Dalla Francia all’Italia le femministe contro la maternità surrogata: «La madre non si cancella», di Monica Ricci Sargentini
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 24/11/2015 un articolo scritto da Monica Ricci Sargentini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e, per la maternità surrogata, Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (29/11/2015)
Le prime a lanciare il sasso sono state le femministe francesi di fronte alle crescenti domande di iscrizione allo stato civile dei bambini nati da madre surrogata in California, Russia, India o altrove. Il prossimo 2 febbraio all’Assemblea Nazionale si terrà un convegno per l’Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa») cui parteciperanno ricercatori, parlamentari francesi ed europei, associazioni femministe. L’assise è stata lanciata da Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese, impegnata da anni nella lotta contro la maternità surrogata con la sua associazione Corp (Collettivo per il rispetto della persona) e autrice del saggio Corps en miettes («Corpi sbriciolati», Flammarion).
Agacinski, che è docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, spiega:
«Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa (…) Fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione (…)».
In Italia finora la battaglia contro la gestazione per altri era stata condotta soprattutto dai cattolici ma in queste ultime settimane il dibattito sulla legge sulle unioni civili ha riportato in campo l’argomento e le femministe italiane, soprattutto quelle della differenza, si sono sentite in dovere di pronunciarsi. Ognuna partendo da sé, come è sempre stato. La prima a scendere in campo senza se e senza ma è stata Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano : «Non esiste un diritto di avere figli a tutti i costi, eppure ce lo vogliono far credere: finito il tempo delle grandi aggregazioni e dei partiti, è un nuovo modo di fare politica cercando consensi. L’utero in affitto si innesta in questa tendenza, anche se è nato prima, negli Usa, con gli effetti che sappiamo. È la strada attuale per lo sfruttamento del corpo delle donne».
Domenica 22 novembre alla Casa Internazionale delle Donne di Roma il gruppo del Mercoledì ha indetto un incontro dal titolo eloquente: Curare la differenza. Tra gender, generazione, relazioni sessuali e famiglie arcobaleno. C’erano moltissime femministe storiche: Letizia Paolozzi, Maria Luisa Boccia, Lea Melandri, Bia Sarasini, Franca Fossati, Claudia Mancina, Elettra Deiana, Paola Tavella, Ida Dominijanni. Per citarne solo alcune. Ma sono intervenuti anche rappresentanti della comunità Lgbt: Aurelio Mancuso, Tommaso Giartosio, Andrea Maccarone. E Stefano Ciccone per l’associazione maschile plurale.
L’idea era quella di recuperare lo spazio per una riflessione sulle scelte di vita e di relazione a partire dalla pratica della cura senza dividersi nella polarizzazione semplicistica tra la negazione di ogni possibile cambiamento per ancorarsi a stereotipi rassicuranti e l’utilizzo disinvolto delle bio-tecnologie e del mercato per trovare risposte a desideri anch’essi rassicuranti. A partire da alcune domande: Come rispettare la libertà e l’autonomia di ciascuna donna? Come permettere la realizzazione di desideri senza mettere in gioco la libertà dell’altra? Non c’è il rischio di farne una mera questione di mercato? C’è differenza tra il desiderio di maternità e il desiderio di paternità, senza donne? Perché questo desiderio non sceglie l’adozione? Non riconoscendo nessuna differenza fra desiderio di maternità e desiderio di paternità, ritenendo che l’accesso alla genitorialità biologica sia un diritto universale e neutro, non ricadiamo nella conservazione dell’universo simbolico patriarcale?
Paola Tavella, giornalista e autrice di un libro contro le tecniche di procreazione assistita dal titolo Madri Selvagge, non ha molti dubbi:
«Io penso – dice – che un essere umano non si possa né vendere né comprare. Da un’indagine femminista indipendente su questa tematica viene fuori che l’80% delle donne che vengono affittate sono analfabete. In India si stanno muovendo per chiedere il divieto di questa pratica. Lì le donne vengono tenute nei capannoni, quando capiscono quello che sta succedendo scappano e le suocere, i mariti, le riportano indietro».
Tavella è convinta che la legge sulle unioni civili vada approvata al più presto ma con la stepchild adoption limitata alla presenza di una madre come è attualmente in Germania.
«È doveroso – spiega – fare una sanatoria per i bambini che sono già nati dall’utero in affitto ma impedire che ne arrivino altri. E poi si fa una battaglia insieme per le adozioni. Perché le donne e gli uomini di fronte alla procreazione non sono sullo stesso piano. Non possiamo organizzare scientificamente di fare nascere un figlio senza madre, che non avrà mai una madre».
Celeste Costantino, deputata di Sel, non crede nel concetto di dono: «Non penso che esista la gratuità però potrebbe esserci un elemento di autodeterminazione nel decidere di prestare il proprio corpo. Solo che l’input dovrebbe arrivare da chi si offre e non da chi ne fa richiesta. Così come sono le prostitute a rivendicare la loro libertà di farlo, così dovrebbe essere per la maternità surrogata».
Clelia Mori, insegnante e pittrice, parte da sé: «Io non potrei mai dare a nessun altro qualche cosa che ho costruito con il mio corpo. Ho provato a pensare di fare l’utero in affitto e mi sono sentita male. Perché questo mio dono d’amore deve essere così infinito e perché mi deve essere chiesto da una persona che non vive con me, che non mi ama, che non ha una relazione con me. Devo amare talmente un’altra persona da regalargli un mio figlio perché mi si chiede un dono. C’è qualcosa che mi fa male fisicamente. Non mi va bene questo. Non è un percorso corretto».
Ida Dominijanni, giornalista e filosofa, è d’accordo con Cecilia D’Elia che bisogna evitare di definire la maternità surrogata solo negativamente. Però, riflette, «due gay o due donne non sono la stessa cosa. Un contratto tra due donne può trovare un terreno di condivisione più facilmente che tra una coppia di gay omosessuali e tra una donna». Dominijanni mette in guardia contro «l’indifferenziazione sessuale sostenuta dal mercato e dai diritti». La tendenza è chiara, dice, «nella società americana i corpi stanno diventando indistinguibili. Ci sono ottime ragioni per rilanciare la scommessa della differenza tenendo presente, però, che è una scommessa difficile».
Il dibattito è tutt’altro che chiuso.