e invece di sentire “vicino” una persona che non ho mai incontrato, che è diventata mio “amico” perché è l’amico di un mio amico, e con la quale ho uno scambio frequente in Rete.
Questa stranezza ha radici profonde nell’anonimato della società di massa. Fino all’inizio del XX secolo la maggior parte della popolazione viveva in ambito agricolo, e le persone conoscevano certo non più di pochissime centinaia di volti nella loro vita. Oggi è normale il contrario, cioè il non riconoscere i visi incontrati per strada, ed è ovvio che il prossimo è sostanzialmente uno sconosciuto. Il passaggio problematico è che si comincia a valutare la prossimità con criteri troppo elementari, privi della complessità propria di una relazione vera, profonda.
La tecnologia abitua sempre più il cervello ad applicare l’esperienza del videogame, che si basa sulla logica “risposta giusta/risposta sbagliata” agli stimoli che inviamo al nostro interlocutore. Cristianamente il “prossimo”, però, non è certamente colui che offre “risposte giuste” ai nostri stimoli nei suoi confronti. La logica evangelica è molto chiara al riguardo: «Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo (Lc 6,32-35).
Quando poi l’evangelista Luca parla di “fare del bene” oggi dovremmo intenderlo nel senso più letterale possibile. Il contatto da videogame in Rete si sviluppa sostanzialmente grazie a “parole”, cioè racconti, messaggi scritti. Una volta, ad esempio, essere amici per i giovani era possibile solamente se si faceva qualcosa insieme, se c’era un’attività condivisa, dall’andare a mangiare una pizza al suonare insieme o partecipare a un gruppo. Oggi invece è possibile essere “amici” anche semplicemente scrivendo la propria vita su una bacheca elettronica.
Riprendiamo dalla pagina FB Pagine ebraiche una nota scritto da Anna Foa il 23/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Ero alla manifestazione di piazza Santi Apostoli a Roma, Not in my name. Speravo in una buona affluenza di musulmani, erano davvero pochi. Molti giornalisti, qualche vecchio cane sciolto (non si dice più, appartiene al vecchio linguaggio politico di oltre vent’anni fa) come me. Peccato, era un’occasione importante.
Sotto la pioggia scrosciante, in presenza di qualche cartello davvero inopportuno, molte affermazioni di dissociazione. Ma basta dissociarsi? O bisogna affermare la propria volontà di lottare contro il Daesh, che è cosa diversa dal dissociarsi, va ben oltre. Momenti alti, la lettura del messaggio del capo dello Stato e il bell’intervento del senatore Luigi Manconi, in cui questo aspetto del “lottare insieme“ era sottolineato con forza.
Ho la sensazione che la maggior parte dei musulmani presenti volessero soprattutto affermare che non bisognava fare di tutt’erba un fascio, che loro non volevano essere considerati terroristi. Ora, credo che per quanto questo aspetto sia importante, non sia più quello determinante.
Si tratta di decidere da che parte stare, in una strana guerra che c’è già (e invocare la pace come si faceva serve poco). Come fanno le donne curde che combattono l’IS.
Non voglio con questo invitare i musulmani ad armarsi contro il terrorismo. Ma ci sono altri modi, per esempio l’invito che è stato fatto da un musulmano francese a denunciare i terroristi, o la possibilità che gli iman predichino sistematicamente contro il terrorismo.
Non solo poche frasi di dissociazione, ma un’attiva opera didattica e di predicazione. Mi illudo? No, perché se non pensassi che questo può diventare possibile penserei anche che abbiamo già perso: non solo noi europei, ma con noi anche tutti i musulmani che non sono, che non vogliono essere, come gli assassini del Califfato.
Riprendiamo sul nostro sito un articolo tratto dal sito della rivista Famille chrétienne, del 17/11/2015, numero 1975: la nostra traduzione riprende i passaggi tradotti in italiano da Andreas Hofer in un suo commento al testo di Hadjadj e completa le parti mancanti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Hadjadj e Bidar
Avevamo perduto la guerra. Non parlo di un’assenza di successo. Al contrario, avevamo preso l’abitudine di cullarci nel comfort e nei successi, fintanto che una malattia, un incidente, un fatto di cronaca, un male senza lotta né nemico non ci avessero portati via come un computer impallato, in una insignificanza al di qua dell’assurdo.
Ci eravamo rammolliti, avevamo perduto ogni virilità, ridotti allo stato di bambini viziati, di marionette preoccupate del loro cardio-training, di pupazzi consumatori di pornografia. Non volevamo la pace che si fa, ma quella che ci lascia in pace, poco importa al prezzo di chissà quali devastazioni, di chissà quali “danni collaterali”.
Ma "la pace è opera della giustizia", dice Isaia, ed è normale, quando si rifiuta questa lotta per la giustizia,, che la nostra pace apparente ci esploda in faccia. Ed ecco allora che girovagare per la strada non è più qualcosa di scontato, come per i passeggiatori disincantati. La guerra ci ha raggiunti. È già qualcosa, nell’ottica del risveglio. Ma questa guerra la vinceremo? Combatteremo la «buona battaglia», secondo le parole di san Paolo?.
È la figura dell’amore a dominare nella vita cristiana, quella del fratello, del figlio, di colui che dialoga, di colui che ha compassione. Ma non possiamo dimenticare quella del guerriero. Un guerriero dalle armi anzitutto spirituali, ma pur sempre guerriero. Certo, contrariamente a quanto crede un certo darwinismo, la vita è comunione prima di essere battaglia, è dono prima di essere lotta. Ma poiché questa vita è ferita fin dall’origine, incessantemente attaccata dal Maligno, occorre lottare per il dono, combattere per la comunione, impugnare la spada per estendere il Regno dell’amore.
Se non ritroviamo questa virilità guerriera, quella che faceva cantare a san Bernardo «la lode della nuova milizia» noi avremo perso contro l'islamismo sia spiritualmente che materialmente. Molti giovani, infatti, si rivolgono all'Islam perché il cristianesimo che offriamo non contiene più nulla di eroico né di cavalleresco (mentre Tolkien è con noi), ma si riduce a delle garbate considerazioni di civismo e di comunicazione non-violenta.
Qual è il vero terreno di questa guerra? Alcuni vorrebbero farci credere che la forza dei terroristi dello scorso venerdì 13 consista nel fatto di essere stati addestrati, formati nei campi di Daesh, di modo che la battaglia sarebbe ancora quella della potenza tecnocapitalista per fabbricare un armamento più pesante. Ma in che modo un ragazzo bloccato alle uscite di sicurezza, e che si fa saltare in aria con degli esplosivi rudimentali, può essere un soldato navigato? Noi sappiamo – e lo ha provato l’esperienza recente di Israele – che chiunque può improvvisarsi assassino nel momento in cui è posseduto da un’intenzione suicidaria. Ciò che costituisce la sua forza di distruzione, pronta a esplodere in qualunque momento e luogo, non è la sua abilità militare, ma la sua sicurezza morale.
Cosa abbiamo noi da opporre per impedire il contagio? I nostri «valori» possono al massimo mobilitare un esercito di consumatori, non di combattenti. Perciò è qui che si svolge la battaglia fondamentale – al livello di una fede capace di sostenere un vero martirio – contro quella parodia diabolica del martirio che è l’attentato suicida.
Il comunicato di Daesh che rivendica l’«attacco benedetto» parla di Parigi come della capitale «che porta la bandiera della croce in Europa». Quanto vorremmo che dicesse la verità. La guerra è qui: nel coraggio di avere una speranza tanto forte da poter dare le nostre vite e dare la vita.
Riprendiamo sul nostro sito l'enciclica Spe salvi di Benedetto XVI. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi di Benedetto XVI, vedi il tag benedetto_xvi o la sotto-sezione Documenti del magistero degli ultimi pontefici nella sezione Bibbia e documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2007)
LETTERA ENCICLICA SPE SALVI DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI
AI VESCOVI, AI PRESBITERI E AI DIACONI, ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI SULLA SPERANZA CRISTIANA
Indice
Introduzione
1. «SPE SALVI facti sumus» – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La «redenzione», la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?
La fede è speranza
2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po' più attentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. «Speranza», di fatto, è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole «fede» e «speranza» sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla «pienezza della fede» (10,22) la «immutabile professione della speranza» (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), «speranza» è l'equivalente di «fede». Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano «senza Dio» e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. «In nihil ab nihilo quam cito recidimus» (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo)[1] dice un epitaffio di quell'epoca – parole nelle quali appare senza mezzi termini ciò a cui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete «affliggervi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una «buona notizia» – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.
3. Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è «redenzione»? Bene: il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano «senza Dio nel mondo». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. Qui, dopo «padroni» così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un «padrone» totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava «paron» il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un «paron» al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal «Paron» supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava «alla destra di Dio Padre». Ora lei aveva «speranza» – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era «redenta», non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio. Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo «Paron». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva «redenta», non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
Il concetto di speranza basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva
4. Prima di affrontare la domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato il suo Volto e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo «informativo», ma anche «performativo», vale a dire se possa trasformare la nostra vita così da farci sentire redenti mediante la speranza che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non è difficile rendersi conto che l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita è stata anche l'esperienza di molte persone picchiate e condannate alla schiavitù nell'epoca del cristianesimo nascente. Il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito. Gesù non era Spartaco, non era un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba. Ciò che Gesù, Egli stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa di totalmente diverso: l'incontro col Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e così l'incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo. Ciò che di nuovo era avvenuto appare con massima evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone. Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo scrive nel carcere e affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone – appunto Filemone. Sì, Paolo rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma pregando: «Ti supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore [...] Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo» (Fm 10-16). Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell'unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle – così i cristiani si chiamavano a vicenda. In virtù del Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito e ricevevano insieme, uno accanto all'altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro. Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciò è tutt'altro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata.
5. Dobbiamo aggiungere ancora un altro punto di vista. La Prima Lettera ai Corinzi (1,18-31) ci mostra che una grande parte dei primi cristiani apparteneva ai ceti sociali bassi e, proprio per questo, era disponibile all'esperienza della nuova speranza, come l'abbiamo incontrata nell'esempio di Bakhita. Tuttavia fin dall'inizio c'erano anche conversioni nei ceti aristocratici e colti. Poiché proprio anche loro vivevano «senza speranza e senza Dio nel mondo». Il mito aveva perso la sua credibilità; la religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice cerimoniale, che veniva eseguito scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una «religione politica». Il razionalismo filosofico aveva confinato gli dèi nel campo dell'irreale. Il Divino veniva visto in vari modi nelle forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra la problematica essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato, quando contrappone alla vita «secondo Cristo» una vita sotto la signoria degli «elementi del cosmo» (Col 2,8). In questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno può essere illuminante. Egli dice che nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo[2]. Di fatto, in questa scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è nuovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l'universo; non le leggi della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non è più l'ultima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell'antichità gli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore[3].
6. I sarcofaghi degli inizi del cristianesimo illustrano visivamente questa concezione – al cospetto della morte, di fronte alla quale la questione circa il significato della vita si rende inevitabile. La figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si intendeva una difficile disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l'arte essenziale: l'arte di essere uomo in modo retto – l'arte di vivere e di morire. Certamente gli uomini già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in giro come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le loro parole si procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto più si cercava il vero filosofo che sapesse veramente indicare la via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo per la prima volta a Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro, la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e nell'altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la verità che i filosofi peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per un lungo periodo permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciò che le persone colte come le semplici trovavano in Cristo: Egli ci dice chi in realtà è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via è la verità. Egli stesso è tanto l'una quanto l'altra, e perciò è anche la vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la morte; solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita. La stessa cosa si rende visibile nell'immagine del pastore. Come nella rappresentazione del filosofo, anche per la figura del pastore la Chiesa primitiva poteva riallacciarsi a modelli esistenti dell'arte romana. Lì il pastore era in genere espressione del sogno di una vita serena e semplice, di cui la gente nella confusione della grande città aveva nostalgia. Ora l'immagine veniva letta all'interno di uno scenario nuovo che le conferiva un contenuto più profondo: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla ... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me ...» (Sal 23 [22], 1.4). Il vero pastore è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell'ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte, l'ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche nella morte mi accompagna e con il suo «bastone e il suo vincastro mi dà sicurezza», cosicché «non devo temere alcun male» (cfr Sal 23 [22],4) – era questa la nuova «speranza» che sorgeva sopra la vita dei credenti.
7. Dobbiamo ancora una volta tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei (v.1) si trova una sorta di definizione della fede che intreccia strettamente questa virtù con la speranza. Intorno alla parola centrale di questa frase si è creata fin dalla Riforma una disputa tra gli esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione comune. Per il momento lascio questa parola centrale non tradotta. La frase dunque suona così: «La fede è hypostasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono». Per i Padri e per i teologi del Medioevo era chiaro che la parola greca hypostasis era da tradurre in latino con il termine substantia. La traduzione latina del testo, nata nella Chiesa antica, dice quindi: «Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium» – la fede è la «sostanza» delle cose che si sperano; la prova delle cose che non si vedono. Tommaso d'Aquino[4], utilizzando la terminologia della tradizione filosofica nella quale si trova, spiega questo così: la fede è un «habitus», cioè una costante disposizione dell'animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la ragione è portata a consentire a ciò che essa non vede. Il concetto di «sostanza» è quindi modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale, potremmo dire «in germe» – quindi secondo la «sostanza» – sono già presenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perché la cosa stessa è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza: questa «cosa» che deve venire non è ancora visibile nel mondo esterno (non «appare»), ma a causa del fatto che, come realtà iniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una qualche percezione di essa. A Lutero, al quale la Lettera agli Ebrei non era in se stessa molto simpatica, il concetto di «sostanza», nel contesto della sua visione della fede, non diceva niente. Per questo intese il termine ipostasi/sostanza non nel senso oggettivo (di realtà presente in noi), ma in quello soggettivo, come espressione di un atteggiamento interiore e, di conseguenza, dovette naturalmente comprendere anche il termine argumentum come una disposizione del soggetto. Questa interpretazione nel XX secolo si è affermata – almeno in Germania – anche nell'esegesi cattolica, cosicché la traduzione ecumenica in lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai Vescovi, dice: «Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, Überzeugtsein von dem, was man nicht sieht» (fede è: stare saldi in ciò che si spera, essere convinti di ciò che non si vede). Questo in se stesso non è erroneo; non è però il senso del testo, perché il termine greco usato (elenchos) non ha il valore soggettivo di «convinzione», ma quello oggettivo di «prova». Giustamente pertanto la recente esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa: «Ora però non può più essere messo in dubbio che questa interpretazione protestante, divenuta classica, è insostenibile»[5]. La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una «prova» delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro «non-ancora». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future.
8. Questa spiegazione viene ulteriormente rafforzata e rapportata alla vita concreta, se consideriamo il versetto 34 del decimo capitolo della Lettera agli Ebrei che, sotto l'aspetto linguistico e contenutistico, è collegato con questa definizione di una fede permeata di speranza e la prepara. Qui l'autore parla ai credenti che hanno subito l'esperienza della persecuzione e dice loro: «Avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze (hyparchonton – Vg: bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin – Vg: substantiam) e più duraturi». Hyparchonta sono le proprietà, ciò che nella vita terrena costituisce il sostentamento, appunto la base, la «sostanza» per la vita sulla quale si conta. Questa «sostanza», la normale sicurezza per la vita, è stata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno sopportato, perché comunque ritenevano questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla, perché avevano trovato una «base» migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che nessuno può togliere. Non si può non vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di «sostanza», tra sostentamento o base materiale e l'affermazione della fede come «base», come «sostanza» che permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova «sostanza» che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima. Lì la nuova «sostanza» si è comprovata realmente come «sostanza», dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente «sostanza» ed è una «sostanza» che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una «prova» che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: Egli è veramente il «filosofo» e il «pastore» che ci indica che cosa è e dove sta la vita.
9. Per comprendere più nel profondo questa riflessione sulle due specie di sostanze – hypostasis e hyparchonta – e sui due modi di vita espressi con esse, dobbiamo riflettere ancora brevemente su due parole attinenti l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli Ebrei. Si tratta delle parole hypomone (10,36) e hypostole (10,39). Hypomone si traduce normalmente con «pazienza» – perseveranza, costanza. Questo saper aspettare sopportando pazientemente le prove è necessario al credente per poter «ottenere le cose promesse» (cfr 10,36). Nella religiosità dell'antico giudaismo questa parola veniva usata espressamente per l'attesa di Dio caratteristica di Israele: per questo perseverare nella fedeltà a Dio, sulla base della certezza dell'Alleanza, in un mondo che contraddice Dio. Così la parola indica una speranza vissuta, una vita basata sulla certezza della speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla parte di Dio assume un nuovo significato: in Cristo Dio si è mostrato. Ci ha ormai comunicato la «sostanza» delle cose future, e così l'attesa di Dio ottiene una nuova certezza. È attesa delle cose future a partire da un presente già donato. È attesa, alla presenza di Cristo, col Cristo presente, del completarsi del suo Corpo, in vista della sua venuta definitiva. Con hypostole invece è espresso il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la verità forse pericolosa. Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito di timore nei loro confronti conduce alla «perdizione» (Eb 10,39). «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» – così invece la Seconda Lettera a Timoteo (1,7) caratterizza con una bella espressione l'atteggiamento di fondo del cristiano.
La vita eterna – che cos'è?
10. Abbiamo finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi del cristianesimo; è stato però anche sempre evidente che non discorriamo solo del passato; l'intera riflessione interessa il vivere e morire dell'uomo in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora. Tuttavia dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l'accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?» Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?» «La vita eterna». Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l'accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna». Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia»[6]. Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev'essere pianta la morte, perché è causa di salvezza...»[7].
11. Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole – è vero che l'eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l'umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c'è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità». Non c'è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient'altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. «C'è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza» (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti[8].
12. Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell'uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa «cosa» ignota è la vera «speranza» che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola «vita eterna» cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. «Eterno», infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; «vita» ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo[9].
La speranza cristiana è individualistica?
13. Nel corso della loro storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo sapere che non sa in figure rappresentabili, sviluppando immagini del «cielo» che restano sempre lontane da ciò che, appunto, conosciamo solo negativamente, mediante una non-conoscenza. Tutti questi tentativi di raffigurazione della speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo slancio di vivere in base alla fede e di abbandonare per questo anche i loro «hyparchonta», le sostanze materiali per la loro esistenza. L'autore della Lettera agli Ebrei, nell'undicesimo capitolo ha tracciato una specie di storia di coloro che vivono nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da Abele giunge fino all'epoca sua. Di questo tipo di speranza si è accesa nel tempo moderno una critica sempre più dura: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata. Henri de Lubac, nell'introduzione alla sua opera fondamentale «Catholicisme. Aspects sociaux du dogme», ha raccolto alcune voci caratteristiche di questo genere di cui una merita di essere citata: «Ho trovato la gioia? No ... Ho trovato la mia gioia. E ciò è una cosa terribilmente diversa ... La gioia di Gesù può essere individuale. Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva. È nella pace..., per ora e per sempre, ma lei sola. Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario: lei è, appunto, l'eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano»[10].
14. Rispetto a ciò, de Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità, ha potuto mostrare che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria. La stessa Lettera agli Ebrei parla di una «città» (cfr 11,10.16; 12,22; 13,14) e quindi di una salvezza comunitaria. Coerentemente, il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell'unità del genere umano, come frazionamento e divisione. Babele, il luogo della confusione delle lingue e della separazione, si rivela come espressione di ciò che in radice è il peccato. E così la «redenzione» appare proprio come il ristabilimento dell'unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione che si delinea nella comunità mondiale dei credenti. Non è necessario che ci occupiamo qui di tutti i testi, in cui appare il carattere comunitario della speranza. Rimaniamo con la Lettera a Proba in cui Agostino tenta di illustrare un po' questa sconosciuta conosciuta realtà di cui siamo alla ricerca. Lo spunto da cui parte è semplicemente l'espressione «vita beata [felice]». Poi cita il Salmo 144 [143],15: «Beato il popolo il cui Dio è il Signore». E continua: «Per poter appartenere a questo popolo e giungere [...] alla vita perenne con Dio, “il fine del precetto è l'amore che viene da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera” (1 Tim 1,5)»[11]. Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all'essere nell'unione esistenziale con un «popolo» e può realizzarsi per ogni singolo solo all'interno di questo «noi». Essa presuppone, appunto, l'esodo dalla prigionia del proprio «io», perché solo nell'apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso – su Dio.
15. Questa visione della «vita beata» orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo – in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse. Al tempo di Agostino, quando l'irruzione dei nuovi popoli minacciava la coesione del mondo, nella quale era data una certa garanzia di diritto e di vita in una comunità giuridica, si trattava di fortificare i fondamenti veramente portanti di questa comunità di vita e di pace, per poter sopravvivere nel mutamento del mondo. Cerchiamo di gettare, piuttosto a caso, uno sguardo su un momento del medioevo sotto certi aspetti emblematico. Nella coscienza comune, i monasteri apparivano come i luoghi della fuga dal mondo («contemptus mundi») e del sottrarsi alla responsabilità per il mondo nella ricerca della salvezza privata. Bernardo di Chiaravalle, che con il suo Ordine riformato portò una moltitudine di giovani nei monasteri, aveva su questo una visione ben diversa. Secondo lui, i monaci hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo. Con molte immagini egli illustra la responsabilità dei monaci per l'intero organismo della Chiesa, anzi, per l'umanità; a loro egli applica la parola dello Pseudo-Rufino: «Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe...»[12]. I contemplativi – contemplantes – devono diventare lavoratori agricoli – laborantes –, ci dice. La nobiltà del lavoro, che il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, era emersa già nelle regole monastiche di Agostino e di Benedetto. Bernardo riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale. Per la verità, Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Un appezzamento selvatico di bosco vien reso fertile – proprio mentre vengono allo stesso tempo abbattuti gli alberi della superbia, estirpato ciò che di selvatico cresce nelle anime e preparato così il terreno, sul quale può prosperare pane per il corpo e per l'anima[13]. Non ci è dato forse di costatare nuovamente, proprio di fronte alla storia attuale, che nessuna positiva strutturazione del mondo può riuscire là dove le anime inselvatichiscono?
La trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno
16. Come ha potuto svilupparsi l'idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la «salvezza dell'anima» come fuga davanti alla responsabilità per l'insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri? Per trovare una risposta all'interrogativo dobbiamo gettare uno sguardo sulle componenti fondamentali del tempo moderno. Esse appaiono con particolare chiarezza in Francesco Bacone. Che un'epoca nuova sia sorta – grazie alla scoperta dell'America e alle nuove conquiste tecniche che hanno consentito questo sviluppo – è cosa indiscutibile. Su che cosa, però, si basa questa svolta epocale? È la nuova correlazione di esperimento e metodo che mette l'uomo in grado di arrivare ad un'interpretazione della natura conforme alle sue leggi e di conseguire così finalmente «la vittoria dell'arte sulla natura» (victoria cursus artis super naturam)[14]. La novità – secondo la visione di Bacone – sta in una nuova correlazione tra scienza e prassi. Ciò viene poi applicato anche teologicamente: questa nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all'uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito[15].
17. Chi legge queste affermazioni e vi riflette con attenzione, vi riconosce un passaggio sconcertante: fino a quel momento il ricupero di ciò che l'uomo nella cacciata dal paradiso terrestre aveva perso si attendeva dalla fede in Gesù Cristo, e in questo si vedeva la «redenzione». Ora questa «redenzione», la restaurazione del «paradiso» perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non è che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l'attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana. Così anche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per Bacone, infatti, è chiaro che le scoperte e le invenzioni appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell'uomo[16]. Così egli ha presentato anche una visione delle invenzioni prevedibili – fino all'aereo e al sommergibile. Durante l'ulteriore sviluppo dell'ideologia del progresso, la gioia per gli avanzamenti visibili delle potenzialità umane rimane una costante conferma della fede nel progresso come tale.
18. Al contempo, due categorie entrano sempre più al centro dell'idea di progresso: ragione e libertà. Il progresso è soprattutto un progresso nel crescente dominio della ragione e questa ragione viene considerata ovviamente un potere del bene e per il bene. Il progresso è il superamento di tutte le dipendenze – è progresso verso la libertà perfetta. Anche la libertà viene vista solo come promessa, nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza. In ambedue i concetti – libertà e ragione – è presente un aspetto politico. Il regno della ragione, infatti, è atteso come la nuova condizione dell'umanità diventata totalmente libera. Le condizioni politiche di un tale regno della ragione e della libertà, tuttavia, in un primo momento appaiono poco definite. Ragione e libertà sembrano garantire da sé, in virtù della loro intrinseca bontà, una nuova comunità umana perfetta. In ambedue i concetti-chiave di «ragione» e «libertà», però, il pensiero tacitamente va sempre anche al contrasto con i vincoli della fede e della Chiesa, come pure con i vincoli degli ordinamenti statali di allora. Ambedue i concetti portano quindi in sé un potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva.
19. Dobbiamo brevemente gettare uno sguardo sulle due tappe essenziali della concretizzazione politica di questa speranza, perché sono di grande importanza per il cammino della speranza cristiana, per la sua comprensione e per la sua persistenza. C'è innanzitutto la Rivoluzione francese come tentativo di instaurare il dominio della ragione e della libertà ora anche in modo politicamente reale. L'Europa dell'Illuminismo, in un primo momento, ha guardato affascinata a questi avvenimenti, ma di fronte ai loro sviluppi ha poi dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libertà. Significativi per le due fasi della ricezione di ciò che era avvenuto in Francia sono due scritti di Immanuel Kant, in cui egli riflette sugli eventi. Nel 1792 scrive l'opera: «Der Sieg des guten Prinzips über das böse und die Gründung eines Reichs Gottes auf Erden» (La vittoria del principio buono su quello cattivo e la costituzione di un regno di Dio sulla terra). In essa egli dice: «Il passaggio graduale dalla fede ecclesiastica al dominio esclusivo della pura fede religiosa costituisce l'avvicinamento del regno di Dio»[17]. Ci dice anche che le rivoluzioni possono accelerare i tempi di questo passaggio dalla fede ecclesiastica alla fede razionale. Il «regno di Dio», di cui Gesù aveva parlato ha qui ricevuto una nuova definizione e assunto anche una nuova presenza; esiste, per così dire, una nuova «attesa immediata»: il «regno di Dio» arriva là dove la «fede ecclesiastica» viene superata e rimpiazzata dalla «fede religiosa», vale a dire dalla semplice fede razionale. Nel 1795, nello scritto «Das Ende aller Dinge» (La fine di tutte le cose) appare un'immagine mutata. Ora Kant prende in considerazione la possibilità che, accanto alla fine naturale di tutte le cose, se ne verifichi anche una contro natura, perversa. Scrive al riguardo: «Se il cristianesimo un giorno dovesse arrivare a non essere più degno di amore [...] allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un'opposizione contro di esso; e l'anticristo [...] inaugurerebbe il suo, pur breve, regime (fondato presumibilmente sulla paura e sull'egoismo). In seguito, però, poiché il cristianesimo, pur essendo stato destinato ad essere la religione universale, di fatto non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi, sotto l'aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose»[18].
20. L'Ottocento non venne meno alla sua fede nel progresso come nuova forma della speranza umana e continuò a considerare ragione e libertà come le stelle-guida da seguire sul cammino della speranza. L'avanzare sempre più veloce dello sviluppo tecnico e l'industrializzazione con esso collegata crearono, tuttavia, ben presto una situazione sociale del tutto nuova: si formò la classe dei lavoratori dell'industria e il cosiddetto «proletariato industriale», le cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustrò in modo sconvolgente. Per il lettore doveva essere chiaro: questo non può continuare; è necessario un cambiamento. Ma il cambiamento avrebbe scosso e rovesciato l'intera struttura della società borghese. Dopo la rivoluzione borghese del 1789 era arrivata l'ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con vigore di linguaggio e di pensiero, cercò di avviare questo nuovo passo grande e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza – verso quello che Kant aveva qualificato come il «regno di Dio». Essendosi dileguata la verità dell'aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell'aldiquà. La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose. Con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. La rivoluzione poi si è anche verificata nel modo più radicale in Russia.
21. Ma con la sua vittoria si è reso evidente anche l'errore fondamentale di Marx. Egli ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo. Egli supponeva semplicemente che con l'espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si sarebbe realizzata la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate tutte le contraddizioni, l'uomo e il mondo avrebbero visto finalmente chiaro in se stessi. Allora tutto avrebbe potuto procedere da sé sulla retta via, perché tutto sarebbe appartenuto a tutti e tutti avrebbero voluto il meglio l'uno per l'altro. Così, dopo la rivoluzione riuscita, Lenin dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessun'indicazione sul come procedere. Sì, egli aveva parlato della fase intermedia della dittatura del proletariato come di una necessità che, però, in un secondo tempo da sé si sarebbe dimostrata caduca. Questa «fase intermedia» la conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante. Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo – di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli.
22. Così ci troviamo nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell'autocritica dell'età moderna confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici. Su questo si possono qui tentare solo alcuni accenni. Innanzitutto c'è da chiedersi: che cosa significa veramente «progresso»; che cosa promette e che cosa non promette? Già nel XIX secolo esisteva una critica alla fede nel progresso. Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l'ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo.
23. Per quanto riguarda i due grandi temi «ragione» e «libertà», qui possono essere solo accennate quelle domande che sono con essi collegate. Sì, la ragione è il grande dono di Dio all'uomo, e la vittoria della ragione sull'irrazionalità è anche uno scopo della fede cristiana. Ma quand'è che la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diventata cieca per Dio? La ragione del potere e del fare è già la ragione intera? Se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana. Diventa umana solo se è in grado di indicare la strada alla volontà, e di questo è capace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario la situazione dell'uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato. Così in tema di libertà, bisogna ricordare che la libertà umana richiede sempre un concorso di varie libertà. Questo concorso, tuttavia, non può riuscire, se non è determinato da un comune intrinseco criterio di misura, che è fondamento e meta della nostra libertà. Diciamolo ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. Visti gli sviluppi dell'età moderna, l'affermazione di san Paolo citata all'inizio (cfr Ef 2,12) si rivela molto realistica e semplicemente vera. Non vi è dubbio, pertanto, che un «regno di Dio» realizzato senza Dio – un regno quindi dell'uomo solo – si risolve inevitabilmente nella «fine perversa» di tutte le cose descritta da Kant: l'abbiamo visto e lo vediamo sempre di nuovo. Ma non vi è neppure dubbio che Dio entra veramente nelle cose umane solo se non è soltanto da noi pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.
La vera fisionomia della speranza cristiana
24. Chiediamoci ora di nuovo: che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell'umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa. Ma ciò significa che:
a) il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà dell'uomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione all'ordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente.
b) Poiché l'uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone.
25. Conseguenza di quanto detto è che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di bene, che aiutino la generazione successiva come orientamento per l'uso retto della libertà umana e diano così, sempre nei limiti umani, una certa garanzia anche per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non può mai essere redento semplicemente dall'esterno. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità. Essa però può anche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D'altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull'individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l'orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti.
26. Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di «redenzione» che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l'uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha «redenti». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana «causa prima» del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
27. In questo senso è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell'uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino al pieno compimento» (cfr Gv 13,1 e 19, 30). Chi viene toccato dall'amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe «vita». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la «vita eterna» – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l'abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi «vita»: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora «viviamo».
28. Ma ora sorge la domanda: in questo modo non siamo forse ricascati nuovamente nell'individualismo della salvezza? Nella speranza solo per me, che poi, appunto, non è una speranza vera, perché dimentica e trascura gli altri? No. Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù – da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La relazione con Gesù, però, è una relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cfr 1 Tm 2,6). L'essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere «per tutti», ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l'insieme. Vorrei, in questo contesto, citare il grande dottore greco della Chiesa, san Massimo il Confessore († 662), il quale dapprima esorta a non anteporre nulla alla conoscenza ed all'amore di Dio, ma poi arriva subito ad applicazioni molto pratiche: «Chi ama Dio non può riservare il denaro per sé. Lo distribuisce in modo ‘divino' [...] nello stesso modo secondo la misura della giustizia»[19]. Dall'amore verso Dio consegue la partecipazione alla giustizia e alla bontà di Dio verso gli altri; amare Dio richiede la libertà interiore di fronte ad ogni possesso e a tutte le cose materiali: l'amore di Dio si rivela nella responsabilità per l'altro[20]. La stessa connessione tra amore di Dio e responsabilità per gli uomini possiamo osservare in modo toccante nella vita di sant'Agostino. Dopo la sua conversione alla fede cristiana egli, insieme con alcuni amici di idee affini, voleva condurre una vita che fosse dedicata totalmente alla parola di Dio e alle cose eterne. Intendeva realizzare con valori cristiani l'ideale della vita contemplativa espressa dalla grande filosofia greca, scegliendo in questo modo « la parte migliore » (cfr Lc 10,42). Ma le cose andarono diversamente. Mentre partecipava alla Messa domenicale nella città portuale di Ippona, fu dal Vescovo chiamato fuori dalla folla e costretto a lasciarsi ordinare per l'esercizio del ministero sacerdotale in quella città. Guardando retrospettivamente a quell'ora egli scrive nelle sue Confessioni: «Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato la fuga nella solitudine. Ma tu me l'hai impedito e mi hai confortato con la tua parola: «Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti» (cfr 2 Cor 5,15)[21]. Cristo è morto per tutti. Vivere per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo «essere per».
29. Per Agostino ciò significò una vita totalmente nuova. Egli una volta descrisse così la sua quotidianità: «Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori, guardarsi dai maligni, istruire gli ignoranti, stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, moderare gli ambiziosi, incoraggiare gli sfiduciati, pacificare i contendenti, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e [ahimè!] amare tutti»[22]. «È il Vangelo che mi spaventa»[23] – quello spavento salutare che ci impedisce di vivere per noi stessi e che ci spinge a trasmettere la nostra comune speranza. Di fatto, proprio questa era l'intenzione di Agostino: nella situazione difficile dell'impero romano, che minacciava anche l'Africa romana e, alla fine della vita di Agostino, addirittura la distrusse, trasmettere speranza – la speranza che gli veniva dalla fede e che, in totale contrasto col suo temperamento introverso, lo rese capace di partecipare decisamente e con tutte le forze all'edificazione della città. Nello stesso capitolo delle Confessioni, in cui abbiamo or ora visto il motivo decisivo del suo impegno «per tutti», egli dice: Cristo «intercede per noi, altrimenti dispererei. Sono molte e pesanti le debolezze, molte e pesanti, ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che la tua Parola fosse lontana dal contatto dell'uomo e disperare di noi, se questa Parola non si fosse fatta carne e non avesse abitato in mezzo a noi»[24]. In virtù della sua speranza, Agostino si è prodigato per la gente semplice e per la sua città – ha rinunciato alla sua nobiltà spirituale e ha predicato ed agito in modo semplice per la gente semplice.
30. Riassumiamo ciò che finora è emerso nello sviluppo delle nostre riflessioni. L'uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell'uno o dell'altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza dell'instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava esser diventata realizzabile. Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero «regno di Dio». Questa sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l'uomo ha bisogno. Essa era in grado di mobilitare – per un certo tempo – tutte le energie dell'uomo; il grande obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno. Ma nel corso del tempo apparve chiaro che questa speranza fugge sempre più lontano. Innanzitutto ci si rese conto che questa era forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. E benché il «per tutti» faccia parte della grande speranza – non posso, infatti, diventare felice contro e senza gli altri – resta vero che una speranza che non riguardi me in persona non è neppure una vera speranza. E diventò evidente che questa era una speranza contro la libertà, perché la situazione delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che ad essa appartengono. Se questa libertà, a causa delle condizioni e delle strutture, fosse loro tolta, il mondo, in fin dei conti, non sarebbe buono, perché un mondo senza libertà non è per nulla un mondo buono. Così, pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo migliore di domani non può essere il contenuto proprio e sufficiente della nostra speranza. E sempre a questo proposito si pone la domanda: Quando è «migliore» il mondo? Che cosa lo rende buono? Secondo quale criterio si può valutare il suo essere buono? E per quali vie si può raggiungere questa «bontà»?
31. Ancora: noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell'intimo aspettiamo: la vita che è «veramente» vita. Cerchiamo di concretizzare ulteriormente questa idea in un'ultima parte, rivolgendo la nostra attenzione ad alcuni « luoghi » di pratico apprendimento ed esercizio della speranza.
«Luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza
I. La preghiera come scuola della speranza
32. Un primo essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera. Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c'è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un'attesa che supera l'umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi[25]. Se sono relegato in estrema solitudine...; ma l'orante non è mai totalmente solo. Da tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento, l'indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l'ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza – di quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta.
33. In modo molto bello Agostino ha illustrato l'intima relazione tra preghiera e speranza in una omelia sulla Prima Lettera di Giovanni. Egli definisce la preghiera come un esercizio del desiderio. L'uomo è stato creato per una realtà grande – per Dio stesso, per essere riempito da Lui. Ma il suo cuore è troppo stretto per la grande realtà che gli è assegnata. Deve essere allargato. «Rinviando [il suo dono], Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende più capace [di accogliere Lui stesso]». Agostino rimanda a san Paolo che dice di sé di vivere proteso verso le cose che devono venire (cfr Fil 3,13). Poi usa un'immagine molto bella per descrivere questo processo di allargamento e di preparazione del cuore umano. «Supponi che Dio ti voglia riempire di miele [simbolo della tenerezza di Dio e della sua bontà]. Se tu, però, sei pieno di aceto, dove metterai il miele?» Il vaso, cioè il cuore, deve prima essere allargato e poi pulito: liberato dall'aceto e dal suo sapore. Ciò richiede lavoro, costa dolore, ma solo così si realizza l'adattamento a ciò a cui siamo destinati[26]. Anche se Agostino parla direttamente solo della ricettività per Dio, appare tuttavia chiaro che l'uomo, in questo lavoro col quale si libera dall'aceto e dal sapore dell'aceto, non diventa solo libero per Dio, ma appunto si apre anche agli altri. Solo diventando figli di Dio, infatti, possiamo stare con il nostro Padre comune. Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell'angolo privato della propria felicità. Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio – che cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l'altro. Deve imparare che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento – la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze. Deve liberarsi dalle menzogne segrete con cui inganna se stesso: Dio le scruta, e il confronto con Dio costringe l'uomo a riconoscerle pure lui. «Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalla colpe che non vedo», prega il Salmista (19[18],13). Il non riconoscimento della colpa, l'illusione di innocenza non mi giustifica e non mi salva, perché l'intorpidimento della coscienza, l'incapacità di riconoscere il male come tale in me, è colpa mia. Se non c'è Dio, devo forse rifugiarmi in tali menzogne, perché non c'è nessuno che possa perdonarmi, nessuno che sia la misura vera. L'incontro invece con Dio risveglia la mia coscienza, perché essa non mi fornisca più un'autogiustificazione, non sia più un riflesso di me stesso e dei contemporanei che mi condizionano, ma diventi capacità di ascolto del Bene stesso.
34. Affinché la preghiera sviluppi questa forza purificatrice, essa deve, da una parte, essere molto personale, un confronto del mio io con Dio, con il Dio vivente. Dall'altra, tuttavia, essa deve essere sempre di nuovo guidata ed illuminata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi, dalla preghiera liturgica, nella quale il Signore ci insegna continuamente a pregare nel modo giusto. Il Cardinale Nguyen Van Thuan, nel suo libro di Esercizi spirituali, ha raccontato come nella sua vita c'erano stati lunghi periodi di incapacità di pregare e come egli si era aggrappato alle parole di preghiera della Chiesa: al Padre nostro, all'Ave Maria e alle preghiere della Liturgia[27]. Nel pregare deve sempre esserci questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera personale. Così possiamo parlare a Dio, così Dio parla a noi. In questo modo si realizzano in noi le purificazioni, mediante le quali diventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini. Così diventiamo capaci della grande speranza e così diventiamo ministri della speranza per gli altri: la speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo perché le cose non vadano verso «la fine perversa». È speranza attiva proprio anche nel senso che teniamo il mondo aperto a Dio. Solo così essa rimane anche speranza veramente umana.
II. Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza
35. Ogni agire serio e retto dell'uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o quell'altro compito che per l'ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po' più luminoso e umano e così si aprano anche le porte verso il futuro. Ma l'impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell'insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da insuccessi nel piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza. È importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare. Solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell'Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un'importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire. Certo, non possiamo «costruire» il regno di Dio con le nostre forze – ciò che costruiamo rimane sempre regno dell'uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana. Il regno di Dio è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta alla speranza. E non possiamo – per usare la terminologia classica – «meritare» il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, così come l'essere amati non è mai una cosa «meritata», ma sempre un dono. Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del «plusvalore» del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all'ingresso di Dio: della verità, dell'amore, del bene. È quanto hanno fatto i santi che, come «collaboratori di Dio», hanno contribuito alla salvezza del mondo (cfr 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2). Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità. Ciò conserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Così, per un verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo stesso tempo, però, è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire.
36. Come l'agire, anche la sofferenza fa parte dell'esistenza umana. Essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall'altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell'amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell'esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si è riusciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo – è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c'è e che perciò questo potere che «toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29) è presente nel mondo. Con la fede nell'esistenza di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento; speranza che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia così come appare all'esterno, il potere della colpa rimane anche nel futuro una presenza terribile.
37. Ritorniamo al nostro tema. Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore. Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. «Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (cfr Sal 136 [135]). Questo carcere è davvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza. Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me [...] Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Sal 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov'è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell'ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti [...]. Fratelli carissimi, nell'udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. [...] Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l'ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore...»[28]. Questa è una lettera dall'«inferno». Si palesa tutto l'orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltà degli aguzzini. È una lettera dall'inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: «Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti [...]. Se dico: “Almeno l'oscurità mi copra” [...] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (Sal 139 [138] 8-12; cfr anche Sal 23 [22],4). Cristo è disceso nell'«inferno» e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. È sorta, tuttavia, la stella della speranza – l'ancora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.
38. La misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d'altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell'altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l'altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c'è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell'amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell'umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna. La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna. E infine, anche il «sì» all'amore è fonte di sofferenza, perché l'amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L'amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla se stesso come tale.
39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l'altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così grande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l'Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis[29] – Dio non può patire, ma può compatire. L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità. Questa capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.
40. Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter «offrire» le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire «offrire»? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all'economia del bene, dell'amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi.
III. Il Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza
41. Nel grande Credo della Chiesa la parte centrale, che tratta del mistero di Cristo a partire dalla nascita eterna dal Padre e dalla nascita temporale dalla Vergine Maria per giungere attraverso la croce e la risurrezione fino al suo ritorno, si conclude con le parole: «...di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l'alto, ma sempre anche in avanti verso l'ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente. Nella conformazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re – l'immagine della speranza –, sul lato occidentale, invece, il Giudizio finale come immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava ed accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianità. Nello sviluppo dell'iconografia, però, è poi stato dato sempre più risalto all'aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti più dello splendore della speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia.
42. Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell'anima; la riflessione sulla storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell'attesa del Giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa. L'ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l'opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c'è un Dio che crea giustizia, sembra che l'uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia. Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l'umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo. Così i grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, hanno criticato in ugual modo l'ateismo come il teismo. Horkheimer ha radicalmente escluso che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo però anche l'immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione estrema del divieto veterotestamentario delle immagini, egli parla della «nostalgia del totalmente Altro» che rimane inaccessibile – un grido del desiderio rivolto alla storia universale. Anche Adorno si è attenuto decisamente a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l'«immagine» del Dio che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato questa dialettica «negativa» e ha affermato che giustizia, una vera giustizia, richiederebbe un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato»[30]. Questo, però, significherebbe – espresso in simboli positivi e quindi per lui inadeguati – che giustizia non può esservi senza risurrezione dei morti. Una tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe «la risurrezione della carne, una cosa che all'idealismo, al regno dello spirito assoluto, è totalmente estranea»[31].
43. Dalla rigorosa rinuncia ad ogni immagine, che fa parte del primo Comandamento di Dio (cfr Es 20,4), può e deve imparare sempre di nuovo anche il cristiano. La verità della teologia negativa è stata posta in risalto dal IV Concilio Lateranense il quale ha dichiarato esplicitamente che, per quanto grande possa essere la somiglianza costatata tra il Creatore e la creatura, sempre più grande è tra di loro la dissomiglianza[32]. Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni immagine non può spingersi fino al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer e Adorno, nel «no» ad ambedue le tesi, al teismo e all'ateismo. Dio stesso si è dato un' «immagine»: nel Cristo che si è fatto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata all'estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell'uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza-certezza: Dio c'è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne[33]. Esiste una giustizia[34]. Esiste la «revoca» della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore[35]. Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo «I fratelli Karamazov». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che però rendono con evidenza inequivocabile la verità, egli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta più ciò che esse erano una volta nella storia, ma solo ciò che sono in verità. «Ora [il giudice] ha davanti a sé forse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia [...] e tutto è storto, pieno di menzogna e superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza verità. Ed egli vede come l'anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, è caricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirà le punizioni meritate [...] A volte, però, egli vede davanti a sé un'anima diversa, una che ha fatto una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole dei beati»[36]. Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora.
45. Questa idea vetero-giudaica della condizione intermedia include l'opinione che le anime non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti. Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva – questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno[37]. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono[38].
46. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima. Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadrà? San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ci dà un'idea del differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. Lo fa con immagini che vogliono in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi possiamo trasformare queste immagini in concetti – semplicemente perché non possiamo gettare lo sguardo nel mondo al di là della morte né abbiamo alcuna esperienza di esso. Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte. Poi Paolo continua: «Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco» (3,12-15). In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il «fuoco» per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell'eterno banchetto nuziale.
47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa «come attraverso il fuoco». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la «durata» di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il «momento» trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del «passaggio» alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo[39]. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza «con timore e tremore» (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro «avvocato», parakletos (cfr 1 Gv 2,1).
48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perché è importante per la prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale. L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell'«aldilà», ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato «ristoro e refrigerio» mediante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l'aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il «purgatorio» è semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco nell'incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l'altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio dell'essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciò non c'è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell'altro né è mai inutile. Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me[40]. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.
Maria, stella della speranza
49. Con un inno dell'VIII/IX secolo, quindi da più di mille anni, la Chiesa saluta Maria, la Madre di Dio, come «stella del mare»: Ave maris stella. La vita umana è un cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo «sì» aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo; lei che diventò la vivente Arca dell'Alleanza, in cui Dio si fece carne, divenne uno di noi, piantò la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)?
50. A lei perciò ci rivolgiamo: Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili e grandi in Israele che, come Simeone, aspettavano «il conforto d'Israele» (Lc 2,25) e attendevano, come Anna, «la redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,38). Tu vivevi in intimo contatto con le Sacre Scritture di Israele, che parlavano della speranza – della promessa fatta ad Abramo ed alla sua discendenza (cfr Lc 1,55). Così comprendiamo il santo timore che ti assalì, quando l'angelo del Signore entrò nella tua camera e ti disse che tu avresti dato alla luce Colui che era la speranza di Israele e l'attesa del mondo. Per mezzo tuo, attraverso il tuo «sì», la speranza dei millenni doveva diventare realtà, entrare in questo mondo e nella sua storia. Tu ti sei inchinata davanti alla grandezza di questo compito e hai detto «sì»: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Quando piena di santa gioia attraversasti in fretta i monti della Giudea per raggiungere la tua parente Elisabetta, diventasti l'immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia. Ma accanto alla gioia che, nel tuo Magnificat, con le parole e col canto hai diffuso nei secoli, conoscevi pure le affermazioni oscure dei profeti sulla sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita nella stalla di Betlemme brillò lo splendore degli angeli che portavano la buona novella ai pastori, ma al tempo stesso la povertà di Dio in questo mondo fu fin troppo sperimentabile. Il vecchio Simeone ti parlò della spada che avrebbe trafitto il tuo cuore (cfr Lc 2,35), del segno di contraddizione che il tuo Figlio sarebbe stato in questo mondo. Quando poi cominciò l'attività pubblica di Gesù, dovesti farti da parte, affinché potesse crescere la nuova famiglia, per la cui costituzione Egli era venuto e che avrebbe dovuto svilupparsi con l'apporto di coloro che avrebbero ascoltato e osservato la sua parola (cfr Lc 11,27s). Nonostante tutta la grandezza e la gioia del primo avvio dell'attività di Gesù tu, già nella sinagoga di Nazaret, dovesti sperimentare la verità della parola sul «segno di contraddizione» (cfr Lc 4,28ss). Così hai visto il crescente potere dell'ostilità e del rifiuto che progressivamente andava affermandosi intorno a Gesù fino all'ora della croce, in cui dovesti vedere il Salvatore del mondo, l'erede di Davide, il Figlio di Dio morire come un fallito, esposto allo scherno, tra i delinquenti. Accogliesti allora la parola: «Donna, ecco il tuo figlio!» (Gv 19,26). Dalla croce ricevesti una nuova missione. A partire dalla croce diventasti madre in una maniera nuova: madre di tutti coloro che vogliono credere nel tuo Figlio Gesù e seguirlo. La spada del dolore trafisse il tuo cuore. Era morta la speranza? Il mondo era rimasto definitivamente senza luce, la vita senza meta? In quell'ora, probabilmente, nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo, con cui aveva risposto al tuo timore nel momento dell'annunciazione: «Non temere, Maria!» (Lc 1,30). Quante volte il Signore, il tuo Figlio, aveva detto la stessa cosa ai suoi discepoli: Non temete! Nella notte del Golgota, tu sentisti nuovamente questa parola. Ai suoi discepoli, prima dell'ora del tradimento, Egli aveva detto: «Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). «Non temere, Maria!» Nell'ora di Nazaret l'angelo ti aveva detto anche: «Il suo regno non avrà fine» (Lc 1,33). Era forse finito prima di cominciare? No, presso la croce, in base alla parola stessa di Gesù, tu eri diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua. La gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Gesù mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla comunità dei credenti, che nei giorni dopo l'Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cfr At 1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste. Il «regno» di Gesù era diverso da come gli uomini avevano potuto immaginarlo. Questo «regno» iniziava in quell'ora e non avrebbe avuto mai fine. Così tu rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, come Madre della speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!
Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 novembre,
festa di Sant'Andrea Apostolo, dell'anno 2007, terzo di Pontificato.
BENEDICTUS PP. XVI
© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
Note al testo
[1] Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, n. 26003.
[2] Cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429.
[3] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1817-1821.
[4] Summa Theologiae, II-IIae, q. 4, a. 1.
[5] H. Köster: ThWNT, VIII (1969) 585.
[6] De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274.
[7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273.
[8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73.
[9] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1025.
[10] Jean Giono, Les vraies richesses (1936), Préface, Paris 1992, pp. 18-20, in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, p. VII.
[11] Ep. 130 Ad Probam 13, 24: CSEL 44, 67.
[12] Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215.
[13] Cfr ibid. III, 71: CCL 6/2, 107-108.
[14] Novum Organum I, 117.
[15] Cfr. ibid. I, 129.
[16] Cfr New Atlantis.
[17] In: Werke IV, a cura di W. Weischedel (1956), 777.
[18] I. Kant, Das Ende aller Dinge, in: Werke VI, a cura di W. Weischedel (1964), 190.
[19] Capitoli sulla carità, Centuria 1, cap. 1: PG 90, 965.
[20] Cfr ibid.: PG 90, 962-966.
[21] Conf. X 43, 70: CSEL 33, 279.
[22] Sermo 340, 3: PL 38, 1484; cfr F. Van der Meer, Augustinus der Seelsorger, (1951), 318.
[23] Sermo 339, 4: PL 38, 1481.
[24] Conf. X, 43, 69: CSEL 33, 279.
[25] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2657.
[26] Cfr In 1 Joannis 4, 6: PL 35, 2008s.
[27] Testimoni della speranza, Città Nuova 2000, 156s.
[28] Breviario Romano, Ufficio delle Letture, 24 novembre.
[29] Sermones in Cant., Serm. 26,5: PL 183, 906.
[30] Negative Dialektik (1966) Terza parte, III, 11, in: Gesammelte Schriften Bd. VI, Frankfurt/Main 1973, 395.
[31] Ibid., Seconda parte, 207.
[32] DS 806.
[33] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 988-1004.
[34] Cfr ibid., n. 1040.
[35] Cfr Tractatus super Psalmos, Ps. 127, 1-3: CSEL 22, 628- 630.
[36] Gorgia 525a-526c.
[37] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1033-1037.
[38] Cfr ibid., nn. 1023-1029.
[39] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1030-1032.
[40] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1032.
1/ «Prima di denunciare le ingiustizie vorrei soffermarmi su un aspetto che i discorsi di esclusione non riescono a riconoscere o sembrano ignorare. Voglio fare riferimento alla saggezza dei quartieri popolari. Una saggezza che scaturisce da «un’ostinata resistenza di ciò che è autentico». Papa Francesco nell’incontro con gli abitanti del quartiere povero di Kangemi a Nairobi
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’incontro con gli abitanti del quartiere povero di Kangemi a Nairobi, il 27/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (27/11/2015)
Grazie per avermi accolto nel vostro quartiere. Grazie al Signor Arcivescovo Kivuva e a padre Pascal per le loro parole. In realtà, mi sento a casa condividendo questo momento con fratelli e sorelle che, non mi vergogno a dire, hanno un posto speciale nella mia vita e nelle mie scelte. Sono qui perché voglio che sappiate che le vostre gioie e speranze, le vostre angosce e i vostri dolori non mi sono indifferenti. Conosco le difficoltà che incontrate giorno per giorno! Come possiamo non denunciare le ingiustizie subite?
Ma prima di tutto vorrei soffermarmi su un aspetto che i discorsi di esclusione non riescono a riconoscere o sembrano ignorare. Voglio fare riferimento alla saggezza dei quartieri popolari. Una saggezza che scaturisce da «un’ostinata resistenza di ciò che è autentico» (Enc. Laudato si’, 112), da valori evangelici che la società del benessere, intorpidita dal consumo sfrenato, sembrerebbe aver dimenticato. Voi siete in grado di tessere «legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo» (ibid., 149).
La cultura dei quartieri popolari impregnati di questa particolare saggezza, «ha caratteristiche molto positive, che sono un contributo al tempo in cui viviamo, si esprime in valori come la solidarietà, dare la propria vita per l’altro, preferire la nascita alla morte; dare una sepoltura cristiana ai propri morti. Offrire un posto per i malati nella propria casa, condividere il pane con l'affamato: “dove mangiano 10 mangiano in 12”; la pazienza e la forza d’animo di fronte alle grandi avversità, ecc.» (Gruppo di Sacerdoti per le Zone di Emergenza, Argentina, Reflexiones sobre la urbanización y la cultura villera, 2010). Valori che si fondano sul fatto che ogni essere umano è più importante del dio denaro. Grazie per averci ricordato che esiste un altro tipo di cultura possibile.
Vorrei rivendicare in primo luogo questi valori che voi praticate, valori che non si quotano in Borsa, valori con i quali non si specula né hanno prezzo di mercato. Mi congratulo con voi, vi accompagno e voglio che sappiate che il Signore non si dimentica mai di voi. Il cammino di Gesù è iniziato in periferia, va dai poveri e con i poveri verso tutti.
Riconoscere queste manifestazioni di vita buona che crescono ogni giorno tra voi, non significa in alcun modo ignorare la terribile ingiustizia della emarginazione urbana. Sono le ferite provocate dalle minoranze che concentrano il potere, la ricchezza e sperperano egoisticamente mentre la crescente maggioranza deve rifugiarsi in periferie abbandonate, inquinate, scartate.
Questo si aggrava quando vediamo l’ingiusta distribuzione del terreno (forse non in questo quartiere, ma in altri) che porta in molti casi intere famiglie a pagare affitti abusivi per alloggi in condizioni edilizie per niente adeguate. Ho saputo anche del grave problema dell’accaparramento delle terre da parte di “imprenditori privati” senza volto, che pretendono perfino di appropriarsi del cortile della scuola dei propri figli. Questo accade perché si dimentica che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno» (Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus, 31).
In questo senso, un grave problema è la mancanza di accesso alle infrastrutture e servizi di base. Mi riferisco a bagni, fognature, scarichi, raccolta dei rifiuti, luce, strade, ma anche scuole, ospedali, centri ricreativi e sportivi, laboratori artistici. Voglio riferirmi in particolare all’acqua potabile. «L’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità» (Enc. Laudato si’, 30). Negare l’acqua ad una famiglia, attraverso qualche pretesto burocratico, è una grande ingiustizia, soprattutto quando si lucra su questo bisogno.
Questo contesto di indifferenza e ostilità, di cui soffrono i quartieri popolari, si aggrava quando la violenza si diffonde e le organizzazioni criminali, al servizio di interessi economici o politici, utilizzano i bambini e i giovani come “carne da cannone” per i loro affari insanguinati. Conosco anche le sofferenze di donne che lottano eroicamente per proteggere i loro figli e figlie da questi pericoli. Chiedo a Dio che le autorità prendano insieme a voi la strada dell’inclusione sociale, dell’istruzione, dello sport, dell’azione comunitaria e della tutela delle famiglie, perché questa è l’unica garanzia di una pace giusta, vera e duratura.
Queste realtà che ho elencato non sono una combinazione casuale di problemi isolati. Sono piuttosto una conseguenza di nuove forme di colonialismo, che pretende che i paesi africani siano «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Ecclesia in Africa, 32-33). Non mancano di fatto, pressioni affinché si adottino politiche di scarto come quella della riduzione della natalità che pretende «legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare» (Enc. Laudato si’, 50).
A questo proposito, propongo di riprendere l’idea di una rispettosa integrazione urbana. Né sradicamento, né paternalismo, né indifferenza, né semplice contenimento. Abbiamo bisogno di città integrate e per tutti. Abbiamo bisogno di andare oltre la mera declamazione di diritti che, in pratica, non sono rispettati, e attuare azioni sistematiche che migliorino l’habitat popolare e progettare nuove urbanizzazioni di qualità per ospitare le generazioni future. Il debito sociale, il debito ambientale con i poveri delle città si paga concretizzando il sacro diritto alla terra, alla casa e al lavoro [le tre “t”: tierra, techo, trabajo]. Questa non è filantropia, è un dovere morale di tutti.
Faccio appello a tutti i cristiani, in particolare ai Pastori, a rinnovare lo slancio missionario, a prendere l’iniziativa contro tante ingiustizie, a coinvolgersi nei problemi dei cittadini, ad accompagnarli nelle loro lotte, a custodire i frutti del loro lavoro collettivo e a celebrare insieme ogni piccola o grande vittoria. So che fate molto, ma vi chiedo di ricordare che non è un compito in più, ma forse il più importante, perché «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo» (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi del Brasile, 11 maggio 2007, 3).
Cari cittadini, cari fratelli. Preghiamo, lavoriamo e impegniamoci insieme perché ogni famiglia abbia una casa decente, abbia accesso all’acqua potabile, abbia un bagno, abbia energia sicura per illuminare, per cucinare, per migliorare le proprie abitazioni... perché ogni quartiere abbia strade, piazze, scuole, ospedali, spazi sportivi, ricreativi e artistici; perché i servizi essenziali arrivino ad ognuno di voi; perché siano ascoltati i vostri appelli e il vostro grido che chiede opportunità; perché tutti possiate godere della pace e della sicurezza che meritate secondo la vostra infinita dignità umana.
Mungu awabariki! (Dio vi benedica!)
E vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me.
2/ «Il tribalismo distrugge una nazione; il tribalismo vuol dire tenere le mani nascoste dietro la schiena e avere una pietra in ciascuna mano per lanciarla contro l’altro… La corruzione è qualcosa che ci entra dentro. È come lo zucchero: è dolce, ci piace, è facile… e poi? Finiamo male! Facciamo una brutta fine! Con tanto zucchero facile, finiamo diabetici e anche il nostro Paese diventa diabetico!». Papa Francesco ai giovani del Kenya
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’incontro con i giovani allo Stadio Kasarani di Nairobi, il 27/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (27/11/2015)
Grazie tante per il rosario che avete pregato per me: grazie, grazie tante!
Grazie per la vostra presenza, per la vostra presenza entusiasta, qui! Grazie a Linette e grazie a Manuel, per le vostre riflessioni.
[in spagnolo]
Esiste una domanda alla base di tutte le domande che mi hanno rivolto Linette e Manuel: “Perché succedono le divisioni, le lotte, la guerra, la morte, il fanatismo, la distruzione fra i giovani? Perché c’è questo desiderio di autodistruggerci? Nella prima pagina della Bibbia, dopo tutte quelle meraviglie che ha fatto Dio, un fratello uccide il proprio fratello. Lo spirito del male ci porta alla distruzione; lo spirito del male ci porta alla disunità, ci porta al tribalismo, alla corruzione, alla dipendenza dalla droga… Ci porta alla distruzione attraverso il fanatismo.
Manuel mi chiedeva: “Cosa fare perché un fanatismo ideologico non ci rubi un fratello, non ci rubi un amico?”. C’è una parola che può sembrare scomoda, ma non la voglio evitare perché voi la avete usata prima di me: l’avete usata quando mi avete portato i rosari, contando i rosari che avete pregato per me; l’ha usata anche il Vescovo, quando vi ha presentato, e ha detto che vi siete preparati a questa visita con la preghiera. La prima cosa che io risponderei è che un uomo perde il meglio del suo essere umano, una donna perde il meglio della sua umanità, quando si dimentica di pregare, perché si sente onnipotente, perché non sente il bisogno di chiedere aiuto al Signore davanti a tante tragedie.
La vita è piena di difficoltà, ma ci sono due modi di guardare alle difficoltà: o le si guarda come qualcosa che ti blocca, che ti distrugge, che ti tiene fermo, oppure le si guarda come una reale opportunità. A voi scegliere. Per me, una difficoltà è un cammino di distruzione, oppure è una opportunità per superare la mia situazione, quella della mia famiglia, della mia comunità, del mio Paese?
Ragazzi e ragazze, non viviamo in cielo, viviamo sulla terra. E la terra è piena di difficoltà. La terra è piena non soltanto di difficoltà, ma anche di inviti a deviare verso il male. Però c’è qualcosa che tutti voi giovani avete, che dura per un certo tempo, un tempo più o meno lungo: la capacità di scegliere quale cammino voglio scegliere, quale di queste due cose voglio scegliere: farmi sconfiggere dalla difficoltà, oppure trasformare la difficoltà in una opportunità, perché possa vincere io?
Alcune delle difficoltà che voi avete menzionato sono delle vere sfide. E quindi prima una domanda: voi volete superare queste sfide oppure lasciarvi vincere dalle sfide? Voi siete come quegli sportivi che, quando vengono qui a giocare nello stadio, volete vincere, o come quelli che hanno già venduto la vittoria agli altri e si sono messi i soldi in tasca? A voi la scelta!
Una sfida che ha menzionato Linette è quella del tribalismo. Il tribalismo distrugge una nazione; il tribalismo vuol dire tenere le mani nascoste dietro la schiena e avere una pietra in ciascuna mano per lanciarla contro l’altro. Il tribalismo si vince soltanto con l’orecchio, con il cuore e con la mano. Con l’orecchio, ascoltando: qual è la tua cultura?, perché sei così?, perché la tua tribù ha questa abitudine, questa usanza?, la tua tribù si sente superiore o inferiore? Con il cuore: una volta che ho ascoltato con le orecchie la risposta, apro il mio cuore; e poi tendo la mano per continuare il dialogo. Se voi non dialogate e non vi ascoltate fra di voi, allora ci sarà sempre il tribalismo, che è come un tarlo che corrode la società. Ieri - per voi la facciamo oggi - è stata dichiarata una giornata di preghiera e di riconciliazione. Io vi voglio invitare adesso, tutti voi giovani, Linette e Manuel, a venire qui, a prenderci tutti per mano; ci alziamo in piedi e ci prendiamo per mano come segno contro il tribalismo. Tutti siamo un’unica nazione! Siamo tutti un’unica nazione! Così deve essere il nostro cuore. Il tribalismo non è soltanto alzare la mano oggi, questo è il desiderio, ma è la decisione. Ma il tribalismo è un lavoro di tutti i giorni. Vincere il tribalismo è un lavoro di tutti i giorni; è un lavoro dell’orecchio: ascoltare l’altro; un lavoro del cuore: aprire il mio cuore all’altro; un lavoro della mano: darsi la mano l’uno con l’altro… E adesso diamoci la mano gli uni gli altri…. “No al tribalismo!”.
Sedetevi.
Un’altra domanda che ha fatto Linette è sulla corruzione. In fondo mi chiedeva: “Si può giustificare la corruzione semplicemente per il fatto che tutti stanno peccando, che tutti sono corrotti? Come possiamo essere cristiani e combattere il male della corruzione?”.
Io ricordo che nella mia patria, un giovane di 20-22 anni, voleva dedicarsi alla politica; studiava, era entusiasta, andava da una parte all’altra… Ha trovato lavoro in un ministero. Un giorno ha dovuto decidere su quello che bisognava comprare; allora ha chiesto tre preventivi, li ha studiati e ha scelto il più economico. Poi è andato all’ufficio del capo perché lo firmasse. “Perché hai scelto questo?” - “Perché bisogna scegliere il più conveniente per le finanze del Paese” – “No, no! Bisogna scegliere quelli che ti danno di più da metterti in tasca”, disse. Il giovane allora rispose al capo: “Io sono venuto a fare politica per aiutare la patria, per farla crescere”. E il capo gli rispose: “E io faccio politica per rubare!”. Questo è soltanto un esempio. Ma questo non soltanto nella politica, ma in tutte le istituzioni, compreso il Vaticano, ci sono casi di corruzione. La corruzione è qualcosa che ci entra dentro. È come lo zucchero: è dolce, ci piace, è facile… e poi? Finiamo male! Facciamo una brutta fine! Con tanto zucchero facile, finiamo diabetici e anche il nostro Paese diventa diabetico!
Ogni volta che accettiamo una “bustarella”, una tangente, ogni volta che accettiamo una “bustarella” e ce la mettiamo in tasca, distruggiamo il nostro cuore, distruggiamo la nostra personalità e distruggiamo la nostra patria. Per favore, non prendete gusto a questo “zucchero” che si chiama corruzione. “Padre, però io vedo che ci sono molti che sono corrotti, vedo tante persone che si vendono per un po’ di soldi, senza preoccuparsi della vita degli altri...”. Come in tutte le cose, bisogna cominciare: se non vuoi la corruzione nel tuo cuore, nella tua vita, nella tua patria, comincia tu, adesso! Se non cominci tu, non comincerà neanche il tuo vicino. La corruzione ci ruba anche la gioia, ci ruba la pace. La persona corrotta non vive in pace.
Una volta - e questo è un fatto storico, che adesso vi racconto – nella mia città è morto un uomo. Tutti sapevamo che era un grande corrotto. Allora io ho chiesto alcuni giorni dopo: come è stato il funerale? E una signora, che aveva molto senso dell’umorismo mi rispose: “Padre, non riuscivano a chiudere la bara, la cassa, perché voleva portarsi via tutto il denaro che aveva rubato”. Quello che voi rubate con la corruzione, rimarrà qui e lo userà qualcun altro. Però rimarrà anche – e questo teniamolo bene a mente – nel cuore di tanti uomini e donne che sono rimasti feriti dal tuo esempio di corruzione. Rimarrà nella mancanza del bene che avresti potuto fare e non hai fatto. Rimarrà nei ragazzi malati, affamati, perché il denaro che era per loro, a causa della tua corruzione, te lo sei goduto tu. Ragazzi e ragazze, la corruzione non è un cammino di vita: è un cammino di morte!
C’era anche una domanda su come usare i mezzi di comunicazione per divulgare il messaggio di speranza di Cristo, e promuovere iniziative giuste perché si veda la differenza. Il primo mezzo di comunicazione è la parola, è il gesto, è il sorriso. Il primo gesto di comunicazione è la vicinanza. Il primo gesto di comunicazione è cercare l’amicizia. Se voi parlate bene tra di voi, se vi sorridete, se vi avvicinate come fratelli; se voi state vicini gli uni agli altri, anche se appartenete a tribù differenti; se voi siete vicini a quelli che hanno bisogno, a quelli che sono poveri, a quelli abbandonati, agli anziani che nessuno visita, se siete vicini a loro, questi gesti di comunicazione sono più contagiosi di qualunque rete televisiva.
Fra tutte queste domande ho detto qualcosa che spero vi possa aiutare. Ma chiedete molto a Gesù, pregate il Signore, affinché vi dia la forza di distruggere il tribalismo, di essere tutti fratelli; affinché vi dia il coraggio di non lasciarvi corrompere, affinché vi dia il desiderio di poter comunicare fra di voi come fratelli, con un sorriso, con una buona parola, con un gesto di aiuto e con la vicinanza.
Anche Manuel nella sua testimonianza ha fatto delle domande incisive. Mi preoccupa la prima cosa che ha detto: “Cosa possiamo fare per fermare il reclutamento dei nostri cari? Cosa possiamo fare per farli tornare? Per rispondere a questo dobbiamo sapere perché un giovane, pieno di speranze, si lasci reclutare oppure vada a cercare di essere reclutato: si allontana dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua tribù, dalla sua patria; si allontana dalla vita, perché impara ad uccidere… E questa è una domanda che voi dovete rivolgere a tutte le autorità. Se un giovane, se un ragazzo o una ragazza, se un uomo o una donna, non ha lavoro, non può studiare, che può fare? Può delinquere, oppure cadere in una forma di dipendenza, oppure suicidarsi… - in Europa, le statistiche dei suicidi non vengono pubblicate -, oppure arruolarsi in una attività che gli dia un fine nella vita, ingannandolo…
La prima cosa che dobbiamo fare per evitare che un giovane sia reclutato o che cerchi di farsi reclutare è istruzione e lavoro. Se un giovane non ha lavoro, che futuro lo attende? Da lì viene l’idea di lasciarsi reclutare. Se un giovane non ha possibilità di ricevere una educazione, anche un’educazione di emergenza, di piccoli incarichi, che cosa può fare? Lì c’è il pericolo! È un pericolo sociale, che va al di là di noi, anche al di là del Paese, perché dipende da un sistema internazionale, che è ingiusto, che ha al centro dell’economia non la persona, ma il dio denaro. Che cosa posso fare per aiutarlo o per farlo tornare? Prima di tutto pregare. Però con forza! Dio è più forte di ogni campagna di reclutamento. E poi? Parlargli con affetto, con tenerezza, con amore e con pazienza. Invitarlo a vedere una partita di calcio, invitarlo a fare una passeggiata, invitarlo a stare insieme nel gruppo. Non lasciarlo da solo. Questo è quello che mi viene in mente adesso.
Certamente ci sono – è la tua seconda domanda – ci sono comportamenti che danneggiano, comportamenti in cui si cercano felicità passeggere, ma che finiscono poi per danneggiarvi. La domanda che mi hai fatto, Manuel, è una domanda di un professore di teologia: “Come possiamo capire che Dio è nostro Padre? Come possiamo vedere la mano di Dio nelle tragedie della vita? Come possiamo trovare la pace di Dio?”. Questa domanda se la pongono gli uomini e le donne di tutto il mondo, in un modo o nell’altro. E non trovano una ragione. Ci sono domande, alle quali, per quanto ci si sforzi di rispondere, non si riesce a trovare una risposta. “Come posso vedere la mano di Dio in una tragedia della vita?”. C’è una sola risposta: no, non c’è risposta. C’è una sola strada, guardare al Figlio di Dio. Dio lo ha consegnato per salvare tutti noi. Dio stesso si è fatto tragedia. Dio stesso si è lasciato distruggere sulla croce. E quando viene il momento in cui non capite, quando siete disperati e quando il mondo vi cade addosso, guardate la Croce! Lì c’è il fallimento di Dio; lì c’è la distruzione di Dio. Ma lì c’è anche sfida alla nostra fede: la speranza. Perché la storia non è finita in quel fallimento: c’è stata la Risurrezione che ci ha rinnovato tutti.
Vi farò una confidenza… Avete fame? Sono le 12.00… No? Allora vi farò una confidenza. In tasca porto sempre due cose [le tira fuori dalla tasca e le mostra]: un rosario, un rosario per pregare; e una cosa che sembra strana… Che cos’è questo? Questa è la storia del fallimento di Dio, è una Via Crucis, una piccola Via Crucis [mostra un astuccio che si apre e contiene delle piccole immagini]: come Gesù ha sofferto da quando è stato condannato a morte, fino a quando è stato sepolto… E con queste due cose, cerco di fare del mio meglio. Ma grazie a queste due cose non perdo la speranza.
Un’ultima domanda del “teologo” Manuel: “Che parole ha per i giovani che non hanno vissuto l’amore nelle proprie famiglie? È possibile uscire da questa esperienza?”. Ovunque ci sono ragazzi abbandonati, o perché sono stati abbandonati alla nascita o perché la vita li ha abbandonati, la famiglia, i genitori, e non sentono l’affetto della famiglia. Per questo la famiglia è così importante. Difendete la famiglia! Difendetela sempre. Ovunque ci sono non solo bambini abbandonati, ma anche anziani abbandonati, che stanno lì senza che nessuno li visiti, senza nessuno che voglia loro bene… Come si può uscire da questa esperienza negativa, di abbandono, di mancanza di amore? C’è soltanto un rimedio per uscire da queste esperienze: fare quello che io non ho ricevuto. Se voi non avete ricevuto comprensione, siate comprensivi con gli altri; se voi non avete ricevuto amore, amate gli altri; se voi avete sentito il dolore della solitudine, avvicinatevi a quelli che sono soli. La carne si cura con la carne! E Dio si è fatto Carne per curarci. Facciamo anche noi lo stesso con gli altri.
Bene, credo che - prima che l’arbitro fischi la fine – sia il momento di concludere. Io vi ringrazio di cuore per essere venuti, per avermi permesso di parlare nella mia lingua materna… Vi ringrazio per aver pregato tanti Rosari per me. E, per favore, vi chiedo che preghiate per me, perché anche io ne ho bisogno, e molto! E prima di andarcene, vi chiedo di metterci tutti in piedi e preghiamo insieme il nostro Padre del Cielo, che ha un solo difetto: non può smettere di essere Padre!
3/ «Le credenze religiose e la maniera di praticarle influenzano ciò che siamo e la comprensione del mondo circostante. Il santo Nome di Dio non deve mai essere usato per giustificare l’odio e la violenza. So che è vivo in voi il ricordo lasciato dai barbari attacchi al Westgate Mall, al Garissa University College e a Mandera. Troppo spesso dei giovani vengono resi estremisti in nome della religione». Papa Francesco nell’Incontro Ecumenico ed Interreligioso
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’Incontro Ecumenico ed Interreligioso nel salone della Nunziatura Apostolica di Nairobi in cui si trovavano riuniti i leader delle diverse confessioni cristiane e di altre tradizioni religiose presenti in Kenya, il 26/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (27/11/2015)
Cari amici,
sono grato per la vostra presenza odierna e per l’opportunità di condividere questi momenti di riflessione con voi. In modo particolare vorrei ringraziare Mons. Kairo, l’Arcivescovo Wabukala e il Professor El-Busaidy per le loro parole di benvenuto a nome vostro e delle rispettive comunità. Quando vengo a visitare i cattolici di una Chiesa locale, è sempre importante per me avere l’occasione d’incontrare i leader di altre comunità cristiane e di altre tradizioni religiose. È mia speranza che questo tempo trascorso insieme possa essere un segno della stima della Chiesa nei confronti dei seguaci di tutte le religioni e rafforzi i legami d’amicizia che già intercorrono tra noi.
A dire il vero, il nostro rapporto ci sta mettendo dinanzi a delle sfide; ci pone degli interrogativi. Tuttavia, il dialogo ecumenico e interreligioso non è un lusso. Non è qualcosa di aggiuntivo o di opzionale, ma è essenziale, è qualcosa di cui il nostro mondo, ferito da conflitti e divisioni, ha sempre più bisogno.
In effetti, le credenze religiose e la maniera di praticarle influenzano ciò che siamo e la comprensione del mondo circostante. Esse sono per noi fonte di illuminazione, saggezza e solidarietà e in tal modo arricchiscono le società in cui viviamo. Prendendoci cura della crescita spirituale delle nostre comunità, formando le menti e i cuori alla verità e ai valori insegnati dalle nostre tradizioni religiose, diventiamo una benedizione per le comunità nelle quali vive le nostra gente. In una società democratica e pluralistica come questa, la cooperazione tra i leader religiosi e le loro comunità diviene un importante servizio al bene comune.
In questa luce, e in un mondo sempre più interdipendente, si avverte con crescente chiarezza la necessità della comprensione interreligiosa, dell’amicizia e della collaborazione nel difendere la dignità conferita da Dio ai singoli individui e ai popoli, e il loro diritto di vivere in libertà e felicità. Promuovendo il rispetto di tale dignità e di tali diritti, le religioni interpretano un ruolo essenziale nel formare le coscienze, nell’instillare nei giovani i profondi valori spirituali delle rispettive tradizioni e nel preparare buoni cittadini, capaci di infondere nella società civile onestà, integrità e una visione del mondo che valorizzi la persona umana rispetto al potere e al guadagno materiale.
Penso qui all’importanza della nostra comune convinzione secondo la quale il Dio che noi cerchiamo di servire è un Dio di pace. Il suo santo Nome non deve mai essere usato per giustificare l’odio e la violenza. So che è vivo in voi il ricordo lasciato dai barbari attacchi al Westgate Mall, al Garissa University College e a Mandera. Troppo spesso dei giovani vengono resi estremisti in nome della religione per seminare discordia e paura e per lacerare il tessuto stesso delle nostre società. Quant’è importante che siamo riconosciuti come profeti di pace, operatori di pace che invitano gli altri a vivere in pace, armonia e rispetto reciproco! Possa l’Onnipotente toccare i cuori di coloro che perpetrano questa violenza e concedere la sua pace alle nostre famiglie e alle nostre comunità.
Cari amici, quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II, nel quale la Chiesa Cattolica si è impegnata nel dialogo ecumenico e interreligioso al servizio della comprensione e dell’amicizia. Intendo riaffermare questo impegno, che nasce dalla convinzione dell’universalità dell’amore di Dio e della salvezza che Egli offre a tutti. Il mondo giustamente si attende che i credenti lavorino insieme con le persone di buona volontà nell’affrontare i molti problemi che si ripercuotono sulla famiglia umana. Nel guardare al futuro, preghiamo affinché tutti gli uomini e le donne si considerino fratelli e sorelle, pacificamente uniti nelle e attraverso le loro differenze. Preghiamo per la pace!
Vi ringrazio per la vostra attenzione e chiedo a Dio Onnipotente di concedere a voi e alle vostre comunità l’abbondanza delle sue benedizioni.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2015)
Per definizione ciò che è “moderato” non è appassionante.
Noi stiamo dimenticando che i giovani non chiedono semplicemente di essere “moderati” – sia nel senso di avere un controllo che li moderi, sia nel senso dell’essere tali -, ma chiedono piuttosto un motivo valido per dare la vita. Per offrirla per un ideale, così come per donarla ad una nuova creatura, ad un figlio. Meglio ancora a tanti figli. La denatalità è il sintomo evidente di una "moderazione" mortifera. I giovani chiedono di essere “radicali”.
Per questo un Islam “moderato” non potrà molto. Non potrà fare molto un Islam che si limiti a dire “not in my name” e non si getti animo e corpo a rimuovere le profonde ingiustizie di tanti paesi musulmani, a partire dall’Arabia Saudita che mortifica le più elementari prospettive di una vita libera. Non andrà molto lontano un Islam moderato che non si impegni con tutto se stesso per la maturazione di una spiritualità che annunci la libertà e l’amore per Dio. Non otterrà frutti duraturi un Islam che non chieda una vera e propria “rivoluzione culturale” educativa, ammettendo le violenze compiute nel passato contro tanti popoli ed invocando una svolta di bene rispetto al passato.
Ma non serviranno a niente, allo stesso modo, una laicità ed un cristianesimo europei che non ritrovino la radicalità e la passione che li hanno contraddistinti. Se tutto ciò che noi proporremo ai figli di seconda, terza e quarta generazione di immigrati sarà un nuovo modello di IPhone, una confortevole vacanzetta e le distrazioni del sabato sera l’Europa non riuscirà mai e poi mai a sconfiggere la radicalità del terrorismo.
Se vogliamo comprendere una religione dobbiamo vedere come essa viene vissuta da persone che la vivono radicalmente. Dobbiamo vedere le scelte di una persona radicalmente cristiana come di una persona radicalmente musulmana per capire cosa è il cristianesimo e cosa è l’Islam.
Di mezze figure non sappiamo cosa fare.
La questione della radicalità incalza anche chi dichiara di essere “laico”. Chi sa bene cosa sia l’ideale di un mondo dove non si viva per il consumo, cosa sia la passione per la giustizia e per la lotta contro la povertà, cosa sia l’impegno per chi è nel bisogno, cosa sia lo slancio che permette a te e ai tuoi amici di ritrovarsi padri e madri di figli, per donare loro la vita come hanno fatto tutte le generazioni prima di noi. Chi sa cosa sia una rivoluzione interiore. Chi sa cosa voglia dire non vivere per se stessi, ma vivere per un altro più importante di te.
Di radicalità ha bisogno il mondo. Il cuore degli islamisti potrà esser conquistato da santi e da profeti che scelgono di offrire se stessi in nome della vita e di Dio, ma non da un’offerta di playstation, passatempi e cacabandole varie.
Una nuova alleanza fra cristiani e laici, un’alleanza non solo di “moderati”, bensì di “radicali” che esaltino il bisogno dell’uomo di sconfiggere il materialismo, che diano spazio al desiderio di offrire le proprie vite per i figli che nasceranno, che vivano la passione per tutta la bellezza prodotta nei secoli perché sia non solo conservata e trasmessa, ma vivificata, che offrano – in senso sacrificale - ciò che sono è e ciò che hanno per vivere nella carità e nella misericordia, che amino la propria tradizione generata da un miscuglio di fede e di libertà a volte conflittuali ma sempre vicine come 2 facce di una stessa medaglia, di tutto questo ha bisogno l’Europa.
Questa rinnovata alleanza di sapienza (logos) radicale e di una carità (agape) radicale può interessare le giovani generazioni di musulmani. Questa rinnovata alleanza si può stringere anche con loro.
Non è un caso che i giovani amino Tolkien e Lewis, come un tempo i giovani greci amavano l’Iliade e l’Odissea: perché i giovani amano gli eroi.
Ebbene deve emergere una terza figura. Non deve esistere solo lo pseudo-eroe islamista che uccide impassibilmente, impasticcato di anfetamine, immolandosi per un dio della morte e del suicidio.
Ma non basta nemmeno il viveur, donnaiolo e consumatore, navigatore in solitaria di Internet e afferratore di ogni possibile piacere.
Il nostro tempo invoca la testimonianza di persone radicali, che mostrino che l’uomo non è fatto per gustare effimeri e transitori piaceri, bensì è nato per qualcosa di grande, per una vocazione, come già i suoi genitori ed i padri dei padri, capaci di dare la vita e di dare un significato alla vita, capaci di mostrare alle nuove generazioni perché la vita sia grande e con un destino eterno.
N.B. La moderazione verrà poi, perché anche di essa c'è bisogno. Ma si modera una passione, non il nulla.
Non posso tacere il debito del discepolo per il maestro per F. Hadjadj che ha ispirato queste considerazioni e le cui parole sono state in questi giorni un pungolo ed un’illuminazione. Così ha detto in un dialogo con Abdennour Bidar, su Le Figaro del 5/6/2015 (la traduzione è nostra):
«Il pericolo non è nell'immigrazione in quanto tale, ma in ciò che offriamo ai nuovi arrivati per integrarsi. Il supermercato tecno-liberale non è sufficiente per infondere lo slancio per una passione storica. Ma è proprio questo che i giovani si aspettano. Non desiderano diventare "moderati", ma di entrare in una vera e propria radicalità (questa parola si riferisce alle radici, che non esistono per se stesse, ma per i fiori, i frutti e gli uccelli). I giovani hanno desiderio di eroismo. Ma i “valori commerciali” correnti nella République non propongono nulla di tutto questo, e questo vuoto nutre il terrorismo, così come nutre la xenofobia. Oggi dobbiamo ripensare alla Francia e all'essenza della République, mettendoli nell’ottica di una storia e di un’eredità che riconducano alla radicalità ebraico-cristiana».
E così ha scritto in un’editoriale di Famille chrétienne del 17/11/2015 (a breve integralmente on-line su Gli scritti):
«Molti giovani si rivolgono all'Islam perché il cristianesimo che offriamo non contiene più nulla di eroico né di cavalleresco (mentre Tolkien è con noi), ma si riduce a delle garbate considerazioni di civismo e di comunicazione non-violenta.
Qual è il vero terreno di questa guerra? Alcuni vorrebbero farci credere che la forza dei terroristi dello scorso venerdì 13 consista nel fatto di essere stati addestrati, formati nei campi di Daesh, di modo che la battaglia sarebbe ancora quella della potenza tecnocapitalista per fabbricare un armamento più pesante. Ma in che modo un ragazzo bloccato alle uscite di sicurezza, e che si fa saltare in aria con degli esplosivi rudimentali, può essere un soldato navigato? Noi sappiamo – e lo ha provato l’esperienza recente di Israele – che chiunque può improvvisarsi assassino nel momento in cui è posseduto da un’intenzione suicidaria. Ciò che costituisce la sua forza di distruzione, pronta a esplodere in qualunque momento e luogo, non è la sua abilità militare, ma la sua sicurezza morale».
Mettiamo a disposizione sul nostro sito un testo di Giovanni Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2015)
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"I see no good reasons why the views given in this volume should shock the religious sensibilities of anyone". Charles Darwin...
il 24 di novembre del 1859 veniva pubblicato "On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life", mica un libretto qualsiasi...
per chi non la conoscesse, nell’immagine si vede un frammento de L'ALBERO DELLA VITA, comprendente tremila specie, circa lo 0,18% del milionesettecentomila specie conosciute.
a Sofia
- In principio non c’era nulla.
- E come sai che c'è stato un principio?
- Non ne sono proprio sicuro sicuro, ma visto che il cielo di notte è buio, nonostante la Luna, penso che ci sia stato un principio.
- Che c’entra il buio?
- C’entra, c’entra. se l’Universo esistesse da sempre e fosse uguale da tutte le parti, in ogni direzione ci dovrebbe essere una stella, per quanto lontana, e la luce di quella stella dovrebbe essere arrivata fino a noi, e quindi da tutti tutti i punti del Cielo dovrebbe arrivare un poco di luce, e quindi il cielo, anche di notte, sarebbe luminoso. Ma non è così, e quindi penso che, per enormemente grande che sia il numero delle stelle, la loro luce non ha ancora fatto in tempo ad arrivare fino a noi perchè non ha avuto abbastanza tempo per farlo, che è una maniera di dire che l'Universo ha avuto un inizio. E anche che la Velocità della Luce non è infinita, di passaggio. Così è un poco semplificato, ma è quello che è conosciuto come Paradosso di Olbers, ok?
- Ok, ricomincia.
- Ricomincio: in principio non c’era nulla, non c'era né il tempo né lo spazio, e poi c’era tutto quello che c’è ora. Dicono che, anche se nessuno sa dire il perché, c'è stato un Grande Botto, il BIG BANG, e che l'Universo abbia avuto inizio lì.
- Come fanno a dirlo?
- Guardando con i telescopi si vedono cose lontane e lontanissime che sembrano allontanarsi tra di loro. Se si allontanano, vuol dire che prima erano più vicine, e ancora prima, forse, erano così vicine da essere in un unico punto, che nessuno riesce ad immaginare perchè non è possibile immaginare come fosse quel punto. È di nuovo un poco semplificato; in realtà, anche se nei telescopi ci si guardava ormai da secoli, è stato Edwin Hubble, solo qualche decina di anni fa, ad accorgersi di almeno due cose fondamentali: la prima, che l’Universo era spaventosamente più grande di come fino ad allora ritenuto, visto che era pieno di Galassie lontane e lontanissime, e la seconda, che la Luce emessa dalle Galassie mostrava uno spostamento verso il rosso, che poteva venire interpretato, grazie all’Effetto Doppler, come una misura del loro reciproco allontanamento.
- Ok, ma le cose mica saranno venute fuori così come sono ora, no?
- No, certo. Pensa che qualche fisico è arrivato a dire che dio è l'Idrogeno, visto che è l'elemento più diffuso dell'Universo, e che tutto è stato fatto a partire dall'Idrogeno... Dicono che, in quel principio che ti dicevo prima, ci fosse come un brodo densissimo di quelle che si definiscono particelle elementari, che si sarebbero unite durante il Grande Botto a formare protoni e neutroni, che sono quelle cose che costituiscono i nuclei degli atomi, ed elettroni. Gli scienziati dicono che all'inizio ci sarebbe stata una enorme produzione di nuclei di idrogeno (il cui nucleo è formato da un solo protone) e di elio (il cui nucleo è formato da due protoni e due neutroni). A partire da lì, si è formato tutto il resto.
- Ah! e come?
- Le Stelle. Le Stelle sono i luoghi dove vengono fabbricati tutti gli altri elementi. Sono come delle enormi fornaci dove nuclei leggeri si fondono e formano nuclei di elementi più pesanti.
- Aspetta, tu hai detto "prima", "dopo", "sempre": il Tempo, di cosa sarebbe fatto?
- Non lo so. Non lo sappiamo. Nessuno di noi lo sa. Ci viviamo immersi, e non lo sappiamo. Jorge Luis Borges scriveva:
il tempo è la sostanza di cui sono fatto
il tempo è un fiume che mi trasporta, ma io sono il fiume;
è una tigre che mi fa a pezzi, ma io sono la tigre;
è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.
il mondo, disgraziatamente, è reale;
io, disgraziatamente, sono Borges.
- Ah, e che significherebbe?
- Che non sappiamo di cosa sia fatto il Tempo, ma che ce lo chiediamo, che è già qualcosa, no?
- Forse. Forse è meglio tornare alle Stelle.
- Le Stelle. A quanto pare, tutto quello che esiste si muove.
- Si muove rispetto a che?
- Si muove e basta. Non c'è un punto fisso al quale riferirsi. Tutte le cose si muovono rispetto a tutte le cose, e basta. Se devi parlare del movimento delle cose, però, devi riferirti a qualche punto che arbitrariamente descrivi come fermo. E anche se riesci ad andare sulla Luna, o un poco più lontano, lo fai semplificando le cose. Funziona, anche se la tua descrizione può sembrare poco precisa.
- Ok, ma perché si muove?
- Eh. Si potrebbe dire che l'Universo intero sia molto pigro, o molto poco propenso a cambiare abitudini, visto che tutto quello che esiste sembra continuare a fare quello che ha sempre fatto. Cioè, se sta relativamente fermo, rimanere fermo, se si muove, continuare a muoversi, se è stato messo in moto, tornare a fermarsi, e sempre facendo il minimo indispensabile, e sempre relativamente parlando…
- Le Stelle.
- Le Stelle. A quanto sembra, il Grande Botto non è stato proprio omogeneo, è probabile che fin dall'inizio si siano formati come degli enormi grumi di materia, che si sono poi evoluti e trasformati in Galassie ed ammassi di Galassie.
- Le Stelle
- Aaahhh, ci arrivo! Sembra che tutto si muova e che tutto muti. in qualche maniera da quegli enormi grumi si è evoluto tutto. A quanto sembra, c'erano delle enormi nubi di gas, che ruotavano su loro stesse, attorno a punti dove per qualche motivo che non sappiamo la densità era maggiore. In questi punti, per gravità, cadevano poco a poco particelle di gas. Ad un certo punto la pressione generata dalla Gravità schiacciava fra di loro i nuclei atomici così tanto da fargli vincere la loro naturale reciproca repulsione, e li fondeva assieme, provocando una reazione a catena. era nata una Stella!
- Alt! E la Gravità? Cosa è? Mica mi dirai, come per il Tempo, che non lo sai?
- Qualcosa di più la so. Direi che è una proprietà di una particella, o di un corpo, di deformare lo spazio circostante, tanto più quanta più Massa contiene quella particella e quel corpo. E prima che tu mi interrompe di nuovo: la Massa è la quantità di materia di cui un corpo è costituito, questo almeno si misura abbastanza facilmente. Per quanto riguarda la faccenda della deformazione, un'analogia: se tiri una pietra in uno stagno, si producono delle onde, quanto più grossa è la pietra, più grosse sono le onde. L’analogia vale se riesci ad immaginarti che la pietra fa le onde nello stagno anche se tu non ce la tiri dentro, ok? I fisici ci dicono che nell'Universo ci siano soltanto quattro Forze Fondamentali, grazie alle quali tutto quello che può succedere, succede: la Gravità, la Forza Nucleare Debole, la Forza Elettromagnetica, e la Forza Forte. La Gravità opera anche su grandi distanze, mentre le altre tre su distanze molto piccole, e visto che la Gravità è additiva, su scale molto piccole, cioè fra nuclei di atomi, conta molto poco, ma se consideri corpi formati da un numero molto grande di atomi, come una Stella, è la forza più evidente che c'è. Un esempio, che tanto Newton c'entra sempre, te lo faccio con la mela sull'albero: il picciolo è tenuto assieme, ed è attaccato all'albero, per mezzo delle forze elettromagnetiche fra atomi e molecole, e ci vuole l'attrazione gravitazionale di tutte le particelle di tutta la Terra per farla staccare dal ramo e cadere a terra!
- Ci devo pensare
- Pensaci, io continuo con le Stelle: la Stella era nata quando la pressione generata dalla Gravità aveva spinto fra loro i nuclei originari di Idrogeno e li aveva fusi a formare elementi più pesanti, cioè con nuclei composti da un numero maggiore di protoni e neutroni, e aveva continuato a farlo fino a che non aveva trasformato per fusione tutti i nuclei di idrogeno in nuclei di elio, e fuso tutto l'elio disponibile con l'idrogeno, e così via, fino a assemblare nuclei di Ferro. Tutte le Stelle nascono, vivono, e poi muoiono, anche il nostro Sole, prima o poi, morirà. Ricordati la famosa equazione di Einstein E = mc2, che significa che la Massa e l’Energia sono due aspetti della stessa cosa, e significa che con la fusione di nuclei più leggeri in nuclei più pesanti le stelle trasformano una piccola parte della massa iniziale dei nuclei in grandi quantità di Energia, sotto forma di Luce e di Calore. La Stella primordiale aveva continuato a fondere nuclei atomici e a produrre Luce e Calore fino a che, dopo miliardi di anni, si era spenta, con un'altra grande esplosione, se, ad un certo punto, la gravità che la teneva insieme non era stata più sufficiente a contrastare la pressione interna, scagliando nello spazio gli elementi più pesanti, oppure con una contrazione, secondo la quantità di materia della nube iniziale, che ne avrebbe determinato la sorte. Ora, se tu mi chiedi cosa sia l'Energia, andiamo di nuovo nelle peste. Ti cito alcune parole di quel Grande Cervello che è stato Richard Feynman: “C’è un fatto, o se volete, una legge, che governa i fenomeni naturali sinora noti. Non ci sono eccezioni a questa legge, per quanto ne sappiamo è esatta. La legge si chiama “conservazione dell’energia”, ed è veramente una idea molto astratta, perché è un principio matematico: dice che c’è una grandezza numerica, che non cambia qualsiasi cosa accada. Non descrive un meccanismo, o qualcosa di concreto: è solo un fatto un po’ strano: possiamo calcolare un certo numero, e quando finiamo di osservare la natura che esegue i suoi giochi, e ricalcoliamo il numero, troviamo che non è cambiato...”. Si può dire che l’Energia che c’è ora è esattamente la stessa che è venuta fuori dal Grande Botto, e che non ce n'è mai stata altra.
- E che significa?
- Che non sappiamo di cosa sia fatta l’Energia, ma che ce lo chiediamo, che è già qualcosa, no? E anzi questa volta almeno riusciamo ad usarla, anche se molto rozzamente: ci facciamo il caffè, andiamo in aereoplano, potremmo massacrarci a vicenda con le bombe atomiche, per esempio.
- Ahia
- Già, non conosciamo la natura delle cose, e purtroppo impariamo ad usarle prima di capire cosa siano. E comunque, con questi concetti fondamentali, se cerchiamo di definirli proprio proprio precisamente, tendiamo a fare confusione, perché sembra che le cose viste da vicino vicino non siano uguali a come sembrano guardate da lontano lontano, oppure che, secondo la scala che prendiamo in considerazione, certe caratteristiche ci siano oppure no, e poi i fisici devono tradurre quello che riescono ad immaginare e ad osservare in formule matematiche difficilissime ed eleganti, e non è per niente facile...
- Divaghi, le Stelle.
- Già, anche se il divagare sull’Energia mi ricorda un concetto importante, quello di Entropia. Cioè, a quanto pare, l'Energia totale non cambia in valore, ma cambia in qualità, e ad ogni passaggio, e con ogni evento nella Storia dell’Universo, per quanto microscopico, una parte dell'Energia si degrada in calore, e il disordine aumenta, e l’Universo intero tende a diventare un'acquetta sporca appena appena tiepida, uniformemente distribuita in tutto lo spazio...
- E poi?
- Boh. non lo sappiamo, come al solito, o continuerà ad espandersi, oppure comincerà a contrarsi. qualcuno dice che tornerà indietro fino all’istante del Grande Botto. E ricomincerà daccapo...
- Ma allora il tuo fisico non farebbe meglio a dire che, per i fisici, dio è l’Energia? Che diventa materia quando vuole e che contrasta da sempre l’Entropia?
- Come no. Ma con le analogie bisogna fare attenzione a farle rimanere analogie, se le si prende troppo sul serio, si rischia di cadere nell’oscurantismo newage, e tanto varrebbe darsi all’astrologia, allora. Meno male che i fisici, generalmente, sono persone serie... tanto per dire: il primo a proporre l'idea del Big Bang, come conseguenza delle soluzioni delle equazioni della Relatività Generale per un Universo in espansione, fu un prete, Georges Lemaître, che però non si permise mai di dire cose tipo “dio è l'idrogeno” o “dio è l'energia”, anzi, di Dio non ne parlava proprio, nei suoi scritti scientifici. Non bisogna fare confusione.
- Ok, torniamo alle stelle?
- Meglio. Dunque: quelle stelle primordiali avevano fabbricato molti elementi più pesanti, ed altri si erano prodotti nelle esplosioni delle stelle alla fine delle loro vite, ed altri ancora più pesanti nelle collisioni fra stelle collassate invece che esplose. Non tutti gli elementi erano abbondanti, alcuni erano molto più rari di altri. L'Universo era cambiato, già non era più così giovane, già non era più quella densissima palla di fuoco a cui doveva somigliare dopo il principio. Dopo alcune generazioni di stelle, si erano formate le Galassie, che si allontanavano l'una dall'altra. Ora, noi ci troviamo su un braccio di una Galassia, tecnicamente definita a spirale barrata, del tutto simile a milioni di altre. Alcuni miliardi di anni fa, appunto alla periferia della nostra Galassia, una nube girava su se stessa. Era composta di gas, e di ceneri e polveri e pezzi di altre stelle esplose miliardi e miliardi di anni prima. A quanto pare, il grosso del gas e del materiale di cui era composta la nube cadeva verso il suo centro, ma una parte si addensava in dei grumetti più distanti. Dopo un certo numero di anni, così come era successo per la Stella Primordiale di cui ti dicevo prima, la pressione generata dalla gravità vinse la forza repulsiva fra i nuclei degli atomi del gas, fondendoli assieme, in una reazione a catena che accese il Sole, la nostra Stella! Nell'esplosione generata dall'accensione delle reazioni nucleari, si generò una specie di vento, che spazzò via tutto il materiale che non si era aggregato in quei grumetti, che sarebbero diventati i Pianeti del nostro Sistema, ripulendo lo spazio tra i protopianeti, e scagliando tutto quello che non era ben coeso lontano lontano, fino ai confini gravitazionali del sistema, dove il campo gravitazionale del Sole si incontra e si bilancia con quello delle stelle adiacenti.
- Sicuro?
- No, ma è una ipotesi molto plausibile. La Storia dovrebbe insegnarci almeno che le Teorie vanno bene fino a che non se ne trovano di migliori, e spesso ci si è accorti che si è andati avanti anche per secoli a credere cose che non erano vere…
- Non divagare
- Ok, una cinquantina di anni fa un astronomo che si chiamava Oort, sviluppando un’idea di altri prima di lui, calcolando l'orbita di alcune comete ipotizzò l'esistenza di una Nube di materiale espulso dall'interno del Sistema Solare all’epoca dell'accensione del Sole, una specie di guscio di materiali, forse blocchi di ghiaccio sporco, che stanno lì sospesi da miliardi di anni, e che possono, occasionalmente, cominciare a cadere verso l'interno su orbite regolari, diventando per l'appunto Comete!
- Fico
- Eh, sì! Ed è anche per questo che è così interessante trovare la maniera di studiare le Comete, visto che potremmo riuscire a capire qualcosa di come fosse la nube da cui si è evoluto il Sistema Solare
- Fico!
- Eh, sì! Ti dicevo: il Sole si accende, generando un Vento che ripulisce lo spazio fra i pianeti. ma non del tutto! Nei primi tempi il nostro Sistema doveva essere tutto un susseguirsi di eventi, con i pianeti giovanissimi che piano piano prendevano la loro forma, mentre venivano bombardati continuamente da tutto quello che era rimasto in giro, e che non era abbastanza pesante per aggregarsi in pianetini o asteroidi. Il nostro pianeta, la Terra, era probabilmente una palla di roccia fusa, ancora troppo calda per avere una superficie solida, e con una attività ancora troppo violenta per avere una atmosfera. Ma piano piano succedevano più cose contemporaneamente: il Sole si stabilizzava, inondando di luce tutto il Sistema, la superficie esterna del nostro pianeta si raffreddava, diventando una crosta al di sotto della quale si organizzavano i vari strati, con al centro un nucleo di ferro, che, ruotando ad una velocità diversa da quella degli altri strati, faceva sì che la Terra intera si comportasse come una gigantesca dinamo, producendo un campo magnetico sufficientemente forte da deflettere il vento solare, mentre la crosta rendeva possibile l'esistenza dei vulcani, che gettavano dal ventre del pianeta, oltre alla lava, grandi quantità di gas, che diventavano una specie di protoatmosfera, che non veniva spazzata via dal vento solare perché protetta dal campo magnetico!
- Davvero?
- Sono ipotesi che sembrano ragionevoli. Tutto questo dovrebbe essere successo intorno ai tre miliardi e mezzo di anni fa, e nulla di quello che c'è oggi sulla superficie è così antico, essendo il nostro pianeta molto attivo geologicamente, che continuamente riinghiotte la crosta antica e ne produce di nuova.
- E l'acqua, il mare, i fiumi?
- Non lo sappiamo con certezza, come al solito. L'acqua, per potere esistere allo stato liquido, ha bisogno di una certa pressione e di una certa temperatura, cioè: come sai, l'acqua bolle, cioè si trasforma in vapore, cioè in un gas, a circa cento gradi. Ma se saliamo in montagna, cioè se diminuiamo la pressione, la temperatura di ebollizione scende, e se andiamo in un posto dove la pressione è molto bassa, come su Marte, oppure sulla Luna, dove non c'è aria, e quindi la pressione è zero, la temperatura di ebollizione è così bassa che l'acqua non può esistere come liquido, anche se, con un po' di fortuna, può resistere come ghiaccio, purché faccia molto molto freddo. È il caso delle Comete. Sono blocchi di ghiaccio di acqua, che resistono probabilmente da miliardi di anni, e qualcuno le definisce palle di neve sporca, visto che sono coperte di polveri e detriti anche essi antichissimi, ed è probabile che proprio da lì sia venuta l'acqua che si trova sulla Terra. Cioè: quando la crosta terrestre si fu solidificata, quando una protoatmosfera si fu formata, quando la Terra era già protetta da un campo magnetico, la Terra deve essere stata bombardata per milioni di anni da questi blocchi di ghiaccio, che si sono sciolti formando tutta l'acqua che c'è sulla Terra.
- E l'aria?
- L'aria non c'era ancora, ma c'era una atmosfera, cioè un miscuglio di gas che avvolgeva tutta la Terra, che ancora era molto diversa da come è ora. In un momento che potrebbe situarsi due miliardi e mezzo di anni fa, cioè un po' più di due miliardi di anni dopo l'accensione del Sole, sulla Terra è apparsa la Vita! E quello ha cambiato tutto.
- È apparsa? così, da sola? Aspetta, aspetta, non me lo dire: NON LO SAPPIAMO!
- Infatti, potrebbe essere apparsa da sola, o potrebbe essere venuta da fuori, o potrebbe essere apparsa da sola a partire da pezzi venuti da fuori, non lo sappiamo. Sappiamo che, all'origine, la Vita riguardava degli organismi molto molto semplici, che devono essere venuti fuori da delle molecole complesse che, in quelle condizioni, erano in grado di autoreplicarsi, che vivevano sicuramente nell'acqua, che li schermava sia dalle radiazioni che venivano da un Sole molto più violento di come è ora, sia dall'atmosfera, che doveva essere sicuramente molto più corrosiva di come è ora la nostra. Nell’acqua nascevano, mangiavano, e si riproducevano.
- E cosa si mangiavano, questi esserini primitivi?
- Posso fare un'altra digressione letteraria?
- Dai, cerca di essere un poco più concreto, però…
- È di Primo Levi, un chimico: “Ma c'è di più e di peggio, a scorno nostro e della nostra arte. L'anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vita, la scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell'aria, bensì un rimasuglio ridicolo, una "impurezza", trenta volte meno abbondante dell'argon di cui nessuno si accorge. L'aria ne contiene solo il 0,03 per cento: se l'Italia fosse l'aria, i soli italiani abilitati ad edificare la vita sarebbero ad esempio i 15000 abitanti di Milazzo, in provincia di Messina. Questo, in scala umana, è un'acrobazia ironica, uno scherzo da giocoliere, una incomprensibile ostentazione di onnipotenza-prepotenza, poiché da questa sempre rinnovata impurezza dell'aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia, le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. Del resto, la nostra stessa presenza sul pianeta diventa risibile in termini geometrici: se l'intera umanità, circa 250 milioni di tonnellate, venisse ripartita come un rivestimento di spessore omogeneo su tutte le terre emerse, la "statura dell'uomo" non sarebbe visibile ad occhio nudo; lo spessore che si otterrebbe sarebbe di circa sedici millesimi di millimetro”.
- Più concreto, bravo
- Grazie. A lui. Sul nostro pianeta, la vita è a base carbonio. Ricordati sempre che tutto quello che esiste è stato fabbricato, o assemblato, nei nuclei delle Stelle, a partire da nuclei di idrogeno e di elio. Alla fine della loro vita, molte Stelle esplodono, scagliando nello spazio tutto quello di cui erano composte. Una parte di questo carbonio fabbricato nei nuclei di Stelle esistite miliardi di anni fa è quello che permette e mantiene la vita sul nostro pianeta. È un elemento interessante, visto che è in grado di legarsi in tante maniere ad altri elementi, immagazzinando energia che può essere utilizzata dagli organismi per mantenersi vivi. Lo zucchero, o il petrolio, tanto per fare un esempio. E tanto per fare un altro esempio: se l'energia con la quale tutto funziona e si mantiene vivo non venisse spezzettata in piccole quantità, sarebbe come venire bombardati da casseforti piene d'oro, quando quello di cui abbiamo bisogno sono pochi spiccioli alla volta…
- E come erano questi esserini primitivi?
- Molto semplici. Dei batteri. Dovevano essere qualcosa di simile a quelli che esistono anche oggi, cioè organismi composti da una sola cellula piccolissima, che si riproducevano semplicemente dividendosi, e che erano in grado di vivere senza aria, erano cioè anaerobi. E ce ne sono ancora. Ad un certo punto qualcuno di questi batteri ha acquisito una proprietà che ha veramente rivoluzionato catastroficamente questo Pianeta: la capacità di immagazzinare l'energia del Sole in legami fra gli atomi di molecole organiche, cioè a base carbonio, prendendo il carbonio dall'atmosfera, l'idrogeno dall'acqua, e liberando OSSIGENO!
- Ecco che arriva l'aria!
- Brava! Ci saranno voluti milioni di secoli, probabilmente, ma poco a poco queste alghette primitive hanno prodotto abbastanza ossigeno che prima ha ossidato tutto il ferro che era presente sulla superficie della Terra, e poi ha cominciato ad accumularsi nell'atmosfera che così è diventata simile a come la respiriamo oggi. È un evento fondamentale per la Vita su questo Pianeta, che ha anche causato l'estinzione di massa di tutti gli esseri che prosperavano sulla Terra anche in assenza di ossigeno…
- Davvero?
- certo, non esistono eventi neutri. in questo caso quegli esserini primordiali, che ora chiamiamo cianobatteri, sono i responsabili della prima grande estinzione di massa, ed anche dell'aver gettato le basi per l'evoluzione successiva. Così va la vita. E comunque alcuni di quegli organismi primitivi anaerobi sono sopravvissuti e sono arrivati fino a noi, sostanzialmente immutati, ben nascosti nei fanghi subacquei, continuando a riciclare zolfo...
- Ma scusa, e dai batteri ai dinosauri?
- Ricapitoliamo: il Grande Botto, poi le prime generazioni di Stelle dove vengono fabbricati gli elementi più pesanti dell'Idrogeno e dell'Elio, poi le Galassie, e poi, su un braccio qualsiasi di una Galassia qualsiasi, la formazione del Sole e del nostro Sistema. Fin qui tutto bene?
- Sì, però… ho un po' di vertigine a pensare a tutto quel Tempo e a tutto quello Spazio e a tutto quel Tempo…
- E meno male! Considera che se un uomo vivesse ottanta anni, e si rigenerasse un attimo prima di morire, per arrivare dall'origine dell'Universo fino a qui dovrebbe aver vissuto qualcosa come centosettantatre milioni di vite! E, se l'Universo si congelasse istantaneamente, e quell'uomo decidesse di andare da un capo all'altro dell'Universo osservabile, viaggiando alla velocità della Luce (cosa che, e questo sì che lo sappiamo, E' IMPOSSIBILE) ci metterebbe quarantasette miliardi di anni! cioè, sempre che vivesse ottanta anni e si rigenerasse un attimo prima di morire, ci metterebbe più di cinquecentoottasettemilionicinquecentomila vite!
-…
- E ricordati che, a quanto pare, la Velocità della Luce è una costante che non si può superare, è un attributo caratteristico dei Fotoni, cioè: se è un Fotone, va alla Velocità della Luce, se no è un'altra cosa. Il che significa che se guardi una Stella che è lontana cento, o mille, o un milione di anni luce, la vedi come era cento o mille o un milione di anni fa, e se vuoi vederla come è ora, dovrai aspettare cento, o mille, o un milione di anni. ok?
- Sì, sì, come no, ma torniamo con i piedi per Terra…
- Torniamo sulla Terra. Mentre sul nostro pianeta le alghette prosperavano, il pianeta evolveva un poco alla volta, l'Ossigeno diventava lentamente disponibile, e poco a poco le alghette sperimentavano piccoli cambiamenti, si riassemblavano in maniera da adattarsi ai cambiamenti che loro stesse avevano provocato.
- Già, l'Evoluzione…
- Che è un processo lentissimo, e che fa sì che solo chi risulta adattato all'ambiente di cui è parte sopravviva. È un processo così lento che non si vede mentre è in atto, ma se ne vedono gli effetti. Tanto per cambiare, non sappiamo come e perché appaiano le novità, ma sappiamo che SICURAMENTE l'Evoluzione non avviene per salti. Possiamo fare solo ipotesi, ed immaginare dei lenti cambiamenti dell'ambiente, che cambia anche per l'intervento degli organismi, che provocano dei cambiamenti negli organismi stessi, che, o sono in grado di adattarsi, oppure muoiono e scompaiono. E una volta che sei scomparso, sei scomparso per sempre, mica puoi ricominciare dal Grande Botto… Comunque, le alghette fotosintetizzano, l'ossigeno diventa disponibile, l'atmosfera diventa più simile alla nostra, la Terra si raffredda. La Natura non butta mai via niente, le alghette devono aver sperimentato associazioni nuove, riassemblato i pezzi di cui disponevano, e, se il risultato risultava appena appena più adattato, cioè se aveva più probabilità di sopravvivere, sopravviveva e così via, poco a poco, colonizzando la Terra. Evidentemente dalle alghe unicellulari si sono evolute quelle pluricellulari, che avranno differenziato, poco a poco, parti per ancorarsi e parti per nutrirsi, e secondo me un qualche ruolo deve averlo avuto anche la Luna, visto che provoca le maree, che rimescolano le acque e lasciano temporaneamente scoperte le zone di confine tra l'acqua e la terra. Poi devono essere apparse le piante terrestri, e, da qualche parte, forse, quelle alghette che non avevano sviluppato parti per ancorarsi avranno sviluppato parti per muoversi, avranno sperimentato metabolismi differenti, cioè fonti di nutrimento nuove, cioè: invece di farmi da me il nutrimento con la fotosintesi, sviluppo la capacità di alimentarmi di organismi fotosintetici, così perdo una capacità ma faccio prima, e così via… La Vita fiorisce quando si differenzia, e, inevitabilmente, quello che si evolve diventa alimento per qualcosa che verrà dopo, alimentandosi di quello che viene prima. Ma non bisogna fare confusione fra prima e dopo e meglio e peggio: tutto quello che esiste ora ha esattamente lo stesso grado di evoluzione, e una cosa non esiste senza l'altra.
- Va bene, ma i dinosauri? e gli esseri umani?
- Eh, mica facile dirlo. A quanto pare, una delle strade che l’Evouzione percorre ha fatto sì che molte cellule si siano organizzate assieme in molte maniere diverse. L'organizzazione pluricellulare ha permesso il sorgere di quello che si definisce Regno Animale. Dagli animali acquatici, sempre poco a poco a poco, si saranno evolute specie anfibie, e poi terrestri, che hanno potuto colonizzare le terre emerse, che erano già coperte di vegetazione. Contemporaneamente sono stati percorsi cammini diversi, con soluzioni diverse per problemi analoghi, per esempio: un'impalcatura che fosse in grado di sorreggere il peso del corpo, permettendogli di muoversi, per la ricerca del cibo, la difesa, e la riproduzione. Il problema è stato o ignorato, come per le chiocciole, che però si fabbricano una conchiglia nella quale si rifugiano in caso di pericolo, o risolto con l'evoluzione di uno scheletro, interno, come il nostro, o esterno, come quello degli insetti. Lo scheletro interno ha permesso l’evoluzione di animali molto grandi, come i dinosauri, o enormi, come le balene, che sono probabilmente il frutto dell'evoluzione di animali terrestri che sono ritornati in mare.
- E gli insetti?
- Pensa che ormai, dal Grande Botto, era passato un sacco di tempo, e anche dalla comparsa della vita sulla terra. L'atmosfera era probabilmente molto più ricca di ossigeno di come è ora. C’erano animali terrestri molto grandi proprio perché c'era più ossigeno. Sono stati trovati fossili di animali molto simili a libellule, con un'apertura alare di due metri e mezzo! Ora, per fortuna, insetti così grandi non ce ne sono più…
- Meglio, sì…
- Comunque: fintanto che ci sono stati i dinosauri, tantissime specie di dinosauri che occupavano tutte quelle che ora si chiamano nicchie ecologiche, i mammiferi esistevano solo come specie di piccole dimensioni, e lo sappiamo perché ce lo dicono i resti fossili. L’Evoluzione è un processo molto molto lento. Ma ricordati da dove è venuto il nostro sistema solare: il Sole si accende, ripulisce lo spazio tra i pianeti con la sua accensione esplosiva, ma non del tutto! Ci sono ancora un sacco di cose che girano, là fuori, e ogni tanto qualcuna cade su un Pianeta. Probabilmente la caduta di un Grande Asteroide è stato un evento così catastrofico da cambiare la quantità di Ossigeno disponibile e la Temperatura così velocemente da non permettere un adattamento evolutivo di quelle grandi e meravigliose bestie. Non gliene ha proprio lasciato il tempo. Ma. Quella grande estinzione ha significato, anche se sembra cinico dirlo, il liberarsi di una quantità enorme di nicchie ecologiche. Le specie di dinosauri che per qualche motivo sono sopravvissute, si sono poco a poco ridotte di dimensioni, dando origine agli uccelli e a molti dei rettili che esistono ora, e i mammiferi hanno potuto differenziarsi, occupando i posti lasciati liberi dalla scomparsa dei dinosauri. Dai più piccoli roditori, ai grandi predatori. E, in mezzo, qualcosa che somigliava alle scimmie. Ad un certo punto, forse per poter vedere da lontano l'arrivo dei grandi predatori, queste proscimmie potrebbero aver cominciato ad alzarsi in piedi.
- Non facevano prima a salire su un albero?
- A-ha! Sono sempre e solo ipotesi, e non abbiamo maniera di saperlo con certezza: ricordati che la Terra è un Pianeta attivo, anche se si è molto calmato, con il tempo, per fortuna. I ritrovamenti fossili, e lo studio della genetica, ci dicono che sia molto probabile che la Specie Umana abbia avuto origine in qualche posto in quella che è ora l'Africa Sudorientale. Alcuni milioni di anni prima, come se fossero bruscolini, di quando quei fossili erano bipedi vivi, si è aperta una frattura che ha staccato la placca africana, cioè la Terra emersa che poi è diventata l’Africa come la conosciamo ora, da quella indiana e da quella asiatica. Contemporaneamente si è formata una catena di montagne e vulcani ad ovest, e il mare ha riempito la frattura ad est. Il clima in quella regione è cambiato, forse non c’erano più alberi sui quali salire! Forse, eh! Sono ipotesi e sono suggestive, ma se un cambiamento geologico genera un cambiamento climatico, se la situazione muta con una velocità adeguata alla velocità dell'evoluzione, forse appare una specie nuova: prima una popolazione (così si definisce un gruppo di individui di una specie) viene separata dal resto della specie da un evento geologico, poi le modificazioni del clima agiscono come pressione evolutiva favorendo l’emergere di caratteristiche altrimenti latenti, attraverso il meccanismo della Selezione Naturale, e alla fine, se tutto fila liscio, appare una specie nuova. In questo caso, gli ominidi da cui saremmo venuti fuori noi.
- Già, da qualche parte dobbiamo pure essere venuti fuori. E poi?
- Poi, poi, poi. L'Evoluzione non si ferma. O, meglio, l’Evoluzione della Vita sulla Terra si fermerà quando la nostra Stella avrà terminato la sua, e nella sua esplosione cancellerà tutto il Sistema Solare e tutto quello che ha contenuto, scagliandone i resti lontano, e questi resti prima o poi diventeranno materiale per altre Stelle, altri Sistemi, altri Pianeti...
- Ma come fai ad essere sicuro di una cosa come l’Evoluzione, se non la vedi?
- Senti: mi piacerebbe trovare per l’Evoluzione un argomento tipo: è tonda la Terra? certo che è tonda, se lo è la Luna perché non dovrebbe esserlo anche la Terra?, ma non l’ho ancora trovato. A me bastano delle prove indirette. Sappiamo che tutto quello che vive su questo pianeta funziona con DNA, RNA e proteine. Sappiamo che tutto quello che vive ha in comune almeno una parte del suo DNA. Noi esseri umani, per esempio, abbiamo in comune con gli scimpanzé circa il 99% del nostro DNA, mentre con l’erba del prato abbiamo in comune circa il 15%. Forte, eh? Qualcuno dice che queste percentuali sono una indicazione, anche se non molto precisa, di quanto tempo è passato da quando i rispettivi percorsi evolutivi si sono separati. Considera i parassiti.
- Che schifo!
- Certo, ma se la tenia è un parassita obbligato dell’uomo, cioè se ha necessità dell'uomo per poter vivere e riprodursi, significa che la tenia, evolutivamente parlando, viene dopo! Si adatta a qualcosa che già esiste, no?
- Allora senti questa: la Natura non butta via nulla. Milioni di anni fa non avevamo il pollice opponibile, non avevano nemmeno le mani, non avevamo che la bocca, per prendere le cose, muoverle, fare a pezzi il cibo, difenderci… Hai mai visto un gatto o un cane che trasportano un piccolo? Se volessero, potrebbero farlo a pezzi, e se non avessero denti sensibilissimi, cioè tutto un apparato sensore che gli permettesse di usare i loro canini taglienti come strumenti delicati, li farebbero a pezzi lo stesso. Il mal di denti è un ricordo di come eravamo prima che arrivassimo noi, di tutti quei milioni di generazioni che ci hanno preceduto, senza le quali non saremmo niente. Eh?
- Mi sa che hai ragione...
- Però mi gira un poco la testa, non potremmo immettere nei nostri organismi alcuni composti organici, in maniera da ripristinare l’equilibrio idro-salino, ed immagazzinare energia sotto forma di legami fisico-chimici?
- Sì, andiamo a mangiare, è sempre una buona idea.
Presentiamo sul nostro sito i file audio delle prime due lezioni sulla Divina Commedia tenute da Franco Nembrini presso il Seminario Romano Maggiore e presso il Teatro don Orione, nella parrocchia di Ognissanti il 21 settembre e il 9 ottobre 2015. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video. Per alcuni video di Franco Nembrini vedi il canale Youtube de Gli scritti.
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2015)
Franco Nembrini. Perché Dante ha scritto la Divina Commedia. Introduzione
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Franco Nembrini: "A te convien tenere altro viaggio": la selva, Virgilio, gli ignavi
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Riprendiamo sul nostro sito una catechesi scritta da don Fabio Rosini per il Sussidio sul Giubileo della Misericordia realizzato dalla diocesi di Roma in corso di pubblicazione. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2015)
Cosa è la misericordia per la Bibbia? Capire bene la misericordia vuol dire intendere o non intendere l’amore di Dio. Non è poco. È diffuso il pensiero che la misericordia sia un sentimento, bello, nobile ed interiore. Questa visione è incompleta e fuorviante. Inoltre si può pensare che la misericordia sia una dimensione particolare, legata a determinate occasioni. Dio sceglierebbe in alcune circostanze di esercitare la misericordia come una risorsa "eventuale" (e così dovrebbe fare l'uomo). Vale a dire: l'amore misericordioso di Dio - e quello umano di rimando - sarebbe un evento straordinario, legato alla debolezza umana e limitato alla risposta di Dio a certe specifiche nostre azioni. Dio sarebbe ‘giusto’ e visto che noi spesso non lo siamo, è anche ‘misericordioso’...
Ma il Dio di Gesù Cristo non ha queste dicotomie, perché la Sua natura personale - e l'impronta che dà a tutto ciò che opera e manifesta di sé - è quella della paternità. Quindi non è giusto "o" misericordioso, ma è giusto “perché” misericordioso, ed è misericordioso perché giusto. Non è “un” padre, sottoposto ai parametri di un concetto astratto di paternità, ma è “il” Padre, da cui ogni paternità ha la sua consistenza (cfr. Ef 3,14). E ce lo rivela Cristo, crocifisso e risorto, senza il quale a Lui non abbiamo accesso.
La categoria biblica della misericordia, a partire dalla rivelazione del nome di Dio nel tempo dell'Esodo, ci mette davanti all'equazione, in Dio, fra la misericordia e l'identità:
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». (Es 34,5-7)
È la rivelazione del nome di Dio, che Mosè riceve nel momento del restauro dell'Alleanza dopo il peccato del vitello d'oro. Dio rivela il suo segreto, un momento assai rilevante.
In questo fondamentale testo Dio si auto-proclama con attributi preziosi fra cui risaltano due termini fondamentali nell'Antico Testamento (AT): Raḥam ed Ḥesed, i due cardini principali del vocabolario della misericordia biblica.
Ḥesed è il termine più usato nell’AT per indicare la misericordia e l'amore; c'è una frase che torna una quantità smisurata di volte in tanti testi: “kî le-olam ḥasdô” - ”perché eterna è la sua misericordia” [o: “il suo amore” - secondo le traduzioni]. Solo alcune citazioni: Sal 100,5; 106,1; 107,1; 118,1.4.29; 136,1-26; 1Cr 16,36.41; Ger 33,11. Questi sono i passi ‘tipici’, ma la stessa frase torna, in modo più o meno esplicito, un po’ ovunque nei testi.
L’esempio più rimarchevole è il Salmo 136, e la sua martellante ripetizione della frase, ben 26 volte (!) nella stesso Salmo…
Ma a cosa è collegata la misericordia di Dio? Vediamo alcuni esempi nel Salmo, spigolando qua e la:
Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre.
Ha creato i cieli con sapienza, perché il suo amore è per sempre.
Ha disteso la terra sulle acque, perché il suo amore è per sempre.
Ha fatto le grandi luci, perché il suo amore è per sempre.
Colpì l'Egitto nei suoi primogeniti, perché il suo amore è per sempre.
Da quella terra fece uscire Israele, perché il suo amore è per sempre.
Con mano potente e braccio teso, perché il suo amore è per sempre.
Egli dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre.
Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre (Sal 136,1.5-7.10-12.25-26).
La stessa attribuzione tocca i temi della creazione, della liberazione e della provvidenza nel presente. L'amore misericordioso di Dio è in azione di certo nella redenzione ma anche nella fondazione del mondo e nel governo attuale. Quindi la misericordia di Dio è presente in ogni fase della sua azione. Il Salmo proclama patentemente che l'amore e la misericordia sono il tratto costante dell’agire di Dio.
Ḥesed, infatti, è fondamentalmente ‘tenerezza’, ma una tenerezza intessuta di ‘fedeltà’ e ha il suo luogo d’essere negli eventi che Dio governa, nell’operatività di Dio. È il motore che porta avanti la storia, i fatti, la Creazione, la Liberazione, la Provvidenza.
L’altro termine cardine che compare nell’AT (e in Es 34 tradotto con il termine pietoso) è il verbo Raḥam (dal termine ‘Reḥem’che vuol dire viscera, e corrisponde essenzialmente all’organo capace di gestare la vita, l’utero). Questo termine collega l'opera di Dio alle Sue viscere, con ultimo riferimento a quelle viscere tutte femminili che intessono la vita... per cui la misericordia risulta essere attività rigenerante, che ri-crea. Nel termine italiano 'misericordia' è facile rinvenire la matrice latina della parola 'cuore' - cor, cordis - ma il cuore batte dando ritmo ed emozione alla persona che lo possiede. Invece l'utero è un organo che gesta la vita di un altro.
Un testo tipico in cui appare questa attitudine di Dio è un passo del profeta Isaia in cui il Signore è presentato con attitudini femminili:
“Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,14-15).
Cosicché nella misericordia abbiamo due aspetti: uno paterno-maschile, se vogliamo, e uno materno-femminile. Quello maschile è una energia tenera ma possente, operativa, provvidente, quello femminile è la generazione, la costruzione, o la ri-costruzione della vita a partire da un legame viscerale.
Va notato uno di quei molti testi in cui Es 34,5-7 viene richiamato quasi letteralmente, il Sal 103, che recita:
7 Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele.
8 Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore. 9 Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. 10 Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. 11 Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia (hesed) è potente su quelli che lo temono; 12 quanto dista l'oriente dall'occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe. 13 Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero (raham) verso quelli che lo temono, 14 perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere (Sal 103,7-14).
Mentre il v.7 ricorda appunto la rivelazione del Suo essere a Mosè e al popolo, i vv.8-10 sono una citazione quasi letterale di Es 34,6 e una parafrasi del verso seguente, e i vv.11-14 sono una spiegazione di quanto appena enunciato. Interessante notare che la misericordia citata al v.11 è la ḥesed mentre la tenerezza del v.13 è descritta con il verbo raḥam, i nostri due termini principali, che vengono spiegati come attività che tiene conto della ‘pasta’ della natura umana, ossia delle nostra miseria su cui Dio opera con la sua onnipotenza e di cui ha tenerezza paterna (descritta usando un termine viscerale-femminile).
Ma la cosa più importante da sottolineare è che, in entrambi i casi, l’oggetto della misericordia è la vita di chi è amato.
Qual è quindi la natura propria della misericordia? Attraverso un’attività oggettiva, generare o ri-generare la vita. L'attitudine divina di creare dal nulla si riflette strepitosamente nell’atto della misericordia, il quale cosa fa? Rigenera, operando nella vita di colui che è oggetto della misericordia. La benevolenza di Dio cambia la vita della persona, non fa solo pervenire il senso di un sentimento di accoglienza; non è qualcuno che ha solo interiore compassione. Nei Vangeli, infatti, vediamo che quando Gesù ha compassione conseguentemente opera, sempre! (Mt 9,36s; 14,14; 15,32; Mc 1,41; Lc 7,13s).
Abbiamo focalizzato così un problema usuale che abbiamo con l’amore. Noi crediamo che l’amore sia solo un sentimento: l’amore è un atto che implica tutta la nostra persona, sentimento, intelligenza, memoria, intenzione, operatività, abilità, tenacia, verifica, e altro ancora. In Dio la misericordia è l’atto del governo della storia, è la Sua natura, che genera, dà la vita, la guida, la ristabilisce.
La Beata Vergine Maria, nel Magnificat in Lc 1, legge tutta la storia - con un illuminante "d'ora in poi" al v. 48 che indica la sua consapevolezza di essere al centro di uno snodo definitivo della salvezza - e dopo aver presentato l'Onnipotente e il Suo nome santo come centro del suo canto, passa a sintetizzare la storia:
“...50 di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. 51 Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52 ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; 53 ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. 54 Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55 come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre».” (Lc 1,50-55)
Il v. 55 indica che tutto ciò è il compimento della promessa fatta ad Abramo, ma questa opera si inquadra, fra i vv. 50 e 54, nella misericordia. Questa misericordia “disperde i superbi e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e svuota le mani dei ricchi”. Ecco che vanno in tilt le nostre categorie: questa noi la chiamiamo giustizia e invece no, è misericordia! Questo ci aiuta ad intendere le strane espressioni di Es 34,7 - che prima non abbiamo rimarcato – dalle quali si può cogliere un altro aspetto della misericordia di Dio:
“...che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» ” (Es 34,5-7)
Cosa è la misericordia di un buon padre? L'avallo incondizionato agli atti del figlio, o piuttosto la cura e la guida dello stesso verso il meglio di sé anche se ciò implicasse un castigo o una restrizione? Chi mi ama di più? Chi mi da sempre ragione o chi mi sa contestare perché tiene a me, mi conosce, e cerca il mio cuore, la mia verità?
“Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te“ (Deut 8,5)
Questo è un attributo fondamentale della misericordia biblica: è la cura dell'altro e del suo bene più autentico. Non è il soccorso fine a se stesso: è la vita integrale di colui che è soccorso.
Ciò richiede, fra le altre, scienza, abilità, intuizione e capacità di finalizzazione grandi, enormi, si può dire soprannaturali o divine. E non è un caso a tal proposito che ci siano due verbi nell'AT riservati esclusivamente a Dio, avendo Lui solo come possibile attore: il verbo ‘creare’ [br’] e il verbo ‘perdonare’ [slḥ]. Come abbiamo visto questi sono contenuti essenziali della misericordia. E sono prerogative esclusivamente divine.
Quest’ultima annotazione ci permette di portare il discorso su un altro grande equivoco sulla misericordia, che, passando dall'ambiente dell'AT a quello del NT, possiamo introdurre ponendoci una domanda: da dove sorge la misericordia? Se vogliamo agire in modo misericordioso, da dove prendiamo questa attitudine? Quando si tratta di avere pietà e misericordia per il prossimo, noi cerchiamo in genere di far leva sulla volontà.
Esortiamo alla misericordia, rimproveriamo chi non ha avuto pietà, esecriamo l'indifferenza del cuore rispetto al prossimo facendo appello all'etica, all'imperativo categorico. E così facendo poniamo le basi del comune sentire a proposito del bene, dell'amore misericordioso, della pietà verso poveri e peccatori. Tuttavia questo senso comune avverte queste cose come “faticose ma doverose”, lanciando il praticante di misericordia in una apnea di impegno, tanto da arrivare a fare del perdono un atto titanico, un sovraccarico esistenziale a cui tanti rinunciano.
Ma la misericordia ha ben altre sorgenti! Se l'amore compassionevole e indulgente fosse una nota comunemente disponibile nel nostro equipaggiamento, allora sì, la strada sarebbe quella della volontà, della decisione umana. Ma non era un caso l'esclusività nell'AT del verbo ‘slḥ’, che trova eco nella frase degli scribi davanti alle parole di Gesù al paralitico calato dal tetto:
“5 Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati». Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico «Ti sono perdonati i peccati», oppure dire «Àlzati, prendi la tua barella e cammina»? Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te - disse al paralitico -: àlzati, prendi la tua barella e va' a casa tua». Quello si alzò e subito presa la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!» (Mc 2,5-12).
La frase degli scribi è ineccepibile. Chi può maneggiare questo materiale, ossia il peccato? Chi potrà lavare le macchie che l'uomo porta dentro? Chi potrà togliere via l’inchiostro delle nostre colpe? Chi potrà togliere l’amarezza per gli errori commessi? Sappiamo come si lava un corpo o un indumento, sappiamo mondare le cose, rigenerare i materiali, rimettere in moto ciò che si è rotto. Ma come si lava il cuore? Come si ‘resetta’ l’anima?
Dio solo ha questo potere, perché unicamente chi ha creato può ri-creare. Le persone e le sapienze di questo mondo cercano in tanti modi di ‘ri-fare’ l'uomo, di scuotergli di dosso il passato o le sue tortuosità. Una ricerca vana. L'uomo al massimo potrà dare equilibrio, non vita nuova. Solo Dio ha questo potere.
Infatti Cristo non smentisce gli scribi ma annunzia l'irruzione di ben altra novità, e guarire un paralitico diventa solo un fatto secondario per annunziare questa cosa: il Figlio dell'uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra! Sulla terra è arrivato il perdono, la misericordia.
La misericordia arriva dal cielo, perché se abbiamo visto che il Suo nome contiene questa identità misericordiosa, Lui, come diceva il testo di Es 34, è ricco di amore e di fedeltà. La misericordia è la sua ricchezza, ed è la sua prerogativa. Tutto ciò che doveva essere rivelato di Dio, e che era nascosto, si manifesta nel Signore Gesù, unigenito figlio di Dio, che viene con uno scopo ben preciso:
«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16s).
E Paolo sintetizza:
«Anche tutti noi (...) eravamo per natura meritevoli d'ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù» (Ef 2,3-7).
La porta della salvezza è l'amore misericordioso del Padre. La misericordia di Dio non è una delle strade, è l'unica strada! È il mandato del Messia, ed è un culto nuovo, che deriva dall'esperienza battesimale del perdono dei peccati, e che, annunziato dai profeti, è stato incarnato nel Signore Gesù come autentico sistema di priorità:
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,11-13).
Di conseguenza Cristo risorto ha un mandato da comunicare:
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20, 21-23).
Ecco la sorgente della misericordia: lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio, il segreto di Dio, la sua paternità-maternità in quanto ci viene comunicata. Nella scena di Gv 20 Gesù fa un atto di creazione analogo a Gen 2,7 quando l'uomo diviene essere vivente per l'alito di vita insufflato nelle sue narici. Ecco che ora viene effuso l'alito della vita divina, e l'uomo, come parte della Chiesa, diventa ‘Alter Cristus’ (“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”). Quale è la caratteristica assolutamente divina che gli è stata consegnata? Rimettere i peccati. Stiamo parlando in primis del Battesimo, il mandato fondamentale, la chiave di tutto.
Da questo, negli Atti degli Apostoli, sgorgherà la fraternità, la compassione reciproca, il tratto misericordioso nell'agire (Cfr. At 2,37-47). Non si può ridurre la misericordia ad una nostra iniziativa, ad una nostra coerenza…
“Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,7-11).
Per amare bisogna essere stati generati, e l'iniziativa è dell'Unico che possa fare questo. Come ridurre la misericordia ad uno sforzo umano? È invece una risposta, l'unica autenticante di un vero incontro con Dio. Chi non ha misericordia “non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”. Non è questione di essere buoni o cattivi, ma di essere generati dalla misericordia.
Si arriva così ad intendere la misura del "poco" e del "molto" in questo mondo della misericordia. Si può dare misericordia se e nella misura in cui si accoglie la misericordia:
“Colui al quale si perdona poco, ama poco” (Lc 7,47)
In questo ridotto spazio dobbiamo accontentarci di queste macroscopiche note riguardanti la misericordia biblica. Nasce da Dio, perché Dio è misericordia. Non è solo un sentimento, perché è il tratto globale dell'agire di Dio e di chi da Dio è generato. Ed è la vera giustizia, supera il sacrificio, e sarà la chiave della valutazione di tutta la storia e dell'agire di ogni uomo:
“... il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio” (Gc 2,13)
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).
1/ Dal fitness al fast food, siamo sempre più dissociati dalla carne, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire dell’1/11/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2015)
Nel suo libro Une question de taille Olivier Rey ha inserito una foto molto suggestiva: due individui un po' sovrappeso, in pantaloncini, prendono una scala mobile per recarsi in una sala fitness. Se ne deduce che in quella sala troveranno un «simulatore di scale» grazie al quale saliranno scalini che non li condurranno mai da nessuna parte ma che elimineranno un po' della pinguedine risultante da una vita troppo comoda.
Ho conosciuto io stesso una situazione simile quando abitavo a New York: prendevo l'ascensore per salire fino al mio appartamento al 27esimo piano, poi subito lo riprendevo per andare al secondo piano seminterrato dove luccicavano biciclette pedalanti a vuoto, tapis roulant che mutano la corsa in calpestio, remi da galeotto senza alcun piacere nautico e infine, soprattutto, il nostro apparecchio, lo Stairmaster – Scala Santa della nuova religione, di un progresso che è l'apoteosi del surplace, di una società che si sviluppa attraverso la dissociazione.
Questa dissociazione si ritrova dappertutto – di certo specialmente nelle nostre mutande. Ormai è ovvio che il sesso deve essere dissociato in copula e procreazione, per trovare da una parte un vero divertimento nel piacere e avere dall'altra una seria ingegneria dell'umano.
La tavola non è da meno del letto nel conoscere questa divisione: ciascuno consuma da solo il fast food adeguato alla propria dieta e conversa con amici che non sono più commensali. Del resto, la conversazione, chiamata chat, è essa stessa dissociata: le parole sono interamente separate dagli sputacchi e da ogni altra presenza carnale.
Parola che conviene dissociare a sua volta: da una parte, la comunicazione veloce, efficace, che si esprime con smiley e LOL preregistrati; dall'altra, eventualmente, il pensiero, da lasciare preferibilmente a specialisti reazionari.
Una volta dissociate e semplificate queste attività, la frustrazione è tale che le si giustappone immediatamente nel multitasking. Si usa il simulatore di scale mentre si guarda su uno schermo un thriller ambientato sull'Everest, tenendo d'occhio in un angolino le quotazioni della borsa; si comunica con un «amico» tramite What's App e contemporaneamente si partecipa a una partita di poker online con altri sconosciuti mentre un concerto di Mozart va in sottofondo, il tutto stando seduti sulla tavoletta del cesso.
Purtroppo questa giustapposizione non genera una sinfonia, così come un mucchio di membra suddivise non ricostituisce un corpo vivente. Da dove viene questa china generale verso la dissociazione?
Dalla divisione tayloriana che separa la concezione dall'esecuzione e poi suddivide l'esecuzione stessa in una serie di compiti che dovrebbero migliorare la produttività degradando il lavoro?
Dalla visione scientifica moderna che disintegra l'organismo in una molteplicità di funzioni analizzabili, o decompone la forma concreta in una moltitudine di elementi (geni, neuroni, atomi…) ricombinabili a piacere?
Dall'economia di mercato che ha interesse a che non si viva dell'opera delle proprie mani e non si sia contenti di una serata intorno a un fuoco, cose che le impedirebbero di venderci i suoi piatti " equi " e multimediali? Da tutto questo, probabilmente. E da altro ancora che si potrebbe chiamare la «perdita di finalità».
Perché la prima dissociazione è quella che separa i mezzi dai fini, dopo aver separato i fini dal Fine ultimo. Quando si ignora il quadro radioso che essi costituiscono, è normale che i pezzi del puzzle si scompongano e che il gioco diventi solo quello di impilarli e di moltiplicarli senza fine, frammentando ancora tutto il resto. Quando si ignora l'immagine divina che costituisce la nostra vita in questa carne sessuata e mortale, è normale che ci si dislochi, ci si sparpagli, ci si aumenti meccanicamente, fino a ridurre in briciole tutto ciò che ci circonda.
2/ La sfida dell'innovazione? Il perfezionamento del pulsionale, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 25/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
Una vignetta molto popolare mostra l'uomo che perde la posizione eretta e regredisce verso la postura dello scimpanzé fino a ritrovarsi ricurvo davanti a una tastiera e uno schermo. Trovo questa immagine molto sgarbata nei confronti delle scimmie le quali, sia detto a loro difesa, hanno finora dato sempre prova di quel sano e solido realismo intellettuale che fa preferire una vera banana a qualsiasi meraviglia digitale.
Non posso però fare a meno di ammettere che una certa bestialità covi sotto la più alta raffinatezza tecnologica. Ho visto persone, la cui appartenenza alla specie “animale razionale” non era minimamente in discussione, mettersi d'improvviso a insultare un computer e pure a colpirlo sul disco rigido (cosa che sarà presto condannata dalla corte europea dei diritti del cyborg) solo perché un comando dell'apparecchio non rispondeva più o perché il processore funzionava al rallentatore. E di fronte al piccolo simbolo che gira e gira senza fine, il pacifico internauta si trasforma in un fascio di nervi al cui confronto un pitbull inferocito presenta ancora un comportamento abbastanza coerente e flemmatico.
Compatisco profondamente l'infelicità di questo povero animale che non è più abbastanza umano per conservare la ragione e che lo è ancora troppo per ritrovare l'istinto. Come definire ciò che gli capita? Lui dice di avere “sbroccato” (attestando così di essere caduto più in basso di una bestia). Ma si potrebbe più obiettivamente dire che il poveretto ha “perso il controllo”, inconveniente che può capitare solamente a chi l'abbia innanzitutto voluto quel controllo, e un controllo tale che basti appena schioccare le dita perché il mondo sia immediatamente al suo servizio.
In fin dei conti, qual è la virtù umana che spinge a incrementare la sofisticazione degli apparecchi che ci circondano? L'impazienza, essenzialmente. Il destino del contadino di ieri era invece quello di essere paziente: non poteva affrettare il germogliare delle piante. Anche il cacciatore dell'altro ieri si muoveva in un ambiente tecnico che affinava la sua resistenza: seguiva le tracce della preda, sapeva restare per molto tempo alla posta dietro un cespuglio.
Che dire del consumatore di oggi? Il progresso dei suoi strumenti, dalla grande distribuzione fino al microchip, consiste nel mettergli tutto sempre più a portata di clic. Deve soltanto premere un bottone per ottenere senza attesa né preghiera. Le pubblicità ne fanno continuamente la dimostrazione vantando i benefici di oggetti che permettono di andare sempre più rapidamente, più facilmente, più comodamente; e questo per l'utente significa diventare sempre più impulsivo, più irritabile, più delicato.
Fintantoché le macchine funzionano e sembrano ubbidirci al primo colpo non ci accorgiamo della dipendenza e dell'impulsività che esse causano. Ma appena smettono di funzionare, la violenza che avevano nutrito e al tempo stesso contenuto si manifesta brutalmente – tanto più brutalmente quanto era dissimulata sotto una cordialità meccanica.
È questo il tema affrontato nei romanzi di J. G. Ballard: un mondo cosy –confortevole –, ultramoderno, che corre sui binari di una socialità automatizzata e che deraglia all'improvviso in una barbarie tale da terrorizzare i barbari di un tempo (che almeno avevano dei costumi). In High-rise, che è stato da pochissimo adattato per il cinema, basta un blackout elettrico affinché i bravi abitanti medici o architetti di un palazzo ultra-sofisticato si ritrovino presto in guerre tribali, nel cannibalismo e nell'incesto. Ecco l'orizzonte dell'innovazione: la fabbricazione e il perfezionamento del pulsionale.
3/ Viva la vita crudele e sessista. Un’intervista di Rodolfo Casadei a Fabrice Hadjadj
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista di Rodolfo Casadei a Fabrice Hadjadj pubblicata il 9/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
A lavori del Sinodo sulla famiglia conclusi, abbiamo avuto l’opportunità di dialogare con Fabrice Hadjadj, il filosofo francese autore di Ma che cos’è una famiglia? (edizioni Ares). Ecco la sintesi del colloquio.
Fabrice Hadjadj, che ne pensa del Sinodo sulla famiglia appena concluso e della eco che hanno avuto alcuni degli argomenti dibattuti nel suo corso?
Il Sinodo ha invitato al discernimento, a discernere la situazione nuova in cui si trova l’essere umano e a recuperare l’insegnamento della Humanae Vitae, la profetica enciclica di Paolo VI dove si legge che «l’uomo ha compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze della natura, così che si sforza di estendere questo dominio al suo stesso essere globale; al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita».
Il dominio tecnologico ha portato con sé degli interrogativi che mai l’umanità si era dovuta porre. Ciò che per gli antichi era semplicemente necessità, per noi è diventato o sta diventando scelta. Volete invecchiare o restare giovani? Volete morire o vivere per sempre? Volete dei figli per la via sessuale, con tutti i rischi connessi per la loro salute e la casualità del loro patrimonio genetico, o volete avere figli sani e forti, selezionati in laboratorio? Volete restare nel vostro corpo di carne o volete moltiplicare i vostri alter ego virtuali?
I filosofi e la Chiesa non hanno mai dovuto legittimare il fatto che si muore o il fatto che si nasce da un uomo e da una donna: erano evidenze. Oggi chi cerca di legittimare la sofferenza, la vecchiaia, la morte è giudicato crudele. E siccome la Chiesa continua a fare questo, è considerata il luogo della crudeltà e non della compassione. La compassione sta dalla parte della tecnologia: un bambino geneticamente selezionato attraverso le biotecnologie sarà più sano e potrà meglio integrarsi nella società; un bambino che nasce benché portatore di handicap come esige la Chiesa soffrirà. Noi cristiani siamo i più crudeli di tutti, perché vogliamo che la gente continui a soffrire e a morire.
Messa così, non si vede nessuna via di scampo…
Non siamo alla ricerca di soluzioni. Se cerchiamo la ricetta per la buona famiglia cristiana, abbiamo già sbagliato: ci siamo fatti assorbire anche noi dal paradigma tecno-economico. Proviamo a partire da quello che papa Francesco dice nella Laudato si’, dalla sua critica radicale del paradigma tecno-economico: lui dice che solo se cambiamo modo di vivere possiamo resistere. E per esempio al paragrafo numero 120 scrive: «Non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto. Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà: “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Caritas in veritate, n. 28)». Che significa smettere di parlare della famiglia in termini di valori, e cominciare a parlarne come vita, cioè come luogo di drammi, fallimenti e misericordia.
Oggi tutti valorizzano la famiglia: cristiani, non cristiani, attivisti Lgbt. Ma in questo modo i valori diventano nichilisti, perché esprimono una concezione del bene separata dall’essere. Se diciamo che la famiglia è il luogo dell’amore, dell’educazione e della libertà, stiamo dicendo che la famiglia in sé non ha valore, e che è qualcos’altro che le conferisce valore. Amore, educazione e libertà si trovano anche in un orfanotrofio di alto livello, che disponga di uno staff di professionisti appassionati! Quando noi cristiani abbiamo cominciato a tematizzare il bene del bambino, abbiamo contribuito a distruggere la famiglia. Perché abbiamo separato il bene del bambino dall’essere del bambino, che coincide col suo essere generato.
Bisogna accettare la famiglia nel suo essere, e non cercare soluzioni per la famiglia. La famiglia è vita, e non ci sono soluzioni per la vita, perché la vita non è un problema, la vita è dono e mistero: non è qualcosa che abbiamo costruito noi, quindi sfugge ai nostri progetti, ai nostri programmi. Nella famiglia che nasce dalla sessualità il padre esercita un’autorità senza competenza, perché ha generato il figlio senza certificare le proprie competenze pedagogiche, e la madre ha concepito in un’ottica di fiducia senza controllo, perché il figlio è cresciuto dentro di lei senza che decidesse lei le sue qualità. Da ciò derivano fatiche, fallimenti, divisioni dentro la famiglia. Allora perché non razionalizzare il tutto attraverso la tecnica (le biotecnologie)? Perché quello che ne verrebbe fuori non sarebbe più vita, ma una programmazione della vita. Padre e madre trasmettono la vita, non la comprensione che essi hanno della vita. Per questo il figlio non è un prodotto sul quale hanno un controllo, ma un altro che sta davanti a loro. Ed è per questo che i drammi della famiglia sono senza soluzione. Ed è ancora per questo che la famiglia è il luogo privilegiato dove l’essere umano fa esperienza della misericordia: ci può essere misericordia solo là dove c’è miseria.
Quand’è che abbiamo cominciato a separare il bene dall’essere, quindi anche i valori dalla vita, dalla famiglia?
Molto presto, già nel giardino dell’Eden. Quel che accade col peccato originale, è anzitutto la dimenticanza dell’albero della vita. Il suo posto viene preso dall’albero della conoscenza del bene e del male. Che il serpente riesca a confondere Eva si capisce dal fatto che lei gli risponde: «Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma l’albero che Dio ha chiesto di non toccare è quello della conoscenza del bene e del male, non quello della vita che è al centro del giardino dell’Eden! Prima ancora che abbia luogo la disobbedienza, la caduta, il serpente è riuscito a spostare l’attenzione dalla vita alla conoscenza. Dalla genealogia alla logica. E la storia del pensiero umano è consistita in un assorbimento del genealogico nel logico, fino ad arrivare all’affermazione dell’individuo autonomo. Che non è più figlio, non è più uomo o donna: è individuo. È soggetto autonomo senza filiazione e senza sessuazione.
L’ultima manifestazione dell’assorbimento del genealogico nel logico è il dominio del tecnologico. Il tecnologico è l’ultima maniera di sbarazzarsi del genealogico, perché presto saremo in grado di produrre esseri umani: fabbricheremo bambini e cyborg. Credo che si possa rileggere tutta la storia della filosofia a partire dal peccato originale e dal fatto che l’albero della conoscenza del bene e del male prende il sopravvento sull’albero della vita e diventa più centrale di esso.
Il sottotitolo del suo ultimo libro, L’aubaine d’être né en ce temps, recita: Pour un apostolat de l’Apocalypse. Lei è convinto che stiamo vivendo gli ultimi tempi dell’umanità?
Non mi avventuro in pronostici visionari alla Nostradamus, stiamo semplicemente ai fatti. Oggi disponiamo di una capacità di autodistruzione totale che in passato non avevamo. Attraverso le cosiddette tecnologie convergenti abbiamo la possibilità di una mutazione totale dell’umanità. Le condizioni climatiche e la situazione ecologica possono sfociare in distruzioni enormi. Non ci troviamo necessariamente alla fine dei tempi, ma siamo entrati in tempi che assomigliano alla fine dei tempi. La questione della fine, della scomparsa dell’umanità, è diventata una questione ordinaria, di cui tutti parlano.
Ma quando dico Apocalisse non dico semplicemente catastrofe. Dico anche svelamento. La parola Apocalisse dice un periodo di grandi catastrofi globali, ma allo stesso tempo di rivelazione (vedi il significato della parola greca, ndr). Questo tempo di rivelazione è un periodo straordinario per noi cristiani. In passato non abbiamo riflettuto tanto sulla verità della carne e della famiglia. Ma adesso è un dovere, perché i nostri tempi sono apocalittici. Come scrive san Paolo: «È necessario che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi» (1Cor 11,19). È necessario che appaiano eresie, perché le eresie ci mettono alla prova e aiutano il disvelarsi del Mistero. Infatti quello che oggi succede all’interno della catastrofe di attacchi di una violenza inaudita per trasformare le radici stesse della generazione, è che improvvisamente il mistero della nostra origine carnale e sessuale diventa molto più evidente, e ci costringe per la prima volta a pensare cose che non avevamo mai pensato prima, perché erano delle evidenze. Ora che queste evidenze sono messe in discussione, ha luogo una rivelazione.
Notiamo che tutto il magistero recente della Chiesa si concentra su questo tema. Prima Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI e ora papa Francesco, ciascuno secondo il suo carisma. Nella Laudato si’ Francesco indica la famiglia come il punto di partenza di un’ecologia integrale e suggerisce che la capacità di accogliere la nascita è più importante che l’innovazione. Se non sono più capace di accogliere la nascita, mi getterò non più sulla novità della nascita, ma sulla novità dell’innovazione, e a quel punto finirò per introdurre un tipo di progresso che è quello che distrugge la natura. È la famiglia come luogo della nascita che permette di resistere alla fabbrica come luogo dell’innovazione e al paradigma tecno-economico che mette in pericolo l’ecosistema.
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’udienza ai partecipanti al convegno promosso dalla Congregazione per il clero, in occasione del 50° anniversario dei decreti conciliari "Optatam totius" e "Presbyterorum ordinis", il 20/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/11/2015)
Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e sacerdoti,
fratelli e sorelle,
rivolgo a ciascuno un cordiale saluto ed esprimo un sincero ringraziamento a Lei, Cardinale Stella, e alla Congregazione per il Clero, che mi hanno invitato a partecipare a questo Convegno, a cinquant’anni dalla promulgazione dei Decreti conciliari Optatam totius e Presbyterorum ordinis.
Mi scuso di aver cambiato il primo progetto, che era che venissi io da voi, ma avete visto che il tempo non c’era e anche qui sono arrivato in ritardo!
Non si tratta di una “rievocazione storica”. Questi due Decreti sono un seme, che il Concilio ha gettato nel campo della vita della Chiesa; nel corso di questi cinque decenni essi sono cresciuti, sono diventati una pianta rigogliosa, certamente con qualche foglia secca, ma soprattutto con tanti fiori e frutti che abbelliscono la Chiesa di oggi. Ripercorrendo il cammino compiuto, questo Convegno ha mostrato tali frutti e ha costituito una opportuna riflessione ecclesiale sul lavoro che resta da fare in questo ambito così vitale per la Chiesa. Ancora resta lavoro da fare!
Optatam totius e Presbyterorum ordinis sono stati ricordati insieme, come le due metà di una realtà unica: la formazione dei sacerdoti, che distinguiamo in iniziale e permanente, ma che costituisce per essi un’unica esperienza di discepolato. Non a caso, Papa Benedetto, nel gennaio 2013 (Motu proprio Ministrorum institutio) ha dato una forma concreta, giuridica, a questa realtà, attribuendo alla Congregazione per il Clero anche la competenza sui seminari. In questo modo lo stesso Dicastero può iniziare a occuparsi della vita e del ministero dei presbiteri sin dal momento dell’ingresso in seminario, lavorando perché le vocazioni siano promosse e curate, e possano sbocciare nella vita di santi preti. Il cammino di santità di un prete inizia in seminario!
Dal momento che la vocazione al sacerdozio è un dono che Dio fa ad alcuni per il bene di tutti, vorrei condividere con voi alcuni pensieri, proprio a partire dal rapporto tra i preti e le altre persone, seguendo il n. 3 di Presbyterorum ordinis, nel quale si trova come un piccolo compendio di teologia del sacerdozio, tratto dalla Lettera agli Ebrei: «I presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati, vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli».
Consideriamo questi tre momenti: “presi fra gli uomini”, “costituiti in favore degli uomini”, presenti “in mezzo agli altri uomini”.
Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano; lì apprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si abitua alle relazioni. Anche i preti hanno una storia, non sono “funghi” che spuntano improvvisamente in Cattedrale nel giorno della loro ordinazione. È importante che i formatori e i preti stessi ricordino questo e sappiano tenere conto di tale storia personale lungo il cammino della formazione. Nel giorno dell’ordinazione dico sempre ai sacerdoti, ai neo-sacerdoti: ricordatevi da dove siete stati presi, dal gregge, non dimenticatevi della vostra mamma e della vostra nonna! Questo lo diceva Paolo a Timoteo, e lo dico anch’io oggi. Questo vuol dire che non si può fare il prete credendo che uno è stato formato in laboratorio, no; incomincia in famiglia con la “tradizione” della fede e con tutta l’esperienza della famiglia. Occorre che essa sia personalizzata, perché è la persona concreta ad essere chiamata al discepolato e al sacerdozio, tenendo in ogni caso conto che è solo Cristo il Maestro da seguire e a cui configurarsi.
Mi piace in questo senso ricordare quel fondamentale “centro di pastorale vocazionale” che è la famiglia, chiesa domestica e primo e fondamentale luogo di formazione umana, dove può germinare nei giovani il desiderio di una vita concepita come cammino vocazionale, da percorrere con impegno e generosità.
In famiglia e in tutti gli altri contesti comunitari – scuola, parrocchia, associazioni, gruppi di amici – impariamo a stare in relazione con persone concrete, ci facciamo modellare dal rapporto con loro, e diventiamo ciò che siamo anche grazie a loro.
Un buon prete, dunque, è prima di tutto un uomo con la sua propria umanità, che conosce la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un discepolo del Signore. La formazione umana è quindi una necessità per i preti, perché imparino a non farsi dominare dai loro limiti, ma piuttosto a mettere a frutto i loro talenti.
Un prete che sia un uomo pacificato saprà diffondere serenità intorno a sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col Signore. Non è normale invece che un prete sia spesso triste, nervoso o duro di carattere; non va bene e non fa bene, né al prete, né al suo popolo. Ma se tu hai una malattia, sei nevrotico, vai dal medico! Dal medico spirituale e dal medico clinico: ti daranno pastiglie che ti faranno bene, ambedue! Ma per favore che i fedeli non paghino la nevrosi dei preti! Non bastonare i fedeli; vicinanza di cuore con loro.
Noi sacerdoti siamo apostoli della gioia, annunciamo il Vangelo, cioè la “buona notizia” per eccellenza; non siamo certo noi a dare forza al Vangelo – alcuni lo credono -, ma possiamo favorire o ostacolare l’incontro tra il Vangelo e le persone. La nostra umanità è il “vaso di creta” in cui custodiamo il tesoro di Dio, un vaso di cui dobbiamo avere cura, per trasmettere bene il suo prezioso contenuto.
Un prete non può perdere le sue radici, resta sempre un uomo del popolo e della cultura che lo hanno generato; le nostre radici ci aiutano a ricordare chi siamo e dove Cristo ci ha chiamati. Noi sacerdoti non caliamo dall’alto, ma siamo chiamati, chiamati da Dio, che ci prende “fra gli uomini”, per costituirci “in favore degli uomini”. Mi permetto un aneddoto. In diocesi, anni fa... Non in diocesi, no, nella Compagnia c’era un prete bravo, bravo, giovane, due anni di prete. È entrato in confusione, ha parlato col padre spirituale, con i suoi superiori, con i medici e ha detto: “Io me ne vado, non ne posso più, me ne vado”. E pensando a queste cose - io conoscevo la mamma, gente umile - gli ho detto: “Perché non vai dalla tua mamma e le parli di questo?”. È andato, ha passato tutta la giornata con la mamma, è tornato cambiato. La mamma gli dato due “schiaffi” spirituali, gli ha detto tre o quattro verità, lo ha messo a posto, ed è andato avanti. Perché? Perché è andato alla radice. Per questo è importante non togliere la radice da dove veniamo. In seminario devi fare la preghiera mentale… Sì, certo, questo si deve fare, imparare… Ma prima di tutto prega come ti ha insegnato tua mamma, e poi vai avanti. Ma sempre la radice è lì, la radice della famiglia, come hai imparato a pregare da bambino, anche con le stesse parole, incomincia a pregare così. Poi andrai avanti nella preghiera.
Ecco il secondo passaggio: “in favore degli uomini”.
Qui c’è un punto fondamentale della vita e del ministero dei presbiteri. Rispondendo alla vocazione di Dio, si diventa preti per servire i fratelli e le sorelle. Le immagini di Cristo che prendiamo come riferimento per il ministero dei preti sono chiare: Egli è il “Sommo Sacerdote”, allo stesso modo vicino a Dio e vicino agli uomini; è il “Servo”, che lava i piedi e si fa prossimo ai più deboli; è il “Buon Pastore”, che sempre ha come fine la cura del gregge.
Sono le tre immagini a cui dobbiamo guardare, pensando al ministero dei preti, inviati a servire gli uomini, a far loro giungere la misericordia di Dio, ad annunciare la sua Parola di vita. Non siamo sacerdoti per noi stessi e la nostra santificazione è strettamente legata a quella del nostro popolo, la nostra unzione alla sua unzione: tu sei unto per il tuo popolo. Sapere e ricordare di essere “costituiti per il popolo” - popolo santo, popolo di Dio -, aiuta i preti a non pensare a sé, ad essere autorevoli e non autoritari, fermi ma non duri, gioiosi ma non superficiali, insomma, pastori, non funzionari. Oggi, in entrambe le Letture della Messa si vede chiaramente la capacità di gioire che ha il popolo, quando viene ripristinato e purificato il tempio, e invece l’incapacità di gioia che hanno i capi dei sacerdoti e gli scribi davanti alla cacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù. Un prete deve imparare a gioire, non deve mai perdere, meglio così, la capacita di gioia: se la perde c’è qualcosa che non va. E vi dico sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura. Ai preti rigidi… Lontano! Ti mordono! E mi viene alla mente quella espressione di sant’Ambrogio, secolo IV: “Dove c’è la misericordia c’è lo spirito del Signore, dove c’è la rigidità ci sono soltanto i suoi ministri”. Il ministro senza il Signore diventa rigido, e questo è un pericolo per il popolo di Dio. Pastori, non funzionari.
Il popolo di Dio e l’umanità intera sono destinatari della missione dei sacerdoti, a cui tende tutta l’opera della formazione. La formazione umana, quella intellettuale e quella spirituale confluiscono naturalmente in quella pastorale, alla quale forniscono strumenti e virtù e disposizioni personali. Quando tutto questo si armonizza e si amalgama con un genuino zelo missionario, lungo il cammino di una vita intera, il prete può adempiere alla missione affidata da Cristo alla sua Chiesa.
Infine, ciò che dal popolo è nato, col popolo deve rimanere; il prete è sempre “in mezzo agli altri uomini”, non è un professionista della pastorale o dell’evangelizzazione, che arriva e fa ciò che deve – magari bene, ma come fosse un mestiere – e poi se ne va a vivere una vita separata. Si diventa preti per stare in mezzo alla gente: la vicinanza. E mi permetto, fratelli vescovi, anche la nostra vicinanza di vescovi con i nostri preti. Questo vale anche per noi! Quante volte sentiamo le lamentele dei preti: “Mah, ho chiamato il vescovo perché ho un problema… Il segretario, la segretaria, mi ha detto che è molto occupato, che è in giro, che non può ricevermi prima di tre mesi…”. Due cose. La prima. Un vescovo sempre è occupato, grazie a Dio, ma se tu vescovo ricevi una chiamata di un prete e non puoi riceverlo perché hai tanto lavoro, almeno prendi il telefono e chiamalo e digli: “È urgente? non è urgente? quando, vieni quel giorno…”, così si sente vicino. Ci sono vescovi che sembrano allontanarsi dai preti… Vicinanza, almeno una telefonata! E questo è amore di padre, fraternità.
E l’altra cosa. “No, ho una conferenza in tale città e poi devo fare un viaggio in America, e poi…”. Ma, senti, il decreto di residenza di Trento ancora è vigente! E se tu non te la senti di rimanere in diocesi, dimettiti, e gira il mondo facendo un altro apostolato molto buono. Ma se tu sei vescovo di quella diocesi, residenza. Queste due cose, vicinanza residenza. Ma questo è per noi vescovi! Si diventa preti per stare in mezzo alla gente.
Il bene che i preti possono fare nasce soprattutto dalla loro vicinanza e da un tenero amore per le persone. Non sono filantropi o funzionari, i preti sono padri e fratelli. La paternità di un sacerdote fa tanto bene.
Vicinanza, viscere di misericordia, sguardo amorevole: far sperimentare la bellezza di una vita vissuta secondo il Vangelo e l’amore di Dio che si fa concreto anche attraverso i suoi ministri. Dio che non rifiuta mai. E qui penso al confessionale. Sempre si possono trovare strade per dare l’assoluzione. Accogliere bene. Ma alcune volte non si può assolvere. Ci sono preti che dicono: “No, da questo non ti posso assolvere, vattene via”. Questa non è la strada. Se tu non puoi dare l’assoluzione, spiega e dì: “Dio ti ama tanto, Dio ti vuole bene. Per arrivare a Dio ci sono tante vie. Io non ti posso dare l’assoluzione, ti do la benedizione. Ma torna, torna sempre qui, che ogni volta che tu torni ti darò la benedizione come segno che Dio ti ama”. E quell’uomo o quella donna se ne va pieno di gioia perché ha trovato l’icona del Padre, che non rifiuta mai; in una maniera o nell’altra lo ha abbracciato.
Un buon esame di coscienza per un prete è anche questo; se il Signore tornasse oggi, dove mi troverebbe? «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). E il mio cuore dov’è? In mezzo alla gente, pregando con e per la gente, coinvolto con le loro gioie e sofferenze, o piuttosto in mezzo alle cose del mondo, agli affari terreni, ai miei “spazi” privati? Un prete non può avere uno spazio privato, perché è sempre o col Signore o col popolo. Io penso a quei preti che ho conosciuto nella mia città, quando non c’era la segreteria telefonica, ma dormivano con il telefono sul comodino, e a qualunque ora chiamasse la gente, loro si alzavano a dare l’unzione: non moriva nessuno senza i sacramenti! Neppure nel riposo avevano uno spazio privato. Questo è zelo apostolico. La risposta a questa domanda: il mio cuore dov’è?, può aiutare ogni prete a orientare la sua vita e il suo ministero verso il Signore.
Il Concilio ha lasciato alla Chiesa “perle preziose”. Come il mercante del Vangelo di Matteo (13,45), oggi andiamo alla ricerca di esse, per trarre nuovo slancio e nuovi strumenti per la missione che il Signore ci affida.
Una cosa che vorrei aggiungere al testo – scusatemi! – è il discernimento vocazionale, l’ammissione al seminario. Cercare la salute di quel ragazzo, salute spirituale, salute materiale, fisica, psichica. Una volta, appena nominato maestro dei novizi, anno ’72, sono andato a portare alla psicologa gli esiti del test di personalità, un test semplice che si faceva come uno degli elementi del discernimento. Era una brava donna, e anche brava medico. Mi diceva: “Questo ha questo problema ma può andare se va così…”. Era anche una buona cristiana, ma in alcuni casi era inflessibile: “Questo non può” – “Ma dottoressa, è tanto buono questo ragazzo” - “Adesso è buono, ma sappia che ci sono giovani che sanno inconsciamente, non ne sono consapevoli, ma sentono inconsciamente di essere psichicamente ammalati e cercano per la loro vita strutture forti che li difendano, così da poter andare avanti. E vanno bene, fino al momento in cui si sentono bene stabiliti e lì incominciano i problemi” – “Mi sembra un po’ strano…”. E la risposta non la dimentico mai, la stessa del Signore a Ezechiele: “Padre, Lei non ha mai pensato perché ci sono tanti poliziotti torturatori? Entrano giovani, sembrano sani ma quando si sentono sicuri, la malattia incomincia ad uscire. Quelle sono le istituzioni forti che cercano questi ammalati incoscienti: la polizia, l’esercito, il clero… E poi tante malattie che tutti noi conosciamo che vengono fuori”. È curioso. Quando mi accorgo che un giovane è troppo rigido, è troppo fondamentalista, io non ho fiducia; dietro c’è qualcosa che lui stesso non sa. Ma quando si sente sicuro… Ezechiele 16, non ricordo il versetto, ma è quando il Signore dice al suo popolo tutto quello che ha fatto per lui: l’ha trovato appena nato, e poi l’ha vestito, l’ha sposato… “E poi, quando tu ti sei sentita sicura, ti sei prostituita”. È una regola, una regola di vita. Occhi aperti sulla missione nei seminari. Occhi aperti.
Confido che il frutto dei lavori di questo Convegno – con tanti autorevoli relatori, provenienti da regioni e culture diverse – potrà essere offerto alla Chiesa come utile attualizzazione degli insegnamenti del Concilio, portando un contributo alla formazione dei sacerdoti, quelli che ci sono e quelli che il Signore vorrà donarci, perché, configurati sempre più a Lui, siano buoni preti secondo il cuore del Signore, non funzionari! E grazie della pazienza.
Riprendiamo sul nostro sito l'omelia tenuta da papa Francesco per l’ordinazione episcopale di mons. Angelo De Donatis, il 9/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/11/2015)
Fratelli e figli carissimi, ci farà bene riflettere attentamente a quale alta responsabilità ecclesiale viene promosso questo nostro fratello.
Il Signore nostro Gesù Cristo, inviato dal Padre a redimere gli uomini, mandò a sua volta nel mondo i dodici apostoli, perché pieni della potenza dello Spirito Santo, annunziassero il Vangelo a tutti i popoli, e riunendoli sotto l'unico pastore, li santificassero e li guidassero alla salvezza.
Al fine di perpetuare di generazione in generazione questo ministero apostolico, i Dodici si aggregarono dei collaboratori trasmettendo loro, con l'imposizione delle mani il dono dello Spirito ricevuto da Cristo, che conferiva la pienezza del sacramento dell'Ordine. Così, attraverso l'ininterrotta successione dei vescovi nella tradizione vivente della Chiesa, si è conservato questo ministero primario e l'opera del Salvatore continua e si sviluppa fino ai nostri tempi.
Nel vescovo circondato dai suoi presbiteri è presente in mezzo a voi lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, sommo sacerdote in eterno.
È Cristo infatti che nel ministero del vescovo continua a predicare il Vangelo di salvezza e a santificare i credenti mediante i sacramenti della fede; è Cristo che nella paternità del vescovo accresce di nuove membra il suo corpo che è la Chiesa; è Cristo che nella sapienza e prudenza del vescovo guida il popolo di Dio nel pellegrinaggio terreno fino alla felicità eterna.
Accogliete dunque con gioia e gratitudine questo nostro fratello che noi vescovi, con l'imposizione delle mani, oggi associamo al collegio episcopale. Rendete a lui l'onore che si deve al ministro di Cristo e al dispensatore dei misteri di Dio, al quale è affidata la testimonianza del Vangelo e il ministero dello Spirito per la santificazione. Ricordatevi delle parole di Gesù agli Apostoli: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato».
Quanto a te, fratello carissimo, eletto dal Signore, rifletti che sei stato scelto fra gli uomini e per gli uomini sei stato costituito nelle cose che riguardano Dio. Episcopato infatti è il nome di un servizio, non di un onore, poiché al vescovo compete più il servire che il dominare, secondo il comandamento del Maestro: «Chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve».
Annunzia la Parola in ogni occasione opportuna e alle volte non opportuna; ammonisci, rimprovera, ma sempre con dolcezza; esorta con ogni magnanimità e dottrina. Le tue parole siano semplici, che tutti capiscano, che non siano lunghe omelie. Mi permetto di dirti: ricordati di tuo papà, quando era tanto felice di avere trovato vicino al paese un’altra parrocchia dove si celebrava la Messa senza l’omelia! Le omelie siano proprio la trasmissione della grazia di Dio: semplici, che tutti capiscano e tutti abbiano la voglia di diventare migliori.
Nella Chiesa a te affidata – qui a Roma in modo speciale – vorrei affidarti i presbiteri, i seminaristi: tu hai quel carisma! Sii fedele custode e dispensatore dei misteri di Cristo. Posto dal Padre a capo della sua famiglia, segui sempre l'esempio del Buon Pastore, che conosce le sue pecore, da esse è conosciuto e per esse non ha esitato a dare la vita.
Con il tuo cuore, ama con amore di padre e di fratello tutti coloro che Dio ti affida: come ho detto, anzitutto i presbiteri e i diaconi, i seminaristi; ma anche i poveri, gli indifesi e quanti hanno bisogno di accoglienza e di aiuto. Esorta i fedeli a cooperare all'impegno apostolico e ascoltali volentieri e con pazienza: molte volte ci vuole tanta pazienza… ma il Regno di Dio si fa così.
Ricordati che devi avere viva attenzione a quanti non appartengono all' unico ovile di Cristo, perché essi pure ti sono stati affidati nel Signore.
Ricordati che nella Chiesa cattolica, radunata nel vincolo della carità, sei unito al collegio dei vescovi e devi portare in te la sollecitudine di tutte le Chiese, soccorrendo generosamente quelle che sono più bisognose di aiuto. E, vicini all’inizio dell’Anno della Misericordia, ti chiedo come fratello di essere misericordioso. La Chiesa e il mondo hanno bisogno di tanta misericordia. Tu insegni ai presbiteri, ai seminaristi la strada della misericordia. Con parole, sì, ma soprattutto con il tuo atteggiamento. La misericordia del Padre sempre riceve, sempre c’è posto nel suo cuore, mai caccia via qualcuno. Aspetta, aspetta… Questo ti auguro: tanta misericordia.
Veglia con amore su tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo ti pone a reggere la Chiesa di Dio: nel nome del Padre del quale rendi presente l'immagine; nel nome di Gesù Cristo suo Figlio, dal quale sei costituito maestro, sacerdote e pastore; nel nome dello Spirito Santo, che dà vita alla Chiesa e con la sua potenza sostiene la nostra debolezza.
Successivamente, durante la Liturgia dell’ordinazione, al momento della consegna dell'anello episcopale, il Santo Padre ha aggiunto queste parole:
Non dimenticarti che prima di questo anello c’era quello dei tuoi genitori. Difendi la famiglia.
Presentiamo sul nostro sito diversi testi di diversa impostazione che permettono forse, pur con elementi criticabili, di avere un quadro più comprensivo della difficile situazione attuale. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
1/ Gli Imam di Francia: I terroristi distruggono l’avvenire dell’islam e il destino dei vostri figli
Presentiamo sul nostro sito un testo apparso su Avvenire e sull’agenzia di stampa Asianews il 20/11/2015 : essi affermano che il testo sarebbe stato letto in tutte le moschee di Francia. In realtà, secondo i media francesi, il Consiglio degli imam di Francia non sarebbe arrivato a redigere un testo condiviso, bensì sarebbero stati inviati diversi testi nelle moschee a seconda delle diverse posizioni oggi presenti nell’Islam francese: il testo che segue sarebbe il più «liberale». Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
Cari musulmani e care musulmane,
L’islam, la religione della pace, è divenuto ostaggio nelle mani di estremisti e di ignoranti. L’islam esiste in Europa da un secolo. Esso ha vissuto sempre in armonia e in coesistenza con le società europee fino all’arrivo di qualche musulmano che conoscete perché pregano con noi all’interno delle nostre moschee. Essi sono dei giovani che sono nati in Europa, che non parlano la lingua araba e che non hanno alcun titolo in teologia musulmana. Noi abbiamo utilizzato degli imam venuti dall’estero che non parlano nemmeno la lingua francese e che non conoscono i veri problemi che questi giovani francesi ed europei affrontano in seno delle società occidentali.
Cari musulmani e care musulmane,
da anni si dice che l’islam all’occidentale non somiglia all’islam che si è conosciuto. Secondo l’ideologia di questi islamisti ignoranti, l’islam della tolleranza, dell’umanesimo e dell’apertura e del dialogo interreligioso è divenuto un tradimento e una collaborazione con l’occidente, tanto che gli imam tolleranti sono stati minacciati all’interno delle loro stesse moschee da questi estremisti che hanno scelto la durezza e l’odio contro chiunque è differente, anche se i differenti sono musulmani.
I responsabili dell’islam in Francia non sono all’altezza dei veri valori dell’islam, né all’altezza dei veri valori della repubblica. Essi hanno reso il nostro islam universale una religione settaria e odiosa che non accetta l’apertura e l’adattamento ai valori europei. Questi imam incompetenti come questi responsabili falliti devono lasciare i loro posti agli altri che sono più competenti e più aperti perché essi non sono stati capaci di rassicurare né i musulmani, né i francesi.
Cari musulmani, care musulmane,
questa onda di radicalismo non indietreggerà se non con la cooperazione degli imam, dei predicatori religiosi, dei musulmani ordinari con lo Stato, i legislatori, la società civile nell’interesse della società, ma soprattutto nell’interesse dell’avvenire dei figli dei musulmani d’Europa. Questo avvenire è in pericolo più che mai.
Cari musulmani e care musulmane,
fate attenzione alla gente che cerca di giustificare l’ingiustificabile in nome del razzismo, della marginalizzazione e della storia della colonizzazione. Sono dei pretesti per dissimulare il loro odio e i loro fanatismi religiosi in nome di un Dio che ci ha creato per l’amore e la fraternità e non per la guerra e la barbarie.
I terroristi avevano dei genitori, essi avevano delle famiglie. Cosa hanno loro insegnato? Sono stati superati da internet e dai social network?
Cari musulmani, care musulmane,
la condanna degli attentati non è più sufficiente perché non possiamo più continuare a fare come lo struzzo. Non possiamo nascondere le nostre teste sotto la sabbia ripetendo questa frase cattiva: “Non siamo noi, sono loro!”.
Ogni imam, ogni responsabile religioso e ogni musulmano deve prendere la sua parte di responsabilità perché questi attentati criminali sono stati commessi in nome della nostra religione.
I cristiani, gli ebrei e gli atei vivono con difficoltà nel mondo musulmano. Costruire una chiesa o una sinagoga è un sogno impossibile da realizzare in quei Paesi, fino a [domandare] l’intervento del presidente della repubblica!
Invece i musulmani in Francia e in Europa vivono in tutta libertà e dignità. Essi costruiscono moschee, centri islamici e scuole religiose senza alcun sabotaggio o esclusione.
Noi siamo dei francesi musulmani prima di essere dei musulmani francesi perché è la Francia che ci mette insieme. Di conseguenza la religione deve restare nel suo spazio privato perché la religione deve essere un fattore di pace e di fraternità, a condizione che si interpreti i testi religiosi in modo positivo e costruttivo.
Cari musulmani e care musulmane,
Molti nostri giovani soffrono di un trauma religioso, culturale e identitario. Occorre mettere in atto i metodi migliori per combattere le idee di odio dentro la nostra religione, come pure la fragilità e i nostri giovani musulmani di fronte a uno pseudo islam siro-hollywoodiano. Esso utilizza immagini e propaganda per manipolare e radicalizzare al massimo i giovani, che possono divenire delle bombe terroriste che vogliono distruggere i valori dei paesi occidentali, ma in verità essi distruggono l’immagine dell’islam e l’avvenire dell’islam in Francia e in Europa. Questi Paesi ci offrono ancora dei benefici e dei vantaggi che non abbiamo trovato nei nostri Paesi di origine, malgrado tutte le difficoltà che certo esistono nei quartieri e nelle periferie.
Cari musulmani, care musulmane,
è in gioco l’avvenire della vostra religione e il destino dei vostri figli e tocca a noi musulmani decidere di agire o di non agire.
Viva i veri valori dell’islam e viva i veri valori della repubblica!
2/ La coscienza dell'Occidente, di Ezio Mauro
Riprendiamo da La repubblica del 16/11/2015 un articolo di Ezio Mauro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
L'UOMO che esce di casa venerdì sera per andare allo stadio, in un ristorante o in un teatro non sa di essere braccato da altri uomini che in quel momento stanno stringendosi addosso una cintura di esplosivo, nascondono i fucili in una borsa, nell'altra i mitra e le bombe. Camminano per le strade della stessa città, la vittima inconsapevole e il carnefice che la cerca. Uno esercita la sua libertà nella serata che apre un week-end d'autunno, sapendo che la città dove vive è fatta per lavorare ma anche per il tempo libero, è organizzata con strade, piazze, bar, treni e stazioni per far incontrare la gente, ragazzi e ragazze, amici, richiamati fuori casa dagli appuntamenti di una grande metropoli, ma anche semplicemente dalla voglia di vivere, insieme con gli altri.
È esattamente questo spazio della civiltà europea, questo rito banale della vita quotidiana che diventa bersaglio del fanatismo jihadista. Un costume collettivo, un esercizio minore, quasi inconsapevole ma costante di libertà. Ci attaccano perché siamo liberi, nella nostra autonoma scelta di incontrarci al bar, correre ad un incontro, avere in tasca due biglietti per un concerto: ma anche di riunire i nostri Parlamenti, studiare e lavorare, pregare o non pregare, protestare e dire no, e attraverso questi gesti esercitare il nostro status di cittadini.
Cercando così di costruire per i nostri figli un futuro migliore del nostro presente. In questo, i terroristi islamici vedono qualcosa di grandioso e di terribile, la traduzione quotidiana della democrazia, la sua materialità, addirittura la sua capacità di farsi vita. Hanno ragione. Noi non ci accorgiamo nemmeno più degli spazi di autonomia e di libertà che la democrazia ha aperto nella nostra vita associata, diventando costume condiviso e accettato. La democrazia "minore", quella di cui ci nutriamo ogni giorno nello spazio a noi proprio, fuori dalle istituzioni, è infatti un insieme di garanzie reciproche che ci scambiamo mentre intrecciamo la nostra vita con le vite degli altri, è la forma quotidiana di regola civile che abbiamo dato alla nostra società vivendo, e per cui stiamo oggi morendo.
Nell'epoca in cui non c'è più quel "cuore dello Stato" che le Brigate Rosse cercavano uccidendo Aldo Moro (perché lo Stato nazionale non fronteggia gli urti della globalizzazione, e il potere vive altrove, nei flussi transnazionali della finanza e dell'informazione) gli jihadisti assassini confusamente sanno che qui è custodita l'anima universale che loro vogliono annientare, perché dà vita a ciò che hanno eletto come il loro nemico supremo e finale: la civiltà occidentale, culla, sede e testimonianza della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Questo è il bersaglio, perché questo è intollerabile, in quanto è l'ultimo universalismo superstite, dunque alternativo, l'unico modello di vita che resiste dopo la morte delle ideologie, e viene liberamente scelto ogni giorno da milioni di uomini e donne, riconfermato nei riti del venerdì sera, a Parigi come altrove. Se è così, non è da oggi che l'Europa è sotto attacco, e non lo è da sola. L'attacco è infatti a quella pratica e a quella testimonianza della democrazia che chiamiamo Occidente, e che tiene insieme in una comunità di destino Europa, Stati Uniti, Israele. Una pratica spesso infedele, ma costante; una testimonianza sovente bugiarda, tuttavia irriducibile e testarda. Per questo sono sempre stato convinto che dire "siamo tutti americani" dopo l'11 settembre fosse troppo facile, e troppo poco. Bisognava avere il coraggio di dire "siamo tutti occidentali", passando dalla compassione alla condivisione, con il peso della responsabilità che ne consegue, anche per reggere il carico della risposta indispensabile per garantire la sicurezza dei cittadini, fino all'uso della forza militare se necessaria: naturalmente nel rispetto del diritto e della legalità internazionale, perché le democrazie hanno il diritto di difendersi ma hanno il dovere di farlo restando se stesse.
Ecco perché siamo coinvolti dal 13 novembre: perché lo eravamo dall'11 settembre. L'orrore di Parigi ci interpella non perché la Francia è vicina a noi, ma perché ciò che gli jihadisti cercavano al Bataclan lo possono trovare identico nelle notti italiane, nelle abitudini dei nostri week-end, nei riti dei ragazzi, nell'uguale costume di autonomia e di libertà. Certo c'è uno specifico francese, i 1500 islamisti partiti a combattere abiurando la Republique, e cresciuti dell'84 per cento nell'ultimo anno. Ma l'assalto è al nostro modo di essere e di vivere, a quel credo comune che ci rende liberi e che parte dalle piccole regole di convivenza per arrivare alla regola istituzionale, alla Costituzione. Per questo, occorre una coscienza comune dell'Occidente per rispondere alla sfida. Sul piano dell'intelligence soprattutto, sul piano militare se è necessario. Ma prima ancora sul piano culturale. Se l'attacco è alla nostra cultura, dovremmo essere consapevoli che ha un valore, e dovremmo difenderla. La svalutazione quotidiana della democrazia che noi occidentali facciamo nei nostri discorsi e nella nostra pratica, è distruttiva. Il rifiuto di distinguere, la tentazione di fare di ogni erba un fascio, sono cedimenti culturali colpevoli. Il disimpegno da ogni cosa pubblica, la scelta di non partecipare e rimanere ai margini
sembra un gesto di ribellione ma è solitudine repubblicana, perché mentre io dico allo Stato che non mi interessa, nemmeno io interesso allo Stato: se l'esercizio dei miei diritti è esclusivamente individuale e non si combina con gli altri, se l'uso della mia facoltà di cittadino è soltanto personale e non esce di casa, lo Stato può infatti ignorarmi, e ridurmi a numero isolato nei sondaggi. La democrazia ha bisogno del cittadino per essere in salute: ne ha tanto più bisogno quando è sotto attacco.
Il patto di cittadinanza dovrà essere riformulato anche con l'Islam moderato che vive da noi, usufruisce delle nostre garanzie democratiche, usa le libertà di culto, di associazione e di espressione in cui noi crediamo per noi stessi e per gli altri: per queste ragioni e per quel che è accaduto oggi deve affermare pubblicamente la sua condanna dell'islamismo terroristico che trasforma una religione in ideologia di morte, deve dichiarare una scelta non equivoca per il quadro di valori e di regole della democrazia, separandosi per sempre dal terrore omicida.
Tutto questo è possibile, a patto di essere consapevoli della sfida e di ciò che noi siamo. I terroristi lo sanno, dovremmo saperlo anche noi. Nel vortice dell'asimmetria che abbiamo visto a Parigi - uomini armati in agguato contro uomini in pace - nonostante le nostre colpe storiche e le nostre infedeltà gli "innocenti" eravamo noi occidentali. Dobbiamo ricordarlo per non diventare come loro, cedendo all'intolleranza e all'irrazionale. Ma difendendo un modo di vivere che ha dato forma a una cultura, a una civiltà democratica, a città come Parigi, che per queste ragioni oggi è la vera capitale dell'Occidente.
3/ Domenico Quirico: «Ecco perché l’Occidente non capisce l’Islam guerriero e la realtà dell’Isis». Un’intervista di Maria Ausilia Boemi (con una breve introduzione di Alessandro D’Avenia)
Riprendiamo da La Sicilia dell’11/11/2015 un’intervista di Maria Ausilia Boemi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
N.B. di Alessandro D’Avenia (dal suo profilo FB) Consiglio l'attenta lettura di questa intervista rilasciata un anno fa da Domenico Quirico, rapito dai jihadisti e poi liberato, autore di un libro chiarissimo sul Califfato (Il Grande Califfato, Neri Pozza), pubblicato prima di Charlie Hebdo. L'emotivismo reattivo, seppur legittimo, rimane sterile, perché non aiuta a capire che non si tratta solo di terrorismo, da contenere a livello poliziesco, ma di un fenomeno politico e militare non semplificabile con la categoria della "follia", dell'orrore, della disumanità, che sono la lettura di superficie di qualcosa di molto più profondo e complesso rispetto alle nostre categorie. Anche il cappello introduttivo all'intervista semplifica identificando islam e violenza, quando Quirico parla dei jihadisti. Saltatelo e leggete le risposte di uno che ha parlato a lungo con queste persone e le ha viste agire da dentro.
L’Isis e il califfato sono fenomeni completamente diversi da Al Qaida: ma l’Occidente non lo capisce e sbaglia utilizzando i medesimi schemi per combattere i due fenomeni. Così come è errato considerare l’Islam una religione pacifica: è invece uno strumento di totalitarismo che condanna senza appello tutti gli “impuri” non per quello che fanno, ma per ciò che sono. Ne abbiamo discusso, in un forum nella nostra redazione (erano presenti, oltre alla sottoscritta redattrice, il direttore Mario Ciancio, il direttore editoriale Domenico Ciancio, il caporedattore Giuseppe Di Fazio, il caposervizio Carlo Anastasio, il freelance Orazio Vecchio), con Domenico Quirico, inviato de La Stampa che questi fenomeni li conosce bene per averli visti e subìti (è stato a lungo ostaggio dei jihadisti) in prima persona.
In base alla tua esperienza, c’è qualcosa di strutturale nella cultura e nella religione islamica che spinge verso la violenza e l’affermazione violenta di sé?
«Credo che uno dei maggiori guai nell’affrontare la situazione attuale sia quello di costruirsi un Islam che non esiste o non è quello prevalente. L’Islam è una religione nata in un ambiente naturale terribilmente ostile nei confronti dell’uomo ed è quindi guerriera: il combattere, l’allargarsi, il difendere lo spazio dell’unica religione vera è una realtà fondamentale per l’Islam. Aggiungi che tutte le religioni monoteiste sono per principio autoritarie. Il problema, però, oggi è più complesso. La domanda da porsi non è se i jihadisti siano buoni o cattivi musulmani, perché la risposta è molto semplice: loro sono convinti di essere dei perfetti musulmani. Il problema è che la religione - come la razza per i nazionalsocialisti o l’appartenenza al proletariato per i comunisti staliniani - è utilizzata da loro come strumento per dividere il mondo in buoni e cattivi: per i jihadisti, i buoni sono loro che praticano la religione salafita rigorosa. Gli altri sono tutti impuri e quindi il compito che Dio assegna ai jihadisti è quello di eliminare gli impuri che inquinano la società. Questo è il carattere terribilmente pericoloso di questo fenomeno. Essi usano la religione come strumento per la separazione della società in due parti. E chi è dalla parte sbagliata deve essere cancellato, non per quello che fa, cioè azioni o atti che possano mettere in pericolo la vera fede, ma per quello che è. È una nuova forma di totalitarismo di cui la religione è uno strumento».
Ma questo tipo di convinzione è nel miliziano ed è anche nel capo oppure il capo utilizza il miliziano?
«Il miliziano che arriva da Londra dove faceva il medico e il miliziano che arriva da Tunisi per combattere in Siria e Iraq sono trascinati dalla tentazione totalitaria, dal piacere di sentire di essere dalla parte giusta del mondo».
È questo è il motivo dell’appeal dell’Isis anche tra gli occidentali?
«Secondo me, sì. È un’avventura trascinante, emotivamente affascinante il sapere di essere dalla parte giusta del mondo, di essere tra i puri».
Ho letto che per il giovane musulmano che sta a Londra, quanto più la società londinese si mostra tollerante verso la sua religione, tanto più per lui diventa odiosa.
«È vero: se ti sequestrano in un Paese musulmano, l’unica cosa da non fare è dire di essere una persona indifferente al problema religioso. Ti ammazzano immediatamente. Per loro è meglio un praticante di qualsiasi fede, anche sbagliata, che uno che dice: “Per me la religione è l’oppio dei popoli, è una fregatura”. Quello è inconcepibile per loro.
L’ossessione dell’unità, poi, è quello che impedisce, secondo me, ai popoli musulmani di praticare davvero la democrazia: nella mentalità musulmana, il concetto che esistano più verità, e che queste verità si possano scambiare secondo un calcolo numerico, è eresia. Il mondo è tutto concentrato nella cifra uno: un Dio, un libro, un popolo».
Per la cultura islamica, dunque, la democrazia non è adatta?
«È molto complicata».
È legittima allora la prevenzione della gente verso gli islamici, visti come qualcosa di diverso e difficilmente conciliabile con la nostra cultura e il nostro modo di vita?
«Il problema è che i musulmani hanno fatto tante rivoluzioni - di cui le Primavere arabe sono le ultime - ma tutti questi movimenti rivoluzionari inevitabilmente e rapidamente sono tornati alla casella dell’autoritarismo, del rais, del capo, perché è nella loro identità. La verità è una e allora anche il capo deve essere uno. Per l’Occidente, la democrazia è la legittimazione della confusione, anche se virtuosa, nel senso che nessuno è depositario della formula giusta. Questo per un musulmano è inaccettabile: è il disordine, è un atto contro Dio che è ordine. Poi è anche possibile che si trovi qualche forma di democrazia per quel mondo, ma non il nostro tipo di democrazia. È un mondo che non capiamo, che cerchiamo di imbullonare dentro idee come quella che l’Islam sia una religione tollerante, pacifista: esiste anche questo, ma attualmente prevale l’altro, quelli vogliono rifare il califfato e cacciare quelli che non sono musulmani. Tra l’altro, l’Isis ha messo su un Welfare state. Questo nei giornali non lo scriviamo: pensiamo che a Mosul ci siano bande di assassini che girano per le strade, violentano le donne. Non è così: le prime cose che hanno fatto gli islamisti dell’Isis a Mosul sono state riaprire i forni perché la gente potesse comprare il pane, obbligare i dipendenti pubblici ad andare al lavoro come quando c’era il governo centrale, riaprire le scuole. Questa è gente che vuole restare, non va lì per saccheggiare. E noi continuiamo a pensare che sono una banda di folli criminali che, chissà come, si è impadronita di un territorio grande come la Francia e sta lì, massacra, ruba, uccide. Fa anche quello, però è uno Stato, c’è un’amministrazione».
È questa la differenza tra Al Qaida e Isis?
«Questa è la novità: i jihadisti non si muovono da lì per i prossimi 30 anni se qualcuno non va lì con forze, che attualmente non abbiamo, per cacciarli. Il califfo non è Bin Laden che stava nascosto nella grotta. Questa è una cosa completamente nuova: c’è una frontiera di due Stati che è stata disintegrata, creando una frontiera nuova che nelle carte geografiche non c’è. Le carte geografiche del mondo oggi sono false. La grande trovata pubblicitaria del califfato è stato dire: “Io sono il califfo, voglio ricostruire il grande califfato del VI secolo”. Cosa che Bin Laden non ha mai neanche osato pensare. Questo è pericoloso, perché c’è un progetto, non è la follia di quattro fanatici: l’islamismo non è un problema psichiatrico, ma politico e, quindi, molto più difficile da risolvere. Al Qaida e l’Isis sono due cose diverse: Al Qaida è il precursore primitivo di un progetto politico completamente diverso».
Obama scrive a Khamenei e non disdegna anche di dialogare con Assad: l’Isis può creare delle nuove strane alleanze?
«Diciamo che il califfo ha già sconvolto le carte del passato e questo è già un enorme risultato politico. Il fatto di avere costretto il presidente Obama, che l’anno scorso voleva bombardare Assad, a fornirgli l’Aviazione, ha una influenza pubblicitaria enorme a favore dell’Isis perché Assad è odiato. Per i jihadisti, quindi, adesso l’America scopre le carte: come dicevano loro, è alleata di Assad. E poi, attenzione a dialogare con l’Iran: Teheran è parte del mondo islamico, ma è sciita. E i sunniti odiano gli sciiti, li considerano atei, eretici pericolosi. Per cui, alleandoti con l’Iran, ti porti dietro l’odio di tutto il mondo sunnita, che è esattamente quello che vuole il califfo: unificare i sunniti in un’alleanza mondiale. Tutto questo è l’espressione della confusione della politica Usa».
Ma qual è l’effettiva forza militare e capacità offensiva dell’Isis contro l’Occidente?
«La Cia a un certo punto ha detto che l’Isis aveva 3.000 combattenti, un mese dopo siamo saliti a 40.000. C’è qualcosa che non funziona in questi numeri. Diciamo che il califfo non ha più un gruppo terroristico, ma un esercito regolare: hanno preso carri armati, artiglieria pesante, trasporto truppe - tutti mezzi americani di ultima generazione - che gli Usa avevano fornito agli sciiti che, quando sono scappati, non li hanno distrutti. Al Qaida era un problema di tipo terroristico, quindi di polizia: fa spendere soldi, inceppa l’economia, insinua batteri pericolosi nella società democratica, ma è un problema di polizia. Quest’altro è invece un problema militare: bisogna andare lì con la fanteria e occupare un territorio enorme, ostile per la sua stessa natura e soprattutto prevedere che in realtà questa sfida militare non si limiti a quel luogo, ma che sia già estesa ad altri luoghi: Sael, Libia, Nigeria, Somalia, Repubblica Centrale Africana, Afghanistan. È la teoria guevarista della moltiplicazione dei fuochi rivoluzionari. L’insurrezione globale islamica usa un classico sistema per indebolire il nemico: tanti Vietnam per disperdere le forze dell’avversario, che non ha i mezzi economici per essere ovunque».
Sei il giornalista che salva la categoria rispetto alla ventata internettiana: con internet non c’è più bisogno di andare, di vedere. Tu dici “Sono uno di quelli che vedo e racconto”, ma lavori in un giornale tra i più avanti nell’innovazione: ti senti uno del secolo scorso?
«Per molti aspetti sì. Resto dell’idea che il giornalismo non è una tecnica e tanto meno una tecnologia. Il giornalismo è racconto e il racconto nasce dall’essere in un posto e vedere delle cose, anche una parte minimale della realtà. Ci possono essere tutti gli internet, i satellitari e i marchingegni possibili, ma alla fine resterà quello: il racconto. Questo vale a tutti i livelli, sia che fai l’inviato sia che racconti il quartiere cittadino: il giornalismo sono gli essere umani che incontri nelle tue frequentazioni. Se conosco molto bene uno strumento tecnico, non faccio giornalismo: faccio l’archivista, sono a 10.000 anni luce dall’atto giornalistico. Entro nel giornalismo nel momento in cui io vado in una situazione e la racconto».
Accennavi prima a qualche rappresentazione impropria, non proprio corrispondente al vero, di fatti e realtà in Medio Oriente. Quali sono le maggiori mistificazioni che ti sei trovato a rivedere?
«Rispetto a questo terribile fenomeno, l’incapacità di cogliere il passaggio dalla fase terroristica alla fase militare e politica. Io sono rimasto fermo ad Eraclito e al logos: le cose sono le parole con cui le definisci. Se tu un serpente lo chiami gatto e poi cerchi di accarezzarlo come fai col gatto, quello ti morde e muori. Noi continuiamo a chiamare questo fenomeno nuovo con le parole che usavamo per Al Qaida 15 anni fa: è lì il problema. E poi l’incapacità di rendersi conto della rapidità con cui questi fenomeni si trasformano in realtà. Sono stato liberato a settembre dell’anno scorso: allora non c’era il califfato, l’Isis era un movimentino tra i tanti che c’erano nel Nord della Siria; ora c’è uno Stato, un esercito e una comunicazione islamica. Sì, perché questa è gente che manovra la tecnologia dell’informazione meglio di noi o degli americani. I video che hanno fatto di queste terribili esecuzioni sono girati secondo una scenografia e una regia molto sofisticate. Altro che gente che vive nel Medio Evo! Bisogna stare attenti, non c’è la percezione di questo: se leggi i giornali, trovi le crocefissioni e poi l’intervista all’imam italiano che dice che i jihadisti sono dei sanguinari. Ma quello che è fuori dal mondo è l’imam italiano che, se andasse non a Mosul, ma anche in qualche quartiere del Cairo o di Tunisi, dopo due minuti sarebbe linciato. Questa è la verità».
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4/ Una frattura generazionale nelle moschee, di Domenico Quirico
Riprendiamo da La stampa del 16/11/2015 un articolo di Domenico Quirico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
Sono venuto in questa strada dieci anni fa: allora adolescenti incendiavano le notti delle periferie, bruciando le vecchie auto dei padri, assaltando le mediocri ricchezze di supermercati discount. Ho ritrovato ancora sui muri di La Courneuve manifesti che ricordano l’anniversario: «Dalla rivolta delle banlieues alla rivoluzione mondiale», inneggiava, ottimista, «il blocco rosso-maoista»! La Francia conserva davvero tutto, mette sotto naftalina i muri la cultura i ricordi gli uomini.
Dieci anni dopo altri ragazzi giovanissimi imbracciano fucili, uccidono a qualche isolato da qui sognando un remoto califfato universale. Sì, quella di dieci anni fa fu davvero l’occasione perduta. Una generazione musulmana chiese, disperatamente, che ci si accorgesse di lei, urlò la propria emarginazione, il dispetto e la voglia di sfidare quello Stato onnipotente che la ignorava. Come i loro coetanei musulmani dall’altra parte del mare, le primavere arabe, altre rabbie, le stesse illusioni. Anche loro sono diventati islamisti, per rabbia, soldati in Siria e in Iraq lo stesso destino.
L’integrazione fallita
Demolita l’integrazione nei quartieri di periferia si è diffuso il radicalismo basato sulla religione. Nel 2006 erano poche decine i francesi partiti per l’Iraq e la guerriglia contro gli americani. Ora sono centinaia. E tornano. Il cuore del problema francese è a qualche fermata di metrò dal centro, non in Siria o nel Sahel.
Il Consiglio del Culto
Sono andato in rue Daubenton, alla grande moschea della capitale. Il centro teologico, la scuola: tutto è chiuso, i corsi annullati. Ma nel piccolo giardino gli uccellini ti assordano dolcemente e il tè servito dai camerieri è ben zuccherato: come sempre. Questo è il cuore dell’islam alla francese, che dovrebbe invitare cinque, sei milioni di musulmani alla tavola della République: l’islam del Consiglio del culto fatto di notabili, di dotti, annunciato come miracoloso concordato tra religione e laicità, una scorciatoia per annegare la differenza nella burocrazia della preghiera, tenere le moleste periferie sotto il travettismo di notabili coccolati e controllabili, spegnere i sussulti del fondamentalismo nei cunicoli di una piramide amministrativa. Nei capannoni trasformati in sale di preghiera non si udivano prediche moderatissime e obbedienti ripaganti la fiducia governativa. Risuonavano le sillabe perniciose del «tabligh», movimento pietista e settario che descrive il mondo con strutture paranoico-persecutrici; e i salafiti che predicano il loro ritorno alle origini, anticamera spirituale del califfato totalitario.
Nel piccolo giardino della moschea l’unico musulmano è un vecchio signore che estrae da una borsa una piccola biblioteca di libri e giornali, la mette in ordine e inizia a leggere un libro che conosco, l’autobiografia di Hamid Abu Zaid, studioso egiziano del Corano accusato di apostasia negli anni novanta, vittima degli oscurantisti. Parliamo: l’emigrazione della sua famiglia dall’Algeria non ha conosciuto barconi e clandestinità, aveva documento di lavoro e poi cittadinanza: «Eppure questi ragazzi che uccidono sono nostri figli… noi siamo colpevoli, portiamo la responsabilità per quello che sono diventati... non la Francia i bianchi, noi che li abbiamo allevati… ognuno cerca di aggrapparsi a qualcosa, tutti corrono per non essere quello che rimane senza posto…».
La superba Francia delle librerie dei salotti dei bistrot delle languide bellezze bionde che occhieggiano dai tavolini dei caffè: immobile, capace di avvolgere i suoi vizi e le sue tarlature, gigantesco museo di se stessa: il Califfo, per fortuna si illude, non riuscirà a metterle il turbante, a creare l’emirato della Senna. L’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese può assopire qualsiasi Jihad.
Una vita separata
Eppure a La Corneuve scopri che il popolo musulmano vive in un altrove. L’anima, il di dentro, la fodera è quello che sfugge tenacemente alla integrazione, che l’ha fatta fallire. Gli uomini appartengono alle abitudini, dove sono le loro memorie. È quella la loro casa. Ogni cinque negozi c’è una macelleria «euroafricana», halal: giganteschi murales mostrano trionfalmente animali lobotomizzati, impressionanti nature morte. Al «mercato delle quattro strade» mele angurie banane gigantesche dipinte con colori iperrealisti: come nei mercati di Bamako e di Niamey.
I confini più complicati sono quelli che non si vedono, che non hanno garitte gendarmi filo spinato controllo di passaporti. Esci in rue Jaurés, quattro passi appena… e ti sei lasciato dietro la Francia. L’ha scrupolosamente inghiottita un lento quotidiano terremoto, bruciata dallo zolfo del tribalismo, fatta e pezzi e trasferita in qualche altro continente, il nord Africa, l’islam. Non vedo tricolori a mezz’asta qui. Poi in un negozio di alimentari… ecco: pende una piccola bandiera a cui hanno aggiunto un nastro nero. Entro: sono indiani.
Tutto è islamico: la gente i negozi i caffè i barbieri le abitudini i vizi e le virtù. Attenzione: ho incontrato solo un barbuto apostolo maomettano con i regolari pantaloni sopra la caviglia, molti moltissimi veli ma nessun burqa. Nessuno mi ha minacciato, questo non è un jihadistan. Semplicemente un altro mondo. Il francese è rimasto pateticamente aggrappato ai nomi delle strade: rue Rimbaud, rue Danton, rue Maurice Bureau.
Quartieri musulmani
Sui marciapiedi ogni tanto incroci qualche povero bianco, sopravvissuti del naufragio: da questi quartieri nessuno ha cacciato nessuno, la semplice, implacabile omogeneizzazione delle abitudini, del modo di vivere, giorno dopo giorno i musulmani sono diventati maggioranza. Sui muri intristiscono manifesti elettorali per le regionali, un deputato Dupont -Aignan promette di prendersi cura degli automobilisti «maltrattati». C’era già dieci anni fa: come Sarkozy, Hollande… La strategia del ghetto usata dai radicali ha funzionato: allargare la fenditura tra i musulmani e la Francia fino a farli scoprire estranei e nemici.
Entro in un bistrot dal nome evocativo: Medina. Il proprietario alla cassa ha un’aria lesta ma non quella di un fanatico. Solo uomini ai tavoli, anzi ragazzi: nessuno sembra aver qualcosa da fare, tutti sembrano presi nel circolo vizioso di una inedia quasi totale. Come ad Algeri o Marrakesh: i caffè arabi, dove nessuno spende, la gente sembra lì solo per chiacchierare.
I ragazzi accanto parlano un arabo dialettale, dove spuntano, affiorano parole francesi come relitti di un naufragio linguistico. Capisco che parlano di me: «céfran, céfran», che vuol dire francese e giù, rovesciano ghignando insulti su antenati e eredi, ma non è odio, sembra più un gioco greve di adolescenti. Alla televisione scorrono immagini: dieci iman che cantano la marsigliese davanti al luogo dell’attentato e parlano di «Islam patriottico», e scende un gran silenzio. E poi immagini dell’arresto dei parenti di uno dei kamikaze in un’altra cité: «schifosi flic» dice un ragazzo, le voci si alzano. Il padrone del bar cambia perentorio canale. Adesso ci sono le immagini della serie «cucine da incubo».
«Noi siamo algerini, algerini e musulmani - dice quello dall’aria più ribalda - hai capito? E viviamo da algerini e musulmani. I francesi sono stati un secolo da noi, hai mai sentito dire che vivessero da algerini? Qui nessuno fa la guerra».
La chiesa di Saint Yved è una brutta costruzione novecentesca come avverte l’inevitabile targa. È domenica ma è vuota. Il prete allarga le braccia: questa è terra di missione…».
5/ Some popular fallacies about Islamism, di Magdi Abdelhadi
Riprendiamo dal sito di Magdi Abdelhadi https://maegdi.wordpress.com/ un suo articolo pubblicato il 16/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
Get your facts right.
Al-Qaeda and its most recent clone, Daesh, did not come about as a result of the invasion of Iraq or the civil war in Syria. It was born out of the unholy alliance between America and the Wahhabi zealots of Saudi Arabia to defeat Communism and bring down the Soviet Union. Remember the Cold War and Afghanistan ? That was the primal sin we are all paying the price for. Islamism itself is of course a much older phenomenon which received an enormous boost with the arrival of oil money in the Gulf. It will continue in all its heinous forms even after Daesh is defeated, as long as there are those who believe that there are moderate and radical Islamists. Islamism is extremism.
Do European leaders really want to do something about it as they say?
Here is what they have to do:
- Cut Qatari and Saudi funding to any Islamic activity in Europe under any form: mosques, schools, charities, so called think-tanks that justify violence, Muslim victim mentality and legitimise the dictionary of hate.
- Train European Iamms, who study history and psychology of religion. Do not import Imams from Egypt, Pakistan and certainly not those who studied in Saudi Arabia.
There is a direct line between the ideology of the Muslim Brothers and that of global jihad. In fact, it is not even a line. It is the same ideology. Allowing the MB to continue to operate inside European mosques or schools or charities or student association under any guise means allowing the cancer to grow and metastisize. If you ban Hizbu Al Tahrir — why not the Muslim Brothers — the mother of all terrorist organisations ! Don’t be taken in by their suave and media savvy spokespeople in European capitals. Look at the basics of their ideology : the Koran is our Constitution, Jihad is our way, Martyrdom is our ultimate goal. What more evidence do you need !!
Keep on the look out for any discourse that uses the vocabulary below. These are the building blocks of the hate doctrine that demonsies non-Muslims, and underpins the Islamist narrative to justify the killing of kuffar, infidels, Westerners, Christians, Jews, apostates, women, Yazidis, gays and any one who is not a Muslim or does not subscribe to the Islamist doctrine:
- Muslims are victims of the West
- The West is decadent and has no principles
- Palestine is the principal cause of Islam and all Muslims (Incidentally, Palestine is the principal cause of the Palestinians)
- Islam is the only true faith and will and must prevail
- Islam is under attack
- Blasting any criticism of Islam or Islamism as Islamophobia
And to those who still entertain the fallacy that there is a link between poverty or lack of opportunity and Islamic terror I would like to remind them that Osama bin Laden was a millionaire; the current leader of Al-Qaeda, Ayman Al-Zawahiri, comes from a well-off middle class family in Egypt, and so was Anwar Awlaqi, the leader of Al-Qaeda in Yemen, and many more.
And to those who claim lack of democracy is another reason for Islamic terror or radicalisation I refer them to the many European Muslims who joined the ranks of global jihad. Take the most recent example of French Muslims who perpetrated the barbaric horrors of Paris, or the British Muslim dubbed Jihadi John (real name Mohamed Emwazi) who behaded American hostages in Syria: it is not abject poverty of Yemen of Egypt or Waziristan, not lack of opportunity, and certainly not lack of democracy because he grew up in one of the most democratic societies in the world. The likes of Emwazi are the agents of a pernicious ideology called ISLAMISM, that thrives in our midst in Western societies, and the main carrier of this virus is an organisation called the Muslim Brotherhood, that continues to enjoy the full rights and freedoms of a democracy while working to undermine by brainwashing the minds of young European Muslims, inculcating into them the ideas of Jihad, Muslim victimhood and Islamic superiority.
If the West really wants to stop the recruiting to IS or Al-Qaeda, it knows where to go and what it should do. Islamism is extremism. There is no such thing as moderate Islamists. Stop believing in Muslim Brotherhood propaganda and its apologists in Western think tanks.
Another fallacy : Islamism is not Islam. Yes and NO.
Islamism draws upon, and is sustained by, the canonical texts of mainstream Islam. That is why it is difficult to challenge it from within Islam. There are plenty of textual and historical evidence to justify the use of the sword against infidels or those perceived as the enemies. And once you designate anyone as such using Islamic texts (as the Muslim Brothers, Al-Qaeda, Daesh often do) you cannot challenge them by playing the same game of textual quotation. Textual evidence weighs in their favour. There is no shortage of texts that are — by modern standards — pretty nasty. Only if there is radical overhaul of Islamic teachings to bring them into line with the universal declaration of human rights, can you deny Islamism the legitimacy it currently enjoys. That is not happening, and is unlikely to happen any time soon. Only a cultural and religious revolution of some kind can pave the way for such change. As long as the fundamental dogma of Islam and its teachings understood literally, meaning what was valid in 7th century Arabia is valid today, Islamism will thrive.
This way — to use a concept from Biblical exegesis — the letter killeth the spirit in Islam. That should be bad news for Muslims, and for all of us.
6/ Export armi, la rivolta della società civile, di Luca Liverani
Riprendiamo da Avvenire del 19/11/2015 un articolo di Luca Liverani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
Che peso ha l’industria bellica nazionale nell’infuocato quadrante mediorientale? A chi vendiamo? E cosa? Un ruolo sicuramente non secondario, quello dell’Italia, se negli ultimi cinque anni - mentre il termometro nella regione saliva - cresceva del 30% l’export verso Medio Oriente e Nord Africa. Il problema è che il quadro è sempre più difficile da ricostruire perché, nonostante l’esistenza della legge 185 del 1990 che fissa obblighi di trasparenza, i governi degli ultimi anni l’hanno notevolmente depotenziata, omettendo nei rapporti al Parlamento dati essenziali. Eclatante il caso delle bombe aeree all’Arabia Saudita, paese guida della coalizione che - senza mandato internazionale - sta bombardando in Yemen le milizie qaediste. Quella stessa Arabia Saudita che, secondo molti analisti, ospita i finanziatori della guerra del Daesh contro Assad. Con le note ripercussioni in Occidente. Senza risposta le interrogazioni parlamentari al ministro degli Esteri.
L’ultimo carico, com’è noto, il 30 ottobre: il cargo 4K-SW888 Boeing 747 della compagnia aerea azera Silk Way Airlines è decollato da Cagliari carico, secondo le ong, di diverse tonnellate di bombe della RWM Italia, azienda bresciana di proprietà del gruppo tedesco Rheinmetall, con impianti a Domusnovas in Sardegna. Una fornitura che prosegue da anni: circa 5mila pezzi per oltre 70 milioni di euro. «L’Italia da tempo sta vendendo bombe all’Arabia Saudita – spiega Francesco Vignarca della rete Italiana Disarmo – ormai in palese violazione della legge 185», la norma che vieta espressamente l’esportazione di armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato». Una guerra che ha fatto oltre 4mila i morti, di cui almeno 400 bambini, e 20mila feriti, la metà tra civili. Sotto le bombe a Sa’dah, il 26 ottobre, anche un ospedale di Msf.
Non solo: «È in corso anche la vendita al Kuwait – racconta Vignarca – di 28 aerei Eurofighter per 8 miliardi di euro. Il governo, al quale la 185 attribuisce il ruolo di controllore dell’export delle aziende italiane, in realtà è il primo a promuovere questi affari: il premier Renzi nel suo recente viaggio in Arabia Saudita è stato accompagnato dall’Ad di Finmeccanica Mauro Moretti. Parliamo di armi da guerra, non di noccioline, a paesi coinvolti nello scacchiere siriano nella lotta interna all’Islam tra Assad, al Nusrah, Daesh». Secondo un’analisi dell’Institute for economics and peace di Sidney l’80% delle vittime del terrorismo si verificano in Pakistan, Afghanistan, Irak, Siria e Nigeria. «È lì – afferma la Rete Italiana Disarmo – che si gioca questa partita: altro che guerra all’Occidente. E noi contribuiamo a portare armi in quel quadrante. Un conto sono i traffici illegali, ma che lo facciano i governi occidentali... Ci conviene davvero incassare quei soldi?». «La comunità internazionale si muove in maniera incoerente – dice il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – rispetto al tema delle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Da un lato si mobilita contro il rischio che venga messo a morte un attivista minorenne e premia un blogger dissidente. Dall’altro, tace sui crimini di guerra commessi in Yemen e, anzi, li alimenta con trasferimenti irresponsabili di armi».
«L’Italia vende sempre di più in Medio Oriente e Nord Africa, ma noi sappiamo sempre di meno di queste esportazioni», sostiene Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal Brescia. «La legge 185 è stata fortemente depotenziata, svuotata e un parlamentare non può più controllare nulla». Nell’ultimo quinquennio le autorizzazioni all’export di armi da guerra a paesi non Ue né Nato sono salite al 62,9% e tra i primi 20 destinatari solo 7 sono «democrazie complete» secondo la classifica del Democracy Index stilato dall’Economist.
Cinque sono regimi autoritari, due sono ibridi. In testa Algeria e Arabia Saudita. Ma i dati sono sempre meno intellegibili. Dal 2009, col governo Berlusconi IV, le tabelle del Rapporto al Parlamento si sono svuotate: «Ora nelle autorizzazioni si parla di 'velivoli' – spiega Giorgio Beretta – senza specificare se sono elicotteri per la ricerca di dispersi o Mangusta da attacco. Il Parlamento può controllare ben poco. Non sappiamo che banca gestisce le transazioni tra RWM e Arabia Saudita. Al sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova – aggiunge l’esperto – abbiamo chiesto di reintrodurre i destinatari e il dettaglio delle operazioni bancarie, sparite nell’ultima relazione del governo Renzi, nonostante le 1281 pagine. Rimpiangiamo la trasparenza del governo Andreotti che riportava tutte le informazioni necessarie a un controllo parlamentare».
7/ Arabia Saudita: poeta palestinese condannato a morte per “ateismo, capelli lunghi e per opposizione alle autorità”
Presentiamo sul nostro sito una breve nota. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)
Il 20 novembre 2015 è stato reso noto al pubblico che il poeta palestinese Ashraf Fayadh è stato condannato a morte. È attualmente incarcerato in una prigione saudita, apparentemente con l'accusa di diffondere l'ateismo e di avere i capelli lunghi. Il poeta, cresciuto in Arabia Saudita, era stato arrestato nel 2013, quando un lettore aveva sporto denuncia contro di lui sostenendo che le sue poesie contenevano idee atee. Le accuse non erano state provate e Fayadh era stato rilasciato per essere nuovamente arrestato il 1 gennaio 2014.
Il caso di Fayadh sta facendo il giro dei media e dei social network, grazie ad interventi di scrittori arabi di tutta la regione. Alcuni amici hanno scritto on-line che la vera ragione dietro il suo arresto potrebbe essere quella di un video girato da lui cinque mesi fa, nel quale viene ritratta la polizia religiosa di Abha mentre frusta un giovane in pubblico.
Riprendiamo dal profilo FB di Antoine Leiris un suo post in francese con una nostra traduzione non autorizzata. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/11/2015)
"Non avrete il mio odio"
Venerdì sera mi avete portato via la vita di una persona eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio, ma non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo, siete delle anime morte. Se questo Dio per il quale uccidete ciecamente ci ha fatto a sua immagine, ogni proiettile nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore.
Allora no, non vi farò questo regalo di odiarvi. L'avete ben cercato, ma rispondere all'odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con occhio diffidente, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza. Avete perso. Lo stesso giocare continua a giocare.
L'ho vista stamattina. Infine, dopo notti e giorni d'attesa. Era così bella quando è partita questo venerdì sera, quanto era bella quando me ne innamorai perdutamente più di 12 anni fa. Certamente io sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma che sarà di breve durata. So che lei ci accompagnerà ogni giorno e che ci ritroveremo in questo paradiso delle anime libere a cui voi non avrete mai accesso.
Siamo in due, io e mio figlio, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho più tempo da dedicarvi, devo raggiungere Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha 17 mesi appena, deve mangiare la sua pappa come tutti i giorni, poi noi andremo a giocare come tutti i giorni e per tutta la sua vita questo piccolo ragazzo vi farà l'affronto di essere felice e libero. Perché no, non avrete nemmeno il suo odio.
Antoine Leiris
“Vous n’aurez pas ma haine”
Vendredi soir vous avez volé la vie d’un être d’exception, l’amour de ma vie, la mère de mon fils mais vous n’aurez pas ma haine. Je ne sais pas qui vous êtes et je ne veux pas le savoir, vous êtes des âmes mortes. Si ce Dieu pour lequel vous tuez aveuglément nous a fait à son image, chaque balle dans le corps de ma femme aura été une blessure dans son coeur.
Alors non je ne vous ferai pas ce cadeau de vous haïr. Vous l’avez bien cherché pourtant mais répondre à la haine par la colère ce serait céder à la même ignorance qui a fait de vous ce que vous êtes. Vous voulez que j’ai peur, que je regarde mes concitoyens avec un oeil méfiant, que je sacrifie ma liberté pour la sécurité. Perdu. Même joueur joue encore.
Je l’ai vue ce matin. Enfin, après des nuits et des jours d’attente. Elle était aussi belle que lorsqu’elle est partie ce vendredi soir, aussi belle que lorsque j’en suis tombé éperdument amoureux il y a plus de 12 ans. Bien sûr je suis dévasté par le chagrin, je vous concède cette petite victoire, mais elle sera de courte durée. Je sais qu’elle nous accompagnera chaque jour et que nous nous retrouverons dans ce paradis des âmes libres auquel vous n’aurez jamais accès.
Nous sommes deux, mon fils et moi, mais nous sommes plus fort que toutes les armées du monde. Je n’ai d’ailleurs pas plus de temps à vous consacrer, je dois rejoindre Melvil qui se réveille de sa sieste. Il a 17 mois à peine, il va manger son goûter comme tous les jours, puis nous allons jouer comme tous les jours et toute sa vie ce petit garçon vous fera l’affront d’être heureux et libre. Car non, vous n’aurez pas sa haine non plus.
Antoine Leiris
Riprendiamo sul nostro sito, per mostrare in maniera esemplicativa la vivacità del dibattito apertosi a Firenze, il contributo del tavolo R9 al quale èha partecipato come facilitatore Andrea Lonardo, uno dei 200 tavoli ai quali si sono seduti a discutere gli oltre 2400 delegati.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
N.B. Il testo è il contributo finale del tavolo consegnato al moderatore della via dell’Educare.
Le tre pratiche che suggeriamo sono guidate dalla valorizzazione di opposizioni dove educare vuol dire esattamente non scegliere l’uno o l’altro dei termini, ma esaltarli l’uno in relazione all’altro[1].
1/ Il made in Italy e l’infinito
Una prima pratica che suggeriamo è quella che potremmo chiamare del “made in Italy”. Riscoprire come in ogni città e paese, in modi diversi e simili, l’Italia è stata ed è capace di educazione, educazione tramite la storia delle nostre città, tramite esperienze concrete di carità e di servizio, tramite le straordinarie opere di bellezza artistica, musicale, poetica, filosofica e scientifica: educare alla riscoperta del genio educativo italiano che sa scoprire la grandezza del particolare ricollegandolo all’universale – “quest’ermo colle e l’infinito” (il riferimento è ovviamente a Leopardi) -, all’orizzonte dell’uomo e dei suoi grandi desideri, per educare all’infinito, avere un’idea di uomo che ha un desiderio di infinito. Una via che è quella della cultura, che quindi è laica, ma che non tace della grandezza della fede e della grandezza dell’uomo che viene illuminato da essa. Il made in Italy può portarci a trovare una via italiana anche dinanzi alla difficile questione del gender, contrastando le opposte tendenze di indifferentismo morale e di fondamentalismo che vuole solo condannare.
2/ Grandezza dei contenuti e passionalità testimoniale (contro l’infantilizzazione dei contenuti e contro la frigidità testimoniale)
Proponiamo una seconda pratica che è quella di rinnovare insieme metodi e contenuti. Solo una riscoperta dei grandi contenuti può generare un rinnovamento dei metodi. Riscoprire la grandezza di Dante, di Leopardi (papa Francesco ha parlato dei Promessi Sposi come del libro adatto per parlare dell'amore dei fidanzati), della poesia e della ricerca scientifica, della capacità di mostrare la grandezza del racconto della creazione di Genesi. Lo vediamo in persone come Roberto Benigni, Alessandro D’Avenia, Franco Nembrini e tanti altri, ma che diventi una via nella formazione del clero e del laicato, avendo laici e preti, catechisti e ricercatori capaci di appassionare alla vita tramite il racconto della tradizione. Persone che in maniera creativa, appassionata e passionale, senza ripetere clichés del passato testimoniano, indicano la grandezza di qualcosa. Così fanno emergere domande – le domande non nascono da sole – creano relazione, quella relazione che è essenziale e costitutiva. Insomma la buona pratica di avere persone che mostrano la fede incarnata, i frutti che nascono dal cristianesimo. Una fede incarnata, insomma, una fede che non dice solo Gesù, ma dice Gesù come luce del tempo e della vita tramite la presenza dei cristiani.
3/ L’alleanza fra la famiglia inadatta all’educazione e la scuola professionista dell’educazione
Suggeriamo, infine, di tessere le file dell’alleanza fra le famiglie e la scuola. Una famiglia che tende a delegare, perché convinta di non essere all’altezza, perché si fida solo degli specialisti, dei pedagogisti, degli psicologi. Incoraggiarle a capire che sono adatte proprio perché inadatte, proprio perché basate sulla gratuità e l’amore. Questo fin dalla preparazione al matrimonio, fin dalla preparazione al Battesimo (tante diocesi italiane stanno riscoprendo che il vero problema dell’Iniziazione cristiana non è il rapporto tra Confermazione ed Eucarestia, ma di queste con il Battesimo), con la riscoperta del valore educativo dei riti, dell’eucarestia domenicale fin da piccolissimi, con la riscoperta del fatto che un figlio guarda sempre ai suoi genitori per cui il genitore educa sempre, anche quando non guarda il figlio.
D’altro canto, per tessere questa relazione, è necessario riscoprire un grande affetto per la scuola, mostrare alle famiglie l’importanza di amare la scuola e di collaborare con essa. Pochissimi preti vivono ormai nella scuola, ma soprattutto la chiesa è lontana dal linguaggio della scuola e così l’educazione non si arricchisce più dei frutti culturali nati dal cristianesimo e non sa dialogare con le grandi questioni culturali, che sono invece tutte presenti nella scuola.
Si tratta di tessere anche le relazioni con le altre agenzie educative, con le istituzioni civili, riscoprendo avere il gusto di questi rapporti.
Appassionarsi, insomma, di famiglia e di scuola, delle loro dinamiche, dei contenuti che essi trasmettono.

Note al testo
[1] Il rimando è all’opposizione polare di Romano Guardini che diceva che per capire l’essere umano, bisogna cogliere tali tensioni.
Riprendiamo dal blog di Roberto Cotroneo un suo articolo pubblicato il 10/10/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
Foto Roberto Cotroneo Copyright Roberto Cotroneo
Sta accadendo qualcosa di impressionante, ma nessuno se ne rende conto. Sta accadendo che tutti hanno scambiato le fotocamere dei loro cellulari in macchine fotografiche vere. Con abili campagne pubblicitarie i produttori di smartphone magnificano le doti delle applicazioni digitali e degli obiettivi dei telefonini. Parlano di pixel, aggiungono stabilizzatori, citano l’alta definizione.
Gli utenti leggono, provano, e ne sono felici. In effetti le foto scattate dai Galaxy e dagli iPhone sembrano incredibili. Le applicazioni digitali permettono di correggere, saturano i colori, aumentano persino la nitidezza. Quelle foto finiscono sui social, e finiscono su Instagram. Con i filtri. Con i colori saturi, con le ombre schiarite. Con goffi tentativi di post-produzione fotografica che assomiglia a certa chirurgia estetica. I seni debordanti e innaturali dei chirughi, gli zigomi che tracciano angoli vertiginosi sono identici a quei cieli rossi come non se ne sono mai visti, quei contrasti con le nuvole in rilievo, quell’azzurro degli occhi che la vostra fidanzata fino a quel momento aveva soltanto sognato. Quella nitidezza che persino la marca del rossetto riesci a leggere. E poi mari e fiumi densissimi, volti indimenticabili senza un filo di grana, o di rumore, come si dice oggi per la fotografia digitale.
Sta accadendo il disastro culturale e concettuale per cui le foto non sono più normali, l’uso della postproduzione è una pacchianata gigantesca, la bellezza di una foto non sta più nella capacità imperfetta di riportare un punto di vista, e non è più in un movimento accennato, nella fatica di entrare nell’inquadratura con consapevolezza, ma è nel pacchiano che ha la sua ragione: in un uso sommato di grandangoli estremi e di colori saturi.
Perché gli smartphone, prima di permettere il rosso saturo, permettono il supergrandangolo, un modo di vedere affascinante in qualche caso, ma assolutamente innaturale. Gli obiettivi degli smartphone, si fa per dire, sono dei grandangoli esagerati, l’assenza del mirino permette di scattare in posizioni impossibili.
Il risultato è semplicemente uno: inquadrature apparentemente sorprendenti, e nessuna dimestichezza con le aberrazioni ottiche che sono presenti. Per cui tutto è in primo piano, niente è fuori fuoco, e colori impossibili, e punti di vista che sembrano spettacolari. Ritratti che imbruttiscono quasi sempre.
Ma soprattutto modifiche che fanno pena. Oltre ai cursori che ti permettono di alterare cromatismi, ombre, bilanciamento del bianco e vignettature, ci sono i soliti filtri, molto divertenti, che riproducono sostanzialmente i limiti di pellicole anni Sessanta e Settanta, che danno alla foto un’aria vintage, ma che sono delle maschere grottesche che vanno di pari passo con colori finti e punti di vista esagerati.
Sabato scorso sono andato a vedere la mostra romana su Henri Cartier-Bresson. E mi accorgevo di due cose. La sua impressionante capacità di comporre la foto nella sua naturalezza. Il limite ottico e cromatico delle sue foto. Le due cose erano la sua bellezza, la sua vera grandezza. La bellezza non è mai perfetta, ed è per questo che non è mai innaturale.
Forse era inevitabile che la fotografia finisse sul tavolo operatorio del lifting cromatico e compositivo, ma non fino a questo punto. Stiamo formando generazioni che non sanno cosa sia il mondo, ma soprattutto non sanno guardare. E non sanno neppure quando la correzione fotografica deve fermarsi.
Ma soprattutto stiamo illudendo tutti. Le foto degli smartphone, di qualunque smartphone, sono instampabili. Le correzioni illudono perché le si guarda in un piccolissimo schermo illuminato e nitido. E le correzioni si possono ammirare, senza avere una sensazione sgradevole, perché le foto si vedono in un formato che varia dal cm 5×7 a una massimo, quando va davvero bene, di un 10×15. Come si fosse ancora agli albori della fotografia, più di un secolo fa. Oltre quel formato sarebbero orribili.
La possibilità di non rispettare la luce vera e scattare sempre, aumenta in automatico gli iso degli smarphone, ovvero la sensibilità, quella che un tempo era chiamata: la grana. Tutto si fa vagamente indefinito, e decisamente brutto. Le correzioni migliorano le foto se le vedete nei dispositivi, ma peggiorano moltissimo se decidete di stampare. Milioni di persone ormai da qualche anno consegnano, vite intere, ricordi e bellezza a sistemi che scattano foto orrende, che non restano perché si possono guardare solo come fossero a un microscopio.
Sappiatelo. Smettete, usate macchine fotografiche vere. Anche digitali. Ma non illudetevi. E soprattutto. Lasciate ai tramonti i colori che gli spettano. E guardate meglio cosa sapeva inventarsi Cartier-Bresson con una vecchia Leica e una pellicola in bianco e nero.
Riprendiamo sul nostro sito la catechesi tenuta da papa Francesco nell’udienza generale del 11/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi rifletteremo su una qualità caratteristica della vita familiare che si apprende fin dai primi anni di vita: la convivialità, ossia l’attitudine a condividere i beni della vita e ad essere felici di poterlo fare. Condividere e saper condividere è una virtù preziosa!
Il suo simbolo, la sua “icona”, è la famiglia riunita intorno alla mensa domestica. La condivisione del pasto – e dunque, oltre che del cibo, anche degli affetti, dei racconti, degli eventi… – è un’esperienza fondamentale. Quando c’è una festa, un compleanno, un anniversario, ci si ritrova attorno alla tavola. In alcune culture è consuetudine farlo anche per un lutto, per stare vicino a chi è nel dolore per la perdita di un familiare.
La convivialità è un termometro sicuro per misurare la salute dei rapporti: se in famiglia c’è qualcosa che non va, o qualche ferita nascosta, a tavola si capisce subito. Una famiglia che non mangia quasi mai insieme, o in cui a tavola non si parla ma si guarda la televisione, o lo smartphone, è una famiglia “poco famiglia”. Quando i figli a tavola sono attaccati al computer, al telefonino, e non si ascoltano fra loro, questo non è famiglia, è un pensionato.
Il Cristianesimo ha una speciale vocazione alla convivialità, tutti lo sanno. Il Signore Gesù insegnava volentieri a tavola, e rappresentava talvolta il regno di Dio come un convito festoso. Gesù scelse la mensa anche per consegnare ai discepoli il suo testamento spirituale - lo fece a cena - condensato nel gesto memoriale del suo Sacrificio: dono del suo Corpo e del suo Sangue quali Cibo e Bevanda di salvezza, che nutrono l’amore vero e durevole.
In questa prospettiva, possiamo ben dire che la famiglia è “di casa” alla Messa, proprio perché porta all’Eucaristia la propria esperienza di convivialità e la apre alla grazia di una convivialità universale, dell’amore di Dio per il mondo. Partecipando all’Eucaristia, la famiglia viene purificata dalla tentazione di chiudersi in sé stessa, fortificata nell’amore e nella fedeltà, e allarga i confini della propria fraternità secondo il cuore di Cristo.
In questo nostro tempo, segnato da tante chiusure e da troppi muri, la convivialità, generata dalla famiglia e dilatata dall’Eucaristia, diventa un’opportunità cruciale. L’Eucaristia e le famiglie da essa nutrite possono vincere le chiusure e costruire ponti di accoglienza e di carità. Sì, l’Eucaristia di una Chiesa di famiglie, capaci di restituire alla comunità il lievito operoso della convivialità e dell’ospitalità reciproca, è una scuola di inclusione umana che non teme confronti! Non ci sono piccoli, orfani, deboli, indifesi, feriti e delusi, disperati e abbandonati, che la convivialità eucaristica delle famiglie non possa nutrire, rifocillare, proteggere e ospitare.
La memoria delle virtù familiari ci aiuta a capire. Noi stessi abbiamo conosciuto, e ancora conosciamo, quali miracoli possono accadere quando una madre ha sguardo e attenzione, accudimento e cura per i figli altrui, oltre che per i propri. Fino a ieri, bastava una mamma per tutti i bambini del cortile! E ancora: sappiamo bene quale forza acquista un popolo i cui padri sono pronti a muoversi a protezione dei figli di tutti, perché considerano i figli un bene indiviso, che sono felici e orgogliosi di proteggere.
Oggi molti contesti sociali pongono ostacoli alla convivialità familiare. È vero, oggi non è facile. Dobbiamo trovare il modo di recuperarla. A tavola si parla, a tavola si ascolta. Niente silenzio, quel silenzio che non è il silenzio delle monache, ma è il silenzio dell’egoismo, dove ognuno fa da sé, o la televisione o il computer… e non si parla. No, niente silenzio. Occorre recuperare quella convivialità familiare pur adattandola ai tempi. La convivialità sembra sia diventata una cosa che si compra e si vende, ma così è un’altra cosa. E il nutrimento non è sempre il simbolo di una giusta condivisione dei beni, capace di raggiungere chi non ha né pane né affetti. Nei Paesi ricchi siamo indotti a spendere per un nutrimento eccessivo, e poi lo siamo di nuovo per rimediare all’eccesso. E questo “affare” insensato distoglie la nostra attenzione dalla fame vera, del corpo e dell’anima. Quando non c’è convivialità c’è egoismo, ognuno pensa a se stesso. Tanto più che la pubblicità l’ha ridotta a un languore di merendine e a una voglia di dolcetti. Mentre tanti, troppi fratelli e sorelle rimangono fuori dalla tavola. È un po’ vergognoso!
Guardiamo al mistero del Convito eucaristico. Il Signore spezza il suo Corpo e versa il suo Sangue per tutti. Davvero non c’è divisione che possa resistere a questo Sacrificio di comunione; solo l’atteggiamento di falsità, di complicità con il male può escludere da esso. Ogni altra distanza non può resistere alla potenza indifesa di questo pane spezzato e di questo vino versato, Sacramento dell’unico Corpo del Signore. L’alleanza viva e vitale delle famiglie cristiane, che precede, sostiene e abbraccia nel dinamismo della sua ospitalità le fatiche e le gioie quotidiane, coopera con la grazia dell’Eucaristia, che è in grado di creare comunione sempre nuova con la sua forza che include e che salva.
La famiglia cristiana mostrerà proprio così l’ampiezza del suo vero orizzonte, che è l’orizzonte della Chiesa Madre di tutti gli uomini, di tutti gli abbandonati e gli esclusi, in tutti i popoli. Preghiamo perché questa convivialità familiare possa crescere e maturare nel tempo di grazia del prossimo Giubileo della Misericordia.
Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Carlo De Marchi pubblicato il 14/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
N.B. de Gli scritti. Carlo De Marchi fa riferimento alla I.II q. 38 della Somma teologica.
Ognuno ha esperienza di giornate tristi, nella quali non riesco a superare una certa pesantezza interiore che inquina ogni stato d’animo e intralcia le relazioni. Esiste qualche trucco per superare il malumore e recuperare il sorriso? San Tommaso d’Aquino propone cinque rimedi di sorprendente efficacia contro la tristezza.
Il primo rimedio è un qualsiasi piacere. È come se il teologo di sette secoli fa avesse intuito l’idea oggi assai diffusa che il cioccolato sia antidepressivo. Può sembrare una visione materialista, ma è evidente che una giornata carica di amarezze recupera parecchi punti grazie a una birra. Che questo sia un materialismo incompatibile con il Vangelo è tutto da dimostrare: sappiamo che il Signore ha partecipato con piacere a pranzi e banchetti, prima e dopo la risurrezione e ha apprezzato tante cose belle della vita. Anche un Salmo afferma che il vino allieta il cuore dell’uomo (ma forse conviene precisare che la Bibbia condanna chiaramente l’ubriachezza).
Il secondo rimedio proposto da san Tommaso è il pianto. Spesso un momento di malinconia è più duro se non si riesce a trovare uno sfogo, ed è come se l’amarezza si accumulasse fino a rendere difficile fare alcunché. Il pianto è un linguaggio, un modo di esprimere e di sciogliere il nodo di un dolore che a volte risulta soffocante. Anche Gesù ha pianto. E Papa Francesco osserva che “certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime. Invito ciascuno di voi a domandarsi: io ho imparato a piangere?”.
Il terzo rimedio è la compassione degli amici. Viene in mente l’amico di Renzo che, verso la fine dei Promessi sposi, gli racconta le gravi sventure che hanno colpito la sua famiglia, in una grande casa resa disabitata dalla peste: “Son cose brutte, disse l’amico, cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo”. Provare per credere: quando ci si sente un po’ giù e si tende a vedere tutto grigio, è molto efficace fare un gesto di apertura nei confronti di qualche amico o conoscente. A volte basta un messaggio, una breve telefonata anche solo per raccontare o ascoltare un amico e il panorama si rischiara.
Il quarto rimedio contro la tristezza è la contemplazione della verità, del fulgor veritatis di cui parla sant’Agostino. Contemplare lo splendore delle cose, la natura, un’opera d’arte, ascoltare musica, sorprendersi per la bellezza di un paesaggio può essere un efficacissimo balsamo contro la tristezza. È il commento di un critico letterario che, pochi giorni dopo aver vissuto un grave lutto, era stato invitato a tenere una conferenza sul tema dell’avventura in Tolkien: “Parlare di cose belle di fronte a persone interessate è stato un vero sollievo”.
Il quinto rimedio proposto da san Tommaso è quello che forse meno ci si aspetterebbe da un maestro medioevale. Il teologo afferma infatti che un ottimo rimedio contro la tristezza è dormire e fare un bagno. Ma l’efficacia del consiglio è evidente. È profondamente cristiano intendere che per rimediare un male spirituale sia utile un sollievo corporale. Da quando Dio si è fatto Uomo, e ha assunto cioè un corpo, in tutto il mondo materiale è stata superata la separazione tra materia e spirito.
Un pregiudizio diffuso, invece, è che la visione cristiana dell’uomo si basi sull’opposizione tra anima e corpo, dove quest’ultimo sarebbe sempre visto come un fardello o un ostacolo per la “vita spirituale”. In realtà l’umanesimo cristiano considera che la persona (anima e corpo) viene interamente “spiritualizzata” quando cerca l’unione con Dio. Per dirla con san Paolo esiste un corpo animale e un corpo spirituale, e noi non moriremo, ma tutti saremo trasformati, perché è necessario che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità.
“Nessuno consideri una stranezza consigliare di prendere come guida un medico del corpo in una malattia spirituale”, afferma san Thomas More, in quella che sembra una parafrasi dell’insegnamento del suo omonimo medioevale: “dal momento che corpo e anima sono talmente stretti e uniti insieme che tutt’e due fanno una sola persona, la distensione di uno dei due genera talvolta la distensione di ambedue. Perciò, come consiglierei a ciascuno, in qualsiasi malattia del corpo, di confessarsi e di cercare da un buon medico spirituale la salute sicura della sua anima, così talvolta io esorto a prendersi in certe malattie dell’anima, oltre al medico spirituale, il consiglio del medico del corpo”.
Anche attraverso questi cinque rimedi si realizza la promessa umana e divina di Gesù: Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
Mi telefona una tassista. “Ci sono con me tre musulmani che si vogliono battezzare, come possono fare?” Parlo con loro in inglese e comincio a spiegare che la Chiesa non battezza in breve tempo, proprio per rispetto della maturazione delle persone e per rispetto dell’Islam. Propongo di iniziare una catechesi via skype con qualche persona che parli la loro lingua per giungere al Battesimo, se confermeranno il loro desiderio, tra uno o due anni.
Il padre – sono una giovane coppia con un figlio adolescente – mi risponde: “Padre, ma noi siamo venuti qui solo per questo. Abbiamo speso tantissimo denaro per venire a Roma. Se iniziassimo a parlare con un prete nel nostro paese e le autorità capissero che ci stiamo convertendo, potremmo essere uccisi. Noi torniamo nel nostro paese fra quattro giorni, desideriamo essere battezzati prima di partire, siamo venuti qui a Roma solo per questo, non siamo venuti per lavoro o per turismo” – vengono da un paese dove la legge coranica è applicata in maniera molto rigida.
Ci incontriamo, la loro commozione è grande. Dopo un giorno di dialogo e attesa, il vescovo concede che siano battezzati. Riceveranno il Battesimo, la Confermazione e la Comunione, che sarà probabilmente l’unica per molti anni, finché torneranno in un luogo dove si celebri l’Eucarestia e dove possano non essere riconosciuti. Nel frattempo continueranno a riunirsi nelle case, come già fanno, con un piccolo gruppo di cristiani orientali che lo sono da generazioni.
Il figlio mi spiega che nei loro percorsi scolastici non si studia nulla della storia del loro paese, che ha tradizioni antichissime e nobilissime, prima dell’arrivo dell’Islam. Non si studia nulla dell’uomo primitivo, nulla della Grecia, nulla di Darwin, di Marx e di Freud, nulla dei Vangeli e del cristianesimo, se non che Gesù non è morto in croce e che la crocifissione è una falsificazione dei cristiani, perché Gesù non sarebbe morto in croce, ma sarebbe asceso in corpo e anima presso Dio. Pur essendo la lingua del paese un’altra, si inizia lo studio dell’arabo fin dalla I elementare. La censura proibisce l’accesso a molti siti Internet non islamici, ma con opportune apparecchiature molti evadono il blocco, anche se i collegamenti divengono lentissimi.
L’80% della popolazione vorrebbe libertà – la donna ha tatuato sul braccio la parola “libertà”, ma nel suo paese porta lunghe maniche che impediscono di cere anche l’avambraccio. Solo il 10% vuole mantenere il paese nella condizione in cui si trova, ma quel 10% è al potere e la paura impedisce a tutti di opporre una qualche resistenza.
Vengono battezzati, indossano le vesti bianche, ricevono la luce di Cristo. C’è grande commozione in parrocchia quando vengono battezzati, scendono le lacrime al momento del Battesimo e quando tanti, alla fine della Messa, vengono ad abbracciarli.
C’è chi non si accorge nemmeno di cosa significhi avere la possibilità di ricevere l’eucarestia ogni domenica e c’è chi viene da lontano solo per riceverla un giorno nella vita, insieme alla grazia del Battesimo.
1/ I jihadisti, con i loro attacchi, cercano di distruggere i due laboratori arabi di pluralismo, di Camille Eid
Riprendiamo da Avvenire del 15/11/2015 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
Non c’è solo la Francia nel mirino del sedicente Stato islamico (is). Negli ultimi giorni, due nazioni sono state nuovamente colpite dall’aggressività terroristica: la Tunisia e il Libano. Due modelli, anzi, due importanti laboratori arabi di valori internazionalmente riconosciuti: laicità rispettosa delle identità religiose, pluralismo politico, libertà di opinione e pari dignità e diritti per l’uomo e la donna. Quanto di più abominevole possa esistere per i fautori dell’ideologia jihadista.
Di tutti i Paesi che hanno conosciuto la cosiddetta Primavera araba, la Tunisia è l’unica a oggi ad aver compiuto tutti i principali passaggi democratici per rinnovare le proprie fondamenta. E ciò senza cadere nell’abisso della guerra civile. Qui il partito islamico Ennahda, pur essendo emanazione locale dei Fratelli musulmani, ha capito che in una democrazia talvolta si vince e talvolta si perde, e non ha rovesciato il tavolo come hanno fatto i suoi colleghi egiziani.
Eppure, il seme del pluralismo politico non è stato sufficiente per frenare la follia estremista. Anzi, il laboratorio tunisino è più che mai nel mirino. L’ultimo exploit di violenza risale solo a venerdì, quando un gruppo di terroristi ha ucciso un giovane pastore sedicenne nei pressi del monte Mghilla e ha poi ordinato a un altro giovane pastore che l’accompagnava di riportare la sua testa alla famiglia avvolta in un sacco. Il 13 ottobre, scorso la brigata Okba bin Nafia aveva proceduto all’esecuzione di un altro pastore perché colpevole di «aver collaboratocon le autorità».
L’altro modello finito sotto attacco è il Libano, il «Paese messaggio», come lo ha definito nel 1997 papa Giovanni Paolo II. Messaggio di convivenza cristiano-islamica in primo luogo, ma anche di pluralismo per l’Oriente e l’Occidente, e soprattutto messaggio di generosa accoglienza di tutti i perseguitati, sia per motivi politici che religiosi, nel Medio Oriente.
Nulla di strano se si considera che il destino del Libano è quello di essere un insieme di comunità rifugiatesi nelle montagne dalle persecuzioni – basta pensare ai maroniti e ai drusi – preferendo rinunciare alle comodità della vita pur di salvaguardare la propria fede e le proprie tradizioni. L’attentato che giovedì ha seminato morte e distruzione nella periferia sud di Beirut e che portava la “firma” del Califfato ha voluto certamente punire un movimento – l’Hezbollah sciita – per il suo coinvolgimento militare nella guerra in Siria, ma era soprattutto teso ad accendere la miccia dello scontro tra libanesi e palestinesi (due dei tre attentatori sarebbero, secondo la rivendicazione dell’Is, palestinesi mentre il terzo sarebbe siriano), o meglio tra musulmani sunniti e sciiti.
Una scommessa, questa, che i tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi hanno per ora perso. Ma che solo la saggezza dei politici libanesi, abbinata alla vigilanza della comunità internazionale, può definitivamente allontanare.
2/ Orrore Is. Iraq, 80 corpi di donne in fosse a Sinjar
Riprendiamo da Avvenire del 14/11/2015 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/11/2015)
Una nuova fossa comune contenente i resti di 80 donne e ragazze della minoranza yazida è stata scoperta dai miliziani curdi peshmerga a Sinjar, nel nord-ovest dell'Iraq, dove sono entrati ieri strappandola al controllo dell'Is. Ne dà notizia il sito curdo Rudaw.
"Uccidere queste innocenti è uno dei crimini commessi dallo Stato islamico contro i curdi yazidi", ha detto Qasim Simo, capo dell'apparato di sicurezza di Sinjar. Le vittime, ha aggiunto, sono state tutte probabilmente uccise nell'agosto del 2014, quando i jihadisti dell'Is si impadronirono di Sinjar, massacrando migliaia di appartenenti a questa minoranza da loro giudicata "eretica" e riducendo a schiave sessuali molte donne.
Un video postato da Rudaw mostra brandelli di vestiti, scarpe, banconote, monili e altri oggetti appartenuti alle vittime e ritrovati nella fossa, tra cui un bastone per aiutarsi a camminare. Secondo Qasim Simo, nell'area potrebbero esservi in tutto una quindicina di fosse come questa. Altre centinaia di cadaveri erano stati trovati già nell'estate del 2014 in fosse scavate nei dintorni di Sinjar.
Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (7/1/2015, ripubblicato il 14/11/2015)
I terroristi si fanno forza di una frase di Khalid ibn al-Walid, generale di Maometto, che affermava, per spiegare le prime vittorie militari del califfato nel VII secolo: «Porto uomini che desiderano la morte come voi desiderate la vita».
Ed, in effetti, è proprio qui la questione: i terroristi amano la morte. Disprezzano la vita degli altri e disprezzano la loro stessa vita. Sono pronti all’uccisione crudele, senza pietà, di civili, donne, bambini, giornalisti. Sono pronti al suicidio, tanto disprezzano l’essere vivi. Odiano. L’odio è la loro pseudovita.
Come ha detto Gesù: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui» (lo ricorda il suo discepolo amato Giovanni, cfr. 1 Gv 3,13-14).
Ebbene la nostra risposta è che noi portiamo uomini che desiderano la vita come voi, terroristi, desiderate la morte. A noi piace la vita. Amiamo la poesia. Amiamo passeggiare nel creato. Amiamo sederci per mangiare e bere insieme. Amiamo la musica, da Bach a Louis Armstrong, passando ovviamente per Mozart e procedendo oltre il jazz. Amiamo leggere e confrontarci su qualsiasi tipo di questione, comprese quelle religiose. Amiamo l’amicizia di un uomo e di una donna. Amiamo giocare. Amiamo stare insieme ai bambini e vederli sorridere. Amiamo la filosofia e la scienza. Amiamo perdere tempo. Amiamo l'ironia ed il senso dell'humour. Amiamo la serenità della sera. Cerchiamo anche di amare i nostri nemici, sebbene non sempre ci sia facile. Amiamo la libertà.
Sì, noi amiamo la vita. Per questo sappiamo che conquisteremo i cuori di chi non può essere a lungo atterrito da voi terroristi. Amiamo, infatti, anche il duro confronto fra idee diverse, perché sappiamo che solo chi conquista i cuori ha convinto veramente, mentre chi atterrisce gli uomini per vincerli sta implicitamente ammettendo che le proprie idee non valgono niente ed è, in realtà, un perdente, uno sconfitto.
Per questo – mi rivolgo a voi che amate la vita – penso che la risposta più bella stasera che possiamo dare all’odio sia leggere una poesia nel silenzio della propria camera. Oppure telefonare ad un amico, ad un’amica. Oppure sentire della buona musica. Oppure pregare. O ancora giocare con i propri bambini. O anche semplicemente riposare. Sempre ringraziando della vita e dei suoi doni.
Terroristi, la vostra rabbia dimostra che sapete già di avere perso, perché chi odia la vita ha già perso la propria anima.
Un grande uomo, Paolo VI, ebbe a dire, negli anni di piombo, che sperava nella coscienza dei terroristi albergasse ancora la capacità di riconoscere la dignità della vita umana.
Questo oggi chiediamo al Dio dei vivi e dei morti.
Nota bene del 14/11/2015. Il ripetersi di assassini di civili, da Charlie Hebdo al 14 novembre 2015, mostra come le motivazioni politiche e militari addotte dai terroristi non c'entrino niente. Non è per la guerra in Siria o in Iraq che uccidono: uccidono perché ritengono di non poter convincere con le idee i cuori e le menti, uccidono come hanno ucciso i giornalisti, per quanto blasfemi, di Charlie Hebdo, uccidono perché non hanno niente da dire. Se fosse per ragioni militari, attaccherebbero poliziotti e militari, invece uccidono civili come è loro abitudine fare in Siria ed Iraq, e non per sbaglio, bensì deliberatamente e volontariamente.
Il Centro culturale Gli scritti 12/11/2015)
N.B. de Gli scritti Riprendiamo sul nostro sito alcuni versi di Mario Luzi, tratti da Sotto specie umana, Garzanti, citati più volte al Convegno di Firenze ad indicare una caratteristica dell’umanesimo nuovo e antico, il desiderio infinito dell’uomo.
da Mario Luzi, Sotto specie umana, Garzanti
Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne
sei pieno?
di che?
Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…
Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce
forza e canto
la musica perpetua ritornerà.
Sii calmo.
Riprendiamo da Avvenire del 28/3/2015 un articolo di Andrea Dall’Asta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti su Chagall, cfr. il tag marc_chagall e la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2015)
Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938, Art Institute of Chicago
N.B. de Gli scritti Chagall nel quadro dipinge la persecuzione nazista della Notte dei cristalli (il quadro è del 1938), ma anche la persecuzione anti-ebraica sovietica. Lui stesso fu costretto a fuggire dall’URSS per poter continuare a dipingere, perché il materialismo sovietico non sopportava la sua arte ritenuta troppo poetica e spirituale.
Anche il pittore russo Marc Chagall (1887-1985) riflette sulla Bibbia e in modo particolare su Cristo crocifisso, di cui fa la cifra della propria esperienza artistica, denunciando le persecuzioni, i pogrom (distruzione dei villaggi ebrei dell’Europa centro-orientale) e le deportazioni di cui è vittima il popolo ebraico. Cristo è il simbolo del dolore di Israele, di un dramma vissuto tra le macerie, causate dalla follia devastatrice dell’uomo e dalla sua violenza, simbolo della tragedia del mondo, di coloro che subiscono oltraggi, violenze, carcere, morte…
La Crocifissione bianca è uno dei suoi vertici pittorici. L’artista, attraverso riferimenti culturali e simbolici, elaborati a partire dalla sua infanzia vissuta a Vitebsk, in una comunità chassidica, vi esprime le sofferenze del popolo ebraico in un momento che precede di soli pochi mesi la Shoah. Il contrasto tra colori giallo-rossastri, con tonalità bianco-grigiastre, crea uno stridore spettrale, un intenso senso di tragedia.
Un grande crocifisso bianco, inchiodato a una gigantesca croce a forma di Tau, campeggia al centro della tela. Cristo appare addormentato sulla croce, il suo volto è reclinato, con gli occhi socchiusi. L’iscrizione I.N.R.I. (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum) compare dietro il suo capo, avvolto da un nimbo bianco: una prima volta scritta in rosso, color sangue, in lettere gotiche, che ricordano i pamphlet antisemiti dei nazisti, una seconda volta in esteso, in lingua ebraica. Un intenso fascio di luce bianca, da cui emerge il corpo del crocifisso, sembra come avvolgerlo e sostenerlo. Cristo, cinto dallo scialle rituale della preghiera, il tallit, porta sul capo un panno, al posto della corona di spine.
Cristo è attorniato da ebrei in fuga, da scene di distruzione, di saccheggi, di disperazione. Chagall mette in scena la violenza nazista, in un crescendo di ferocia inaudita. Tutto parla di morte, di depredazioni, di devastazioni. A destra, le fiamme escono da una sinagoga distrutta. Un uomo in divisa e stivali neri, un nazista, ha appena acceso il fuoco. Sulla strada, un lampadario distrutto a terra e una sedia rovesciata creano ulteriore desolazione e senso di morte. L’arca dell’Alleanza è spezzata, un fumo grigio si solleva da un rotolo della Torah che sta bruciando e i libri di preghiera sono buttati nel fango.
Tutto sembra sprofondare nel caos. Il dipinto è un caos di case capovolte e incendiate, di sedie rovesciate, di tombe profanate. Una donna fugge con il bambino tra le braccia. Un vecchio attraversa le fiamme che si sprigionano dalla Torah, un altro ebreo porta in salvo un rotolo ancora intatto. Un uomo, con una targa bianca appesa al collo, vacilla umiliato. Soldati in preda alla disperazione si sporgono stremati da una barca. Altri chiedono aiuto agitando le mani in alto.
Soldati dell’Armata rossa irrompono lontani dalla sinistra del quadro.
Come angeli attoniti per lo spettacolo osceno, tre rabbini e una donna sono sospesi sugli incendi. Sembrano danzare una preghiera nel cielo annerito dal fumo, da nubi che solo il fascio di luce bianca può lacerare. Una danza macabra, che si fa acuto pianto di dolore.
Cristo sembra incarnare nel suo corpo la tragedia che si sta perpetrando, come se con lui fosse inchiodato sulla croce il suo stesso popolo. Il crocifisso diventa simbolo delle atrocità della storia compiute contro di lui. Le punte delle fiamme si sovrappongono al fascio di luce bianca, come se lo violassero, rifrangendosi sul corpo di Cristo.
Ai suoi piedi, è posto il candelabro ebraico a sette bracci, la menorah. Una grande scala è appoggiata contro la croce. È forse un invito a scendere dalla croce, per porre fine alla violenza e alla sofferenza? In questa tragedia, Cristo, l’oltraggiato, il perseguitato, l’accusato senza colpa, accende sulla croce una speranza.
È il giusto sofferente che conduce l’uomo all’attesa di una salvezza, attraverso il dolore. Prefigura una rinascita, una riconciliazione, un riscatto. La sua presenza sospende la disperazione. La devastazione provocata da questa apocalisse non può prendere per sempre il sopravvento. L’orrore appare filtrato dallo sguardo di Chagall che, davanti alla tragedia, sembra intonare una preghiera.
Se nel mondo ebraico la figura di Cristo è controversa, per Chagall essa è l’archetipo del martire ebreo. Come afferma l’artista stesso: «Non hanno mai capito chi era veramente questo Gesù. Uno dei nostri rabbini più amorevole che soccorreva sempre i bisognosi e i perseguitati. Gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano. È stato considerato un predicatore dalle regole forti. Per me è l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi». La bellezza di Dio diventa la testimonianza di chi incarna una speranza contro il massacro di un popolo.
Riprendiamo da Avvenire dell’11/11/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori articoli dell'autore, vedi il tag alessandro_d_avenia.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2015)
N.B. de Gli scritti. L’articolo di Alessandro D’Avenia è la sintesi dell’intervento da lui tenuto in un contesto tipicamente ecclesiale, il Convegno di Firenze. Ma conserva grande attualità anche in relazione alla scuola pubblica dove la memoria del fatto che esista un desiderio di infinito nel cuore del ragazzo - e che questo desiderio sia il “motore” che spinge a crescere - deve emergere nel confronto con i grandi autori e le grandi questioni umanistiche e scientifiche, altrimenti la scuola si taglierebbe fuori dalla vita reale, confinandosi da sé in una logica puramente monetaria e occupazionale.
La via dell’educare, se non si vuole rimanere disorientati dalle pedagogie più o meno riduzionistiche dei nostri tempi, è e resta solo una: Cristo. Egli ha detto di essere la via (Gv 14,6: odòs) e la parola metodo, che contiene la parola via (metà: dopo più odòs: via), indica l’andar dietro, l’indagare attentamente, il seguire le tracce. Il metodo dell’educazione è Cristo, perché Cristo ne è la via stessa e la meta, la mappa e la destinazione, essendo anche verità e vita.
Lo dice in modo efficace la patrona d’Europa Edith Stein, filosofa e martire del XX secolo, in un libro non a caso intitolato ‘La vita come totalità’: «Col termine educazione intendiamo la formazione dell’essere umano nel suo complesso, con tutte le sue forze e capacità. Cos’altro vogliamo raggiungere coll’educazione se non che il giovane che ci è affidato divenga un essere umano vero e autenticamente se stesso (tale quale Dio prescrive all’uomo di essere e questo sia nel senso generale della natura umana quanto in quello particolare della personalità individuale). Come conseguire però questo fine? L’educatore deve possedere un’idea chiara e un giudizio vero riguardo a in che consista l’educazione, cioè l’autentica natura umana e l’autentica individualità. Formare esseri umani autentici significa formarli ad immagine di Cristo, ma per farlo l’educatore deve essere lui stesso un essere umano autentico».
Solo Cristo è garanzia di autenticità per l’uomo di ogni epoca, perché «Cristo Redentore rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso» (Redemptor Hominis 9), solo il confronto continuo con la figura di Cristo e la relazione viva con lui prepara e ripara qualsiasi pedagogia incompleta, ora nella considerazione della vera natura umana, ora in quella del concreto e irripetibile darsi della natura umana in quell’uomo o in quella donna. Solo Cristo, come metodo, consente all’educatore la totale apertura all’altro come essere al contempo storico e necessario, perché voluto da Dio come figlio suo dall’eternità, nel tempo concreto che gli è dato vivere.
Solo un’antropologia cristologica consente di entrare in tensione positiva con i limiti di ogni cultura ed esistenza, perché va, come il concavo con il convesso, a completare ciò che manca, trasformare ciò che è informe, purificare ciò che è ferito.
Questo ci mette al riparo da qualsiasi scoraggiamento o fuga in tempi andati: «Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l’accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni.
Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale... Chi crede in Gesù Cristo ha poi un ulteriore e più forte motivo per non avere paura: sa infatti che Dio non ci abbandona, che il suo amore ci raggiunge là dove siamo e così come siamo, con le nostre miserie e debolezze, per offrirci una nuova possibilità di bene» (Lettera di Benedetto XVI sul compito urgente dell’educazione).
L’amore di Dio raggiunge la creatura, se l’educatore a cui è affidata, è in relazione diretta e vitale con Cristo. Ciò avviene, per mediazione diretta, attraverso i genitori, a cui Dio affida i figli (pro-creazione), e indiretta attraverso quelle persone a cui i figli sono ulteriormente affidati dal punto di vista educativo (con-creazione). Il mio pensiero corre infatti, da un lato, ai miei genitori, che festeggiano quest’anno 50 anni di matrimonio: a loro devo la vita, l’esempio di un amore fedele, in cui per sempre è sinonimo di ogni 24 ore, e una fede vissuta nel quotidiano, come dono e compito, nelle cose di tutti i giorni, secondo l’insegnamento di San Josemaría Escrivà; e, dall’altro, ai maestri che ho avuto, in particolare il martire e beato Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo, capace di far vedere il volto di Cristo persino ai suoi assassini, rieducati alla libertà grazie a quel sorriso.
Fuori da questa via maestra (Cristo) si scivola in umanesimi parziali e incompleti, anche se a volte apparentemente efficaci e seducenti, ma uno solo resta l’umanesimo integrale: «Siamo quegli esseri complessi che vivono a livelli successivi, a un livello animale e biologico, a un livello intellettuale e umano, e a un livello ultimo che si situa in quegli abissi che sono la vita di Dio e la Trinità. Per questo abbiamo il diritto di dire che il cristianesimo è un umanesimo integrale, e cioè che sviluppa l’uomo a tutti i livelli della sua esperienza. Dobbiamo diffidare sempre di ogni tentativo di ridurre lo spazio in cui si muove la nostra esistenza. Noi respiriamo a fondo solo nella misura in cui non ci lasciamo rinchiudere nella prigione del mondo razionale e psicologico, ma dove una parte di noi sfocia in quei grandi spazi che sono quelli della Trinità. Ciò che fa sì che vi sia una gioia di vivere nel cristianesimo che è incommensurabile» (J.Danielou, Miti pagani e mistero cristiano). Il fine dell’educazione è la gioia di vivere, che solo un figlio di Dio, che si sa tale e ne fa esperienza, può sperimentare nel tempo crepuscolare e imperfetto di questa vita.
La via dell’educare è Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo, gli educatori potranno educare nella misura in cui non sono più loro a vivere, ma Cristo a vivere attraverso loro, perché egli è il metodo stesso della pedagogia divina. Solo così potranno offrire non il respiro corto di se stessi, ma il soffio della vita tutta, piena e indistruttibile, perché «ogni creatura è oggetto della tenerezza del Padre, che le assegna un posto nel mondo. Perfino l’effimera vita dell’essere più insignificante è oggetto del suo amore, e in quei pochi secondi di esistenza, Egli lo circonda con il suo affetto» (Laudato si’,n.78), se è così per i gigli del campo, cosa sarà per i figli degli uomini, che Dio affida a noi educatori?
Mettiamo a disposizione sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (11/11/2015)


Un cristianesimo “popolare”. È una delle parole chiave di papa Francesco, è uno dei “chiodi” che batte più frequentemente. Al Convegno di Firenze ha ripetuto, riferendosi alla “spiritualità” di don Camillo nei racconti di Guareschi: «La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte».
Papa Francesco spiazza così teologi, catecheti e pastoralisti, giornalisti e intellettuali, di destra e di sinistra – se queste espressioni avessero un senso.
Perché chiede di abbandonare tutti i clichés costruiti da decenni. Sono decenni che gli intellettuali di ogni parte e partito hanno cercato di convincere il mondo che bisognava occuparsi delle élites - fossero esse aristocratiche o popolari, retrograde o avanguardiste -, che bisognava occuparsi di coloro che sono lontani dalla religiosità popolare, di coloro che sono “adulti nella fede” o disposti a diventare tali, di coloro che sono disposti a fare cammini peculiari di gruppo, di comunità, di piccole équipes, di coloro che conoscono la Scrittura o la liturgia o il pensiero filosofico o politico.
Un cristianesimo “popolare”, fatto dalla gente comune e non solo dagli intellettuali, perché invece gli estremi si toccano e si assomigliano. C’è chi chiede più impegno nella gestione delle sottane e delle rubriche della liturgia e c’è chi chiede più impegno nell’elaborazione di complessi laboratori per il coinvolgimento di piccoli gruppi di genitori dediti al servizio. Ma così facendo entrambi trascurano il popolo di Dio così com’è, la gente che non sarà interessata né a curiosità liturgiche, né a complessi itinerari di formazione cristiana, la gente che semplicemente vive, mangia, dorme ed educa i suoi figli.
Papa Francesco ci invita ad un cristianesimo popolare. Dove ha dignità una mamma che chiede il Battesimo per suo figlio, dove ha dignità il suo bambino al punto che viene abbracciato e baciato dal papa, dove ha dignità un anziano che con la sua vita è memoria del passato, dove ha dignità un uomo che si reca in chiesa a dire una preghiera, dove ha dignità una vecchietta che prega con il rosario, dove ha dignità un giovane che scopre il valore dell’elemosina e del servizio, dove hanno dignità i genitori che chiedono che i loro figli siano aiutati a ricevere più consapevolmente la prima Comunione anche se nemmeno sanno bene cosa chiedono, dove ha dignità un immigrato che vive una fede popolare e che non la deve perdere per non perdere con essa tutto, dove ha dignità un insegnante che perde la sua vita ad insegnare la meravigliosa tradizione italiana ai suoi alunni, dove ha dignità un adulto che è tale perché ha generato dei figli e perde il suo tempo perché essi riescano a maturare.
Un cristianesimo “popolare” dove ognuno ha dignità perché è ciò che è e non ciò che pretendiamo che astrattamente sia. Papa Francesco ci invita ad avere più passione e addirittura passionalità. Ci invita ad avere grinta ed un cuore grande. Ci invita a stare con la gente, con tutta la gente, senza mai preferire questo o quello. Senza mai dire: "partiamo dagli adulti o dai giovani o dai bambini o dai vecchi". Perché sono tutti figli di Dio e chiamati a stare insieme. Ci invita a stare con quelli di una parte e con quelli dell'altra parte e pure con quelli della parte di mezzo, a non avere parrocchie nelle quali qualcuno potrebbe sentirsi discriminato per un qualsivoglia motivo.
A parlare, a fare catechesi, a fare lezione, a stare insieme non con note e sottonote. Per smettere di essere come quei critici letterari che per ogni pagina di Dante ti obbligano a leggere 2 pagine di loro commenti critici e filologici. Per far sparire dai nostri convegni l' "apparato critico", con le citazioni di documenti e documenti a fondazione della nostra posizione. Per smettere di "leggere" lunghi testi in pubblico e per imparare di nuovo a parlare a braccio, con il cuore in mano e con gli esempi della nonna.
Questo non toglie che la cultura resti importante, che resti importante ogni riflessione creativa per migliorare il tessuto ecclesiale necessario per formare le persone. Questo è necessario ed anzi bisogna insistere su tale aspetto, perché servono persone che offrano tutta la loro sapienza per sostenere un cristianesimo popolare dinanzi al mondo che lo disprezzerebbe proprio perché popolare. Che studiare sia un bene è dimostrato, fra l’altro, da tutti coloro che giustamente come noi amano papa Francesco e gli vogliono bene e che, ben più di noi, hanno scritto libri, insegnato nelle università e fatto conferenze e lezioni frontali in ogni angolo d’Italia – e che continuano a farlo.
Anzi serve ancor più sapienza. Dobbiamo continuare a studiare e a fare cultura, anzi dobbiamo farlo più di prima. Dobbiamo continuare ad essere esigenti nella proposta di fede e dobbiamo continuare a farlo più di prima. Ma sarebbe sciocco fingere che il papa non ci chieda una svolta: dobbiamo tornare a vivere e a proporre un cristianesimo popolare.
Questo vuol dire che chi studia si deve sentire parte di un popolo semplice e apprezzare quel popolo, quei bambini, quei vecchi, quei genitori scalcagnati, ed offrire a quel popolo gratuitamente tutta la propria sapienza, senza sentirsi superiore ad esso: quel popolo ha un sensus fidei e sa riconoscere quando un prete o un intellettuale è pastore di tutti. Il papa ricordava l’episodio di quel vescovo che, in metropolitana, non poteva sostenersi ai corrimano eppure era portato dagli altri passeggeri che, schiacciandolo, lo tenevano in piedi.
Da decenni siamo abituati a sottovalutare chi non ha altro che la propria vita e la propria preghiera e, talvolta, la messa domenicale. Papa Francesco ci invita, invece, ad un cristianesimo popolare, dove tutti costoro – e noi con loro – sono importanti, sono degni, solo perché creati da Dio e fatti oggetto di misericordia.
Una visione popolare del cristianesimo dove abbiano posto le periferie, la gente semplice, gli ultimi e i piccoli, di età e di sapienza.
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’udienza ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, tenuto nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze, il 10/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2015)
Cari fratelli e sorelle, nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, o il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.
Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni.
Quali sono questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.
Il primo sentimento è l’umiltà. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre.
Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).
Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.
Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine. Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.
Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)!
Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.
Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).
Però sappiamo che le tentazioni esistono; le tentazioni da affrontare sono tante. Ve ne presento almeno due. Non spaventatevi, questo non sarà un elenco di tentazioni! Come quelle quindici che ho detto alla Curia!
La prima di esse è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.
La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.
La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94). Lo gnosticismo non può trascendere.
La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.
La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.
Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?
Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?
Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36). Mi viene in mente il prete che ha accolto questo giovanissimo prete che ha dato testimonianza.
Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).
Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Due pilastri: le beatitudini e le parole del giudizio finale. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).
Ai vescovi chiedo di essere pastori. Niente di più: pastori. Sia questa la vostra gioia: “Sono pastore”. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente.
Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale nella esortazione apostolicaEvangelii gaudium (cfr nn. 111-134).
A tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune.
L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» (Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi). I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).
Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.
Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. Perché la Chiesa madre ha in Italia metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. E questo da sempre è una delle vostre virtù, perché ben sapete che il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti.
Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).
Ma dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva.
La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media... La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.
Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.
E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. È fratello.
Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose.
Faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», diceva l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Giovani, superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr 1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.
Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.
* * *
Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.
Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.
Vi affido a Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”. Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –, l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria. Grazie.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito un video tratto da Youtube. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2015)
Bledar Xhuli abbracciato da papa Francesco
Riprendiamo sul nostro sito la “Lettera alla città“ scritta del cardinale Agostino Vallini e del Consiglio Pastorale della Chiesa di Roma e pubblicata il 9/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/11/2015)
DIOCESI DI ROMA
Alle donne e agli uomini che vivono a Roma
La Chiesa di Roma nella città
I cristiani, nella città, sono chiamati a brillare come “luce del mondo” e “lampada che illumina tutti quelli che sono nella casa” (cfr. Mt 5,14ss). Così testimoniano la vita nuova e gioiosa dei figli di Dio. Questa è la prima e fondamentale missione della Chiesa di Roma, che “presiede nella carità”[1].
Con questa lettera desideriamo chiederci: siamo davvero all’altezza di questa testimonianza nella nostra città di Roma? Cosa possiamo fare per rispondere meglio alla chiamata del Signore, che ci vuole “luce del mondo” (Mt 5,13)?
Papa Francesco, rivolgendosi a noi cittadini romani, ha detto: «Domandiamoci: in questa città, in questa comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti e stanchi? Senz’altro le gravi vicende di corruzione, emerse di recente, richiedono una seria e consapevole conversione dei cuori per una rinascita spirituale e morale, come pure per un rinnovato impegno per costruire una città più giusta e solidale, dove i poveri, i deboli, gli emarginati siano al centro delle nostre preoccupazioni e del nostro agire quotidiano. È necessario un grande e quotidiano atteggiamento di libertà cristiana per avere il coraggio di proclamare, nella nostra città, che occorre difendere i poveri, e non difendersi dai poveri, che occorre servire i deboli e non servirsi dei deboli! […] Quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a “mafiarsi”, quella società si impoverisce fino alla miseria, perde la libertà […] e cessa di essere cristiana»[2].
Le luci e le ombre del momento presente ci sollecitano, come Chiesa, ad impegnarci in una nuova stagione di rinnovamento spirituale, di evangelizzazione, di responsabilità culturale e di impegno sociale, sostenuti dalla forza della fede, per raggiungere le periferie geografiche ed esistenziali della nostra città.
Non abbiamo alcuna smania di protagonismo o di visibilità politica: ci accompagna solo la lucida consapevolezza di non poterci estraniare dalla vita degli uomini e la certezza che per noi annunciare il Vangelo “non è un vanto, ma una necessità che ci si impone” (cfr. 1Cor 9,16). Il Giubileo della Misericordia, ormai imminente, è un dono che la Chiesa di Roma intende condividere con le donne e gli uomini che vivono in città. Vorremmo che sia soprattutto un tempo consacrato a Dio per restituire «pace agli uomini che Dio ama» (cfr. Lc 2,14). Un tempo in cui rimettere in ordine tutte le relazioni umane (questo è il senso originario del giubileo biblico: cfr. Lv 25) ed imprimere nuovo slancio e passione alla rigenerazione della vita sociale. Ci sembra un’urgenza non più differibile.
Condividere gli affanni della nostra città
La nostra città vive un momento di transizione e di crisi. La corruzione, l’impoverimento urbanistico e ambientale, la crisi economica hanno investito pesantemente lo spazio fisico, l’identità collettiva e la coesione sociale. Aumentano le povertà, non solo materiali, che alimentano nuovi e profondi squilibri. La sfiducia nelle istituzioni civili e la perdita del senso di appartenenza sociale producono stili di vita sempre più individualistici. Ne conseguono forti tensioni sociali, in particolare di fronte alla sfida dell’immigrazione. L’assetto urbanistico, oggi ulteriormente polverizzato, non ha aiutato l’integrazione. Il centro storico si sta progressivamente svuotando di abitanti residenti e si trasforma in centro della politica e in distretto turistico. Roma sta diventando la sua periferia. Il 23% della popolazione vive oggi al di fuori del Grande Raccordo Anulare e in queste aree l’incremento degli abitanti negli ultimi 10 anni è stato del 26%.
Uno dei fenomeni più importanti caratterizzanti lo sviluppo insediativo del Comune di Roma negli ultimi quindici-venti anni è, ad esempio, lo sviluppo delle grandi polarità commerciali e dell’intrattenimento. Sono presenti più di 28 grandi centri commerciali nel territorio cittadino (e altri sono in costruzione). Inoltre sotto la pressione del mercato immobiliare in crescita, la popolazione va a vivere fuori Roma, alla ricerca di una casa a più buon mercato (soprattutto le giovani coppie) o anche di una migliore qualità della vita e dell’ambiente. La periferia ha assunto così una dimensione metropolitana.
Nuove sofferenze sono emerse dalla disoccupazione, soprattutto giovanile, mentre sono aumentati i costi strutturali tipici delle grandi città come i trasporti, la mobilità in genere e i servizi, e per alcune voci di base, come il costo degli affitti, il livello appare del tutto insostenibile. La crisi ha alimentato le disuguaglianze, accentuato le differenze tra i quartieri centrali e le periferie, allargato la fascia dei poveri e degli ‘invisibili’. Il ceto medio ne è uscito indebolito, si sono alzati steccati tra ambienti sociali diversi, scoraggiando quella ‘mescolanza’ virtuosa necessaria per far crescere la coesione di una città e la pratica quotidiana del dialogo e del riconoscimento reciproco. Va anche ristabilito un nuovo “patto generazionale” tra adulti e giovani, che spesso soffrono retribuzioni ingiuste.
Il malessere purtroppo si respira nell’aria: la stessa gestione ordinaria del territorio, come ad esempio la manutenzione delle strade, la cura dell’illuminazione, le procedure di raccolta e smaltimento dei rifiuti, hanno assunto, in diversi quartieri, aspetti di un degrado urbano complessivo da cui, talvolta, sembra difficile liberarsi. A tutto ciò si sono aggiunti acuti problemi di sicurezza e l’incremento di atti di violenza.
Più che accusare o condannare le istituzioni civili o la società nel suo insieme, come troppo spesso superficialmente avviene, desideriamo condividere gli affanni della nostra città, fare la nostra parte, essere compagni di strada di tutti gli uomini di buona volontà, e dire a tutti, concittadini e istituzioni di Roma, di non perdersi d’animo dinanzi alle sfide che abbiamo davanti.
Il problema non è di natura esclusivamente organizzativa. Alla radice – vogliamo sottolinearlo – c’è una profonda crisi antropologica ed etica. In tanti sembra smarrito l’orizzonte comune dell’esperienza umana, il senso condiviso dell’inviolabile dignità della persona, il tessuto delle genuine relazioni interpersonali che si esprimono nella responsabilità verso gli altri e che danno senso all’agire umano. Troppe persone si incrociano per strada e si guardano con diffidenza, quasi siano alieni provenienti da pianeti diversi.
Questa sfida vogliamo raccogliere come Chiesa di Roma, offrendo a tutti i nostri fratelli romani anzitutto il tesoro più prezioso che abbiamo: il santo Vangelo. Che, per noi, non è un libro, ma una persona viva, Cristo Signore, che riempie il cuore e la vita di quelli che lo incontrano e si lasciano amare e salvare.
Questa lettera è dunque un appello affinché tutti gli uomini di buona volontà collaborino per edificare il bene comune; ma più ancora è una promessa: in questo Anno Santo della Misericordia desideriamo agire concretamente affinché Roma diventi sempre più abitabile e felice e tutti possiamo «“sentirci a casa” all’interno della città che ci contiene e ci unisce»[3].
Ripartire dalle molte risorse civili e religiose della città
Nonostante gli accennati segni di crisi, Roma conserva, anche per l’infaticabile impegno di molti, credenti e non credenti, meravigliosi talenti per svilupparsi come luogo di incontro, di riconciliazione, di dialogo, di promozione della crescita integrale della persona e della reciprocità sociale. Tra queste risorse ricordiamo il suo straordinario patrimonio archeologico, artistico e culturale, cui si connettono le imprese e i servizi legati alla vocazione turistica della città; la diffusa presenza di università e centri di ricerca; un tessuto commerciale e industriale che riguarda anche l’agroalimentare, la tradizione dell’artigianato, la moda e altri settori del “made in Italy”; la rete di imprese e servizi nel campo della comunicazione e dell’informazione multimediale pubblica e privata; l’emergere di imprese giovani dedicate all’innovazione tecnologica accanto ad un robusto polo di servizi terziari. E ancora, l’offerta di servizi sanitari, che – certamente migliorabili – possono dare una risposta umanizzata al bisogno della tutela della salute; la capacità di promuovere grandi eventi e di poter attrarre milioni di persone di tutto il mondo; l’opportunità di essere città del cinema, dello spettacolo, della cultura, dell’arte, della musica, dello sport. Senza dimenticare la sua collocazione geo-politica di capitale, al centro d’Italia e di grandi vie di comunicazione.
Dobbiamo e vogliamo menzionare anche il ruolo della Chiesa. In primo luogo, evidentemente, la persona del Papa, che quotidianamente parla alla città e al mondo, e con la sua presenza raccoglie folle di pellegrini e di turisti, di fedeli e di non credenti, attorno alla sua parola. Ma non vanno dimenticate le numerose realtà ecclesiali presenti e operanti sul territorio: parrocchie, comunità religiose, movimenti e associazioni ecclesiali, scuole cattoliche e università, ospedali e case di cura, strutture caritative, ecc.
La città ha una ricchezza immensa, non adeguatamente conosciuta né valorizzata, che può essere fatta crescere, e che riveste, in ogni caso e oggettivamente, un grande rilievo anche a livello di sistema urbano e territoriale. La Chiesa di Roma, insieme con le donne e gli uomini di buona volontà, desidera rendere “reciproca” la città: più attiva, più partecipe e più unita. Una città aperta a tutti, giovani, adulti e anziani, donne e bambini, che sappia andare incontro ai bisogni di relazione fra generazioni, alle insicurezze e alle solitudini, ai problemi connessi all’invecchiamento della popolazione e alle richieste, spesso del tutto nuove, che vengono da adolescenti, giovani e famiglie. Focalizziamo il nostro impegno su cinque sfide o “cantieri” che ci sembrano urgenti e decisivi.
Le sfide
1 – Vecchie e nuove povertà
Spinti dalla carità di Cristo e, nello stesso tempo, consapevoli che non si può offrire come carità quello che è dovuto per giustizia, dobbiamo affrontare con determinazione gli squilibri profondi, economici, sociali, culturali. Il 31 dicembre 2013 Papa Francesco ha detto ai romani: «Roma è una città di una bellezza unica, il suo patrimonio spirituale e culturale è straordinario. Eppure, anche a Roma ci sono tante persone segnate da miserie materiali e morali, persone povere, infelici, sofferenti, che interpellano la coscienza di ogni cittadino. A Roma forse sentiamo più forte questo contrasto tra l’ambiente maestoso e carico di bellezza artistica, e il disagio sociale di chi fa più fatica. Roma è una città piena di turisti, ma anche piena di rifugiati. Roma è piena di gente che lavora, ma anche di persone che non trovano lavoro o svolgono lavori sottopagati e a volte indegni; e tutti hanno il diritto ad essere trattati con lo stesso atteggiamento di accoglienza e di equità, perché ognuno è portatore di dignità umana».
Nella vita sociale di Roma cresce la realtà drammatica delle povertà delle famiglie, che negli ultimi anni si è estesa anche a settori del ceto medio. Si pensi inoltre alla preoccupante condizione di tanti anziani che vivono in solitudine. In molte famiglie oggi il lavoro è l’assillo maggiore e il sollievo offerto attraverso sussidi non è risolutivo, perché «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro»[4].
Alla grave mancanza di lavoro si aggiunge, fra l’altro, la pericolosa e invasiva diffusione del gioco d’azzardoche coinvolge in maniera crescente le giovani generazioni e non risparmia neppure gli adulti e gli anziani. Spesso le famiglie in cui c’è un giocatore ne sono devastate. Un fenomeno che richiede interventi rapidi e decisi a livello culturale e normativo.
Quotidianamente Caritas diocesana, parrocchie e organizzazioni caritative sono investite direttamente dai problemi che richiedono risposte a favore di chi non ha una casa o ha perso il lavoro, dei padri e madri separati, degli anziani, degli immigrati o dei senza fissa dimora. A tutto ciò esse rispondono come è a loro possibile. Ma è urgente intervenire con politiche che attivino processi concreti atti a realizzare gradualmente soluzioni di equità sociale e di solidarietà.
Inoltre auspichiamo, nei diversi quartieri della città, la promozione di luoghi dove cittadini volontari, sensibili al bene comune, mettano a servizio di quanti vivono in condizioni precarie e di disagio la loro esperienza umana e professionale per indirizzarli ed accompagnarli nella soluzione dei loro problemi quotidiani (ad es. il disbrigo delle pratiche amministrative, le visite mediche, l’educazione scolastica dei figli, l’uso attento del denaro), così da sostenerli e rendere la loro vita meno amara, infondendo fiducia dove a volte c’è solo sconforto.
2 – L’accoglienza e l’integrazione
Gli immigrati – non solo i rifugiati, ma tutti gli stranieri stabilitisi a Roma – devono essere accolti come persone e aiutati, insieme alle loro famiglie, a integrarsi nella città e nella vita sociale. Purtroppo, non esistono formule certe per raggiungere al meglio questo obiettivo; ma possono e devono essere ricercate strategie efficaci e condivise. La comunità cristiana è impegnata a promuovere la cultura dell’incontro. Cittadini e immigrati, con le associazioni e i rappresentanti delle istituzioni, possono incontrarsi anche nelle parrocchie per dialogare, ascoltarsi, progettare insieme, e in questo modo superare il sospetto e il pregiudizio e costruire una convivenza più sicura, pacifica ed inclusiva, nel rispetto di tutte le minoranze.
In concreto, ciò significa: mettere in comune quello che si ha per i nuovi bisogni dei molti, vivere la reciprocità e la condivisione in strutture fisiche di ospitalità per l’incontro, per l’educazione civile, per ogni azione sociale che incoraggi nella pratica quotidiana l’integrazione, attraverso corsi di lingua italiana, di educazione civica e democratica, di storia e di diritto, di usi e tradizioni, di educazione alla salute e al benessere, anche mediante momenti di socialità relazionale e di conoscenza reciproca. Per implementare il dialogo, sarebbe utile organizzare eventi comuni contro la violenza e contro le stragi commesse in nome di Dio. Il dialogo con credenti di altre fedi religiose è una vocazione naturale del cristiano, nella certezza dell’unicità di Cristo Salvatore e dell’universale offerta di salvezza.
All’appello lanciato da Papa Francesco a che «…ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia [di profughi], incominciando dalla mia diocesi di Roma…»[5], un piano di azione è stato elaborato dalla Caritas diocesana in stretta collaborazione con la Prefettura e le altre Istituzioni civili, perché tutto si svolga ordinatamente. La generosità delle comunità cristiane – anche singole famiglie, che hanno aperto la loro casa a questi fratelli bisognosi – ci lascia ammirati e ci conforta.
La Chiesa si impegna a combattere con rinnovata energia ogni forma di sfruttamento prodotto dalla «cultura dello scarto»: dallo sfruttamento economico- abitativo degli studenti fuori sede e degli stranieri, a quello della prostituzione, della manodopera italiana e straniera spesso non adeguatamente tutelata.
3 – L’educazione
La cosiddetta ‘società liquida’ della non-durata, precaria e frammentata, orfana di spiritualità, e ancora confusa dal fallimento delle grandi ideologie, rischia di provocare – nell’era di Internet – un determinismo tecnologico per cui si spostano verso la ‘rete’ compiti che sono propri dei soggetti educativi, come ad esempio quelli di promuovere alla libertà e alla democrazia. Accanto alle indiscusse potenzialità delle nuove tecnologie, c’è il rischio di smarrire l’evidenza che esse sono soltanto uno strumento che non può espropriare la persona della libertà all’autodeterminazione.
Un altro rischio molto serio nei processi educativi è quello di emarginare l’educazione al pensiero critico a favore di una mitologia dello sviluppo economico, di cui non vogliamo disconoscere l’importanza. Non si può insegnare, però, alle nuove generazioni che l’unica cosa che conta è la crescita della quantità di denaro.
Il primo compito di una comunità che si preoccupa del futuro è l’impegno all’educazione culturale e morale. Non a caso la Chiesa Italiana ha scelto come obiettivo pastorale del decennio corrente l’impegno per “Educare alla vita buona del Vangelo”. Tutti siamo chiamati in causa: singoli, famiglie, istituzioni.
La scuola, l’università e i centri di formazione professionale, così numerosi a Roma, e tutti quelli che vi lavorano – educatori, insegnanti, docenti, personale dirigente o ausiliario – sono invitati a metter al centro del processo educativo delle nuove generazioni romane la crescita integrale della persona. Non fare sconti sull’impegno necessario per costruire una cultura di spessore, tutelare e includere gli alunni fragili e in difficoltà, promuovere il senso etico e civico, educare alla legalità, al rispetto reciproco e all’accoglienza di ciascuno: questo deve essere considerato un contributo prezioso e decisivo per edificare una città migliore.
Questa responsabilità educativa deve interessare anche l’uso competente e consapevole dei mezzi di comunicazione ormai insofferenti ad ogni tentativo di vera regolamentazione. Un impegno da intensificare soprattutto negli ambiti in cui la relazione educativa non è surrogabile dagli strumenti tecnologici: Internet non può bastare per diventare uomini e donne. In questa prospettiva è decisivo tornare ad appassionare i ragazzi e i giovani anche alla bellezza dei tesori di arte inestimabili che Roma custodisce come in uno scrigno unico al mondo. Lungo i secoli gli artisti hanno insegnato che la vita ha senso se vi è armonia, bellezza e verità. La bellezza dà respiro alla vita.
Sollecitiamo le autorità preposte a curare la formazione di educatori preparati e appassionati per favorire l’educazione alla relazione con gli altri, sia nella cerchia ristretta degli affetti prossimi che in quella più ampia degli ambienti di vita, l’educazione al rispetto delle differenze, l’educazione all’affettività e ad un esercizio responsabile della sessualità, l’educazione al servizio e al volontariato, l’educazione alla responsabilità ambientale. In questi delicati ambiti della crescita personale, genitori, insegnanti, educatori, formatori, siano figure adulte solide, affidabili e competenti.
4 – La comunicazione
Negli ultimi trent’anni il nuovo mercato dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto attraverso le televisioni, ha proposto immaginari sociali e modelli di vita spesso irreali, suscitando aspettative di successo e di benessere, e non di rado legittimando nell’opinione comune l’uso di mezzi moralmente censurabili per raggiungere tali obiettivi. Certo, non sono mancate le esperienze positive, che hanno unito molti professionisti laici e cattolici impegnati ad aprire vie nuove sui contenuti etici, umani, sociali, religiosi, nello sforzo di promuovere una comunicazione e una informazione attenta alla verità e allo sviluppo integrale della persona. Ma la realtà prevalente, purtroppo, è stata un’altra. Il mondo che presentano è troppo spesso un brutto posto dove non verrebbe voglia di vivere. Si è diffusa, ad esempio, una strumentalizzazione degradante dell’immagine della donna; si è fatto scempio della conflittualità familiare e di coppia, fingendo di volerla sedare; si è sdoganato un turpiloquio continuo che ha fatto saltare stili e modalità di relazioni; si è prodotta, e si produce ancora, una volgarità invadente; si sono legittimati comportamenti e atteggiamenti violenti e di prevaricazione; si è diffuso il gusto per l’orrore che ha finito col desensibilizzare, cioè rendere indifferenti rispetto al dolore degli altri, le coscienze più giovani; si è dato spazio ad un’ondata trasbordante e morbosa di cronaca nera, a cui non corrisponde il Paese reale; si è data voce ad una visione banale dell’esistenza.
L’attenzione ai grandi temi della vita – nascere, morire, sapere, saper essere, saper vivere insieme, credere, condividere… – è rimasta confinata ad esperienze di nicchia.
Si impone quindi l’urgenza di ricostruire una cultura collettiva più umana e più vera. Più attraente. L’attuale complessità del mondo dell’informazione e della comunicazione esige un impegno condiviso ed organico da parte delle migliori risorse laiche e ecclesiali della città. La Chiesa a Roma intende essere presente nell’agorà dei media, offrendo la sua voce ed il suo punto di vista. Tutti i cristiani che operano, a diverso livello, nel mondo dell’informazione e della comunicazione sono sollecitati ad impegnarsi per promuovere contenuti che investano il rapporto media-famiglia-cultura-solidarietà-giovani, attraverso scelte coraggiose di libertà, anche in questo ambiente, spesso pesantemente condizionato da interessi economici e di parte.
5 – Formare pazientemente la classe dirigente di domani
La complessità dei problemi che una metropoli come Roma deve affrontare richiede una classe dirigente competente e dedita al bene comune. Oggi si tende troppo spesso ad accomunare tutti i rappresentanti delle istituzioni in una condanna generalizzata e senza appello. Noi non vogliamo farlo: non dimentichiamo esempi di eccellente dedizione istituzionale e non puntiamo il dito su presunte responsabilità individuali. Però non si può negare che una delle cause dell’attuale situazione di crisi debba essere individuata anche nella debolezza di parte della classe dirigente. Troppo spesso persone di valore non hanno la forza di esprimere la propria vocazione al servizio del bene comune e di incidere beneficamente sulla società, mentre altri per brama di potere e desiderio smodato di arricchimento occupano posti nella direzione e gestione delle istituzioni senza le doti, la motivazione e la competenza necessarie per promuovere programmi e politiche di equità sociale a favore di tutti i cittadini.
Ne derivano nella vita della città vistosi squilibri tra chi è garantito in posizioni di sicurezza e tranquillità e quanti, deboli, meno provveduti o meno capaci, sono condannati ad una vita difficile, pesante, se non addirittura ad essere esclusi.
La comunità civile di Roma deve adoperarsi concretamente per procurare ad ogni cittadino e ad ogni famiglia lo sviluppo e il pieno esercizio della dignità umana, in una equilibrata relazione tra tutti gli ambienti nei quali si esercita la vita sociale. La classe dirigente è chiamata a fare il possibile per garantire a tutti dignità piena e il necessario per formare e mantenere una famiglia. Assicurare ad ogni famiglia la casa, il lavoro, l’assistenza sanitaria e il diritto primario ad educare, è l’impegno inderogabile a cui deve tendere la classe dirigente nell’esercizio dei suoi poteri e delle sue responsabilità pubbliche.
Occorre sviluppare la consapevolezza diffusa che una buona società non può esistere senza un impegno civile e politico svolto con competenza, dedizione e nobiltà di spirito.
Riteniamo che con coraggio si debba avviare il “cantiere” per costruire adeguati cammini di formazione pre-politica aperti a tutti, particolarmente alle migliori energie giovanili, portatrici di nuove idee e prospettive di speranza, per rimotivare anzitutto i credenti all’impegno politico come servizio verso la società ed esercizio supremo della “carità sociale”. È urgente riattivare le politiche dal basso, quelle sussidiarie, che permettono ai cittadini di ritrovarsi e elaborare soluzioni condivise intorno a temi e a problemi concreti del loro territorio.
La Diocesi di Roma ha cominciato a lavorare già da qualche anno in questa direzione: nel Convegno delle aggregazioni laicali ecclesiali e di ispirazione cristiana, del 7-8 marzo 2014, su “La missione dei laici cristiani nella città”, ha dato vita ad un “Osservatorio sulla città”, che ha il compito di “fare rete” tra le associazioni, le aggregazioni laicali e i laici presenti sul territorio e di promuovere iniziative di formazione e di confronto pubblico nei vari ambienti, anche per coinvolgere quanti, pur non riconoscendosi nella fede cristiana e nella Dottrina sociale della Chiesa, desiderano conoscerne meglio i contenuti e convergere sul terreno del bene comune. Tale impegno sarà intensificato, affinché il contributo dei cristiani alla vita sociale e politica possa essere lievito che fa crescere tutta la collettività.
Conclusione
In questo momento di grandi cambiamenti epocali, il Giubileo della Misericordia è una grazia per la Chiesa e per ogni cristiano. Tutti siamo chiamati – ha affermato il Papa – «ad offrire più fortemente i segni della presenza e della vicinanza di Dio. Questo non è il tempo per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. È il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre (cfr. Gv 20,21-23)»[6].
Desideriamo con tutto il cuore contribuire alla rinascita della nostra città per un motivo semplice: la città è la nostra casa comune. È in questo spazio che noi sviluppiamo e condividiamo la nostra umanità e fraternità. Lo facciamo con speranza ed entusiasmo, fiduciosi nel cambiamento auspicato da tutti, per costruire una città più giusta, più solidale. Ma lo facciamo anche praticando le opere di misericordia. Perché la misericordia, vogliamo sottolinearlo, è la perfezione della giustizia in un mondo fragile e imperfetto.
La Chiesa di Roma vuole fermarsi, inginocchiarsi e offrire il proprio aiuto davanti alle sofferenze degli uomini. Roma ha urgente bisogno di questo “supplemento d’anima” per essere all’altezza della sua vocazione e delle nostre attese di speranza.
Dal Vicariato, 9 novembre 2015
Dedicazione della Basilica Lateranense
Il Cardinale Vicario Agostino Vallini
e il Consiglio Pastorale Diocesano
[1] Cfr. S. Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, I,1.
[2] Omelia del Te Deum, 31 dicembre 2014.
[3] Papa Francesco, Enciclica Laudato sì, n. 151.
[4] Enciclica Laudato sì, n. 128.
[5] Angelus, 6 settembre 2015.
[6] Omelia ai Vespri, 11 aprile 2015.
Riprendiamo da Avvenire del 16/10/2015 un articolo di Luigi Ballerini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educazione e scuola, nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Un’altra tragedia in gita. Un altro ragazzo morto, caduto di notte dalla finestra senza che nessuno se ne accorga. Un fatto clamoroso e doloroso che ci lascia sconcertati riempiendoci di dubbi e domande. Ma come vivono i ragazzi? E queste gite, vanno davvero fatte? Non sarebbe meglio abolirle in nome della sicurezza? Anche in questo caso i compagni hanno infatti ammesso che in camera si era bevuto e fumato, sebbene convenga ora astenersi dal fare speculazioni su cosa sia realmente accaduto.
«Ma i ragazzi l’hanno sempre fatto in gita!», si sente dire da più parti con un certo fatalismo e l’idea dell’inevitabilità di tali comportamenti. Può darsi, ma in questi tempi c’è un elemento nuovo da considerare: stare insieme non è più scontato.
La vera sbornia per i ragazzi di oggi è quella digitale, quella dei rapporti fatti di messaggi in chat o sui social con una progressiva riduzione degli incontri reali, in luoghi fisici. C’è bisogno che la prossimità dei corpi torni a essere esperienza oltre l’obbligo delle mattine a scuola. Passare il tempo insieme e condividere lo spazio fuori dalla classe costringe a farsi venire delle idee, a prendere iniziativa per rendere piacevole o almeno tollerabile la convivenza. Non è augurabile che l’unica idea sia stordirsi e annebbiarsi alla ricerca di una via facile per accettare gli altri e farsi accettare. Si può fare di meglio.
Per questo ha ancora senso oggi portare le classi in gita, anzi forse più di ieri. La scuola che esce, che si allarga, che altrove si fa compagnia concreta può costituire una vera occasione di esperienza e di rapporto. Conoscere una città nuova, visitarne i musei e i monumenti, assaporarne la vita per le strade insieme ai compagni fa parte di quel lavoro personale di coltivazione della propria cultura che può fare da iniziatore e promotore della volontà di stare bene.
La voglia di annebbiarsi passa con il desiderio di restare lucidi e svegli perché c’è qualcosa di interessante da fare, perché gli occhi devono vedere e le orecchie ascoltare. Resistiamo alla tentazione di ridurre l’offerta ai più giovani, non sgomentiamoci noi per primi. Loro sapranno sorprenderci anche in positivo, se gliene daremo la possibilità.
Riprendiamo dalla rivista “Radici Cristiane”, 102, marzo 2015, p. 77, una recensione di Sara Magister. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Caravaggio, nella sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Alessandra Rodolfo (ed.), Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose
meravigliose, Edizioni Musei Vaticani, Città del Vaticano 2014, pp. 269,
euro 75. Testi di M. Bona Castellotti, M. Bussagli, M. Cardinali, E.A. Cerrato,
M. Dal Bello, M.B. De Ruggieri, A. Geretti, E.M. Giuffrè, R. Giuffrè,
A. Lonardo, A. Paolucci, A. Rodolfo, T. Verdon
“Più si esercita il senso critico sulla leggenda moderna del pittore blasfemo e irridente, violento e disordinato, e più accuratamente si studiano le fonti, più si comprende che in quella paradossale anima che fu di Michelangelo Merisi abitava la fede, la fede cattolica, quantunque in una umanità che i chiaroscuri li aveva tutti dentro” (p. 197). Parole, tratte da un magistrale saggio di Mons. Alessio Geretti all’interno del volume, che sintetizzano l’obiettivo di questo studio, nel quale alcuni autorevoli storici della Chiesa e storici dell’arte si sono incontrati con la curatela di Alessandra Rodolfo.
Il risultato è un libro che affronta la “questione Caravaggio” da un punto di vista, quello della fede espressa dalle sue opere, del tutto inedito. Perché se è vero che la tematica aveva già avuto i suoi primi pionieri nel secolo appena passato, negli storici dell’arte Maurizio Calvesi e Irving Lavin, nessuno aveva mai pensato di proporla ad appartenenti ad altre discipline, come Andrea Lonardo, Alessio Geretti, Timothy Verdon, valenti storici della Chiesa e sacerdoti che hanno fatto del connubio tra arte e fede il loro principale strumento di catechesi.
Il finale è del tutto inaspettato, perché tra gli storici della Chiesa e gli storici dell’arte, chi riesce a portare una concreta ventata di novità di lettura, chi riesce a penetrare e ad esprimere meglio il pensiero religioso delle opere del Merisi, sono proprio gli studiosi sacerdoti.
Non è un caso però: nonostante siano stati coinvolti gli storici dell’arte più illuminati da questo punto di vista, nessuno di loro riesce a liberarsi del tutto da certi ipse dixit caravaggeschi cronicizzati da secoli di critica (errata) e che, pur contraddetti dai documenti, continuano a essere reiterati automaticamente. Il pensiero più libero, e più teologicamente competente, degli storici della Chiesa, apre invece nuove prospettive di analisi, che dimostrano quanto un adeguato approccio teologico sia ormai necessario, per la piena comprensione dell’arte sacra prodotta dall’artista.
Il libro è tutto incentrato su Roma, perché si occupa esclusivamente delle opere sacre del Merisi ancora oggi presenti nelle chiese di S. Luigi dei Francesi, S. Agostino e S. Maria del Popolo, alle quali è stata aggiunta la Deposizione, un tempo in S. Maria della Vallicella e ora nella Pinacoteca Vaticana. Ognuna di queste opere è analizzata con diverse prospettive e competenze da almeno tre-quattro studiosi. Alcuni testi sono più divulgativi che filologici, ma ognuno offre qualcosa di utile e di nuovo rispetto all’immensa bibliografia già prodotta su Caravaggio, di cui oltre la metà non fa altro che ripetere il già detto da altri, spesso per compiacere esigenze puramente commerciali.
Un solo rimpianto: il libro sarebbe stato più completo se avesse dedicato uno spazio al pari ad altre due opere destinate a chiese romane, ma che in tali luoghi per vari motivi ci rimasero poco. Si tratta della Madonna della Serpe, per l’altare dei Palafrenieri nella basilica di S. Pietro e ora in Galleria Borghese a Roma, e della Morte della Vergine, per la chiesa di S. Maria della Scala, ora al Louvre di Parigi. Due opere magistrali, teologicamente profondissime, ma purtroppo incomprese ai più, e proprio per questo bisognose di qualcuno che, in libertà di pensiero, possa gettarvi una nuova luce.
Riprendiamo dal sito Notiziegay un articolo di Zoé Valdés con un’introduzione sulla celebre foto di alberto Korda che lo accompagnava. I due testi sono stati pubblicati su quel sito il 9/10/2007. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Una foto scattata da Alberto Korda e riprodotta nel corso degli anni su milioni di magliette, poster e oggetti kitsch, ha contribuito al fatto che la figura di Ernesto Che Guevara, a 40 anni dalla morte, continui a vivere tra le nuove generazioni.
Quell'immagine, intitolata Guerrillero Heroico, fu scattata nel 1960 da Korda, alias Alberto Diaz Gutierrez, divenuto fotografo personale di Fidel Castro dopo aver lavorato nel mondo della moda. Korda scattò due foto mentre Guevara saliva sul podio durante il funerale di 140 cubani uccisi da un'esplosione. Il comandante si trovava tra un uomo e delle foglie di palma, ma Korda, impressionato dall'intensità dell'espressione del Che, decise di isolarne il volto "encabronado y dolente" (corrucciato e triste) e nacque quel primo piano, destinato a diventare un'icona. Praticamente sconosciuta prima di essere riprodotta in Italia in occasione della morte di Guevara, l'immagine divenne rapidamente in tutto il mondo il simbolo della rivolta studentesca del '68. Comparve su poster, magliette, murales e fu usata in una miriade di dimostrazioni negli anni che seguirono.
Ma è anche vero che da allora l'immagine di Korda vive di luce propria e se continua a rappresentare in America Latina, Medio Oriente e Asia lo spirito rivoluzionario e indomito contro oppressione e tirannia, resta un fenomeno contemporaneo, entrato di prepotenza nel mondo della cultura popolare, della moda, delle celebrità.
A questa foto la Triennale Bovisa di Milano ha dedicato una mostra nei mesi scorsi, "The Legacy of Korda Portrait", con l'intento di spiegare perché lo scatto di Korda continua ad essere, a distanza di quasi 50 anni, il simbolo della rivoluzione e della contestazione giovanile. In copertina per l'album American Life di Madonna o nell'opera di Pedro Meyer American Five Dollar Bill (in cui il viso di Abraham Lincoln è sostituito da quello del Che), l'immagine di Guevara continua ad avere una natura sia populista che controculturale. Anche oggi che è oggetto di caricature e parodie, è al tempo stesso utilizzata come grido di protesta politica da parte dei movimenti più disparati, che si battono per la cancellazione del debito, per l'anti-americanismo, per l'identità latino-americana, per i diritti degli omosessuali e delle popolazioni indigene. ------
Le pazze e il Che, di Zoé Valdés, scrittrice cubana esiliata a Parigi
I miei migliori amici sono omosessuali. Anche mio fratello e mia sorella lo sono. Senza dubbio, non dovrei iniziare questo articolo chiarendo la mia posizione se criticare certe idee frivole o posture ideologiche dei gay non fosse considerato politicamente scorretto. Durante le ultime vacanze estive, ho incontrato molti ragazzi con magliette che mostravano la famosa immagine del Che del fotografo cubano Corda (anche se si dice che i diritti d'autore vengono riscossi dalla dittatura castrista da chissà quanto tempo). Mi sono avvicinata ai ragazzi e ho potuto constatare dalle loro conversazioni e dal loro modo di muoversi che nelle loro anime albergava la "bayamesa", uno dei tanti modi poetici che usiamo noi cubani per descrivere le caratteristiche effeminate degli uomini. Vivo nel Marais, quartiere parigino bohemienne nel quale abita una buona parte della comunità omosessuale, maschile per la maggioranza, dove c'è un grande fiorire di boutiques dedicate a questo genere. Intellettuali borghesi, negozianti ebrei, librai e commercianti culinari si spaventano per l'invasione di negozi cinesi, traiteurs asiatici e locali notturni per omosessuali.
Amo il mio quartiere per la sua amalgama di generi, ma non posso sopportare la troppa frequenza di magliette con l'immagine del Che, che invadono le vetrine dei negozi di abbigliamento per "mariposas" (altra licenza poetica per indicare i gay). Il Che in tutti i colori e a prezzi esorbitanti. All'inizio dell'anno ho organizzato un'esposizione di disegni erotici del mio amico Ramón Unzueta, pittore cubano, in una delle mie librerie preferite, Les Mots à la Bouche. Alcuni mesi dopo, sempre nello stesso posto, firmavo esemplari del mio romanzo "Lobas de mar" tradotto in francese. Mi sono affezionata molto al libraio, Walter Alluch. E' un uomo alto, attento, servizievole, che quando mi consiglia un libro colpisce sempre nel segno. E' stato il caso di "La mauvaise vie" di Fréderic Mitterrand, autore che ammiro da quando faceva quei meravigliosi programmi sul cinema francese alla televisione. L'autobiografia di Fréderic Mitterrand è un gioiello letterario e umano e, visto che mi ha intervistato alcune volte, abbiamo potuto conversare su Cuba.
Il suo punto di vista sulla dittatura è chiarissimo. Mi affascina rimanere rincantucciata in un angolo della libreria e guardare i film e gli album erotici. Mi sono sorpresa quando, curiosando tra i dvd, mi sono imbattuta in un film porno girato a Cuba, sulla cui copertina sorrideva un giovane cubano, nudo dalla cintura in giù, che mostrava le sue parti intime (e che parti)! Aveva il busto coperto, non poteva essere altrimenti, da una maglietta con la figura del guerrigliero su sfondo nero. Mi sono detta: "Eccolo là, l'uomo nuovo!". Oggi ho incontrato una giovane "checca" asiatica, mani sui fianchi, dimenarsi di anche e occhiolino languido. Ovviamente portava una maglietta "chea", che a Cuba vuol dire ridicola. Non ho potuto contenermi, le ho chiesto se sapeva chi era il Che. Ha sorriso timidamente senza rispondermi. Arrivata a casa ho chiamato un amico omosessuale. Mi ha spiegato che questa euforia "culattona" (parola sua!) per il Che deriva dal film di Walter Salles.
Nel maggio del 2004 si proiettava al festival di Cannes "I diari della motocicletta", il cui tema è il viaggio e la scoperta personale del continente latinoamericano di due giovani a bordo di una vecchia moto, Ernesto Guevara, 23 anni, studente di medicina, e Alberto Granado, 29 anni, biochimico. Il mio amico mi spiega che un numero rilevanti di omosessuali hanno dedotto che il Che era una "checca" perché nel film era interpretato da Gael García Bernal, che nello stesso periodo interpretava la parte dell'omosessuale nel film di Almodovar "La mala educaciòn".
La contraddizione è lampante. Il guerrigliero argentino odiava gli omosessuali e li ha perseguitati in ogni modo possibile a Cuba e ora è diventato, dopo essere stato l'eroe del maggio francese, il martire dell'orgoglio gay. Curioso. Il personaggio più omofobico che hanno partorito le rivoluzioni del Novecento ha finito per essere adorato da questo pubblico consumatore di fanatismi di sinistra.
Propongo un esempio apparso su "El Nuevo Herald digital" il 28 dicembre 1997, che ci spiega come assassinava il Che. Il suo autore è Pierre San Martin. "Erano gli ultimi giorni del 1959. In quella cella fredda e scura sedici prigionieri dormivano per terra e noi altri sedici rimanevamo in piedi per permettere loro di sdraiarsi, ma questo non ci preoccupava, l'unico nostro pensiero era che eravamo vivi e questo era l'importante. Vivevamo ora per ora, minuto per minuto, secondo per secondo senza sapere cosa sarebbe successo l'attimo seguente.
Un'ora prima del cambio della guardia sentimmo la porta di ferro aprirsi e lanciarono una persona nella già affollata cella. Con l'oscurità non potemmo renderci conto che era un ragazzino di dodici, massimo quattordici anni. - E tu perché sei qui? - chiedemmo quasi all'unisono. - Perché ho provato a difendere mio padre, ma l'hanno fucilato ugualmente, quei figli di puttana.- ci rispose, guardandoci con la faccia ferita e insanguinata. Ci guardammo per cercare una risposta consolatrice per il ragazzo, ma non la trovammo. Avevamo già tanti problemi...
Erano già due o tre giorni che non si fucilava e cominciavamo a sperare che quell'incubo fosse finito. Le fucilazioni sono impietose, ti tolgono la vita quando più la necessiti per te e per i tuoi cari, senza ascoltare i tuoi desideri di vita. La nostra allegria durò poco. La porta si aprì di nuovo e chiamarono dieci di noi, compreso il ragazzo. Non li avremmo più rivisti. Come si poteva togliere la vita a un ragazzino in quella maniera? O forse ci sbagliavamo, forse stavano per liberarci? Vicino al muro dove si fucilava, con le mani sui fianchi, camminava l'abominevole Che Guevara. Diede l'ordine di portare per primo il ragazzo e gli ordinò di inginocchiarsi.
Tutti gli gridammo di non fare quel crimine e ci offrimmo al posto del condannato. Il ragazzo disubbidì, con un coraggio indescrivibile rispose all'infame figuro: - Se mi devi uccidere devi farlo come si fa con gli uomini, in piedi, e non in ginocchio come i vigliacchi. Andandogli dietro, il Che ribatté: - Vedo che sei un giovane valoroso... Sfoderò la pistola e gli sparò un colpo alla nuca che quasi gli tagliò il collo. Tutti gridammo: "Assassini, vigliacchi, miserabili" e molto altro. Si girò verso la finestrella da cui provenivano le grida e svuotò il caricatore. Non so quanti ne uccise e ferì. Ci rendemmo conto di questo incubo, dal quale non potremo mai svegliarci, dopo un po', nell'ospedale Calixto García, dove ci avevano portati feriti. Capimmo dopo non so quanto tempo che la nostra unica salvezza era la fuga, la nostra unica speranza di sopravvivere".
Cito integralmente questa testimonianza perché la comunità gay, con la quale mi identifico e con la quale solidarizzo, si renda conto che esibire l'immagine del Che come moda costituisce un insulto per molte delle sue vittime, fra le quali grandi scrittori gay cubani, per esempio Virgilio Piñeira e Reinaldo Arenas. Senza contare i bambini che sono cresciuti traumatizzati dalla famosa frase: "Saremo come il Che". Vale a dire, guerriglieri e terroristi.
A bientôt
Riprendiamo dal Corriere della sera del 28/10/2015 un articolo scritto da Fiorenza Sarzanini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Il piano era chiaro: 40 mila migranti da trasferire in due anni. Eritrei e siriani via dall’Italia per essere ospitati negli Stati dell’Unione Europea che avevano accettato l’agenda messa a punto dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker.
Un mese dopo la sigla dell’accordo siglato per «alleggerire» la situazione anche in Grecia e Ungheria dopo le migliaia di arrivi dei mesi scorsi, il progetto si rivela quello che in molti temevano: un flop.
Per raggiungere il risultato bisognava infatti far partire 80 stranieri al giorno. E invece in un mese soltanto 90 hanno lasciato il nostro Paese: 40 sono andati in Svezia, 50 in Finlandia. I «nulla osta» sono solo 525. Gli altri rimangono in attesa e a scorrere la lista delle disponibilità rischiano di dover aspettare per mesi, forse per sempre. Perché sono appena 525 le richieste accolte, ma nessuna con effetto immediato.
Si materializzano dunque i timori del ministro dell’Interno Angelino Alfano che aveva più volte ribadito la linea del governo: «Apriremo i cinque «hotspot» imposti dalla Ue per effettuare l’identificazione e il fotosegnalamento dei migranti soltanto quando andrà a regime la redistribuzione». E infatti al momento funziona in via sperimentale soltanto Lampedusa, sul resto la partita è aperta.
E certamente - soprattutto dopo il chiarimento proveniente proprio da Juncker - il governo farà pesare il proprio impegno nell’accoglienza per ottenere da Bruxelles la maggiore flessibilità possibile nella tenuta dei conti pubblici. Anche tenendo conto che solo per quest’anno i costi hanno superato il miliardo di euro.
Dieci in Germania venti in Francia. Il sistema «Dublinet» è una sorta di cervellone dove vengono inserite le schede di tutti gli stranieri «registrati» e le indicazioni sulle possibili destinazioni. Tutti gli Stati membri sono collegati e gli uffici competenti accedono in tempo reale.
In Italia è gestito dal Dipartimento Immigrazione del Viminale diretto dal prefetto Mario Morcone. I richiedenti asilo non possono esprimere preferenza sul Paese dove andare, ma durante il vertice a Bruxelles si era stabilito di tenere conto di eventuali motivi per privilegiare una meta piuttosto che un’altra: presenza di familiari, conoscenza della lingua.
Evidentemente anche questo non è stato però sufficiente per convincere i vari governi a concedere il via libera. La Germania - nonostante la cancelliera Angela Merkel avesse addirittura dichiarato pubblicamente di voler accogliere tutti - ha dato disponibilità per dieci posti. Va un po’ meglio con la Spagna: 50 persone. Appena 20 per la Francia. La Svezia ne può prendere 100, la Finlandia ne accetterà 200. Sul resto, buio totale.
Tra i Paesi che avevano mostrato apertura, sia pur timida, c’erano Olanda e Portogallo. E invece nulla, al momento hanno comunicato che non possono prendere nessuno. Tutto fermo sugli «hotspot».
A questo punto bisogna attrezzarsi. Secondo i dati aggiornati al 25 ottobre sono giunti nel nostro Paese 139.770 persone, tra loro 37.495 eritrei e 7.194 siriani. In tutto sono dunque 44.689 gli stranieri tra i quali si sarebbe dovuto scegliere chi far andare altrove.
Rispetto allo scorso anno c’è stata una sensibile diminuzione degli sbarchi, pari al 9 per cento, visto che nel 2014 furono 170.100. Molti di loro sono tuttora presenti e distribuiti nelle strutture governative e in quelle temporanee reperite dalle prefetture nelle Regioni utilizzando anche alberghi, residence, campeggi.
L’Italia finora ha speso un miliardo e 100 milioni di euro, dall’Europa è previsto che arrivino appena 310 milioni di euro. Una cifra irrisoria, soprattutto tenendo conto che altri soldi dovranno essere stanziati per l’apertura degli altri «hotspot» a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani. Per ora si è deciso però di fermare tutto.
Visti i primi risultati, il governo ha deciso di bloccare l’apertura dei centri di smistamento. Del resto tutti i tentativi, anche recenti, di varare un piano comunque con gli altri Stati sono falliti miseramente e i numeri contenuti nel cervellone «Dublinet» ne sono la prova più evidente. «Forse perderemo consenso e voti, ma salvando quelle vite salviamo l’idea di Italia», dichiara Matteo Renzi. Il governo dunque conterà sulle proprie forze, ma con la pretesa di ottenere da Bruxelles un margine più ampio sui conti.
© Corriere della sera RIPRODUZIONE RISERVATA
Riprendiamo dal blog LaCooltura un articolo di Christian Sabbatini pubblicato l’11/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura e, in particolare:
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Il nome di Dio nella Bibbia è espresso in modi differenti e questo, negli ultimi secoli, ha dato adito a delle diatribe sulla corretta versione o pronuncia di YHWH. Non si tratta solo di eventi passati, è recente e consolidata la polemica per la quale il nome di Dio nel testo ebraico, ovvero YHWH, sarebbe da leggere Geova.
YHWH, Geova: una lettura scorretta
YHWH: Le 4 consonanti del tetragramma sacro, da destra a sinistra
Chiariamo subito questa questione annosa e banale. È lecito definirla banale, perché l’alternativa Dio/Signore o Geova per YHWH è una falsa alternativa. La pronuncia Geova nasce dall’ignoranza della regola grammaticale qerê-keṯîḇ dell’ebraico biblico. La cosa sorprendente è che non si tratta di una finezza grammaticale nota solo agli esperti, agli specialisti. La regola del qerê-keṯîḇ è qualcosa di semplicissimo, che un principiante inizia a conoscere nei primissimi giorni del suo studio.
qerê-keṯîḇ è un’espressione aramaica che significa ‘letto-scritto’ e rappresenta un espediente introdotto dai Masoreti nel medioevo per salvaguardare la corretta pronuncia dell’ebraico biblico. L’ebraico biblico è una lingua consonantica, ovvero priva di vocali nel testo scritto; queste venivano aggiunte a memoria alla lettura delle consonanti. Ad esempio, utilizzando l’italiano, la parola “libro” con questo sistema si scriverebbe -lbr- ma sarebbe normalmente letta ‘libro’ .
I Masoreti nel medioevo dovettero constatare che la tradizione orale stava ormai disperdendosi. La trasmissione mnemonica delle vocali corrette stava per essere dimenticata, così introdussero dei segni nel testo, all’apice o al pedice, per non alterarlo, in modo da scongiurare il peggio. Seguendo l’esempio di prima il termine ‘libro’, scritto -lbr- nell’ebraico biblico, verrebbe trasformato dai Masoreti in -libro -.
Quindi, attraverso l’invenzione di un apparato complesso di segni, come evidenzia l’immagine sotto, questi studiosi medievali riuscirono a trasmettere la pronuncia corretta senza alterare la sequenza consonantica dei testi.
Il qerê-keṯîḇ venne introdotto per segnalare delle eccezioni: non tutte le parole dovevano essere pronunciate così come erano scritte, ma secondo un’altra pronuncia. Esistono vari tipi di qerê-keṯîḇ nell’ebraico biblico, il più celebre è quello che riguarda il tetragramma YHWH, il nome di Dio.
Un esempio della complessità e della varietà dei segni introdotti dai Masoreti all’apice o al pedice delle consonanti.
YHWH: il nome proprio di Dio
Il nome proprio di Dio nella Bibbia è scritto con quattro consonanti: YHWH, il cosiddetto tetragramma sacro. Questo termine era considerato talmente sacro da non essere mai pronunciato, se non per un giorno all’anno, nella solennità dello jôm kippûr ed esclusivamente dal sommo sacerdote in carica.
Per evitare che il nome di Dio fosse profanato, venendo pronunciato in un’altra occasione, fin dal I secolo, quando durante la lettura della Bibbia si incontrava il tetragramma sacro, esso non veniva pronunciato e al suo posto veniva letto il termine ’āḏôn e cioè Signore.
I Masoreti mantennero questa secolare tradizione vocalizzando il termine YHWH con le vocali del termine ’āḏôn per ricordare inequivocabilmente che il nome di Dio andasse letto sostituendolo con Signore. Non si conosce con certezza la pronuncia originaria e quindi le vocali originarie da aggiungere alle quattro consonanti.
Secondo gli studiosi è altamente probabile che il nome proprio di Dio, YHWH, si pronunciasse Yahweh: lo testimoniano delle antiche trascrizioni del testo ebraico, fra cui una di Clemente d’Alessandria negli Stromata 5,6 vissuto tra il II e il III secolo; lo suggerisce anche il testo di Esodo 3,14 nella definizione enigmatica che Dio da di sé stesso utilizzando il verbo essere.
In ogni caso, la pronuncia “Geova” per il nome di Dio YHWH è grammaticalmente sbagliata appunto perché le vocali di ’āḏôn vennero trapiantate nelle quattro consonanti del tetragramma sacro per evitare che venisse pronunciato anche solo per errore. La pronuncia scorretta “Geova” è attestata per la prima volta nell’anno 1381 e divenne d’uso più comune dal 1500.
Il termine ebraico ’āḏôn e cioè s/Signore
YHWH e la sostituzione vocalica dei Masoreti
Mostriamo che cosa fecero i Masoreti con le parole YHWH e ’āḏôn seguendo l’esempio precedente e utilizzando le parole italiane “libro” e “pèsca”. Le vocali di un termine vennero trapiantate nell’altro:
libro e pèsca, che secondo il sistema consonantico dell’ebraico biblico si scriverebbero -lbr- e -psc-, secondo la vocalizzazione dei Masoreti diventerebbero libro e pèsca.
Per evitare la pronuncia, ecco lo spostamento che si verificò: le vocali di pèsca vennero trapiantate su libro, ottenendo così l’ibrido lèbra. Le consonanti di una parola, in questo caso “libro”, nella Bibbia YHWH, vennero unite alle vocali di un’altra, in questo caso pèsca, nella Bibbia quelle di ’āḏôn e cioè Signore.
Oltre alla sostituzione delle vocali, per evitare ogni possibile fraintendimento, il tetragramma è anche vocalizzato in modo scorretto violando un’altra regola grammaticale fondamentale, così da rendere evidente la questione. Nell’ebraico biblico ogni consonante deve essere seguita da una vocale, non possono esserci due consonanti o due vocali consecutive. La lettura di Geova per YHWH non solo nasce dall’ignoranza della regola spiegata sopra, quella della sostituzione delle vocali, ma anche di quest’altra.
I Masoreti resero evidente la sostituzione delle vocali violando la regola di proposito, in modo da rendere palese al lettore che si trovava di fronte ad un qerê-keṯîḇ, cioè ad una parola scritta in un modo ma che andava letta in un altro. Alla consonante W del tetragramma YHWH vennero applicate le due vocali finali di Geova. In questo modo riuscirono a fornire un’indicazione ancora più esplicita rispetto all’operazione precedente. In realtà si trattò solo di uno scrupolo: YHWH è letto come ’āḏôn fin dal I secolo, non è possibile ignorare questa consuetudine secolare.
Quindi, ogni volta che i lettori avessero incontrato YHWH, il tetragramma vocalizzato male, si sarebbero subito ricordati di leggerlo in modo diverso: ’āḏôn al posto di YHWH, cioè Signore al posto di Yahweh.Seguendo il nostro esempio riportato sopra, avrebbero letto -pèsca-, e non -libro-, trovandosi di fronte a lèbra.
Un caso così semplice è ancora oggi sconosciuto ai più e gli equivoci sono molti. Stupisce trovare all’interno del grande dizionario inglese-italiano/italiano-inglese Garzanti 2010 il termine inglese “Yahveh” tradotto in italiano con “Geova”.
Una singola definizione fiocca di errori. Innanzitutto “Geova”, come abbiamo mostrato, rappresenta la pronuncia scorretta di YHWH vocalizzato con altre vocali. Quindi al massimo Geova sarebbe l’italiano per Jehovah inglese e non l’italiano di Yahveh: Yahweh non è né inglese né italiano e non deve perciò essere tradotto. Inoltre, sia in ambito anglosassone che in italiano, Yahweh è sempre scritto con la -w-rispettando le consonanti ebraiche YHWH e non come fa il grande dizionario Garzanti senza v doppia e cioè Yahveh.
Riprendiamo da Avvenire del 3/10/2015 un’intervista di Lucia Capuzzi a Agustín Udías Vallina. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Scienza e fede nella storia nella sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Il più famoso, almeno negli Stati Uniti, è padre Emilio Sandoz, protagonista di The Sparrow di Mary Doria Russell. Vi sono, però, almeno altri sette romanzi di fantascienza che hanno come personaggio principale un gesuita-ricercatore. I campi di indagine variano dalla linguistica all’astronomia. La Compagnia come vivaio di talenti scientifici, invece, resta costante nell’immaginario letterario.
«Una lunga tradizione popolare associa i gesuiti alla scienza. Il che si fonda sulla realtà storica. Tanti ordini e congregazioni cattolici vantano studiosi di rilievo fra i loro esponenti. Gli agostiniani, ad esempio, hanno avuto una figura del calibro di Gregor Mendel. La presenza della Compagnia nel mondo scientifico, tuttavia, è stata continuativa, dall’esordio cinquecentesco fino alla contemporaneità. E ha avuto, sin dal principio, una forte dimensione istituzionale». Agustín Udías Vallina è la dimostrazione di tale consuetudine: il sacerdote gesuita è docente emerito di geofisica alla Complutense di Madrid e membro della prestigiosa Academy of Europe. La sua esperienza personale ha contribuito a portarlo ad indagare il rapporto plurisecolare tra i confratelli di Ignazio da Loyola e la varie discipline scientifiche.
Il risultato è Los jesuitas y la ciencia. Una tradición en la Iglesia (I gesuiti e la scienza. Una tradizione nella Chiesa) pubblicato in Spagna dal Mensajero e ora disponibile anche in inglese (Jesuit contribution to science: an history) per Springer. Il saggio non si limita a raccontare il contributo dato alla conoscenza dagli uomini della cosiddetta prima Compagnia, quella precedente, cioè, dello scioglimento, nel 1773. Udías Vallina offre, per la prima volta, una panoramica esaustiva anche dei gesuiti che, tra Ottocento e Novecento – dopo la restaurazione dell’ordine nel 1814 –, si dedicarono all’astrofica, alla geofisica, alla mineralogia, non trascurando paleontologia e biologia. Un caleidoscopio di 361 storie, arricchite da aneddoti e curiosità. «Ce ne sono molte altre, ma non ho potuto includerle per questioni di spazio», racconta il geofisico.
Da che cosa dipende questa “vocazione” scientifica della Compagnia?
«Vi è, innanzitutto, un fattore storico. La sua costituzione, nel 1540, coincide con l’esordio della scienza moderna. La Compagnia assume come priorità il lavoro in ambito educativo, con la fondazione di collegi – 600 solo in Europa – e università. Il fatto di non avere alle spalle una lunga tradizione dottrinale, come ad esempio dominicani e francescani, le permette di introdurre nei programmi le nuove correnti delle scienze matematiche e sperimentali. È emblematica, a tal proposito, la battaglia di padre Christopher Clavius per l’inserimento della matematica nei curricula scolastici, come base per lo studio dei fenomeni naturali, in contrasto con la tradizione aristotelica. Grazie al suo impegno, la Ratio studiorum impone a tutti i collegi di avere un docente fisso per la materia. A questo dato storico, si aggiunge la peculiarità della spiritualità ignaziana di essere una “mistica del servizio”. L’invito di Sant’Ignazio a «trovare Dio in tutte le cose» rende queste ultime, le persone, le circostanze, occasioni per incontrare il Creatore. Da qui, lo slancio dei gesuiti in ogni campo dell’umano, incluso quello scientifico. Quest’ultimo rappresenta, infine, una “frontiera”, ambito prediletto dalla Compagnia. Spesso, soprattutto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, scienza e fede sono state considerate lontane o addirittura inconciliabili. Gli studiosi gesuiti dimostravano e dimostrano l’esatto contrario. Nel 1954, il sacerdote, sismologo ed esploratore Daniel Linehan, fece incidere sulla base del calice: «Prima Messa nel polo nord magnetico».
I gesuiti hanno avuto un ruolo di primo piano nella diffusione delle scienze europee nelle cosiddette terre di missione.
«Già con Matteo Ricci e le sue traduzioni di Euclide, la scienza europea è arrivata in Cina. Il dominio da parte dei gesuiti di matematica e astronomia ha fatto in modo che l’imperatore affidasse loro la riforma del calendario: quello cinese presentava forti inesattezze a causa di tavole astronomiche carenti. Ciò ha consentito agli uomini della Compagnia di avere influenza a corte e minori ostacoli nella loro azione di evangelizzazione. In America Latina, sono stati i gesuiti i primi cartografi. Come José de Acosta, lo “scopritore” della pianta di coca e del mal d’altitudine».
Quale è stato secondo lei il maggior contributo dei gesuiti alla scienza?
«L’essersi battuti, fin dal Cinquecento, perché la matematica venisse riconosciuta a tutti gli effetti una scienza e studiata come tale».
Quale figura di gesuita-scienziato la colpisce in particolare?
«Ce ne sono molte. Athanasius Kircher, l’uomo che dicevano “sapeva tutto”. Si è dedicato ai campi più disparati: dalla matematica alla geofisica dalla peste ai geroglifici. Roger Boscovich, l’anticipatore della fisica atomica. Dei confratelli-scienziati più vicini, mi colpiscono in particolare quattro figure: Angelo Secchi, il pioniere dell’astrofisica; Stephen Perry, studioso dell’attività solare e del campo magnetico terrestre; James Macelwame, sismologo e unico gesuita membro della National Academy of Science e Pierre Teilhard de Chardin, ricercatore poliedrico e grande mistico».
Riprendiamo dal sito http://monicagoncalves.com di Mônica Gonçalves un brano di Andrea Camilleri tratto da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri, precisamente da “Qua e là per l’Italia”, Alma Edizione, Firenze, 2008, e pubbicato sul sito citato il 29/10/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/11/2015)
Dolci dei morti: tradizione siciliana
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
Mettiamo a disposizione sul nostro sito la prima lettera della nuova serie di Lettere ai genitori dopo il Battesimo, preparata dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma. Le lettere precedenti sono on-line al link 8 lettere alle famiglie con figli da 0 a 3 anni: III parte dell'itinerario battesimale proposto dalla diocesi di Roma. Otto file in PDF pronti da stampare.
Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2015)
Pubblichiamo sul nostro sito la prima lettera della nuova serie di Lettere ai genitori dopo il Battesimo. Il tema è quello della casa nella quale i genitori vivono e hanno accolto la nuova vita.
Lettera ai genitori
Carissimi genitori,
in punta di piedi entriamo nelle vostre case, luoghi che da poco hanno visto l’ingresso di una nuova creatura: vostro figlio.
La casa, metafora della vita, è il luogo per eccellenza in cui il richiamo alla vita è molto forte e in questo tempo lo state sperimentando fattivamente.
Le vostre case non sono più silenziose, vuote; l’arrivo del vostro bambino segna un grande cambiamento nel ritmo quotidiano di una casa.
In questa lettera abbiamo scelto alcuni brani, per offrirvi spunti di riflessione sul senso della casa.
In un momento storico in cui si delega la ristrutturazione della casa a figure come l’interior designer, vogliamo invitarvi a riappropriarvi dello spazio caldo della vostra casa, vivendolo sempre più come luogo propizio per la crescita serena dei vostri figli e della vostra relazione di amore, che si arricchisce ora dell’essere genitori insieme.
Che cos’è la casa? (da Giovanni Salonia, francescano cappuccino, psicoterapeuta)
La casa appartiene allo sfondo delle sicurezze esistenziali e scontate di ogni individuo: se ne coglie la necessità solo quando essa viene a mancare.
Esistere è abitare: ogni corpo deve dimorare in uno spazio.
Chiamiamo «casa» lo spazio nel quale si vive in modo stabile e continuativo e nel quale si strutturano i legami intimi (unitivi o/e generativi).
Per tali ragioni, la casa aderisce ad ogni individuo come una seconda pelle: si può parlare, parafrasando Anzieu, di «Io-casa» come il vestito necessario dell’«Io-pelle». Le neuroscienze ci ricordano che il corpo non è solo impregnato delle leggi dell’intercorporeità - degli altri corpi con cui entra in contatto -, ma anche del mondo non umano (la casa) nella quale abita.
Il corpo registra in modo indelebile sensazioni differenti a seconda che sia cresciuto in una casa luminosa o buia, linda o sudicia, spaziosa o angusta.
La prima casa - in altre parole - abita lo sfondo della nostra affettività e dei nostri ricordi e anche il nostro schema corporeo.
Come nel grembo della madre si forma il corpo, così nel grembo della casa si forma il corpo vissuto.
La casa è composta da stanze e da spazi che vengono deputati a funzioni corporee (mangiare, dormire, rilassarsi, studiare…) o a separazioni che permettono la differenziazione (la stanza dei genitori, quella dei maschi e delle femmine, quella dei figli piccoli e dei maggiorenni).
Nella casa si apprende e si sperimenta lo «stare presso di sé» che gli antichi medievali chiamavano habitare secum, spazio e luogo della propria interiorità.
Nella casa si fa la prima esperienza delle diversità: si è in tanti e con tante funzioni. La casa prepara alla polis, si impara in essa le regole complesse delle relazioni e del comunicare, nell’alternanza complessa della spinta o della costrizione al parlare o tacere. Anche quando si va fuori, nel mondo, la casa vissuta rimane il punto interiore con cui si confrontano altre case, il punto fermo su cui ci si sente centrati e da cui si misura ogni distanza.
Perché in casa? (da Papa Francesco alle famiglie riunite a Cuba)
Siamo in famiglia. E quando uno sta in famiglia si sente a casa.
Il senso della casa… parliamo della vostra casa. Senza famiglia, senza il calore di casa, la vita diventa vuota, cominciano a mancare le reti che ci sostengono nelle difficoltà, le reti che ci alimentano nella vita quotidiana e motivano la lotta per la prosperità. La famiglia ci salva da due fenomeni attuali, due cose che succedono al giorno d’oggi: la frammentazione, cioè la divisione, e la massificazione. In entrambi i casi, le persone si trasformano in individui isolati, facili da manipolare e governare. E allora troviamo nel mondo società divise, rotte, separate o altamente massificate sono conseguenza della rottura dei legami familiari; quando si perdono le relazioni che ci costituiscono come persone, che ci insegnano ad essere persone. E così uno si dimentica di come si dice papà, mamma, figlio, figlia, nonno, nonna… Si perde la memoria di queste relazioni che sono il fondamento.
Sono il fondamento del nome che abbiamo.
L’incontro in famiglia è un motivo per rendere grazie a Dio per il “calore” che promana da gente che sa ricevere, sa accogliere, sa far sentire a casa.
Gesù in casa (da Papa Francesco alle famiglie riunite a Cuba)
È interessante osservare come Gesù si manifesta anche nei pranzi, nelle cene. Mangiare con diverse persone, visitare diverse case è stato per Gesù un luogo privilegiato per far conoscere il progetto di Dio. Egli va a casa degli amici – Marta e Maria –, ma non è selettivo, non gli importa se ci sono pubblicani o peccatori, come Zaccheo. Va a casa di Zaccheo. Non solo Egli agiva così, ma quando inviò i suoi discepoli ad annunciare la buona novella del Regno di Dio, disse loro: «Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno» (Lc 10,7). Matrimoni, visite alle famiglie, cene, qualcosa di speciale avranno questi momenti nella vita delle persone perché Gesù preferisca manifestarsi lì. Gesù sceglie questi momenti per mostrarci l’amore di Dio, Gesù sceglie questi spazi per entrare nelle nostre case e aiutarci a scoprire lo Spirito vivo e operante nelle nostre case e nelle nostre cose quotidiane. È in casa che impariamo la fraternità, impariamo la solidarietà, impariamo il non essere prepotenti. È in casa che impariamo ad accogliere e apprezzare la vita come una benedizione e che ciascuno ha bisogno degli altri per andare avanti. È in casa che sperimentiamo il perdono, e siamo invitati continuamente a perdonare, a lasciarci trasformare.
Ricordi sulla casa… (da Papa Francesco alle famiglie riunite a Cuba)
Ricordo nella mia diocesi precedente che molte famiglie mi spiegavano che l’unico momento che avevano per stare insieme era normalmente la cena, di sera, quando si tornava dal lavoro, e i più piccoli finivano i compiti di scuola. Era un momento speciale di vita familiare. Si commentava il giorno, ciò che ognuno aveva fatto, si metteva in ordine la casa, si sistemavano i vestiti, si organizzavano gli impegni principali per i giorni seguenti, i bambini litigavano… era il momento. Sono momenti in cui uno arriva anche stanco, e qualche discussione, qualche litigata tra marito e moglie succede, ma non c’è da aver paura; io ho più paura delle coppie che mi dicono che mai hanno avuto una discussione.
È interessante: in casa non c’è posto per le “maschere”, siamo quello che siamo e, in un modo o nell’altro, siamo invitati a cercare il meglio per gli altri.
In molte culture al giorno d’oggi vanno sparendo questi spazi, vanno scomparendo questi momenti familiari, pian piano tutto tende a separarsi, isolarsi; scarseggiano i momenti in comune, per essere uniti, per stare in famiglia. E dunque non si sa aspettare, non si sa chiedere permesso, non si sa chiedere scusa, non si sa ringraziare, perché la casa diventa vuota, non di persone, ma vuota di relazioni, vuota di contatti umani, vuota di incontri, tra genitori, figli, nonni, nipoti, fratelli... Poco tempo fa una persona che lavora con me mi raccontava che sua moglie e i figli erano andati in vacanza e lui era rimasto solo, perché gli toccava lavorare in quei giorni. Il primo giorno la casa stava tutta in silenzio, “in pace”, era felice, niente in disordine. Il terzo giorno, quando gli ho chiesto come stava, mi ha detto: “Voglio già che ritornino tutti”. Sentiva che non poteva vivere senza sua moglie e i suoi figli. E questo è bello.
La casa ebraica (da un Rabbino)
Secondo i rabbini, la casa che la coppia costruisce è come un piccolo santuario (Mikdash me’at). Il termine deriva dalla tradizione secondo la quale, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, la sua santità si sarebbe trasferita alla casa ebraica. Chi entra in una casa ebraica nota una serie di tratti distintivi: sullo stipite della porta, a destra, è appeso un piccolo e elegante astuccio, la Mezuzah. Esso contiene dei passaggi della Torah scritti su pergamena e riprendere il testo del Dt 6,9: «Questi precetti che oggi ti do, li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte».
Nel preparare la dimora, gli sposi sono invitati a lasciare una piccola parte della casa “incompiuta” (una parte della parete, ad esempio, non viene dipinta), per ricordare che senza il Tempio la vita ebraica è incompleta.
La gioia condivisa prima del Battesimo (dal Sussidio di pastorale battesimale della Diocesi di Roma on-line: www.ucroma.it)
La nascita di un bambino – soprattutto in questo tempo di “culle vuote”– è un evento che rallegra non solo la famiglia in cui il bambino è nato, ma anche l’intera comunità. La parrocchia in vari modi anche prima del battesimo può manifestare attenzione e premura verso il neonato e i genitori. Se la comunità cristiana è radicata nel quartiere non mancherà occasione di venire a sapere che in un palazzo è nato un bambino. Il fiocco rosa o azzurro - tradizione ancora presente nella nostra città – è un segno pubblico che la famiglia porge di questo evento gioioso. Questo periodo di grande gioia ed entusiasmo non è privo di tensioni, preoccupazioni, fatiche. I genitori percepiscono più o meno consapevolmente di essere davanti ad un evento più grande di loro e necessitano di sostegno. Se alla Messa domenicale sono presenti bambini appena nati, non ancora battezzati, si può dare, se le famiglie lo gradiscono, l’annuncio in chiesa della nuova nascita perché tutti possano simbolicamente stringersi con affetto intorno ai neonati e alle loro famiglie. È un primo segno di accoglienza.
Lettera sulla casa in formato PDF (fronte retro, libretto)
Presentiamo sul nostro sito il file audio di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso la Chiesa di Sant'Angelo in Pescheria, il 10/10/2015. Per le ulteriori lezioni del Corso di storia della Chiesa di Roma, vedi le sezioni Roma e le sue basiliche e Audio e video.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
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Premessa: un tema semplicissimo, anche se lo stile dei nostri incontri è poi “culturale”, vedere la semplicità all’opera
- in realtà una sola cosa: il sabato/domenica è il senso dell’universo intero, è un dono offerto all’uomo di ogni tempo
- G.K. Chesterton, Ortodossia , La misura di ogni felicità è la riconoscenza.
- F. Hadjadj, Elogio del rutto (su Gli scritti)
- per questo la non osservanza è mortale!
Da papa Francesco nell’udienza generale del 12/8/2015
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi apriamo un piccolo percorso di riflessione su tre dimensioni che scandiscono, per così dire, il ritmo della vita famigliare: la festa, il lavoro, la preghiera.
Incominciamo dalla festa. Oggi parleremo della festa. E diciamo subito che la festa è un’invenzione di Dio. Ricordiamo la conclusione del racconto della creazione, nel Libro della Genesi che abbiamo ascoltato: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (2,2-3). Dio stesso ci insegna l’importanza di dedicare un tempo a contemplare e a godere di ciò che nel lavoro è stato ben fatto. Parlo di lavoro, naturalmente, non solo nel senso del mestiere e della professione, ma nel senso più ampio: ogni azione con cui noi uomini e donne possiamo collaborare all’opera creatrice di Dio.
Dunque la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca evasione, no la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben fatto; festeggiamo un lavoro. Anche voi, novelli sposi, state festeggiando il lavoro di un bel tempo di fidanzamento: e questo è bello! E’ il tempo per guardare i figli, o i nipoti, che stanno crescendo, e pensare: che bello! E’ il tempo per guardare la nostra casa, gli amici che ospitiamo, la comunità che ci circonda, e pensare: che cosa buona! Dio ha fatto così quando ha creato il mondo. E continuamente fa così, perché Dio crea sempre, anche in questo momento!
Può capitare che una festa arrivi in circostanze difficili o dolorose, e si celebra magari “con il groppo in gola”. Eppure, anche in questi casi, chiediamo a Dio la forza di non svuotarla completamente. Voi mamme e papà sapete bene questo: quante volte, per amore dei figli, siete capaci di mandare giù i dispiaceri per lasciare che loro vivano bene la festa, gustino il senso buono della vita! C’è tanto amore in questo!
Anche nell’ambiente di lavoro, a volte – senza venire meno ai doveri! – noi sappiamo “infiltrare” qualche sprazzo di festa: un compleanno, un matrimonio, una nuova nascita, come anche un congedo o un nuovo arrivo…, è importante. È importante fare festa. Sono momenti di famigliarità nell’ingranaggio della macchina produttiva: ci fa bene!
Ma il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale, ed è sacro, perché ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma “signori”. C’è un comandamento per questo, un comandamento che riguarda tutti, nessuno escluso! E invece sappiamo che ci sono milioni di uomini e donne e addirittura bambini schiavi del lavoro! In questo tempo ci sono schiavi, sono sfruttati, schiavi del lavoro e questo è contro Dio e contro la dignità della persona umana! L’ossessione del profitto economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i ritmi umani della vita, perché la vita ha i suoi ritmi umani.
Il tempo del riposo, soprattutto quello domenicale, è destinato a noi perché possiamo godere di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e non si vende. E invece vediamo che l’ideologia del profitto e del consumo vuole mangiarsi anche la festa: anch’essa a volte viene ridotta a un “affare”, a un modo per fare soldi e per spenderli. Ma è per questo che lavoriamo? L’ingordigia del consumare, che comporta lo spreco, è un brutto virus che, tra l’altro, ci fa ritrovare alla fine più stanchi di prima. Nuoce al lavoro vero, consuma la vita. I ritmi sregolati della festa fanno vittime, spesso giovani.
Infine, il tempo della festa è sacro perché Dio lo abita in un modo speciale. L’Eucaristia domenicale porta alla festa tutta la grazia di Gesù Cristo: la sua presenza, il suo amore, il suo sacrificio, il suo farci comunità, il suo stare con noi… E così ogni realtà riceve il suo senso pieno: il lavoro, la famiglia, le gioie e le fatiche di ogni giorno, anche la sofferenza e la morte; tutto viene trasfigurato dalla grazia di Cristo.
La famiglia è dotata di una competenza straordinaria per capire, indirizzare e sostenere l’autentico valore del tempo della festa. Ma che belle sono le feste in famiglia, sono bellissime! E in particolare della domenica. Non è certo un caso se le feste in cui c'è posto per tutta la famiglia sono quelle che riescono meglio!
La stessa vita famigliare, guardata con gli occhi della fede, ci appare migliore delle fatiche che ci costa. Ci appare come un capolavoro di semplicità, bello proprio perché non artificiale, non finto, ma capace di incorporare in sé tutti gli aspetti della vita vera. Ci appare come una cosa “molto buona”, come Dio disse al termine della creazione dell’uomo e della donna (cfr Gen 1,31). Dunque, la festa è un prezioso regalo di Dio; un prezioso regalo che Dio ha fatto alla famiglia umana: non roviniamolo!
1/ Una lunga introduzione! L’uomo nasce con il rito, l’uomo è homo religiosus
Chi è l’uomo?
1.1/ L’uomo primitivo
da Archivi del Nord di M. Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pp. 9-13)
«Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. [...] Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano».
- l’Homo Naledi (2.500.000 anni fa; scoperti 11 resti in una grotta in sud-Africa) era un uomo? Se seppelliva in maniera rituale, sì… a Dmanisi, in Georgia, erano uomini (5 individui di circa 1.800.000 anni fa con tratti di Homo habilis, Homo rudolfensis e Homo ergaster? Se avevano comportamenti tali da manifestare una “spiritualità”, sì
- per la fede non cambia niente, cambia per la scienza
Amanti di Valdaro, sepoltura neolitica a Valdaro,
nel Mantovano, ca. 6.000 anni fa
Disegno di Andrea Pucci per il “nuovo catechismo”
Cfr. il sito con la navigazione virtuale nelle Grotte di Lascaux: http://www.lascaux.culture.fr/
Da L’Homo? Religiosus fin dalle caverne. Un’intervista di Daniele Zappalà al paleontologo e antropologo Yves Coppens su Avvenire del 14/9/2010
«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus coincide con l’uomo in generale. L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione. […]
Abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti. Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali».
Da Il primo uomo? È nato «religiosus», un'intervista ad Yves Coppens di Roberto Beretta, da Avvenire (15/11/2011)
Professor Coppens: è nato prima l’uomo o prima il simbolo? «Sono nati contemporaneamente. Non si può pensare che il simbolo sia arrivato dopo l’uomo; e d’altra parte l’uomo è fin da subito un essere simbolico».
Ci spieghi allora com’è avvenuto. «Nell’evoluzione dell’uomo si riconoscono tre fasi successive. La prima, 70 milioni di anni or sono, avviene con la visione frontale (prima gli occhi erano laterali), che offre la profondità delle tre dimensioni e la percezione dei colori. Il secondo stadio – siamo a 10 milioni di anni fa – arriva con la posizione eretta, quando l’antenato dell’uomo innalza per la prima volta lo sguardo all’orizzonte e al cielo. La terza tappa si verifica circa 3 milioni di anni fa, in seguito a un violento cambiamento climatico che modifica radicalmente il volto della Terra nel senso di un ambiente molto più secco e con la scomparsa delle foreste a vantaggio di savane e steppe; per superare questa difficoltà materiale alla sopravvivenza, gli animali fanno crescere i denti (che servono a brucare meglio l’erba) mentre il cervello degli ominidi supera una soglia di complessità che lo porta a un livello quantitativo e qualitativo superiore. Il preumano si trasforma nell’umano».
E il simbolo? «Viene di conseguenza. L’australopiteco Lucy usava le pietre per quello che erano; ma quando l’uomo – per vincere il cambiamento climatico – sviluppa la testa, prende due sassi e col secondo modifica la forma del primo. Nasce l’idea. C’è un progetto che riguarda il futuro. Ecco: il primo oggetto fabbricato dall’uomo è già un simbolo sacro. D’altronde, quando vedo i popoli nativi ed osservo che i loro gesti sono tutti rituali, non posso pensare che non sia successo lo stesso con l’uomo primitivo».
Dunque la prima idea è nata insieme al senso del sacro? «Sì. La percezione della forma è già la comprensione di qualcosa di sacro».
Lucy invece non poteva avere simboli, e dunque nemmeno un senso religioso... «No, non credo. Nel corso del tempo la modificazione di alcuni dati fisici ha permesso l’emergere dell’homo religiosus».
Un’affermazione che ha notevoli corollari. Per esempio: il pensiero dev’essere per forza «sacro»? «Certo. Il cambiamento progressivo che ha permesso all’uomo di sviluppare delle idee, gli ha fornito anche la possibilità di percepire qualcosa d’altro: l’avvenire, il passato. Uno sguardo sull’infinito e insieme dentro di sé».
I «laici» non ci resteranno bene... «Non credo che esista davvero una reale laicità se non come un’altra maniera di pensare il sacro. L’uomo è irrimediabilmente simbolico, almeno in questo stadio dell’evoluzione; e in questo non vedo differenza d’essenza tra il primo uomo e noi, se non nel progresso e nell’affinamento del pensiero ».
Azzardiamo un po’: è in quell’istante di passaggio tra l’ominide e l’uomo che si può collocare, in una prospettiva evoluzionista cristiana, l’istante della creazione? «Questo devono dirlo i teologi, non è il mio mestiere. Io mi limito a osservare i dati sul campo e a constatare il momento di passaggio di una soglia. Certo qualcosa in quel momento è successo: l’uomo non è stato più il pre-uomo che era prima. Non so se questo sia l’attimo della creazione, però una volta ricordo di aver sconcertato il cardinale Jean-Marie Lustiger, il defunto arcivescovo di Parigi, affermando: 'Più le cose si spiegano in modo naturale, meglio è per il soprannaturale!'...».

1.2/ L’uomo tecnologico. Così oggi, nel mondo della scienza
Cfr. YouTube Canale NASA
- Departing Space Station Commander Provides Tour of Orbital Laboratory (con Sunita Williams che mostra tutta l’ISS, la Stazione spaziale orbitante)
- Welcome to the Space Station! (Video con l’ingresso di Samantha Cristoforetti nell’ISS e la conferenza stampa dinanzi alle icone)
- ma prima… la bellezza dello spazio e dell’universo
- lettura di Genesi dall’Apollo 8: Youtube Gli scritti Apollo 8: messaggio di Natale
- Apollo 11: la prima Comunione sulla luna (Buzz Aldrin)
1.3/ L’uomo inter-culturale
EG 200. Desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
Discorso di Jorge Mario Bergoglio alla presentazione ufficiale nel 2012 di Introduzione alla teologia del popolo di Ciro Enrique Bianchi
Quando come Chiesa ci accostiamo ai poveri per accompagnarli, constatiamo – al di là delle enormi difficoltà quotidiane – che vivono con un senso trascendente della vita. In qualche modo il consumismo non li ha ancora ingabbiati. La vita mira a qualcosa che va oltre questa vita. La vita dipende da Qualcuno (con la maiuscola) e questa vita ha bisogno di essere salvata. Tutto questo si trova nel più profondo della nostra gente, anche se è incapace di formularlo in termini concettuali. Il senso trascendente della vita che si vede nel cristianesimo popolare è l’antitesi del secolarismo che si diffonde nelle società moderne. È un punto chiave. Se volessimo parlare in termini antagonistico-aggressivi, diremmo che la fede del nostro popolo è uno schiaffo agli atteggiamenti secolarizzanti.
Pertanto si può dire che la pietà popolare è una forza attivamente evangelizzatrice che possiede nel suo interno un efficace antidoto davanti all’avanzare del secolarismo. Aparecida si esprime con parole simili: «La pietà popolare, […] nell’ambiente secolarizzato in cui vivono i nostri popoli, continua a essere una grandiosa confessione del Dio vivente che agisce nella storia, e un canale di trasmissione della fede» (DA 264).
1.4/ L’uomo: la religione non è una sub-cultura
Da La peculiarità del linguaggio umano: fare uso infinito di mezzi finiti. Il big bang della parola. Neuroscienze - la nuova frontiera. Un’intervista di Alessandra Stoppa ad Andrea Moro, dal sito di Tracce, dicembre 2013
«Quando si osserva il linguaggio si parla dell’uomo tutto intero. E non si può parlare dell’uomo senza parlare del linguaggio».
Perché?
Primo, perché è lo strumento con il quale l’uomo caratterizza non solo tutto quello che fa, ma anche quello che pensa di ciò che fa: dunque, senza linguaggio non ci sarebbe la possibilità di autocoscienza. Secondo, perché la struttura del linguaggio umano è unica tra tutti gli esseri viventi: gli uomini e solo gli uomini, per dirla con Wilhelm von Humboldt, «fanno uso infinito di mezzi finiti». Questa è la sintassi: elementi finiti (le parole) che costruiscono strutture che potrebbero andare avanti all’infinito.
È la sintassi, quindi, lo spartiacque tra il linguaggio umano e quello animale?
Tutti gli animali comunicano. Se la comunicazione è passare informazioni, anche i papaveri lo fanno. Ma i codici di tutti gli altri esseri viventi non hanno una struttura simile alla lingua umana. È solo degli uomini la capacità di produrre sequenze di parole potenzialmente infinite, nelle quali gli stessi elementi danno significati diversi, talvolta opposti, in base all’ordine: Caino uccise Abele, Abele uccise Caino. Negli anni Settanta, si è visto che gli scimpanzé, così simili a noi, riescono ad apprendere un numero notevole di parole (circa 130), ma senza poterle ordinare all’infinito né con significati diversi. Hanno sequenze di segnali non espandibili e che non cambiano senso.
da R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano, 2001, p. 174
Fiori e frutti sono maturi quando cadono; gli animali si sentono e si trovano l’un l’altro e sono soddisfatti. Ma noi, che ci siamo prefissi Dio, non possiamo essere pronti. Spostiamo in avanti la nostra natura come le sfere dell’orologio. Abbiamo ancora bisogno di tempo.
Da papa Francesco nell’Incontro per la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati presso l’Independence Mall, a Philadelphia il 26/9/2015 (cfr. Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: «In Congresso, 4 luglio 1776 Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione. Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità»
In questo luogo, che è un simbolo del modello degli Stati Uniti d’America, vorrei riflettere con voi sul diritto alla libertà religiosa. È un diritto fondamentale che plasma il modo in cui noi interagiamo socialmente e personalmente con i nostri vicini, le cui visioni religiose sono diverse dalla nostra. L’ideale del dialogo interreligioso, in cui tutti gli uomini e le donne di diverse tradizioni religiose possono dialogare senza litigare. Questo lo consente la libertà religiosa.
La libertà religiosa implica certamente il diritto di adorare Dio, individualmente e comunitariamente, come la propria coscienza lo detta. Ma la libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, come pure la sfera degli individui e delle famiglie. Perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione.
Le nostre diverse tradizioni religiose servono la società anzitutto mediante il messaggio che proclamano. Esse invitano gli individui e le comunità ad adorare Dio, fonte di ogni vita, della libertà e della bontà. Ci richiamano la dimensione trascendente dell’esistenza umana e la nostra irriducibile libertà di fronte ad ogni pretesa di qualsiasi potere assoluto. Dobbiamo accostarci alla storia – ci fa bene accostarci alla storia –, specialmente a quella del secolo scorso, per vedere le atrocità perpetrate dai sistemi che pretendevano di costruire questo o quel ‘‘paradiso terrestre’’ dominando i popoli, asservendoli a principi apparentemente indiscutibili e negando loro qualsiasi tipo di diritto. Le nostre ricche tradizioni religiose cercano di offrire significato e direzione, «posseggono una forza motivante che apre sempre nuovi orizzonti, stimola il pensiero, allarga la mente e la sensibilità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 256). Esse chiamano alla conversione, alla riconciliazione, all’impegno per il futuro della società, al sacrificio di sé nel servizio al bene comune, e alla compassione per coloro che sono nel bisogno. Al cuore della loro missione spirituale, si trova la proclamazione della verità e della dignità della persona umana come pure dei diritti umani.
Le nostre tradizioni religiose ci ricordano che, come esseri umani, noi siamo chiamati a riconoscere l’altro/l’Altro che rivela la nostra identità relazionale di fronte ad ogni tentativo di instaurare una «uniformità che l’egoismo del forte, il conformismo del debole, o l’ideologia dell’utopista potrebbero cercare di imporci» (M. de Certeau).
In un mondo dove le diverse forme di tirannia moderna cercano di sopprimere la libertà religiosa, o – come ho detto prima – cercano di ridurla a una subcultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica, o ancoracercano di utilizzare la religione come pretesto per l’odio e la brutalità, è doveroso che i seguaci delle diverse tradizioni religiose uniscano le loro voce per invocare la pace, la tolleranza e il rispetto della dignità e dei diritti degli altri.
Viviamo in un’epoca soggetta «alla globalizzazione del paradigma tecnocratico» (Enc. Laudato si’, 106), che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. Le religioni hanno quindi il diritto e il dovere di far comprendere che è possibile costruire una società in cui «un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 255) è un «prezioso alleato nell’impegno per la difesa della dignità umana […] una via di pace per il nostro mondo ferito» (ibid., 257) dalle guerre.
2/ Il sabato in Genesi 1 (l’ipotesi di un Priester Codex, P)
L'uomo è fatto per Dio: il riposo del sabato, da Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it)
Che l'uomo sia fatto per Dio emerge anche dalla scansione di Genesi 1 che si basa sullo schema settenario dei giorni. La creazione non si arresta all'uomo, ma giunge al “riposo”! Il termine shabbat viene dal verbo ebraico shabatche vuol dire “riposare”, “fermarsi”, “arrestarsi” – la nostra settimana ricorda le origini pagano-ebraico-cristiane della nostra civiltà: lunedì-Luna, martedì-Marte, mercoledì-Mercurio. giovedì-Giove, venerdì-Venere, sabato-Shabbat, domenica-Dies Domini, 5 nomi di origine pagana, uno di origine ebraica, uno di origine cristiana.
Qui è evidente come la catechesi debba imparare dall’esegesi storico-critica. All’autore di Genesi 1 non importa assolutamente nulla della numerazione da 1 a 6: quello che gli interessa è mostrare che esistono fin dall’inizio del mondo 6 giorni di lavoro ed 1 di riposo: è il 6 contro 1, non l’1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, che ha a cuore.
Ogni attività catechetica che cerca di riproporre un attività per ognuno dei 6 giorni nasce da un’incomprensione del testo biblico. Al testo biblico interessa il settimo, il senso dei “sei” giorni di lavoro di Dio che giunge infine al suo “giorno di riposo”.
Dio crea, ma soprattutto gode di ciò che ha creato. Egli si “ferma” nel settimo giorno per contemplare l'opera sua e trovarla buona e gioirne. Dicono i maestri ebrei che proprio qui si manifesta la suprema libertà di Dio che non è solo quella di “fare”, ma anche quella di “cessare” di operare per gioire.
C’è un bellissimo testo di un rabbino moderno, Isidor Grunfeld, che dice a questo proposito[23]:
«Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: "Basta".
L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazioneda Lui attuata secondo la Sua volontà. Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath, nel modo prescritto dalla Torah, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L'uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso. Osservando lo Shabbath, l'ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso».
Se Dio è Dio non tanto perché crea, ma soprattutto perché gode di aver creato, anche la libertà dell’uomo si manifesta nel fatto che egli non solo lavora, ma può soprattutto astenersi dal lavorare. La vera libertà è fermarsi, godere, celebrare, pregare. Ed in effetti lo si sperimenta nell’esperienza: un padre di famiglia può lavorare talmente tanto da distruggere la sua famiglia ed il suo equilibrio mentale. Se non riposa, se non stacca dal lavoro, se non mette qualcosa al di sopra del lavoro, accadrà che il lavoro, divenuto idolo, distruggerà lui. Chi non osserva il ritmo del riposo – ed in esso il giorno della festa comandata da Dio - perde alla fine anche l’amore, logorando i rapporti più cari.
Tanti genitori che accompagnano i figli alla catechesi si lamentano perché vorrebbero almeno la domenica riposarsi e stare in famiglia: ebbene bisogna rispondere loro che, se non verranno a messa, non si riposeranno e non staranno in famiglia! Dio ha fatto la domenica esattamente perché l’uomo arrivi stanco a messa, ma ne esca rinfrancato, avendo compreso che Dio è con lui nella fatica del lavoro. E Dio ha voluto la celebrazione eucaristica perché la famiglia, che altrimenti vivrebbe la domenica dispersa – questo vero ancora di più oggi, poiché ognuno ha il proprio smartphone – possa radunarsi insieme e dialogare intorno alla mensa del Signore. Ed è l’esperienza vera che sentiamo testimoniare tante volte: ero arrivato a messa stanco, ma ne sono uscito rinfrancato. Lo stesso si potrebbe dire della Confessione, quel sacramento che sempre rimandiamo e che invece, ci rigenera non appena ci accostiamo ad essa. […]
Se Israele, cioè, non avesse osservato il sabato nei secoli, si sarebbe estinto come popolo ebraico: senza la celebrazione del sabato Israele sarebbe scomparso dalla storia. Ad Auschwitz gli ebrei cercavano di osservare il sabato: sembra incredibile, ma in quelle orribili condizioni in cui erano tenuti, pregavano. Anche i cristiani ad Auschwitz facevano lo stesso. Massimiliano Kolbe celebrava la Messa, sapeva i salmi a memoria e poteva recitare le Lodi, per lodare Dio dentro Auschwitz, ed è anche questo che ha salvato la dignità dell’uomo in quel luogo infernale, è questo che ha dato la forza per vivere la carità e non divenire disumani.
È importantissimo, allora, rendersi conto che Genesi pone il sabato, il rito, la festa, al principio della Bibbia, prima ancora dello svolgimento di tutta la storia della salvezza.
Il rito, il tempo liturgico - si potrebbe dire - sono le prime cose che la Bibbia sottolinea, fin dal suo inizio: non vengono dopo, al momento dell'ingresso nella Terra Santa o quando viene eretto il Tempio. No, la liturgia è la prima cosa. Perché l'uomo, solo tramite il rito, può rivolgersi a Dio e farne esperienza[27]. L'uomo non è fatto solo per essere compartecipe della creazione con Dio nelle sue opere, l'uomo non è fatto solo per il lavoro, bensì è fatto per la lode, per il ringraziamento: ma questa lode matura nei segni liturgici.
All'uomo, immagine di Dio, è dato di potersi riposare a somiglianza del suo Creatore. Ed il riposo non è semplice cessazione del lavoro per una distrazione effimera e passeggera. Molto più è riscoperta, attraverso il rito celebrato nella fede, che niente di ciò che è fatto secondo la volontà di Dio andrà perduto, perché la provvidenza divina è in grado di far fruttificare nel centuplo e per l'eternità il bene.
Anche Gen 1,14 ricorda il tempo festivo: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni». In effetti Genesi 1 - affermano gli esegeti - è stato redatto da un autore di ambiente sacerdotale che voleva sottolineare la rilevanza del culto (tale fonte viene denominata negli studi moderni come Priestercodex ed abbreviata con la lettera P, sottolineando proprio che è un ambiente di “preti veterotestamentari” attenti al sabato ed al culto ad averlo scritto).
Questo è l’unica cosa che si deve sottolineare quando si parla dei sette giorni della creazione: non la scansione in 6 giorni delle creature, bensì il settimo giorno che da loro significato - didatticamente bisognerebbe, ad esempio, far realizzare due disegni, il primo con Dio e l’uomo che creano ed il secondo con Do e l’uomo che riposano.
Genesi 1 annunzia ciò che la fede cattolica e Sant’Ignazio di Loyola in particolare condenseranno nel dire che l’uomo è stato creato ad maiorem Dei gloriam, l’uomo è uomo perché dà lode a Dio. Se l’uomo non ringrazia Dio ha perso la sua umanità. L’uomo è uomo perché riscopre la sua relazione con Dio, altrimenti si disumanizza.
Faccio sempre l’esempio di mia madre, che era una di quelle donne che non stanno mai ferme. Aveva quattro figli, ogni giorno doveva fare dieci telefonate per augurare buon compleanno o anniversario a parenti ed amici, poi altre per chiedere notizie a persone che erano malate o in difficoltà, preparava i dolci per l’oratorio, faceva la catechista, ci seguiva nei compiti, si preoccupava di riparare gli oggetti che si rompevano perché ricomprarli significava sprecare dei soldi. Alla fine della giornata iniziava a recriminare con noi che continuavamo a giocare come avevamo fatto tutto il tempo: “Ecco, voi state solo a giocare, io ho fatto tante cose!”, e noi puntualmente rispondevamo: “Mamma, ma chi te lo ha chiesto?”. Non è vero che non avrebbe potuto fermarsi un’ora, leggere un libro, pregare, è che l’uomo non si sa riposare, lavora ma non sa gioire del lavoro fatto.
mosaici Duomo di Monreale
(1180-1190 d.C.): Requievit
Dominus die septimo ab
omni opere quod paraverat.
3/ Il sabato nel decalogo
Es 20,8 Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Dt 5,12 Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato.
4/ Il sabato nella vita del popolo ebraico
Da Gugenheim E., L’ebraismo nella vita quotidiana, Editrice La Giuntina, Firenze 1994, pp. 65-74
LO SHABBATH
1. Premessa
Il popolo di Israele ha una magnifica istituzione che gli è propria: è il giorno santo e venerabile di Sua Maestà lo Shabbath. Nell'immaginazione popolare, lo Shabbath è divenuto una persona vivente, con un corpo, dei connotati, risplendente d'oro e di bellezza. Quando il Santo, benedetto Egli sia, ebbe terminato l'opera della creazione, introdusse nell'universo lo Shabbath «affinché il baldacchino nuziale che era stato appena elevato non rimanesse privo della sposa». Per lo Shabbath, meraviglia preferita tra tutti i tesori che possiede, il Santo, benedetto Egli sia, non trovò che Israele che formasse con lui una coppia perfetta(Bialik).
Senza dubbio l'idea dello Shabbath, il riposo settimanale, simbolo di libertà e di dignità umana e giorno di rinascita spirituale, è uno degli elementi fondamentali dell'eredità che Israele ha trasmesso all'umanità. Ma per il popolo di Mosè ha mantenuto un carattere, un'atmosfera specifici.
I Maestri hanno scritto: «Chiamerai lo Shabbath tua delizia», «Niente potrà mai uguagliare la benedizione spirituale che l'ebreo osservante trova nel riposo così dolce, nella tranquillità così perfetta dello Shabbath».
Si narra che un generale romano chiese a rabbi Josuè: «Perché i cibi dello Shabbath emanano un profumo così buono?», ed egli rispose: «Noi abbiamo una spezia speciale chiamata Shabbath ed è il suo profumo che tu respiri». Il generale romano disse allora: «Dammela!», ma Rabbi Josuè di rimando: «Chiunque osserva lo Shabbath può goderne, ma non è di nessuna utilità per chi non l'osserva».
L'osservanza dello Shabbath comprende il duplice aspetto di shamor e zakhor,osserva e ricorda, parole usate all'inizio del quarto comandamento del Decalogo, una volta nell'Esodo, l'altra nel Deuteronomio, e che, secondo la Tradizione orale, furono pronunciate insieme dal Signore sul Sinai. La prima esprime il lato «negativo» o passivo: l'astensione dal lavoro, il riposo; mentre la seconda si riferisce alla santificazione positiva, a ciò che deve essere fatto di Shabbath: i tre pasti obbligatori, il Qiddush, l'Havdalà, la preghiera e lo studio della Torà, al fine di favorire lo schiudersi e l'espandersi «dell'anima supplementare», neshamà yetherà,di cui gode il fedele in questo giorno.
A tutti i componenti della famiglia ebraica, compresi gli animali, è stata comandata l'astensione completa dal lavoro e la trasgressione di questo comandamento, se voluta e cosciente, equivale a negare l'esistenza del Dio Creatore del mondo e Redentore, in Egitto, del popolo ebraico.
È la Legge orale ad aver stabilito tutti i lavori proibiti, solo una parte dei quali è menzionata nella Legge scritta; la Mishnà ne distingue trentanove principali (avoth melakhoth)la cui caratteristica è quella di essere lavori che furono necessari per la costruzione del Tabernacolo nel deserto.
«Osserverete i Miei sabati e rispetterete il Mio Santuario, Io sono il Signore» (Lev 26,2).
Questi lavori comprendono principalmente quelli che riguardano la preparazione del cibo, dei vestiti, i lavori di casa, l'utilizzazione della scrittura, l'accensione del fuoco, ma anche il compimento di un'opera (l'ultimo colpo di martello) e il trasporto di un oggetto da un luogo privato a uno pubblico. In ultima analisi abbracciano tutti i settori dell'attività umana in una prospettiva in cui il lavoro non è misurato in base allo sforzo necessario per compierlo, ma è concepito come a realizzazione di un’idea applicata a un oggetto, destinata a creare, a produrre o a trasformare (S.R. Hirsch).
I profeti hanno proibito anche le transazioni commerciali che stricto sensu non rientrano nelle categorie dei trentanove lavori proibiti, ma che sono intrinsecamente incompatibili con lo spirito dello Shabbath.
«Se tratterrai di sabato il tuo piede dal fare il tuo interesse nel giorno a Me sacro, e chiamerai il sabato delizia, consacrato al Signore e onorato, e se lo onorerai tralasciando il tuo cammino, dall'occuparti dei tuoi affari e dal parlarne, allora ti delizierai in onore del Signore, e Io ti farò nutrire col retaggio di tuo padre Giacobbe» (Is 58,13-14). (Vedi anche Nehemia 13,15-17).
Ispirandosi a queste raccomandazioni e nell'intento di circondare le proibizioni divine con una «siepe» invalicabile, i Maestri vi hanno aggiunto alcune proibizioni dette «rabbiniche». Così sono state proibite diverse attività di carattere profano (uvdane dechol)come la musica strumentale, il nuoto, l'equitazione, l'utilizzo dei mezzi di trasporto. Di Shabbath tutti gli utensili o strumenti che servono per un «lavoro» sono dichiarati muqtzè e cioè soppressi dal pensiero e dall'uso, ed è proibito prenderli perfino in mano. Durante queste ventiquattro ore, allo scopo di estendere all'anima il dovere della santificazione, anche la tristezza e le preoccupazioni devono essere messe da parte.
Dice Il Midrash: «Dio benedisse il giorno di Shabbath e lo santificò»(Bereshith Rabbà). Egli lo benedisse con lo splendore del volto umano, lo santificò con lo splendore che il volto umano ha durante lo Shabbath. Nel Cantico dei Cantici, la fanciulla, simbolo del popolo di Israele, esclama: «Sono nera, ma sono bella», e i Maestri hanno dato la seguente interpretazione: «sono nera» durante la settimana, «ma sono bella» durante lo Shabbath.
2. Il venerdì
Il venerdì, molto prima dell'ora che segna l'entrata dello Shabbath, la casa ebraica è tutta tesa nell'attesa dell'ospite meraviglioso. Fin dal momento del risveglio, la giornata assume un'atmosfera particolare: vengono fatte grandi pulizie domestiche e la cucina è in grande fermento. Anche il ba'al habbayth,il padrone di casa, seguendo l'esempio di illustri rabbini del Talmud, ci tiene ad avere l'onore di partecipare alla preparazione dei pasti sabbatici. La tradizione ci tramanda che Ravà salava il pesce, Rav Papà intrecciava lo stoppino, Rabbà e Rav Josef spaccavano la legna.
A pranzo è tradizione mangiare di magro in previsione del lauto pasto della sera; spesso nel primo pomeriggio la tavola è già pronta per la sera. Verso l'imbrunire l'agitazione si calma: il lavoro da fare in previsione dello Shabbath, che sembrava impossibile da terminare nel breve lasso di tempo a disposizione, è stato terminato. La cucina a gas è stata coperta con una lastra sotto la quale brucia una piccola fiamma destinata a mantenere caldi i cibi per la cena e per riscaldare quelli dell'indomani. Nel frattempo ognuno ha indossato i vestiti eleganti per andare incontro alla principessa Shabbath. Questa accoglienza deve aver luogo prima del crepuscolo per aggiungere un po' di profano al giorno sacro.
3. Il venerdì sera
«Andiamo, glorifichiamo il Signore con i nostri canti, acclamiamo la Roccia della nostra salvezza!».
È con le parole gioiose dei Salmi 95 e 99 e del Salmo 29 che Israele si prepara a ricevere lo Shabbath prima di intonare Lekhà Dodì,inno composto nel XVI secolo a Safed dal cabbalista Shelomò Halevy Alkabetz e adottato in tutte le comunità di Israele.
Vieni o mio caro incontro alla sposa, accogliamo la festa. Osserva e ricordacontemporaneamente ci ha fatto sentire il Dio unico; il Signore è Uno e il Suo Nome è Uno, e ciò Gli è di fama, di gloria e di lode.
Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa. Incontro alla festa su, andiamo, perché essa è la fonte di benedizione; dall'inizio, dalle origini, essa è stata eletta; fu creata alla fine dell'azione, ma nel pensiero ne era il principio.
Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa. O Santuario del Re, città regale alzati, esco dallo stato opposto a quello normale; sei stata abbastanza nella valle di lacrime, ed Egli avrà pietà di te [...].
Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa. Vieni in pace o corona del tuo sposo, con allegria, con canto e con giubilo, in mezzo ai fedeli del popolo, tesoro vieni, o sposa vieni, o sposa.
Dopo la recitazione del Salmo 92, cantico per il giorno di Shabbath, e il Salmo 93, che esalta la grandezza di Dio nella natura, inizia il servizio della sera.
Tra la seconda benedizione che segue lo Shemà e il Qaddish dell'officiante che precede la ‘Amidà, si cantano i versetti biblici «Veshamerù»:«I figli di Israele osserveranno lo Shabbath in tutte le loro generazioni, alleanza immutabile. Tra me e i figli di Israele c'è il simbolo perpetuo che in sei giorni il Signore ha fatto i cieli e la terra e il settimo giorno si è riposato e ha ripreso respiro». Questo brano è molto popolare e viene cantato con melodie diverse nelle varie comunità.
La 'Amidà [preghiera in piedi] dello Shabbath ha solo sette benedizioni e le prime tre e le ultime tre inquadrano la benedizione centrale. Il servizio religioso è per così dire coronato dal Qiddush sul vino. L'importanza data a questa «santificazione» durante il servizio religioso in sinagoga è piuttosto singolare poiché in origine tale santificazione era riservata alla famiglia riunita intorno alla tavola nella propria casa. L'origine di questa usanza risale all'epoca in cui i poveri o i viaggiatori di passaggio mangiavano in una sala attigua alla sinagoga per cui in quel caso il rito non contrastava con la Halachà.
Mentre la comunità riceve lo Shabbath in sinagoga, questi fa la sua entrata anche nelle case ebraiche: cessa ogni lavoro, le luci sfavillano in tutte le stanze (un meccanismo a orologeria provvederà a spengerle al momento di andare a letto e a riaccenderle la mattina seguente). La ba'alath habbayth,la padrona di casa, deve adempiere al dovere religioso di accendere le candele dello Shabbath prima dell'ora in cui i fedeli in preghiera abbiano dato il benvenuto alla «sposa». Il numero delle candele varia, ma non può essere inferiore a due. Facendo schermo con le due mani per proteggersi gli occhi dal loro splendore di cui ancora non vuole gioire, la padrona di casa recita la benedizione che introduce lo Shabbath nella casa: «Benedetto sia Tu, o Signore, Nostro Dio, Re dell'universo, che ci hai santificato con i tuoi comandamenti e ci hai comandato di accendere le luci dello Shabbath».
Sulla tavola apparecchiata, accanto a un bicchiere d'argento per il vino, sono posati due pani intrecciati ricoperti da un tovagliolo ricamato: sono i simboli della benedizione divina e ricordano la doppia razione di manna che cadeva il venerdì.
Rabbì Josè ben Judà diceva: «Due angeli accompagnano l'uomo il venerdì sera al ritorno dalla sinagoga, uno buono e uno cattivo. Quando rientra nella sua casa e trova le luci accese e la tavola pronta, l'angelo del bene dice: «Piaccia al cielo che sia così anche il prossimo Shabbath!», e l'angelo del male risponde a malincuore: «Amen». Se invece la casa non è pronta per lo Shabbath, è l'angelo del male a dire: «Che sia così anche il prossimo sabato!», e l'angelo del bene è costretto a rispondere a malincuore: «Amen».
Quando la famiglia è tutta riunita, i genitori benedicono i figli ponendo loro le mani sulla testa e recitano per i figli maschi l'antica formula del patriarca Giacobbe: «Possa Dio renderti simile a Efraim e Manasse», mentre per le figlie l'augurio è di diventare come Sara, Rebecca, Rachele e Lea. Il capofamiglia impartisce poi la benedizione sacerdotale a tutti i componenti della famiglia, dopodiché tutti insieme intonano un cantico di benvenuto agli angeli dello Shabbath: «Che la pace sia su di voi, angeli del divino servizio, angeli del Dio Supremo...», a cui fa seguito l'elogio della Esheth chail,la donna virtuosa, così come fu scritto da Salomone nel capitolo 31 dei Proverbi. A questo punto il padre, sollevando la coppa con il vino, pronuncia le parole del Qiddush; taglia poi il pane e ne distribuisce a ciascuno un pezzetto, l'hammotzì.Il pasto va avanti intercalato dalle zemiroth,i canti sabbatici, e da Divré Torà, una conversazione istruttiva quasi sempre sul tema della sidrà del giorno.
Secondo una antica tradizione culinaria, rispettata quasi in tutte le comunità, il pasto del venerdì sera è a base di pesce e carne. Naturalmente le ricette variano da regione a regione, dalla carpa all'aglio alsaziana al gefillter fisch polacco e al cuscus nord-africano, una pietanza che ricorda la manna «che somigliava a semi di coriandolo».
4. La giornata dello Shabbath e la lettura della Torà
Il servizio religioso dello Shabbath ricalca quello dei giorni feriali, ma con molte aggiunte di salmi e inni che celebrano la gloria di Dio e la santità di questo giorno, destinati a immergere il fedele nell'atmosfera di gioiosa serenità propria dello Shabbath. Come negli altri giorni di festa, la lettura della Torà, una delle più antiche istituzioni liturgiche, stabilita da Mosè e completata da Esdra, rappresenta la parte centrale del servizio religioso. La Torà è stata pertanto suddivisa in cinquantaquattro sezioni, sidroth o parashiyoth,corrispondenti al numero dei sabati nell'anno più lungo. Le esigenze del calendario obbligano talvolta a unire due sidroth che vengono lette nello stesso sabato. Nel pomeriggio dello Shabbath, durante le feste e i digiuni e, come abbiamo già detto, il lunedì e il giovedì vengono letti passi tratti dal Pentateuco «affinché Israele non debba restare più di due giorni senza Torà».
Il «Rotolo» della Torà viene estratto dall'Aron Haqqodesh (l'Arca santa) con solennità e viene cantato il versetto: «Quando l'Arca si metteva in movimento, Mosè diceva: "LevaTi, o Signore, che i Tuoi nemici siano dispersi, che i tuoi avversari fuggano davanti a Te...» (Num 10,35).
Il Rotolo prescelto è portato in processione ed è oggetto della devozione dei fedeli. La stessa cerimonia si ripete dopo la lettura della Torà, quando il Sefer viene nuovamente riposto e viene letto il versetto: «E quando si fermava, egli diceva: Torna a sederti fra le miriadi di Israele» (Num 10,36).
Sette uomini sono «chiamati» uno dopo l'altro a leggere una sezione della sidrà che a tale scopo è divisa in sette pisqòth.La prima «chiamata», se sono presenti, è riservata a un kohen e la seconda a un levita. Ai nostri giorni un Ba'al Koré,un lettore, si sostituisce a coloro che sono stati chiamati a leggere la Torà, i quali intervengono solo per recitare le benedizioni prescritte prima e dopo la lettura della pisqà assegnata. La lettura viene eseguita con una intonazione che risale all'antichità. Terminata la Parashà, un ultimo fedele, il maftir, viene chiamato a rileggere gli ultimi versetti. Inoccasione di alcuni sabati speciali, del Rosh Chodesh, e nei giorni di festa, la parte letta dal maftir è tratta da un'altra sezione e generalmente viene estratto dall'Aron un secondo Sefer. Egli poi recita, seguendo una determinata intonazione, la Haftarà, un brano tratto dai libri profetici, che presenta una analogia o un collegamento con il contenuto della Parashà.
Una volta terminata la lettura, il Sefer viene sollevato (hagbahà)e mostrato a tutti i fedeli che esclamano: «Ecco la Legge che Mosè, per ordine di Dio, ha presentato ai figli di Israele. Essa è un albero di vita per coloro che vi si aggrappano, felici coloro che si appoggiano su di lei!».
I sefarditi anticipano questa cerimonia al momento in cui il Sefer viene aperto per essere letto.
Il Sefer infine viene nuovamente arrotolato e rivestito (ghelilà),prima con la mappà, una fascia, e poi con il manto.
Dopo la Haftarà, il rabbino invoca la benedizione divina sui Dottori della legge, sulla comunità, sullo Stato e i suoi governanti e, ai nostri giorni, sullo Stato di Israele.
La preghiera di Musaf, ricordo dei sacrifici supplementari offerti al Tempio nel giorno di Shabbath e durante le feste, conclude il servizio religioso. Dobbiamo sottolineare ancora che, al momento della ripetizione della 'Amidà, la Qedushà è cantata con particolare solennità.
La giornata di sabato
Il Qiddush sul vino e sul pane viene ripetuto a casa prima del secondo pasto sabbatico che, a seconda del paese, è composto da vari piatti tradizionali: il kugel,il tcholent,la tefina.Le ultime ore dello Shabbath passano lentamente, in un clima di dolcezza e di benessere, di distensione fisica e psichica. Mentre la mente si rilassa sfuggendo perfino alla tirannia del telefono, lo spirito, libero da ansie e preoccupazioni materiali, può dedicarsi con delizia allo studio, l'Oneg Shabbath. Tristezza, lacrime, lutti sono banditi; è il tempo consacrato alla vita nella propria famiglia, ai figli, agli ospiti. «Come arriva la sera, ci si sente pervasi dal rimpianto di dover già lasciare questo stato di felicità passato troppo in fretta; rimpianto addolcito però dalla consapevolezza che fra otto giorni ci sarà uno Shabbath ancora più delizioso» (E. Weil).
Un tempo la preghiera di Minchà era seguita da derashoth (sermoni), che ai nostri giorni sono stati sostituiti, in inverno, dalla recitazione del salmo 104 e dai salmi che vanno dal 120 al 134 e durante l'omer con la lettura di un capitolo dei Pirké Avoth,il trattato della Mishnà che raccoglie le massime religiose e morali dei Tannaim.
Ci si siede poi a tavola per l'ultimo dei tre pasti sabbatici obbligatori (Seudà Shelishith)che si prolunga fino al calar della sera.
Havdalà
Con la cerimonia della Havdalà, dopo Ma'ariv, la preghiera della sera, si prende congedo dallo Shabbath prima in sinagoga e poi nuovamente a casa.
Un bicchiere di vino riempito fino all'orlo in segno di abbondanza e una scatoletta di metallo o di legno contenente varie spezie odorose vengono posti davanti all'officiante o al capofamiglia. Al suo fianco un bambino tiene in mano una candela intrecciata con gli stoppini accesi. L'officiante recita la benedizione sul vino, simbolo di gioia; sulle spezie, il cui profumo ha lo scopo di trattenere l'anima di tutti i giorni che vorrebbe seguire la Neshamà Yetherà,l'anima dello Shabbath, quando se ne va; poi sulle luci della candela la cui fiamma ricorda che la luce fu creata il sabato sera e segna il momento della ripresa del lavoro per la settimana che sta per iniziare. La scatola dei profumi viene passata di mano in mano, e, dopo aver lodato Colui che «separa il sacro dal profano», chi guida la cerimonia beve il vino e ne versa una piccola parte per spengere la candela.
da E. Bianchi, Giorno del Signore, giorno dell’uomo, Piemme, Casale Monferrato, 1994, p.10
La coscienza della centralità e della basilarità del sabato nella fede giudaica è tale che si è potuto arrivare ad affermare: “ Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele”. Così dice Achad Ha-am, Al parashat derakim, III,c.30 (cit. in: Le livre du chabbat. Recueil de textes de la letterature juive, a cura di A. Pallière- M. liber, Paris 1974, p.61). Achad Ha-Am (=”uno del popolo” è pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg (1856-1927).
Le testimonianze che congiungono strettamente il sabato all’identità ebraica potrebbero moltiplicarsi. Ne cito due: “Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato” (Y.Vainstein, The Cycle of the Jewish Year. A Study of the festivals and of Selections from the Liturgy, Jerusalem, 1980, p.89); “Senza lo Shabbat, né Israel, né Erez Israel, né la cultura ebraica possono sopravvivere”: queste sono parole del poeta Chajjim Nachman Bialik (1873-1934) contenute nelle sue Epistole (Iggherot) pubblicate in 5 volumi nel 1938-39.
Nell’arte di ispirazione ebraica troviamo frequentemente rappresentata la liturgia familiare dello Shabbat come, ad esempio, in Marc Chagall.
Qumran
Leggiamo nel cosiddetto Documento di Damasco, uno dei testi che ci riportano all’interpretazione delle Scritture che veniva fornita a Qumran:
«Nessuno aiuti a partorire un animale, il giorno del sabato. E se cade in un pozzo o in una fossa non lo si tiri su, di sabato. Nessuno profani il sabato per ricchezza o guadagno, di sabato… E ogni uomo vivo che cade in un luogo di acqua o in un luogo, nessuno lo tiri su con una scala, una corda o un utensile. Nessuno offra nulla sull’altare di sabato, tranne il sacrificio del sabato, perché così è scritto: soltanto le vostre offerte del sabato».
La setta degli esseni si opponeva al giudaismo del Tempio ed a quello farisaico perché riteneva che entrambi si fossero allontanati da un’osservanza rigorosa dei precetti legali: il gruppo di Qumran affermava, invece, che essi fossero da custodire secondo una interpretazione rigorosissima, più rigida di quella farisaica.
Giuseppe Flavio è fonte ulteriore che conferma questa obbedienza estrema alla Torah propugnata dagli esseni. È famoso un suo passaggio che ricorda come essi, a partire dall’affermazione della Scrittura che dichiarava impuro l’uomo che aveva appena compiuto le proprie “attività espletorie”, giungessero a richiedere una immediata purificazione:
«Con più rigore di tutti gli altri giudei si astengono dal lavoro nel settimo giorno; non solo infatti si preparano da mangiare il giorno prima, per non accendere il fuoco quel giorno, ma non ardiscono neppure di muovere un arnese né di andare di corpo. Invece, negli altri giorni, scavano una buca della profondità di un piede con la zappetta - a questa infatti assomiglia la piccola scure che viene consegnata da loro ai neofiti -, e avvolgendosi nel mantello, per non offendere i raggi di Dio, vi si siedono sopra. Poi gettano nella buca la terra scavata, e ciò fanno scegliendo i luoghi più solitari. E sebbene l’espulsione degli escrementi sia un fatto naturale, la regola impone di lavarsi subito dopo come per purificarsi da una contaminazione».
4.1/ Gesù e il sabato
Gesù si “divertiva” a operare miracoli di sabato… il sabato, giorno della pienezza della vita, della gioia
Mc 1, 21Giunsero a Cafàrnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. 22Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. 23Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, 24dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 25E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». 26E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. 27Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Eb 4 Noi, che abbiamo creduto, entriamo in quel riposo, come egli ha detto:
Così ho giurato nella mia ira:
non entreranno nel mio riposo!
Questo, benché le sue opere fossero compiute fin dalla fondazione del mondo. 4Si dice infatti in un passo della Scrittura a proposito del settimo giorno: E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere. 5E ancora in questo passo: Non entreranno nel mio riposo! 6Poiché dunque risulta che alcuni entrano in quel riposo e quelli che per primi ricevettero il Vangelo non vi entrarono a causa della loro disobbedienza, 7Dio fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo:
Oggi, se udite la sua voce,
non indurite i vostri cuori!
8Se Giosuè infatti li avesse introdotti in quel riposo, Dio non avrebbe parlato, in seguito, di un altro giorno. 9Dunque, per il popolo di Dio è riservato un riposo sabbatico. 10Chi infatti è entrato nel riposo di lui, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. 11Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza.
Eb 1113Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. 14Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. 15Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; 16ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
5/ La domenica
Il primo giorno dopo il sabato
Mt 281Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba.
Mc 16,1Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. 2Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. 9Risorto al mattino, il primo giorno dopo il sabato, Gesù apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva scacciato sette demòni.
Lc 24,1Il primo giorno della settimana, al mattino presto esse si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato.
Gv 201Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. 19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso:
1Cor 16, 1-2 «Riguardo poi alla colletta in corso a favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana (κατὰ μία σαββάτου) ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando vengo io».
At 20, 7 «Il primo giorno della settimana eravamo riuniti per spezzare il pane. Paolo, che doveva partire il giorno dopo, discorreva con essi e prolungò il discorso fino a mezzanotte».
La Chiesa, istruita dalla resurrezione di Gesù, ha compreso che il sabato trova il suo compimento nel “giorno del Signore”: nel giorno di Pasqua diviene evidente che tutto ciò che esiste non è fatto per la morte, ma per l'eternità di Dio. Quel giorno redime e conferisce significato a tutte le fatiche dell'uomo sulla terra. Per questo, se ci si dimentica di “santificare le feste”, si cade in peccato mortale: regna la morte, infatti, dove la speranza della fede non illumina più il cammino. Già nell’Apocalisse compare il termine cristiano “domenica”, cioè “giorno del Signore” (Ap 1,10, chiaramente nella lingua greca e non ancora in latino). Si vede cioè subito che per la Chiesa primitiva il giorno santo non è più il sabato, ma il primo giorno dopo il sabato, più precisamente la domenica. Come fa Giovanni, ebreo, a dire: “Non celebriamo più il sabato, ma la domenica?” Perché di domenica è successo qualcosa di più importante, Gesù è risorto! Il fatto che si sposti la festa alla domenica è una prova della Resurrezione di Cristo.
Excursus: Halloween
cfr. ora anche Halloween: la mia dichiarazione in merito, di Andrea Lonardo
- Da Cari cattolici, Halloween l’abbiamo inventata noi. Non lasciamocela scippare da streghette e satanisti, di Giovanna Jacob
Questa storia inizia a Roma nell’ottavo secolo dopo Cristo. Fra il 731 e il 741, un papa (Gregorio III) decise che ogni 1 novembre si festeggiasse l’anniversario della dedicazione della cappella di San Pietro alle reliquie “dei santi apostoli e di tutti i santi, martiri e confessori, e di tutti i giusti resi perfetti che riposano in pace in tutto il mondo”. Era nata la festa di Ognissanti, che un secolo dopo divenne festa ufficiale in tutti i territori dell’impero carolingio. Alle soglie del secondo millennio, precisamente nel 998, S. Odilo, abate del potente monastero di Cluny, decise che ogni 2 novembre i fedeli che abitavano nei dintorni del monastero pregassero per i fedeli defunti. Era nata la festa dei morti, che si diffuse rapidamente in tutta Europa.
E così due nuove feste si aggiungevano a quelle del calendario liturgico, che nel Medioevo erano molto più numerose di quelle che, a stento, sopravvivono oggi. Infatti, i cristiani amavano fare festa, perché la fede li rendeva ottimisti. Inoltre, non distinguevano fra feste “sacre” e feste “profane”: tutte le feste erano infatti allo stesso tempo “sacre” e “profane” in senso buono, in quanto nei giorni di festa non ci si limitava ad andare a messa e fare gesti devozionali ma letteralmente si “faceva festa”, ossia si mangiava in compagnia, si ballava, si scherzava e si rideva. Tutt’oggi a Natale e Pasqua non ci limitiamo ad andare a messa. Il fatto che ancora oggi si usi preparare dolci speciali per il giorno dei morti (ad esempio le “ossa dei morti”) indica chiaramente che in passato si “faceva festa” anche il 2 novembre.
- Da La notte di Halloween e la festa cristiana dei santi: opposizione o continuità? Appunti in chiave educativa per la scuola e la catechesi in forma di recensione a La notte delle zucche. Halloween: storia di una festa di P. Gulisano e B. O’Neill, di Andrea Lonardo
Il nome Halloween è indiscutibilmente termine di origine cristiana; è parola composta da hallow, ‘santificare’, ed eve, abbreviazione di evening, ‘sera’. Halloween, insomma, deriva da All Hallow's Eve e vuol dire semplicemente ‘Sera della festa dei Santi’, ‘Vigilia della festa dei santi’.
La chiesa cattolica fa memoria, infatti, l’1 novembre di tutti i santi e la sera del 31 ottobre è appunto la vigilia della festa.
Ma l’1 novembre era il giorno della festa celtica di Samhain ed alcune delle tradizioni dell’odierna Halloween vi rimandano.
Cosa è avvenuto? Perché questa coincidenza? Halloween è una festa pagana o cristiana? Siamo dinanzi ad una espropriazione cristiana o ad un camuffamento sincretista di riti magici? Cosa è bene fare in campo educativo? Incoraggiare o opporsi alla celebrazione di Halloween?
P. Gulisano e B. O’Neill tracciano con il loro libretto La notte delle zucche. Halloween: storia di una festa (Ancora, Milano, 2006, pp.96, euro 7.00) la traiettoria storica che permette di rispondere a queste domande.
Il passaggio da Samahin ad Halloween manifesta un atteggiamento tipico del cristianesimo che non disprezza mai quanto gli preesiste storicamente, ma ne sa cogliere il valore per riproporlo alla luce della pienezza di vita che proviene dal vangelo. I due Autori invitano così a raccontare alle nuove generazioni come avvenne che questa antica festa divenne cristiana:
“Si trattò di qualcosa che poteva avvenire in quello straordinario crogiolo di popoli, culture, tradizioni che fu il Medioevo, dove il Cristianesimo agì come forza eccezionale per unire, salvare, selezionare, elaborare tutto ciò che proveniva da prima di sé, vagliando ogni cosa e trattenendo ciò che aveva valore. Fu un'opera colossale, con la quale, alla fine, la giovane Chiesa non edificò soltanto se stessa, ma l'intero edificio della civiltà europea, fatto di culture, lingue, usi, costumi e, naturalmente, celebrazioni. Per quanto possibile si cercò di ricondurre tutto ad un'unità, seppur rispettosa delle particolarità, delle specificità. Fu il caso delle feste, dove si giunse ad impiantare la liturgia cristiana sul terreno delle tradizioni precedenti, tenendo conto di quelle che erano i tre grandi elementi costitutivi del mondo europeo: la tradizione romana, quella celtica e quella germanica”.
La festa celtica di Samhain “era un momento di contemplazione gioiosa, in cui si faceva memoria della propria storia, della propria gente, dei propri cari, in cui si celebrava la speranza di non soccombere alle sventure, alle malattie, alla morte stessa, che non era l'ultima parola, se era vero che i propri cari, almeno una volta l'anno, potevano essere in qualche modo presenti. Nella magica notte di Samhain non erano le oscure forze del caos che riportavano nel mondo i morti, ma il ricordo e l'amore dei vivi che li celebravano gioiosamente”.
L’annuncio del vangelo nel mondo celtico si misurò con questa tradizione che manifestava il desiderio che la morte non fosse l’ultima parola sulla vita umana e testimoniava, a suo modo, la speranza nell’immortalità delle anime. Il cristianesimo comprese che la propria convinzione della costante presenza ed intercessione della chiesa celeste, della comunione dei santi che già vivono in Dio, poteva rinnovare dall’interno l’attesa ed il desiderio che la tradizione di Samhain celebrava. La resurrezione di Cristo era l’annuncio che la presenza benedicente dei propri defunti non era pura illusione, ma certezza dal momento che noi, i viventi di questa terra, viviamo accompagnati dal Cristo e da tutti i suoi santi. Samhain divenne così Halloween.
-Il magico e l’occulto sono invenzioni moderne per rovinare la purezza della gioia
6/ Nei Padri
- I cristiani in Plinio il Giovane - Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto – si rivolge all’imperatore Traiano, per chiedere lumi sul comportamento da tenere relativamente ai cristiani. Il suo epistolario è suddiviso in 10 libri e l’ultimo di essi raccoglie il carteggio ufficiale con l’imperatore Traiano. Queste lettere risalgono agli anni 111-113, gli anni del governatorato in Bitinia, e sono perciò scritte proprio da Nicea e Nicomedia.
«Affermavano che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. […]Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma» (Epist. X, 96, 1-9).
- Ignazio Antiochia, Lettera ai cristiani di Magnesia
IX,1. Dunque, quelli che erano per le antiche cose sono arrivati alla nuova speranza e non osservano più il sabato, ma vivono secondo la domenica, in cui è sorta la nostra vita per mezzo di Lui e della sua morte che alcuni negano. Mistero dal quale, invece, abbiamo avuto la fede e nel quale perseveriamo per essere discepoli di Gesù Cristo il solo nostro maestro. 2. Come noi possiamo vivere senza di Lui se anche i profeti quali discepoli nello spirito lo aspettavano come maestro? Per questo, quello che attendevamo giustamente, venendo li risuscitò dai morti.
- Giustino, Apologia
Giustino richiama, innanzitutto, l’insegnamento dei quattro vangeli che erano già gli unici riconosciuti in tutte le chiese: «gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: ‘Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo’. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: ‘Questo è il mio sangue’; e ne distribuì soltanto a loro» (Prima Apologia, LXVI, 3).
Giustino cerca di presentare il cibo eucaristico, perché i romani potessero averne un’idea più chiara: «Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato. I battezzati possono mangiare dell’eucaristia, infatti li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso è carne e sangue di quel Gesù incarnato» (Prima Apologia, LXVI, 1-2).
La Prima Apologia afferma che l’eucarestia era celebrata nel giorno detto “del sole” e presenta i vari momenti della celebrazione: «Nel giorno chiamato ‘del Sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto, cioè il sacerdote, colui che presiede. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate» (Prima Apologia, LXVII, 3-7).
- I martiri di Abitene, Sine Dominico non possumus
«Mai senza domenica». I martiri di Abitene, di Antonio Maria Sicari da Avvenire del 12/2/2012
Si tratta di un gruppo di quarantanove cristiani, vissuti ad Abitene, piccola località dell’Africa proconsolare (nell’attuale Tunisia). Era l’anno 303 d.C. e l’imperatore Diocleziano aveva scatenato una violenta persecuzione contro i cristiani, ordinando che «si dovevano ricercare le divine Scritture perché fossero bruciate; si dovevano abbattere le basiliche e si dovevano proibire i sacri riti e le santissime riunioni del Signore» (Atti dei Martiri, I).
Ma quelli di Abitene continuavano a celebrare assieme l’eucaristia domenicale, incuranti dell’editto imperiale. Arrestati, vennero processati a Cartagine. Non erano accusati per la fede che professavano, ma per l’aver continuato a radunarsi per le sacre celebrazioni. Perché avevano voluto sfidare l’imperatore?
Uno di loro rispose con una formula di rara bellezza e profondità: «Sine dominico, non possumus»: «Non possiamo vivere senza la celebrazione domenicale». Ne nacque un dibattito a più voci, tra il Proconsole e quel gruppo di cristiani, tra i quali c’erano anche donne, ragazzi e bambini.
Tutti insistevano che la celebrazione comunitaria era loro necessaria non soltanto perché li legava a Gesù Crocifisso e Risorto, ma anche per l’unità delle famiglie e dell’intera comunità. «Sono cristiano e, di mia volontà, ho partecipato all’assemblea domenicale con mio padre e i miei fratelli», disse uno dei bambini.
E il sacerdote spiegò al persecutore: «Non lo sai, che è la Domenica a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Domenica, sicché l’una non può sussistere senza l’altro, e viceversa? Quando senti il nome 'cristiano', sappi che vi è una 'comunità riunita' che celebra il Signore; e quando senti dire 'comunità riunita', sappi che lì c’è il 'cristiano'».
Sommario degli Atti dei martiri di Abitene
L'editto di Diocleziano, la persecuzione dei cristiani: traditores e martiri.
Arresto dei martiri di Abitine, mentre celebravano la Pasqua domenicale. Elenco dei martiri.
I martiri vengono trasferiti da Abitine a Cartagine per essere processati. A Cartagine un prodigio celeste già aveva, tempo prima, difeso le Scritture.
I martiri giungono a Cartagine cantando inni, lieti di affrontare la lotta.
Il proconsole Anulino interroga Dativo e lo sottopone alla tortura. Si fa avanti Telica, confessa la sua fede; anche lui è sottoposto al supplizio.
Continua il supplizio di Telica, che oppone agli editti imperiali la legge di Dio; difende il diritto dei cristiani a radunarsi per il culto; rivolge la sua preghiera al Signore.
Anulino torna ad interrogare Dativo. Un pagano, Fortunaziano, lo accusa di avere sedotto sua sorella Vittoria e averla così convinta a farsi cristiana. Vittoria reagisce, affermando la propria libera scelta. Dativo viene sottoposto al supplizio.
Un altro pagano, Pompeiano, rivolge accuse calunniose contro Dativo, che confessa ancora la propria fede e viene ulteriormente torturato.
Viene la volta del presbitero Saturnino: sostiene l'importanza che la celebrazione della Pasqua domenicale ha per i cristiani; sostiene con forza il supplizio; rivolge la sua preghiera al Signore.
Si fa avanti Emerito; dice che le riunioni si sono tenute nella sua casa; confessa la sua fede; subisce il supplizio.
Ancora interrogato, Emerito attesta che senza la Pasqua domenicale i cristiani non possono vivere. Interrogato se possiede le Scritture, dice di possederle nel cuore.
Il proconsole e i carnefici sembrano stanchi. Ma è la volta di Felice; il martire attesta che il cristiano è fondato sulla Pasqua domenicale: l'uno non può essere senza l'altra. Viene battuto con le verghe fino alla morte. Così un altro martire col suo stesso nome.
Segue il martirio di Ampelio, di Rogaziano, di Quinto, di Massimiano, di un altro Felice: tutti attestano la loro fede nelle Scritture e nella Pasqua domenicale.
Viene interrogato e torturato il giovane Saturnino, figlio del presbitero, che segue in tutto il padre nella professione di fede e nella passione.
Scende la notte, i carnefici sono stanchi. Anulino cerca di vincere i rimanenti martiri interrogandoli tutti insieme, ma tutti restano saldi nella loro fede.
È la volta di Vittoria, che alla palma della verginità aggiunge quella del martirio. Non tiene in alcun conto la presenza del fratello: i suoi fratelli sono quelli che osservano i precetti del Signore.
Martirio del piccolo Ilarione, figlio del presbitero Saturnino. A nulla valgono le minacce del proconsole: Ilarione sostiene come un adulto la sua battaglia, rendendo grazie a Dio per il suo martirio.
- Costantino nel 321 dichiara che il dies soli sarà festa
Non imposizione, bensì liberazione!
7/ Nell’annunzio della fede oggi
da J. Vanier, La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca book, Milano, 1980, p. 217
Le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa.
La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa.
Molto spesso oggi abbiamo la gioia senza Dio o Dio senza la gioia. È la conseguenza di tanti anni di giansenismo in cui Dio appariva come l’Onnipotente severo; la gioia si è staccata dal divino.
La festa, al contrario, è la gioia con Dio.
Dall’omelia del Santo Padre Benedetto XVI per la messa domenicale del 9/9/2007, nel Duomo di Santo Stefano a Vienn
Sine dominico non possumus! Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l'insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea.
Il tempo libero necessita di un centro - l'incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di Monaco e Frisinga, il cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: «Dà all'anima la sua domenica, dà alla domenica la sua anima».
Proprio perché nella domenica si tratta in profondità dell'incontro, nella Parola e nel Sacramento, con il Cristo risorto, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera. I primi cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana come giorno del Signore, perché era il giorno della risurrezione. Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della creazione, il giorno in cui Dio disse: «Sia la luce!» (Gn 1,3). Per questo la domenica è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione - la festa della gratitudine e della gioia per la creazione di Dio.
In un'epoca, in cui, a causa dei nostri interventi umani, la creazione sembra esposta a molteplici pericoli, dovremmo accogliere coscientemente proprio anche questa dimensione della domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo giorno ha poi assimilato progressivamente anche l'eredità del settimo giorno, dello šabbat. Partecipiamo al riposo di Dio, un riposo che abbraccia tutti gli uomini. Così percepiamo in questo giorno qualcosa della libertà e dell'uguaglianza di tutte le creature di Dio.
Nell'orazione di questa domenica ricordiamo innanzitutto che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno di questo sguardo di bontà, al di là della domenica, fin nella vita di ogni giorno. Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è già stato donato, anzi, sappiamo che Dio ci ha adottati come figli, ci ha accolti veramente nella comunione con se stesso.
Essere figlio significa - lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva - essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L'eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa' che questa consapevolezza ci penetri profondamente nell'anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen.
da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, in J. Ratzinger, La Bellezza. La Chiesa, LEV-Itaca, Roma-Castel Bolognese, pp. 44-46
È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso.
Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano.
da M. Formica, La città e la rivoluzione. Roma 1798-1799, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1994, pp. 49-50
Accogliendo il modello d'oltralpe, anche nello Stato romano venne introdotto un nuovo sistema per il computo degli anni, ove la data d'inizio, l'anno primo, non veniva più fatto coincidere con la nascita di Cristo, bensì con la proclamazione della Repubblica francese (22 settembre 1792) o con quella della Repubblica romana (15 febbraio 1798): attraverso questa nuova scansione temporale il giorno della creazione della vera società veniva dunque fatto coincidere con l'atto di fondazione della nuova era. Il fenomeno non si limitò a indicare una diversa data di inizio dell'anno, ma giunse a trasformare l'intero calendario, e i mesi e i giorni furono dedicati alla celebrazione dell'attività umana e degli elementi della natura: il primo mese dell'anno fu dunque vendemmiale (corrispondente al mese di settembre), seguito da brumale, glaciale, nevoso, piovoso, ventoso, germile, fiorile, pratile, messifero, termifero, fruttifero. Alla scansione quadrisettimanale di ogni mese si sostituì quella in tre decadi, determinando l'abolizione ufficiale della settimana stessa (si ebbero così: primodì, secondì, terzodì e così via). Lo stesso modo di suddividere l'orario del giorno venne modificato, e i ritmi della vita quotidiana furono modulati, secondo le intenzioni, non più in gruppi di sei ore, scanditi sul suono delle campane e sulle ore dei salmi, ma secondo l'uso francese:
Il giorno si divide in dodici ore, cominciando dal mezzo giorno, e di sera, in altre dodici cominciando dalla mezza notte, e si chiamano ore della mattina.
Sarà opera della fratellanza repubblicana, che i funzionarj pubblici, i ministri del culto, e le persone più intendenti ajutino gl'idioti nell’intelligenza e prattica delle denominazioni indicate. (Rapporto della Commissione incaricata...)
Se gli accorgimenti «della fratellanza repubblicana» non riuscirono di fatto, a incidere uniformemente sulla vita quotidiana dei cittadini e a trasformare le abitudini, per quanto riguarda l'attività degli organi istituzionali l'applicazione del nuovo tempo rivoluzionario venne osservata fedelmente e i ritmi di lavoro non furono più cadenzati su sul tempo tradizionale, con la domenica come giorno festivo, ma sulle decadi, e, dunque, i momenti di riposo rimasero limitati a tre giorni al mese (i decadì, appunto).
Cfr. albero della libertà al Museo Risorgimento di Torino
8/ Il Sussidio dell’Ufficio catechistico e dell’Ufficio liturgico
- link al Sussidio
- la messa cuore della fede e della gioia
- le 2 grandi obiezioni dei genitori
- la Messa (I e II parte del Sussidio)
- l’anno liturgico
Da Per l'inizio dell'anno liturgico. La corona che plasma il tempo, di Inos Biffi, da L’Osservatore Romano del 24/11/2010
L'anno liturgico è tra le più originali e preziose creazioni della Chiesa, "un poema - come diceva il cardinale Ildefonso Schuster di tutta la liturgia - al quale veramente hanno posto mano e cielo e terra".
Esso è la trama dei misteri di Gesù nell'ordito del tempo. Così, lungo il corso di ogni anno, la Chiesa rievoca gli eventi della sua nascita, della sua morte e della sua risurrezione, così che il susseguirsi dei giorni sia tutto improntato e sostenuto dalla memoria di lui. Una memoria d'altronde che, se fa volgere lo sguardo a quando quegli eventi si sono compiuti, subito fa tendere lo sguardo sul Presente, cioè sul Cristo vivente, che sovrasta e include in se stesso tutta la storia.
Riprendiamo sul nostro sito la testimonianza di una neo-battezzata cinese che è diventata cristiana nella diocesi di Albano nel 2015. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Catecumenato degli adulti, nella sezione Catechesi, famiglia e scuola.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
Negli anni 60, dal punto di vista economico, la Repubblica Popolare Cinese aveva ereditato la sciagurata strategia del “grande balzo in avanti” che pretendeva di raggiungere l’autosufficienza economica attraverso una consistente razionalizzazione della produttività agricola. L’esperimento fu un colossale fallimento, col crollo della stessa produzione agricola, disastri economici e ripetute carestie.
Fu proprio a ridosso di quegli anni, nel 1965, che io nacqui nell’Inner Mongolia, provincia della Cina settentrionale con una superficie quattro volte più grande dell’Italia, dove mio padre, originario di Pechino, era stato mandato come direttore finanziario della provincia stessa.
Furono anni duri sia dal punto di vista della sopravvivenza alimentare, sia dal punto di vista sociale; le nuove generazioni di “guardie rosse”, attraverso la “rivoluzione culturale”, contestavano ogni potere burocratico e ogni autorità. Insegnanti, politici e membri della classe dirigente venivano accusati e condannati in processi sommari. Tra questi i miei genitori, internati per due anni in diversi campi di rieducazione.
Fu così che crebbi, in un contesto di repressione e paura, dove non era possibile avere un ideale che non fosse in linea con quello del partito e senza alcun riferimento o sostegno spirituale in quanto ogni espressione religiosa veniva negata, osteggiata e perseguitata.
Seguirono gli anni all’università. Ero stata ammessa alla prestigiosa “Beijing International Study University” e, attraverso lo studio di testi letterari della cultura europea e americana, iniziavo ad entrare in contatto per la prima volta, senza peraltro capirne le radici e la profondità, con concetti quali credo religioso, vita spirituale e in alcuni casi con il termine “anima”, non presente nel vocabolario cinese e quindi a me, fino ad allora, completamente sconosciuto.
Terminati gli studi iniziò la mia vita lavorativa che dopo alcuni anni, alle soglie del duemila, mi vedeva responsabile delle attività di marketing di quella che è considerata la più grande società di pubblicità al mondo, con capitale statunitense, ma presente in tutti i paesi, inclusa la Cina, dove tuttora cura la pubblicità e la promozione dei marchi dei più grandi gruppi industriali al mondo.
Fu in questa veste professionale che incontrai per la prima volta colui che sarebbe poi diventato mio marito. Antonio era il rappresentante e responsabile in Asia del principale operatore italiano di telecomunicazioni che si apprestava a lanciare una campagna pubblicitaria orientata a promuovere alcuni servizi di telefonia mobile nel mio paese.
Entrambi reduci da precedenti esperienze matrimoniali celebrate civilmente e tristemente naufragate, trovammo conforto e unità di progetti futuri insieme e dopo un paio di anni di frequentazioni, decidemmo di sposarci, sempre civilmente, a Pechino.
Mio marito cattolico dalla nascita, ma non praticante anche per la mancanza di una rappresentanza ufficiale della Chiesa Cattolica in Cina, mi aiutava spesso, in quegli anni, ad individuare testi e riferimenti religiosi che iniziavano a stimolare quella che allora era poco più di una curiosità intellettuale nei confronti della sua fede, che lui viveva ed esprimeva in maniera molto diversa dalle esibizioni colorite e miracolistiche, alle quali avevo avuto modo di assistere, delle Dottrine Cristiane cosiddette “patriottiche”, le sole tollerate in quegli anni dal governo del mio paese.
Nel 2009 a seguito di evoluzioni lavorative (mio marito era stato collocato in pensione) e accadimenti vari, scegliemmo di rientrare in Italia. Dopo aver valutato varie soluzioni decidemmo di andare a vivere a Lavinio, piccola frazione sul mare del comune di Anzio in provincia di Roma.
Gli inizi furono complessi e in alcuni momenti per niente facili, mi trovai improvvisamente catapultata a vivere da straniera in un paese straniero, circondata da persone che parlavano una lingua a me totalmente sconosciuta, con abitudini, tradizioni e cultura diverse dalle mie.
Continuava però in me quell’interesse nei confronti della religione Cristiana Cattolica che a questo punto, anche perché circondata da esempi e modelli di cristianità praticante da parte della famiglia di mio marito e da quelle dei nuovi amici che avevamo acquisito, non era più motivato da curiosità intellettuale, ma si era trasformato in un crescente bisogno di intraprendere un vero e proprio cammino di spiritualità.
Vivevamo in un’area che faceva riferimento alla Parrocchia di San Francesco di Assisi in Lavinio Lido e in quel periodo, alla fine del 2013, era da poco arrivato un giovane frate francescano originario del Brasile, che sarebbe, da li a breve, diventato il parroco della nostra parrocchia.
Padre David, così si chiama il nostro parroco, subito intuì e comprese il mio forte bisogno di fede ed esigenza di avvicinarmi a Cristo e, d’intesa con il Servizio Diocesano per il Catecumenato e il permesso del nostro Vescovo, Monsignor Marcello Semeraro, attuò un programma di catechesi per me e di supporto e rinforzo spirituale per mio marito che è culminato, preceduto dal matrimonio religioso nel dicembre 2014 secondo il rito di unione tra un cattolico ed una catecumena, durante la veglia pasquale del 2015 nella Cattedrale di Albano, con il conferimento del battesimo, della confermazione e della prima comunione.
Questo processo di conversione, ricerca e avvicinamento a Cristo ha prodotto e continua a produrre una radicale trasformazione del mio modo di affrontare la mia esistenza emotiva ed interiore, offrendomi risposte a dubbi e paure circa il presente ed il futuro, soprattutto quello che segue la nostra esperienza terrena. Inoltre ha totalmente modificato il mio modo di confrontarmi con la mia famiglia, i miei amici o più in generale con il mio prossimo, nei confronti del quale oggi tendo con sempre minore approssimazione ma ancora, purtroppo, con grande distanza, ad amare come amo me stessa.
Oggi la mia vita, con tutte le inevitabili piccole e grandi difficoltà che la quotidianità ci riserva, ha acquisito intense connotazioni di serenità e mi vede impegnata in attività parrocchiali che mi fanno sentire integrata nella nostra piccola comunità e che danno una connotazione concreta al mio impegno di donna cattolica praticante.
Svolgo infatti, con motivato coinvolgimento, il ruolo di operatrice Caritas nel supporto alle famiglie più bisognose del nostro territorio e sono coinvolta, con mio marito e ad altri volontari, nell’avvio e costituzione di un Centro di Ascolto che inizierà ad essere operativo entro il corrente anno. Recentemente sono stata accettata ed inserita, questo lo confesso con malcelato orgoglio e soddisfazione, nella corale parrocchiale.
Infine, per concludere, vorrei riuscire a trovare un termine, o una parola che possa racchiudere in una improbabile sintesi, tutto quello che ora io sono e tutto quello che provo. Allora mi torna in mente il passo di un libro scritto alcuni anni fa da Vittorio Messori e regalatomi dalla mia madrina all’inizio del percorso che mi ha portato ad essere una credente, cristiana e cattolica .
L’autore cita Sant’Agostino che non ancora convertito, ma ormai vicino al grande passo si chiedeva quasi in modo ossessivo “Si isti et istae, cur non ego?”, se questi e queste (sono capaci di tanto), perché io no?
Lo scrittore oltre a riferire il concetto secondo il quale il Santo intendeva spronare se stesso a percorrere le vie della fede e della salvezza al pari di quei cristiani che testimoniavano l’amore per il Cristo fino al martirio, estende la sua interpretazione più in generale ai volti dei credenti da lui incontrati, a quei volti sui quali leggeva e riconosceva una forte e fiera “gioia” interiore alla quale lui stesso anelava.
Ecco allora la parola che sintetizza e più rappresenta il mio stato d’animo dopo aver incontrato Gesù: la gioia.
Caterina Sun
1/ Ma gli «anticorpi» di Roma io li chiamo per nome. C’è un’altra città quasi invisibile e giusta, di Eraldo Affinati
Riprendiamo da Avvenire del 30/10/2015 un articolo di Eraldo Affinati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
Alla battuta di Raffaele Cantone, sulla perduta integrità della capitale italiana, sarebbe bello poter rispondere che noi gli anticorpi romani, capaci di combattere l’incuria, superare l’immoralità e sanare il degrado, li conosciamo bene e vorremmo tanto che li considerasse degni di nota anche lui: si chiamano Giulio, un mio ex studente della Magliana; Vittorio, un elettricista del Tiburtino e Paola, volontaria di Centocelle. Uso il condizionale perché voglio scoprire gli ingranaggi aprendo uno spazio d’incertezza nel mio stesso ragionamento prima ancora che su quello impostato dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Dobbiamo trovare la forza di credere di più in quello che facciamo.
È vero: la trionfante civiltà mediatica ci obbliga alla sintesi sbrigativa, al duello spettacolarizzato e allo schema sociologico, tuttavia mi piacerebbe non trattenere il moto d’insofferenza che provo per questo modo di procedere: Roma e Milano, lealtà e fraudolenza, bene e male, nord e sud, bianchi e neri. Che la protervia e l’arroganza, l’egoismo e il malaffare corrispondano a un tratto antropologico della specie cui apparteniamo e non possano certo essere ridotti in chiave geografica, sono certo che lo diamo tutti per scontato, così come l’opposta speculare consapevolezza riguardo alla natura buona e generosa di alcuni. Ma allora di cosa stiamo parlando?
Io credo che il tema-fondamento di questa polemica sia la luce dei riflettori, accesi come fari fissi sui romanzi criminali e sulle suburre contemporanee e clamorosamente spenti altrove. È una vecchia questione: secondo qualche studioso, il tarlo del Novecento. Sì al delirio, all’ebbrezza, allo smarrimento. No al rigore, al limite, alla responsabilità. Non stiamo invocando santini edificanti da contrapporre ai più loschi figuri, questo non farebbe altro che spingere molti di noi verso i secondi disdegnando i primi. Piuttosto dovremmo rinnovare il linguaggio, ripristinare i canoni estetici, rifiutare i ciarlatani.
L’unico che sembra aver compreso la dimensione ermeneutica della crisi etica che stiamo vivendo è papa Francesco: ne conveniamo, un romano d’eccezione. Nella maggioranza dei casi rischiamo di appiattirci in uno sterile gioco di schieramenti lasciando campo libero al teatrino della politica, costantemente enfatizzato dalle televisioni, con gli squallidi risultati che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno quando osserviamo i comportamenti all’interno delle camere legislative.
Giulio era un ripetente, bocciato due volte in prima superiore, al quale chiesi di insegnare la lingua italiana agli immigrati. Lo fece un anno intero senza che gli avessi promesso niente: né voti alti, né crediti scolastici. Vittorio, se non è impegnato a lavorare, guida gratis l’ambulanza del 118 per andare a soccorrere i malati. Paola è una pensionata che la mattina presto si reca al Baobab, centro di accoglienza nel quartiere di San Lorenzo che, dopo essere entrato nelle cronache cittadine di "mafia capitale", ospita oggi i profughi in transito. Lei serve la colazione, sparecchia, si rende utile in vari modi e, come centinaia di altri cittadini, offre a quei disperati generi di prima necessità. Il Baobab non riceve finanziamenti istituzionali e funziona solo grazie ai donatori e soprattutto al lavoro dei volontari.
Ecco quali sono gli anticorpi di cui abbiamo bisogno e che dobbiamo imparare a riconoscere e valorizzare. Ce ne sono innumerevoli, giovani e adulti, donne e uomini, spesso invisibili, anche se magari abitano accanto a noi. Persone comuni in grado di fare la rivoluzione. Piccola. Una al giorno. Fuori e dentro l’Urbe imperitura. Senza fretta. Con la potenza di chi non vuole niente in cambio.
2/ Vuoi vedere che Adamo e signora erano milanesi? Siamo proprio tornati sulla bocca di tutti, e io ho un dubbio, di Giacomo Poretti
Riprendiamo da Avvenire del 30/10/2015 un articolo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
Milano è ritornata di moda, è sulla bocca di tutti, persino come ritrovata «Capitale morale» e addirittura qualche milione di stranieri in questi mesi sono venuti a visitarla. A noi indigeni ci fa senso tutto questo interesse per la nostra città, visto che ci tocca di sentirla continuamente descrivere e deridere come grigia, nebbiosa e triste.
Sarà che siamo stati abituati nei secoli a ricevere le visite ad ogni ora del giorno: bussavano al portone, noi ad aprire, e dentro romani, ostrogoti, visigoti, spagnoli, francesi, austriaci, tedeschi, americani, meridionali, peruviani, filippini. Qualcuno è entrato e ha voluto comandare, qualcun altro ha chiesto da lavorare, altri hanno lavato i vetri ai semafori, altri ancora li abbiamo cacciati a schioppettate.
Tutti a dire che Milano è grigia, nebbiosa e triste. «Ah, vedessi casa mia! il mare! il sole! i palazzi! e come si mangia a casa mia! altro che la cotoletta!». Siamo abituati noi milanesi a questo tipo di sarcasmo, ma noi lo sappiamo che, in realtà, chi disprezza ama.
Noi ci facciamo prendere in giro docilmente e andiamo avanti, sappiamo che il nostro destino è quello di lavorare e quello facciamo.
A volte pensando al buon Dio, che per la verità in quel momento non era tanto buono ma abbastanza su di giri, quando ha scacciato i nostri antenati dal Paradiso urlandogli: «D’ora in avanti ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte», ecco mi viene il dubbio che Adamo e sua moglie fossero stati milanesi e che da allora la maledizione del lavoro si sia incistata dentro al nostro Dna.
Non saremo espansivi come le popolazioni che vivono sotto il 45° parallelo e se volete venire a cena da noi dovete dircelo una settimana prima, però facciamo del nostro meglio per non farvi sentire la nostalgia di casa.
A Milano manca il mare? e noi abbiamo riaperto il Naviglio e abbellito l’idroscalo. A Milano mancano le montagne? e noi per farvi correre abbiamo fatto la “montagnetta”. A Milano non ci sono i bei palazzi e si mangia male? e noi vi abbiamo fatto l’Expo con i suoi avveniristici padiglioni e la cucina di tutto il pianeta.
E il sole? Beh quello, se permettete, ve lo vedrete quando ritornerete a casa vostra per farvi le vacanze! Non mi dite che avete prenotato 2 settimane in agosto un albergo con vista Darsena!?!
È proprio vero quel che dice la canzone « ...canten tucc “lontan de Napoli se moeur” ma po’ i vegnen chi a Milan».
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’udienza ai partecipanti al Pellegrinaggio Mondiale del Popolo Gitano (Roma, 23-26 ottobre 2015), il 26/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi su questo stesso sito Una famiglia cristiana del popolo zingaro racconta dall'interno la vita e le sofferenze degli zingari romani. Testimonianza di Carlo e Dzemilla Stasolla.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
Cari fratelli e sorelle!
Vi accolgo e vi saluto tutti cordialmente. Ringrazio il Cardinale Antonio Maria Vegliò per le sue parole e per aver organizzato questo evento in collaborazione con la Fondazione “Migrantes” della Conferenza Episcopale Italiana, con l’Ufficio “Migrantes” della Diocesi di Roma e la Comunità di Sant’Egidio.
Cari amici gitani, o Del si tumentsa! [“il Signore sia con voi!”]
Molti di voi vengono da lontano e hanno fatto un lungo viaggio per arrivare qui. Siate benvenuti! Vi ringrazio per aver voluto commemorare insieme lo storico incontro del beato Paolo VI con il popolo nomade. Sono passati cinquant’anni da quando egli venne a farvi visita nell’accampamento di Pomezia. Con premura paterna il Papa disse ai vostri nonni e padri: «Dovunque vi fermiate, voi siete considerati importuni ed estranei […] Qui no; […] qui trovate qualcuno che vi vuole bene, vi stima, vi apprezza, vi assiste» (Insegnamenti III [1965], 491). Con queste parole, egli spronò la Chiesa all’impegno pastorale con il vostro popolo, incoraggiando allo stesso tempo anche voi ad avere fiducia in essa. Da quel giorno fino ad oggi, siamo stati testimoni di grandi cambiamenti sia nel campo dell’evangelizzazione sia in quello della promozione umana, sociale e culturale della vostra comunità. Abbiamo sentito il Dott. Peter Polak, la sua esperienza, e come su questa via si deve fare una promozione e continuare a farla.
Un segno forte di fede e crescita spirituale delle vostre etnie è il numero sempre in aumento di vocazioni sacerdotali, diaconali e di vita consacrata. Oggi è qui con noi il Vescovo Devprasad Ganava, anche lui figlio di questo popolo. A voi, cari consacrati, i vostri fratelli e sorelle guardano con fiducia e con speranza per il ruolo che ricoprite e per tutto ciò che potete fare nel processo di riconciliazione all’interno della società e della Chiesa. Voi siete un tramite tra due culture e, per questo, vi si chiede di essere sempre testimoni di trasparenza evangelica per favorire la nascita, la crescita e la cura di nuove vocazioni. Sappiate essere accompagnatori non solo nel cammino spirituale, ma anche nell’ordinarietà della vita quotidiana con tutte le sue fatiche, gioie e preoccupazioni.
Conosco le difficoltà del vostro popolo. Visitando alcune parrocchie romane, nelle periferie della città, ho avuto modo di sentire i vostri problemi, le vostre inquietudini, e ho constatato che interpellano non soltanto la Chiesa, ma anche le autorità locali. Ho potuto vedere le condizioni precarie in cui vivono molti di voi, dovute alla trascuratezza e alla mancanza di lavoro e dei necessari mezzi di sussistenza. Ciò contrasta col diritto di ogni persona ad una vita dignitosa, a un lavoro dignitoso, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. L’ordine morale e quello sociale impongono che ogni essere umano possa godere dei diritti fondamentali e debba rispondere ai propri doveri. Su questa base è possibile costruire una convivenza pacifica, in cui le diverse culture e tradizioni custodiscono i rispettivi valori in atteggiamento non di chiusura e contrapposizione, ma di dialogo e integrazione. Non vogliamo più assistere a tragedie familiari in cui i bambini muoiono di freddo o tra le fiamme, o diventano oggetti in mano a persone depravate, i giovani e le donne sono coinvolti nel traffico di droga o di esseri umani. E questo perché spesso cadiamo nell’indifferenza e nell’incapacità di accettare costumi e modi di vita diversi dai nostri noi.
Vorrei che anche per il vostro popolo si desse inizio a una nuova storia, a una rinnovata storia. Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo e della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, e nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri. È lo spirito della misericordia che ci chiama a batterci perché siano garantiti tutti questi valori. Permettiamo quindi che il Vangelo della misericordia scuota le nostre coscienze e apriamo i nostri cuori e le nostre mani ai più bisognosi e ai più emarginati, partendo da chi ci sta più vicino. Esorto voi per primi, nelle città di oggi in cui si respira tanto individualismo, ad impegnarvi a costruire periferie più umane, legami di fraternità e condivisione; avete questa responsabilità, è anche compito vostro. E potete farlo se siete anzitutto buoni cristiani, evitando tutto ciò che non è degno di questo nome: falsità, truffe, imbrogli, liti. Avete l’esempio del beato Zeffirino Giménez Malla, figlio del vostro popolo, che si distinse per le sue virtù, per umiltà e onestà, e per la grande devozione alla Madonna, una devozione che lo portò al martirio e ad essere conosciuto come “Martire del Rosario”. Ve lo ripropongo oggi come modello di vita e di religiosità, anche per i vincoli culturali ed etnici che vi legano a lui.
Cari amici, non date ai mezzi di comunicazione e all’opinione pubblica occasioni per parlare male di voi. Voi stessi siete i protagonisti del vostro presente e del vostro futuro. Come tutti i cittadini, potete contribuire al benessere e al progresso della società rispettandone le leggi, adempiendo ai vostri doveri e integrandovi anche attraverso l’emancipazione delle nuove generazioni. Vedo qui in Aula molti giovani e molti bambini: sono il futuro del vostro popolo ma anche della società in cui vivono. I bambini sono il vostro tesoro più prezioso. La vostra cultura oggi è in fase di mutazione, lo sviluppo tecnologico rende i vostri ragazzi sempre più consapevoli delle proprie potenzialità e della loro dignità, e loro stessi sentono la necessità di lavorare per la promozione umana personale e del vostro popolo. Questo esige che sia loro assicurata un’adeguata scolarizzazione. E questo dovete chiederlo: è un diritto!
L’istruzione è sicuramente la base per un sano sviluppo della persona. È noto che lo scarso livello di scolarizzazione di molti dei vostri giovani rappresenta oggi il principale ostacolo per l’accesso al mondo del lavoro. I vostri figli hanno il diritto di andare a scuola, non impediteglielo! I vostri figli hanno il diritto di andare a scuola! È importante che la spinta verso una maggiore istruzione parta dalla famiglia, parta dai genitori, parta dai nonni; è compito degli adulti assicurarsi che i ragazzi frequentino la scuola. L’accesso all’istruzione permette ai vostri giovani di diventare cittadini attivi, di partecipare alla vita politica, sociale ed economica nei rispettivi Paesi.
Alle istituzioni civili è chiesto l’impegno di garantire adeguati percorsi formativi per i giovani gitani, dando la possibilità anche alle famiglie che vivono in condizioni più disagiate di beneficiare di un adeguato inserimento scolastico e lavorativo. Il processo di integrazione pone alla società la sfida di conoscere la cultura, la storia e i valori delle popolazioni gitane. La vostra cultura e i vostri valori, che siano conosciuti da tutti!
Più volte, anche da parte di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, vi è stato assicurato l’affetto e l’incoraggiamento della Chiesa. Ora vorrei concludere con le parole del beato Paolo VI, che vi affermò: «Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore. Voi siete nel cuore della Chiesa» (ibid., 491-492). In questo cuore c’è anche Maria, da voi venerata come Madonna degli Zingari, che tra poco incoroneremo nuovamente per ricordare il gesto compiuto da Papa Montini cinquant’anni fa. A Lei e al beato Zeffirino affido voi, le vostre famiglie e il vostro futuro. E per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.
Riprendiamo da La Repubblica del 13/10/2015 un articolo scritto da Massimo Recalcati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli dell'autore, vedi il tag massimo_recalcati.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
Il nostro tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman, l'esasperazione del carattere liquido dell'identità: cambiamento di sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda: «Chi crediamo di essere?». L'identità vacilla, barcolla, diventa un concetto sempre più mobile, borderline .
Mentre l'età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima, spirito, cogito, ragione, Io) che avesse, come scrisse Descartes, la stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno, quale è il nostro, l'identità si pare dissolversi in un camaleontismo permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso, sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da una liquefazione dell'identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il deficit dell'Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria dell'Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il primo colpo mostrando che la terra non è il centro dell'universo; Darwin il secondo affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più scabroso e decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche dell'Io, fu quello di Freud che ha evidenziato come l'Io non sia «padrone nemmeno in casa propria». L'identità dell'Io non è un centro statico dal quale si irradia la personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino servitore di tre padroni: tirato dall'Es, dal Super-Io e dalla realtà esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Su queste orme Lacan concepirà l'Io non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido. Per questa ragione egli riteneva che la «follia più grande» dell'uomo è quella di «credersi davvero un Io».
Se però l'Io non è più il centro permanente della nostra vita psichica tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide. L'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è probabilmente l'elogio filosoficamente più alto di questa nuova prospettiva: l'identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell'età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita. Anziché vivere con angoscia la perdita di centro essa viene salutata come una grande possibilità di apertura e di liberazione.
Nondimeno, come il rovescio di una stessa medaglia, questa evaporazione dell'Io innesca — come esito di un movimento reattivo che Bauman non ha colto sufficientemente — l'esigenza di trovare una identità solida. Il vento del fondamentalismo spira chiaramente in questa direzione: il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature.
Noi siamo quello che pensiamo di essere, punto. L'Io torna ad essere padrone più che mai non solo in casa propria, ma anche in quella degli altri. Si riabilita così una concezione paranoica dell'identità fondata sull'esistenza, altrettanto solida, dei suoi "nemici" più irriducibili. Si tratta di una riabilitazione che può risultare altamente attrattiva anche per un Occidente che ha perduto il suo centro identitario.
Nietzsche ci aveva ammoniti: verrà un tempo dopo la morte di Dio — dopo la perdita irreversibile del "centro" — dove gli uomini adoreranno la sua ombra in lugubri caverne afflitti dalla nostalgia di un mondo che non esiste più. Anziché vivere le turbolenze del mare aperto essi cercheranno porti sicuri per le loro barche.
©Repubblica RIPRODUZIONE RISERVATA
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo pubblicato il 29/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
Papa Francesco ha sorpreso tutti proponendo I promessi sposi come un’opera formativa sul fidanzamento: «In Italia avete un capolavoro sul fidanzamento, non lasciatelo da parte, i giovani debbono leggerlo […]. È un capolavoro dove si racconta la storia dei fidanzati che hanno subito tanto dolore, hanno fatto una strada di tante difficoltà, fino ad arrivare alla fine al matrimonio. Non lasciate da parte quest’opera, andate avanti a leggerla e vedrete la sofferenza e anche la fedeltà di questi fidanzati».
Di tutto si era scritto sul romanzo, l’opera era stato letta come l’epopea della provvidenza, il romanzo sugli umili, un testo in cui il Seicento diventa il protagonista assoluto, l’emblema dei potenti che schiacciano gli umili. L’elenco delle interpretazioni potrebbe non finire mai. Ripartiamo allora dal fatto che I promessi sposi non è soltanto il romanzo più importante che sia stato scritto nella nostra letteratura, ma rappresenta in forma concreta e incarnata il genio del cristianesimo. Bisogna riscoprire prima il percorso di fede e di conversione dello scrittore.
Si è scritto che Manzoni è stato sempre refrattario a parlare della sua conversione. L’aneddotica riduce questo percorso lungo, durato qualche anno, al celebre episodio accaduto nella chiesa di San Rocco a Parigi. Durante il matrimonio di Napoleone (2 aprile 1810) la moglie sviene, Manzoni si perde e in una crisi di agorafobia si rifugia in chiesa a pregare. Ne esce convertito e ritrova la moglie. In realtà, molte sue lettere riferiscono i passi compiuti nel cammino di conversione. Ermes Visconti, uno degli amici più intimi di Manzoni, comprende che il cammino di fede di Alessandro è adombrato nella vicenda centrale dei Promessi sposi, la conversione dell’Innominato.
Sono milleottocento le lettere scritte da Manzoni dall’età di diciotto anni fino al 1873, l’anno della morte, pubblicate per conto dell’editore Adelphi. Rivolte ad amici, intellettuali, parenti e conoscenti, perfino al Papa, ci informano anche della sua vita privata e sentimentale, con quel riserbo che diverrà cifra caratteristica del letterato lombardo.
Particolarmente interessante è la lettura della corrispondenza del Manzoni dal momento in cui si fidanza con Enrichetta Blondel fino al matrimonio, prima con rito calvinista e poi con rito cattolico. Permette di comprendere meglio il percorso di conversione spesso tramandato a noi attraverso l’aneddotica.
A Giovanni Pagani nel 1808 Manzoni così si rivolge: «Ho trovato una compagna che riunisce tutti i pregi che possono rendere veramente felice un uomo, e me particolarmente». Nell’ottobre del 1809 Manzoni scrive a papa Pio VII informandolo del fatto che si è unito in matrimonio con Enrichetta Blondel secondo il rito della religione riformata e che è nata una «fanciulla la quale è stata battezzata cattolicamente, secondo il rito della S. Romana Chiesa». Ora, lo scrittore intende riparare al suo errore sposandosi di nuovo con l’amata secondo il rito cattolico. La data di questa lettera è ben precedente l’aneddoto della chiesa di San Rocco, che risale all’aprile del 1810, come lo è la celebrazione del matrimonio con rito cattolico il 15 febbraio 1810 ad opera dell’abate Costaz, «curato della parrocchia della Madeleine, nella residenza di Ferdinando Marescalchi, ministro degli Esteri del Regno Italico in Parigi, il quale fu anche testimonio per Alessandro Manzoni».
Il 29 giugno 1810 da Torino Manzoni informa Gaetano Giudici, abate giansenista, che Enrichetta si è risoluta a entrare in seno alla Chiesa cattolica grazie all’aiuto dell’abate Eustachio Degola. Il 22 maggio 1810 l’amata ha abiurato alla propria religione provocando la collera della famiglia Blondel, in particolar modo della madre. Per questo Manzoni chiede a Giudici, che è stimato dai Blondel, di farsi intermediario per la riconciliazione. Enrichetta, assai sensibile e affezionata ai genitori, già incinta, soffre immensamente per questo contrasto. Manzoni si dice disposto a incontrare in qualsiasi momento i suoceri e aggiunge, parlando dell’amata moglie: «Essa sta ora scrivendo all’amatissimo suo Padre, e si unisce a me per caldamente pregarla di avvalorare le tenere sincere ed umili supplicazioni ch’essa porge ad un Padre, verso del quale non è rea per nulla, non avendo fatto altro che disporre liberamente della propria coscienza».
Manzoni parla dell’atto della moglie come «innocentissimo e legittimo». Come prosegue la relazione di Enrichetta con i genitori? Si risolve? E in caso affermativo, come? Al riguardo leggiamo la lettera che Manzoni indirizza al padre spirituale Degola nel luglio 1810: «Questi [i genitori di Enrichetta], dopo aver continuato per primi giorni nella durezza loro, si mossero finalmente a proporre a mia moglie di andarli a trovare, promettendo di non far parola dell’occorso. La lettera fu scritta da sua madre, che ricevé la figlia a braccia aperte. Né mia madre né io non potemmo assistere, essendo stata mia madre esclusa assai incivilmente, ed io invitato in un modo che considero come un discacciamento. Qualche giorno dopo mia moglie tornò sola a casa sua, dove le fu fatto qualche rimprovero, che se, grazie a Dio, non influì in nulla sulle determinazioni sue, le cagionò però amarezza assai».
Nella stessa lettera Manzoni informa Degola che il canonico Tosi ha fatto visita a lui e alla madre Giulia promettendo di «preparare sollecitamente Enrichetta ai Sacramenti, ed alla Confermazione in ispecie». Manzoni chiede al Degola di continuare a offrire il suo sostegno alla moglie con le lettere, i conforti e le consolazioni. In seguito alla richiesta di Degola, Tosi diviene padre spirituale del Manzoni, incarico che tiene fino al 1823, quando è eletto vescovo di Pavia e viene a quel punto sostituito da Giudici. L’influenza di Tosi sugli Inni sacri, sulla Morale cattolica e sul romanzo è notevole: ad esempio, la soppressione dell’episodio della monaca di Monza sarebbe in parte dovuta a lui.
Nel 1811 si nota come l’affetto e la stima per il nuovo padre spirituale Tosi crescano tanto che Manzoni può a lui parlare della sua «profonda indegnità» e, nel contempo, di quanto possa in lui operare «la Onnipotenza della Divina Grazia». Al Tosi, nel giugno del 1811, Manzoni scrive «di pregare il buon Gesù che non si stanchi di farne risplendere i miracoli in un cuore che ne ha tanto bisogno».
Il 27 agosto 1811 Manzoni si reca dal padre spirituale per la confessione, che avverrà nel giorno di sant’Agostino (28 agosto), un grande convertito. Tosi scrive il giorno stesso a Degola: «Alessandro ha intrapresa la carriera con estrema docilità e sommessione; domani avremo ancora una lunga conferenza e, se il Signore conserva e accresce il lui le sue benedizioni, egli pure sarà per fare gran passi».
Nel settembre nasce Luigina Maria Vittorina Manzoni, che sopravvive solo alcune ore. Nella lettera del 7 settembre, Manzoni scrive a Degola: «In mezzo ai suoi travagli il Signore le [ovvero alla moglie Enrichetta] diede la consolazione di aver presente il canonico Tosi […]. Egli la confortò e consolò assai, e quel che più importa, spero l’avrà aiutata a cavare dai suoi travagli un maggior profitto spirituale […]. Preghi ella perché piaccia al Signore scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da una tepidezza che mi tormenta, e mi umilia; giusto castigo per chi non solo dimenticò Iddio, ma ebbe la disgrazia e l’ardire di negarlo. Ma se il desiderio mio è per la gloria di Lui, e se sarà avvalorato dalle sue orazioni spero vederlo esaudito».
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