La basilica di San Pietro in Vaticano: guida per la visita. I testi di www.giubileovirtualtour.it, di Andrea Lonardo

Mettiamo a disposizione sul nostro sito i testi scritti da Andrea Lonardo per il virtual tour della basilica di San Pietro disponibile on-line al link https://www.gliscritti.it/giubileovirtualtour/ . Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

Qui il Virtual tour con le foto navigabili a 360° che rimandano poi alle singole tappe della visita, con foto, video e spiegazionihttps://www.gliscritti.it/giubileovirtualtour/ 

I/ PIAZZA SAN PIETRO: PRESENTAZIONE GENERALE

Sono don Andrea, un sacerdote di Roma. Vi guiderò in questa visita di San Pietro. Andrea è il nome che mi hanno dato i miei genitori, esisto realmente, non sono solo virtuale! Benvenuti qui a San Pietro.

Tutto ciò che vedete, tranne l’obelisco che esisteva precedentemente, nasce da una semplice sepoltura, quella di Pietro. Senza il suo arrivo a Roma, niente di ciò che vedete esisterebbe e non ci sarebbe nemmeno un papa a Roma.

Immaginate di cancellare tutto ciò che oggi esiste in piazza San Pietro. Ai tempi di Pietro, qui c’era un circo – uno stadio, potremmo dire -, costruito dagli imperatori Caligola e Nerone. Nel circo si correva con le quadrighe. Il circo era diviso a metà da una muratura che si chiamava allora “spina”, sopra la quale nella Roma imperiale si ponevano colonne o obelischi. L’obelisco che avete di fronte segnava la metà della pista del circo. Pietro morì vedendo proprio questo obelisco, perché è proprio in questo circo che fu ucciso.

Allora l’obelisco era spostato più indietro, rispetto alla posizione attuale dovuta a papa Sisto V.

VIDEO (PARTE ANIMATA)

Nell’animazione potete vedere dove era situato l’obelisco e, più o meno, dove era situato il circo. Tutto è cambiato, ma l’obelisco è sempre lo stesso, è sempre quello che vide la morte di Pietro e dei protomartiri romani, nell’anno 64 dopo Cristo, secondo le ricerche più accreditate. 

VIDEO (PARTE FISSA)

Prima di proseguire con l’animazione, puoi vedere in questa immagine fissa la basilica attuale sovrapposta al circo antico. La basilica è rappresentata più in alto, mentre il circo è in basso. L’immagine mostra bene la posizione originaria dell’obelisco. Uno storico pagano, Tacito, racconta negli Annali ciò che avvenne ai piedi di quell’obelisco. Si era verificato a quel tempo un’enorme incendio in Roma. Sebbene Nerone non fosse probabilmente il colpevole, iniziò a serpeggiare la voce che egli avesse voluto l’incendio per ricostruire la città a suo piacimento. L’imperatore, per allontanare da sé queste voci, attribuì ingiustamente ai cristiani la colpa del disastro e decretò per loro la prima persecuzione imperiale. Così racconta testualmente Tacito:  «Nerone inventò i colpevoli e sottopose a raffinatissime pene quelli che il popolo chiamava cristiani… Ne fu arrestata una gran moltitudine... Quelli che andavano a morire erano anche esposti alle beffe: coperti di pelli di fiere, morivano dilaniati dai cani, oppure erano crocifissi, o arsi vivi come di torce che servivano ad illuminare le tenebre quando il sole era tramontato. Nerone aveva offerto i suoi giardini per godere di tale spettacolo, mentre egli bandiva i giochi nel circo ed in veste di auriga si mescolava al popolo, o stava ritto sul cocchio».

Immagina allora sui gradini del circo i romani del tempo lì radunati a vedere la morte di Pietro, la morte delle prime famiglie, dei primi preti, dei primi catechisti di Roma. La tradizione vuole che Pietro sia stato crocifisso a testa in giù, per mostrare che la croce che salva è quella del Signore.

VIDEO (RIPRENDE L’ANIMAZIONE)

Torniamo ora ad immaginare com’era questo luogo il giorno del martirio di Pietro. Subito a fianco del circo dove Pietro e i primi martiri di Roma vennero uccisi c’era una strada, la via Cornelia, e a fianco di essa c’era un cimitero a cielo aperto. I cristiani presero il corpo di Pietro e lo seppellirono nel sepolcreto in una piazzola denominata oggi dagli archeologi “Campo P” – ne parleremo poi. Quell’umile tomba a terra è esattamente in perpendicolare sotto la croce della cupola. Se tracciassimo una linea retta discendente dalla croce scenderemmo all’altare papale della basilica e più in basso fino a quella tomba. Tutta la basilica sorge da quell’umile tomba a terra.
Hic, qui. Come a Nazaret si dice hic, qui, il Figlio di Dio si è fatto uomo, così a Roma si dice hic, qui, Pietro è stato ucciso, qui è stato sepolto. Perché la fede cristiana non è un mito, non è un’idea senza tempo e senza luogo, ma un fatto storico, un evento posto da Dio dinanzi agli occhi del mondo. La fede è un dono non solo perché è la grazia di Dio che la suscita nel cuore, ma prima ancora perché è un fatto donato a tutti la nascita di Gesù, è un fatto donato a tutti la testimonianza di Pietro.
La croce posta sopra la cupola dice: qui. Il papa è il vescovo di Roma perché qui Pietro ha dato la sua vita per testimoniare che Gesù è veramente il volto di Dio, che chi incontra Gesù e la sua misericordia incontra il vero volto di Dio.

RIAPPARE LA FOTO CIRCOLARE ORA CLICCABILE

Sei tornato ora alla foto panoramica navigabile. In questo virtual tour attraverserai 7 foto sferiche, man mano che avanzerai fino al cuore della basilica, discenderai nelle Grotte e poi uscirai nuovamente in piazza. Ognuna di queste foto ha una prima parte guidata esattamente come questa che si è appena conclusa: anche le successive ti offriranno le chiavi di lettura principali della zona della basilica che starai per visitare. Avrai poi ulteriori contributi sottolineati da un numero e da un titolo. Potrai scegliere tu quali visitare. Nella maggior parte di essi sarò ancora io a spiegarti con l’audio le opere più importanti della basilica mentre scorreranno alcune foto. Altri link, invece, ti daranno accesso a foto con didascalia, per sottolineare ulteriori particolari. Buona visita in libertà, allora, cominciando dagli approfondimenti che sono già apparsi sul tuo schermo.

0/ ICONA DEL GIUBILEO

[Papa Francesco:] «È venuta da me una donna anziana, umile, molto umile, ultraottantenne. Io l’ho guardata e gli ho detto: “Nonna – perché da noi alle anziane si dice così – lei vuole confessarsi?”. “Sì” – ha detto. “Ma se lei non ha peccato?”. Lei mi ha detto: “Tutti abbiamo peccati”. “Ma forse il Signore non li perdona”. “Il Signore perdona tutto” – mi ha detto, sicura. “Ma come la sa lei, signora?” “Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe”. Io ho sentito una voglia di domandarle: “Mi dica signora, lei ha studiato alla Gregoriana?”, perché quella è la sapienza che dà lo Spirito Santo: la sapienza interiore verso la misericordia di Dio. Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai».

Fin dal suo primo Angelus, pronunziato dalla finestra del Palazzo apostolico che è alla tua destra, papa Francesco ha proposto il tema della misericordia come chiave per comprendere la fede cristiana. Dio è amore: questo è l’annunzio della Chiesa. Dio è più forte del male e del peccato e non c’è uomo, per quanto grande sia il suo peccato, che non possa ritrovare la via del bene rivolgendosi a Dio.
Con l’indizione del Giubileo il papa ha voluto sottolineare ancor più che il bisogno di misericordia è presente oggi nel mondo. «La nostra tristezza infinita si cura solo con un infinito amore» ha detto il papa. Solo se l’amore vince il peccato, solo se l’amore vince la morte, possiamo essere felici. Il Giubileo della misericordia non solo annunzia che abbiamo bisogno di un infinito amore, ma annunzia che questo infinito amore esiste.
La Bolla di Indizione si apre così: «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù [...] Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio».
Vivere il Giubileo vuol dire allora riscoprire che il perdono dei peccati è possibile e che l’amore del Cristo ha sempre l’ultima parola sul male, se ci rivolgiamo a Lui.
Ma l’aver ricevuto misericordia non è un tesoro che si può tenere solo per noi. La Bolla così prosegue: «Non possiamo sfuggire alle parole del Signore e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero (cfr Mt 25,31-45). Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi “piccoli” è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga… per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”».
Ecco che il Giubileo ci invita allora a vivere una vita nuova: professare la fede della Chiesa facendosi pellegrini, ricevere il perdono dei peccati confessando il male compiuto, compiere gesti di misericordia incontrando i fratelli, specialmente i più bisognosi, pregare per le intenzioni del papa crescendo nella speranza, partecipare all’eucarestia scoprendo che non siamo soli, ma uniti a Cristo e ai fratelli.

1/ La statua di San Pietro. Il ministero del papa

«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt 16,18).
Prima che Gesù soprannominasse così Pietro – che in realtà si chiamava Simone – nessun uomo si era mai chiamato Pietro. I vangeli ricordano il termine esatto che Gesù scelse per lui: Cefa, che in aramaico vuol dire appunto pietra, roccia e che venne poi tradotto in greco con Petros. Tutti gli autori degli scritti neotestamentari ricordano questo nome di Simone, perché era per tutti evidente che così aveva voluto Gesù. Basta questo solo nome per capire che Gesù voleva l’esistenza della Chiesa. Gesù non era venuto solo per manifestarci l’amore di Dio, ma anche perché nascesse la Chiesa che lo testimoniasse al mondo: doveva esserci una roccia, una pietra, su cui edificare la sua Chiesa.

2/ Le chiavi di Pietro. Aprire e chiudere

Qual è l’importanza di Pietro? Ce lo mostra il simbolo delle chiavi che vediamo nelle mani della statua monumentale dinanzi alla facciata e 1000 altre volte nella basilica.
Le chiavi ricordano che Pietro apre una porta: solo dalla sua predicazione e da quella della Chiesa apostolica è risuonato il grido: «Dio è amore».

Pietro è il custode chiamato ad indicare la porta, non è la porta stessa che è, invece, il Cristo. Lo ha spiegato in maniera meravigliosa G.K. Chesterton: «Il cristiano è né più né meno che una persona con una chiave, quella chiave che poteva aprire la prigione del mondo intero, e far vedere la salvezza. Una chiave non è materia di astrazione: nel senso che una chiave non è materia di ragionamento. Essa o è adatta alla serratura, oppure non lo è. Nella chiave portata dal cristiano c’era una cosa che era semplice. Apriva la porta. Perché la fede cristiana fu accettata, ed è accettata? Perché corrisponde alla serratura; perché corrisponde alla vita. Siamo cristiani non perché adoriamo una chiave, ma perché abbiamo varcato una porta; e abbiamo sentito lo squillo di tromba della libertà sulla terra dei viventi».

L’iconografia ritrae Pietro sempre con due chiavi perché Gesù ha detto: «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). «Le espressioni “legare e sciogliere” derivano dal linguaggio rabbinico, dove significavano due cose: che qualcuno ha l’autorità di dichiarare giusta o falsa una dottrina e che qualcuno può accogliere o escludere dalla comunità dei fratelli».
Il vero Dio ha un volto di misericordia che Gesù, il Figlio, rivela al mondo. Gesù affida a Pietro le chiavi perché nessuno si permetta di contraffare tale volto, tale fede, tale dottrina.
Ma Gesù affida a Pietro anche la missione di perdonare: Pietro ed i suoi successori debbono denunciare il peccato, ma anche assolvere i peccati, essendo state loro affidate le chiavi della riammissione nella piena comunione con Dio e con la Chiesa.

3/ La Cappella Sistina. L’elezione del papa

Dalla piazza è visibile la Cappella Sistina – la vedete lì in alto - dove avvengono oggi le elezioni papali. In occasione del conclave viene realizzato un camino che segnala, dopo le fumate nere, la fumata bianca che annunzia che finalmente i cardinali sono giunti ad eleggere il nuovo pontefice. Il termine conclave viene dal latino cum clave, cioè “chiuso a chiave”, ad indicare che al momento dell’elezione non è possibile a persone diverse dagli elettori intromettersi nel conclave stesso. La segretezza non dipende da una volontà della Chiesa di preservare chissà quali misteri. Nasce, invece, dall’esigenza opposta, cioè quella di impedire l’intromissione di poteri laici, come gli imperatori, i re, i dittatori, le famiglie romane, gli aristocratici o altri, nell’elezione del papa. Il fatto che l’elezione avvenga in clausura vuole preservare la libertà della Chiesa. I pontificati più difficili della storia nacquero, spesso, proprio dall’intromissione, nonostante il conclave, di poteri laici che cercarono di determinare la scelta del nuovo vescovo di Roma a proprio uso e consumo. Straordinario è che l’elezione a maggioranza (oggi servono i 2/3 dei voti) esiste fin dagli inizi. Nessun papa ha mai potuto scegliere il proprio successore. E nonostante questo, e nonostante periodi travagliatissimi vissuti dalla Chiesa, da 2000 anni ancora si elegge un nuovo papa alla morte del predecessore. Non esiste altra istituzione che abbia una storia così antica e che sia così libera. Straordinario anche è che una volta eletto il nuovo papa, tutti professano a lui obbedienza, proprio perché vedono in lui la persona scelta da Dio per guidare la Chiesa nel tempo presente, anche se, durante l’elezione, avessero votato per un altro candidato.
Solo a partire da Pio VI i papi sono stati eletti nella Sistina. In età antica il papa abitava in Laterano e lì avvenivano le elezioni.

4/ Il balcone delle benedizioni. L’Habemus papam

Qui dalla piazza possiamo immaginare il giorno dell’elezione del papa, quel giorno che abbiamo visto tutti quanti in televisione. Il papa, una volta eletto nella Sistina, proprio in quel luogo, viene rivestito in una stanza che è in basso a sinistra avendo dinanzi il Giudizio universale di Michelangelo: quella camera è detta Stanza del pianto perché essere eletti pontefici è un peso enorme che grava sulle spalle, è un’ulteriore perdita di libertà per quell’uomo, per essere totalmente dedito al servizio del popolo di Dio e del mondo intero.

Mentre la fumata bianca, che esce dal tetto della Sistina, invita i fedeli a recarsi in piazza per ricevere l’annunzio del nuovo papa, il neo-eletto, con tutti i cardinali elettori, dopo aver pregato insieme, discende nell’Aula detta delle benedizioni che è sopra il portico della basilica. Viene aperta la finestra sul balcone centrale, quello che è proprio dinanzi a voi, e da lì viene proclamato l’Habemus papam. Quindi il nuovo papa parla per la prima volta ai fedeli e benedice le persone presenti in piazza e benedice insieme il mondo intero.

5/ La finestra del Palazzo apostolico. Il discorso della luna di Giovanni XXIII

Sulla destra della piazza vedete invece il Palazzo apostolico. È dalla seconda finestra in alto a partire da destra che il papa recita ogni domenica la preghiera dell’Angelus e benedice tutti i fedeli.

SEGUE IL VIDEO DI PAPA GIOVANNI XXIII E LA LUNA

6/ Il colonnato. Il simbolo dell’abbraccio

La basilica è preceduta dal colonnato che venne commissionato al Bernini. La pianta del colonnato non è un’ellissi, come a torto si afferma spesso, bensì è ottenuta dalla sovrapposizione di due circonferenze passanti ognuna per il centro dell’altra. Puoi vedere tanti visitatori che si pongono proprio nei punti centrali delle due circonferenze, che sono opportunamente segnati a terra con una lapide: da quel punto tutte le colonne appaiono allineate.

La sensazione che si riceve quando si entra in piazza è quella di essere dentro un abbraccio rivolto a tutti coloro che si riuniscono in piazza San Pietro e, idealmente, rivolto al mondo intero. Alcuni schizzi coevi mostrano la consapevolezza degli uomini dell’età barocca di tale significato simbolico. Lo stesso papa Alessandro VII che commissionò il colonnato scrisse che esso voleva ricordare due braccia che «accolgono i cattolici per confermarli nella fede, gli eretici per riunirli alla Chiesa, gli infedeli per illuminarli». Bernini lavorò al colonnato dal 1656 al 1667, per più di 10 anni.

7/ Il colonnato. Gian Lorenzo Bernini

La piazza ha una sua precisa funzione e non venne per questo mai considerata un’opera eccessiva, bensì un dono alla città di Roma: in essa si raduna il popolo di Dio all’elezione del nuovo pontefice. Senza quella piazza sarebbe impossibile a tanti pellegrini vedere il papa che si affaccia alla finestra per benedirli.

Io stesso ho visto l’evento assolutamente meraviglioso della piazza che si riempie in pochi minuti alla fumata bianca che annunzia l’elezione del papa. Mentre le campane di tutta la città suonano a festa, la piazza si riempie di romani e di pellegrini presenti in città che si precipitano con ogni mezzo possibile per salutare il nuovo papa e ricevere la sua benedizione.  È forse il momento più bello e più festoso che la città di Roma vive periodicamente e solo l’architettura della piazza rende possibile parteciparvi.
Paolo Portoghesi, studioso dell’arte barocca, ha scritto che «il diretto, felice riferimento allegorico al gesto accogliente delle braccia, dà a quest’immagine un’apertura comunicativa, costituendo la testimonianza maggiore delle qualità di Bernini come architetto, rivelando una profonda adesione di fede agli ideali rappresentati». Gli interstizi fra le colonne vogliono, infatti, dare l’idea di uno spazio delimitato, ma insieme aperto.
I grandi architetti del barocco, Pietro da Cortona, Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e tanti altri con loro, furono affascinati dagli andamenti curvilinei e rivoluzionarono l’architettura rinascimentale che invece prediligeva linee diritte. Con curve concave e convesse gli artisti barocchi crearono spazi nei quali l’uomo potesse sentirsi accolto. Il Bernini, in particolare, sperimentò la pianta ellittica nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, da lui iniziata nel 1658, due anni dopo la commissione del colonnato.

8/ Il colonnato. I nomi dei santi

In alto, sul colonnato, stanno a destra e a sinistra le statue dei santi, uomini e donne. Sono l’immagine della Chiesa intera che abbraccia chi giunge in piazza San Pietro. I 140 santi scelti dal Bernini e da papa Alessandro VII stanno a significare tutti gli altri santi, anche coloro che non sono raffigurati. L’architettura vuole così rendere palpabile quanto è scritto nella lettera agli Efesini: «Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19).

9/ Le docce per le persone senza fissa dimora. La carità del papa

Alla destra del colonnato – anche questo edificio è visibile tramite gli spazi fra le colonne - papa Francesco ha voluto che fossero realizzate delle installazioni con docce per venire in aiuto alle persone senza fissa dimora. In via dei Penitenzieri è stato poi aperto, per suo desiderio, un dormitorio per ospitarli durante la notte. Queste realizzazioni sono solo le ultime di tempo fra le tantissime volute dai papi nel corso della storia per venire in aiuto dei poveri. Fra le più recenti si può almeno ricordare la Casa Dono di Maria in piazza del Sant’Uffizio voluta nel 1988 da papa Giovanni Paolo II come mensa per i bisognosi e dormitorio per donne, affidati alle suore di madre Teresa di Calcutta.

10/ La lapide a terra. L’attentato a Giovanni Paolo II

Sul lato destro della piazza, poco prima del punto di aggancio fra il colonnato ed il braccio di destra, una piccola lapide a terra ricorda il luogo dove Giovanni Paolo II venne ferito in un attentato e protetto dalla Vergine: era il 13 maggio 1981.

Quel giorno è la festa liturgica della Madonna di Fatima perché il 13 maggio del 1917 cominciarono le apparizioni della Madonna ai tre piccoli pastorelli di Fatima. Quando Giovanni Paolo II, in seguito all’attentato, lesse i documenti relativi al Terzo segreto di Fatima, consegnati da tempo alla Santa Sede da suor Lucia, si convinse che il testo si riferiva, come poi dichiarò, all’attentato stesso e che la Vergine aveva voluto che il proiettile venisse deviato e non lo uccidesse. Quel proiettile venne offerto dal pontefice alla Vergine di Fatima ed è ora incastonato nella sua corona.

Il ricordo in pietra è così segno della fiducia nella provvidenza divina e del valore della preghiera che si rivolge a Dio per l’intercessione della Vergine e dei santi.

11/ La cupola. Michelangelo e Giacomo Della Porta

Elevate in alto lo sguardo e potrete vedere il tamburo della cupola: è opera di Michelangelo, lo si riconosce dalle sua linee assolutamente armoniose con le bellissime finestre che alternano timpani triangolari e timpani a tutto sesto. È la sua ultima opera, vi lavorò dai 70 anni fino alla morte, avvenuta a 89 anni, quando era ancora responsabile della Fabbrica di San Pietro. Non riuscì però a vedere il coronamento della cupola che fu realizzata pochi anni dopo da Giacomo della Porta, durante il pontificato di Sisto V. Nel progetto di Michelangelo la basilica di San Pietro avrebbe dovuto avere una pianta centrale, ma dopo la sua morte prevalse l’idea di realizzare una navata – anche la San Pietro di Costantino aveva la stessa struttura  – perché le liturgie delle grandi feste cristiane necessitavano di un’aula che contenesse un gran numero di fedeli. Fu Carlo Maderno a realizzare in età barocca tale prolungamento della basilica rinascimentale cui avevano lavorato Bramante, Michelangelo insieme a tanti altri.

12/ La facciata del Maderno. I 12 apostoli

La facciata della basilica che avete davanti a voi e realizzata dal Maderno venne concepita a partire dal numero 12. 12, infatti, sono gli elementi architettonici che scandiscono la facciata della basilica (8 colonne e 4 pilastri). 12 sono anche le statue che, in età barocca, Maderno volle a coronamento della facciata stessa a destra e a sinistra di quella del Cristo (una di esse rappresenta il Battista, mentre le altre sono quelle di 11 degli apostoli, senza Mattia).
Il numero degli apostoli – 12 – ci ricorda il desiderio di Gesù che nascesse un popolo. 12, infatti, erano le 12 tribù di Israele. E come da Giacobbe era nato il popolo di Dio, così Cristo volle l’origine del nuovo popolo di Dio. Nell’Apocalisse la Chiesa è simbolicamente rappresentata dal numero 144.000 che non deve essere inteso in senso letterale: proviene, infatti, da 12 (le 12 tribù di Israele) per 12 (gli apostoli) per 1000 (il tempo della storia). Tutti coloro che appartengono alla storia del popolo di Israele e alla storia del nuovo popolo di Dio moltiplicato per tutto il tempo della storia sono salvi.

TESTO NON REGISTRATO

Sopra la porta principale è un rilievo di scuola berniniana con la raffigurazione del Pasce oves meas (Pascola le mie pecorelle), soggetto successivamente riproposto da Bernini all'interno della basilica, nello schienale della Cattedra bronzea.

Anche se l'iscrizione sulla facciata riporta la data del 1612, essa venne realizzata dal Maderno tra il 1607 ed il 1614 e completata con la rifinitura delle parti più alte e della balaustra sormontata dalle statue del Cristo Redentore, e dei 12.

Sul sagrato della basilica Pio XII proclamò nel 1950, anno giubilare, l’Assunzione di Maria. È l’ultima proclamazione infallibile di un papa in ordine di tempo (come è noto non ogni parola dei papi è infallibile, ma solo quando essi impegnano nella loro definizione tutta l’autorità ricevuta da Cristo, come avvenne proprio nella proclamazione del dogma dell’Assunta). Maria, che ha vissuto sempre nella grazia del Cristo, subito dopo la morte è stata assunta in corpo e anima presso il suo Signore. Il suo destino beato dona speranza a tutti gli uomini, perché aiuta a comprendere che Dio vuole che entriamo in Paradiso con la nostra precisa individualità e con tutto il bene che egli ci ha concesso di fare.

VIDEO CON LA PROCLAMAZIONE DELL’ASSUNZIONE DI MARIA

13/ Il Passetto di Castello. Gli attacchi degli arabi

Alla vostra destra, attraverso gli spazi fra le colonne, potete vedere la cinta muraria che è nota come Passetto di Castello. È muto testimone dell’attacco a Roma da parte delle avanguardie dell’armata araba che alla fine del primo millennio devastarono a più riprese le coste della penisola provenendo dall’Andalusia e dal nord Africa. L’attacco a Roma avvenne nell’anno 846. Le navi musulmane risalirono lungo il Tevere e saccheggiarono le due basiliche di San Pietro e San Paolo che erano poste fuori le mura, ma non riuscirono a penetrare nelle mura della città. Un secondo attacco arabo fallì nell’849, quando le loro navi vennero affondate dinanzi ad Ostia, come ricorda anche uno degli affreschi di Raffaello nelle Stanze.

Papa Leone IV provvide allora a proteggere la basilica di San Pietro con le mura dette, dal suo nome, Leonine, erette fra l’848 e l’852.

Una volta che il papa, dopo la crisi avignonese, si trasferì ad abitare in Vaticano nel XV secolo, le Mura Leonine divennero un passaggio per potere fuggire all’evenienza in Castel Sant’Angelo: il Passetto - tale fu il nuovo nome di quel tratto di mura quando il papa si trasferì nella nuova residenza che è dinanzi a noi -, venne utilizzato effettivamente da papa Clemente VII una volta in occasione del Sacco di Roma del 1527.

Nel 1870, al momento della presa di Roma, era intenzione del neonato regno d’Italia di far arrestare le truppe all’esterno delle Mura Leonine, ma papa Pio IX chiese, invece, che le truppe avanzassero fino al colonnato, per proteggere il papa e il complesso della basilica e dei Palazzi da tumulti provocati da anticlericali. Il re accolse la richiesta del papa e il 22 settembre fece avanzare le truppe fino a piazza San Pietro per poter proteggere la persona del papa Pio IX e tutto il Palazzo.

14/ Il confine dello Stato della Città del Vaticano. I Patti Lateranensi

Il colonnato segna il confine fra lo Stato della Città del Vaticano e l’Italia. Senza farci caso, nell’attraversare tale confine invisibile siete entrati in un altro stato. Quando nel 1929 con il Concordato sorse l’attuale Stato del Vaticano papa Pio XI paragonò la sua ampiezza al corpo di San Francesco d’Assisi, dicendo: «Ci pare di vedere le cose al punto in cui erano in San Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima». Senza quel corpo, per quanto piccolo, il papa non avrebbe goduto di un’effettiva libertà, mentre proprio quella sovranità territoriale gliela consentì, come venne dimostrato nei giorni dell’occupazione nazista di Roma: l’intangibilità extraterritoriale della Santa Sede permise al papa di salvare tanti membri della futura Repubblica Italiana, a partire dai politici Pietro Nenni, Alcide De Gasperi, Ivanoe Bonomi, Giuseppe Saragat e tanti altri, fra i quali il giovanissimo Giangiacomo Feltrinelli, oltre a tanti ebrei, e, soprattutto, gli consentì di mediare fra le parti belligeranti perché non si combattesse in Roma.

15/ Il portone di bronzo. Le guardie svizzere (TESTO NON REGISTRATO)

Il portone di bronzo, custodito dalle Guardie svizzere, da accesso al Palazzo pontificio. Il Portone introduce al braccio di Costantino, così chiamato perché in esso è posta la statua di Costantino scolpita dal Bernini. Sempre del Bernini è la Scala regia, una scalinata che la prospettiva fa sembrare molto più profonda del reale. Le Guardie svizzere sono a servizio del papa dall’anno 1506, quando papa Giulio II li chiamò in Roma come “difensori della libertà della Chiesa”. In effetti, la loro funzione è sempre stata quella di aiutare il mantenimento del buon ordine, dato che lo Stato pontificio non ha mai avuto un corpo militare di difesa nemmeno lontanamente paragonabile a quello degli altri stati. Quando è stato necessario, le Guardie svizzere hanno dimostrato la loro fedeltà al papa, come nel caso del famoso Sacco di Roma dei lanzichenecchi, voluto nel 1527 dall’imperatore Carlo V: in quell’occasione le Guardie svizzere vennero quasi interamente massacrate dalle truppe degli invasori tedeschi protestanti, al soldo dell’imperatore spagnolo, che si dettero poi a massacri (i lanzichenecchi uccisero più di 12.000 persone fedeli) e a saccheggi, sacrilegi e devastazioni

16/ L’obelisco. L’iscrizione di Sisto V (TESTO NON REGISTRATO)

L’obelisco – come già sai – posto nel Circo di Gaio e Nerone, “vide” morire Pietro: è il muto testimone di quegli eventi. Oggi non è più nella posizione originaria, perché venne spostato in avanti, dinanzi alla basilica, nel 1586, prima ancora che venisse eretto il colonnato del Bernini. Era stato costruito per Heliopolis, la “città del dio sole”, oggi un sobborgo del Cairo, 20 secoli prima di Cristo. L’imperatore Caligola lo fece trasportare a Roma nel 37 d.C. e lo fece collocare sulla spina del Circo, nel quale poi Nerone fece morire Pietro ed i protomartiri. Si legge ancora l’iscrizione latina che vi fece apporre l’imperatore Claudio: «DIVO CAESARI DIVII IULII F. AUGUSTO / TI. CAESARI DIVI AUGUSTI F. AUGUSTO / SACRUM», «Sacro al divino Cesare Augusto, figlio del divino Giulio, e a Tiberio Cesare Augusto, figlio del divino Augusto».

Quando papa Sisto V fece spostare l’obelisco dinanzi alla basilica dall’architetto Domenico Fontana, dove ora si trova, fece scrivere su di un lato del basamento: «ECCE CRUX DOMINE / FUGITE / PARTES ADVERSAE / VICIT LEO / DE TRIBU IUDA» «Ecco la Croce del Signore, fuggite, o schiere nemiche. Il leone della tribù di Giuda ha vinto». La tradizione popolare tramanda che Sant’Antonio diede questa preghiera, che si ispira all’Apocalisse, ad una povera donna che cercava aiuto contro le tentazioni del demonio.

Sull’altro lato del basamento si legge, invece: «CHRISTUS VINCIT / CHRISTUS REGNAT / CHRISTUS IMPERAT / CHRISTUS AB OMNI MALO / PLEBEM SUAM / DEFENDAT», «Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera, che Cristo difenda il suo popolo da ogni male», un antichissimo canto con il quale il popolo accompagna l’ingresso liturgico del papa, ricordando che Cristo è il vero Signore, perché difende dal male gli uomini.

II/ PORTICO DELLA BASILICA : PRESENTAZIONE GENERALE

Nel portico si aprono le cinque porte della basilica. Quella a destra è la Porta Santa. La prima Porta Santa ad essere aperta nella storia fu quella di San Giovanni in Laterano nel 1423. Allora il Giubileo istituito per la prima volta da papa Bonifacio VIII esisteva da più di un secolo. Fu solo per il Giubileo del 1500 che venne aperta una Porta Santa anche in San Pietro.

FOTO DELLA PORTA SANTA

Sulla Porta Santa che hai davanti vedi in alto rappresentato il peccato originale con il quale l’uomo si è escluso da Dio, chiudendo la porta della comunione con Lui, mentre al suo fianco è rappresentata l’Annunciazione attraverso la quale si aprì la porta della misericordia di Dio. A seguire sono rappresentati diversi momenti della vita di Gesù che apre agli uomini la porta del cuore di Dio.

La Porta Santa si apre abitualmente ogni 25 anni, ma anche in occasione della proclamazione di Giubilei straordinari, come è quello della Misericordia.

1/ La Porta Santa

La porta è da sempre simbolo di Cristo. L’evangelista Giovanni ricorda, infatti, che Gesù disse: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv  10,9).

Papa Francesco ha scritto per il Giubileo della Misericordia «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre: la fede cristiana sembra trovare qui la sua sintesi. La misericordia di Dio è diventata viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazaret». Prima della venuta di Cristo, l’accesso a Dio era interdetto. Nei Templi pagani esisteva sì una cella dedicata alla divinità, ma al popolo non era concesso di accedere ad essa: ogni persona non era ammessa realmente al cospetto di Dio. Chi voleva offrire un animale da sacrificare lo portava ai sacerdoti, che lo uccidevano sull’altare che era all’esterno del Tempio per poi entrare in esso da soli, portandovi le parti più pregiate delle carni dell’animale per offrirle alla divinità. Il popolo restava fuori.

Il simbolo della porta è potente anche nella letteratura moderna, sempre in negativo. Franz Kafka, nel romanzo Il castello, descrive l’uomo come un essere in attesa dinanzi ad una porta che non si aprirà mai, nemmeno al momento della morte: l’uomo, secondo la sua prospettiva, è destinato a non comprendere mai il “mistero” della vita, a non poter mai entrare nella vita vera.

E, in effetti, nessuno riesce nemmeno ad aprire la porta del cuore di un’altra persona, a meno che essa stessa non ci apra il suo cuore e decida di farsi conoscere. Come potrà un uomo vedere il volto di Dio, avere accesso alla sua misericordia? Ebbene ciò che è di per sé impossibile per l’uomo è divenuto possibile per la libertà di Dio: Dio ha voluto aprirci la porta del suo cuore ed ammetterci all’amicizia con Lui.

PREGHIERA PER IL PASSAGGIO DELLA PORTA SANTA

Sei tornato ora nella foto navigabile. Quando attraverserai la porta, ascolta questa preghiera, ispirata al rituale dell’apertura della Porta Santa:

«O Dio, che tramite Mosè, tuo servo, hai istituito per il popolo di Israele l'anno del Giubileo e del perdono, ascolta la preghiera dei tuoi figli che attraversano questa Porta santa istituita per tua grazia, perché possano ottenere il perdono dei loro peccati, perché possano vivere nella gratitudine e nella misericordia, e perché possano giungere un giorno, quando arriverà l’ora, a contemplare il tuo volto insieme a tutti i santi».

2/ L’iscrizione di Bonifacio VIII. Il primo Giubileo del 1300

Alla sinistra della Porta Santa è scolpita una lapide che contiene la Bolla di indizione del primo Giubileo, quello del 1300, voluto da papa Bonifacio VIII. Se con la caduta dell’ultima roccaforte crociata in Terra Santa un anno prima, nel 1299, il pellegrinaggio in Terra Santa era divenuto ormai molto problematico, grande era lo stesso in quei tempi l’attesa popolare di occasioni che aprissero i cuori al perdono.  San Francesco d’Assisi, solo alcuni decenni prima, aveva predicato il perdono di Assisi e, subito prima di Bonifacio VIII, papa Celestino aveva istituito la perdonanza dell’Aquila.
Bonifacio propose un’attualizzazione cristiana dell’istituzione sacra del Giubileo presente nell’Antico Testamento, dove ogni 50 anni, cioè 7 cicli di 7 anni, era promessa la remissione dei peccati e dei debiti. L’evento straordinario del Giubileo vuole ripresentarci ciò che è ordinario nella vita cristiana: la misericordia di Dio sempre pronta ad accogliere. In apparenza il male sembra inarrestabile: infatti, ogni violenza genera a sua volta mali ulteriori, come si vede nella vendetta che si illude di arginare il male punendo chi lo ha commesso, proseguendo, però,  in questo modo, la catena della violenza. La croce di Cristo si erge, invece, come argine al male: Gesù, prendendo su di sé le conseguenze del male, interrompe la catena della colpevolezza. Il Cristo viene toccato dal male, senza odiare o meditare vendetta, anzi portandovi l’amore di Dio, spalancando la porta della misericordia.

3/ L’iscrizione del patriarca di Costantinopoli. L’ecumenismo

A destra della Porta Santa è posta una lapide voluta da papa Giovanni Paolo II per ricordare l’abbraccio avvenuto nel 1967 fra papa Paolo VI e l’allora patriarca di Costantinopoli Atenagora: i due pregarono insieme, superando secoli di incomprensioni. La lapide vuole ricordare che fra cristiani «è molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide» - come disse papa Giovanni XXIII. In effetti noi cristiani - cattolici, ortodossi, protestanti - crediamo insieme che Dio si è fatto uomo, che si è fatto vicino, crediamo tutti insieme che Dio è Trinità, crediamo insieme che nel Battesimo si apre agli uomini la porta della salvezza. Queste tre verità sono intimamente collegate. Se in Gesù Dio si è fatto uomo, allora Dio è Padre, figlio e Spirito Santo e nel Battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo anche noi diventiamo figli di Dio. Se invece Dio non fosse Padre, Figlio e Spirito Santo, allora non avrebbe senso dire che in Gesù abbiamo conosciuto l’amore di Dio e anche il Battesimo sarebbe senza significato. Ma allora Dio sarebbe ancora lontano dall’uomo e noi saremmo perduti.

4/ La porta centrale. L’opera del Filarete

La porta centrale è la più antica delle cinque. Venne messa in opera prima ancora che iniziasse la costruzione della nuova basilica rinascimentale, quella attuale. Il Filarete, un artista fiorentino, la realizzò tra il 1439 e il 1445 per l’antica basilica costantiniana allora ancora in piedi. Le fasce intermedie che egli scolpì rimandano al Concilio di Ferrara-Firenze che vide l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, insieme a tanti altri patriarchi orientali, venire in Italia per chiedere aiuto contro i turchi che stavano per distruggere definitivamente l’impero bizantino conquistando Costantinopoli e per cercare di realizzare l’unione fra cattolici ed ortodossi. Si vedono scritte in latino ed in armeno, con la processione di vescovi orientali che giunge a Roma.

I sei pannelli più grandi rappresentano in alto Cristo e la Vergine, al centro Pietro e Paolo ed, in basso, il martirio dei due apostoli. In entrambi questi pannelli è rappresentato l’imperatore Nerone.

5/ La porta della morte. L’opera di Giacomo Manzù

A sinistra è la porta che è detta “della morte”, perché da essa uscivano anticamente i cortei funebri dei papi.  È opera di Giacomo Manzù che la terminò nel 1964 durante il Concilio. In essa sono rappresentati i diversi modi con cui la morte ghermisce gli uomini ed anche gli animali, ma tutto è illuminato dai due pannelli più grandi con la morte di Cristo, deposto dalla croce, e con quella di Maria che, appena spirata, viene assunta in cielo, per non conoscere la corruzione del sepolcro. Un tralcio di vite e delle spighe recise mostrano le realtà terrene che, consacrate, divengono il cibo e la bevanda della vita eterna.

6/ Il mosaico di Giotto. L’ultima immagine del pellegrino

Ti suggerisco di ascoltare la spiegazione del mosaico con la navicella di Giotto quando uscirai dalla basilica: sarà l’ultimo saluto alla fine del tuo pellegrinaggio, perché il mosaico è stato pensato come l’ultima immagine che deve avere negli occhi chi torna alla sua casa, come l’ultimo ricordo di ogni pellegrino. Puoi ascoltar ora la spiegazione o potrai tornare a cliccare su questo link che ti ricorderò prima di uscire.

SPIEGAZIONE

Come già ti ho detto, il mosaico della Navicella è stato pensato come l’ultima immagine che deve avere negli occhi chi torna alla sua casa, come l’ultimo ricordo che il pellegrino deve portare nel cuore.

È all’interno del portico dinanzi al portone centrale della basilica, visibile a chi esce e non a chi entra. Anche se molto rovinato dal tempo è importantissimo per il suo significato storico e simbolico. Lo realizzò Giotto nel 1300, l’anno del primo Giubileo, nel corso della sua permanenza romana. Gli studiosi di storia dell’arte stanno modificando le antiche teorie che vedevano in Firenze il sorgere del nuovo modo di dipingere. È evidente, infatti, che i grandi artisti dell’epoca si ritrovarono a Roma e nel cantiere della basilica di San Francesco ad Assisi voluta dai papi.

Il mosaico era posto nell’antico quadriportico dell’antica basilica costantiniana ed era posto in modo che il pellegrino che tornava a casa lo vedesse come ultima immagine. Santa Caterina da Siena si fermava sempre dinanzi a questa immagine, ogni volta che si recava a piedi in basilica per chiedere a Dio che concedesse al papa di tornare in Roma dall’esilio avignonese. Quando venne abbattuto il quadriportico ed al suo posto costruito l’attuale portico barocco, si decise di conservare questa immagine così famosa, anche se il suo distacco e la sua ricostruzione ha comportato che il mosaico sia stato manomesso stilisticamente rispetto all’originale giottesco.

L’immagine mostra la barca con gli apostoli: sono in grave pericolo per una tempesta, rappresentata dai venti che soffiano in alto. Gesù, ritto in piedi e sereno, camminando sulle acque invita addirittura Pietro a camminare con lui sul mare. Quando egli, preso dalla paura, comincia ad affondare, gli annuncia che deve avere fede (Mt 14,22-36) e placa la tempesta. L’episodio ha sempre insegnato ai credenti che, nelle tempeste della vita, la navicella della Chiesa procede sicura perché Cristo è con lei. A sinistra un pescatore ricorda che gli apostoli sono, anche nelle difficoltà, pescatori di uomini. In alto si vede l’intercessione dei santi. In basso a destra compare il busto del cardinale Stefaneschi che commissionò il mosaico. Anche la nostra vita, sballottata dalle onde e dai venti, è accompagnata dalla presenza del Signore. Noi restiamo deboli e fragili, ma il Signore conduce la nostra vita alla salvezza.

I Padri della Chiesa paragonavano la Chiesa alla luna e Cristo al sole. Di notte la luna non avrebbe alcuna luce se non ci fosse il sole che da tanto lontano la illumina. La luna che è solo terra e sassi splende di una luce riflessa, ossia la nostra vita viene illuminata mentre attraversiamo le tempeste, viene illuminata non per le nostre forze, ma per la grazia di Dio. È un messaggio di speranza quello che ci consegna questo mosaico, nel tornare alle nostre case.

7/ La statua di Costantino. Portico di San Pietro. Bernini (TESTO NON REGISTRATO)

All’estremità destra del portico è la statua di Costantino, a cavallo, scolpita dal Bernini a rappresentare il momento nel quale gli appare la croce e ode la frase In hoc signo vinces. La statua dà il nome al corpo di fabbrica destro, detto braccio di Costantino. Vi si accede dal portone di bronzo, custodito dalle guardie svizzere. Dirigendosi verso l’estremità destra e svoltando a sinistra si può salire, con un apposito biglietto, sulla cupola, che consente una visione dall’alto sia dell’interno della basilica, sia del panorama di Roma all’esterno.

8/ La statua di Carlo Magno. Portico di San Pietro (TESTO NON REGISTRATO)

All’estremità sinistra del portico è la statua di Carlo Magno che venne incoronato primo imperatore del Sacro Romano Impero nell’anno 800 da papa Leone III. Appena entrati in basilica si vede a terra una pietra circolare di colore rossastro, detta tondo porfiretico, dove probabilmente Carlo Magno venne incoronato imperatore. In quegli anni l’impero romano di Costantinopoli era sempre più lontano, impegnato a difendersi dai musulmani che si facevano sempre più minacciosi. I papi decisero così di rivolgersi ai franchi perché l’occidente vivesse in pace e dettero, di fatto, origine in questo modo all’Europa

III/ NAVATA CENTRALE DELLA BASILICA: PRESENTAZIONE GENERALE

Attraversata la porta eccoci ora nella basilica. Prima di presentarti le opere d’arte di Michelangelo, del Bernini e di tanti altri, voglio invitarti ad abbracciare con lo sguardo l’interno di San Pietro.

Dal fondo della navata vedi subito il baldacchino del Bernini. Sai già che proprio lì, pochi metri più in basso, è la tomba di Pietro. Il baldacchino vuole sottolineare l’altare e sorge su quella tomba per la celebrazione dell’eucarestia. L’eucarestia che Gesù ha donato a Pietro ora è donata a chiunque partecipa alla Messa ricevendo la stessa comunione.

Nella navata che hai iniziato a percorrere sono venuti tanti. Immagina qui i santi del passato, sant’Agostino e san Filippo Neri. Prova a immaginare san Francesco d’Assisi che pregò inginocchiato dinanzi alla tomba di Pietro. Ma immagina anche san Giovanni Bosco, santa Teresa di Lisieux, venuta dal papa per chiedere di poter entrare in clausura quando ancora era minorenne. Qui è venuto a pregare Lutero, quando era ancora sacerdote e monaco agostiniano. Qui puoi immaginare Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma anche tanti scienziati, come Galileo Galilei, Gregor Mendel che fondò la genetica, Georges Edouard Lemaître, il prete astrofisico che per primo ipotizzò il Big bang. Qui sono venuti Mozart allora adolescente, Haendel e tantissimi musicisti. Sono venuti qui Tolkien e Chesterton.
De Amicis, l’autore del libro Cuore, scrisse che, subito dopo la presa di Roma, vennero qui anche i soldati che avevano aperto la breccia di Porta Pia e qui si inginocchiavano e pregavano. Ma, soprattutto, qui sono venuti tanti semplici cristiani e tanti pellegrini in cerca di Dio. Chissà quanti dei tuoi antenati, senza che tu lo sappia, sono stati qui prima di te e qui hanno chiesto la forza di amare le loro famiglie e di lavorare con passione per il bene comune, qui hanno professato la fede, qui hanno ricevuto il perdono.

LA NAVATA CENTRALE

La navata centrale venne realizzata ai primi del seicento, dall’architetto barocco Carlo Maderno il quale prolungò la pianta centrale di Michelangelo perché nella basilica era necessaria una navata. In effetti la basilica di San Pietro è lunga più di 186 metri e, a terra, puoi vedere le indicazioni della lunghezza di altre 26 chiese famosissime che sono più piccole di San Pietro, come St. Paul Cathedral a Londra o il Duomo di Milano o Notre Dame a Parigi.

L’ampiezza di San Pietro, come già quella della piazza, non nasce da desideri di grandezza. Te ne puoi accorgere facilmente immaginando, ad esempio, lo svolgimento del Concilio Vaticano II. Puoi vedere le foto che scorrono. I banchi del concilio erano ai due lati della navata. Vi sedettero quasi 3000 vescovi, tutti  insieme (alcuni banchi sono stati conservati e si possono tuttora vedere nella vicina chiesa dei santi Michele e Magno). Sotto il Baldacchino del Bernini era la Cattedra papale e il tavolo del Consiglio di Presidenza, dove sedettero Papa Giovanni XXIII e papa Paolo VI.

Su questi banchi sedettero, fra i tanti, l’allora arcivescovo di Cracovia Wojtyla. L’allora giovane professore J. Ratzinger partecipò al Concilio come teologo del cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia. Tutto ciò che avviene nella tua parrocchia dipende, in qualche modo, dalle decisioni che vennero durante il Concilio Vaticano II.

Ma anche quando il papa celebra le ordinazioni sacerdotali dei preti di Roma o quando presiede la veglia di Natale o quella di Pasqua, con il Battesimo di adulti provenienti da altre religioni o dall’ateismo, la basilica non riesce a contenere tutte le persone che desidererebbero partecipare.

1/ La navata centrale. Il Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano II fu convocato da papa Giovanni XXIII nel 1962 e venne concluso da papa Paolo VI nel 1965. È noto a tutti per le sue ricadute immediate, come la liturgia nelle diverse lingue parlate da tutti o l’invito ad accostarsi con fiducia al testo dei Vangeli. Ma la sua profondità è ancora più grande.

Innanzitutto nel documento sulla rivelazione, la Dei Verbum, il Concilio afferma che Dio è venuto in persona in mezzo a noi per farsi conoscere, per rivelarci il suo cuore e il suo volto. Non ci ha inviato un libro che ci parlasse di lui. Per questo tu stesso, conoscendo Gesù e la sua misericordia, incontri Dio che nella sua libertà ti vuole come amico, perché è proprio degli amici la rivelazione della propria intima vita.

Nel documento sulla liturgia poi, la Sacrosanctum Concilium, il Concilio ha saputo mostrare che la liturgia non è un oggetto, non è una serie di riti, bensì è la presenza stessa del Signore nella sua Chiesa. Tu stesso puoi incontrare il Dio vivo e vero, presente su ogni altare nella liturgia domenicale.

Nel  documento sulla Chiesa, la Lumen Gentium, il Concilio ha aiutato la Chiesa a rinnovarsi: chiunque si stringe a Cristo e lo testimonia appartiene ad un popolo e non è più solo. Anche tu, se sei battezzato, illumini la vita del mondo, non per i tuoi meriti, ma perché Cristo vuole servirsi di te. 

Infine, nel documento sulla Chiesa nel mondo, la Gaudium et spes, il Concilio ha voluto porre al centro la persona umana: ogni uomo, creato ad immagine di Dio, ha una dignità sconfinata, è voluto direttamente da Dio e merita una cura e un rispetto infiniti. Tu che ascolti, sei voluto da Dio e lo sono le persone che incontri: da questo discende tutto un nuovo sguardo sulla morale, sulla pace, sulla famiglia, sulla libertà religiosa e sulla giustizia nel mondo

Proprio per questo papa Francesco ha voluto aprire l’anno giubilare della misericordia nel cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II.

2/ Le statue dei santi. I fondatori degli ordini religiosi

Se guardi nelle nicchie dei pilastri della navata centrale puoi vedere le statue dei fondatori degli ordini religiosi. Se ne conosci qualcuno, puoi chiedere dove è la sua statua. Troverai la statua di san Benedetto, fondatore dei benedettini, quella di san Francesco, fondatore dei francescani, quella di don Bosco, fondatore dei salesiani e così via. Tutti questi fondatori sono qui ritratti perché, per consentire la libertà di cui hanno bisogno per l’opera di evangelizzazione e di carità, essi sono legati non solo ai vescovi di ogni diocesi, ma direttamente al papa.

3/ La Cappella della Pietà. La Pietà di Michelangelo

Nella prima cappella a destra è conservata un’opera che non puoi mancare di contemplare, la Pietà di Michelangelo. Purtroppo è protetta da un vetro da quando un folle la colpì più volte nel 1972. Venne restaurata da Cesare Brandi, il grande teorico del restauro che, in questo caso, venne meno ai suoi principi di non ricostruire un opera danneggiata, per cui essa ci appare di nuovo perfetta così come era in origine. È la prima delle tre Pietà realizzate da Michelangelo che scolpì poi le incompiute Pietà Bandini, ora a Firenze, e Pietà Rondanini, ora a Milano. Nella Pietà Bandini volle autoritrarsi, mentre alla Pietà Rondanini lavorò fino agli ultimi giorni della vita, segno che sentiva il tema come decisivo per la sua esistenza. Michelangelo scolpì giovanissimo la Pietà Vaticana, quando aveva solo 24 anni, nel 1499. È impressionante contemplare di cosa sia capace un giovane. La Pietà che hai dinanzi è l’unica opera firmata dal maestro che scolpì il suo nome sulla cintola della Madonna. Gli venne ordinata per una cappella della vecchia San Pietro che era affidata alla nazione francese, tramite la mediazione di un banchiere fiorentino, Jacopo Galli, che lo presentò a Roma ai tempi di papa Alessandro VI Borgia.
Il termine Pietà è la chiave di lettura dell’opera. La Pietà rappresenta la sera del venerdì santo – immagini simili erano chiamate anticamente Madonne del vespro, cioè della sera. Michelangelo immagina un episodio di cui non c’è esplicita menzione nei Vangeli e precisamente che la Madonna abbia voluto prendere sulle sue ginocchia ed abbracciare il suo Figlio un’ultima volta prima della sepoltura. Il termine pietà si riferisce, quindi, certamente ai sentimenti di Maria verso il suo figlio. Michelangelo l’ha scolpita più giovane del figlio suo, dichiarando esplicitamente che l’aveva fatto perché chi vive nella grazia divina conserva tutta la propria bellezza. Maria, in effetti, pur nel dolore, è scolpita in un atteggiamento di grande dolcezza, di profondo amore e contemplazione verso il figlio.
Ma Pietà è, ancor più, la morte stessa per amore del Cristo. Michelangelo scolpì il Cristo levigando la pietra, in maniera da renderla estremamente luminosa. Ormai la fatica del figlio è finita, manca solo la resurrezione. Egli, nella sua pietà verso noi uomini, non si è tirato indietro fino a morire per il perdono dei nostri peccati. Il corpo, scolpito in ogni particolare, nelle articolazioni, nei nervi, nei tendini, nelle vene e nelle arterie è bellissimo. Michelangelo doveva contemplare nell’opera che aveva realizzato la bellezza di Cristo, ma anche la dignità che quella morte conferisce ad ogni uomo.
Nel Giudizio universale rappresentò nuovamente il Cristo nudo, questa volta in affresco, perché alla fine della storia ognuno vedrà ormai Dio senza più veli e dipinse un’architettura fatta di soli corpi nudi
perché l’uomo nel giudizio sarà ormai davanti a Dio nella nudità dei propri peccati, eppure amato e perdonato per la Pietà di Cristo per noi.

4/ La Cappella di San Sebastiano. La tomba di Giovanni Paolo II

Nella Cappella che segue quella della Pietà si venera il sepolcro di san Giovanni Paolo II.

Da arcivescovo propose al Concilio l’espressione: «Solo nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo». È vero: solo dinanzi al Cristo possiamo portare le gioie ed i dolori più grandi e scoprire che egli li abbraccia. La sua testimonianza cambiò le persone e le società - il Muro di Berlino crollò a motivo della sua opera. Ricordò che non c’è pace senza giustizia e che cercare la pace vuol dire rispondere alle attese dei poveri. Ma ricordò anche che non c’è giustizia senza perdono e che se i popoli non sono disposti ad avere misericordia verso chi ha commesso ingiustizie, sempre di nuovo la guerra sorgerà ad infestare la terra. La vecchiaia e la malattia lo resero ancora più vicino a tutti. Ora prega per noi.

5/ L’altare di San Girolamo. La tomba di Giovanni XXIII

Sul retro del pilastro di San Longino si trova la tomba di san Giovanni XXIII. Fu lui ad accogliere l’ispirazione del Concilio Vaticano II, riprendendo un’espressione di Gesù che era stata  a lungo dimenticata, quella di scrutare quei segni dei tempi, quei segni della storia, attraverso i quali vediamo Dio all’opera nei cuori e nelle scelte degli uomini. Così disse papa Giovanni XXIII: «Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi, crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sui destini della chiesa e dell’umanità».

Nella Cappella Gregoriana, sull’altare che ha come pala la Madonna del soccorso è il sepolcro di uno dei padri della Cappadocia, san Gregorio di Nazianzo, vissuto nel IV secolo, le cui reliquie giunsero a Roma dopo molte traversie. Proprio il Concilio voluto da papa Giovanni ha portato alla riscoperta dei Padri della Chiesa. Per percepire solo qualcosa di questo grande maestro voglio leggerti una sua brevissima riflessione: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita».

IV/ CONFESSIONE E BALDACCHINO DEL BERNINI: PRESENTAZIONE GENERALE

Eccoci finalmente al cuore della basilica. La cupola e il baldacchino, come già sai, sorgono esattamente sulla verticale della tomba di Pietro. Pietro venne sepolto in una piccola piazzola con una semplice tomba a terra, probabilmente perché l’infuriare delle persecuzioni non permise di fare diversamente. Le due scale che sono dinanzi all’altare scendono fino al livello della sepoltura.

La tomba di Pietro venne riscoperta nel corso della II guerra mondiale quando Pio XII fece eseguire dei lavori nelle Grotte Vaticane per sistemare la tomba di papa Pio XI suo predecessore.

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Gli archeologi scavarono fino a raggiungere una piazzola, che chiamarono Campo P – avevano numerato tutte le sepolture scoperte a partire dalla lettera A.

In quella piazzola c’era l’umile tomba di Pietro indicata solo da una semplice nicchia nel muro. Tutte le costruzioni successive vennero erette per sottolineare nei secoli la presenza di quella tomba così semplice e così importante.

Nella II metà del II secolo venne costruita sulla tomba una piccola edicola, con due colonnine, per renderla più riconoscibile. Questa edicola ritrovata dagli archeologi è detta oggi Trofeo di Gaio – la vedi nell’animazione - perché uno storico antico, Eusebio di Cesarea, racconta che «un uomo della Chiesa di nome Gaio, vissuto a Roma agli inizi del III secolo) lasciò scritto: “Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli. Se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa”». La concordanza del dato archeologico e di quello letterario mostra che, intorno all’anno 200, mentre la Chiesa era ancora perseguitata, i cristiani di Roma conoscevano bene l’ubicazione del sepolcro: era trascorso troppo poco tempo dal martirio perché se ne potesse perdere la memoria.

Gli archeologici ritrovarono anche un muro che venne innalzato a fianco dell’edicola ricoperto ancora oggi da una selva di graffiti, precedenti alla costruzione della basilica di Costantino, nei quali ricorre continuamente il nome di Pietro, segno della venerazione e della preghiera di intercessione a lui rivolta.

60 anni più tardi, dopo aver decretato la libertà di culto per i cristiani nell’anno 313, l’imperatore Costantino decise di costruire intorno al Trofeo di Gaio una basilica. Nell’animazione vedi l’abside di Costantino costruita intorno alla tomba, con le scale che vennero successivamente costruite per accedervi: sul lato posteriore Costantino costruì una cripta semi-anulare.

La costruzione della basilica dovette superare due ostacoli: quello della pendenza del colle Vaticano, che venne spianato in quel punto dagli architetti di Costantino, e quello delle leggi romane che tutelavano le sepolture. Il fatto che proprio lì venne eretta la basilica, superando tali ostacoli, mostra la convinzione degli uomini del tempo che proprio lì era il sepolcro di Pietro, motivo per il quale la basilica non poteva essere costruita altrove.

L’animazione ti mostra ora i pavimenti successivi che vennero costruiti man mano che il tempo passava, determinando il sollevarsi del livello di calpestio.

Sul nuovo livello fu papa Gregorio Magno nel VI secolo a costruire sulla tomba un altare, mentre un secondo altare venne costruito nel medioevo da papa Callisto II, nel XII secolo.

Ma il livello del terreno salì ancora. Perciò, quando si decise la costruzione della basilica attuale, un terzo altare venne costruito sopra i due precedenti alla fine del cinquecento da papa Clemente VIII, negli stessi anni nei quali veniva completata la cupola. Infine Bernini nel 1626 costruì il baldacchino che vedi emergere nell’animazione e che ci riporta al livello attuale.

Una successione impressionante di costruzioni sorte una sopra l’altra dice la venerazione immutata nei secoli: proprio qui venne sepolto Pietro, proprio sulla tomba di Pietro oggi il papa celebra l’eucarestia.

1/ L’altare della Confessione. Il Credo

Il luogo sottostante l’altare cui si accede con le due scale è detto Confessione e l’altare attuale è detto “altare della Confessione”. “Confessione” vuol dire qui “professione di fede” perché Pietro ha detto: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» e lo ha detto non solo a parole, lo ha detto offrendo la stessa vita perché nessuno avesse dubbi della verità di quanto affermava.

Qui ti invito, allora, ad ascoltare il Simbolo degli Apostoli, così chiamato perché a buon diritto è ritenuto il riassunto fedele della Confessione di fede di Pietro e degli Apostoli. È l’antico Credo della Chiesa di Roma che tutti coloro che ricevevano il Battesimo recitavano a memoria:

Io credo in Dio
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra;
e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore,
il quale fu concepito di Spirito Santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso, morì e fu sepolto;
discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte;
salì al cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente;
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo,
la santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne,
la vita eterna.

2/ Il baldacchino. Gian Lorenzo Bernini e il baldacchino

Fu papa Urbano VIII ad incaricare il Bernini, allora 26enne, di erigere un grande baldacchino sopra l’altare della Confessione, a sottolineare la centralità della celebrazione eucaristica secondo il dettato tridentino: fu la prima commissione affidata all’artista per San Pietro, cui seguiranno poi il colonnato che hai già visitato ed, infine, la Cattedra che intravedi nell’abside della basilica. Bernini riuscì a dare un’illusione di leggerezza al baldacchino. Voleva che assomigliasse a quei baldacchini che si usano per le processioni eucaristiche, quando quattro persone lo portano al di sopra del sacerdote che regge l’ostensorio con l’ostia consacrata, perché chi si recava in San Pietro percepisse subito l’importanza della presenza eucaristica del Signore. Nei decenni successivi al Concilio di Trento, seguito alla Riforma protestante, la spiritualità cattolica volle, infatti, sottolineare in diversi modi la grandezza dell’eucarestia. Un grande studioso dell’età barocca, Maurizio Calvesi ha scritto di quest’opera: «Al ciborio e al tabernacolo tradizionali, strutture architettoniche fisse, egli sostituisce l’idea di un baldacchino concepito come se fosse fatto di legno o di stoffa, cioè come un elemento trasportabile e mobile. Questo grande dispositivo non è eretto, ma posato sulla tomba dell’Apostolo; ha l’aria di essere stato trasportato a braccia e lasciato lì al termine di un’immaginaria processione».

Il genio di Bernini è evidente se si pensa che le sole colonne sono alte 11 metri circa, quindi come un palazzo di quasi 4 piani. Fu necessario utilizzare il bronzo per dare l’idea di una stoffa che lo copra.

Il baldacchino cela anche i simboli dei sacramenti del Battesimo e dell’Eucarestia.

Per quel che riguarda il Battesimo, si possono vedere sui quattro basamenti di marmo le fasi di un parto, in un divertissement barocco: un volto di donna, la Chiesa madre che battezza e partorisce alla fede, è nascosto nell’emblema del papa Barberini, Urbano VIII, caratterizzato da tre api che è come se coprissero i seni della donna e il pube. In sette fasi, a partire dal basamento a sinistra della confessione, è espressa la progressione delle doglie fino all’ultima figura, l’ottava, che è quella del bambino appena nato, sorridente.

La torsione delle quattro colonne vuole richiamare, invece, non solo la forma delle antiche colonne dell’altare di Gregorio Magno, il secondo eretto sulla tomba – le colonne originarie sono state utilizzate nei pilastri che sostengono la cupola e puoi vederle in alto. La forma tortile delle colonne vuole richiamare soprattutto i tralci della vite, come simbolo eucaristico.

Guardando attraverso le colonne del baldacchino puoi vedere già l’abside di San Pietro con la Cattedra, che fu l’ultima realizzazione di Bernini per la basilica.

3.1/ I quattro pilastri - S. Elena. Bramante e le reliquie dei pilastri

L’architettura nella quale è inserito il baldacchino non è del Maderno, ma venne già realizzata nel rinascimento. Dei quattro pilastri, per quanto poi modificati,  è autore Donato Bramante. Se visiterai i Musei Vaticani li ritroverai come sfondo della famosa Scuola di Atene di Raffaello, che li dipinse mentre venivano eretti e la cupola ancora non esisteva. Gli uomini del rinascimento non capivano più l’arte paleocristiana e medioevale e così non erano in grado di apprezzare l’antica basilica di San Pietro costruita sotto Costantino. Inoltre, tale basilica era ormai fatiscente ed in alcuni punti a rischio di crolli, come attesta Leon Battista Alberti, che fu anche prete e parroco, oltre ad essere architetto. Si pensò all’inizio di lasciare intatta la navata della basilica ricostruendo solo il presbiterio e a Bernardo Rossellino, l’architetto di Pienza, a metà del quattrocento, venne chiesto di costruire un nuovo coro che egli lasciò però incompiuto all’altezza di 7 metri. Papa Giulio aveva anche lui intenzione di ricostruire solo il coro della basilica e di porre lì la sua tomba, invitando Michelangelo a realizzarla in maniera da porla dove è ora la Cattedra del Bernini. Ma Bramante, desideroso di realizzare una grande opera, convinse Giulio II a rinunciare all’idea di costruire solo l’abside e la tomba, per abbattere l’intera basilica medioevale e ricostruirla in forme rinascimentali. Michelangelo si allontanò da Roma adirato perché Bramante gli aveva così sottratto la possibilità di realizzare il sepolcro del papa e Giulio II dovette cercarlo nel nord Italia e lo convinse a tornare a Roma, solamente con la promessa di realizzare invece della tomba la volta della Cappella Sistina con le storie della Genesi. Michelangelo, che amò sempre papa Giulio II, riuscì infine, molti anni dopo la morte del papa, a realizzare la sua tomba, il famoso Mosè che è a San Pietro in Vincoli. Bramante, dal canto suo, ottenuta l’autorizzazione di Giulio II, iniziò la demolizione della vecchia San Pietro e la costruzione dei quattro grandi pilastri angolari che puoi vedere intorno a te. Viste col senno di poi, furono scelte cariche di frutti.

Al Bernini venne poi chiesto di sistemare i quattro pilastri perché accogliessero le principali reliquie della basilica. In basso puoi vedere le statue, realizzate successivamente, che illustrano le reliquie stesse che erano invece custodite sui balconcini in alto, per la costruzione dei quali vennero riutilizzate le colonne tortili del tempo di papa Gregorio Magno, alle quali si ispirò Bernini per il baldacchino. Puoi vedere dinanzi a te il pilastro della Santa Croce con la statua dell’imperatrice Elena che fece ritrovare a Gerusalemme il luogo della sepoltura di Cristo e le reliquie della croce, facendo costruire poi il Santo Sepolcro.

3.2/ I quattro pilastri - S. Veronica. Bramante e le reliquie dei pilastri

Proseguendo in senso antiorario trovi il pilastro della Veronica che custodiva il lino ritenuto il velo posto da una donna sul volto di Gesù durante la via crucis.

3.3/ I quattro pilastri - S. Andrea. Bramante e le reliquie dei pilastri

Segue il pilastro di Sant’Andrea con le reliquie del primo apostolo chiamato da Gesù e la statua con la caratteristica croce decussata, a forma di x: le reliquie vennero salvate a Patrasso dalla devastazione turca e poi ridonate in tempi recenti da Paolo VI agli ortodossi.

3.4/ I quattro pilastri - S. Longino. Bramante e le reliquie dei pilastri

Infine trovi il pilastro di San Longino, il centurione che trafisse il costato di Gesù e trovò la fede contemplandolo crocifisso – la reliquia della sacra lancia fu donata al papa dal sultano turco di Costantinopoli, oggi Istanbul -, mentre la statua di San Longino è del Bernini stesso.

4/ Il transetto destro. Il Concilio Vaticano I

Il transetto destro della basilica è detto anche Crociera dei santi Processo e Martiniano le cui reliquie sono custodite sotto l’altare centrale. Sono i 2 martiri che san Pietro avrebbe convertito e battezzato mentre era imprigionato nel Carcere Mamertino, prima di essere martirizzato nel Circo Vaticano. In questo ambiente si svolse il Concilio Vaticano I, che vide riuniti circa 700 vescovi subito prima della presa di Roma avvenuta nel 1870. Il Concilio definì l’infallibilità papale, dichiarando però chiaramente che il papa non è infallibile in ogni sua parola, bensì solo quando parla ex cathedra, cioè quando impegna tutta la sua autorità di successore degli apostoli in una definizione dogmatica. Dal momento della definizione dell’infallibilità i papi hanno impegnato solo una volta la loro infallibilità e, precisamente con papa Pio XII nella proclamazione del dogma dell’Assunzione della Vergine Maria nel 1950.

La seconda importante definizione dogmatica che venne affermata dal Concilio Vaticano I è la grandezza della ragione, ritenuta talmente buona dall’avere la capacità di giungere alla certezza dell’esistenza di Dio con le proprie capacità, anche se – affermò il Concilio – solo la rivelazione ci permette di conoscere pienamente il volto di Dio e la sua misericordia.

Sulle pareti laterali dell’abside con la Cattedra vedi, invece, i nomi dei vescovi presenti al momento della definizione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria da parte di Pio IX nel 1854, pochi anni prima del Concilio Vaticano I: Maria è l’Immacolata Concezione, è nata cioè senza che le sia stato trasmesso il peccato originale ed ha vissuto senza mai peccare, pienamente donna senza peccato, perché il peccato non appartiene alla natura dell’uomo, ma è invece una mancanza dell’essere pienamente uomini e donne

5/ La statua di San Pietro. La devozione dei pellegrini

Nella navata centrale vedi la statua bronzea di san Pietro, la cui antichità è visibile a tutti, nel particolare conosciutissimo del piede consumato dalla devozione dei fedeli. L’origine dell’opera è molto discussa. Alcuni pensano ad un’opera paleo-cristiana (IV-VI sec.), altri ad un manufatto di età gotica. La maggioranza si orienta a comporre le due tesi, proponendo che possa essere un’opera medioevale, forse di Arnolfo di Cambio, ma che volle ispirarsi coscientemente ad un modello antico. Seduto su di una cattedra marmorea san Pietro è vestito con un pallio filosofico: sia la cattedra che la veste dicono che egli insegna, ma insegna non una filosofia umana, bensì la sapienza che viene da Dio. Con la mano sinistra tiene le chiavi e con la destra benedice.

V/ ABSIDE E CATTEDRA DEL BERNINI: PRESENTAZIONE GENERALE

Siamo dinanzi all’abside e alla Cattedra. L’abside, come in ogni basilica cristiana, rappresenta l’irrompere di Dio nella storia dell’uomo o anche la meta celeste della storia umana. La luce di Cristo permette alla storia di uscire dalla confusione. Bernini realizzò la grande “macchina devozionale” - così la chiamano alcuni storici dell’arte - circa trent’anni dopo il baldacchino, tra il 1656 e il 1666. L’opera è come un gigantesco reliquiario, che conteneva al suo interno un’antica cattedra, sulla quale la tradizione vuole si sia seduto lo stesso Pietro per insegnare il Vangelo di Gesù.

La cattedra è sorretta da quattro statue raffiguranti due Padri della Chiesa d’occidente - sant’Ambrogio e sant’Agostino - e due della Chiesa d’oriente - sant’Atanasio e san Giovanni Crisostomo  -, a simboleggiare che la fede è una e che i Padri della Chiesa hanno tutti confessato che Gesù affidò a Pietro e ai suoi successori le chiavi della Chiesa, mentre i vescovi di Roma, dal canto loro, hanno sempre riconosciuto il ministero degli altri vescovi e della tradizione.

La cattedra che simbolizza il ministero papale è illuminata dalla venuta dello Spirito Santo rappresentato, in forma di colomba, al centro della vetrata di alabastro.

Il grandioso reliquiario va apprezzato, come hai già ben capito, anche nella prospettiva del baldacchino. Non è un caso che un disegno autografo del Bernini mostri la Cattedra vista attraverso le colonne del baldacchino, rivelando così come l’artista guardasse ai due monumenti come a un tutto unico.

Dietro il pilastro di Sant’Elena è la tomba a terra con i corpi dei due papi della famiglia della Rovere, Sisto IV e Giulio II – Giulio II fu l’iniziatore della nuova basilica di San Pietro che sostituì, come già sai, quella costantiniana. Il Mosè di Michelangelo è la tomba che lo scultore terminò solo molti anni dopo per onorare Giulio II, papa che molto lo aveva amato e che lui molto amava.

Alla sinistra del monumento alla Cattedra del Bernini si trova la tomba di papa Urbano VIII, della famiglia Barberini, colui che chiese allo scultore di realizzare il baldacchino.

[TESTO NON REGISTRATO Sotto la statua del papa si vede lo scheletro della morte emergere e scrivere il nome del papa per indicare che il tempo della sua vita terrena è finito. Le tre api che rappresentano lo stemma dei Barberini volano disperse e non più legate le une alle altre, sgomente per il sopraggiungere della morte].

In posizione simmetrica, alla destra della cattedra, il papa volle che fosse sistemata la preesistente tomba di papa Paolo III, il papa che ebbe il merito di convocare nel 1545 il Concilio di Trento e quello di commissionare a Michelangelo il Giudizio universale, affidandogli poi anche la direzione della fabbrica di San Pietro perché innalzasse la cupola. Michelangelo, che aveva allora più di 70 anni, iniziò la progettazione della Cupola senza volere alcun compenso perché desiderava compiere tale opera solo per la gloria di Dio.

1/ LE ISCRIZIONI MONUMENTALI (TESTO NON REGISTRATO)

In alto corrono scritte con caratteri alti un metro e 40. Sono frasi su Pietro e la sua missione tratte dal Nuovo Testamento.

Nella pareti della navata, a partire dall’ingresso, è scritto “Quodcumque ligaveris super terram ligatus et in coelis et quodcumque solvens per terra et solutum et in coelis” che significa “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto quello che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19) e “Ego rogavi pro te, o Peter, ut non deficiat fides tua ut aliquando conversus confirma fratres tuos” che significa “Io ho pregato per te, Pietro, che non venga meno la tua fede; e tu una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). Nel tamburo della cupola è scritto invece: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et tibi dabo claves regni coelorum” che significa “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e a te darò le chiavi del Regno dei Cieli” (Mt 16,18).

Nel transetto di destra è scritto: “O Petre dixisti: Tu es Christus filius Dei vivi. Ait Jesus: Beatus Simon bar Jona, caro et sanguis non revelavit” cioè “O Pietro, dicesti: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù disse: Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato” (Mt 16,16-17).

Nel transetto di sinistro è scritto invece: “Dicit ter tibi, Petre, Jesus: Diligi me? Cui ter, o electe, respondens ais: o Domine tu qui omnia nosti tu scis quia diligo” cioè “Pietro, Gesù ti dice per tre volte: mi ami tu? Tu, o eletto, gli rispondi tre volte: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo” (Gv 21,17).

La scritta sulla trabeazione dell’abside dice invece a sinistra in latino e a destra in greco: “O pastor ecclesiae tu omnes Christi pascis agnos et oves • ΣΥ ΒΟΣΚΕΙΣ ΤΑ ΑΡΝΙΑ, ΣΥ ΠΟΙΜΑΙΝΕΙΣ ΤΑ ΠΡΟΒΑΤIΑ XΡΙΣΤΟΥ”, che significa “O Pastore della Chiesa, tu pasci tutti gli agnelli e le pecore di Cristo” (Gv 21,15).

Infine sul tamburo della cupola è scritto: “Hinc una fides • mundo refulget • hinc sacerdotti • unitas exoritur”, cioè “Di qui splende sul mondo l’unica fede e di qui nasce l’unità del sacerdozio”.

VI/ TRANSETTO SINISTRO: PRESENTAZIONE GENERALE

Ricordi certamente l’animazione iniziale che dal Circo Vaticano giungeva fino alla tomba di Pietro. Dirigendoti a sinistra dell’altare della Confessione è come se riattraversassi a ritroso la via Cornelia per raggiungere la zona dove sorgeva il Circo Vaticano che vide la morte di Pietro. Un’antica tradizione vuole che Pietro sia stato martirizzato dove ora sorge uno degli altari del transetto che ha come pala il mosaico con la Crocifissione di Pietro a testa in giù, copia da un famoso dipinto di Guido Reni. A fianco dell’altare venne sepolto nel cinquecento il musicista Pierluigi da Palestrina.

All’esterno del transetto, invece, in fondo a destra, puoi vedere l’altare che custodisce il corpo di papa Leone Magno. Nell’altorilievo seicentesco dello scultore Algardi il papa affronta Attila, re degli unni: già nel V secolo il papa era l’unica autorità capace di arrestare la devastazione dei barbari.

Avvicinandoti al transetto, puoi vedere il monumento a papa Alessandro VII scolpito dal Bernini all’età di 80 anni – Alessandro VII è il papa che gli commissionò il Colonnato, la Cattedra e la Scala regia. Bernini ritrae il papa che prega in ginocchio, mentre in basso emerge lo scheletro della morte che gli mostra la clessidra, indicando così che si è compiuto il tempo della sua vita.

Se ti è possibile, ti invito a visitare il Museo del Tesoro della Basilica il cui ingresso è a sinistra del transetto. Potrai ammirarvi una delle colonne tortili che ornavano la Confessione ai tempi di Gregorio Magno. Potrai ammirarvi il Gallo, simbolo del tradimento di Pietro, che era posto nel punto più alto della basilica costantiniana. Potrai ammirarvi la tomba di Sisto IV realizzata in età umanistica da Antonio Pollaiolo che ritrasse il papa morto circondato dalle virtù teologali ma anche dalle diverse arti, come la musica, la filosofia, l’aritmetica, ad indicare l’importanza dello studio per i cristiani dell’età umanistica. Potrai ammirarvi, infine, il sarcofago di Giunio Basso, prefetto di Romamorto nel 359 dopo Cristo, con magnifiche storie bibliche: un’iscrizione del sarcofago ricorda che Giunio Basso morì neofita, cioè, appena battezzato.

Procedendo invece verso l’uscita trovi l’altare che custodisce il corpo di papa Gregorio Magno. Anche lui fu prefetto di Roma, ma lasciò tale altissima carica per farsi monaco. Eletto papa, si ritrovò nuovamente alla guida della città, allora attaccata dai longobardi. La sua decisione di inviare presso gli angli sant’Agostino di Canterbury con 40 monaci cambiò la storia della Gran Bretagna, determinando la conversione al cristianesimo delle isole inglesi.

A fianco della tomba di san Gregorio Magno è il monumento a Pio VII che venne umiliato da Napoleone, come già il suo predecessore Pio VI. Quando, però, Napoleone cadde in disgrazia, Pio VII fu l’unico ad essergli vicino nel suo esilio a Sant’Elena, accogliendo, fra l’altro, la madre ed i parenti dell’imperatore a Roma, quando vennero espulsi dalla Francia.

Nella Cappella del Coro, proseguendo ancora verso l’uscita, è custodita la tomba di san Giovanni Crisostomo.

Più avanti ancora si trova la tomba di papa Pio X. Un bassorilievo bronzeo posto poco prima della tomba ricorda il suo decreto che concedeva ai bambini di ricevere la Comunione, allora riservata a chi era almeno adolescente: il papa difese così la grandezza spirituale dei bambini. Nel bassorilievo, attraverso il simbolo di una Bibbia aperta che viene letta, si ricorda anche che san Pio X fu il fondatore del Pontifico Istituto Biblico di Roma

Puoi uscire ora dalla basilica, attraversando la porta della morte di cui ti ho già parlato. Ti invito a tornare alla foto panoramica del portico e ad ascoltare il commento al mosaico della Navicella, che è l’ultima immagine che ti accompagnerà nel tuo ritorno a casa, come già avvenne per tanti pellegrini prima di te.

TESTO PIÙ AMPIO NON REGISTRATO

Altare di Leone Magno

L’altare custodisce il corpo di papa Leone Magno. Nell’altorilievo seicentesco dello scultore Algardi si vede il papa che affronta Attila, re degli unni, a Mantova, riuscendo con la sua autorità e l’intercessione di san Pietro ad ottenere che le sue truppe non devastino Roma e l’Italia. Nella vita di Leone Magno è già evidente che, nella debolezza del potere imperiale sempre più preoccupato della lontana Costantinopoli, la popolazione civile trovò solo nel papa una difesa contro i barbari ed una realtà capace di divenire punti di riferimento anche per l’amministrazione civile.  Quando alcuni anni dopo furono i Vandali di Genserico, nel 455, ad invadere la penisola fu nuovamente Leone ad ottenere che almeno, nel saccheggio dell’urbe, risparmiassero la vita della popolazione e le chiese romane nelle quali tutti si rifugiarono.

Monumento a papa Alessandro VII

Il monumento a papa Alessandro VII venne scolpito dal Bernini che aveva allora 80 anni. Lo scultore aveva una grande riconoscenza per papa Alessandro VII perché fu lui a commissionargli il Colonnato, la Cattedra e la Scala regia, dopo che papa Urbano VIII gli aveva commissionato invece il Baldacchino. Bernini ritrae il papa che prega in ginocchio, mentre in basso emerge lo scheletro della morte che gli mostra la clessidra con il tempo ormai terminato. La morte ha il capo nascosto, perché non guarda in faccia nessuno, ma al momento stabilito falcia tutti. Intorno stanno quattro figure rappresentanti la Verità o religione, la Carità, la Giustizia e la Prudenza.

Il Museo del Tesoro

Se hai tempo, ti invito a visitare il Museo del Tesoro della Basilica, per accedere al quale devi pagare un biglietto. Vi troverai delle opera d’arte molto significative. Potrai ammirare una delle colonne tortili che ornavano la Confessione ai tempi di papa Gregorio Magno. Potrai vedere poi il Gallo, simbolo del tradimento di Pietro, che era nel punto più alto della basilica costantiniana. Troverai poi una copia dell’antico trono di età carolingia per il quale il Bernini realizzò l’altare della Cattedra.

Ma il Museo custodisce due opera straordinarie: innanzitutto la tomba di Sisto IV, il primo papa della Rovere zio di Giulio II, realizzata in pieno stile umanistico da Antonio Pollaiolo con il papa che è circondato oltre che dalle virtù teologali della fede, della speranza e della carità anche da tutte le arti, come ad esempio la musica, la filosofia, l’aritmetica, ad indicare l’importanza degli studi umanistici a fianco della fede.

La seconda opera è il sarcofago di Giunio Basso, praefectus Urbis di Roma morto nel 359 dopo Cristo. Presenta storie di Cristo, degli apostoli e dell’Antico Testamento, di straordinaria fattura oltre a ricordare con le sue iscrizioni che Giunio Basso morì neofitus, cioè, secondo le usanze dell’epoca, era un cristiano che aveva ritardato iI battesimo fino al momento della morte, per non assumersi totalmente le responsabilità della fede cristiana. Il Museo conserva anche una copia della Pietà di Michelangelo. 

Prima del Museo trovi una lapide con l’elenco di tutti i papi sepolti in basilica.

Altare di Gregorio Magno

Un altro grande Padre della Chiesa sepolto in basilica è papa Gregorio Magno, vissuto al tempo dell’invasione dei longobardi. Era praefectus urbis, ma preferì lasciare la sua altissima carica politica per farsi monaco. Dovette però lascare la vita di preghiera perché venne eletto papa, ritrovandosi così nuovamente a vivere quella vita pubblica che aveva voluto lasciare, poiché la difficoltà dei tempi chiedevano al pontefice di occuparsi di Roma sia dal punto di vista spirituale come da quello materiale e civile. Nonostante Roma fosse ormai una città di confine, circondata dai longobardi, si preoccupò dell’intero continente europeo: la sua decisione di inviare presso gli angli sant’Agostino di Canterbury con 40 monaci fu l’evento che, nel tempo, determinò la conversione al cattolicesimo delle isole inglesi.

Monumento a papa Pio VII

A fianco della tomba di San Gregorio Magno è il monumento a Pio VII. Il suo predecessore, Pio VI, era morto di malattia e fatica subito dopo aver passato le alpi a piedi perché costretto dalle truppe della rivoluzione francese. Anche Pio VII venne umiliato da Napoleone che lo deportò in esilio vicino Parigi e gli impose di incoronarlo imperatore in Notre Dame a Parigi. Ma quando Napoleone cadde in disgrazia, Pio VII fu l’unico ad essergli sempre vicino in tutti  modi nel suo esilio a Sant’Elena ed accolse tutti napoleonidi, a partire dalla stessa madre dell’imperatore, a Roma, poiché nessuno stato voleva accoglierli. Manzoni, con versi famosi -

Bella Immortal! Benefica
fede ai trionfi avvezza!
scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò
-

ricorda come nell’ultimo periodo della vita Napoleone si avvicinò, grazie anche alla bontà del papa, alla fede cattolica. A fianco del papa si vedono le statue della fortezza morale a sinistra con una pelle di leone e della Sapienza che legge la Parola di Dio, mentre una civetta è ai suoi piedi, segno della vigilanza e della preghiera notturna.

Tomba di San Giovanni Crisostomo

In San Pietro è custodita la tomba di un altro grande padre della Chiesa, san Giovanni Crisostomo, originario di Antiochia di Siria, che fu poi eletto patriarca di Costantinopoli. Dovette però abbandonare presto la sua sede perché esiliato dall’imperatore: le sue prediche, infatti, pronunciate con la sua “bocca d’oro” – questo è il significato dell’appellativo Cristostomo – intendevano anche scuotere la corte che viveva negli agi e nei lussi e non si preoccupava del bene dei poveri, ma tale predicazione venne rigettata dalla famiglia imperiale. Il sepolcro del Crisostomo è nella Cappella del Coro della quale fu organista il musicista Domenico Scarlatti.

Tomba di Innocenzo VIII

Prima di uscire si vede sulla sinistra un’altra delle poche opere superstiti realizzate per la basilica costantiniana. È la tomba di papa Innocenzo VIII, realizzata da Antonio Pollaiolo. In alto si vedono le tre virtù teologali, mentre a fianco del pontefice sono, a 2 a 2, le virtù cardinali. Il papa ha in mano la reliquia della Sacra lancia che gli venne donata dal sultano Bajazet II, figlio di Maometto II il conquistatore di Costantinopoli, la reliquia che venne poi custodita nel pilastro di san Longino. Cristoforo Colombo partì per le Americhe 8 giorni dopo la morte di papa Innocenzo VIII.

La Tomba di san Pio X

Poco prima di uscire si venera sulla destra la tomba di un altro papa canonizzato, san Pio X. Un bassorilievo bronzeo posto poco prima della tomba ricorda due eventi importanti della sua vita. Innanzitutto la sua decisione che i bambini ricevano la Comunione a partire “dall’età di ragione”, cioè fra i 7 e i 9 anni, mentre prima di lui la Comunione era amministrata solo intorno ai 13-14 anni. Il papa comprese la grandezza dei bambini e che essi avevano potevano incontrare Dio non solo tramite la catechesi, ma ancor più attraverso la ricchezza dei riti e dell’esperienza liturgica che educava i loro cuori. Pio X fu anche il fondatore del Pontifico Istituto Biblico e questo secondo fatto è sottolineato nel bassorilievo dalla presenza della Bibbia aperta che viene letta. 

Sul lato sinistro della cappella è il monumento a papa Benedetto XV, il papa che cercò in tutti i modi, inascoltato, di far cessare le ostilità della  I guerra mondiale che definì “un’inutile strage”. Gli studi moderni stanno ponendo in risalto quanto fosse profetico il suo insegnamento e quanto fosse avvertito a livello del popolo, benché rifiutato dai potenti: famosa è diventata la cosiddetta Christmas Truce, la tregua del primo Natale di guerra del 1914, quando nella notte di Natale spontaneamente, in diverse parti del fronte, soldati inglesi e austro-tedeschi uscirono dalle trincee, seppellirono i morti e festeggiarono insieme il Natale, cantando canzoni natalizie e dimenticando di essere nemici, fatto che restò unico perché venne vietato dalle autorità nei successivi anni di guerra.

La tomba di Maria Clementina Sobieski

Vicino alla tomba di papa Pio X sta la tomba della regina Maria Clementina Sobieski, nipote del re di Polonia Sobieski la cui azione fu decisiva nel liberare Vienna dall’assedio turco del 1683. Se la città fosse caduta l’Europa sarebbe probabilmente scomparsa. La Sobieski sposò poi il re di Inghilterra e Scozia Giacomo III Stuart, che è sepolto a fianco in una tomba scolpita dal giovane Canova. Giacomo III non poté però regnare poiché la Gloriosa Rivoluzione volle che non ci potesse essere un re cattolico.

Altre due donne famose che erano già state sepolte in basilica sono Matilde di Canossa e la regina di Svezia Cristina che, in età barocca, si fece da luterana cattolica e dovette perciò abdicare al trono. Sono sepolte entrambe nella navate destra della basilica.

VII/ LE GROTTE: PRESENTAZIONE GENERALE

Sei ora al di sotto della navata della basilica e, davanti a te, hai la tomba di Pietro nella sua sistemazione attuale. Proprio sopra la tomba è l’altare, il baldacchino, la cupola. Puoi immaginare, a livello del suolo delle Grotte, l’umile tomba del primo degli apostoli sepolto dai cristiani sopravvissuti alla persecuzione neroniana. Il mosaico con il Cristo – come puoi notare - è stranamente spostato sulla sinistra, ma questa collocazione ha una sua interessantissima ragione storica. A fianco del cosiddetto Trofeo di Gaio, costruito – come sai - nell’anno 160 circa, venne eretto il muro detto dei Graffiti, così chiamato perché contiene numerose iscrizioni cristiane e numerose invocazioni rivolte a Pietro.

Quando Costantino decise di costruire sopra la tomba la basilica, volle che si conservasse non solo la tomba, ma anche quel muro che gli archeologici poi ritrovarono. Il mosaico del Cristo, allora, corrisponde alla tomba, mentre lo spazio asimmetrico a destra corrisponde al Muro dei graffiti. La nicchia si chiama oggi Nicchia dei palli perché vicino ad essa sono custoditi i pallii, che sono degli indumenti liturgici costituiti da una stoffa circolare che i vescovi metropoliti indossano ad indicare il popolo che sono chiamati a portare sulle spalle: il papa li consegna loro, prelevandoli da questo luogo ad indicare la comunione dei metropoliti con il vescovo di Roma.

Se un giorno volessi visitare gli scavi puoi farne richiesta presso l’Ufficio scavi a cui si accede dall’Arco delle Campane, ma è bene fare prima la prenotazione on-line, sul sito del Vaticano.

Ti invito ora a sostare qualche istante in silenzio, prima di proseguire la visita delle Grotte. Sei dinanzi alla tomba di Pietro: chiedi che, per sua intercessione, il Signore accresca la tua fede, la tua speranza e la tua carità e accompagni con la sua provvidenza i tuoi cari.

1/ Le sepolture. La tomba di Paolo VI

Nelle Grotte vaticane sono sepolti molti pontefici. In una semplice tomba a terra è la sepoltura di papa Paolo VI che aiutò la Chiesa a riscoprire come la fede non sia contraria alla scienza e alla modernità, ma anzi risponda al desiderio più profondo dell’uomo contemporaneo che solo apparentemente sembra non averne bisogno. Paolo VI spinse la Chiesa a superare uno dei drammi più grandi del nostro tempo, la frattura fra il Vangelo e le culture, invitando a riscoprire che fare vera cultura è espressione di carità. Ma Paolo VI insegnò anche che «l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

La fede del papa emerse poi in occasione del rapimento dell’onorevole Aldo Moro, quando decise di scrivere una pubblica lettera agli uomini delle Brigate Rosse.

Ma, soprattutto, Paolo VI fu colui che guidò il Concilio Vaticano II. Esso è noto a tutti per le sue ricadute immediate, come la liturgia nelle diverse lingue parlate o l’invito ad accostarsi con fiducia al testo dei Vangeli. Ma la sua novità è più profonda. Basti pensare alle parole del documento sulla rivelazione, la Dei Verbum, “Piacque a Dio rivelare se stesso”, scritte per presentare la fede all’uomo moderno.

La novità del cristianesimo è che Dio è talmente onnipotente da volersi fare bambino pur di farsi conoscere,  pur di venire in mezzo agli uomini. La Parola di Dio non è più un Libro allora, bensì il Figlio fattosi carne. La Sacra Scrittura è certamente Parola di Dio, ma sempre sottoposta alla pienezza della Parola divina che è la carne di Gesù. Poiché la Parola di Dio è il suo Figlio, ecco che la Bibbia ci racconta del Cristo e la Chiesa ci offre il Cristo stesso vivente nell’Eucarestia. E queste due realtà non possono essere separate. Se, come dice il Concilio, l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo, è vero contemporaneamente che la comunione con Cristo ci viene data non dalla lettura biblica, ma dalla liturgia nella quale incontriamo, come gli apostoli 2000 anni fa, il Cristo vivente che ci offre il suo corpo.

2/ Le sepolture. La tomba di Giovanni Paolo I

Anche Giovanni Paolo I è sepolto nelle Grotte. Il suo pontificato durò solo 33 giorni e la sua morte ricorda a tutti quanto è oneroso il peso del pontificato – il suo cuore non resse alla responsabilità – e quanto la nostra vita è nelle mani di Dio che può chiamarci ad incontrarlo in ogni momento. Per tutti è il “papa del sorriso” perché riuscì nel suo breve pontificato a mostrare la serenità che viene dal Vangelo. Spiegò una volta che si possono vivere gli stessi eventi in modi completamente diversi come avviene a «due alpinisti […] scalano una roccia: il primo, perché è di moda; il secondo, per passione. Sentiteli al ritorno: “Cosa ho veduto? – dice il primo. – Oh! Nulla di speciale: quattro corde, quattro alberi, dei torrenti, dei prati, un cantoncino di cielo e nient’altro!”. E sbadiglia. Dice il secondo: “Cosa ho veduto? Non lo dimenticherò mai più! Rocce, poi ancora rocce, e prati e torrenti e azzurro e sole e cose meravigliose!”. E mentre parla pare che tali meraviglie gli ridano ancora nello sguardo e nell’anima. Così il catechista: non basta che dica, ma, dicendo, deve invogliare, appassionare e trascinare».

3/ Le sepolture. La tomba di Pio XI

Nelle Grotte è anche la tomba di papa Pio XI che visse i tempi durissimi del fascismo e ancor più del nazismo e del comunismo sovietico, morendo poco prima dell’inizio della II guerra mondiale, mentre stava lottando contro la dottrina nazista. Proprio per il crescente pericolo dei regimi totalitari formulò chiaramente il principio di sussidiarietà, uno dei principi chiave della dottrina sociale della Chiesa, affermando che non è lecito «togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società». Ad esempio, poiché spetta alla famiglia il compito di educare i figli e la famiglia stessa è in grado di farlo meglio perché con maggior amore rispetto allo stato, è un grave danno che lo stato avochi a sé il compito educativo e lo sottragga ai genitori. Così lo stato non può relativizzare l’azione dei sindacati, delle comunità cristiane e così via: deve invece riconoscere di essere, in quanto stato, sussidiario alla società civile che preesiste a lui.

4/ MURA DELL’ANTICA BASILICA COSTANTINIANA (TESTO NON REGISTRATO)

Nel risalire al livello della basilica è interessante notare le fondamenta dell’antica basilica costantiniana che l’imperatore realizzò livellando il Colle Vaticano, livellando le zone più alte ed innalzando quelle più in basso, con grande dispendio di fondi, per rispettare il luogo della sepoltura di Pietro e renderlo il cuore della basilica.

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 10:10 pm | | Default

Il vino di oggi nasce nel Medioevo. E in California ne fanno materia di studio. Un’intervista di Laura Donadoni a Giammario Villa

Riprendiamo dal sito Il gambero rosso (www.gamberorosso.it) un’intervista di Laura Donadoni a Giammario Villa pubblicata il 22/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line Per approfondimenti, cfr. la sezione Medioevo.

Il Centro culturale Gli scritti (28/22/2016)

Saremo sempre grati al grande imperatore Cesare per aver “colonizzato” con la Vitis Vinifera praticamente tutta Europa, mettendo letteralmente le radici della nostra cultura vitivinicola; ma dopo di lui, nel Medioevo, sono stati gli ordini monastici cristiani a giocare un ruolo fondamentale nel portare fino ai giorni nostri vitigni come il Soave o il Picolit che altrimenti non avrebbero conosciuto storia, né gloria. In un momento storico come quello attuale in cui l’Unione Europea sta per mettere mano al regolamento che protegge alcune delle più importanti varietà autoctone italiane, raccontare la storia e le origini dei vitigni italiani, soprattutto su un palcoscenico internazionale, diventa una mission.

Ambasciatore di questo messaggio Oltreoceano è un super esperto del settore che da tre anni discute un ciclo di lecture all’Università della California di Los Angeles (UCLA), proprio sul tema Storia medievale, Cristianità e vino in Europa. Lui, riminese di nascita, si chiama Giammario Villa, Master Taster e Wine Educator, fondatore di vinomatica come consigliere della North American Sommelier Association e docente per UCLA. Le sue conferenze sono parte dell’attività culturale e di ricerca del Dipartimento per gli Studi Medievali e Rinascimentali dell’UCLA, diretto dal professor Massimo Ciavolella.

Professor Villa, com’è nata l’idea di proporre all’UCLA un ciclo di conferenze sulla storia medievale dei vitigni autoctoni?

Mi ha sempre affascinato la storia medievale del vino; il Medioevo è erroneamente considerato un’era buia dal punto di vista culturale e spesso anche associato a un impoverimento vitivinicolo; da questo punto di vista possiamo paragonarlo culturalmente ed enologicamente all’inizio della “primavera”, periodo di gemmazione nelle vigne dei Comuni d’Italia e di maturazione stilistiche nelle cantina dei monasteri. È quindi interessante capire i meccanismi e individuare gli attori della salvaguardia e dello sviluppo dei vitigni e delle tecniche di coltivazione e invecchiamento.

Indubbiamente la cristianità ha giocato il ruolo da protagonista, in che modo?

Il legame tra il rito cristiano dell’Eucarestia e l’utilizzo del vino come simbolo del sangue di Cristo hanno sicuramente rappresentato l’ancora di salvezza per una tradizione che correva il rischio di scomparire dopo l’Impero Romano. Uno dei primi ordini religiosi a ergersi difensore della viticoltura fu quello dei Benedettini italiani (seconda metà del 500 d.C., ndr) che non solo coltivarono la vite come simbolo della liturgia cristiana, ma introdussero il vino come elemento fondamentale della dieta: furono i primi a diffondere infatti il concetto di vino come medicina nella scienza farmaceutica, una tradizione che continuò per tutto il Medioevo. Lo stesso San Benedetto, nel suo "Ora et Labora", che segna la Regola dell’Ordine, fissò il limite di consumo del vino con “discretio”: una “emina” di vino al giorno, corrispondente circa a ¾ di litro, solitamente servito misto ad acqua per evitare lo stordimento dell’alcol.

Ci sono altre esperienze simili?

Sì, potremmo continuare con altre testimonianze: anche Arnaldo di Villanova, nel suo “Liber de Vinis” (1253 d.C.) descrive il vino come “efficace sistema terapeutico per le sue qualità antisettiche, corroboranti e idratanti”. All’epoca era considerato più sicuro bere un bicchiere di vino per idratarsi piuttosto che un bicchiere di acqua, non esistevano sistemi di purificazione dell’acqua e il contenuto alcolico del vino azzerava i rischi di contaminazioni batteriche. Spesso questo genera sorrisi durante le mie conferenze, soprattutto quando cito le ricerche di Danielle Alexandre-Bidon (nota ricercatrice di storia medievale francese, ndr) che racconta come fosse normale bere fino a 3 litri di vino al giorno, includendolo anche nella colazione. Ma questa era la norma, i vini avevano un tenore alcolico e una struttura diversi e i monaci Benedettini furono i primi a introdurre il vino nella dieta quotidiana.

Quali sono i vitigni italiani che devono parte della loro storia agli ordini monastici?

Tra i vitigni giunti ai giorni nostri per mano dei Benedettini ci sono il Gaglioppo in Calabria, il Greco Bianco in Campania, il Sagrantino in Umbria, il Picolit e il Ribolla Gialla in Friuli. Ai Cistercensi francesi, approdati in Piemonte, dobbiamo invece la coltivazione di perle come la Spanna del nord del Piemonte. Ai Cavalieri di Malta va la nostra riconoscenza per il Bardolino, il Soave e il Valpolicella, in Veneto. Gli agostiniani dell’Abbazia di Novacella detengono il primato di una delle più antiche coltivazione di Sylvaner in Alto Adige (1142 d.C.).

Benedettini prima e Cisterecensi qualche secolo più tardi, sono tra gli ordini più conosciuti e attivi nell’impiego del vino nell’ambito sia religioso sia domestico; non dimentichiamo che proprio la Cristianità divenne l’unico elemento di unione nella frammentata Europa post-Romana. In Francia i Cistercensi ebbero un ruolo determinante nel preservare, per esempio, i grandi vini della Borgogna. L'Abbazia Cistercense più famosa è quella di Citeaux che fino alla Rivoluzione Francese restò la più grande produttrice di vino di qualità d’Oltralpe. Tra le vigne di Citeaux, la particella più famosa è il Clos-Vougeot ancora oggi sinonimo di eccellenza. Inizialmente i vigneti si estendevano per circa 125 acri, tutti circondati da mura e forniti di cantine e torchi ancora oggi visibili.

Il ciclo triennale di conferenze a UCLA esplora questi legami profondi tra storia, religione e viticoltura, ma come risponde il pubblico statunitense a queste iniziative di formazione?

Gli Stati Uniti sono il primo mercato di esportazione per l’Italia e la wine education gioca un importante ruolo di supporto nella promozione dei nostri imprenditori e dei loro prodotti. C’è una necessità crescente di informazioni scientifiche sui nostri vitigni, c’è una nuova attenzione verso gli autoctoni - soprattutto in virtù della recente tendenza hipster che influenza anche le scelte dei consumatori di vino - ma è importante che non ci dimentichiamo di imparare i classici: credo infatti che sia necessario passare dalla conoscenza dei vini tradizionali per apprezzare le novità e le diversità, l’attenzione e l’interesse riscontrato in questo ciclo di lecture ne è la prova. È necessario sviluppare nel consumatore un canone di estetica del gusto che gli permetterà di cogliere le diversità stilistiche. Il vino è cultura, è espressione di un territorio, si porta con sé la storia di una famiglia, di una regione, di un Paese, per questo la diffusione di informazioni corrette sui nostri vitigni può davvero avere un ruolo fondamentale per il futuro di queste varietà, sia sul piano commerciale, sia sul piano culturale.

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Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 5:01 pm | | Default
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189mila sordociechi, isolato in casa il 57%, di Luca Liverani

Riprendiamo da Avvenire del 26/2/2016 un articolo di Luca Liverani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfodnimenti, cfr. la sotto-sezione Catechesi e disabilità. Su FB vedi la pagina Sordi Cattolici. Sul Canale YouTube Catechisti Roma, la playlist Catechesi e disabilità.

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

Un popolo nascosto, nel buio e nel silenzio. Le stime sui sordociechi in Italia finora oscillavano tra le 3mila e le 11mila persone. Ma la realtà è molto diversa. Il primo studio statistico sulla sordocecità elaborato dall’Istat rivela che sono 189mila, pari allo 0,3% della popolazione, uno ogni trecento. Ancora più preoccupante è che oltre la metà, 108mila persone, cioè il 57%, è confinata in casa – sul letto o in poltrona – perché non è in grado di svolgere necessità quotidiane elementari come camminare, lavarsi, vestirsi, prendere l’autobus. Una condizione che preclude totalmente ogni forma di vita sociale e spesso anche affettiva. Dati drammatici, che interpellano con forza la politica e i servizi socio- sanitari. 

A rivelare una realtà finora sottovalutata è la Lega del Filo d’Oro – l’associazione che dal 1964 aiuta le persone sordocieche a connettersi con il mondo esterno – che ha commissionato all’Istituto nazionale di statistica lo studio «La popolazione italiana con problemi di vista e di udito». «Si tratta di una vera e propria emergenza – dice il segretario generale della Lega del Filo d’Oro Rossano Bartoli – e dunque è necessario individuare nuove modalità di risposta, a cominciare dalla piena attuazione della legge 107/2010» sui sordociechi. Il dossier è stato presentato alla Camera – alla vigilia della Giornata delle malattie rare del 29 febbraio – dalla Lega del Filo d’Oro e, per l’Istat, da Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento Statistiche sociali, e dal ricercatore Alessandro Solipaca. Secondo il dossier dunque il 64,8% dei sordociechi è donna, l’87,9% ha oltre 65 anni

La distribuzione sul territorio rivela che il 31,5% è al Nord, il 21,4% al Centro, il 30,6% al Sud e il 16,8% nelle Isole. Oltre il 47% dunque nel Mezzogiorno. Inevitabile che la sordocecità sia spesso accompagnata da altre forme di invalidità, sia per la mancanza di stimoli nell’età dello sviluppo (il 95% di tutto ciò che apprendiamo ci arriva dalla vista e dall’udito), sia per l’età avanzata in molte persone che diventano sordocieche col passare degli anni. E dunque il 51,7% ha anche disabilità motorie, il 40,1% danni permanenti da insufficienza mentale, il 32,5% disturbi del comportamento e malattie mentali. Non meraviglia che solo il 2,4% sia laureato, il 7,7% diplomato, mentre l’89,9% ha frequentato solo la scuola dell’obbligo. Lo studio ricostruisce dunque le reali dimensioni della sordocecità, finora sottostimate, attraverso la classificazione internazionale ICF che considera la disabilità come risultato dell’interazione tra condizioni di salute e ambiente in cui vive.

E comunque le persone che hanno – non simultaneamente – disabilità sensoriali legate alla vista oppure all’udito sono 1 milione 700mila. Di queste, 9.855 sono bambini e ragazzi: 6.217 i sordi, 3.638 i ciechi. Nel 38,1% dei casi alla disabilità visiva è associata una disabilità intellettiva e nel 37,1% una disabilità motoria. Due bambini su 10 hanno disturbi nello sviluppo del linguaggio, il 16% difficoltà nell’apprendimento, l’11% di tipo affettivo-relazionali. Per i bambini con problemi uditivi, il 31,2% ha altre due disabilità: intellettiva (26,3%), disturbo del linguaggio (24%). 

I 108 mila 'fantasmi' costretti a passare la vita in una stanza non sono in grado di spostarsi con i mezzi pubblici (l’88%), né di accedere agli edifici pubblici (l’85%). Ma i problemi di isolamento coinvolgono una porzione anche superiore al 57% dei 'confinati': arriva infatti al 64% la percentuale dei sordociechi che ha difficoltà a incontrare amici e parenti, al 78,7% chi non riesce nemmeno a occuparsi dei propri interessi, a partecipare a eventi culturali o di intrattenimento.

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 5:00 pm | | Default

Catechesi sulla Misericordia. File audio di una relazione tenuta da Andrea Lonardo presso la parrocchia di Santa Maria Josepa

Riprendiamo sl nostro sito il file audio di una catechesi sulla misericordia tenuta da Andrea Lonardo presso la parrocchia di Santa Maria Josepa del Cuore di Gesù l'11/1/2016. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

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Riproducendo "misericordia maria josepha".


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Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 4:59 pm | | Default

«La superstizione, che è il contrario della religione, ricerca innanzitutto la sopravvivenza e il potere mondano e riduce qualsiasi rituale a pratica utilitaristica, fatta non per onorare e imitare gli dei ma per acquistarne i favori». Fra tecnologismo e superstizione, meglio la magia di Harry Potter, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 14/2/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

Sicuramente il “tecnologismo” attiene di più alla superstizione che alla scienza e regredisce a uno stadio precedente a quello del pensiero magico. Non sto dicendo che il “tecnologismo” non si serva della scienza. Dico precisamente che se ne serve: lungi dall'accordarle la sua libertà, riconoscerle un valore in sé e celebrare la sua gratuità contemplativa, la tiene in schiavitù con l'intento di un sostanzioso profitto. Perché, nella sue motivazioni più profonde, il “tecnologismo” non è scientifico ma superstizioso.

Secondo Cicerone infatti, la superstizione, che è il contrario della religione, ricerca innanzitutto la sopravvivenza e il potere mondano e riduce qualsiasi rituale a pratica utilitaristica, fatta non per onorare e imitare gli dei ma per acquistarne i favori

Quanto alla magia, devo fare qui una rettifica. Per molto tempo ho creduto alla similitudine tra l'utopia tecnicista e il pensiero magico. In entrambi casi uno cerca di ottenere risultati ad effetto senza sforzo. Il jet privato e la domotica trovano il loro precursore comune nella scopa della strega che è essa stessa la negazione dell'umile scopa della casalinga. Gli Ogm imitano l'albero che cresce allo schioccare delle dita e gli avatar informatici funzionano come l'abracadabra che trasforma il principe in rospo e viceversa. Da una parte e dall'altra, dicevo, si celebra lo stesso culto dell'immediatezza contro i ritmi della natura. E per questo nutrivo grandissime riserve su Harry Potter.

Ma mi sbagliavo, per almeno quattro ragioni. La prima è che la magia, nei racconti, mantiene gli uomini a contatto con la terra in tutto il suo spessore. Si tratta sempre di raccogliere bava di rospo, coltivare la mandragola, strappare una piuma al gufo durante il plenilunio… I suoi entusiasmi si concentrano sul lupo mannaro e non sull'androide e la vera ragnatela possiede più virtù della rete web.

Seconda ragione: gli strumenti magici farebbero bella mostra in un museo dell'artigianato. Sono paioli di rame e alambicchi. La vecchia scopa di saggina, che poco sopra guardavo con sospetto, appare come uno strumento insuperabile e più degno del robot-aspirapolvere. E i colpi di bacchetta di magica non sono altro che colpi di mestolo.

Se il gusto del mago si orienta verso le vecchie pergamene indecifrabili e non verso gli ultimi gadget, è perché – terza ragione – la trasmissione del suo savoir-faire resta tradizionale. Nessuna ingegneria sovvenzionata dalle multinazionali, ma ricette della nonna, trasmesse di generazione in generazione, da tempi immemorabili.

Infine, e questa è la ragione numero quattro, lo scopo della magia rimane quello di agire su una materia esterna, su realtà molto tangibili, il piombo che si trasforma in oro per esempio. Che ingenuità, in un'epoca in cui il denaro è elettronico e ci preoccupiamo soltanto di oggetti digitali, né reali né irreali, e che ci abitano più dei fantasmi di una volta!

Alla fine di Harry Potter e la Camera dei Segreti, il bravo mago Arthur Weasley spiega a sua figlia che è stata vittima di un quaderno il quale, grazie alla magia nera, poteva entrare in comunicazione e manipolare chiunque scrivesse su di esso – cosa che oggigiorno qualunque tablet fa infinitamente meglio –: «Che cosa ti ho sempre detto? Di non fidarti mai di qualcosa capace di agire e di pensare se non vedi dove si trova il suo cervello». Questa è la dimostrazione che l'immaginario della magia è ormai più vicino al mondo contadino che a quello di Internet, e che accanto alle centrali nucleari, la pietra filosofale appare meravigliosa non per il suo potere ma perché rimane una pietra.

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 4:52 pm | | Default

L’altro Islam, lo sguardo aperto del pensiero sciita, di Chiara Zappa

Riprendiamo da Avvenire del 17/2/2016 un’intervista a Mohammad Ali Amir-Moezzi di Chiara Zappa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti cfr. la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

Esiste un altro islam. Poco conosciuto, a tratti persino misterioso. Tradizionalmente discriminato dal mondo musulmano maggioritario sunnita, oggi apertamente nel mirino dei fondamentalisti sanguinari del Daesh e dei loro “cugini”, in Medio Oriente come nel subcontinente indiano. Si tratta dell’islam sciita, corrente religiosa che conta oltre duecento milioni di fedeli in tutto il mondo: dall’Iran – dov’è religione di Stato – allo Yemen, dall’Azerbaigian al Bahrain, dall’Iraq al Libano fino a India, Pakistan, Bangladesh

Degli sciiti il grande pubblico ha imparato a conoscere soprattutto le espressioni fanatiche di mullah totalitari e fazioni violentemente anti-israeliane, o tutt’al più il folklore cruento di rituali di lutto collettivi a base di lamenti e autoflagellazioni. Solo di recente abbiamo cominciato a percepirli anche come una minoranza perseguitata dai jihadisti sunniti. Fenomeni che tuttavia «occultano il fatto che lo sciismo è anche una delle più ricche tradizioni intellettuali e spirituali dell’islam; che la sua storia annovera migliaia di brillanti teologi, esegeti, filosofi, artisti, eruditi, giuristi, mistici e uomini di lettere; che il corpus degli scritti sciiti è uno dei più ricchi del mondo». Parola di Mohammad Ali Amir-Moezzi, docente di Esegesi e teologia dell’islam sciita all’École pratique des Hautes Études della Sorbona, che nel suo L’islam degli sciiti. Dalla saggezza mistica alla tentazione politica, in uscita per Edb (pagine 86, euro 7,00), rievoca l’origine dello scisma che lacerò il mondo musulmano al momento della successione al profeta Muhammad e ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo del pensiero sciita lungo i secoli. Uno studio particolarmente interessante, quello dell’intellettuale iraniano, in un momento in cui lo strappo settario all’interno del mondo musulmano conosce esiti più che mai sanguinosi e preoccupanti.

Professore, quali sono le specificità della corrente islamica sciita rispetto a quella sunnita? 
«In origine, la frattura nella comunità dei seguaci di Muhammad si consumò perché una parte di loro giudicò illegittima la scelta di Abu Bakr per la successione al profeta, ritenendo che questa spettasse di diritto al genero e cugino Ali. Questo gruppo – “Shi ’atu ’Ali” , “la fazione di Ali”, da cui “sciiti” –, restò fedele ai successivi discendenti della famiglia del profeta, gli imam. Una parola che, nel mondo sciita, non rappresenta semplicemente gli esperti della religione bensì guide spirituali veneratissime. La specificità di questa corrente, nella sostanza, sta proprio nella profonda devozione agli imam, che dà forma alla teologia – lo sciismo è la religione della guida spirituale – così come alle espressioni di fede popolare, con tutte le forme di venerazione a Muhammad, a Fatima e Ali, ai loro figli Hasan e Husayn e a tutti i discendenti». 

Si tratta di un filo conduttore che unisce tutti gli sciiti nel mondo?
«Esistono tre grandi branche di sciiti: i duodecimani, gli zayditi, presenti nello Yemen, e gli ismailiti, diffusi soprattutto in India. Tutte condividono la devozione alla figura dell’imam, anche se ci sono delle differenze. Gli iraniani, ad esempio, identificano l’immagine dell’“imam nascosto” nella Guida suprema, mentre gli ismailiti la riconoscono nell’Aga Khan». 

Qual è l’importanza della tradizione sciita nella storia del pensiero musulmano? 
«È molto grande. Nel primo secolo dell’islam la questione della successione fu centrale, determinò fazioni avverse e relative correnti di pensiero. Questa disputa fu al centro della costituzione della dottrina, e molte dottrine sunnite attuali furono in origine una reazione a movimenti sciiti considerati eretici. Inoltre, gli sciiti hanno sempre coltivato l’ermeneutica, l’esegesi: per loro il Corano ha bisogno di essere interpretato, riconoscono vari livelli di senso, letture differenti dello stesso testo. Non a caso il mondo sciita ha visto prosperare la filosofia e la teologia: i grandi filosofi Farabi e Miskawayh erano sciiti, nell’era Safavide proliferarono famosi pensatori, molti filosofi ismaeliti sono meno noti ma importantissimi, lo stesso Avicenna si formò in un contesto sciita. E anche ai giorni nostri, nonostante tutti i limiti che conosciamo, in Iran la filosofia è materia di baccalaureato». 

Il pensiero sciita ebbe un ruolo anche nella diffusione delle scienze in Occidente? 
«Sì, indirettamente: le opere di molti di questi sapienti furono tradotte in latino. Non solo il pensiero sciita contribuì alla formazione della filosofia nel mondo islamico, ma gli intellettuali sunniti stessi sono influenzati dalle dottrine sciite». 

Lo sciismo ha una lunga tradizione di studi critici sui testi sacri: il mondo sciita può essere oggi un attore della modernizzazione del pensiero islamico in generale? 
«Potrebbe essere un attore di riforma. Anche se può sembrare paradossale, in Iran, nonostante la strumentalizzazione politica della religione, o forse proprio in reazione ad essa, è in atto una vera riflessione sull’islam. Esiste una vivace vita intellettuale (ciò che non si verifica in altri Paesi islamici, soprattutto arabi) con numerose figure di riformatori». 

Intanto però assistiamo a un pericoloso scontro tra mondo sunnita e sciita: è preoccupato? 
«Certo, si tratta di un fenomeno inquietante. In realtà, la religione viene strumentalizzata per altri fini, ma la popolazione si sente molto coinvolta perché in questi scontri si fa riferimento a credenze importantissime. La gente viene manipolata e ciò crea una violenza estrema, che può infiammare regioni intere». 

Esistono esperimenti interessanti di “ecumenismo” tra le diverse correnti islamiche? 
«Sì, ne abbiamo avuti alcuni tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma con risultati relativi, perché sul piano religioso esistono elementi inconciliabili. Nonostante ciò, generalmente le comunità sono arrivate a un equilibrio pragmatico, riuscendo a convivere in pace. I problemi si verificano quando intervengono appunto manipolazioni da parte di regimi corrotti, o provocazioni internazionali. Penso che un dialogo duraturo possa nascere non dal basso, perché le masse di fedeli non sarebbero preparate, bensì da una classe intellettuale che elabori un’adeguata riflessione teorica e politica». 

Lei sostiene che il mondo sciita, rispetto ai sunniti, è più aperto al dialogo con le altre religioni: perché? 
«Nello sciismo l’aspetto spirituale e intellettuale sono molto importanti, e tra le élite la tradizione razionale – e quindi anche dialettica – è rimasta molto viva. Con i religiosi sciiti, anche quelli più rigidi, è possibile mettersi attorno a un tavolo e dialogare, cosa impossibile con i fondamentalisti sunniti. E i fatti lo dimostrano».

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 4:51 pm | | Default
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«L’utero in affitto ruba l’identità ai bambini». Un’intervista a Paolo Crepet di Lucia Bellaspiga

Riprendiamo da Avvenire del 19/2/2016 un’intervista a Paolo Crepet di Lucia Bellaspiga. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

«Chi sono io? Di chi sono figlio? Chi sono mia madre e mio padre? Questa è la discriminante: ogni volta che diventa impossibile rispondere a queste domande, che sono il diritto assoluto di ogni essere umano, si è compiuto qualcosa di sbagliato». È la bussola con cui Paolo Crepet, psichiatra, si orienta in quella che definisce «una galassia di situazioni diverse tra le quali occorre distinguere», eufemisticamente chiamata 'gestazione per altri', o più realisticamente utero in affitto. 

Mai prima d’oggi nella storia dell’umanità si è rischiato di venire al mondo senza sapere da chi. L’utero in affitto e altre pratiche manipolatrici della nascita, invece, oggi rubano alla persona che nasce la sua stessa identità... 
Vorrei rispondere partendo da un assunto, e cioè che questo argomento è molto complesso e le cose complesse non si possono semplificare. Ritengo che gli omosessuali debbano avere tutti i diritti civili e patrimoniali. E il problema non è nemmeno l’adozione, laddove un figlio sia nato da una relazione eterosessuale precedente e poi ad esempio il padre abbia cambiato orientamento sessuale: è chiaro che il bambino resta suo figlio e, qualora la madre per sventura venisse a mancare, andrà a vivere con suo padre, ovvero con la nuova coppia omosessuale. 

Dove inizia il problema più grave? 
In tutto ciò che ruba l’identità al bambino. Rispondere alla domanda tipica di ogni essere umano, 'chi sono io?', è un dovere assoluto, è addirittura fondativo della nostra vita. Pensiamo al caso, seppure diverso, dei figli che sono adottati dalle famiglie: presto o tardi ci chiedono sempre da dove vengono, vogliono andare a vedere il loro Paese, ove possibile anche incontrare i genitori naturali, cercare quella famosa risposta. Ma con l’utero in affitto questa risposta non è possibile darla, ed è un’aberrazione inaccettabile. Come ho detto, esistono però situazioni diverse, che vanno distinte. Inizio dalla più grave. 

Qual è, e perché? 
Vale la pena ricordare che cosa avviene quando un uomo gay vuole fare il padre, gli preme questo desiderio e decide di recarsi all’estero, ad esempio in America, dove si può fare tutto. Lì si cerca una donna che gli aggrada e già questo è un primo grosso problema, perché siamo in piena eugenetica: si sceglie una razza, il colore della pelle. Elton John mica ha voluto una donna nera di Haiti... L’eugenetica, anche etimologicamente parlando, è già razzismo ed è una pratica ben nota ai nazisti. Celebrare davvero la Giornata della Memoria significa non dimenticarlo. Poi questa donna per nove mesi cresce nel grembo il bambino, e tra madre e figlio durante la gestazione si instaurano relazioni. È provato ad esempio che se la madre si accarezza spesso la pancia nasce un forte rapporto affettivo... Al parto il ricco gay occidentale stabilisce che quindi quella donna non deve allattare, e qui nasce il grande trauma sia per la madre che per il figlio: a entrambi viene negata la meraviglia dell’allattamento, il primo atto che il neonato cerca, e che non è solo una nutrizione. Anni fa si studiava la 'teoria dell’attaccamento': così a un neonato di scimpanzé si offrirono una tetta di plastica piena del latte di sua madre e più lontano un ciuffo dei suoi peli con dentro una tetta vuota. Il cucciolo andava a cercare quest’ultima. Oggi la teoria dell’attaccamento è cosa nota e riguarda il calore, l’odore, non certo il nutrimento. E noi cancelliamo tutto questo perché decidiamo che va bene così? È mostruoso. Ancora più grave è quando i due gay dicono 'ma noi teniamo un rapporto con la donna che lo ha fatto nascere': peggio! È accanimento. Se non soffre di autismo, soffrirà in maniera inimmaginabile. È già successo che alcune madri surrogate poi rivendichino la maternità. Particolarmente odioso, poi, è il fatto che tutto ciò sia accettato perché costa cifre altissime, dunque vi accedono solo i milionari. Per coerenza, però, dobbiamo parlare ora degli altri casi sbagliati. 

Seconda casistica, dunque? 
Una signora single, o lesbica, decide di diventare madre, va ad esempio in Spagna alla banca del seme, sceglie dai cataloghi e compie l’atto con la fialetta. La cosa diversa è che lei stessa se lo cresce in grembo, dunque non interrompe la relazione tra madre e feto, ma l’operazione è comunque eugenetica e soprattutto resta la voragine della risposta mancata: chi è mio padre? Non lo saprà mai e questa è una violenza spaventosa. Non vorrei che la diatriba sull’utero in affitto facesse 'dimenticare' questa altra pratica solo femminile, come se non fosse ontologicamente grave per il bambino privato della sua identità. 

Terzo caso? 
C’è anche una declinazione leggermente diversa che è, ad esempio, quella di Nicole Kidman: l’attrice non voleva restare incinta, per motivi suoi professionali, così ha preso questo connubio tra lei e suo marito e lo ha impiantato in una donna, usata come macchina fattrice. Qui padre e madre geneticamente sono noti, la risposta al 'chi sono io?' c’è, dunque il problema non riguarda l’identità, ma certamente l’attaccamento sì, come pure lo sfruttamento di una donna povera, l’affitto di un utero e la speculazione economica. Dei tre casi è il 'meno grave' e largamente il più diffuso, ma resta inaccettabile. Come vede, la galassia è complessa. Io non sono in Parlamento e non faccio le leggi, ma da psichiatra dico no in assoluto a tutti e tre i casi. 

Molti studi provano che per una crescita equilibrata e serena ogni bambino ha bisogno di un padre e una madre, naturalmente di due sessi diversi. Ma occorre davvero dimostrare una cosa così ovvia? 
La questione è recente, fino a vent’anni fa non esistevano tecnologie procreative quindi non era discutibile. Ma siccome nel figlio i problemi possono nascere in qualsiasi momento nei primi 25 anni di vita, non nei primi tre, manca ancora l’esperienza. L’unica che abbiamo risale alla guerra, quando gli uomini erano a combattere e i bambini crescevano in un mondo tutto al femminile, con madre, nonna, zie e sorelle, e tutto in effetti è andato bene, ma lì la famosa risposta c’era: 'tuo padre è al fronte', e questo fa un’enorme differenza. Non c’è alcun dubbio che avere accanto la figura maschile e quella femminile è l’ideale, ma oggi spesso prevale un pregiudizio positivo, e cioè che 'basta l’amore', da chiunque ti arrivi. È una grande sciocchezza, dietro la quale ci sono soldi e belle parole che ti rubano l’identità. Non scordiamo mai che questo pregiudizio positivo giova a coppie eterosessuali o omosessuali molto ricche, illuse di poter poi colmare qualsiasi vulnus del figlio con i soldi. 

Nel momento in cui si paga per un figlio, sfruttando una condizione di povertà, non si ravvisa un fondo di razzismo o di colonialismo? 
Non troverà mai un omosessuale indiano o filippino che farà una cosa simile, sia per censo sia perché nella sua storia antica non c’è un passato di colonialismo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 4:50 pm | | Default

Sicari e pentiti: l’altra resistenza, di Roberto Festorazzi

Riprendiamo da Avvenire del 10/2/2016 un articolo di Roberto Festorazzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Il novecento: il fascismo e il nazismo, la resistenza e la liberazione, nella sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

Siamo a Como, qualche giorno prima della metà di luglio del 1945. La partigiana “Gina”, Nella Caleffi, raggiunge al telefono Oreste Gementi “Riccardo”, l’ex comandante della Piazza lariana del Cvl (Corpo volontari della libertà), da poco smobilitata. Una comunicazione urgente che vale a salvare la vita a entrambi, come vedremo tra poco.

Gementi è stato, fino alla cessazione delle sue funzioni, la più alta autorità militare partigiana in provincia di Como, il territorio in cui si è consumato l’epilogo di Mussolini. “Gina”, durante la Resistenza intendente e collegatrice, quel giorno della prima estate del tempo di pace comunica a “Riccardo” una notizia sconvolgente: un “tribunale della morte”, costituito da esponenti di rilievo del Partito comunista, ha deciso di condurre a termine la “purga” contro i partigiani dissenzienti, cominciata già subito dopo la conclusione dei fatti di Dongo. Si tratta, anche questa volta, di sopprimere personaggi eccellenti.

Il primo della lista è il comandante “Riccardo”, che dopo la smobilitazione del Comando di Piazza ha perso lo scudo dell’immunità connesso alla sua carica, divenendo perciò anche fisicamente vulnerabile. Gli altri tre destinatari del deliberato di morte sono la stessa “Gina”, nonché i due capi della 52ª Brigata Garibaldi cui si dovette la cattura del Duce, a Dongo, il 27 aprile 1945: il comandante “Pedro”, al secolo Pier Luigi Bellini delle Stelle, e il suo braccio destro, il finanziere “Bill”, alias Urbano Lazzaro.

Si entra a questo punto nel vivo della parte più drammatica del nostro racconto che attinge, per la prima volta, alle memorie inedite di Gementi, figura quasi del tutto rimossa dalla narrazione degli agiografi della Resistenza. Uno squarcio di verità nei delitti che insanguinarono il periodo del dopo Liberazione: un quadro complessivo che viene a delinearsi grazie al supertestimone di questa nostra inchiesta, il comandante partigiano comasco Mario Tonghini, nome di battaglia “Stefano”.

Quest’ultimo ci ha messo a disposizione un intero archivio di documenti che gettano luce su intrecci torbidi mai interamente chiariti.  Nella Caleffi, quel giorno, scongiurò “Riccardo” di circolare armato perché la condanna del tribunale rosso non era da prendersi sotto gamba, visto quel che era capitato a “Neri”, il leader morale della Resistenza lariana, alla sua staffetta “Gianna” e ad altri partigiani tolti di mezzo da sicari prezzolati del Pci nel breve volgere di poche settimane. Chi fossero i componenti di quell’organo giudicante rosso, “Gina” non lo seppe mai, o forse non lo volle confidare a Gementi. Ma esso era certamente composto dai maggiori dirigenti locali del partito egemone della Resistenza.

Si tratta di una pagina rimasta fino a oggi occultata. La Caleffi aveva potuto recare quel messaggio a “Riccardo”, perché si era avvalsa della dissociazione di un partigiano a lei leale, che il tribunale della morte aveva incaricato di eseguire le quattro sentenze letali. Si trattava di Erminio Dell’Era, “Pierino”, un componente della “polizia del popolo” comunista.

“Pierino”, scomparso nel 1978, si sottrasse all’ordine del sinedrio rosso e consentì al quartetto di mettersi in salvo. Ciò, tuttavia, non impedì che, per altra via, fossero condotti attacchi preordinati contro i destinatari degli ordini di soppressione. “Pedro” e “Bill”, infatti, ebbero a scampare ad attentati, e Gementi stesso, come si è riferito in un precedente articolo, sventò un agguato pronto a scattare contro di lui, sempre in quel luglio ’45.

Resta da stabilire un punto di capitale importanza. Il ruolo di “Gina” in tutta questa vicenda. Indizi di non trascurabile entità, che sarebbe troppo lungo elencare in questa sede, segnalano un suo probabile coinvolgimento, in titoli di responsabilità non facili da accertare, negli scenari di alcuni fatti di sangue accaduti dopo la Liberazione. In particolare, la Caleffi sarebbe stata presente all’omicidio della partigiana “Gianna”, Giuseppina Tuissi, trucidata al Pizzo di Cernobbio, la sera del 23 giugno 1945.

“Gina” rimase dunque invischiata, suo malgrado, in quella spirale di sangue, e ciò provocò in lei una violenta reazione di rigetto. In breve, la Caleffi ebbe una crisi di coscienza. Cominciò a manifestare segni di inquietudine. Si trasformò nell’accusatrice dei suoi compagni. Divenne un caso di pentitismo ante litteram. Per questo, già in quel luglio del 1945, il “tribunale della morte” decise di eliminarla. Con gli esiti che conosciamo, grazie alla dissociazione di Dell’Era.

Qualche mese più tardi, il 28 aprile 1946, “Gina” ebbe modo di compiere un viaggio in auto, da Milano a Como, in compagnia del comandante “Riccardo” e di Ferruccio Parri, il leader partigiano azionista “Maurizio”, primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata. In quell’occasione, approfittando dell’incontro riservato con lo statista piemontese, la Caleffi si scagliò, come un fiume in piena, contro coloro che avevano tradito il movimento di Liberazione. Racconta Gementi, in un suo memoriale inedito: «Volle esprimergli il rancore che provava verso i comunisti per le loro malefatte».

Per il resto della vita, “Gina” portò i segni dei traumi psicologici che aveva subito. Narra ancora il comandante “Riccardo“: «Era particolarmente adirata contro Togliatti, perché, dopo aver vissuto all’ombra del Cremlino mentre i partigiani italiani morivano, al suo rientro in Patria, anziché denunciare pubblicamente le storture e le infamie di quel regime dispotico e oppressore – aggiungendo, per inciso: “peggiore del fascismo” –, lo esaltò e tentò di instaurarlo anche in Italia, trascinando Nenni ad aderire alla costituzione del Fronte Popolare del 1948 che portò al baratro il Psi e produsse gravi danni al Paese».

Nell’autunno del 1984, l’anziana reduce della Resistenza si ammalò gravemente, finendo ricoverata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Le rimasero poche settimane di vita. Sufficienti, però, a rinsaldare il patto d’onore e di mutua solidarietà che aveva stretto, 40 anni prima, con Gementi e con l’altro fidato compagno, Mario Tonghini “Stefano”, l’unico superstite del terzetto, che oggi ha 93 anni.

Invitata da Gementi a redarre appunti, per denunciare quanto aveva visto e saputo di quella stagione di sangue e di orrore, Nella Caleffi non riuscì a trovare il coraggio per assolvere a un tale delicato compito. Incredibilmente, aveva ancora paura. Benché già in limine mortis, confidò infatti, a “Riccardo”, che «lei voleva vivere e non morire, per mano comunista, come “Neri”, la “Gianna”, il Bianchi e sua figlia, più altri ancora».

Aggiunse poi la Caleffi, rivolta al suo antico compagno di battaglie: «Ciò che più mi rammarica, è il pensiero di aver superato alla meno peggio i pericoli del periodo partigiano e di aver appurato che il pericolo maggiore derivava dai compagni di lotta, e più precisamente dai compagni comunisti. Quando, nel mese di luglio del ’45, ti telefonai per raccomandarti di circolare armato, fu un avvertimento prudenziale poiché [in tal modo] il pericolo reale poteva essere scongiurato».
Era il gennaio del 1985. Pochi giorni dopo, furono celebrati i funerali di “Gina”.

Oggi è Mario Tonghini a delineare i contorni del giuramento che venne pronunciato, attorno al capezzale della Caleffi, in presenza anche sua, oltre che di Gementi: «“Gina”, in ospedale, quasi in punto di morte, ci lanciò un appello plurale: “Se io non ho avuto il coraggio di fare denunce, è perché ho sempre avuto paura, ben conoscendo di che cosa sono stati capaci [i compagni comunisti]. Ma vi prego entrambi: denunciate tutto ciò che conoscete”».

Ora quel giuramento è stato onorato.

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 4:48 pm | | Default

Presidente pediatri italiani: «Unioni civili, ricadute negative sui bambini», di Giovanni Corsello

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Corsello pubblicato il 3/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (28/2/2016)

Riproduciamo una nota pubblicata sul sito della Società italiana di pediatria e firmata dal suo presidente Giovanni Corsello

Il dibattito di queste settimane sul DDL Cirinnà sulle unioni civili e sulla stepchild adoption che approderà domani in Senato si è mantenuto prevalentemente su una sfera esclusivamente politica ed ideologica.

Come pediatri riteniamo invece che la discussione dovrebbe comprendere anche i profili clinici e psicologici del bambino e dell’adolescente. Non è infatti scontato che avere due genitori dello stesso sesso non abbia ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale nell’età evolutiva.

La maturazione psicologica di un bambino si svolge lungo un percorso correlato con la qualità dei legami affettivi all’interno della famiglia e con i coetanei. La qualità delle relazioni umane e interpersonali, nonché il livello di stabilità emotiva e la sicurezza sociale di un bambino, sono conseguenze di una maturazione psicoaffettiva armonica.

Studi e ricerche cliniche hanno messo in evidenza che questi processi possono rivelarsi incerti e indeboliti da una convivenza all’interno di una famiglia conflittuale, ma anche da una famiglia in cui il nucleo genitoriale non ha il padre e la madre come modelli di riferimento.

Quando si fanno scelte su temi di così grande rilievo sociale, che incidono sui diritti dei bambini a crescere in sistemi protetti e sicuri, non possono essere considerati solo i diritti della coppia o dei partner, ma va valutato l’interesse superiore del bambino, nello spirito di quanto stabilito dalla Dichiarazione dei Diritti del bambino e dalla successiva Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia.

Giovanni Corsello

Presidente SIP

Redazione de Gliscritti | Domenica 28 Febbraio 2016 - 4:46 pm | | Default

Giubileo della misericordia. 2 articoli di Alessandro D’Avenia 1/ Stanchi di rincorrere prestazioni ai giovani serve un altro stile di vita, di Alessandro D’Avenia 2/ [La novità della misericordia cristiana], di Alessandro D’Avenia

1/ Stanchi di rincorrere prestazioni ai giovani serve un altro stile di vita, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da La stampa dell’8/12/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

Un filosofo contemporaneo ha visto in Prometeo l’archetipo della società di oggi, composta da uomini stanchi, che hanno creato una vita che li incatena e divora continuamente. Il loro fegato ricresce ogni giorno, pronto per essere nuovamente distrutto dal meccanismo della prestazione. Per Prometeo non c’è misericordia: “La società del XXI secolo è una società della prestazione. I suoi stessi cittadini sono “soggetti di prestazione”. Sono imprenditori di se stessi.” (Byung-Chul Han, La società della stanchezza). La tecnica sostituisce ciò che è umano nell’uomo.

La stanchezza che caratterizza la società occidentale colpisce in modo particolare i giovani, ora disarmati di fronte ad una vita che chiede loro di essere oggetto di prestazioni e non soggetto di possibilità (adolescenza è l’irruzione di ciò che è propriamente umano, è l’assunzione di un destino: la necessità e l’entusiasmo di creare a partire da ciò che si è) e che si rifugiano nelle loro stanze come gli hikikomori o sono costretti a far regredire il loro corpo e il loro spirito a larva anoressica; ora armati a vuoto con l’unico scopo di distruggere (a maggior potenza creatrice corrisponde sempre maggiore estensione del caos), con violenza sul corpo altrui, o sul proprio, ferito per sapere di aver sangue e vita dentro di sé. Regressione fetale da un lato, esplosione kamikaze dall’altro: in entrambi i casi si mostra una forza sorprendente, di per sé creativa, che può impegnarsi a fini distruttivi, fino all’autodistruzione. L’assenza di misericordia trasforma l’amore di sé in amore della morte.

La prestazione è il contrario della misericordia, la capacità di interiorizzare, negli occhi dell’altro, la propria vita e accettarla per quello che è: un limite capace di superarsi, un limite capace di creare e di essere nuovo inizio, un inedito darsi. I giovani di oggi cercano, come ogni generazione, questa misericordia nella generazione precedente: la possibilità di riceversi così come sono. Ciò si impara primariamente in famiglia, la cui essenza è avere almeno un posto al mondo in cui si è accettati (se non si è frutto di un menu, e quindi oggetto di attesa di prestazione) e si accetta l’altro per come viene ed è e non per quello che può dare o fare. Un posto in cui qualcuno possa dire all’altro: “io darei la vita per te, come sei, adesso”. E quell’adesso è fondamentale, ed è misericordia.

Invece anche la famiglia, più fragile, diventa spesso luogo di prestazione: il figlio è caricato di tutte le attese dei genitori, che crollano se il figlio fallisce, perché la loro realizzazione non è primariamente nell’amore della coppia, ma nelle aspettative sul bambino (genitori che si ribellano per un cattivo voto del figlio, ma d’altronde la scuola è spesso ridotta a prestazione e voti, o si scannano durante le partite di calcio dei bambini). Se la felicità si identifica con una prestazione efficace, l’insuccesso è bandito. Invece la crescita e la maturità sono tessute di fallimenti, attraverso i quali il giovane impara che la realtà resiste ai suoi desideri di onnipotenza narcisistica e impara a stare al mondo, introducendovi la sua novità con la pazienza e il coraggio necessari. Questo è conquistare la maturità: interiorizzare il limite, trasformando il destino in destinazione. La società della prestazione spazza via la possibilità di fallire, perché non conosce misericordia, esilia la fragilità costitutiva dell’umano, generando soggetti spesso depressi e frustrati, perché non riescono ad essere quello che occhi senza misericordia si aspettano. Il doping diventa necessario: tanti professionisti hanno bisogno di drogarsi per essere produttivi, come si dopano le piante e gli animali perché forniscano materia nuova ogni giorno per gli scaffali.

Viene meno lo stupore paziente dell’essere “così” di cose e persone, viene meno la stessa consistenza di cose e persone che hanno bisogno di tempo per darsi a conoscere. “Rispetto” e “riguardo” dicono che per avere accesso alla realtà bisogna guardarla (-spectare -guardare) con un certo distacco, più e più volte (ri-), nel tempo, senza esigere il tutto-e-subito. Tolto il ri- della misericordia rimane solo lo spettacolo (spectare) dell’eterno presente, del multitasking, dello sguardo che pretende, della prestazione che affatica e divora, come l’aquila, il fegato del giovane Prometeo, portatore di fuoco.

Non c’è spazio perché il nostro io disarmato sia e cresca, nella pazienza delle stagioni. Il corpo si trasforma in protesi da migliorare con la chirurgia, l’amore si riduce a tecnica di seduzione e di piacere, la felicità si riduce a benessere, la salvezza a sicurezza, gli altri diventano app da smartphone. Riguardo e rispetto, cioè misericordia, sono merce rara, perché non dipendono dalla tecnica che tutto può, ma da un cuore capace di accogliere la realtà, prima di aver pensato di sfruttarla.

Un giovane non guardato e amato per ciò che è e non per ciò che dovrebbe dare e fare, si stanca della sua esistenza prima ancora di cominciare il compimento, che ne segna corpo e spirito. Non impara a conoscere e amare se stesso per quello che è, quindi non trova il coraggio per essere nuovo inizio (dare e fare come conseguenza dell’essere), agisce un copione per cui non ha talento, finendo con ribellarsi (o si chiude o esplode) al continuo fallimento a cui è paradossalmente costretto. La solitudine di Prometeo potrebbe guarire, la sua ferita rimarginarsi, se ricominciassimo, anche grazie al Giubileo (che non riguarda solo i credenti) a creare uno stile di vita basato, non sulla prestazione che genera stanchezza, ma su una vita attiva nutrita da uno sguardo che sappia farci sentire in pace per quello che siamo e non solo per quello che possiamo dare/fare. Se trovassimo questo sguardo, al fegato divorato ogni giorno dalla prestazione, potremmo sostituire un cuore ogni giorno rigenerato dalla misericordia.

2/ [La novità della misericordia cristiana], di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato senza titolo sul suo blog www.profduepuntosero.it l’8/12/2105 . Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

Gli dei antichi erano tutto tranne che misericordiosi, non potevano esserlo, perché li aveva inventati il cuore ferito dell’uomo, tanto che Virgilio nell’esordio del suo poema chiede sbigottito: “Così grandi sono le ire nelle anime dei celesti?”. Non immaginava che Dio potesse essere misericordia incarnata in un cuore umano, eppure Cristo sarebbe nato pochi anni dopo.

La misericordia è attributo sorprendente del Dio della Rivelazione, lontana da moralismo velleitario, irenismo sentimentale, in versione secolarizzata (filantropia). La misericordia divina, alla quale veniamo educati in modo speciale nell’anno giubilare, acquisendo gli stessi “pensieri-sentimenti” di Cristo, nel cuore del quale questa si è resa visibile e accessibile, ha due caratteri ben precisi, riassunti nella Dives in misericordia di San Giovanni Paolo II (in particolare nella nota 52): hesed e rahmim.

Il primo vocabolo indica la fedeltà di Dio alla sua alleanza, anche e soprattutto quando l’uomo non vi corrisponde: “si manifesta ciò che era al principio, amore che dona, amore più potente del tradimento, grazia più forte del peccato”. Da questa fedeltà a se stesso e alla sua creazione deriva la sua inesausta grazia, non ritira il dono: «Io agisco non per riguardo a voi, gente di Israele, ma per amore del mio nome santo» (Ez 36,22). Oggi più che mai c’è bisogno di questa fedeltà, data la diffusa mancanza di fedeltà al proprio essere (ci si ama solo se ci si riceve da Dio), che genera fughe da sé, la mancanza di fedeltà agli altri (ci si ama solo se si ama Dio negli altri), che genera tradimento e abbandono.

Mentre il primo ha un connotato maschile e paterno, il secondo vocabolo indica l’altro versante della misericordia divina, infatti rahmim, nella sua radice, denota l’amore della madre (rehem è il grembo materno) ed è la variante «femminile» della fedeltà a se stessi, espressa dalla hesed. Il legame che la madre ha con il bambino è sconosciuto al padre, proprio per la sua visceralità: è un amore gratuito, non frutto di merito, si dà e basta. Questo versante della misericordia “genera la bontà e la tenerezza, la pazienza e la comprensione, cioè la prontezza a perdonare”: «Si dimentica forse una donna del suo bambino? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Questo amore è capace di accogliere, sostenere, gestare la vita dell’uomo, sempre e comunque: Dio non sa cosa sia l’aborto.

In queste due espressioni, di carattere antropomorfico, scorgiamo il volto paterno e materno di Dio: un amore che, a contatto con il male e, in particolare, con il peccato dell’uomo e del popolo, non si tira indietro. Sono le caratteristiche del padre in attesa del figlio prodigo: rimane padre, e quindi il ragazzo rimane figlio anche se è andato via, lo aspetta, gli va incontro, lo abbraccia, lo bacia, ne ascolta la confessione, gli restituisce la dignità originaria.

In questa doppia connotazione, resa visibile da Cristo, scorgiamo il volto della misericordia di Dio (“chi vede me vede il Padre”), ancora oggi. Tutto le volte che questa misericordia ci raggiunge abbiamo un tuffo al cuore, ci sentiamo a casa, come chi guarda il crocifisso ligneo di Torcello, sull’asse verticale del quale l’artista applicò dei pioli, indicando nel crocifisso la scala che porta al cielo, dopo essere stata dal cielo calata. Il Dio che crea è il medesimo che redime e, se la redenzione è il rendersi riconoscibile della verità, la misericordia diventa la redenzione che ci raggiunge personalmente, in Cristo. Come? Dove?

In un sacerdote che siede in confessionale e aspetta con la pazienza del Padre il ritorno del figlio, anche se non verrà nessuno. In una coppia sposata che rinnova ogni giorno la presenza di Cristo nella sua fedeltà al vincolo matrimoniale, costi quel che costi. In un laico che porta avanti la sua professione cercando di compierla con perfezione umana e al servizio degli altri. In un bagliore di bellezza naturale, come in questi giorni il tripudio di colori delle foglie autunnali, vestite a festa, benché debbano cadere, dimostrando che la morte è un passaggio verso l’alto e non un muro. In una donna che, in una giornata di pioggia in cui tutti vanno di fretta, si china a offrire tre mandarini dalla sua spesa ad una mendicante per terra, dicendole “questi li mangi lei, non li dia ai cattivi”. In un educatore che presta un libro che possa aiutare un ragazzo o cerca le parole giuste per parlargli. In una suora che nel silenzio della clausura ci ricorda che Dio solo basta. In una madre che, stanca, prepara con cura la cena per la sua famiglia. In un padre che, stanco, gioca con il figlio e rinuncia al riposo o porta un mazzo di rose alla moglie in un giorno in cui non ci sia nulla da celebrare. In un giovane che trova qualche minuto, ogni giorno, per parlare a tu per tu con il suo Dio. In una giovane che dedica qualche minuto del suo tempo alla solitudine di un malato. In una Messa affollata in giorno feriale, prima che il lavoro cominci. Sono tutte immagini “aggraziate”, cioè del dono di misericordia che Dio fa all’uomo nella vita di tutti i giorni, se l’uomo si lascia raggiungere da questa grazia, che ci rende “graziosi” (belli) e non “disgraziati” (brutti). Fedeltà paterna (che non nasconde il male delle azioni del figlio ma lo aiuta, anche ruvidamente, a prenderne consapevolezza) e accoglienza materna (che dimentica quel male se il figlio si apre al perdono) sono sistole e diastole del cuore di Dio, un cuore che avremo nella misura in cui chiederemo in dono quello di Cristo e di sua Madre. Questo è lo scopo del giubileo: rientrati nel cuore paterno-materno di Dio trasmetterne qualche battito a chi ci sta accanto.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 5:35 pm | | Default

È nata stamattina. Da zero a uno, come è possibile, come si può immaginare?, di Marina Corradi

Riprendiamo dal sito della rovista Tempi  un articolo di Marina Corradi pubblicato  21/12/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli dell'autrice su questo stesso sito, cfr. il tag marina_corradi. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

Un’amica mi manda un Whatsapp con una foto della sua ultima nipote. È nata all’alba, due ore fa, in una città lontana. È bellissima, perfetta, e già è evidente – nonostante tutte le storie che ci raccontano – che è una femmina. Che è una bambina, nelle linee aggraziate, nell’armonia del piccolissimo ovale. Guardo la foto e penso che è incredibile: nove mesi fa di questa bambina non c’era niente, nulla sulla faccia della terra – e ora, guardate.

Vorrei rifare il suo viaggio a ritroso, da una notte apparentemente come le altre; da un punto infinitesimale, da un microscopico incrocio, da una scintilla, che sprigionò qualcosa che non c’era. E subito quell’affollarsi di cellule, apparentemente disordinato, in realtà antichissimo e sapiente: due, quattro, otto frammenti che si aggregano, veloci, in un impercettibile palpito. Nella lente di un microscopio le diresti cose, materia; eppure quell’ordito prende forma, ed è già il primitivo abbozzo di un uomo, curvo, ripiegato su se stesso. Ogni ora e giorno che passa si aggiunge un particolare; si dividono le cellule, precise, obbedienti, disciplinate operaie. Quelle due prominenze saranno le braccia, lì cresceranno le mani. Nel buio più segreto si forma il labirinto del cuore, complessa casa di celle e di valvole; e già nel silenzio del ventre materno un apparecchio sensibile può distinguerne il suono. Tumpf: batte i primi passi il cuore di un uomo, che forse batterà fra cent’anni. E ancora, forse, la madre non sa, non immagina nemmeno. (Singolare: ciò che di più grande possiamo fare, lo facciamo senza accorgercene).

È lento eppure vertiginoso, il cammino nel buio. Dallo zero all’uno, la distanza è razionalmente incolmabile. È che c’è quell’attimo, quella frazione di secondo che sfugge alla matematica: come il dito di Dio e quello di Adamo che si toccano, nella Cappella Sistina. Ed ogni giorno poi somiglierai di più a un bambino, inequivocabilmente: la bocca, gli occhi, le dita si disegneranno come da sé, nell’oscurità – mentre tua madre, magari, dorme. Il tessitore non ha bisogno di niente: né di luce, né di creta, né di strumenti. Conosce il suo disegno a memoria, e procede, né veloce né adagio: col tempo che ci vuole, e che lui sa da sempre.

Fra madre e figlio intercorrono silenziosi segnali, messaggi in codice; la voce di lei, il ritmo del suo respiro è la volta del cielo, per colui che cresce. E infine questa simbiosi deve spezzarsi, è la legge. Dal buio fondo alla luce che acceca, dal tepore al freddo: e dov’è lei, dov’è il battito del suo cuore? Nascere, forse, per qualche istante, somiglia a morire. Ma ora di nuovo dormi sul suo petto, e ti culla il suo respiro. Da zero a uno, come è possibile, come si può immaginare? Dorme il figlio, spossato da quel viaggio infinito. La madre ne spia i lineamenti, si intenerisce a vaghe somiglianze. Ma il mistero più grande è che nove mesi fa, di quel figlio non c’era niente; e ora c’è, e, se ti fermi a pensarci, di tutti i miracoli è il più strabiliante.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 5:34 pm | | Default
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La sfida dell'Islam oggi. Intervista a padre Samir Khalil Samir su quale direzione sta prendendo l’Islam, e come la religione, può realizzare la pace e non la violenza

Riprendiamo dall'Agenzia di stampa Zenit del 27/5/2015 un’intervista di Sergio Mora a Samir Khalil Samir. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag samir_khalil_samir.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

La regina di Giordania, Rania, musulmana, in occasione del conferimento della laurea honoris causa presso la Sapienza di Roma, nel suo discorso nel quale prende posizione non solo contro la violenza, ma a favore della dignità dell'uomo, della cultura, dell'archeologia, della conservazione della memoria del passato perché l'umanità intera difenda ed approfondisca la storia comune

Che sta succedendo nel mondo musulmano? Sciiti e sunniti si scontrano con atti violenti. Vittime del terrorismo non sono solo i paesi occidentali ma anche la Tunisia ed altri paesi arabi.

Per meglio comprendere cosa sta accadendo e soprattutto per trovare una soluzione al conflitto violento che tende ad allargarsi ZENIT ha intervistato padre Samir Khalil Samir SJ, grande conoscitore del mondo arabo e islamico, attuale pro-rettore ad interim del Pontificio Istituto Orientale (PIO) a Roma.

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I musulmani vedono la religione come un messaggio di pace o come strumento di guerra?

Padre Samir: Nel Corano esistono brani che parlano di pace e altri che parlano di guerra, contro i nemici della fede. Contro i miscredenti, il Corano dice: “Afferrateli e uccideteli ovunque li troviate” (Corano 4, 89) e “Afferrateli e uccideteli ovunque li incontriate” (Corano 4, 91).

Secondo la tradizione, nella seconda parte della sua vita, tra il 622 et 632 data della sua morte, Maometto ha intrapreso una sessantina di attacchi contro le carovane, di razzie (parola che viene dall’arabo ghazwa) per motivi vari. Ora, il Corano dice ai musulmani : “Voi avete nel Messaggero di Dio un modello perfetto (uswatun hasanatun)" (33,21).

Il motivo di questa violenza e variegato: può essere per garantire la sopravvivenza, o per rubare, o per acquistare schiavi e schiave, etc. in una parola : per il bottino. Perciò è stata “rivelata” a Maometto il capitolo 8, detto “Il Bottino” (al-Anfâl), per il quale Dio rivela a suo messaggero che lui ha diritto al quinto di tutto il bottino e alla prima scelta! (Corano 8, 41). Gli attacchi possono avere come scopo la conversione delle tribù arabe non credente nell'unico Dio.

Abbiamo due biografie musulmane di Maometto attorno al 750:  una è chiamata la Biografia del Profeta (al-Sīrah al-Nabawiyyah) di Ibn Ishaq, e l'altra chiamata Il Libro delle razzie (Kitāb al-Maghāzī) di al-Wāqidī, dove ne descrive una sessantina. Non si può dire che l'Islam non conosca la guerra e non inviti alla guerra. Però non si può dire neppure che l'Islam è solo guerra. C'è l'uno e l'altro, a seconda del momento della vita di Maometto.

E questo è un dei grossi problemi dei nostri fratelli musulmani. Perché è facile per alcuni dire che l'islam è una religione di guerra, per convertire tutto il mondo all'unica vera religione tra le tre rivelate (ebraismo, cristianesimo e islam) e in nome di questo fare la guerra. Lo vediamo purtroppo con l'ISIS, con Boko-Haram, con la Qaeda, e con altri.

Tra sunniti e sciiti è in corso un conflitto. Qual è il parere della maggioranza dei musulmani?

Padre Samir: Penso che la maggioranza dei musulmani non sia d'accordo con questa guerra. Non è che escludano qualsiasi guerra: alcuni diranno che si può fare soltanto una guerra difensiva. Ma i testi propongono anche guerre aggressive. Infatti il califfo Abū Bakr, il primo successore de Maometto, poco dopo la sua morte, ha deciso di fare le guerre che noi in arabo chiamiamo ḥurūb ar-riddah, le guerre per riportare chi si era allontanato dal patto con i musulmani nel seno dell'Islam.

Dunque questo crea problemi perché ciascuno può rivendicare una citazione basata sia sul Corano, sulla storia di Maometto, e cu ciò che ha detto  (gli Hadīth).

E allora?

Padre Samir: L'Islam ha bisogno di una riforma profonda, e questo lo dicono tanti musulmani. Ultimamente il presidente dell’Egitto Abd al-Fattah al-Sisi, in un discorso diventato famoso, il 28 dicembre 2014, ripreso con più forza l’11 gennaio 2015, al Cairo, fatto davanti a centinaia di imam della più famosa università islamica del mondo, Al-Azhar, ha detto: “Dobbiamo fare una rivoluzione nell'Islam per interpretare correttamente il Corano e la Tradizione”.

Che cosa intende dire?

Padre Samir: La guerra non risolverà nulla perché domani verranno altri a farla. Il problema è ripensare l'islam e dire: è vero che il Profeta ha fatto delle guerre, è vero che il Corano ha dei passi che sono, non solo difensivi, ma anche aggressivi, è vero che il Corano invita a fare la guerra a chi non crede nel vero Dio. Ma quello era nel settimo secolo, in una tradizione beduina, dove gli attacchi alle carovane e le guerre erano assai diffuse.

Anche nella Bibbia ci sono conflitti...

Padre Samir: Nell'Antico Testamento abbiamo dei brani dove Dio incita alla guerra attraverso Mosè il suo profeta (vedi Deuteronomio 20,10-14) oppure il brano terribile della conquista della Terra Santa, in Giosuè 11,16-20. Ma la maggioranza dei nostri fratelli ebrei non lo pretende ipsis litteris, e dice “questo è un fatto storico di tremila anni fa”.

Quanto a Cristo, non solo non ha ripreso questi discorsi bellicosi, ma ha comandato proprio il contrario: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Matteo 5,43-48).

Oppure : “A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Luca 6,27-28). Ci sono decine di altri testi che invitano non solo alla non violenza, ma a distruggere la violenza accettandola.

Nel mondo islamico stiamo assistendo ad un vero cambiamento oppure le dichiarazioni contro le violenza sono solo di facciata?

Padre Samir: Molti musulmani stanno facendo appelli a favore di un cambiamento profondo nell'atteggiamento. Molti tra gli intellettuali lo dicono apertamente, ma sono visti come influenzati dall'occidente. Sono convinto che molti musulmani sono per non usare la violenza in nome di Dio, ma non osano dirlo e gli imam sono quasi bloccati, non osano dire una parola coraggiosa.

Il Medioriente è destinato a combattere la guerra dei cento anni?

Padre Samir: Questa guerra orrenda è fondata sul fanatismo religioso, ed è sostenuta e mantenuta grazie ai petrodollari dell’Arabia e alle armi dell’Occidente! I soldi vengono principalmente dall'Arabia Saudita e dal Qatar. Le armi provengono dall'Europa e dagli Stati Uniti (e per gli sciiti dall'Iran), passando attraverso la Turchia. I soldi servono ad acquistare le armi e a pagare e incoraggiare i jihadisti. In fin dei conti troppe nazioni approfittano di questa guerra, che sta distruggendo il Medioriente e soprattutto sta uccidendo decine di migliaia di famiglie.

La causa di tutto questo è ideologica, una forma d’ideologia islamica, radicale, che decreta che chiunque non pensa e pratica un certo tipo d’islam deve essere eliminato. In arabo, si chiama takfīr, cioè dichiarare che l’altro è kāfir, miscredente. Sulla base della tradizione islamica (compreso il Corano), il kāfir deve essere eliminato. Questo pensiero che risale a 14 secoli fa si è diffuso sempre più in certi ambienti negli ultimi 40-50 anni prendendo a modello il pensiero dell’Arabia del VII secolo!

Quale è il punto importante che si dovrebbe sottolineare?

Padre Samir: Che i musulmani sono nostri fratelli, come gli ebrei, come gli atei e i miscredenti. Chiunque, ogni essere umano è il mio fratello, anche se non condivido la sua visione. Abbiamo visto questi giorni che l'ISIS ha attaccato una moschea del Yemen del sud, dove sono morti una trentina di persone. Si uccidono anche tra di loro, perché considerano che chi non la pensa come loro è un miscredente che deve essere ucciso.

L’unica risposta a quest’ideologia è quella del Vangelo, quella della fratellanza universale, in termini laici quella dell’umanesimo!

La preghiera voluta dal papa Francesco in Vaticano ha avuto ripercussione?

Padre Samir: Aveva questo scopo anche se è stata manipolata dall'imam che è venuto da Gerusalemme e che ha recitato un versetto coranico interpretato come un versetto aggressivo, che non era previsto nel testo. Mahmoud Abbas, come il presidente Shimon Peres, che erano presenti lì, sicuramente cercano la pace, come tante persone sia in Israele che nel mondo arabo.

È tempo di uscire dall'idea di vendetta e di guerra. La guerra e la violenza non solo non risolvono i problemi, ma al contrario creano più problemi e sono la fonte di nuove violenze.

È iniziato il mese del Ramadan per i musulmani. Cosa è il Ramadan?

Padre Samir: Il ramadan è un mese di digiuno e preghiera che i musulmani fanno ogni anno, durante un mese lunare come nei calendari antichi. Si digiuna dall'alzar del sole verso le 5 del mattino, fino al tramonto.

Un digiuno tipo quello quaresimale?

Padre Samir: Esattamente come i cristiani di Oriente fanno oggi il digiuno, non soltanto i monaci ma anche le famiglie. In Egitto, nella Chiesa copta, i cristiani non mettono niente in bocca, né da mangiare né da bere, dalla mezzanotte fino alle due del pomeriggio, e i monaci fino al tramonto. E poi c’è una cena molto leggera, e niente carne, niente burro né formaggio, niente che sia stato originato dagli animali. Per i cristiani la quaresima sono circa 47 giorni, perché la domenica non si conta nel digiuno.

Quindi ha un significato abbastanza simile?

Padre Samir: Sì è molto simile, una penitenza che uno fa per purificarsi, e normalmente la tradizione spirituale musulmana invita i fedeli a utilizzare la notte per meditare il Corano. In verità poche persone lo fanno, solo alcuni imam Sufi, che corrispondono ai mistici.

Per i musulmani e i cristiani, ma anche per gli ebrei ed altre religioni, è un tempo per essere più vicino ai poveri e a chi soffre. La differenza con il digiuno cristiano è che nel Ramadan si mangia di più che in qualsiasi altro periodo del anno, ed è un periodo festivo. In un senso si potrebbe dire che si recupera la sera ciò che non si è mangiato durante la giornata, anche quando uno va a letto a mezzanotte o alle due del mattino. Questa è l'abitudine normale dei musulmani nei paesi arabi che conosco.

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Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 5:33 pm | | Default

Dipingere una storia di martirio quando il sangue è stato appena versato. Un iconografo ortodosso serbo racconta di essere stato ispirato da un'esecuzione dell'ISIS e delle sue speranze per gli assassini. Un’intervista di John Burger a Nikola Sarić

Riprendiamo dal sito Aleteia un’intervista di John Burger a Nikola Sarić pubblicata il 3/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

L’immagine dell’icona è pubblicata sul 
sito Aleteia su permesso di Nikola Sarić

I 21 cristiani copti decapitati dallo Stato Islamico in Libia erano stati uccisi solo da poche settimane quando la Chiesa ortodossa copta li ha dichiarati santi martiri.

Le immagini della loro decapitazione sulla costa mediterranea del Nordafrica hanno scioccato il mondo, e hanno colpito profondamente un iconografo ortodosso serbo che vive in Germania, e ora l’icona che ha dipinto è stata messa all’asta perché i proventi possano aiutare le famiglie delle 21 vittime. Nikola Sarić spera anche che vedendo l’icona, intitolata “Santi Martiri della Libia”, la gente preghi per la conversione dei terroristi. Sarić, nato nel 1985 a Bajina Bašta, in Serbia, ha studiato all’Accademia della Chiesa Ortodossa Serba per le Arti e la Tutela. Dal 2011 vive e lavora nella città tedesca di Hannover. Ha parlato con Aleteia via Skype.

Come le è venuta l’idea di realizzare un’icona su questi martiri?

Ho visto le fotografie e ho letto della storia su Internet, e ovviamente, come molte altre persone, mi hanno colpito. Pensavo a loro, e l’idea è venuta spontaneamente.

Penso che sia stata anche dovuta al rispetto e all’amore nei loro confronti. È stata una questione personale. Ci ho pensato e ho sviluppato l’idea, come qualsiasi altra nel mio lavoro. Penso a una cosa e questa con il tempo si costruisce da sé.

Può dirci qualcosa di più su di lei e sul suo lavoro?

Vengo dalla Serbia e ho il mio studio qui ad Hannover. Dipingo principalmente motivi religiosi. Ho studiato iconografia a Belgrado, all’Accademia delle Arti Ecclesiali.

I temi religiosi mi interessano. Molti aspetti mi interpellano a livello personale, come persona che vede queste storie nella sua vita quotidiana e ne trae delle conclusioni. Sono universali e mi ispirano, e le interpreto. Spero che attraverso le mie opere qualcuno venga attirato da queste storie e tragga la propria interpretazione.

Cosa intende quando dice che è una persona che vede queste storie nella sua vita quotidiana?

Ci imbattiamo in queste storie nella liturgia o per fede, e ci penso. Sono storie su di noi, sulla gente, sul mondo, su ciò che è buono e ciò che è cattivo, su Dio e sul rapporto tra Dio e l’uomo e tra i popoli. Sono universali e senza tempo.

Può dirci qualcuna delle cose che ha pensato e ha provato mentre realizzava questa icona dei 21 martiri?

La storia e le immagini mi sono entrate nel cuore – sono di grande impatto. È in qualche modo una storia che conosciamo già dalla storia dei martiri. Stare davanti a Dio e davanti a Cristo ed esserne fieri, rimanendo in quell’amore, è l’esempio più potente. Questo tipo di storie mi colpisce in modo molto personale, e significa molto per me come cristiano. Ho sviluppato un amore nei loro confronti, e da ciò è derivata l’idea, ma è molto difficile analizzare come ci sono arrivato. È un po’ il mio stile, sviluppato in molti anni di studio e che è ancora in fase di sviluppo. Il linguaggio visivo è molto simile alle mie altre opere. Si costruisce da sé.

Nell’icona lei ha incluso gli aguzzini. Fanno ovviamente parte della storia, ma ha pensato in qualche momento di escluderli?

Includere gli aguzzini, questi terroristi, questi omicidi è qualcosa che non è nuovo nella narrazione visiva, soprattutto nell’iconografia, inclusi quelli che uccidono martiri. Dall’altro lato, è anche una sorta di documento di ciò che è accaduto: queste persone hanno ucciso queste persone. È documentare la storia di come è avvenuto… Possiamo immaginarla senza di loro, ma avrebbe un senso del tutto diverso, un punto di vista differente. Sono lì, e questo racconta la storia dell’orrore, l’assassinio di qualcuno. Ma è anche la storia di vita e la storia di comunicazione e rapporto tra Cristo e i martiri, per cui penso che sia positivo che ci siano entrambi gli aspetti della storia.

Spera che le persone che guardano l’icona e pregano con l’icona possano magari pregare per la conversione degli aguzzini?

Penso che sarebbe la cosa giusta, pregare per tutti. Preghiamo per i nostri nemici e per chi fa il male contro di noi. Siamo invitati a pregare per chiunque. Sarei contento se succedesse – se uno degli aguzzini cambiasse punto di vista e si pentisse per ciò che ha fatto.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 5:31 pm | | Default
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Umberto Eco, "darsi sempre del tu è una finta familiarità che rischia di trasformarsi in insulto"

Riprendiamo da L’Huffington Post del 14/9/2015 un articolo che sintetizza una lectio di Umberto Eco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

Dare del Tu o del Lei, addirittura del Voi. Questo il tema trattato in una lectio magistralis di Umberto Eco, pubblicata oggi dalla Repubblica, dal titolo "Tu, Lei, la memoria e l'insulto", in cui il celebre scrittore analizza i rischi del passaggio dal Voi al Lei, fino al Tu dei giorni nostri, usato continuamente e in tutte le circostanze, che cela "una finta familiarità che rischia di trasformarsi in insulto". E che fa sì che l'Italia "perda la memoria".

«La lingua italiana ha sempre usato il Tu, il Lei (al plurale Loro) e il Voi. Voi sapete che la lingua inglese (reso arcaico il poetico e biblico Thou) usa solo il You. Però contrariamente a quel che si pensa lo You serve come equivalente del Tu o del Voi a seconda che si chiami qualcuno con il nome proprio, per cui “You John” equivale a “Tu, John” (e si dice che gli interlocutori sono in “first name terms”), oppure il You è seguito da Mister o Madame o titolo equivalente, per cui “You Mister Smith” significa “Lei, signor Smith”. Il francese non ha Lei bensì solo il Tu e Vous, ma usa il Tu meno di noi, i francesi “vouvoyent” più che non “tutoyent”, e anche persone che sono in rapporti di gran confidenza (persino amanti) possono usare il Vous».

Per quanto riguarda la lingua italiana, Umberto Eco ripercorre la storia dei pronomi personali.

«Nella Roma antica si usava solo il Tu, ma in epoca imperiale appare un Vos che permane per tutto il Medioevo (per esempio quando ci si rivolge a un abate) e nella Divina Commedia appare il Voi quando si vuole esprimere grande rispetto (“Siete voi, qui, ser Brunetto?”). Il Lei si diffonderà solo nel Rinascimento nell’uso cancelleresco e sotto influenza spagnola. Nelle nostre campagne si usava il Voi tra coniugi (“Vui, Pautass”, diceva la moglie al marito) e l’alternanza tra Tu, Lei e Voi è singolare nei Promessi sposi. Si danno del Voi Agnese e Perpetua, Renzo e Lucia, Il Cardinale e l’Innominato, ma in casi di gran rispetto come tra Conte Zio e Padre Provinciale si usa il Lei. Il Tu viene usato tra Renzo e Bortolo o Tonio, vecchi amici. Agnese da del Tu a Lucia che risponde alla mamma con il Voi. Don Abbondio da del Voi ad Agnese che risponde per rispetto con il Lei. Il dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo inizia col Lei, ma quando il frate s’indigna passa al Voi (“la vostra protezione…”) e per contraccolpo Rodrigo passa al Tu, per disprezzo (“come parli, frate?”). Una volta per rispetto, anche in un’aula universitaria o in una conferenza, si usava il plurale Loro (“come Loro m’insegnano…”) ormai desueto e sostituito dal Voi. Usato solo ormai in senso ironico è l’arcaico Lorsignori. Ormai dire ”come lorsignori m’insegnano” equivale a suggerire che gli interlocutori siano una massa d’imbecilli. Il regime fascista aveva giudicato il Lei capitalista e plutocratico e aveva imposto il Voi. Il Voi veniva usato nell’esercito, e sembrava più virile e guerresco, ma corrispondeva allo You inglese e al Vous francese, e dunque era pronome tipico dei nemici, mentre il Lei era di origine spagnolesca e dunque franchista. Forse il legislatore fascista poco sapeva di altre lingue e si era arrivati a sostituire il titolo di una rivista femminile, Lei , con Annabella, senza accorgersi che il Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia bensì l’indicazione che la rivista era dedicata alle donne, a lei e non a lui. Bambini e ragazzi si davano del Tu, anche all’università, sino a quando non entravano nel mondo del lavoro. A quel punto Lei a tutti, salvo ai colleghi stretti (ma mio padre ha passato quarant’anni nella stessa azienda e tra colleghi si sono sempre dati del Lei). Per un neolaureato, fresco fresco di toga virile, dare del Lei agli altri era un modo non solo di ottenere il Lei in risposta, ma possibilmente anche il Dottor».

Arrivando ai giorni nostri, Eco osserva un progressivo passaggio dal Lei al Tu, in diverse circostanze.

«Da tempo invece, a un giovanotto sui quarant’anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età apparente, cominciano a dare del Tu. In città il commesso ti dà evidentemente del Lei se hai i capelli bianchi, e possibilmente la cravatta, ma in campagna è peggio: più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente, in un emporio mi sono visto (io allora quasi ottantenne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne col piercing al naso (che non aveva probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali “gentile signorina, come Ella mi dice...” Deve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa , tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un “buona giornata” invece di “ciao”, come dicono gli albanesi [...]».

Così facendo, l'Italia, secondo Umberto Eco, perde la memoria.

«Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati».

Lo scrittore cita alcuni esempi di ignoranza su rilevanti questioni storiche emerse nel quiz televisivo L'Eredità e diffuse su Youtube - con giovani concorrenti che collocavano storicamente la nomina di Adolf Hitler a cancelliere nel 1979 oppure l'incontro fra Benito Mussolini ed Ezra Pound nel 1964.

«Per quei quattro soggetti tra i venti e trent’anni — che non è illecito considerare rappresentativi di una categoria — le quattro date proposte, tutte evidentemente anteriori a quelle della loro nascita, si appiattivano per loro in una sorta di generico passato, e forse sarebbero caduti nella trappola anche se tra le soluzioni ci fosse stato il 1492».

«Vi chiederete perché lego il problema dell’invadenza del Tu alla memoria e cioè alla conoscenza culturale in generale. Mi spiego. Ho sperimentato con studenti stranieri, anche bravissimi, in visita all’Italia con l’Erasmus, che dopo avere avuto una conversazione nel mio ufficio, nel corso della quale mi chiamavano Professore, poi si accomiatavano dicendo Ciao. Mi è parso giusto spiegargli che da noi si dice Ciao agli amici a cui si da del Tu, ma a coloro a cui si da del Lei si dice Buongiorno, Arrivederci e cose del genere. Ne erano rimasti stupiti perché ormai all’estero si dice Ciao così come si dice Cincin ai brindisi. Se è difficile spiegare certe cose a uno studente Erasmus immaginate cosa accade con un extra-comunitario. Essi usano il Tu con tutti, anche quando se la cavano abbastanza con l’italiano senza usare i verbi all’infinito. Nessuno si prende cura degli extracomunitari appena arrivati per insegnare loro a usare correttamente il Tu e il Lei, anche se usando indistintamente il Tu essi si qualificano subito come linguisticamente e culturalmente limitati, impongono a noi di trattarli egualmente con il Tu (difficile dire Ella a un nero che tenta di venderti un parapioggia) evocando il ricordo del terribile “zi badrone”. Ecco come pertanto i pronomi d’allocuzione hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria culturale».

Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 5:30 pm | | Default
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Cina, il martirio taciuto, di Antonio Giuliano

Riprendiamo da Avvenire del 19/5/2015 un articolo di Antonio Giuliano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze nella sezione Carità, giustizia e annunzio, come la sotto-sezione Il novecento: il comunismo nella sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/5/2015)

Chissà se un giorno anche tanti sessantottini di casa nostra chiederanno pubblicamente scusa per aver contribuito ad alimentare in Occidente il mito di Mao Zedong (1893-1976). Dal 1949 alla sua morte, il «Grande timoniere» della Cina si guadagnò un posto tra i peggiori dittatori della storia. Il suo comunismo non fu meno brutale di quello di Stalin, ma per tanti, troppi anni, una cappa ideologica ha tenuto nascosti i suoi crimini.

Solo di recente, grazie anche a coraggiose voci isolate come quelle di Harry Wu o della scrittrice Jung Chang, stanno venendo fuori le prime raccapriccianti testimonianze. Tali sono anche quelle raccolte da Gerolamo Fazzini nel libro appena uscito In catene per Cristo. Diari di martiri nella Cina di Mao (Editrice Missionaria Italiana, pp. 416, euro 20). Un ulteriore prezioso grimaldello per scoperchiare gli orrori perpetrati dal «Sole Rosso» non solo contro i dissidenti, ma soprattutto contro i cattolici e gli altri credenti che Mao considerava «nemici senza fucile».

Tanto più che, come ricorda nella prefazione il direttore di AsiaNews, il missionario del Pime padre Bernardo Cervellera, le persecuzioni nell’indifferenza dei mass media continuano ancora oggi, «talvolta con meno crudeltà, ma sempre con un controllo totalitario sulla vita dei cristiani». Fazzini, che aveva già curato Il libro rosso dei martiri cinesi (San Paolo), attinge sempre a fonti inestimabili come quelle missionarie, ancora però scarsamente considerate. A tal punto che – scrive l’autore – «l’opinione pubblica, comprese le fasce più acculturate del mondo cattolico, ignora pressoché totalmente la portata del dramma delle vittime cattoliche della rivoluzione maoista».

Nel libro confluiscono dunque i racconti autobiografici di quattro testimoni esemplari: Gaetano Pollio, arcivescovo di Kaifeng, arrestato e mandato ai lavori forzati per sei mesi; Domenico Tang, gesuita, arcivescovo di Canton, detenuto per 22 anni, dato già per morto anche dalla sua famiglia; padre Leone Chan, 4 anni e mezzo di carcere, uno dei primi sacerdoti a far conoscere in Occidente l’incubo comunista cinese per essere riuscito a fuggire nel 1962; Giovanni Liao Shouji giovane catechista cinese anche egli internato per oltre 22 anni nei gulag cinesi, i laogai, terrificanti e tuttora attivi (almeno un migliaio secondo Harry Wu e la sua Laogai Research Foundation).

Le loro testimonianze da sopravvissuti all’inferno maoista sono da brividi. Condannati con procedimenti farsa sulla base di crimini mai compiuti (padre Chan fu accusato persino di aver avvelenato l’acquedotto cittadino) furono costretti a umiliazioni di ogni genere come impastare sterco per far mattoni o pene atroci come fissare a lungo luci accecanti senza poter chiudere gli occhi. «I nostri pasti erano miseri: persino il guscio delle arachidi veniva tritato e dato come cibo. Mi accorsi presto, però, che quella alimentazione era causa di emorragie interne (…) Erbe selvatiche e scarse quantità di riso erano tutto il cibo che avevamo; con quella alimentazione dovevamo lavorare per dieci ore al giorno». In sottofondo le urla prolungate e strazianti dei condannati che sarebbero stati sepolti vivi.

Queste e altre indicibili torture avvenivano «mentre in Europa, negli anni Sessanta – annota amaramente Fazzini – il verbo del maoismo veniva propagandato come il "volto buono" del comunismo, arruolando simpatizzanti anche in casa cattolica». Lo ricorda bene un decano dei missionari come padre Piero Gheddo: «Fino al 1951 le notizie della persecuzione del "Paese di mezzo" erano accolte con un certo distacco dall’opinione pubblica italiana e anche fra i cattolici non mancavano voci di comprensione nei confronti dei comunisti cinesi e di critica alle missioni».

Così mentre buona parte della sinistra europea di quegli anni spacciava in Occidente il Libretto Rosso come simbolo di «libertà» ed «emancipazione», Mao portava avanti la sua mattanza. «È possibile affermare – denuncia il libro – che il "Sole rosso" sia responsabile direttamente o meno di crimini pari o addirittura superiori, per crudeltà, intensità e durata, a quelli di Stalin e dello stesso Hitler. Non è un’affermazione a effetto: un ex gerarca maoista riparato all’estero, Chen Yizi, afferma di aver visto un documento interno del Partito comunista che quantificava in 80 milioni il numero dei morti "per cause non naturali" nel periodo del "Grande balzo in avanti" (1958-61)».
La grande Rivoluzione culturale lanciata da Mao di fatto puntava a trasformare il culto del Grande Timoniere nella nuova religione dei cinesi, declinando il verbo comunista dell’«uomo nuovo» senza Dio. Ma la ferocia verso i credenti non riuscì a piegare una fede più forte delle catene: anche oggi in Cina solo fra i cattolici ogni anno vengono battezzati circa 150 mila adulti.

Non si può però leggere questo libro senza rimanere scossi da questi testimoni indomiti che riuscirono a non perdersi d’animo anche negli abissi dell’orrore: «Dio mi fece la grazia di essere ottimista». Così da meravigliare i carcerieri medesimi: «Gli stessi poliziotti comunisti mi confessarono parecchie volte che ci ammiravano e che non riuscivano a spiegarsi come potevamo soffrire il carcere per un’idea e per la fedeltà al papa che viveva così lontano». Per nessuna ragione avrebbero tradito Gesù di Nazaret: «Le parole del Maestro mi risuonavano alla mente: "Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me"».

Se Cristo non desse un senso alla vita, anche alle sue terribili sofferenze, come potevano sfidare quel supplizio senza paura? È l’interrogativo che lasciano oggi a un Occidente vuoto e debole spiritualmente. Perdonando e ringraziando come i primi cristiani nelle catacombe: «Il semplice fatto di essere vivo per raccontare (…) è in se stesso un fatto straordinario (…) Ma ancora più miracoloso è stato che io sia uscito da una simile esperienza di pressioni fisiche, mentali e morali, con la mia fede intatta (…) senza aver mai ceduto ai comunisti per debolezza o paura. Ringrazio Dio che non mi ha permesso di tradirlo mai; ho combattuto la buona battaglia e mantenuto la fede».

Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 5:29 pm | | Default

Sussidio con i riti del catecumenato (Riti di ammissione, Elezione, Scrutini, Riconsegne, Deposizione delle Vesti bianche)

Riprendiamo sul nostro sito il Sussidio con i riti del catecumenato preparato ad experimentum dall'Ufficio catechistico della diocesi di Roma per aiutare i parroci nell'utilizzo del RICA. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Catecumenato nella sezione Catechesi, scuola e famiglia e, in particolare, 1/ LIBRETTO DELLA LITURGIA BATTESIMALE NELLA CELEBRAZIONE DELLA VEGLIA PASQUALE 2/ GIOVEDÌ SANTO. PRESENTAZIONE E ACCOGLIENZA DEGLI OLÎ SANTI NELLA COMUNITÀ PARROCCHIALE 3/ RITO PER L'UNZIONE PRE-BATTESIMALE E LA REDDITIO SYMBOLI.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

1/ Sussidio in Word

sussidio-per-i-riti-del-catecumenato-pubblicato-word.docx

2/ Sussidio in PDF

sussidio-per-i-riti-del-catecumenato-pubblicato-word.pdf

I catecumeni romani prima della Liturgia dell'Elezione 2015

Redazione de Gliscritti | Venerdì 26 Febbraio 2016 - 10:41 am | | Default
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E l' homo sapiens uscì dalle caverne e si inginocchiò, di Julien Ries

Riprendiamo da Luoghi dell’Infinito, n. 106, anno XI, aprile 2007, pp. 34-35, un articolo di Julien Ries. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione L'uomo e le sue origini nella sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

Fin dalle origini l'uomo possiede la facoltà dell'immaginario e la coscienza simbolica. Esistono prove della religiosità risalenti a centomila anni fa. Già intorno al seimila avanti Cristo troviamo raffigurati esseri umani in preghiera.

La progressiva scoperta del prodigioso patrimonio religioso dell'umanità ha messo gli scienziati di fronte a un fatto: l'universalità del fenomeno religioso, nello spazio e nel tempo. E negli ultimi decenni le straordinarie scoperte fatte nella Rift Valley africana, specialmente in Tanzania e in Kenya, hanno fatto arretrare in modo spettacolare le frontiere della paleoantropologia.

Più di due milioni di anni fa, l'Homo habilis della Rift Valley tagliava gli utensili in amigdale, scegliendo materiali e colori; aveva il senso della simmetria e del simbolo. È la cultura di Olduvai, del tutto sconosciuta prima del 1959. Gli succede l'Homo erectus,che affollerà il mondo antico per scomparire intorno a 150.000 anni fa e lasciare il posto all'Homo sapiens.Con quest'ultimo si moltiplicano gli utensili e, cosa nuova, egli scava tombe per seppellire i defunti. Le tombe più antiche ritrovate a Qafzeh in Palestina risalgono a 90.000 anni fa. Con l'Uomo di Neandertal (da 80 a 40.000 anni fa) la quantità di tombe continua a crescere: numerose le tracce di culti funerari, segni della credenza in una vita ultraterrena. Nelle tombe si trovano ocra rossa, simbolo del sangue e della vita, ornamenti e teschi trattati, segno di protezione per il defunto nella vita ultraterrena.

Intorno a 35.000 anni fa, compare l'uomo moderno, Homo sapiens sapiens,creatore dell'arte franco-cantabrica (come le grotte di Lascaux e Rouffignac). Attraverso la decorazione di centinaia di grotte che sono luoghi "d'iniziazione religiosa", attraverso l'arte mobile, attraverso le tombe, quest'uomo mostra di credere in una Realtà che lo supera: la sua religiosità si afferma nell'arte. Verso i 10.000 anni fa esce dalle caverne e s'insedia all'aperto: i primi villaggi sono stati ritrovati in Mesopotamia, Siria e Palestina. Dopo aver vissuto ancora un po' di raccolta, caccia e pesca, inventa l'agricoltura, verso l'8000 avanti Cristo. È la grande rivoluzione religiosa e culturale del Vicino Oriente.

Gli archeologi hanno ritrovato le prime immagini di divinità risalenti a quell'epoca. Innanzitutto, due simboli: la donna feconda che sarà la dea-madre e il toro; due culti che si diffonderanno rapidamente in tutto il Vicino Oriente. La località di Catal Huyuk in Anatolia, occupata tra i 6250 e i 5400 anni avanti Cristo, aveva un'intensa attività religiosa. Su 139 edifici emersi dagli scavi, quaranta avevano degli altari. Questi edifici sono i primi santuari conosciuti. Vi si trovano affreschi, bassorilievi, statuette e piccole figure. L’archeologo Jacques Cauvin ha condotto un'analisi minuziosa degli affreschi raffiguranti la dea "madre degli animali e degli uomini" e il toro. Si tratta di grandi figure attorno alle quali ruota tutto un mondo umano raccolto accanto alle due divinità. Affreschi analoghi si trovano nelle cavità tra le rocce dell'Hoggar, nel sud dell'Algeria, dove, attorno a un "Grande Dio", esseri umani stanno a braccia alzate nella posizione degli oranti. Le stesse figure si ritrovano a sud di Orano. Questi pochi dettagli tratti da un'abbondante documentazione archeologica hanno un significato importante. Verso l'8000 avanti Cristo l'uomo comincia a rappresentare la divinità tra due simboli: la donna feconda e il toro, segni di vita e di potenza. La divinità è vita e potenza. Due millenni più tardi, l'uomo costruisce altari e santuari per le divinità. Le invoca a braccia alzate, nel gesto della preghiera, della domanda, della supplica. Ecco le prime tracce di preghiera. "Qui l'arte - dice Cauvin - riflette un evento psichico. Il sacro è percepito dall'uomo attraverso la credenza in una divinità suprema. Non è più una semplice esperienza del sacro ma un'autentica religione".

Testimonianze analoghe d'epoca neolitica si trovano incise sulle rocce della Val Camonica, una stretta valle della Lombardia a nord di Brescia. Poco prima del 5000 avanti Cristo, comincia la fase climatica definita "atlantica": introduzione dell'agricoltura, aumento della popolazione. Sulle rocce sono incise molte figure umane, con le braccia alzate al cielo, verso simboli solari e celesti.

Inoltre nella roccia sono scavate, in gruppi, piccole fosse a forma di coppe che fanno pensare a rituali d'offerta. È utile notare che i gruppi di oranti sono incisi su basi rocciose poste di fronte al sole che sorge, verso il quale gli oranti alzano le braccia. Del resto, va osservata la presenza di incisioni idoliformi alte anche due metri. Tali figure di idoli diventano più numerose nel quarto millennio.

Ciò che più colpisce l'osservatore è, da un lato, la posizione degli oranti con le braccia alzate verso la volta celeste e, dall'altro, il fatto che le rocce siano state scelte perché poste di fronte al sole che sorge. Evidentemente l'uomo religioso camuno era impressionato dalla volta celeste. Il fenomeno si ritrova nelle diverse religioni del Vicino Oriente, dell'Egitto, del mondo mediterraneo e dell'Indo durante i millenni che precedono la nostra era. Mircea Eliade ha fatto osservare che il cielo rivela la sua trascendenza, la sua forza e la sua sacralità attraverso la semplice contemplazione della volta celeste. Questa provoca nell'uomo un'esperienza del sacro. "Il cielo si rivela infinito e trascendente. Le regioni superiori, inaccessibili all'uomo, acquisiscono il prestigio divino del trascendente, della realtà assoluta, della perennità" (Trattato della storia delle religioni).

In conclusione, la scoperta della cultura d'Olduvai risalente a più di due milioni di anni fa dimostra che, fin dalle origini, l'uomo possiede la facoltà dell'immaginario e la coscienza simbolica. Fin dalle origini l'uomo è stato impressionato dall'universo e in particolare dalla simbolica della volta celeste. Dunque ha potuto fare, fin dalle origini, un'esperienza del sacro di cui abbiamo prova materiale solo a partire dall'esistenza dei riti funerari. II simbolismo della volta celeste ha avuto il ruolo di rivelare una realtà transumana. Se disponiamo della prova della religiosità umana di 100.000 anni fa, dobbiamo attendere i 10.000 anni avanti Cristo per trovare tracce di religioni organizzate e i 6 mila per vedere uomini in preghiera. Verso i 2000 anni avanti Cristo, Dio risponde alla lunga ricerca dell'uomo. Fu la rivelazione di Dio ad Abramo e la promessa di un'Alleanza con lui.

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:44 pm | | Default

«Allorché il godimento si emancipa dalla legge, travolgendo anche il desiderio, il soggetto ne resta schiacciato, perdendo la capacità di simbolizzazione. Quando, al contrario, è la legge a occludere il godimento, il soggetto resta sacrificato a una divinità oscura e dispotica. Nel Seminario VII di Lacan, Sade e Kant portano all’estremo queste due opzioni» 1/ Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto di Massimo Recalcati, di Roberto Esposito 2/ Dall'Etica al Desiderio. I pensieri di un maestro. Recensione a "Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione" di Massimo Recalcati, di Roberto Esposito

1/ Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, di Roberto Esposito 

Riprendiamo da La Repubblica del 17/2/2016 un articolo di Roberto Esposito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per aapprofondimenti, cfr. la sotto-sezione Psicoanalisi e psicologia nella sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

Il 2 febbraio 1933, nella cittadina francese di Le Mans, due domestiche, le sorelle Papin, sgozzano le padrone, madre e figlia, cavando loro gli occhi e infierendo sui loro corpi. Il 10 aprile 1931 una donna trentottenne, Marguerite Anzieu, armata di coltello, attende una celebre attrice all’uscita del teatro, tentando di ucciderla e riuscendo a ferirla.

Un bambino di quattro anni, di nome Robert, che riesce a dire solo due parole — “Signora” e “Lupo” — cerca con un paio di forbici di tagliarsi il pene davanti ad altri bambini terrorizzati. Sono istantanee agghiaccianti tratte da celebri casi analizzati da Jacques Lacan, personaggio a cui è dedicato il nuovo libro di Massimo Recalcati, e che ha come sottotitolo La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto (Raffaello Cortina).

Si tratta del secondo, ponderoso, tomo di uno straordinario dittico, dedicato dall’autore al grande analista francese. Il primo volume, intitolato Desiderio, godimento, soggettivazione, era già apparso qualche anno fa.

Se esso ricostruiva la concezione complessiva di Lacan, inquadrandola nel suo contesto teoretico, questo è dedicato alla sua intensa esperienza clinica. Benché sia conosciuto più per i suoi geniali scritti filosofici, Lacan è stato innanzitutto uno psicanalista che passava le giornate ad ascoltare esseri umani feriti nell’animo, assediati dall’angoscia, provati dal dolore.

Nelle pagine finali del libro Recalcati richiama la dialettica tra parola e silenzio mediante la quale, tacendo le proprie domande e raffrenando il proprio desiderio, l’analista cerca di tradurre la sofferenza di chi ha di fronte in un’interrogazione sulla sua intera esistenza.

È il momento in cui la prassi analitica assume su di sé la responsabilità di un compito inesauribile, legando due vite in una relazione che le mette entrambe in gioco. In tale confronto esse sperimentano quella presenza enigmatica dell’Altro, costitutiva di ogni esistenza, che è al cuore dell’insegnamento di Lacan.

Il sottotitolo del libro di Recalcati, “struttura e soggetto”, nomina i due fuochi nevralgici intorno a cui si sviluppa l’intera teoria lacaniana — e cioè la costruzione della soggettività e il limite su cui essa, spesso dolorosamente, batte. Questi due elementi — il processo di umanizzazione prodotto dall’incontro con l’altro e la violenza con cui il reale investe il soggetto — costituiscono gli argini tematici del lavoro di Recalcati.

Non capita di frequente che la condivisione di intenti di un autore con il proprio maestro pervenga a un risultato interpretativo così rigoroso e maturo, capace di restituire tutte le pieghe della sua opera, senza mai perderne di vista il significato d’insieme. Che sta nell’equilibrio, necessario ma sempre a rischio, tra il desiderio e la legge.

Soltanto la legge — rappresentata da tutti i possibili nomi del padre — inserisce un diaframma nel rapporto, altrimenti mortifero, tra desiderio e godimento. Quando questi si avvitano fino a identificarsi, il soggetto rischia di rimanere soffocato dall’assenza di mediazioni. Senza passare per l’Altro, egli non può ritrovare se stesso.

Ma non deve cadere nell’eccesso opposto, consegnandosi interamente a esso. Se così fosse, la legge diverrebbe una potenza arbitraria che ci opprime. In questo caso avrebbero ragione Deleuze e Guattari, che nell’Antiedipo associano la legge alla repressione. Piuttosto che incarnarsi nel desiderio, essa ne impedirebbe il dispiegamento. Contro questa interpretazione, Lacan tiene fermo il punto: pur barrandolo, la legge non è nemica, ma condizione del desiderio. Ciò che gli impedisce di implodere nell’immediatezza del nudo godimento.

Tutte le nevrosi nascono dalla rottura di questo equilibrio a favore di un polo o dell’altro. In un quadro ricchissimo di riferimenti filosofici e letterari — in cui risaltano i nomi di Hegel e Sartre, Heidegger e Foucault, Gide e Joyce — Recalcati ripercorre gli snodi decisivi della clinica lacaniana. Dallo sviluppo, tutt’altro che semplicemente evolutivo, del bambino, alla ferita della follia, in cui la libertà del soggetto si spinge tanto oltre da strappare la propria radice.

Dall’esperienza autoreferenziale della paranoia a quella, specularmente contraria, della schizofrenia. Se nella prima il soggetto si riempie di se stesso immunizzandosi nei confronti dell’altro, nella seconda esso si disarticola come «un’orchestra senza direttore». Se il paranoico — il cui esempio estremo è rappresentato dalla sindrome distruttiva di Hitler — ne è ossessionato al punto di volerlo annientare, lo schizofrenico se ne fa sbranare.

Ciò vale anche per il rapporto con l’oggetto, cui Lacan si dedica dopo gli anni Cinquanta, interrogando la doppia figura della melanconia e del feticismo. In ciascuno di essi il soggetto si perde nell’adorazione estatica dell’oggetto. Alla pretesa innocenza del soggetto paranoico, corrisponde l’immaginaria colpevolezza del malinconico, che si richiude in se stesso, come il protagonista della Nausea di Sartre (che doveva appunto intitolarsi Melanconia) o il personaggio della Tana di Kafka.

Scollegato dal linguaggio dell’esistenza, non gli resta che la pura ripetizione di una vita denudata di senso. Delirio paranoico, corpo schizofrenico ed esperienza melanconica sono le tre diverse declinazioni di una psicosi che ha sempre alla base la rottura della relazione triangolare tra desiderio, godimento e legge. Allorché il godimento si emancipa dalla legge, travolgendo anche il desiderio, il soggetto ne resta schiacciato, perdendo la capacità di simbolizzazione. Quando, al contrario, è la legge a occludere il godimento, il soggetto resta sacrificato a una divinità oscura e dispotica.

Nel Seminario VII di Lacan, Sade e Kant portano all’estremo queste due opzioni, facendosi l’uno l’ombra rimossa dell’altro. Questo abbinamento enigmatico costituisce forse il vertice dell’intera opera di Lacan — il punto in cui il segreto che essa sembra celare lascia trasparire la sua verità. Entrambi, Kant e Sade, seguono un imperativo incondizionato, assegnandogli un significato universale. 

2/ Dall'Etica al Desiderio. I pensieri di un maestro. Recensione a "Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione", di Roberto Esposito

Riprendiamo da La Repubblica del 28/11/2012 un articolo di Roberto Esposito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

Noi, i soggetti. Ma chi siamo, noi? E cosa vuol dire "soggetto"? Che rapporto passa tra me e l' altro, all'interno della comunità? Ma anche tra me e ciò che, senza appartenermi, come il linguaggio che parlo, mi condiziona, mi modella, mi altera? E ancora: cosa è, per ciascuno di noi, il desiderio? A quale legge risponde? E come si articola con l'etica, l'arte, l'amore? Sono le grandi domande che si pone, e ci pone, Massimo Recalcati in Jacques Lacan. Desiderio, godimento, soggettivazione (Cortina), prima parte di un dittico, straordinario per quantità e qualità, cui seguirà un'altra sulla clinica psicoanalitica.

Si tratta del suo ultimo libro, ma anche, più a fondo, del libro della sua vita. Certamente Recalcati ne scriverà ancora molti. Ma il libro della vita è un' altra cosa. È il libro cui dedichiamo la vita, ingaggiando una battaglia che non possiamo mai davvero vincere. E che poi, a un certo momento, sorprendendoci, la vita scrive attraverso di noi.

Si potrebbe dire che questo, a conti fatti, è quanto ci ha insegnato Lacan. La sua è un'opera "difficile" - non perché lontana dalla nostra esperienza, ma perché, al contrario, tanto prossima ad essa che quasi non riusciamo a metterla a fuoco e oggettivarla. La forza e il fascino del libro di Recalcati stanno appunto in questa consapevolezza. Nel sapere, e nel dirci, che le tesi di Lacan non possono essere descritte dall'esterno, come una qualsiasi teoria, ma vanno riconosciute dentro di noi - nei nostri gesti e nelle nostre parole, nei nostri impulsi e nei nostri smarrimenti.

In questo senso va intesa quella "sovversione del soggetto" cui, fin dai primi seminari, Lacan dedica la propria opera - e dunque, come si diceva, la propria vita. Contro l'idea di una padronanza del soggetto su se stesso egli ci insegna che diveniamo ciò che siamo soltanto attraverso la mediazione simbolica dell'Altro - di un terzo che s'interpone nella relazione narcisistica tra noie la nostra immagine, complicandola ma anche vivificandola, dando senso a ciò che sembra non averne.

Recalcati ricostruisce in tutte le sue pieghe lo sviluppo, tutt'altro che lineare, di un pensiero, come quello di Lacan, costituito nel punto di confluenza e di tensione tra esistenzialismo e strutturalismo, capace di assorbire, traducendoli in un impasto originalissimo, gli influssi di Hegel e Heidegger, di Sartre e Kojève, di Saussurre e Jakobson - per non parlare di Freud, restato fino all'ultimo il suo interlocutore privilegiato.

In questo quadro complesso e in continua evoluzione, quale è il suo punto di partenza - il nucleo rovente da cui si può dire nasca la necessità del suo pensiero? Si tratta del fatto che, nel rifiuto narcisistico dell'altro, nel tentativo inane di ricucire la propria faglia originaria, il soggetto mostra di odiare innanzitutto se stesso.

In questo modo - nel nodo mortifero che lega Narciso a Caino - si può rinvenire la radice dei totalitarismi e della guerra, a ridosso dei quali Lacan comincia a lavorare. Quello che, nella stretta distruttiva tra Immaginario e Reale, risulta escluso è il piano del Simbolico, della relazione con l'altro, intesa come domanda di riconoscimento reciproco, come legge della parola e del dono.

Quando la tendenza all'immunità - alla chiusura identitaria - prevale sulla passione per la comunità, l'Io batte contro il proprio limite rimbalzando sull'altro, secondo una pulsione di morte che finisce per risucchiarli entrambi nel proprio vortice. I grandi temi dell' inconscio come linguaggio, del nome del padre, della dialettica tra desiderio e godimento, sono tutti modi per proporre, da parte di Lacan, la medesima esigenza. Che è quella, per un soggetto esposto alla propria alterità, di non identificarsi con se stesso, ma senza perdersi nell'altro. Di sfuggire alla ricerca compulsiva di un godimento senza limiti, ma anche alla legge di un desiderio senza realizzazione.

L'originalità di Lacan - nell'interpretazione di Recalcati - sta nella capacità di tenersi lontano da entrambi questi estremi. Di non contrapporre il godimento al desiderio, ma di cercare di articolarli in una forma che fa di uno il contenuto dell' altro.

Il processo di soggettivazione - vale a dire di elaborazione, da parte dell'io, dell'alterità da cui proviene - è il luogo di questa alleanza, la zona mobile in cui le acque del desiderio confluiscono in quelle del godimento, pur senza mischiarsi. Godere nel desiderio, attraverso il desiderio - vale a dire non di una pienezza irraggiungibile, ma della differenza che ci attraversa e ci costituisce: ecco la sfida, il luogo impervio della nostra responsabilità etica verso l'altro, che né la dissipazione libertina di Sade né la morale sacrificale di Kant potevano mai attingere.

È il tema su cui sono tornati con efficacia anche Bruno Moroncini e Rosanna Petrillo in L'etica del desiderio. Un commentario del seminario sull'etica di Lacan (Cronopio). Quali sono i segni di questa possibile giuntura tra godimento e desiderio, pulsione e legge, uno e altro? Lacan li rintraccia intanto in un'etica del reale - non dei valori trascendenti - che, pur consapevole della necessità che ci governa, la apre alla contingenza dell'incontro inatteso, come quella che, nell'interpretazione sartriana, fa di Flaubert non un idiota, ma un genio.

Ma li ritrova anche nella dinamica dell'amore - come ciò che riscatta l'impossibilità degli amanti di ottenere un godimento reciproco. Mentre il maschio non può godere che di se stesso e in se stesso, la domanda della donna è senza limiti e dunque mai soddisfatta. Vero amore è quello che, anziché rimuoverla, riconosce questa distanza, rinunciando al godimento assoluto. Non l'abolizione della mancanza, ma la sua condivisione nell' abbandono e nel rischio che ne deriva.

L'arte, in una diversa esperienza di sublimazione, riproduce tale condizione. Anche in essa la pulsione si afferma circoscrivendo un vuoto - elevando il proprio oggetto alla dignità della Cosa. Come provano i quadri di Cézanne, ma anche la scatola di fiammiferi di Prévert, in una pratica artistica intesa come organizzazione del vuoto, presenza e assenza si sovrappongono in una forma che fa dell'una l'espressione rovesciata dell' altra, così come, in tutta l'arte contemporanea, la figura si rivolge all'infigurabile.

Ancora una volta il soggetto si riconosce assoggettato a qualcosa che lo domina, su cui egli non può avere controllo. E tuttavia, ciò non ne determina né la dissoluzione né la soggezione a una potenza straniera. C'è sempre, in ogni esistenza, una sporgenza rispetto al proprio destino, un punto di resistenza alla ripetizione che coincide con la singolarità della vita. È proprio l'assenza di governo di sé, l'esposizione all'Altro, che riapre il cerchio della necessità alla dimensione del possibile.

Forse, si potrebbe aggiungere, l'unico terreno sul quale questa possibilità appare più appannata, nell'opera di Lacan, è quello della politica. Non a caso il libro di Recalcati percorre i territori della filosofia, dell'etica, dell' estetica, ma non quello della politica. Forse perché alla politica non basta la soggettivazione in quanto tale, e neanche l'incrocio dell'uno con l'altro. Occorre anche una linea conflittuale che, all'interno della società, aggreghi gli uni contro, o almeno di fronte, agli altri. Ecco è la questione ultima, lasciata aperta da Lacan, con cui la ricerca di Recalcati è chiamata a confrontarsi.

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:43 pm | | Default

Papa Francesco sulle unioni civili. Lo stile ed il tenore delle diverse dichiarazioni a secondo che sia in gioco il ministero petrino, l'episcopato di una nazione o il ruolo libero dei laici

N.B. de Gli scritti (23/2/2016)

Pensiamo di non sbagliare nel dire che papa Francesco non deve essere commentato e tirato per la giacchetta di qua e di là, come fanno coloro che vogliono fare un uso politico di un colore o del colore opposto delle sue parole.

Pensiamo di non sbagliare anche nel ritenere che egli intenda tenere distinti il ruolo di papa - come pastore che parla alla Chiesa cattolica ed al mondo intero - dal ruolo dei diversi episcopati nazionali che debbono farsi carico delle loro responsabilità, divenendo competenti delle situazioni di vita dei popoli che sono loro affidati – “arrangiatevi voi” ha detto.

Pensiamo altresì di non sbagliare ritenendo che il papa affidi alla libertà del laicato l’assunzione di responsabilità che gli sono proprie. Insomma: una cosa è il ruolo del papa, una cosa è il ruolo delle conferenze episcopali nei singoli stati, una cosa è il ruolo dei laici nei singoli stati.

Pensiamo che papa Francesco voglia sempre e comunque mostrare che il Cristo ama tutti e, per questo, al contempo invita tutti, da una parte e dall’altra degli schieramenti, ad una conversione di vita e di stile.

Per questo ci limitiamo a mettere a disposizione sul nostro sito, senza ulteriori commenti, le risposte alle domande poste da due giornalisti in Messico relative alla questione delle unioni civili, i passaggi della Dichiarazione comune sottoscritta con il patriarca Kirill, e la lettera – l’unica a tutt’oggi nota come vescovo che si rivolse sulla medesima questione ai suoi laici che avevano preso posizione - scritta quando in Argentina durante la presidenza Kirchner era in corso una discussione sul riconoscimento delle unioni civili, situazione che il papa ha ricordato nella conferenza stampa in risposta ai giornalisti, consapevoli che il contesto argentino di allora non è identico a quello attuale italiano.

1/ Dalla conferenza stampa di papa Francesco durante il volo di ritorno dal Messico (17/2/2016)

(Carlo Marroni, “Il Sole 24 Ore”)

Santo Padre, la mia domanda è sulla famiglia, tema che Lei ha affrontato in questo viaggio. Nel Parlamento italiano è in discussione la legge sulle unioni civili, tema che sta portando a forti scontri in politica, ma anche a un forte dibattito nella società e fra i cattolici. In particolare, volevo sapere il Suo pensiero sul tema delle adozioni da parte delle unioni civili, e quindi sui diritti dei bambini e dei figli in generale. Grazie.

(Papa Francesco)

Prima di tutto, io non so come stanno le cose nel Parlamento italiano. Il Papa non si immischia nella politica italiana. Nella prima riunione che ho avuto con i Vescovi [italiani], nel maggio 2013, una delle tre cose che ho detto: “Con il governo italiano, arrangiatevi voi”. Perché il Papa è per tutti, e non può mettersi nella politica concreta, interna di un Paese: questo non è il ruolo del Papa. E quello che penso io è quello che pensa la Chiesa, e che ha detto in tante occasioni. Perché questo non è il primo Paese che fa questa esperienza: sono tanti. Io penso quello che la Chiesa sempre ha detto.

(Franca Giansoldati)

Io torno sull’argomento della legge che sta per essere votata al Parlamento italiano: è una legge che in qualche modo riguarda anche altri Stati, perché altri Stati hanno all’attenzione leggi che riguardano unioni fra persone dello stesso sesso. C’è un documento della Congregazione della Dottrina della Fede, che risale al 2003, che dedica un’ampia attenzione a questo, e in più dedica un capitolo al comportamento che devono tenere i parlamentari cattolici in Parlamento davanti a queste leggi, e si dice espressamente che i parlamentari cattolici non devono votare queste leggi. Visto che c’è molta confusione su questo, Le volevo chiedere innanzitutto se questo documento del 2003 ha ancora un valore, e effettivamente, quale comportamento un parlamentare cattolico deve tenere?...

 (Papa Francesco)

… io non ricordo bene quel documento del 2003 della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ma un parlamentare cattolico deve votare secondo la propria coscienza ben formata: questo, direi soltanto questo. Credo che sia sufficiente. E dico “ben formata”, perché non è la coscienza del “quello che mi pare”. Io mi ricordo quando è stato votato il matrimonio delle persone dello stesso sesso a Buenos Aires, che c’era un pareggio di voti, e alla fine uno ha detto all’altro: “Ma tu vedi chiaro?” – “No” – “Neppure io” – “Andiamocene” – “Se ce ne andiamo, non raggiungiamo il quorum”. E l’altro ha detto: “Ma se raggiungiamo il quorum, diamo il voto a Kirchner!”, e l’altro: “Preferisco darlo a Kirchner e non a Bergoglio!” … e avanti. Questa non è coscienza ben formata! E sulle persone dello stesso sesso, ripeto quello che ho detto nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro e che è nel Catechismo della Chiesa Cattolica.

2/ Dalla Dichiarazione comune sottoscritta a Cuba da papa Francesco e dal patriarca Kirill

20. La famiglia si fonda sul matrimonio, atto libero e fedele di amore di un uomo e di una donna. È l’amore che sigilla la loro unione ed insegna loro ad accogliersi reciprocamente come dono. Il matrimonio è una scuola di amore e di fedeltà. Ci rammarichiamo che altre forme di convivenza siano ormai poste allo stesso livello di questa unione, mentre il concetto di paternità e di maternità come vocazione particolare dell’uomo e della donna nel matrimonio, santificato dalla tradizione biblica, viene estromesso dalla coscienza pubblica.

3/ Lettera che il cardinale Bergoglio indirizzò il 5 luglio 2010 al dottor Justo Carbajales, Direttore del Dipartimento dei Laici della Conferenza Episcopale Argentina, il quale aveva organizzato per il 13 luglio una Marcia per la Vita e la Famiglia mentre nel Parlamento argentino si discuteva del «matrimonio» omosessuale

«Caro Justo,
La Commissione Episcopale per i Laici della Conferenza Episcopale Argentina, nell’esercizio della libertà propria di tutti i cittadini, ha preso l’iniziativa di organizzare una manifestazione contro la possibile approvazione di una legge sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, riaffermando nel contempo la necessità che ai bambini sia riconosciuto il diritto ad avere un padre e una madre, necessari per la loro crescita ed educazione. Con questa lettera desidero dare il mio appoggio a questa espressione di responsabilità del laicato.

So, perché me lo avete detto, che non sarà un evento contro nessuno, perché non vogliamo giudicare quanti pensano e sentono in modo diverso. Senza dubbio, più che mai, di fronte al bicentenario [dell’Argentina] e con la certezza di costruire una nazione che deve includere la pluralità e la diversità dei suoi cittadini, sosteniamo chiaramente che non si può considerare uguale quello che è diverso e che in una convivenza sociale è necessario accettare le differenze.

Non si tratta di una questione di semplice terminologia o di convenzioni formali relative a una relazione privata, ma di un vincolo di natura antropologica. L’essenza dell’essere umano tende all’unione dell’uomo e della donna come realizzazione reciproca, come attenzione e cura, come cammino naturale verso la procreazione. Questo conferisce al matrimonio la sua elevatezza sociale e il suo carattere pubblico. Il matrimonio precede lo Stato ed è la base della famiglia, che è cellula della società precedente a ogni legislazione e precedente perfino alla Chiesa. Da questo deriva che l’approvazione del progetto di legge in discussione significherebbe un reale e grave regresso antropologico.

No, il matrimonio di un uomo e di una donna non è la stessa cosa dell’unione di due persone dello stesso sesso. Distinguere non è discriminare, al contrario è rispettare. Differenziare per discernere è valutare in modo proprio, non è discriminare. In un’epoca in cui si insiste tanto sulla ricchezza del pluralismo e della diversità culturale e sociale, è davvero contraddittorio minimizzare le differenze umane fondamentali. Un padre e una madre non sono la stessa cosa. Non possiamo insegnare alle future generazioni che è la stessa cosa prepararsi a un progetto di famiglia assumendo l’impegno di una relazione stabile tra uomo e donna e convivere con una persona dello stesso sesso. Stiamo attenti a che, cercando di mettere davanti un preteso diritto degli adulti che lo nasconde, non ci capiti di lasciare da parte il diritto prioritario dei bambini – gli unici che devono essere privilegiati – a fruire di modelli di padre e di madre, ad avere un papà e una mamma.

Ti affido un incarico: da parte vostra, nel linguaggio ma anche nel cuore, non ci siano aggressività e violenza contro nessun fratello. I cristiani si comportano come servitori di una verità, non come suoi padroni. Prego il Signore che con la sua mansuetudine – quella mansuetudine che chiede a tutti noi – vi accompagni nell’evento. Ti chiedo per favore di pregare e far pregare per me. Che Gesù ti benedica e che la Vergine Santa ti custodisca».

(Traduzione Massimo Introvigne)

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:42 pm | | Default

«I giovani preti imparino specialmente le cose che potrebbero essere richieste dai nostri tempi, per la cui necessità potrebbero essere angosciati, le quali potrebbero creare difficoltà e problemi... siano istruiti in tutte le cose necessarie per dare una risposta adeguata e valida alle presenti necessità della nostra epoca». Pio XII istituì l’istituto del Sant’Eugenio, annesso alla parrocchia allora creata, per sostenere i preti appena ordinati nel saper affrontare i problemi del tempo presente come parte integrante della loro maturazione spirituale

Riprendiamo sul nostro sito la traduzione curata da Tommaso Spinelli del Motu proprio QUANDOQUIDEM TEMPLUM di papa Pio XII. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

PIUS PP. XII

MOTU PROPRIO

QUANDOQUIDEM TEMPLUM

Sul Pontificio istituto S. Eugenio per i giovani sacerdoti

Dal momento che, piacendo a Dio, la chiesa da dedicare a S. Eugenio I e la casa ad essa adiacente tra non molto tempo già saranno disponibili - ed anzi vogliamo qui ringraziare sentitamente tutti coloro grazie alla generosità dei quali questo è stato possibile- abbiamo il desiderio e la volontà che in quel luogo sia fondata una parrocchia che sia governata ed amministrata secondo le stesse norme e gli stessi regolamenti utilizzati nelle altre parrocchie dell’Urbe.

In secondo luogo, abbiamo nell’animo il desiderio di fondare in quella stessa sede un altro istituto che crediamo porterà molti frutti per il clero romano, che ci sta molto a cuore. Infatti, ci sono alcune cose talmente necessarie per il progresso della fede cattolica che lo stato e la crescita della Chiesa stessa è intimamente legato ad esse. Tra queste certamente bisogna annoverare la retta istruzione e formazione dei giovani sacerdoti. Per questo motivo non solo i nostri predecessori, ma anche gli antistiti in ogni parte del mondo ebbero sempre la cura di dedicare speciali attenzioni a tale tema. Questo, dopo il concilio di Trento, fu conseguito attraverso la creazione di seminari nelle singole diocesi, nei quali giovani scelti e chiamati per ispirazione divina a prendere i voti sacerdotali fossero educati adeguatamente.

Tuttavia, quando i giovani sacerdoti escono da questi luoghi di formazione per esercitare il ministero che gli è stato affidato, sebbene siano dotati di una solida formazione spirituale e di una ardente carità, sentendo l’afflato del mondo ed essendo travolti in mezzo ai pericoli e alle difficoltà della nostra epoca, non raramente avvertono di non essere sufficientemente preparati per far fronte alle crescenti necessità delle persone. Talvolta si avviliscono nel loro animo, perché si accorgono che – non senza la loro stessa difficoltà - sono attaccati violentemente da coloro che si oppongono alla virtù e alla dottrina cristiana.

È dunque necessario che i giovani ordinati da poco si esercitino in quelle discipline e in quelle cose che sono necessarie per permettergli di usare prontamente, agevolmente ed efficacemente le nuove forme di apostolato richieste dalla nostra epoca. Certamente, tutti comprendono che specialmente i primi anni di sacerdozio, quando i ministri sacri escono dal rifugio sicuro del seminario in campo aperto per mettere in pratica ciò che hanno appreso durante la loro formazione, sono di grande importanza, e talvolta non di lieve difficoltà. Se è vero che da questi dipende spesso l’andamento della loro vita, e dunque la loro crescita umana e spirituale e la maturazione del loro carisma sacerdotale, allora è facilmente comprensibile quanto sia opportuno ed anzi necessario che nei primi anni del loro ministero sacro questi giovani abbiano guide e maestri eccellenti, i quali mostrino loro non solo i precetti della dottrina, ma anche un esempio concreto dell’esercizio del ministero sacerdotale.

Questo certamente non è un fatto nuovo nella storia della Chiesa. Infatti, a Roma san Filippo Neri si dedicò a questa attività, san Carlo Borromeo svolse lo stesso servizio a Milano, e durante lo scorso secolo san Giuseppe Cafasso vi si dedicò a Torino gestendo il “Convitto Ecclesiastico”, ben noto a tutti. Ma molte altre iniziative ed istituti di questo genere potrebbero essere ricordati, i quali contribuirono grandemente all’ottima formazione dei sacerdoti. Noi, considerando opportunamente queste cose e volendo fortemente che il clero giovane dell’Urbe – a noi particolarmente caro - non manchi di questi aiuti, desideriamo e vogliamo fondare a Roma un istituto pontificio a cui sia affidato questo servizio importantissimo. Perciò attraverso questo atto dato come motu proprio decretiamo che quegli edifici, sopracitati, siano da destinare non solo alla nuova parrocchia, ma anche al nuovo istituto pontificio per la formazione dei giovani sacerdoti di Roma. Inoltre stabiliamo e decretiamo quanto segue:

1-Che il rettore di tale istituto pontificio sia eletto da noi e dai nostri successori dopo aver consultato il cardinal vicario di Roma.

2-Che i giovani sacerdoti di Roma trascorrano un certo periodo di tempo in questo luogo, affinché facciano pratica non solo della virtù ma anche del ministero sacerdotale, ed in particolar modo di quelle forme di apostolato che il nostro secolo ha visto introdurre.

3-Questi imparino specialmente le cose che potrebbero essere richieste dai nostri tempi, per la cui necessità potrebbero essere angosciati, le quali potrebbero creare difficoltà e problemi. E perciò siano istruiti in tutte le cose necessarie per superare più facilmente tali pericoli e dare una risposta adeguata e valida alle presenti necessità della nostra epoca.

4-Siano fatti esercitare nel tenere discorsi nelle assemblee sacre e nell’abilità di insegnare la dottrina della fede cristiana. A tal scopo si riuniscano nei locali della parrocchia dove la loro opera sia adeguatamente e diligentemente guidata.

5-Parimenti si esercitino nel gestire le parrocchie sotto la guida di ottimi maestri.

-Facciano vita comune grazie alla quale possano sperimentare grandi progressi di utilità spirituale.

Mentre noi decretiamo queste cose, con dolcissima speranza le rendiamo ufficiali affinché i sacerdoti di Roma, grazie all’aiuto di questo istituto siano in grado di provvedere e di prendersi meglio e più efficacemente cura del loro sacro ufficio e del popolo romano, con l’aiuto della grazia divina.

Ciò che è decretato e stabilito da Noi con questo documento dato in forma di motu proprio, sia valido e ratificato, non essendoci alcuna istanza contraria.

Dato a Roma, in S. Pietro, 2 Aprile 1949, anno undicesimo del nostro pontificato.

Pius XII

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:41 pm | | Default

Bellezza: quando Dio «seduce», di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da Avvenire del 16/2/2016 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

Pietà di Avignone, Enguerrand Quarton, metà del 1400

Ci innamoriamo e amiamo solo per la bellezza. Nessuno di noi ha desiderato avvicinarsi e conoscere qualcosa o qualcuno senza esserne prima sedotto. Questo principio di attrazione ha il suo fondamento ultimo qui: «Nessuno viene a me se non lo attrae il Padre». Tutte le volte che nell’ambito naturale (la grazia delle cose) o soprannaturale (la Grazia, dono di Dio a partecipare alla sua vita) la bellezza ci mette in movimento, sperimentiamo l’attrazione dell’Amore che ci trasforma, cioè vuole darci la sua forma, la sua essenza, per farsi tutto in tutti, pur mantenendo ciascuno la sua irripetibile identità.

Questa attrazione che Agostino chiamava delectatio victrix (piacere che avvince), in Dante è il movimento «amoroso» che Dio imprime alla creazione: «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove», in cui «il più e il meno» non indica solo l’oggettiva scala di perfezione dell’essere delle creature, ma anche la loro risposta soggettiva. La gloria è lo stabile e progressivo manifestarsi e comunicarsi della bontà di Dio nel mondo e nella storia, si mostra come bellezza e si dà quasi senza ostacoli negli esseri privi di libertà (per questo a volte preferiamo cani gatti mari e boschi agli umani), mentre è più o meno o affatto rallentata dalla resistenza delle creature dotate di libertà (in questo senso il massimo del progresso è stato raggiunto una volta per tutte con Cristo).

Quando l’azione beatificante (capace di rendere felici), che attira cose e persone verso il loro pieno e duraturo compimento di bellezza, trova un ostacolo, questa gloria non si irrigidisce ma diventa anzi resiliente e prende il nome di misericordia e, lasciandosi ferire, diventa limite imposto al male della e nella storia. Quando l’ostacolo del male si erge contro la gloria di Dio, trionfo di bellezza a cui ogni cosa e persona è chiamata, l’azione «attraente» di Dio si piega in forma di misericordia (Cristo si china sulla donna che tutti volevano lapidare) sul cuore duro e cerca di sedurlo, a volte con forza a volte con delicatezza, verso un bene più grande e misterioso, nel tempo e nello spazio che si renderanno necessari.

La misericordia accetta il rallentamento della gloria che si dispiegherebbe altrimenti al ritmo divino («Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto!»), ma proprio questo inciampo fa emergere un volto della gloria spiazzante per i canoni umani: la misericordia («Perdonali perché non sanno quello che fanno»). Che ne sarebbe dell’abbraccio del padre che si china sul figlio sporco, ordinando anello, vestiti e banchetto di festa, se il figlio non fosse andato via e tornato, dopo aver sperperato tutto?

La misericordia è una forma unica e ulteriore di bellezza, perché è la bellezza resa compatibile con il male, con la ferita, con la resistenza (forse solo Michelangelo è riuscito a scolpirla, quasi per errore, nella Pietà Rondanini). Si tratta di una bellezza che mostra le ferite (come accade con l’incredulo Tommaso) come credenziali di un’estetica nuova, in cui la vita ha attraversato e trasformato la morte, ma non per via immaginaria, perché ne porta i segni, producendo una meraviglia inedita rispetto a secoli di storia in cui il bello era soltanto armonia delle parti e il sangue doveva rimanere fuori dalla scena («osceno» appunto). Per ricordarselo, basterebbe fissare per qualche minuto la Pietà di Avignone che Enguerrand Quarton dipinse a metà del 1400: «Quando sarò elevato da terra attirerò tutti (o tutto) a me», la massima attrazione, fascinazione, bellezza, si dispiega proprio al massimo della sconfitta, la massima seduzione provocata dalla nostra più pervicace resistenza.

Non a caso Ambrogio intuì che non dopo aver creato le cose Dio si riposò, ma solo dopo aver fatto l’uomo perché aveva finalmente qualcuno da perdonare: Dio riposa quando può comunicare la sua essenza amorosa alla creatura ferita, riparandone la presunzione di autonomia. L’incontro tra la nostra volontà di autonomia e l’insistenza della seduzione divina è la drammatica estetica della misericordia, cioè della croce («prendere» la croce «di ogni giorno» non è masochismo, ma «ricevere» quotidianamente la misericordia divina, proprio dove falliamo, dove la tristezza ci sorprende).

Tutte le volte che l’uomo si lancia a capofitto nella bellezza, in fondo a essa cerca Dio, anche le volte in cui quella bellezza anelata è frutto del cuore curvato su se stesso che, investendo di assoluto quel poco che gli resta da amare, lo fa diventare un’illusione di Dio: proprio allora, quel cuore deluso e spaccato, può aprirsi al Dio misericordioso.

L’ubriaco ama la sua bottiglia perché in essa cerca Dio, il sensuale ama il suo piacere perché in esso cerca Dio, l’avaro ama il suo denaro perché in esso cerca Dio. Dio però non è «in» ma «oltre» la bottiglia, il piacere, il denaro. Che Dio? Il Dio misericordioso che lo seduce proprio lì, nell’ultimo tentativo auto-inventato dall’uomo per essere tutt’uno con ciò che ama, salvo poi esserne fatalmente e dolorosamente respinto per insufficienza di eternità di quella briciola di bellezza. Forse proprio a quel capolinea abita Dio, per questo «pubblicani e prostitute» precedono chi si crede giusto, perché hanno toccato il fondo e oltre il fondo c’è il profondo, il sottosuolo teologico di Dostoevskij, cioè o la salvezza o la distruzione

C’è Dio, la cui regola è: «a chi molto viene perdonato, molto ama». In un attimo, con un paradossale «colpo di grazia» che dà vita e non morte, la nostra disperazione può trasformarsi in salvezza, fosse anche per il solo desiderio di avere una «vita nuova», come accadde a Dante, proprio mentre (in)seguiva Beatrice. Non c’è bellezza piena senza ferita, come non c’è misericordia senza giustizia: non è venuto per i sani ma per i malati, che si riconoscono tali. Se il malato riconosce la ferita e la mostra a Dio, perché sa che altrimenti non potrebbe guarirne, la misericordia immediatamente lo raggiunge, anche di soppiatto, come quella donna che sapeva che le sarebbe bastato toccare la veste di Cristo per esser sanata, tanto da costringerlo al miracolo senza neanche chiederlo a voce, in mezzo alla folla che lo pressa. Egli, quasi che la guarigione gli sia scappata, chiede: «Chi mi ha toccato?». 

Toccare Dio con la propria ferita aperta è il segreto per sperimentarne la misericordia e vederne finalmente, senza più difese, la bellezza che tutto vince e avvince, bellezza antica e sempre nuova, che non è mai tardi per esserne sedotti, come accadde a un ladro e assassino, che ammise la sua colpa e si rivolse all’unico innocente della storia, e fu accolto in quel giorno stesso in Paradiso.

Ciò accade ancora, in ogni confessione.

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:40 pm | | Default

1/ Kamel Daoud. L’intellettuale algerino: «Impossibile scrivere di Islam, mi ritiro», di Stefano Montefiori 2/ Parla di «porno-islamismo», viene messo alla gogna. Ma in Francia non erano tutti Charlie?, di Leone Grotti 3/ «Ho scritto non solo perché volevo avere successo, ma anche perché avevo il terrore di vivere una vita senza senso. Ho scritto spesso, troppo, con furore, collera e divertimento. Ho detto quello che pensavo sulla sorte delle donne nel nostro Paese, sulla libertà, sulla religione e su altre grandi questioni che possono condurci alla consapevolezza o all’abdicazione e all’integralismo». La lettera di Kamel Daoud

1/ Kamel Daoud. L’intellettuale algerino: «Impossibile scrivere di Islam, mi ritiro», di Stefano Montefiori

Riprendiamo dal Corriere della sera del 16/2/2016 un articolo scritto da Stefano Montefiori. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

Appena pochi giorni fa Kamel Daoud ha ricevuto il premio Jean-Luc Lagardère per il miglior giornalista dell’anno. Ora lo scrittore algerino, sfinito dalle polemiche e in particolare da un attacco collettivo contro di lui firmato su Le Monde da 19 studiosi, annuncia: «Sono stanco, abbandono il giornalismo». «Scriverò ancora qualche articolo fino alla fine del mese, e da marzo chiudo - dice al telefono con il Corriere dall’Algeria. Ho dato molto in questi anni, ho scritto tanto, ho cercato di impegnarmi. Ma le pressioni sono troppo forti: in Algeria gli islamisti mi lanciano la fatwa, e adesso in Occidente c’è chi mi accusa di islamofobia. È un insulto immorale, un’inquisizione. In Francia è diventato troppo difficile esprimere le proprie opinioni». Kamel Daoud è entrato al Quotidien d’Oran oltre vent’anni fa, poi è diventato caporedattore del giornale della seconda città d’Algeria. Nel 2014 il suo romanzo Il caso Meursault (edito in Italia da Bompiani) ispirato allo Straniero di Camus è arrivato in finale al Prix Goncourt diventando un caso letterario: da allora Daoud ha continuato a scrivere per il suo Quotidien d’Oran ma ha cominciato a essere conteso anche dai grandi giornali stranieri tra i quali Le Monde e il New York Times.

La sua voce è unica: esprime critiche feroci e allo stesso tempo amore nei confronti della cultura di appartenenza, del mondo arabo-musulmano. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, Daoud ha scritto per il New York Times un memorabile pezzo di denuncia sull’Arabia Saudita, «un Isis che ce l’ha fatta», e sugli stretti legami che la Francia e l’Occidente ancora intrattengono con l’oscurantista regime wahabita. Il 31 gennaio poi lo scrittore algerino ha pubblicato un lungo articolo su Le Monde a proposito dei fatti di Colonia, dove molti immigrati nordafricani e mediorientali hanno molestato decine di donne la sera di Capodanno. Daoud ha osato parlare della miseria sessuale degli uomini e della condizione della donna nel mondo arabo. «L’Occidente dimentica che il rifugiato proviene da una trappola culturale che si riassume soprattutto nel suo rapporto con Dio e la donna. (...) Non basta accoglierlo dandogli dei documenti e un dormitorio. Bisogna offrire asilo al corpo ma anche convincere l’anima che deve cambiare. L’Altro arriva da questo vasto universo doloroso e spaventoso che sono la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano, il rapporto malato con la donna, il corpo e il desiderio. Accogliere l’Altro non significa guarirlo». Daoud ha avuto il coraggio di denunciare una realtà che conosce bene, provenendo lui da quel mondo, e vivendo ancora ad Orano, in Algeria. Pochi giorni dopo su Le Monde un gruppo di 19 tra sociologi, storici e antropologi hanno firmato un testo in cui accusano Daoud di «riciclare i più triti cliché orientalisti», di contrapporre un «mondo della liberazione e dell’educazione» (l’Occidente) a un «mondo della sottomissione e dell’alienazione» (l’Oriente islamico), e di «produrre l’immagine di una fiumana di predatori sessuali potenziali, perché tutti colpiti dagli stessi mali psicologici. Pegida non chiedeva tanto». In conclusione dell’articolo Daoud viene tacciato di islamofobia, la parola definitiva che vale come una scomunica. «Trovo immorale e insopportabile che mi vengano impartite lezioni dai caffé parigini», si sfoga Daoud, che ieri ha scritto una «Lettera a un amico straniero» sul Quotidien d’Oran annunciando l’addio al giornalismo dopo oltre vent’anni. «Viviamo nell’epoca delle ingiunzioni: o stai da una parte o dall’altra. Ogni volta che scrivo qualcosa scateno reazioni eccessive, ricevo tonnellate di insulti e minacce e per fortuna anche manifestazioni di sostegno. Ma non mi trovo a mio agio, perché non sono un provocatore, sono solo un uomo libero che vuole esprimere la sua opinione. Questo non è più possibile». Ha fatto molto male a Daoud il riferimento a Pegida, il movimento xenofobo. «La differenza fondamentale tra me e gli estremisti di destra è che loro criticano l’islamismo per rifiutare l’altro, io per accoglierlo. Il loro scopo è l’esclusione, il mio è la condivisione. Io non sono affatto islamofobo, dico che la religione deve essere una scelta, non un’imposizione. Ma la Francia è un Paese con molti tabù, e io adesso ne faccio le spese».

2/ Parla di «porno-islamismo», viene messo alla gogna. Ma in Francia non erano tutti Charlie?, di Leone Grotti

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo scritto da Leone Grotti il 17/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

«Basta, abbandono il giornalismo. In Francia è diventato troppo difficile esprimere le proprie opinioni». Ha lasciato tutti spiazzati l’annuncio di Kamel Daoud (foto in basso), scrittore algerino e fresco vincitore (11 febbraio) in Francia del premio Jean-Luc Lagardère come miglior giornalista dell’anno. Editorialista di Le Point, cura una rubrica per il secondo quotidiano più importante d’Algeria, Quotidien d’Oran, e collabora con New York TimesLe Monde e La Repubblica.

DOPO COLONIA. Perché uno scrittore all’apice della carriera – nel 2014 è arrivato in finale al Prix Goncourt con il romanzo Il caso Meursault – dovrebbe abbandonare il giornalismo? Intervistato ieri dal Corriere della Sera, Daoud si dice sfinito dalle polemiche suscitate da due suoi articoli, apparsi pochi giorni fa su Le Monde e New York Times, nei quali denuncia «la miseria sessuale nel mondo arabo» a partire dai preoccupanti fatti di Colonia.

ISLAM E DONNA. Negli articoli ha denunciato come le donne, «in molti posti del mondo arabo», siano «velate, lapidate e uccise. Come minimo accusate di seminare discordia in una società ideale» a riprova che «il mondo musulmano più in generale ha una relazione malata con le donne». Queste infatti sono «definite da relazioni di proprietà, come mogli di X o figlie di Y» e il modo in cui vengono occultate nasconde una specie di «isteria», di «inquisizione». Attorno al corpo delle donne, insomma, c’è una vera e propria «ossessione». E questo fa sì che, paradossalmente, «il sesso sia ovunque». Daoud arriva a parlare di «porno-islamismo» e di «fatwa grottesche».

«NON BASTA ACCOGLIERE». E per quanto riguarda la promessa di un Paradiso pieno di vergini per chi si fa saltare in aria in nome di Allah, «i kamikaze si arrendono a una logica surreale e terrificante: la via all’orgasmo passa dalla morte, non dall’amore». Ed ora che, come dimostra la notte di San Silvestro a Colonia, «questa relazione patologica che parte del mondo arabo ha con le donne è esplosa sulla scena europea», noi «non possiamo solo offrire asilo ai corpi [dei migranti] ma dobbiamo anche convincere le anime a cambiare. Non basta accogliere, consegnare documenti o una casa per cavarsela». Questo non significa che «i rifugiati siano tutti dei “selvaggi” (…) riducibili a una minoranza delinquente», questa minoranza però «ci pone il problema dei “valori” da condividere, da imporre, da difendere e da far capire. Questo ci pone il problema della responsabilità che dobbiamo assumerci dopo l’accoglienza».

«ISLAMOFOBO». Per questo articolo lo scrittore algerino è stato accusato sul Le Monde da 19 intellettuali di «riciclare i cliché orientalisti più usurati» per fare «banali discorsi razzisti». A Daoud è stato fatto innanzitutto notare, e non a torto, che anche l’Occidente ha i suoi bei problemi con il corpo della donna, sempre più svilito, commercializzato e ridotto a oggetto. Poi però è stato accusato di «sposare l’islamofobia divenuta ormai maggioritaria nel contesto europeo». Dopo questa invettiva, il miglior giornalista dell’anno in Francia ha deciso di ritirarsi dalla professione.

«ISLAMISTI MI LANCIANO FATWA». Prima di andarsene, però, ha sottolineato le preoccupanti similitudini tra Algeria e Francia: «Ho dato molto in questi anni, ho scritto tanto, ho cercato di impegnarmi. Ma le pressioni sono troppo forti: in Algeria gli islamisti mi lanciano la fatwa, e adesso in Occidente c’è chi mi accusa di islamofobia. È un insulto immorale, un’inquisizione. In Francia è diventato troppo difficile esprimere le proprie opinioni».

«IMPOSSIBILE ESPRIMERE UN’OPINIONE». Nella terra che si vanta di essere Charlie, basta fare una minima critica all’islam per essere demonizzati e attaccati. «Ogni volta che scrivo qualcosa scateno reazioni eccessive, ricevo tonnellate di insulti e minacce e per fortuna anche manifestazioni di sostegno. Ma non mi trovo a mio agio, perché non sono un provocatore, sono solo un uomo libero che vuole esprimere la sua opinione. Questo non è più possibile». E a chi lo definisce xenofobo risponde: «La differenza fondamentale tra me e gli estremisti di destra è che loro criticano l’islamismo per rifiutare l’altro, io per accoglierlo. Il loro scopo è l’esclusione, il mio è la condivisione. Io non sono affatto islamofobo, dico che la religione deve essere una scelta, non un’imposizione. Ma la Francia è un Paese con molti tabù, e io adesso ne faccio le spese». Speriamo solo che Daoud ci ripensi e ricominci a scrivere, per non doverci privare di un autore che ha avuto l’acutezza di dare questa definizione dell’Arabia Saudita: «Un Isis che ce l’ha fatta».

3/ «Ho scritto non solo perché volevo avere successo, ma anche perché avevo il terrore di vivere una vita senza senso. Ho scritto spesso, troppo, con furore, collera e divertimento. Ho detto quello che pensavo sulla sorte delle donne nel nostro Paese, sulla libertà, sulla religione e su altre grandi questioni che possono condurci alla consapevolezza o all’abdicazione e all’integralismo». La lettera di Kamel Daoud

Riprendiamo da La Repubblica del 16/2/2016 una lettera dello scrittore algerino Kamel Daoud. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

CARO AMICO, ho letto con attenzione la tua lettera. Sono rimasto colpito dalla sua generosità e lucidità. Curiosamente, è venuta a confortare una decisione che avevo già preso in questi giorni, e con gli stessi argomenti.

Tuttavia, vorrei rispondere ancora. Scrivo da tempo con lo stesso spirito, che non si cura delle opinioni altrui quando sono predominanti. Mi ha regalato una libertà di tono, uno stile, forse, ma anche una libertà che era insolenza e irresponsabilità o audacia. O anche ingenuità. Ad alcuni piaceva, altri non riuscivano ad accettarla. Ho stuzzicato le radicalità e ho cercato di difendere la mia libertà di fronte a cliché che mi facevano orrore. Ho cercato anche di pensare. Attraverso l’articolo di giornale o la letteratura. Non solo perché volevo avere successo, ma anche perché avevo il terrore di vivere una vita senza senso. Il giornalismo in Algeria, durante gli anni duri, mi aveva garantito di vivere la metafora dello scritto, il mito dell’esperienza. E dunque ho scritto spesso, troppo, con furore, collera e divertimento. Ho detto quello che pensavo sulla sorte delle donne nel nostro Paese, sulla libertà, sulla religione e su altre grandi questioni che possono condurci alla consapevolezza o all’abdicazione e all’integralismo. A seconda dei nostri scopi nella vita.

Non fosse che oggi, con il successo mediatico, ho finito per capire due o tre cose. Innanzitutto che viviamo ormai in un’epoca in cui se non sei da un lato, sei dall’altro: del testo su Colonia, una parte, quella sulla donna, l’avevo scritta anni fa. All’epoca non suscitò quasi nessuna reazione. Oggi l’epoca è cambiata: l’irritazione spinge a interpretare, e l’interpretazione spinge al processo. Avevo scritto questo articolo e quello del New York Times a inizio gennaio: la loro successione nel tempo dunque è un caso, non un accanimento da parte mia. Avevo scritto, spinto dalla vergogna e dalla collera contro la mia gente, e perché vivo in questo Paese, in questa terra. Avevo esposto il mio pensiero e la mia analisi su un aspetto che non può essere occultato sotto il pretesto della “carità culturale”. Sono scrittore e non scrivo saggi universitari. È anche un’emozione. Che degli universitari oggi lancino una petizione contro di me per quel testo lo trovo immorale, perché non vivono nella mia carne o nella mia terra, e trovo illegittimo, se non scandaloso, che certi mi comminino una sentenza di islamofobia dalla sicurezza e dalle comodità delle capitali d’Occidente e dei suoi caffè. Il tutto servito sotto forma di processo staliniano e con il pregiudizio dell’esperto: faccio la paternale a un indigeno perché parlo meglio degli interessi degli altri indigeni e post- decolonizzati. E in nome di entrambi, ma con il mio nome. Per me è un atteggiamento intollerabile. Continuo a pensare che sia immorale offrirmi in pasto all’odio locale con il verdetto di islamofobia, che oggi serve anche da inquisizione. Penso che sia vergognoso accusarmi di questo tenendosi bene a distanza dal quotidiano mio e della mia gente.

L’islam è una bella religione a seconda dell’uomo che la indossa, ma a me piace che le religioni siano un cammino verso un dio, che risuonino dei passi di un uomo in marcia. Gli imboscati che hanno promosso la petizione contro di me non misurano la conseguenza delle loro azioni e del tribunale sulla vita altrui.

Caro amico, ho capito anche che l’epoca è dura. Come un tempo lo scrittore che veniva dal freddo, così oggi lo scrittore che viene dal mondo cosiddetto arabo è preso in trappola, intimidito, spinto via, cacciato. La minaccia della sovrainterpretazione incombe su di lui e i media lo tormentano per confermare chi una visione, chi un rifiuto e una negazione. La sorte della donna è legata al mio futuro, al futuro della mia gente. Il desiderio è malato, nelle nostre terre, e il corpo è accerchiato. Non possiamo negarlo e lo devo dire e denunciare. Ma improvvisamente mi ritrovo responsabile di cosa leggeranno a seconda delle varie terre e arie. Denunciare la teocrazia diffusa da noi altrove diventa una tesi da islamofobi. È colpa mia? In parte sì. Ma è anche colpa della nostra epoca, il suo mal du siècle. È quanto è successo con l’editoriale su Colonia. Me ne faccio carico, ma mi sento sconsolato per l’uso che se ne può fare come negazione e rifiuto di umanità dell’Altro. Lo scrittore venuto dalle terre di Allah si trova oggi al centro di sollecitazioni mediatiche intollerabili. Non posso farci niente, ma posso sottrarmici: con la prudenza, come credevo prima, ma anche con il silenzio, come scelgo di fare oggi.

E allora mi occuperò di letteratura. Fra non molto abbandonerò il giornalismo. Mi dedicherò ad ascoltare gli alberi o i cuori. A leggere. A ricreare dentro di me la fiducia e la tranquillità. A esplorare. Non ad abdicare, ma ad andare oltre il gioco delle mode e dei media. Mi riprometto di scavare e non declamare.

(traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:39 pm | | Default

"Stepchild", un colpo alle adozioni, di Luciano Moia

Riprendiamo da Avvenire del 17/2/2016 un articolo di . Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (21/2/2016)

Non si vota solo sul disegno di legge Cirinnà. Si vota anche sul destino delle adozioni. L’Italia deve decidere se sostenere e promuovere questo istituto che oggi è in gravissima crisi, oppure affossare definitivamente una scelta che rimane tra le più alte espressioni di solidarietà umana. Dare a un bambino che ne è privo la miglior famiglia possibile – e non il contrario – dovrebbe rappresentare anche un obiettivo politico nell’accezione più nobile. Invece, se il ddl sulle unioni civili passerà senza correzioni, soprattutto con l’articolo sulla stepchild adoption, tutto l’intero pianeta adozioni subirà un contraccolpo durissimo. Non soltanto in termini culturali, con il ritorno a una logica possessiva che trent’anni fa – era il 1983 – la legge sulle adozioni aveva tentato di cancellare. Ma soprattutto in termini numerici.

Le adozioni internazionali si dimezzeranno. Quelle nazionali continueranno nella loro stagnazione per un combinato disposto determinato da scelte politiche, cultura giuridica e malaburocrazia. Non vogliamo fare del terrorismo sociale. Vogliamo rilanciare un allarme che le maggiori associazioni del settore si sentono di esprimere, pur con varietà di accenti. E proprio per evitare discorsi demagogici, partiamo dai numeri. 

LE STATISTICHE 
Che le adozioni internazionali siano in calo in tutto il mondo è un dato di fatto incontestabile. Gli Stati Uniti, il Paese più generoso, che accoglieva fino a pochi anni fa oltre diecimila bambini ogni anno, sono scesi ai 6.441 del 2014. La Francia è passata dai 1.995 bambini del 2011 ai 1.069 dello scorso anno. Il nostro Paese da oltre 4mila adozioni nel 2011 è sceso sotto quota duemila lo scorso anno. Si tratta di una stima, largamente condivisa, perché da oltre due anni il nostro governo non comunica i dati ufficiali. Un problema che affronteremo tra poco. Torniamo al calo delle adozioni. Tante le cause: certo ha pesato la crisi economica, ma anche nuove scelte politiche, con legislazioni più attente ai minori, da parte dei Paesi che permettono tradizionalmente l’adozione. E poi ci sono altri fattori. Non è un mistero che nella decisione di 'chiudere le porte' o comunque di operare una selezione più rigorosa, siano risultate determinanti anche le nuove leggi favorevoli alle nozze omosessuali approvate in vari Paesi europei e negli Stati Uniti.

«NO ALLE COPPIE OMOSESSUALI» 
La posizione più intransigente è quella della Russia, da cui arrivano in Occidente migliaia di bambini ogni anno. Quando Stati Uniti, Francia e Spagna, in tempi diversi, hanno aperto alle coppie gay, i russi hanno bloccato le convenzioni. Poi la situazione si è andata risolvendo sulla base di accordi bilaterali in cui il Paese dove avviene l’adozione deve sottoscrivere un impegno formale a non collocare il bambino presso coppie omosessuali, anche per quanto riguarda i cosiddetti 'fallimenti adottivi'. «Se l’Italia votasse la stepchild adoption – osserva Marco Griffini, presidente Aibi – è facile immaginare che anche per il nostro Paese si alzerebbero muri. Considerando che dalla Russia arriva almeno un quinto dei bambini adottati in Italia, il calcolo è presto fatto». Ma, dall’elenco delle aree d’arrivo andrebbero cancellati anche il Congo e altri Paesi africani, altrettanto fermi nella decisione di non concedere i loro piccoli alle coppie dello stesso sesso. E nuove difficoltà nascerebbero probabilmente anche con alcuni Paesi dell’America Latina. 

LE CONSEGUENZE PER L’ITALIA 
Quanti bambini 'perderebbe' allora il nostro Paese in caso di apertura alle coppie omosessuali? Aibi stima un dimezzamento secco. Da circa duemila e meno di mille. Che per un Paese ormai a crescita zero non è proprio il massimo. Ma forse un effetto altrettanto grave sarebbe quello ipotizzato da Frida Tonizzo, memoria storica dell’impegno associativo, che fa parte della segreteria nazionale Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie): «Questo dibattito tutto giocato sui diritti degli adulti ci fa arretrare di un trentennio. Rischiamo di svilire tutto il significato culturale delle adozioni. E le derive, anche per quanto riguarda quelle internazionali – pronostica Tonizzo – ci saranno sicuramente. E non saranno leggere». Concorda Marco Mazzi, presidente di Famiglie per l’accoglienza: «La cultura che sta dietro la stepchild adoption è quella che pretende di mettere al centro l’adulto e non il bambino. Non possiamo piegare la realtà al nostro desiderio, dimenticando che di fronte a noi c’è comunque una persona che ha problemi e che chiede il nostro aiuto. L’adozione diventa dono se si accetta di fare un cammino insieme, mettendo al primo posto le esigenze dei piccoli». 

ADOZIONI DA RIVEDERE 
Il tema stepchild adoption diventerebbe dirompente anche perché si inserisce in un quadro politico e legislativo che, per quanto riguarda le adozioni, è appesantito da ritardi e inadempienze. La legge 184 del 1983 andrebbe profondamente rivista, ma il tema non è neppure all’ordine del giorno. Come nessuno sembra preoccuparsi del fatto che la Cai, Commissione per le adozioni internazionali – che dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri –, non si riunisca da circa due anni e che, nello stesso arco di tempo, non abbia più pubblicato alcun dato relativo al numero delle adozioni. Ma non si tratta dell’unico mistero. L’Italia è l’unico Paese occidentale che non disponga di un registro dei bambini adottabili. Era previsto nella legge 149 del 2001 che ha disposto la chiusura degli orfanotrofi, ma il Ministero della Giustizia, incaricato del compito, non ha mai provveduto nonostante una sentenza del Tar. Motivo? I 29 Tribunali dei minori esistenti sul territorio nazionale non dispongono di archivio informatico. Un po’ assurdo, se non incredibile. Come tutta questa vicenda.

Redazione de Gliscritti | Domenica 21 Febbraio 2016 - 3:38 pm | | Default
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Il libro di Qoèlet: stato della ricerca attuale e riflessione ermeneutica. Due lezioni di Ludger Schwienhorst-Schönberger tenute presso il Pontificio Istituto Biblico

Mettiamo a disposizione sul nostro sito il testo delle due lezioni tenute dal prof. Ludger Schwienhorst-Schönberger della Universität Wien presso il Pontificio Istituto Biblico il 26/1/2016 nel corso del Seminario di aggiornamento per studiosi e docenti di S. Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico (25-29 gennaio 2016) dedicato ai Libri sapienziali. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Libri poetici e sapienziali nella sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

Indice

I/ Il libro di Qoèlet: stato della ricerca attuale, di Ludger Schwienhorst-Schönberger

1. Introduzione: Un libro difficile e affascinante allo stesso tempo

Il libro di Qoèlet esercita un fascino speciale su molti contemporanei. Alcune delle sue frasi e dei suoi temi sono entrati nelle lingue di molte nazioni come modi di dire. Per esempio: «Non c'è niente di nuovo sotto il sole» (1,9), oppure: «Vanità delle vanità, ... Tutto è vanità» (1,2; 12,8). Il versetto-motto «Vanitas vanitatum, omnia vanitas» fu scelto come motto della Imitatio Christi ed è divenuta la frase programmatica del contemptus mundi cristiano[1].

D'altro canto, però, questo libro esercita un particolare effetto anche a causa del suo contenuto. Insieme al filosofo delle religioni Rudolf Otto si potrebbe definire questo effetto un «mysterium tremendum et fascinosum». Il libro di Qoèlet affascina, ma incute anche timore. Affascina soprattutto coloro che hanno interrotto il loro rapporto con la fede ortodossa giudaica o cristiana o se ne sono allontanati: gli scettici, gli agnostici, gli intellettuali. Una volta Norbert Lohfink[2] lo ha chiamato «La porta di servizio scettica per entrare nella Bibbia». Inoltre, Qoèlet è amato soprattutto da quanti vi trovano dei temi che non trovano invece negli altri libri della Bibbia. Se l'apostolo Paolo esorta a vivere «senza mangiare e bere smisuratamente e senza sregolatezze» (Rm 13,13; cf. Is 22,13), Qoèlet invece consiglia di godersi la vita: «Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace [or. ted.: "piena di vanità"] esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole». Se in tutto l'Antico Testamento l'osservanza della Torah svolge un ruolo essenziale, Qoèlet invece sembra mettere in guardia da un'eccessiva devozione per la Legge, invitando simpaticamente a una via media: «Accade che un giusto vada (presto) in rovina nonostante la sua giustizia e che un malvagio viva a lungo nonostante la sua iniquità. Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio oltre misura! Perché vuoi rovinarti?» (7,15s.).

Ma accade anche che non pochi siano intimiditi da Qoèlet. Non riescono infatti a collegare il contenuto del libro con quanto si trova scritto su Dio e sull'uomo negli altri libri della Bibbia. Di questo gruppo fanno parte importanti esegeti, come ad esempio Aarre Lauha, Diethelm Michel, Bernhard Lang, Michael Fox, Antoon Schoors e altri. Tra tutti è Diethelm Michel ad aver espresso in modo più chiaro la sua posizione critica verso Qoèlet. Scrive, infatti:

«Dal punto di vista della purezza della dottrina avevano ragione quelli che non avevano voluto Qoèlet nel canone... Con un grande sforzo di pensiero, Qoèlet ha cercato di trovare un senso ultimo nel mondo e di dire qualcosa su Dio basandosi sulle sue conoscenze. È assolutamente certo che le sue affermazioni su quel Dio che troneggia in cielo e che non si può mai incontrare, non si possono accordare con quanto altrimenti si dice su Dio nell'Antico Testamento: che cioè si è rivelato, è intervenuto nella storia agendo ed eleggendo e che lo si può anche riconoscere e adorare in questo suo agire elettivo. Stando alla testimonianza tanto dell'Antico quanto del Nuovo Testamento si deve parlare di Dio in altri termini».[3]

Questo giudizio è molto diffuso, sia pure con varie sfumature. Mi esonero dal produrre ulteriori attestazioni. Come Nuria Calduch-Benages ha ottimamente detto: «Qoèlet è un libro difficile e affascinante allo stesso tempo».[4]

Ai fini di un' esegesi scientifica, di fronte a queste percezioni ambivalenti del libro ci si chiede se tali ambivalenze possano essere superate o almeno relativizzate ricorrendo a un tipo di interpretazione ponderata e verificabile in maniera intersoggettiva. Alla luce di tale interrogativo, in questa mia prima conferenza vorrei proporvi una breve impressione di alcune interpretazioni recenti di questo libro.

2. La datazione

Su certe questioni introduttive classiche, da alcuni decenni si è creato un vasto consenso nell'esegesi. Tra queste c'è la questione della datazione del libro. Quasi tutti gli esegeti attribuiscono questo libro all'epoca postesilica, preferibilmente al terzo secolo. A favore di questo giudizio parlano il contenuto e soprattutto il linguaggio. In due ampi studi, Antoon Schoors si è occupato del linguaggio del libro, confermando la sua datazione all'epoca successiva all'esilio. Una minoranza preferisce attribuire la sua formazione all'epoca persiana (tra il quinto e il quarto secolo; così ad es. C.L. Seow[5]), mentre la maggioranza la attribuisce all'epoca ellenistica (terzo secolo). Tra questi c'è Anton Schoors, secondo il quale «that it is easier to situate Qoh's language in the Hellenistic than in the Persian period».[6]

3. È un trattato o una raccolta di sentenze («Sentenzensammlung»)?

Si continua a discutere se il libro di Qoèlet sia una compilazione di singole sentenze senza un ordine preciso («Sentenzensammlung») o un trattato dalla composizione curata («Komposition»). Vi si può riconoscere una chiara struttura oppure l'autore ha messo insieme e commentato dei detti in modo più o meno associativo? La tendenza degli ultimi anni - come del resto anche per molti altri libri dell'Antico Testamento - è quella di considerarlo una composizione. Una serie di esegeti, come Vittoria d'Alario, Franz-Josef Backhaus, Norbert Lohfink, Thomas Krüger, Ludger Schwienhorst-Schönberger e altri, ha cercato di mostrare che il libro presenta una chiara struttura.[7] Tuttavia, le proposte divergono tra loro. La presentazione e la discussione dei singoli modelli in questa sede ci porterebbe troppo lontano. Esiste però un vasto consenso sul fatto che 1,12-2,26 presenta la cosiddetta parodia regale. Si tratta di un brano nel quale Qoèlet si cala nel ruolo di un re. Il ruolo assunto ricorda molto re Salomone. L'inizio della parodia regale appare evidente in 1,12: «Io, Qoèlet, fui re d'Israele a Gerusalemme». Non così chiara appare però la fine della parodia regale e potrebbe non essere un caso. La finzione di essere un re resta per certi versi aperta. In genere si accetta che finisca con 2,24-26, quando Qoèlet da re si trasforma in saggio. La corretta comprensione della parodia regale è di fondamentale importanza per l'interpretazione del libro. Vi ritorneremo in seguito.

Il modello da me rappresentato comprende una struttura quadripartita del libro in analogia alla struttura quadripartita del discorso classico antico:[8]

1,1 Titolo del libro

  1,2 Versetto-cornice e -motto («soffio di vento [BCEI: vanità]»)

    1,3-3,22 Esposizione (propositio):Contenuto e condizione di una possibile felicità umana

    4,1-6,9 Dimostrazione (explicatio):Discussione di una concezione prefilosofica della fortuna

    6,10-8,17 Difesa (refutatio):Discussione di definizioni alternative della fortuna

    9,1-12,7 Applicazione (applicatio):Esortazione alla gioia e ad agire fattivamente

  12,8 Versetto-cornice e -motto («soffio di vento [BCEI: vanità]»)

12,9-14 Parole conclusive

Tuttavia, ci sono sempre altre opinioni secondo cui il libro rappresenta una compilazione senza un ordine più o meno preciso di diversi temi e sentenze. Secondo Annette Schellenberg, nel libro «non si può riconoscere una struttura generale che permetta di distinguere tra loro in modo chiaro differenti parti principali».[9] Molti esegeti sostengono una posizione intermedia seguendo la tradizione di Walther Zimmerli,[10] come ad esempio José Vilchez Lindez («una solución intermedia»)[11] o più recentemente Antoon Schoors. Nel libro allora non si troverebbe certamente una chiara struttura letteraria - così Schoors - ma un'«unità tematica» («thematic unity»).[12]

Le opinioni degli esegeti continuano a divergere molto tra loro sul modo di determinare il contenuto di questa «unità tematica» e su come collocarla nel contesto biblico. Ma prima di occuparcene in modo più dettagliato, vorrei accennare ancora a un altro punto, importante e molto discusso: vale a dire il modo con cui spiegare le tensioni e le contraddizioni reali o presunte del libro.

4. Tensioni e contraddizioni

Sulla questione si è creato più di recente un certo consenso. Prima di tutto diciamo qualcosa sul fenomeno stesso. Nel libro di Qoèlet vi sono una serie di affermazioni, i cui contenuti appaiono in tensione o in contraddizione tra loro. Facciamo due esempi:

 (1) In 2,1-2 Qoèlet condanna la gioia come vanità:

«Io dicevo fra me: "Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia.
Gusta il piacere!" Ma ecco, anche questo è vanità.
Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: "A che giova?"».

Altrove, però, Qoèlet loda la gioia perché è un dono di Dio ed è l'unico bene che rimane all'uomo nella sua vita passeggera sotto il sole. Si dice allora in 3,12s.:

«Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio».

Verso la fine del libro, nel v. 11,9 esorta il giovane a rallegrarsi nei giorni della
sua giovinezza:

«Godi, o giovane, nella tua giovinezza,
e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù».

In che modo si possono accordare tra loro queste asserzioni sulla gioia così chiaramente diverse?

 (2) Ma ci sono ulteriori contraddizioni e tensioni. In 7,26 si trova un'affermazione misogina, mentre in 9,9 Qoèlet esorta a godere la vita con la (propria) donna amata:

7,26: «Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso».

9,9: «Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole».

Come si possono spiegare queste tensioni e contraddizioni? Nella prima metà del ventesimo secolo, si preferiva spiegare le contraddizioni ricorrendo all'analisi letteraria, come si faceva anche nel caso del Pentateuco. Si ipotizzava allora la presenza di diversi strati letterari. Una posizione estrema era quella rappresentata da Carl Siegfried,[13] il quale arrivava a supporre nel complesso nove strati letterari da cui sarebbe stato composto il libro. Oggi si registrano ancora solo alcune isolate posizioni (radicali) di analisi letteraria, ad esempio quelle di Renate Brandscheidt e di Martin Rose,[14] che però giungono a risultati completamente differenti. Non mi occuperò qui più approfonditamente di ciò.

Gran parte degli esegeti oggi preferiscono un altro modello esplicativo, il cosiddetto modello delle citazioni [Zitatenmodell].Secondo questo modello, non tutte le affermazioni del libro riportano la concezione di Qoèlet. Spesso egli cita le concezioni di una sapienza tradizionale, aggiungendovi alla fine un commento critico. Per ritornare alla già citata concezione misogina, si può molto probabilmente ritenere che Qoèlet abbia certamente trovato questa concezione,senza però trovarne una conferma: «Continuamente trovo (questa concezione): "amara più della morte è la donna"». Questa concezione misogina è tuttavia respinta da Qoèlet con il riferimento al racconto della creazione: «Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni».

Grazie alla cosiddetta teoria delle citazioni si possono spiegare molte tensioni del libro. D'altro canto si dovrebbe tener conto del fatto che ogni tanto Qoèlet pone una accanto all'altra opinioni diverse senza commentarle per invitare il lettore a farsi egli stesso un'opinione. Molti esegeti sottolineano il carattere aperto del libro. Soprattutto l'approccio interpretativo orientato alla ricezionemette in evidenza che la mancanza di una chiara distinzione tra citazione e commento potrebbe essere intenzionale, al fine di coinvolgere il lettore in modo particolare nella costituzione della comprensione del testo.

5. Il tema

5.1. Tutto assurdo?

A mio avviso, la questione più importante e teologicamente più interessante riguardo al libro di Qoèlet è questa: Qual è veramente il messaggio del libro? Si può assolutamente dire che il libro rappresenta una dottrina unitaria? E se fosse così, in che consiste questa dottrina, qual è il tema del libro? Come sempre, su questa domanda centrale le opinioni degli esegeti divergono tra loro. In generale si può dire che la cosiddetta spiegazione pessimistica, come era rappresentata ad esempio da Aarre Lauha e da Diethelrm Michel, in questi ultimi anni ha perso di importanza. In genere oggi si mette in evidenza che il libro è «profondamente radicato nella tradizione israelitico-protogiudaica», come ha scritto di recente Annette Schellenberg nel suo commentario.[15]

Tuttavia, le opinioni su come si debba inquadrare esattamente la posizione di Qoèlet all'interno della tradizione israelitico-giudaica divergono molto tra loro. Di recente, Antoon Schoors ha ripreso la posizione di Diethelm Michel. Secondo Schoors, il messaggio del libro è questo: tutto è assurdo.

La reazione appropriata di fronte a questa realtà è rappresentata dal godersi la vita.[16] «The thesis... of the book is presented in 1:2, "AlI is absurdity". The author does not "prove" his thesis in a logical exposition, but instead he offers various musings that reveal that absurdity».[17] Sul modo con cui Qoèlet immagina Dio scrive Schoors: «...we cannot be sure that Qohelet's God is not YHWH. However, he is very different from the YHWH which the other biblical books depict for us. Qoh.'s image of God leaves a fatalistic impression».[18]

Si tratta, a mio avviso, di una spiegazione sbagliata. Una sua discussione dettagliata ci porterebbe oltre i limiti di questa conferenza. Vorrei, invece, presentare la mia concezione, fondandola su delle argomentazioni.

5.2. Gioia nella coscienza della presenza di Dio

Ovviamente ciò non può avvenire in maniera esauriente. A tale proposito ho scritto un commentario dettagliato. Vorrei tuttavia mostrare in che modo vada compreso il tema del libro, vale a dire l'esortazione alla gioia.

È largamente accettato il fatto che Qoèlet esorta alla gioia. Per un totale di sette volte incontriamo questo tema espresso con formulazioni dal linguaggio simile: 2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-9; 11,9-12,1.[19]

Perciò potrebbe non essere un caso il fatto che molti esegeti vedono nell'esortazione alla gioia il tema centrale del libro. Secondo Marie Maussion, è la gioia il filo conduttore del libro: «...on ne peut que constater que la joie est le fil conducteur de cette réflexion existentielle».[20]

A tale proposito si pongono due interrogativi:

1. Di che genere di gioia si tratta?

2. Qual è il rapporto tra le affermazioni positive e quelle (poche) negative sulla gioia?

Riguardo al primo interrogativo: quelli che vedono nel messaggio del libro una filosofia dell'assurdo, intendono la gioia di cui parla Qoèlet come una specie di promessa confortante, una specie di fuga. Aiutandosi con la gioia e il godimento della vita, l'uomo deve dimenticare l'assurda realtà della sua vita. Bernhard Lang parla esplicitamente della gioia di Qoèlet come di un narcotico.[21]

Riguardo poi al secondo interrogativo: nel libro ci sono delle affermazioni che rifiutano la gioia o la relativizzano. Il passo più importante potrebbe essere Qo 2,1-2, che ho già citato:

«Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: "A che giova?"».

Un altro passo è Qo 7,13s.,dove si dice:

«Osserva l'opera di Dio:
chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?
Nel giorno lieto sta' allegro
e nel giorno triste rifletti
:
Dio ha fatto tanto l'uno quanto l'altro»

In quest'ultimo passo citato è evidente che nella vita di ogni uomo ci sono sempre anche dei giorni tristi. Nasce dunque l'impressione che ci siano dei giorni in cui l'uomo non può gioire. In generale, nel libro di Qoèlet si può osservare la tendenza a sottolineare particolarmente l'aspetto dell'indisponibilità della vita umana. In un dialogo critico con una sapienza orientata all'ottimismo, ricorrendo a molti esempi Qoèlet mostra che l'uomo non «ha in pugno» tutto. Molte cose, infatti, gli capitano come un destino al quale non può sfuggire. A tale riguardo, molti esegeti interpretano la gioia di Qoèlet anche come uno stato d'animo che dipende dalle circostanze esterne, che in fondo va e viene a seconda dell'imprevedibilità di un «arbitrio divino». Per Qoèlet, così scrive Lauha, l'uomo è «impotente...di fronte ai capricci del lontano despota celeste».[22]

A mio avviso, questa è un'interpretazione limitata. La gioia di cui parla Qoèlet è un atteggiamento che scaturisce dalla coscienza della presenza di Dio. Non si può identificare con un sentimento piacevole che va e viene a seconda delle circostanze esteriori. Quella a cui esorta Qoèlet è una gioia nella quale vengono trascesi gli stati d'animo piacevoli o spiacevoli. È questa una tesi che vorrei spiegare qui di seguito.

Nel testo poetico conclusivo, Qoèlet esorta il giovane alla gioia nella giovinezza: «Godi, o giovane, nella tua giovinezza!» (11,9). Ciò potrebbe suscitare l'impressione che la gioia sia riservata alla giovinezza, poiché nel seguito del testo poetico Qoèlet descrive i giorni faticosi della vecchiaia e della morte che alla fine sopraggiunge (12,1-8). Ma per opporsi all'impressione che la gioia sia riservata alla giovinezza, Qoèlet premette al testo poetico conclusivo un'affermazione, da intendersi come sua interpretazione previa e che dice così (Qo 11,8):

«Anche se l'uomo vive molti anni, se li goda tutti».

Antoon Schoors sostiene, a mio avviso giustamente, l'idea che in questo caso il termine ismḥ sia da ritenersi uno iussivo (787): «Even if a man should live many years, he ought to take pleasure in them all». Ma questo significa che Qoèlet esorta a una gioia che deve pervadere tutta la vita dell'uomo. Allo stesso tempo però sa che ci sono i «giorni tenebrosi». Nel versetto immediatamente successivo dice esplicitamente che anche questi giorni saranno numerosi: «E pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti» (11,8). A meno che in questo caso Qoèlet non si contraddica, per gioia deve intendersi un atteggiamento da cui l'uomo non deve allontanarsi neanche nei giorni delle tenebre. Con l'espressione «i giorni delle tenebre» si potrebbero voler dire due cose: o dei giorni nei quali l'uomo è colpito da una sciagura, nei quali le cose non vanno bene, il «giorno triste» di cui parla Qo 7,14; oppure si potrebbero voler intendere anche i giorni, che vengono descritti nel seguito del testo poetico (12,1ss.), della malattia e della faticosa vecchiaia, quando risuona ineludibile la voce della morte (12,5).

Quando Qoèlet esorta alla gioia, non vuole significare la gioia superficiale di un uomo dedito ai piaceri, che si immerge nel divertimento per ignorare il proprio vuoto interiore e la propria disperazione. Qoèlet, invece, intende una gioia che proviene dalle mani di Dio e che deve comprendere e pervadere tutta la vita dell'uomo, tanto i suoi giorni buoni quanto quelli tristi. Ma ciò significa anche che Qoèlet smantella un'interpretazione superficiale della gioia. In questo modo, a mio avviso, si risolvono i problemi a cui abbiamo accennato all'inizio.

Partendo da questa prospettiva esaminiamo (ancora una volta) i passi corrispondenti.

Tenendo presenti le osservazioni sinora fatte, si spiegano le affermazioni negative sulla gioia di 2,1-2 che abbiamo già citato:

«Io dicevo fra me: "Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia.
Gusta il piacere!" Ma ecco, anche questo è vanità.
Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: "A che giova?"».

In questo passo, la gioia si colloca sullo sfondo della parodia regale, la quale smantella un tipo di vita in cui l'uomo si innalza a homo faber. Nel suo modo di vivere riferito totalmente a se stesso (si osservi la ricorrenza per un totale di nove volte del sintagma li «a me, per me» in 2,4-9), «re Qoèlet» persegue proprio la gioia e i piaceri per ignorare la sua disperazione. Vive ciò che Neil Postman, nella sua opera di analisi della cultura, ha descritto come «Amusing Ourselves to Death» (New York 1985). Ed effettivamente, con questo «esperimento regale», Qoèlet cade nella disperazione. Una vita fondata sull'edonismo e che prende consapevolezza di sé, arriva a odiare l'esistenza e deve confessare insieme a Qoèlet: «Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole» (2,17). Tutti i giorni di una vita trascorsa a quel modo «non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa» (2,23).

Colpisce il fatto che nella parodia regale Dio non svolge alcun ruolo. Il re ha preso, per così dire, il ruolo di Dio. Egli solo si costruisce un giardino regale che sembra alludere chiaramente al paradiso di Gen 2 (cf. 2,4-11). Ma questo esperimento fallisce. Su questa gioia sbagliata, in un certo senso edonistica, senza Dio, spicca ora chiaramente l'unità testuale Qo 2,24-26, dove si parla di una gioia proveniente dalle mani di Dio:

Non nell'uomo ha origine la felicità quando egli mangia e beve e alla sua anima mostra il bene nelle sue fatiche. Invece io stesso ho visto che ciò proviene dalle mani di Dio (2,24).

Per Qoèlet si può parlare propriamente di gioia solo quando si parla anche di Dio. È quello che mostrano le altre attestazioni del tema, le quali sono disposte in modo tale da far emergere, dopo una lettura progressiva, la gioia come una realtà che pervade tutta la vita dell'uomo. I primi riferimenti a tale riguardo si trovano in 3,12 e in 3,22, dove si dice:

Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita (3,12).

E più avanti:

Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere (3,22).

Con l'indicazione «delle sue opere» (3,22) Qoèlet va al di là di 3,12 (e durante la loro vita»), indicando che la gioia a cui esorta consiste in un tipo di atteggiamento di fondo, un tipo di stato d'animo di fondo che deve pervadere ogni opera dell'uomo. Nei termini della dottrina aristotelica delle virtù si potrebbe parlare di un habitus.

Lo si dice più chiaramente in 8,15:

«Perciò faccio l'elogio della gioia, perché l'uomo non ha altra felicità sotto il sole che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole».

La gioia, si dice qui, deve accompagnare (lwh) l'uomo «nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole». La gioia a cui esorta Qoèlet non vuol indicare un avvenimento puntuale, che si distingue dalle fatiche abituali dell'uomo, ma un atteggiamento, una disposizione d'animo che deve pervadere tutte le opere dell'uomo.

In 9,7-10 si dice ancora una volta che la gioia viene percepita come un qualcosa di permanente, e stavolta lo si dice in particolare con la figura stilistica della ripetizione e con insistenza:

«In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua vita fugace che lui ti ha dato sotto il sole, per tutti i giorni della tua vita fugace».

Secondo questa comprensione della linea argomentativa presente nel libro la gioia emergerebbe come un'entità permanente che pervade tutta la vita dell'uomo. Tuttavia, ciò è possibile solo se si percepisce la realtà di Dio. Pertanto, nel suo testo poetico conclusivo Qoèlet non esorta solo alla gioia (11,9), ma anche a ricordarsi di Dio: «Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza» (12,1). Alcuni commentatori ritengono che questo consiglio sia una «glossa ortodossa».[23] Ma in questo modo non si tiene conto dell'indole del libro. Secondo l'autocomprensione del libro, l'esortazione alla gioia (11,9-10) el'esortazione a ricordarsi del proprio creatore (12,1-7.8) vanno essenzialmente insieme. Il consiglio di ricordarsi del proprio creatore già nei giorni della propria giovinezza assume la sua specificità sullo sfondo di quella giovinezza che il «re Qoèlet» ha cercato di vivere senza Dio (1,12-2,24). La quintessenza della parodia regale consiste proprio nel fatto che vi si parla della fragilità di un progetto di vita nel quale non compare Dio. Comprendendo con la riflessione le aporie che vi si presentano e assimilando esistenzialmente le crisi che lo accompagnano, re Qoèlet arriva a capire che la felicità - che anche lui, come tutti gli altri uomini, cerca - non può essere concepita senza Dio: è un dono (2,24; 3,13), anzi in definitiva una «risposta di Dio» (5,19). Ora, al termine della sua vita e del suo libro, (re) Qoèlet esorta il «giovane» (11,9) a mettere in pratica questa concezione.

Su questo sfondo si spiegano anche le cosiddette affermazioni pessimistiche del libro. Queste hanno la funzione di smantellare le concezioni della felicità false, ma diffuse. Mettono in luce il nichilismo che si nasconde in una concezione di vita (superficialmente) ottimistica, per preparare la via che porta alla «felicità vera». Soprattutto quella parte del libro nella quale Qoèlet si presenta come re («parodia regale»: 1,12-2,16) mostra che una vita esteriormente brillante, a cui non mancano piaceri e gioia (2,10), porta alla disperazione (2,17.22s.). Un tale modello di vita viene superato sperimentando quella gioia che «viene dalle mani di Dio» (2,14; cf. 3,13).

Qoèlet giunge così a una concezione che appartiene al nucleo dell'identità cristiana. Nel vangelo di Giovanni, Gesù parla di una gioia che non si può più togliere. È una gioia che non nega la realtà della morte e del dolore, ma è a conoscenza di un' altra realtà in cui la morte e il dolore sono superati ed eliminati: «La vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). «Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,22).

Anche Paolo è consapevole delle tribolazioni di questo mondo e non le nega, avendole sperimentate nel proprio corpo. E sa anche delle tribolazioni dei cristiani in questo mondo. Ma nonostante questo può esortare: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!» (Fil 4,4).

Queste e altre attestazioni, che qui non riportiamo, mostrano che nella coscienza religiosa esiste un luogo che non può essere distrutto dalle realtà esteriori del mondo. È senza tempo. Meister Eckhart chiama questo luogo il «fondo dell'anima». Si tratta della ragione suprema in cui Dio genera ininterrottamente il Figlio suo. «C'è una forza nell'anima» - così leggiamo in Meister Eckhart - «che non tocca né il tempo né la carne. Sgorga dallo spirito e nello spirito resta ed è completamente spirituale... È una gioia così sincera e così inconcepibilmente grande che nessuno riesce a parlarne esaurientemente. Poiché in questa forza l'eterno Padre genera ininterrottamente il suo Figlio eterno».[24]

Ci sembra che il libro di Qoèlet dia un'idea di questa esperienza e per questo va collocato al centro della Sacra Scrittura.

II/ Come affrontare un libro difficile? riflessioni ermeneutiche, di Ludger Schwienhorst-Schönberger

Nel corso della mia prima conferenza dovrebbe essere divenuto chiaro che già la comprensione fondamentale del libro di Qoèlet è discussa. Già in considerazione di ciò si pone la questione: come affrontare questo fatto? Tra gli esegeti predomina in genere l'opinione che in un tale caso si deve spiegare come va compreso il libro, e quindi, quale ne sia l'interpretazione giusta. Ma siamo onesti: Ars longa, vita brevis. Può passare molto tempo fino a quando questa questione venga definitivamente chiarita. Ma è anche possibile che non la si riesca a chiarire in maniera definitiva, sia perché il testo è inteso dal suo autore come ambiguo (polisemantico), sia perché il testo che abbiamo è effettivamente ambiguo.

E che succederebbe se fosse giusta l'interpretazione nichilista, secondo cui il libro di Qoèlet rappresenterebbe una filosofia dell'assurdo e pertanto, per sua stessa natura, non rientrerebbe nel canone biblico?

Andiamo così a toccare alcune questioni fondamentali dell'Ermeneutica Biblica. L'«Ermeneutica Biblica» costituisce da alcuni anni un tema classico della scienza biblica. Più di recente, Ulrich Luz ha proposto un'impressionante monografia sul tema: «L'ermeneutica teologica del Nuovo Testamento» [Theologische Hermeneutik des Neuen Testaments,Neukirchen-Vluyn 2014]. Nel corso della mia conferenza non posso certamente affrontare tutti gli aspetti di questo tema. Mi limiterò a desumere la plausibilità di alcuni principi dell'esegesi cattolica basandomi su alcuni esempi scelti dal libro di Qoèlet. In altri termini: come si possono superare le sfide che il libro di Qoèlet pone all'esegesi sullo sfondo di una ponderata ermeneutica (cattolica) della Scrittura?

1. L'unità della Scrittura (unitas scripturae)

Un principio fondamentale della ermeneutica cattolica della Scrittura è la dottrina dell'unità della Scrittura (unitas scripturae).Secondo questo principio, ogni testo e ogni libro della Bibbia va letto e interpretato alla luce di tutta la Sacra Scrittura. Nell'ambito dell'esegesi storico-critica questo principio è caduto in discredito, ma a torto, mi sembra. Si è detto che la dottrina dell'unità della Scrittura è una costruzione dogmatica che non rende giustizia alla polifonicità e alla pluralità della Bibbia. Qui di seguito, ricorrendo ad alcuni esempi scelti dal libro di Qoèlet vorrei mostrare che non è così.

Applicato al libro di Qoèlet, il principio dell'«unità della Scrittura» vuol dire: ammesso che la lettura pessimistica o nichilistica del libro di Qoèlet sia giusta, questa interpretazione va integrata nel dibattito intrabiblico in modo tale che da una parte non sia universalizzata, ma dall'altra parte non sia neanche immunizzata. È invece importante integrarla nel dibattito intrabiblico in modo che, dialogando con affermazioni apparentemente contraddittorie di altri libri, porti a una comprensione più profonda della fede. L'esegesi è una questione di pensiero, almeno così i Padri della Chiesa intendevano l'interpretazione della Sacra Scrittura. Se vi percepivano delle tensioni o delle contraddizioni, questa osservazione era l'occasione per riflettere più approfonditamente sulla questione stessa.

Ricorrendo ad alcuni esempi scelti dalla storia dell'interpretazione cristiana, vorrei mostrarvi come funziona questo metodo e quale può essere il suo contributo alla comprensione di questo libro nel contesto della Sacra Scrittura. Il punto centrale di quanto esporrò verte su questa domanda: In che modo Girolamo e la tradizione cristiana che lo ha seguito ha affrontato la frase assolutamente provocatoria di Qo 1,2: «Vanitas, vanitatum, dixit Ecclesiastes, vanitas vanitatum, omnia vanitas»? Abbiamo visto che soprattutto questa frase ha portato a una comprensione pessimistica o addirittura nichilistica del libro nell'esegesi moderna. In che modo l'esegesi patristica e medievale hanno affrontato questa affermazione provocatoria?

2. Origene: Proverbi - Qoèlet - Cantico dei cantici

È Origene ad aver effettuato le scelte decisive per la storia dell'interpretazione cristiana di questo libro. Egli mise in relazione i tre libri di Salomone (Proverbi, Qoèlet e Cantico dei cantici) con le tre branche della filosofia antica, assegnando al libro di Qoèlet la posizione centrale (In cant. prol. 3,1-3):

Proverbi - Etica (disciplina moralis)

Qoèlet - Fisica (disciplina naturalis)

Cantico dei Cantici - Teologia (disciplina inspectiva)

Origene inoltre associò a questi libri tre gradi dello sviluppo psichico e spirituale dell'uomo (In canto prol. 3,5-23): nel libro dei Proverbi, il giovane impara il modo di comportarsi nel mondo («la morale»). Il libro di Qoèletinsegna poi all'adulto (che nel frattempo è diventato il giovane) la vera natura delle cose del mondo, che cioè sono fugaci «la fisica»). E nel Cantico dei cantici «sotto la figura della sposa e dello sposo infonde nell'anima l'amore per le cose celesti e il desiderio delle realtà divine, insegnando come arrivare alla comunione con Dio per le vie dell'amore e del desiderio» (In cant. prol. 3,6s.).

3. Girolamo

3.1. Una via spirituale

Sulla linea tracciata da Origene si muove anche il «Commentarius in Ecclesiasten» (CCL 72) di Girolamo (347-419 d. C.).[25] Il commentario, che distingue chiaramente tra un'interpretazione «storico-letteraria» (I,1,14s.: «secundum historiam»; I,1,47: «iuxta litteram») e un «senso spirituale» (I,1,48: «secundum intellegentiam spiritalem»), per tutto il medioevo e fino all'epoca della Riforma rimase il «commentario di riferimento» al libro di Qoèlet.

Girolamo si pone nel solco della tradizione di Origene, quando corrispondentemente alla norma canonica diffusa, associa la sequenza dei tre libri salomonici (Proverbi, Qoèlet, Cantico dei cantici) allo sviluppo psichico e spirituale che l'uomo deve percorrere: Nel libro dei Proverbi,Salomone istruisce «il bambino (parvulum),insegnandogli i doveri con l'aiuto di sentenze, e anche per questa ragione gli si rivolge così spesso chiamandolo "figlio". Nel libro dell'Ecclesiaste,però, istruisce
l'uomo maturo a non considerare durevole nessuna delle cose del mondo
, ma passeggero e fugace tutto quello che percepiamo. Infine, nel Cantico dei cantici spinge tra le braccia della sua sposa l'uomo già progredito ed esercitato al disprezzo delle cose temporali... Non si allontana da questo ordinamento dottrinale neanche l'insegnamento dei filosofi ai loro discepoli. Dapprima insegnano loro l'etica,poi spiegano loro la fisica e, infine, conducono fino alla teologia colui che a loro giudizio ha progredito in quelle branche» (I,1,17-30). Il libro dei Proverbi introduce il giovane nel mondo (etica). Il libro di Qoèlet scopre la natura del mondo (fisica) rivelandone la volubilità e la transitorietà, gettando in tal modo i presupposti per il distacco dal mondo. È un libro di addio (cf. Qo 12,1ss.). Il Cantico dei cantici prepara colui che si è distaccato dal mondo a una venuta permanente (teologia). «Se prima, infatti, non abbiamo abbandonato i vizi e non abbiamo rinunciato ai lussi di questo mondo e non ci siamo preparati alla venuta di Cristo, non possiamo dire: "Mi baci con i baci della sua bocca" (Ct 1,1)» (I,1,24-27). Secondo Girolamo, allora, il libro del Qoèlet intende portare i suoi lettori al disprezzo di questo mondo («ad contemptum istius saculis), suscitando in loro l'idea che tutte le cose che sono nel mondo in fondo non sono nulla («et omne quod in mundo cerneret, putaret esse pro nihilo»: in eccl. praefatio 2-4)». Ma questa interpretazione, forse, non tradisce al nucleo l'indole del libro di Qoèlet?

Il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi)divenne l'idea che ha guidato l'interpretazione cristiana del Qoèlet. Poiché questo concetto è esposto a molteplici fraintendimenti, necessita di una spiegazione più approfondita. Per anticipare subito il risultato: il contemptus mundi non significa disdegnare un mondo che Dio ha creato come cosa buona (cf. Gen 1), ma considerarlo per quello che è veramente. E come sia da intendere ciò, lo si mostrerà qui di seguito.

3.2. «Vanitas, vanitatum» e «contemptus mundi»disprezzo del mondo»)

Interpretando Qo 1,2, Girolamo si interessa subito dell'ovvio fraintendimento di cui abbiamo appena detto. Egli vede una tensione tra Qo 1,2 «vanitas, vanitatum» e l'affermazione di Gen 1,31 «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona». Scrive Girolamo: «Se tutto quello che Dio ha fatto è cosa molto buona, come può essere tutto vanità, e non solo vanità, ma addirittura "vanità delle vanità (vanitas vanitatum)?» (I,2,73-75). Allora, per prima cosa Girolamo interpreta - in un modo assolutamente corretto da un punto di vista esegetico con un riferimento a Ct 1,1 «Canticum canticorum» - l'espressione «vanitas vanitatum» come un superlativo o elativo. Poi si addentra nella vera e propria problematica di fondo: secondo Girolamo l'affermazione «omnia vanitas» non va intesa in senso universale e assoluto. Il mondo «di per sé (per se)»non è vanitas,ma lo è solo «in confronto a Dio (ad Deum comparata)».Scrive Girolamo: «Possiamo allora dire che il cielo, la terra, i mari e tutto quello che è racchiuso nel globo terrestre va ritenuto di per sé buono, ma è nulla (pro nihilo)se confrontato a Dio. Allo stesso modo, quando vedo una piccola lampada mi accontento della sua luce; ma poi, quando è sorto il sole, non posso più accorgermi che essa brilla. Allo stesso modo, riesco a vedere brillare le luci delle stelle solo quando il sole è tramontato. Così mi stupisco per la grandezza della creazione quando vedo gli elementi e la grande varietà delle cose. Ma se mi rendo conto che tutto passa e che il mondo va incontro alla sua fine e che solo Dio rimane sempre colui che era, so allora dire, non solo una, ma due volte: "Vanità delle vanità, tutto è vanità"» (1,2,85-96).

Per una comprensione adeguata dell'interpretazione che abbiamo qui citato, conviene ricordare che il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi),in analogia alla tripartizione della filosofia, non fa parte dell'«etica», bensì della «fisica». La fisica scopre la vera natura delle cose del mondo, che cioè sono instabili. Il contemptus mundi vuol dire comportarsi corrispondentemente a questa concezione. Si tratta di un modo di vedere adeguato alle cose del mondo e del mondo inteso come un tutto. Il concetto del «contemptus mundi» contrasta una tendenza presente nell'uomo che considera il mondo come un luogo di compimento duraturo. Il «disprezzo del mondo» significa quindi: considerarlo «più piccolo» di quanto faccia normalmente l'uomo preda di illusioni. Considerato attentamente, il contemptus mundi è una forma di illuminazione e di emancipazione. L'uomo prigioniero delle passioni e delle illusioni deve essere illuminato sulla verità delle cose, venendo così liberato dalle loro schiavitù. Se correttamente inteso, il concetto del «contemptus mundi»- come mostra molto bene l'interpretazione data da Girolamo a Qo 1,2 che abbiamo riportato sopra - nella tradizione cristiana resta inserito in una teologia della creazione. Non revoca il mondo come creazione buona di Dio, ma si rivolge piuttosto contro una divinizzazione del mondo (che passa spesso inosservata).

Nel «disprezzo del mondo» correttamente inteso, l'uomo partecipa, in termini teologici, alla ricapitolazione e al compimento di un mondo decaduto (o che ha rinnegato Dio). In termini antropologici, il contemptus mundi si rivolge contro quella schiavitù dell'uomo prigioniero delle cose e delle situazioni che si oppone alla sua dinamica tendente alla trascendenza. Questo atteggiamento sbagliato di attaccamento viene collegato dalla tradizione cristiana al peccato originale. Le cose del mondo non sono solo cose (res),ma anche segni (signa)che rimandano a Dio. Con il peccato originale si offusca la percezione dell'uomo, il quale non riesce più a riconoscere che le cose rimandano a Dio. Si rivolge alle cose come se fossero il suo «tutto». Qoèlet mostra che questo rapporto con il mondo porta alla crisi. Egli stesso lo ha vissuto da «re». Il libro porta a una dis-illusione nel vero senso della parola, vale a dire: toglie un'illusione. Libera l'uomo da un'identificazione falsamente intesa con le cose transitorie di questo mondo. Favorisce il processo, necessario per la maturazione dell'uomo, della dis-identificazione.

3.3. Quale gioia?

Ma come interpreta Girolamo l'esortazione alla gioia, il nucleo dell'insegnamento di Qoèlet? Scrive Girolamo: «Si illudono, quindi, quanti pensano che siamo esortati da questo libro al piacere (ad voluptatem)e a una vita dissoluta. È vero il contrario: vi si insegna che quanto vediamo nel mondo è vano (vana) e che non dobbiamo desiderare con ardore quanto va in rovina mentre è tenuto (da noi)» (I,1,67-71).

Girolamo fa notare che con l'esortazione alla gioia non si intendono delle dissolutezze che ignorino la disperazione. Su Qo 3,12 scrive: «Questo non significa che noi, come interpretano alcuni, siamo esortati a essere avidi di piaceri, alla dissolutezza e alla disperazione come le bestie, secondo la parola di Isaia: "Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo" [Is 22,13], ma secondo la parola dell'apostolo: "Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci" [1Tm 6,8]. Quando abbiamo la possibilità di possedere del superfluo, utilizziamolo per nutrire i poveri e per assistere i bisognosi» (In eccl. III,12.13,187-193). Chiarendo che l'esortazione alla gioia nel libro di Qoèlet non si riferisce a forme eccessive di piacere, coglie pienamente il senso del libro. Inoltre questo è anche un elemento centrale della dottrina di Epicuro, cosa che purtroppo viene spesso trascurata. Tanto Epicuro quanto il libro di Qoèlet mettono allo scoperto delle forme sbagliate di piacere.

Ora Girolamo nel commentare i passi del carpe diem del libro di Qoèlet va al di là del puro significato «letterario» dello stesso. Egli fa questo in modo metodologicamente ponderato, in genere marcando espressamente il passaggio dall'interpretazione «secundum litteram» all'interpretazione «secundum spiritualem sensum» (ad. es. In ecc. II,24.26,365s.; III,12.13,190: «secundum apostolum»; 194: «iuxta ἀναγωγήν»; V,17.19,203: «iuxta apostolum»). Metodologicamente procede in modo tale da aprire il contesto della recezione del libro di Qoèlet all'intera Sacra Scrittura. Così, all'interno del contesto della Sacra Scrittura cristiana, consistente di Antico e Nuovo Testamento, con la gioia collegata al mangiare e al bere di cui parla il libro di Qoèlet egli indica l'Eucaristia e questa a sua volta indica la «conoscenza delle Scritture (scientia scripturarum):"Inoltre, poiché la carne del Signore è il vero cibo e il suo sangue la vera bevanda, corrispondentemente all'interpretazione mistica, il nostro unico bene in questo tempo terreno è che noi mangiamo la sua carne e beviamo il suo sangue non solo nel sacramento, ma anche quando leggiamo le (Sacre) Scritture. Infatti, la conoscenza delle (Sacre) Scritture è il vero cibo e la vera bevanda, provenienti dalla parola di Dio"» (In eccl. III,12.13,193-198).

3.4. Un'interpretazione legata ai destinatari

Girolamo non limita l'interpretazione del libro di Qoèlet alla sua situazione comunicativa originaria. Partendo da essa, la supera deducendo dei significati sviluppati dal libro in un contesto di ricezione cha va al di là della situazione comunicativa originaria. Facendo questo, tiene presente in particolar modo la situazione delle sue lettrici. Ha dedicato il suo commentario a una certa Paola, sua figlia Eustochio e alla memoria della defunta Blesilla. Queste persone facevano parte di un circolo ascetico di nobili cristiane a Roma, il cui maestro spirituale e intellettuale era Girolamo. Si discute se talora in questo circolo si eccedesse nell'ascetica (cf. Alfons Fürst, Hieronymus. Askese und Wissenschaft in der Spätantike, Freiburg 2003, 162).

4. Bonaventura

Nel gruppo dei commentari medievali spicca quello di Bonaventura (1217-1274 d. C.). In maniera programmatica egli inizia con le parole del Sal 39,5 [40,5]: «Beatus vir, cuius est nomen Domini spes eius, et non respexit in vanitates et insanias falsas - Beato l'uomo che spera nel nome del Signore, e non considera le futilità e gli eccessi sbagliati». Secondo Bonaventura, lo scopo (finis)del libro di Qoèlet è il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi;In eccl. q. I). Pertanto anche Bonaventura, similmente a quanto aveva già fatto Girolamo, pone la domanda su come ciò si possa conciliare con la bontà della creazione. Se si disprezza la creazione, non si disprezza forse anche il suo creatore («qui contemnit mundum contemnit Deum», q. I sed contra I)? Bonaventura risolve il problema ricorrendo a una bella similitudine. Paragona, infatti, il mondo con l'anello nuziale di una sposa, la quale lo accetta e lo ama. Se lo disprezzasse, disprezzerebbe anche lo sposo che le ha regalato quell'anello in segno del suo amore. Se però amasse quell'anello più del suo sposo, non distinguerebbe l'essenza dell'anello. La stessa cosa avviene per il mondo. Il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi)vuol dire allora contrastare un'inclinazione presente nell'uomo che lo spinge ad amare la creazione più del suo creatore. Il disprezzo del mondo, correttamente inteso, è quindi una forma di amore, un «amore puro» (amor castus)per il mondo.

5. Tommaso da Kempis: Imitatio Christi

Il tema della vanitas pervade anche il primo libro di uno degli scritti più letti della storia della spiritualità cristiana: l'«Imitazione [Nachfolge]di Cristo» (Imitatio Christi),oggi generalmente attribuito a Tommaso da Kempis (1380-1471 d. C.). Questo scritto, composto intorno al 1427 d.C., è costituito da quattro trattati in origine indipendenti. Il primo libro vuole condurre il lettore alla gioia interiore mediante la relativizzazione delle cose esteriori:«"Vanità delle vanità e tutto è vanità!" [Qo 1,2]: fuorché amare Dio e servire lui solo. È questa la suprema sapienza: tendere al regno dei cieli disprezzando il mondo. Dunque, è vanità ricercare le ricchezze passeggere e porre le speranze in esse - Vanitas vanitatum et omnia vanitas [Eccl. 1,2], praeter amare Deum et illi soli servire. Ista est summa sapientia: per contemptum mundi tendere ad regna caelestia (1,1,3s.)... Ricòrdati spesso di quella parola vera: "L'occhio non si sazia di vedere né l'orecchio si riempie di ciò che ascolta!'' (Qo 1,8). Cerca, dunque, di distogliere il tuo cuore dall'amore delle cose visibili e di rivolgerti a quelle invisibili... Veramente saggio e istruito da Dio più che dagli uomini è colui che stima tutte le cose per quello che sono, non per quello che se ne dice o per come le si valuta. Se uno sa vivere interiormente (ab intra scit ambulare)senza prendere troppo sul serio le cose esteriori, non si perde nel ricercare il luogo adatto o nell'attendere il tempo opportuno per dedicarsi a esercizi di devozione. L'uomo interiore (homo internus)si raccoglie subito in se stesso, giacché non si disperde mai del tutto nelle cose esteriori (II,1,7)... Mantieni prima te stesso nella pace, poi potrai dare pace agli altri» (II,3,1).

6. Riassunto

Ricorrendo a una scelta di esempi tratti dalla storia dell'interpretazione, ho cercato di mostrare come si è affrontato l'apparentemente «difficile libro» di Qoèlet all'interno della Sacra Scrittura. Il compito dell'esegesi consiste innanzi tutto in una attenta lettura del testo. Il testo va percepito come voce propria e autonoma. In una seconda tappa, però, questa voce va ascoltata in concerto con altre voci. Ogni testo e ogni libro della Bibbia non va letto e compreso in definitiva come un testo isolato, ma come testo nel contesto di tutta la Sacra Scrittura.

Per il libro di Qoèlet ciò significa che viene innanzi tutto percepita una voce particolare e straordinaria. Questa però non può essere isolata e in fin dei conti eliminata dal canone della Sacra Scrittura, ma va letta come parte integrale del canone biblico. Percepita come voce particolare nel concerto di altre voci, riesce a contribuire una comprensione più approfondita della fede testimoniata nella Bibbia. Ogni singola pericope potrebbe essere interpretata in tal senso. Di due di queste pericopi parleremo nel seminario di oggi pomeriggio. Contro attese esagerate dell'escatologia profetica Qoèlet fa notare che Dio è un Dio del presente (cf. 1,9s.; 3,1-9). Egli relativizza forme esagerate dell'osservanza della Torah e false attese che vi sono collegate, e - situandosi così all'interno di una buona tradizione sapienziale - consiglia una via media (cf. 7,15-22). Egli smantella forme sbagliate di piacere (cf. 2,3-11) che in definitiva portano a odiare l'esistenza e alla disperazione (cf. 2,17), con il fine di condurre alla vera gioia, che è un dono di Dio e che deve pervadere tutta la vita dell'uomo (cf. 8,15; 9,8s.; 11,8).

La tradizione cristiana era benissimo a conoscenza della polifonia della Scrittura. In essa, però, riconosceva una melodia armoniosa. La polifonia è allo stesso tempo una sinfonia. Le tante voci suonano insieme ben ordinate. Scrive Ireneo di Lione (ca. 140-200 d. C.): «Tutta la Scrittura dataci da Dio ci si mostra armoniosa (symphonos)... e mediante la polifonia (polyphonia)dei modi di esprimersi risuonerà tra noi un melodia armoniosa (symphonon(Adversus Haereses II,28,3). Queste e simili affermazioni fanno riconoscere che, secondo la tradizione, l'unità della Scrittura non è monodica, ma è una polifonia armoniosa.Le voci sono differenti, ma non contrastanti.

Il modo che abbiamo qui delineato di leggere contestualmente la Scrittura dovrebbe essere concepito in maniera tale da avviare e non chiudere un processo teologico-filosofico di riflessione. La Bibbia ci fa pensare e il libro di Qoèlet ne è un bellissimo esempio. Affrontando in modo riflessivo e critico la tradizione sapienziale che gli era data, il libro di Qoèlet è un paradigma per il carattere dialogico della Bibbia. Per questo il suo posto non è ai margini, ma al centro della Sacra Scrittura.

Bibliografia

Borghi, Ernesto et al. (eds.), Ascoltare, rispondere, vivere.Atti del Congresso Internazionale "La Sacra Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa" (Roma, 1-4 dicembre 2010), Milano (Edizioni Terra Santa) 2011.

Luz, Ulrich: Theologische Hermeneutik des Neuen Testaments,Neukirchen-Vluyn 2014.

Schwienhorst-Schönberger, Ludger: "Eines hat Gott gesagt, zweierlei habe ich gehört" (Ps 62,12). Sinnoffenheit als Kriterium einer biblischen Theologie", in: Jahrbuch für Biblische Theologie 25 (2010) 45-61.

Scott, Carl (ed.), Verbum Domini and the Complementarity of Exegesis and Theology,Grand Rapids/Cambridge 2015.

Note al testo

[1] Cf. Ludger Schwienhorst-Schönberger, "Via media: Koh 7,15-18 und elle griechisch-hel-lenistische Philosophie", in: Antoon Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom (BETL 136), Leuven: Peeters 181-203. Luca Mazzinghi, "Qohelet tra Giudaismo ed Ellenismo. Un'indagine a partire da Qo 7,15-18", in: Giuseppe Bellia/Angelo Passaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia,Milano: Paoline 2001, 90-116.

[2] Norbert Lohfink, "Der Bibel skeptische Hintertur, Versuch, den Ort des Buches Kohelet neu zu bestimmen", in: Stimmen der Zeit 198 (1980) 17-31 (= Id., Studien zu Kohelet [SBAB 26], Stuttgart 1998, 11-30).

[3] Diethelm Michel, Untersuchungen zur Eigenart des Buches Qohelet (BZAW 183), Berlin 1989, 288.

[4] La Bibbia. Via, Verità e Vita. Versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, edizione riveduta e ampliata, Cinisello Balsamo 2012, 1486. Cf. Angelo Passaro, "Le possibili letture di un libro difficile", in: Giuseppe Bellia/Angelo Passaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia,Milano: Paoline 2001, 21-39.

[5] Choon-Leong Seow, Ecclesiastes (AB 18C), New York 1997, 38: "He probably composed his work in Palestine some time between the second half of the fifth and the first half of the fourth centuries B.C.E.".

[6] A. Schoors, The Preacher Sought to Find Pleasing Words. A Study of the Language of Qoheleth.Part II. Vocabulary, Leuven et al 2004, 502.

[7] Vittoria d'Alario, Il libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica (Supplementi alla Rivista Biblica 27), Bologna 1992. Franz-Josef Backhaus, Es gibt nichts Besseres für den Menschen (Koh 3,22). Studien zur Komposition und zur Weisheitskritik im Buch Kohelet (BBB 121), Bodenheim 1998. Norbert Lohfink, Kohelet (NEB), Würzburg 41993. Id., Qoheleth (Continental Commentaries), Minneapolis 2003. Thomas Krüger, Kohelet (Prediger) (BK AT XIX - Sonderband), Neukirchen-Vluyn 2000.

[8] Ludger Schwienhorst-Schönberger, Kohelet (HThK AT), Freiburg 2004, 22011, 46-53. Elisabeth Birnbaum/Ludger Schwienhorst-Schönberger, Das Buch Kohelet (NSK AT 14/2), Stuttgart 2012, 15-17.

[9] Annette Schellenberg, Kohelet (ZB AT 17), Zürich 2013, 19. Così anche Melanie Köhlmoos, Kohelet. Der Prediger Salomos (ATD 16,5), Göttingen 2015, 28.

[10] Cf.Walther Zimmerli, "Das Buch Kohelet - Traktat oder Sentenzensammlung?", in: VT 24 (1974) 221-230.

[11] José Vilchez Lindez, Sapienciales III. Eclesiastes o Qohelet,Estella 1994, 59.

[12] Antoon Schoors, (an. 6) 19: "As seen above, in spite of much scholarly ingenuity, it is not possible to detect a clear literary structure in the book, but there is no doubt that it has a thematic unity".

[13] Carl Siegfried, Prediger und Hoheslied (HK II 3,2), Göttingen 1998.

[14] Renate Brandscheidt, Weltbegeisterung und Offenbarungsglaube. Literar-, form- und traditionsgeschichtliche Untersuchungen zum Buch Kohelet (TThSt 64), Trier 1999. Martin Rose, Rien de nouveau (OBO 168), Freiburg (Schweiz) - Göttingen 1999.

[15] Annette Schellenberg, Kohelet (ZB AT 17), Zürich 2013, 31.

[16] Antoon Schoors, Ecclesiastes (HCOT), Leuven: Peeters 2013, 19s.

[17] Ibid. 20.

[18] Ibid. 22.

[19] Cf. Marie Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre de Qohélet (OBO 190), Fribourg - Göttingen 2003, 122-150. Cf. specialmente Johan Yeong-Sik Pahk, Il canto della gioia in Dio. L'itinerario sapienziale espresso dall'unità letteraria in Qohelet 8,16-9,10 e il parallelo di Gilgames Me. iii,Napoli 1996. Antonio Bonora, Il libro di Qoèlet,Roma 1992. Roger Norman Whybray, "Qoheleth, Preacher of Joy": JSOT 23 (1982) 87-98. Marc Faessler, Qohélet philosophe. L'éphémère et la joie. Commentaire herméneutique de l'Ecclésiaste (Labor et Fìdes), Genève 2013.

[20] Maussion (an. 19) 150.

[21] Bernhard Lang, "Ist der Mensch hilflos? Das biblische Buch Kohelet, neu und kritisch gelesen": ThQ 159 (1979) 109-124.

[22] Aarre Lauha, Kohelet (BKAT XIX), Neukirchen-Vluyn 1978, 114.

[23] Così A. Lauha, ibid. 209: R2; Diethelm Michel, Qohelet (EdF 258), Darmstadt 1988, 167.

[24] Meister Eckhart, Predigt 2 (Werke I. Text und Übersetzung von Josef Quint, herausgegeben und kommentiert von Niklaus Largier (Bibliothek des Mittelalters 20), Frankfurt 1993, 29s.

[25] Cf. Elisabeth Birnbaum, Der Kohelet-Kommentar des Hieronymus. Einleitung, revidierter Text, Übersetzung und Kommentierung (CSEL Extra Seriem), Berlin: de Gruyter 2014. Elisabeth Birnbaum/Ludger Schwienhorst-Schönberger (Hg.), Hieronymus als Exeget und Theologe. Interdisziplinäre Zugänge zum Koheletkommentar des Hieronymus (BETL 268), Leuven: Peeters 2014. Ludger Schwienhorst-Schönberger, Kohelet (HThK AT), Freiburg 2004, 22011, 123-134 ("Christliche Auslegungsgeschichte").

Redazione de Gliscritti | Lunedì 15 Febbraio 2016 - 10:05 am | | Default

Boetto, il vescovo che salvò Genova, di Filippo Rizzi

Riprendiamo da Avvenire del 31/1/2016 un articolo di Filippo Rizzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Il novecento: il fascismo e il nazismo, la resistenza e la liberazione, nella sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

Il «Padre buono» di Genova, il «Defensor civitatis», il «cardinale della Liberazione », come lo definì unanimemente il Cln ligure, che grazie alla sua lungimirante e prudente azione diplomatica riuscì ad evitare il bombardamento del porto antico della città da parte dei tedeschi nel 1945. Ancora: il vescovo «sociale» e attento ai poveri, ai lavoratori e ai vinti del suo tempo (tra loro tanti orfani, vedove, prigionieri di guerra di ogni colore politico), che fu in grado di salvare da sicura deportazione più di 800 ebrei (tra questi anche molti romani rastrellati nel ghetto della Capitale il 16 ottobre 1943). 

È il profilo e la cifra dello stile di apostolato del gesuita Pietro Boetto (1871-1946), l’arcivescovo di Genova di cui oggi ricorrono i 70 anni della morte. Seppur diluita nel tempo, nella memoria condivisa ma anche tramandata di tanti genovesi sopravvive ancora oggi la grande paternità spirituale di questo pastore, definito dal suo diretto successore sulla cattedra di san Siro, Giuseppe Siri, nel giorno dei funerali nella cattedrale di San Lorenzo il 4 febbraio 1946, come un uomo a cui non mancò mai, nel travagliato governo della diocesi (1938-1946), una virtù essenziale: «La serenità. Perché pregava e governava pregando»

Ma chi era questo mite e sconosciuto gesuita piemontese, originario di Vigone – che non vantava tra l’altro, com’era invece tradizione nell’ordine ignaziano, un pedigree accademico pari a quello di illustri confratelli del Novecento insigniti del cardinalato, quali Louis Billot e Franziskus Ehrle –, prima di essere chiamato inaspettatamente nel 1935 da Pio XI a rivestire la sacra porpora con delicati incarichi all’interno della Curia vaticana e solo due anni dopo a divenire arcivescovo di Genova? Pietro Boetto nacque il 19 maggio 1871 a Vigone ( To); entrato nella provincia torinese della Compagnia di Gesù nel 1888, viene ordinato sacerdote il 30 luglio 1901. Subito dopo intraprende il tradizionale apprendistato di studi filosofici e teologici gesuitici (tra cui una solida formazione neo-tomista) distinguendosi da subito per il buon carattere e la capacità di governo all’interno della Compagnia di Gesù: diventa infatti superiore provinciale a Torino (1916-19) e anni dopo a Roma (1928-1930), oltre che visitatore delle province di Catalogna e Castiglia (1920-21). 

Ed è proprio in questi anni che le sue doti di governo e di prudenza verranno scoperte e valorizzate dal potente e influente generale dei gesuiti, il polacco Wlodzimirez Ledóchowski; Boetto viene infatti nominato procuratore generale dell’ordine e poi assistente d’Italia (1930). Stimato e ammirato in Vaticano (era dal 1931 consultore della Sacra Congregazione dei religiosi), padre Boetto tuttavia fino alla sua inaspettata nomina a cardinale, avvenuta il 16 dicembre 1935, rimane piuttosto in ombra. 

Da una ricostruzione storica condotta su materiali d’archivio e su diari inediti, lo storico gesuita Giacomo Martina in un saggio apparso su La Civiltà Cattolica nel 1996 ha fatto emergere infatti un’altra verità: tra i presbiteri della Compagnia di Gesù, il vero predestinato da Pio XI a vestire la porpora era il marchigiano e storico Pietro Tacchi Venturi, l’uomo di fiducia di Mussolini e fine mediatore dei difficili rapporti tra Stato e Chiesa in quegli anni. La non compromissione con il regime fascista e la ferma resistenza di Ledóchowski alla nomina del gesuita «confidente» del duce indussero invece papa Ratti ad elevare al cardinalato il più mite e prudente religioso piemontese

Comunque Pio XI non solo non si pentì di questa scelta, ma il 16 marzo 1938 designò Boetto alla guida della Chiesa metropolitana di Genova. Si trattava, per gli osservatori del tempo, di una nomina dal sapore eccezionale: l’ultimo dei membri della Compagnia di Gesù a divenire pastore di una diocesi in Italia era stato addirittura san Roberto Bellarmino, arcivescovo di Capua dal 1602 al 1605 (e solo oltre 30 anni dopo la morte di Boetto toccherà la stessa sorte, per volere di Giovanni Paolo II, a un altro gesuita e piemontese, anche lui destinato a divenire cardinale: Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002). 

È negli anni della Seconda guerra mondiale, trascorsi alla guida della diocesi di Genova, che questo «nocchiero nella tempesta» – come fu definito dai giornali di allora – diede la miglior prova di sé «per il bene del suo popolo»; fondamentale fu la rete di aiuto da lui organizzata, con la distribuzione di viveri e le famose «ottomila minestre al giorno» garantite dall’ente Auxilium (e non solo; basti pensare alle «Crociate della carità»), a sostegno della popolazione sfollata del capoluogo ligure, ai carcerati (anche politici), ai cappellani delle fabbriche. Sicuramente fuori dall’ordinario pure l’azione sotterranea dell’arcivescovo (gestita dal fidato segretario ed esecutore don Francesco Repetto) per evitare la condanna da sicura fucilazione di tanti sacerdoti, ma anche di gente comune, sospettati di aver collaborato o solo dato da mangiare a esponenti antifascisti e militari anglo-americani; come certamente singolari furono, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, gli interventi mirati a salvare, proteggere e nascondere (anche in arcivescovado) tanti ebrei – tra cui anche il rabbino Riccardo Pacifici –, non facendo mai distinzioni tra battezzati e no, e svolta (lo rivelerà anni dopo lo storico Giovanni Sale sempre su La Civiltà Cattolica)«nel silenzio e nel nascondimento». 

Tra i gesti singolari del suo ministero in terra ligure rimarranno nella memoria di molti le pubbliche denunce contro i tristi fenomeni della delazione o della borsa nera, la difesa dell’operato dell’Azione Cattolica e la presa di distanza dai cappellani militari della Repubblica Sociale Italiana più fedeli alle direttive del governo di Salò che attenti a procurare la «consolazione agli animi» dei soldati repubblichini. Ma il vero capolavoro diplomatico di Boetto fu soprattutto il 24 aprile 1945, dopo un’estenuante trattativa a Villa Migone nel quartiere genovese di San Fruttuoso (a quel tempo residenza ufficiale del cardinale a causa dei bombardamenti), aver indotto il generale nazista Günther Meinhold a rinunciare ai piani di distruzione del porto di Genova. L’efficace opera di persuasione dell’arcivescovo (aiutato dal fido collaboratore – «il mio cane da guardia» – il fratello gesuita altoatesino Giovanni BattistaWeidinger) portò successivamente alla resa delle forza tedesche al Comitato di Liberazione Nazionale. Nel dicembre successivo il Comune di Genova, guidato dal socialista Vannuccio Faralli, in riconoscenza per i gesti compiuti da Boetto gli concesse la cittadinanza onoraria, con i tributi bipartisan di partigiani del rango del democristiano Paolo Emilio Taviani e del comunista Secondo Pessi

«Il mio pensiero non è stato quello di mandare via i nemici – furono le parole pronunciate in quel frangente dal cardinale –: a questo pensavano le forze della Liberazione. Io pensai solo a fare tutto il possibile per salvare Genova dalla rovina». Nella parabola finale della vita – ben documentata dal suo biografo, padre Arnaldo Maria Lanz – del tutto eccezionali furono i gesti intrapresi da questo “gesuita vestito di rosso”: gli atti di genuina pietà e di preghiera compiuti lontano dai riflettori nell’estate 1945 per i caduti fucilati (partigiani e repubblichini) nella Val Trebbia in particolare a Rovegno e la scelta (molto simile all’attuale impronta pastorale del confratello Jorge Mario Bergoglio...) di sedere a pranzare come un semplice ospite alla mensa per i 300 indigenti della città presso le Piccole Suore per i Poveri nel giorno dell’Epifania 1946. 

A tanti anni di distanza dalla morte, avvenuta all’alba del 31 gennaio 1946, di Boetto rimane molto della cifra di pastore e di uomo attento – come amava ripetere, citando sant’Ignazio – «alla morte del proprio orgoglio» e capace (lo testimonierà anni dopo il segretario don Francesco Repetto) di restare sempre «un amico vero del suo popolo».

Redazione de Gliscritti | Lunedì 15 Febbraio 2016 - 10:03 am | | Default

Matrimonio e ordine, il vero post cresima, di Andrea Casavecchia

Riprendiamo dal sito http://www.vinonuovo.it/ un articolo scritto da Andrea Casavecchia pubblicato il 9/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, famiglia e scuola.

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

N.B. de Gli scritti Ci viene da aggiungere che oltre all’ordine e al matrimonio, proprio perché il problema non è il “dopo”, ma la proposta, una riflessione sulla scuola, la cultura, il servizio, ecc. ecc. si rende necessaria. Una catechesi disincarnata - che non tocchi ad esempio il tema della scuola e della capacità che ha la fede di illuminare la vita scolastica – non è in grado di divenire una proposta. L’articolo di Andrea Casavecchia invita, comunque, a guardare nella direzione giusta.

Matrimonio e ordine, il vero post cresima, di Andrea Casavecchia

Dopo un consiglio pastorale parrocchiale intenso, terminato all'una di notte, giungo a una conclusione.

La questione pastorale oggi non è tanto l'iniziazione cristiana, quanto la formazione ai sacramenti dell'ordine e del matrimonio.

Abbiamo bisogno di raccontare e rendere visibile quanto è bello essere cristiani adulti... non tanto conservare in un generico "dopo" (comunione, cresima...) bambini, ragazzi e giovani.

Anche perché, poi, loro se ne accorgono.

Sono ormai due decenni, mi faccio vecchio, che sento parlare della cresima come sacramento del saluto, del "ciao a tutti me ne vado, ho da far cose più serie". C'è la difficoltà di proporre "qualcosa" ai ragazzi per tenerli aggrappati alla comunità parrocchiale, per non "perderli".

C'è una grande attenzione, giusta eh, verso l'iniziazione cristiana, tanto che si arriva pure a porsi il problema della pastorale familiare, perché "si è rotto qualcosa", perché "ormai tra le generazioni non c'è trasmissione della fede". Insomma, ci interessiamo della famiglia, all'interno della parrocchia, più che altro perché non assolve un compito educativo alla fede.

In questi due decenni ho visto gruppi di giovani farsi e disfarsi, perché a un certo punto, i gruppi non bastano, non sono sufficienti. Serve di più, serve vedere una prospettiva. E le prospettive, mi spiace molto, sono molto deboli. Forse anche perché ci occupiamo poco della fede adulta. Ci occupiamo con fatica di due questioni: la crisi del clero e la fragilità degli sposi.

Rispettivamente: sacramento dell'ordine e sacramento del matrimonio.

Premetto: non sono un teologo, esprimo un'opinione a partire dalla mia esperienza.

Conosco e ho conosciuto tanti preti, e molti veramente ottimi, belle persone. Per parafrasare il Papa si potrebbero classificare in due gruppi: quelli che puzzano di pecora e quelli che fanno la segretaria parrocchiale, anche se in parrocchia a volte non ci sono mai stati. I secondi a dir la verità si dimenticano facilmente. I primi, che danno l'anima in quel che fanno, devono affrontare una questione: che differenza c'è tra il sacerdozio ordinario, che vive ogni cristiano nel suo battesimo, e il sacramento dell'ordine? Da cui ne derivano altre due: che significa essere pastori e avere al fianco credenti adulti, che vivono nel mondo? E come si condividono i compiti e le responsabilità in una comunità di credenti?

Sul matrimonio, invece, sento di tante crisi e sperimento le difficoltà, e la bellezza, di vivere insieme a un'altra persona. Mi chiedo però se a volte riusciamo a chiarire la differenza tra il sacramento del matrimonio, di cui gli sposi sono ministri, e il matrimonio civile, di cui i coniugi sono contraenti.

Spesso vedo che affrontiamo il matrimonio come fosse uno dei sacramenti di iniziazione cristiana. Questi sono basilari e introducono a una vita di grazia una persona. Quello è una vocazione specifica che si vive in comunione con un'altra persona. I primi servono a maturare la fede, il secondo a esprimere una fede matura, feconda (e non parlo di figli). A volte noi non sappiamo a "che cosa serva un matrimonio". Per questo penso dovremmo affrontare una questione: cosa significa vivere la fede in due, fare di due cammini uno? Da cui deriva: gli sposi come possono essere fecondi nella Chiesa, quale ruolo hanno?

Argomento da esplicitare anche durante la preparazione al matrimonio: perché il matrimonio (sacramento) non è un fatto privato tra due piccioncini.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 15 Febbraio 2016 - 10:00 am | | Default

Oltre Mammona: ma il denaro merita la nostra fiducia?, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 7/2/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

Che cosa abbiamo quando abbiamo denaro? La cosa è assai curiosa: sono piccoli rettangoli di carta che, dopo il passaggio all'euro, sembrano ancora più artificiali dei biglietti del Monopoli. Non vi si riconosce più nemmeno l'autorità della storia, con le figure di Manzoni, Cristoforo Colombo o Leonardo da Vinci.

Adesso vi sono raffigurati gli elementi di un'architettura astratta e sempre più insignificante all'aumentare del valore. E comunque tutto questo è ancora fin troppo palpabile. Se il denaro non ha odore, perché dovrebbe avere consistenza?

E infatti abbiamo soprattutto l'estratto-conto e quella piccola carta di plastica, che non è il denaro in sé ma la possibilità di entrare in comunicazione mistica con esso – ma ciò che un selvaggio darebbe in cambio di una conchiglia o di un bel disegno colorato non lo darebbe in cambio di quella piccola carta.

Questa è la curiosità della cosa ma, si sa, in questo caso non è la cosa che conta quanto il segno – un segno più che cabalistico. Il denaro è innanzitutto una scrittura, un debito firmato dallo Stato o da qualche banca più o meno centrale.

Ora, dietro un debito si nasconde sempre un atto fondamentale che tuttavia, in questo caso, non osa rivelarsi come tale: l'atto di fede. La moneta è fiduciaria. Si basa sulla fiducia che il sottoscrittore del debito avrà la possibilità di saldarlo.

Ma con che cosa riuscirà a saldarlo? Con un altro debito? E come mai il denaro, che non è oro, ci sembra proprio il contrario di un oggetto di fede – ci appare cioè come la cosa più evidente, più evidente della stessa scienza, poiché è ormai anche la condizione preliminare di ogni ricerca scientifica?

Forse perché tutti si abbandonano a tale fiducia senza riflettere, come in un'allucinazione collettiva? Se possiedo molto denaro ma non posso comprarci nulla, perché mi trovo tra i selvaggi o, al contrario, perché sono nella civiltà estrema, quella del 1929 o della crisi prossima ventura, che cosa ho, alla fine? Meno di re Mida, che perlomeno possedeva numerose statue d'oro. Meno, perché potrei avere molto più di tutto ciò che posso realmente possedere.

Come dice Aristotele, è impossibile accumulare beni materiali a dismisura. Non c'è abbastanza spazio nella casa. Posso constatare fisicamente la sproporzione delle mie acquisizioni rispetto alle mie capacità: come si può abitare in molte case contemporaneamente, o mangiare fino a scoppiare?

In compenso, si può accumulare denaro senza misura, perché questo è solamente la cifra di un potere (il potere di acquisto) e avere così l'illusione che il futuro ci appartenga.

C'è una frase del Vangelo che dice: «Nessun servo può servire a due padroni... Non potete servire a Dio e a mammona». Si traduce generalmente questo ultimo con «ricchezza» o «denaro». Ma perché il denaro è personificato in questo modo? Se è solamente un mezzo di scambio, di accantonamento e di misura, come fa a trasformarsi in padrone? Non è possibile che uno strumento diventi esso stesso ciò che ci manipola.

Il punto è che il denaro non è uno strumento ma è la prima «apparecchiatura», il primo «dispositivo» (nel senso di gestell) totalmente comparabile alle tecnologie più recenti: apre al virtuale, digitalizza il mondo, ci fa avere qualsiasi cosa senza darci concretamente niente, prende tutto nel suo giro fino a prendere in giro noi stessi.

Possiamo adoperarlo, certo, ma come una bestia mai addomesticata e che aspetta la nostra minima disattenzione per morderci la mano. A dire il vero, non è neanche una tale bestia. È soltanto la fede nel Mercato, e che al di fuori del Mercato, non ci permette neanche di avere le prugne che un albero ci offre.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 15 Febbraio 2016 - 09:59 am | | Default
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Cara Cirinnà, i diritti non si inventano, di Rossano Salini

Riprendiamo dal sito http://www.informatore.eu/ un articolo pubblicato il 4/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

Non sempre i social network sono luoghi di distrazione e di futili discussioni. A volte ciò che gli amici condividono sulle loro bacheche può offrire interessantissimi spunti di riflessione. Così mi è successo pochi giorni fa, vedendo un post di un'amica che forniva all'attenzione dei selezionati lettori un documento storico decisamente importante: il testo del Decreto Legislativo luogotenenziale del 2 febbraio 1945, con cui Umberto di Savoia, Principe di Piemonte e Luogotenente Generale del Regno annunciava che, su proposta dei ministri del Governo, il diritto di voto veniva «esteso» anche alle donne.

In giorni in cui si parla molto di diritti, e di possibili estensioni di diritti, quel documento ha sicuramente un significato particolare. A un primo impatto, l'attualizzazione del documento potrebbe suonare così: come allora veniva esteso un diritto che prima era negato, e che invece oggi sembra a tutti così evidentemente giusto, allo stesso modo oggi l'estensione di diritti che ancora qualcuno vuole negare (nella fattispecie, l'estensione alle coppie omosessuali dei medesimi diritti riconosciuti alle famiglie) risulterà domani una decisione normale e condivisa da tutti. Una riflessione dunque molto attuale, nei giorni in cui al Parlamento è entrata nel vivo la discussione intorno al ddl Cirinnà, e in Italia si tengono manifestazioni di contenuto opposto, tra chi è a favore dei contenuti del disegno di legge e chi invece continua ad affermare il valore unico e irriducibile della famiglia come fondamento della società.

Ebbene, lungi dal risolvere sbrigativamente la questione in una data direzione, quel documento ci permette invece di andare al fondo del problema, e mettere in luce elementi centrali per la piena comprensione dei fatti. Nel documento, redatto a monarca ancora regnante, viene utilizzato, a proposito di diritti, il verbo «estendere». Come noto, la Costituzione italiana, redatta a monarca non più regnante, usa verbi molto diversi: nello straordinario e capitale articolo due, si dice che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».

Non sarà mai ricordata a sufficienza l'importanza di quei due verbi, «riconoscere» e «garantire», così intrinsecamente diversi dal verbo «estendere». L'estensione di un diritto evoca infatti il vecchio concetto di elargizione, ed è appunto adatto a un regime ancora monarchico: il re o lo Stato elargisce i diritti, estendendoli come, quando e quanto ritiene. La Repubblica non fa questo: a differenza dello Stato assoluto, la Repubblica (almeno quella italiana, così come viene definita nel testo redatto con tanta fatica e sforzo intellettuale dai padri costituenti) si piega umilmente al riconoscimento dei diritti. Diritti che vengono prima della Repubblica stessa, e che dureranno dopo una sua eventuale dipartita o trasformazione. Diritti che o sono, o non sono. Non è arbitrio di chi regge le sorti dello Stato stabilire l'esistenza o meno di un diritto, e la sua minore o maggiore estensione. Gli esseri umani di sesso femminile, in quanto dotati per natura dei medesimi diritti degli esseri umani di sesso maschile, hanno in sé intrinsecamente il diritto di decidere delle sorti della propria nazione, partecipando al voto. Quel diritto, dunque, non deve essere «esteso» alle donne: va «riconosciuto» e quindi «garantito».

Questo implica il fatto che la Repubblica italiana non può non garantire quelli che sono veri e propri diritti, e non può viceversa riconoscere quelli che diritti non sono. La strada del riconoscimento dei diritti non è una linea retta, per cui basta avanzarne l'ipotesi di un diritto per vedere automaticamente una legge dichiararlo tale. La discussione intorno al problema del riconoscimento di quel diritto (cioè interrogarsi se quel diritto «è» o «non è» tale) è fondamentale. Per chi abbia letto anche velocemente il testo del ddl Cirinnà, risulta a tutti evidente che questa discussione è semplicemente saltata a piè pari e data per scontata.

Di quale ipotesi diritto stiamo parlando? La concessione alle coppie omosessuali di un riconoscimento legislativo sostanzialmente equipollente a quello della famiglia costituita dall'unione tra un uomo e una donna. Viceversa, i negatori di questa ipotesi sostengono che per sua natura la famiglia, essendo fondata sulla possibilità di generare la vita, sia essenzialmente costituita dall'unione tra un uomo e una donna. Sarebbe interessante approfondire il fatto che i secondi non negano agli omosessuali il diritto di fare famiglia: negano la possibilità che la famiglia sia formata da persone dello stesso sesso. Per quanto possa sembrare paradossale, è invece stringente e fondamentale affermare il principio che non c'è alcuna discriminazione: non solo due omosessuali, ma anche due eterosessuali dello stesso sesso non possono formare una famiglia (potrebbero volerlo fare, magari per convenienza). La norma che riconosce e garantisce il fatto che la famiglia sia formata da persone di sesso diverso è fondata sull'accettazione di un dato di realtà e non implica in sé alcuna discriminazione. Basti ricordare che anche chi afferma l'unicità per così dire ontologica della famiglia basata sull'unione di un uomo e di una donna afferma incontrovertibilmente che è diritto assoluto e inviolabile di ciascun individuo vivere la propria affettività come meglio crede, in base alle proprie inclinazioni. Due omosessuali hanno pieno diritto (riconosciuto e garantito) a vivere il loro rapporto affettivo, senza impedimenti o discriminazioni sociali di qualsiasi tipo. L'impossibilità naturale a formare una famiglia non costituisce affatto un impedimento a che due omosessuali vivano in modo totalmente libero la loro affettività.

Senza avere la pretesa di esaurire l'intera discussione sul tema, quel che con queste argomentazioni si vuol fare è anche dare seguito alle sollecitazioni che qualche giorno fa dalle colonne del Corriere giustamente Ernesto Galli Della Loggia poneva all'attenzione di chi dibatte sull'argomento. Domande del tipo «è bene che i bambini abbiano un padre e una madre o è indifferente?» non possono essere eluse. C'è tutta un'ampia avventura da affrontare in questo tentativo di conoscere più a fondo noi stessi e la nostra natura umana. Scansare il dibattito tacciando l'avversario di omofobia non è certo la soluzione né più democratica, né culturalmente più entusiasmante.

Il 2 febbraio del 1945 veniva esteso un diritto. A partire da qualche anno dopo abbiamo imparato che i diritti vanno riconosciuti (processo culturale) e quindi garantiti (azione politica). Non saltiamo i passaggi, se non vogliamo tornare al tempo dei diritti elargiti dal sovrano. Senza un processo culturale attento e meditato, anche una maggioranza parlamentare può diventare il più arbitrario dei sovrani. Con tutte le conseguenze che questo in futuro potrebbe avere, anche in ambiti del tutto diversi da quello ora trattato.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 15 Febbraio 2016 - 09:58 am | | Default
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«Con gioia ci siamo ritrovati come fratelli nella fede cristiana che si incontrano per «parlare a viva voce» (2 Gv 12), da cuore a cuore». Dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia

Riprendiamo sul nostro sito la Dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia firmata presso l’ Aeroporto Internazionale "José Martí" - La Habana, Cuba il 12 febbraio 2016, il 19/3/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2016)

«La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2 Cor 13, 13).

1. Per volontà di Dio Padre dal quale viene ogni dono, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, e con l’aiuto dello Spirito Santo Consolatore, noi, Papa Francesco e Kirill, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, ci siamo incontrati oggi a L’Avana. Rendiamo grazie a Dio, glorificato nella Trinità, per questo incontro, il primo nella storia.
Con gioia ci siamo ritrovati come fratelli nella fede cristiana che si incontrano per «parlare a viva voce» (2 Gv 12), da cuore a cuore, e discutere dei rapporti reciproci tra le Chiese, dei problemi essenziali dei nostri fedeli e delle prospettive di sviluppo della civiltà umana.

2. Il nostro incontro fraterno ha avuto luogo a Cuba, all’incrocio tra Nord e Sud, tra Est e Ovest. Da questa isola, simbolo delle speranze del “Nuovo Mondo” e degli eventi drammatici della storia del XX secolo, rivolgiamo la nostra parola a tutti i popoli dell’America Latina e degli altri Continenti.
Ci rallegriamo che la fede cristiana stia crescendo qui in modo dinamico. Il potente potenziale religioso dell’America Latina, la sua secolare tradizione cristiana, realizzata nell’esperienza personale di milioni di persone, sono la garanzia di un grande futuro per questa regione.

3. Incontrandoci lontano dalle antiche contese del “Vecchio Mondo”, sentiamo con particolare forza la necessità di un lavoro comune tra cattolici e ortodossi, chiamati, con dolcezza e rispetto, a rendere conto al mondo della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3, 15).

4. Rendiamo grazie a Dio per i doni ricevuti dalla venuta nel mondo del suo unico Figlio. Condividiamo la comune Tradizione spirituale del primo millennio del cristianesimo. I testimoni di questa Tradizione sono la Santissima Madre di Dio, la Vergine Maria, e i Santi che veneriamo. Tra loro ci sono innumerevoli martiri che hanno testimoniato la loro fedeltà a Cristo e sono diventati “seme di cristiani”.

5. Nonostante questa Tradizione comune dei primi dieci secoli, cattolici e ortodossi, da quasi mille anni, sono privati della comunione nell’Eucaristia. Siamo divisi da ferite causate da conflitti di un passato lontano o recente, da divergenze, ereditate dai nostri antenati, nella comprensione e l’esplicitazione della nostra fede in Dio, uno in tre Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo. Deploriamo la perdita dell’unità, conseguenza della debolezza umana e del peccato, accaduta nonostante la Preghiera sacerdotale di Cristo Salvatore: «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 21).

6. Consapevoli della permanenza di numerosi ostacoli, ci auguriamo che il nostro incontro possa contribuire al ristabilimento di questa unità voluta da Dio, per la quale Cristo ha pregato. Possa il nostro incontro ispirare i cristiani di tutto il mondo a pregare il Signore con rinnovato fervore per la piena unità di tutti i suoi discepoli. In un mondo che attende da noi non solo parole ma gesti concreti, possa questo incontro essere un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà!

7. Nella nostra determinazione a compiere tutto ciò che è necessario per superare le divergenze storiche che abbiamo ereditato, vogliamo unire i nostri sforzi per testimoniare il Vangelo di Cristo e il patrimonio comune della Chiesa del primo millennio, rispondendo insieme alle sfide del mondo contemporaneo. Ortodossi e cattolici devono imparare a dare una concorde testimonianza alla verità in ambiti in cui questo è possibile e necessario. La civiltà umana è entrata in un periodo di cambiamento epocale. La nostra coscienza cristiana e la nostra responsabilità pastorale non ci autorizzano a restare inerti di fronte alle sfide che richiedono una risposta comune.

8. Il nostro sguardo si rivolge in primo luogo verso le regioni del mondo dove i cristiani sono vittime di persecuzione. In molti paesi del Medio Oriente e del Nord Africa i nostri fratelli e sorelle in Cristo vengono sterminati per famiglie, villaggi e città intere. Le loro chiese sono devastate e saccheggiate barbaramente, i loro oggetti sacri profanati, i loro monumenti distrutti. In Siria, in Iraq e in altri paesi del Medio Oriente, constatiamo con dolore l’esodo massiccio dei cristiani dalla terra dalla quale cominciò a diffondersi la nostra fede e dove essi hanno vissuto, fin dai tempi degli apostoli, insieme ad altre comunità religiose.

9. Chiediamo alla comunità internazionale di agire urgentemente per prevenire l’ulteriore espulsione dei cristiani dal Medio Oriente. Nell’elevare la voce in difesa dei cristiani perseguitati, desideriamo esprimere la nostra compassione per le sofferenze subite dai fedeli di altre tradizioni religiose diventati anch’essi vittime della guerra civile, del caos e della violenza terroristica.

10. In Siria e in Iraq la violenza ha già causato migliaia di vittime, lasciando milioni di persone senza tetto né risorse. Esortiamo la comunità internazionale ad unirsi per porre fine alla violenza e al terrorismo e, nello stesso tempo, a contribuire attraverso il dialogo ad un rapido ristabilimento della pace civile. È essenziale assicurare un aiuto umanitario su larga scala alle popolazioni martoriate e ai tanti rifugiati nei paesi confinanti.
Chiediamo a tutti coloro che possono influire sul destino delle persone rapite, fra cui i Metropoliti di Aleppo, Paolo e Giovanni Ibrahim, sequestrati nel mese di aprile del 2013, di fare tutto ciò che è necessario per la loro rapida liberazione.

11. Eleviamo le nostre preghiere a Cristo, il Salvatore del mondo, per il ristabilimento della pace in Medio Oriente che è “il frutto della giustizia” (cfr Is 32, 17), affinché si rafforzi la convivenza fraterna tra le varie popolazioni, le Chiese e le religioni che vi sono presenti, per il ritorno dei rifugiati nelle loro case, la guarigione dei feriti e il riposo dell’anima degli innocenti uccisi.
Ci rivolgiamo, con un fervido appello, a tutte le parti che possono essere coinvolte nei conflitti perché mostrino buona volontà e siedano al tavolo dei negoziati. Al contempo, è necessario che la comunità internazionale faccia ogni sforzo possibile per porre fine al terrorismo con l’aiuto di azioni comuni, congiunte e coordinate. Facciamo appello a tutti i paesi coinvolti nella lotta contro il terrorismo, affinché agiscano in maniera responsabile e prudente. Esortiamo tutti i cristiani e tutti i credenti in Dio a pregare con fervore il provvidente Creatore del mondo perché protegga il suo creato dalla distruzione e non permetta una nuova guerra mondiale. Affinché la pace sia durevole ed affidabile, sono necessari specifici sforzi volti a riscoprire i valori comuni che ci uniscono, fondati sul Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo.

12. Ci inchiniamo davanti al martirio di coloro che, a costo della propria vita, testimoniano la verità del Vangelo, preferendo la morte all’apostasia di Cristo. Crediamo che questi martiri del nostro tempo, appartenenti a varie Chiese, ma uniti da una comune sofferenza, sono un pegno dell’unità dei cristiani. È a voi, che soffrite per Cristo, che si rivolge la parola dell’apostolo: «Carissimi, … nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della Sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» (1 Pt 4, 12-13).

13. In quest’epoca inquietante, il dialogo interreligioso è indispensabile. Le differenze nella comprensione delle verità religiose non devono impedire alle persone di fedi diverse di vivere nella pace e nell’armonia. Nelle circostanze attuali, i leader religiosi hanno la responsabilità particolare di educare i loro fedeli in uno spirito rispettoso delle convinzioni di coloro che appartengono ad altre tradizioni religiose. Sono assolutamente inaccettabili i tentativi di giustificare azioni criminali con slogan religiosi. Nessun crimine può essere commesso in nome di Dio, «perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» (1 Cor 14, 33).

14. Nell’affermare l’alto valore della libertà religiosa, rendiamo grazie a Dio per il rinnovamento senza precedenti della fede cristiana che sta accadendo ora in Russia e in molti paesi dell’Europa orientale, dove i regimi atei hanno dominato per decenni. Oggi le catene dell’ateismo militante sono spezzate e in tanti luoghi i cristiani possono liberamente professare la loro fede. In un quarto di secolo, vi sono state costruite decine di migliaia di nuove chiese, e aperti centinaia di monasteri e scuole teologiche. Le comunità cristiane portano avanti un’importante attività caritativa e sociale, fornendo un’assistenza diversificata ai bisognosi. Ortodossi e cattolici spesso lavorano fianco a fianco. Essi attestano l’esistenza dei fondamenti spirituali comuni della convivenza umana, testimoniando i valori del Vangelo.

15. Allo stesso tempo, siamo preoccupati per la situazione in tanti paesi in cui i cristiani si scontrano sempre più frequentemente con una restrizione della libertà religiosa, del diritto di testimoniare le proprie convinzioni e la possibilità di vivere conformemente ad esse. In particolare, constatiamo che la trasformazione di alcuni paesi in società secolarizzate, estranee ad ogni riferimento a Dio ed alla sua verità, costituisce una grave minaccia per la libertà religiosa. È per noi fonte di inquietudine l’attuale limitazione dei diritti dei cristiani, se non addirittura la loro discriminazione, quando alcune forze politiche, guidate dall’ideologia di un secolarismo tante volte assai aggressivo, cercano di spingerli ai margini della vita pubblica.

16. Il processo di integrazione europea, iniziato dopo secoli di sanguinosi conflitti, è stato accolto da molti con speranza, come una garanzia di pace e di sicurezza. Tuttavia, invitiamo a rimanere vigili contro un’integrazione che non sarebbe rispettosa delle identità religiose. Pur rimanendo aperti al contributo di altre religioni alla nostra civiltà, siamo convinti che l’Europa debba restare fedele alle sue radici cristiane. Chiediamo ai cristiani dell’Europa orientale e occidentale di unirsi per testimoniare insieme Cristo e il Vangelo, in modo che l’Europa conservi la sua anima formata da duemila anni di tradizione cristiana.

17. Il nostro sguardo si rivolge alle persone che si trovano in situazioni di grande difficoltà, che vivono in condizioni di estremo bisogno e di povertà mentre crescono le ricchezze materiali dell’umanità. Non possiamo rimanere indifferenti alla sorte di milioni di migranti e di rifugiati che bussano alla porta dei paesi ricchi. Il consumo sfrenato, come si vede in alcuni paesi più sviluppati, sta esaurendo gradualmente le risorse del nostro pianeta. La crescente disuguaglianza nella distribuzione dei beni terreni aumenta il sentimento d’ingiustizia nei confronti del sistema di relazioni internazionali che si è stabilito.

18. Le Chiese cristiane sono chiamate a difendere le esigenze della giustizia, il rispetto per le tradizioni dei popoli e un’autentica solidarietà con tutti coloro che soffrono. Noi, cristiani, non dobbiamo dimenticare che «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1 Cor 1, 27-29).

19. La famiglia è il centro naturale della vita umana e della società. Siamo preoccupati dalla crisi della famiglia in molti paesi. Ortodossi e cattolici condividono la stessa concezione della famiglia e sono chiamati a testimoniare che essa è un cammino di santità, che testimonia la fedeltà degli sposi nelle loro relazioni reciproche, la loro apertura alla procreazione e all’educazione dei figli, la solidarietà tra le generazioni e il rispetto per i più deboli.

20. La famiglia si fonda sul matrimonio, atto libero e fedele di amore di un uomo e di una donna. È l’amore che sigilla la loro unione ed insegna loro ad accogliersi reciprocamente come dono. Il matrimonio è una scuola di amore e di fedeltà. Ci rammarichiamo che altre forme di convivenza siano ormai poste allo stesso livello di questa unione, mentre il concetto di paternità e di maternità come vocazione particolare dell’uomo e della donna nel matrimonio, santificato dalla tradizione biblica, viene estromesso dalla coscienza pubblica.

21. Chiediamo a tutti di rispettare il diritto inalienabile alla vita. Milioni di bambini sono privati della possibilità stessa di nascere nel mondo. La voce del sangue di bambini non nati grida verso Dio (cfr Gen 4, 10).
Lo sviluppo della cosiddetta eutanasia fa sì che le persone anziane e gli infermi inizino a sentirsi un peso eccessivo per le loro famiglie e la società in generale.
Siamo anche preoccupati dallo sviluppo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, perché la manipolazione della vita umana è un attacco ai fondamenti dell’esistenza dell’uomo, creato ad immagine di Dio. Riteniamo che sia nostro dovere ricordare l’immutabilità dei principi morali cristiani, basati sul rispetto della dignità dell’uomo chiamato alla vita, secondo il disegno del Creatore.

22. Oggi, desideriamo rivolgerci in modo particolare ai giovani cristiani. Voi, giovani, avete come compito di non nascondere il talento sotto terra (cfr Mt 25, 25), ma di utilizzare tutte le capacità che Dio vi ha dato per confermare nel mondo le verità di Cristo, per incarnare nella vostra vita i comandamenti evangelici dell’amore di Dio e del prossimo. Non abbiate paura di andare controcorrente, difendendo la verità di Dio, alla quale odierne norme secolari sono lontane dal conformarsi sempre.

23. Dio vi ama e aspetta da ciascuno di voi che siate Suoi discepoli e apostoli. Siate la luce del mondo affinché coloro che vi circondano, vedendo le vostre opere buone, rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli (cfr Mt 5, 14, 16). Educate i vostri figli nella fede cristiana, trasmettete loro la perla preziosa della fede (cfr Mt 13, 46) che avete ricevuta dai vostri genitori ed antenati. Ricordate che «siete stati comprati a caro prezzo» (1 Cor 6, 20), al costo della morte in croce dell’Uomo-Dio Gesù Cristo.

24. Ortodossi e cattolici sono uniti non solo dalla comune Tradizione della Chiesa del primo millennio, ma anche dalla missione di predicare il Vangelo di Cristo nel mondo di oggi. Questa missione comporta il rispetto reciproco per i membri delle comunità cristiane ed esclude qualsiasi forma di proselitismo.
Non siamo concorrenti ma fratelli, e da questo concetto devono essere guidate tutte le nostre azioni reciproche e verso il mondo esterno. Esortiamo i cattolici e gli ortodossi di tutti i paesi ad imparare a vivere insieme nella pace e nell’amore, e ad avere «gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti» (Rm 15, 5). Non si può quindi accettare l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni. Siamo chiamati a mettere in pratica il precetto dell’apostolo Paolo: «Mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui» (Rm 15, 20).

25. Speriamo che il nostro incontro possa anche contribuire alla riconciliazione, là dove esistono tensioni tra greco-cattolici e ortodossi. Oggi è chiaro che il metodo dell’“uniatismo” del passato, inteso come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa, non è un modo che permette di ristabilire l’unità. Tuttavia, le comunità ecclesiali apparse in queste circostanze storiche hanno il diritto di esistere e di intraprendere tutto ciò che è necessario per soddisfare le esigenze spirituali dei loro fedeli, cercando nello stesso tempo di vivere in pace con i loro vicini. Ortodossi e greco-cattolici hanno bisogno di riconciliarsi e di trovare forme di convivenza reciprocamente accettabili.

26. Deploriamo lo scontro in Ucraina che ha già causato molte vittime, innumerevoli ferite ad abitanti pacifici e gettato la società in una grave crisi economica ed umanitaria. Invitiamo tutte le parti del conflitto alla prudenza, alla solidarietà sociale e all’azione per costruire la pace. Invitiamo le nostre Chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all’armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto.

27. Auspichiamo che lo scisma tra i fedeli ortodossi in Ucraina possa essere superato sulla base delle norme canoniche esistenti, che tutti i cristiani ortodossi dell’Ucraina vivano nella pace e nell’armonia, e che le comunità cattoliche del Paese vi contribuiscano, in modo da far vedere sempre di più la nostra fratellanza cristiana.

28. Nel mondo contemporaneo, multiforme eppure unito da un comune destino, cattolici e ortodossi sono chiamati a collaborare fraternamente nell’annuncio della Buona Novella della salvezza, a testimoniare insieme la dignità morale e la libertà autentica della persona, «perché il mondo creda» (Gv 17, 21). Questo mondo, in cui scompaiono progressivamente i pilastri spirituali dell’esistenza umana, aspetta da noi una forte testimonianza cristiana in tutti gli ambiti della vita personale e sociale. Dalla nostra capacità di dare insieme testimonianza dello Spirito di verità in questi tempi difficili dipende in gran parte il futuro dell’umanità.

29. In questa ardita testimonianza della verità di Dio e della Buona Novella salvifica, ci sostenga l’Uomo-Dio Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore, che ci fortifica spiritualmente con la sua infallibile promessa: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno» (Lc 12, 32)!
Cristo è fonte di gioia e di speranza. La fede in Lui trasfigura la vita umana, la riempie di significato. Di ciò si sono potuti convincere, attraverso la loro esperienza, tutti coloro a cui si possono applicare le parole dell’apostolo Pietro: «Voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1 Pt 2, 10).

30. Pieni di gratitudine per il dono della comprensione reciproca espresso durante il nostro incontro, guardiamo con speranza alla Santissima Madre di Dio, invocandola con le parole di questa antica preghiera: “Sotto il riparo della tua misericordia, ci rifugiamo, Santa Madre di Dio”. Che la Beata Vergine Maria, con la sua intercessione, incoraggi alla fraternità coloro che la venerano, perché siano riuniti, al tempo stabilito da Dio, nella pace e nell’armonia in un solo popolo di Dio, per la gloria della Santissima e indivisibile Trinità!

Francesco
Vescovo di Roma
Papa della Chiesa Cattolica

 

Kirill
Patriarca di Mosca
e di tutta la Russia

12 febbraio 2016, L’Avana (Cuba)

Redazione de Gliscritti | Sabato 13 Febbraio 2016 - 01:06 am | | Default

Testimonianze dei catecumeni che sono state lette in occasione del Rito dell’Elezione nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il 13 febbraio 2016

Presentiamo sul nostro sito le testimonianze che sono state lette in occasione del Rito dell’Elezione nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il 13 febbraio  2016, con stralci di altre testimonianze. Saranno 90 i catecumeni che parteciperanno al Rito dell'Elezione in preparazione al Battesimo che riceveranno nella notte di Pasqua. Per approfondimenti sul catecumenato e per altre testimonianze degli anni precedenti, cfr. la sotto-sezione Catecumenato nella sezione Catechesi, famiglia e scuola.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2016)

1/ Quattro testimonianze

Eccellenza Reverendissima,

Mi chiamo Giuseppina e ho 25 anni. Prima di incontrare Cristo vivevo nelle tenebre, non ricordo quasi nulla, se non il terrore di non trovare la mia strada e sprecare gli anni della mia vita; ricordo i fiumi di lacrime spesi in una relazione sterile e devastante, la sofferenza, la solitudine, la confusione, l'angoscia, la delusione di amicizie fragili, il deserto, il vuoto... e la ricerca di una strada, di un senso, di una Luce più forte delle tenebre e un Amore più forte del dolore, e una Vita più forte della morte, soprattutto quella interiore.

Nata e cresciuta in una famiglia non credente e acattolica, ho cercato risposte in libri e tecniche orientali, evitando scrupolosamente di avvicinarmi alla Chiesa cattolica che credevo causa di tutti i mali, di inganni, e di schiavitù passate e presenti. Un giorno sono andata ad un incontro sui Dieci Comandamenti e mi aspettavo un prete noioso e dogmatico che voleva convincermi a credere nel suo Dio, parlando di sfere celesti e questioni astratte... e invece no. L'uomo che si presentò parlava a me di me, della mia realtà, della mia vita concreta, dei miei dubbi, delle mie angosce, dei miei desideri, delle mie emozioni, dei miei affetti. Mi sentivo conosciuta. Mi sentii amata, tanto, di un Amore così gratuito, semplice, puro, luminoso, libero, e inspiegabile per essere di questo mondo.

Cara Madre Chiesa, desidero essere Figlia di Dio, perché solo in Lui trovo compiutezza, felicità e riposo.

G. L. S.

Eccellenza Reverendissima,

Mi chiamo Riccardo, i miei genitori, pur essendo cristiani al momento della mia nascita, scelsero di non chiedere il Battesimo per me, preferendo che fossi io a maturare la scelta da adulto.

Negli anni della mia scuola elementare i miei genitori decisero di seguire il Buddismo, religione e filosofia di vita alla quale mi avvicinai anch'io non su un loro invito, ma per curiosità e per desiderio di emulare i miei genitori. In tutti questi anni una frase di mia madre mi è rimasta molto impressa è stata: "La filosofia buddista può anche aiutarti a capire il Cuore di quell'Uomo Straordinario che è stato Gesù".

Un giorno mi sono trovato ad affrontare una delle più grande prove della mia vita: qualche anno fa, infatti, mio padre è stato colto da un infarto, ed io mi sentivo impotente.

Ero letteralmente impietrito, non sapevo veramente cosa fare ... una sola cosa era chiara nella mia mente e nel mio cuore: non potevo e non volevo perdere mio padre così bruscamente.

E ho sentito una spinta, un enorme desiderio interiore di rivolgermi a Gesù. Non sapevo esattamente cosa dire, ma il mio cuore ha letteralmente fatto uscire dalla mia bocca tutto quello che volevo dire... e, oltre ad un fiume di lacrime, ne è venuta fuori la più bella preghiera della mia vita.

Da quella notte, mi ritrovo da quasi 2 anni a seguire un percorso di approfondimento religioso.

R.V.

Eccellenza Reverendissima,

fin da piccola sono sempre stata una persona meditativa, vivevo nel mio mondo di piccola artista - sono una pittrice; nel mio silenzio, disegnando, leggendo tanti libri e ascoltando musica classica, ho sempre cercato il perché di ogni cosa, riflettendo profondamente.

Sentivo che il bello e il buono è il motivo della vita. E così mi sentivo una persona scelta da Dio per creare e donare la bellezza al mondo.

Essendo nata in un paese con libertà religiosa, ma di maggioranza islamica - in Persia - ero attratta dalla spiritualità del cristianesimo e avevo anche alcuni amici cristiani nell’Università.

Ora dopo tanti anni vivendo in Italia - dal 1994 - ho potuto finalmente avere il contatto diretto con i cristiani ed ho sperato che un giorno potessi approfondire di più e arrivare ad essere battezzata e realizzare il sogno di essere una vera cristiana, con il Battesimo.

A.B. M.

Eccellenza Reverendissima,

Sono nato in una coppia mista, padre islamico e madre cattolica. Nel corso della mia infanzia non ho ricevuto pressioni né costrizioni da parte dei miei genitori per abbracciare l'una o l'altra fede; anzi ho frequentato in egual modo moschea e chiesa. Questa libertà nascondeva però una grande difficoltà, il poter scegliere rappresentava, per così dire, esprimere una preferenza: decidere di abbracciare un credo rispetto a un altro è inconsciamente sostituito da "vuoi più bene a papà o mamma?" Senza approfondire e per non scontentare nessuno avevo deciso semplicemente di lasciare fuori Dio dalla mia vita.

Nel settembre del 2009 ho ricevuto l'invito a partecipare ad un incontro in un piccolo gruppo di preghiera. Io, sempre restio e scettico nei confronti di queste attività, inspiegabilmente ho accettato.

Mi sono ritrovato con un grande tesoro: l'abitudine acquisita di prendere parte alla messa domenicale. Nella parrocchia di San Bernardo da Chiaravalle per molte domeniche, con grande gioia, ho partecipato alla liturgia dei bambini.

Nell'estate del 2011, durante un ritiro sul VI comandamento e a seguito di una notte particolare che questo ritiro ci dona, ho preso coraggio e ho parlato del mio desiderio a Don Fabio.

O. S.

2/ Testimonianza di due catechisti

Eccellenza Reverendissima,

ci rivolgiamo a lei a nome di tutti i catechisti. Ognuno vorrebbe raccontarle la propria esperienza e solo il tempo lo rende impossibile.

Vogliamo innanzitutto ringraziare il Signore ed insieme i nostri parroci, don Romano De Angelis prima ed ora don Antonio Fois insieme a don Francesco Pelusi, vice-parroco che ci hanno accompagnato. Gli incontri con i catecumeni sono stati una grande occasione per comunicare le ragioni della nostra fede e per affezionarci sempre di più alla Presenza di Gesù nella sua Chiesa. Tre sono i catecumeni che accompagniamo al Battesimo.

O., che provenendo da Cuba ricordava quando era piccolo la devozione di sua nonna in un Paese ateo che non permetteva la libertà religiosa, ha scoperto nel cuore il desiderio di pregare e ci ha chiesto come imparare. A. pittrice, proveniente da un paese di cultura musulmana, dove l’immagine di Dio non è di solito rappresentata, attraverso l’arte cristiana occidentale in particolare, ha sentito che la vera Bellezza è  Dio. J.A.M., venuta con la madre in cerca di lavoro dalle Filippine, pur molto giovane ha scoperto la nostalgia del proprio Paese e con essa il desiderio di diventare cristiana

Per tutti la fede è stata una “scoperta” che ha destato stupore. Questo loro “stupore” è diventato il nostro nello scorgere Cristo presente e all’opera, qui e ora, e ci ha trasmesso la forza per accompagnarli in questo cammino.

Li presentiamo a lei, Eccellenza, insieme agli altri catecumeni, assicurandole che continueremo a pregare per loro e a star loro vicino

M.C. C. e A. T.

3/ Stralci di altre testimonianze

Eccellenza Reverendissima,

ho sempre ritenuto i sacramenti superflui e nonostante io creda in Dio da quando ho memoria, il Signore ha avuto solo una minima parte nella mia vita, nei miei pensieri e nelle mie opere. Oggi posso affermare che in passato Dio più volte ha provato ad attirare la mia attenzione verso di lui e soprattutto il Battesimo ma io ero troppo preso dagli aspetti terreni della mia vita per accorgermi di Lui. L’unico modo per arrivare a me era la goccia che giorno dopo giorno poteva aprire un varco dentro di me e questa goccia è stata mia moglie, la quale raramente mi ha parlato di Gesù Cristo, ma la sua testimonianza quotidiana mi ha fatto comprendere l’amore e la misericordia. L’incontro con il nostro parroco ha segnato un momento decisivo per la mia vita di fede e per il mio cammino. Mia moglie aveva aperto una breccia nel mio animo e il Signore per mezzo di don Gabriele mi ha permesso di iniziare il cammino al catecumenato.

D. M.

Eccellenza Reverendissima,

Sono cresciuta nella Germania dell'est e la religione non ha mai avuto un ruolo importante nella mia infanzia. Mia nonna aveva una Bibbia in casa, ma non andava in chiesa; però ogni sera pregava il Signore.

I miei genitori mi educavano nell’amore della bellezza della natura e dell'arte e forse in queste cose, trovavo i momenti più felici.

Non c'è da meravigliarsi se dopo mi sono iscritta alla Facoltà di Storia dell'Arte e per perfezionare i miei studi sono venuta a Roma. Cinque anni di bellezza travolgente, ma anche di caos indescrivibile. Trovavo serenità e pace solo all'interno delle chiese. Mentre scrivevo un saggio sull'arte barocca venivo attirata sempre in questi luoghi, solenni e misteriosi, nei quali sentivo presente uno spirito diverso da quello della comune vita quotidiana improntata al combattimento e all'ignoranza. Mi affascinava la Santa Messa, una ritualità che mi dava stabilità, mi legava ad una comunità.

Sentivo sempre di più che Qualcuno mi stava aspettando con amore gratuito, un amore che cura tutte le ferite e dà forza.

Poi ho conosciuto un ragazzo che vive la Parola di Gesù con semplice ed onesta sincerità. Poi è arrivato il giorno in cui ho conosciuto don Luigi che con il suo viso  mi ispirava fiducia e calore; mi sono fatta coraggio e gli ho parlato. Lui mi ha invitata ad iniziare un cammino. In questi giorni penso spesso a mia nonna che avrebbe fatto festa vedendomi così felice nell'aver incontrato Gesù.

C.A. B.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 12 Febbraio 2016 - 5:35 pm | | Default
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Il Vescovo di Aleppo in Siria: l'incontro tra Francesco e Kirill è anche il frutto delle nostre sofferenze. E questo ci consola (Agenzia Fides)

Riprendiamo dall'Agenzia di stampa Fides un articolo a firma GV, pubblicato il 12/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2015)

Aleppo (Agenzia Fides) - “I cristiani di qui si sono accorti che le loro sofferenze non cadono nel nulla: l'incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill lo percepiscono come il frutto della croce che stanno vivendo. La sofferenza di tutti i cristiani del Medio Oriente porta il frutto dell'unità, e ne potrà portare anche altri. Questo per noi è una grande consolazione e ci aiuta a andare avanti, anche se dobbiamo ancora soffrire”.

Così il Vescovo Georges Abou Khazen OFM, Vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, descrive all'Agenzia Fides i sentimenti che registra in questi giorni tra i cristiani della sua città, mentre le notizie sull'incontro a Cuba tra il Vescovo di Roma e il Primate della Chiesa ortodossa russa si mescolano a quelle su un possibile, imminente cessate il fuoco nei teatri di guerra siriani. 

“Qualche giorno fa” aggiunge il Vescovo francescano “un alto rappresentante del Patriarcato di Mosca ha detto esplicitamente che a rendere urgente l'incontro di Cuba è stata la comune sollecitudine per le sofferenze dei fratelli cristiani del Medio Oriente. Di questo abbiamo parlato anche nelle omelie e nei nostri incontri: i fedeli ritrovano coraggio, quando si accorgono che le loro sofferenze hanno a che vedere in maniera misteriosa con l'unità tra i fratelli separati, dove Cristo ci abbraccia e ci consola tutti”.

Il Vicario apostolico di Aleppo riporta anche le attese suscitate nella popolazione dalle notizie su un possibile, imminente cessate il fuoco imposto alle parti coinvolte nel conflitto siriano: “Per noi” dice a Fides il Vescovo Abou Khazen “sarebbe un sogno. Rimane l'incognita dei gruppi jihadisti. Sappiamo che per buona parte sono stranieri: chi li comanda? A chi rispondono? Aderiranno alla tregua?”.

Il Vicario apostolico fornisce anche notizie di prima mano sulla situazione di Aleppo: “L'esercito regolare avanza con l'aiuto dei russi, e nei quartieri liberati ricomincia a funzionare l'acqua e la luce, riaprono le scuole. In molte situazioni si offre la possibilità di riconciliazione ai siriani che si erano legati coi gruppi di ribelli. Sono le milizie combattenti controllate da stranieri che impongono ancora le resistenza e la guerra. E tra la popolazione prevale apprezzamento per il ruolo giocato dai russi”. (GV)

Redazione de Gliscritti | Venerdì 12 Febbraio 2016 - 5:30 pm | | Default
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Il ddl Cirinnà "ammanicato" (cioè "ben sistemato per i favori dei potenti, politici e giornalisti") ha vinto: il nuovo dogma ci libererà, speriamo, almeno dal vittimismo, di Giovanni Amico (nota semi-seria)

Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo, Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo e Il desiderio di avere un figlio è un bisogno? Oppure è un piacere che non può essere negato? Considerazioni psicologiche, di Giovanni Amico.

Il Centro culturale Gli scritti (11/2/2016)

Ormai le unioni civili del ddl Cirinnà sono al potere. Nonostante il teatrino ostentato sui media è a tutti evidente che il potere ed i mezzi di comunicazione hanno deciso: il ddl Cirinnà sarà approvato (il referendum popolare resta l'unica possibilità per capire cosa pensa la nazione, perché questo ai politici ed ai media non interessa).

Appare veramente incomprensibile come i sostenitori del nuovo dogma, cioè i politici ed i media - le coppie omosessuali sono spesso meno faziose e più realistiche -, non accettino nemmeno l’ombra del dubbio che ogni ricercatore serio potrebbe almeno concedere.

1/ Per costoro, non c’è il minimo dubbio: un bambino cresciuto da due genitori dello stesso sesso non manca di niente. Non manca di niente un bambino che cresce con due maschi - già la presenza di due donne sarebbe più accettabile per chi abbia un minimo di competenze psicologiche o pedagogiche. Un articolo, pubblicizzato sulla prima pagina del sito di Repubblica[1], titolava: “Il sesso dei genitori? Irrilevante”[2]. Solo qualche timida ammissione dai sostenitori meno strenui, come, ad esempio, su di un profilo FB: “Avere due papà e nessuna mamma non è il top”.

2/ Per costoro non c’è il minimo dubbio: la stepchild adoption non ha nulla a che vedere con la maternità surrogata. L’utero in affitto è totalmente estraneo, secondo i vincenti, all’adozione di un figlio da parte di due maschi omosessuali. Neanche il minimo dubbio che renda necessario l’inserimento di qualche specificazione legislativa in merito a difesa delle donne che partoriranno figli per le unioni, poiché mai e poi mai una coppia omosessuale composta da due maschi si recherà presso qualche medico specialista interessato anche al suo stipendio per chiedere un bambino, bensì tutto avverrà in maniera “naturale”, “vegana” direi!

3/ Per costoro non c’è il minimo dubbio: un rapporto light come quello delle unioni civili può tranquillamente essere equiparato alla famiglia. Ci penserà la magistratura – come tutti sanno – ad equiparare i due istituti. Nessun problema, quindi, con la reversibilità della pensione, anche se lo scioglimento di un’unione prevede che il partner più benestante sostenga l’altro solo per un tempo congruo alla durata dell’unione: la reversibilità della pensione per costoro non deve essere per un periodo di tempo corrispondente alla durata dell'unione, bensì deve essere senza durata (gli slogan sono "diritti e non doveri per le unioni civili", "i diritti delle famiglie, ma non i doveri delle famiglie per le unioni").

4/ Per costoro non c’è il minimo dubbio: bisogna procedere perché l’Italia è indietro di secoli. Che dico di secoli, di millenni! Ecco anche qui l’ingiusto ritardo, come se la possibilità di far nascere un bambino in un utero altrui, senza sesso, non fosse un’invenzione tecnologica appena resa possibile: la tecnologia per i concepimenti senza sesso esiste dal medioevo ed è stata evidentemente causa di discriminazione nei millenni passati!!! Nessun dubbio, anche a prescindere da considerazioni morali: lo sganciamento del concepimento dall’atto sessuale e dal piacere è senza conseguenze, per costoro, va bene come va bene il cibo OGM. La tecnologia dell’occidente non si discute.

Nessun dubbio. Nessun dubbio perché la legge deve essere dalla parte delle vittime, di chi "non ha i diritti" - ma è esattamente di questo che non si vuole discutere, se esista un diritto del bambino che è il più debole e se sia legittimo chiamare diritto il mio desiderio di essere un padre contro il diritto di qualcuno che sarà mio figlio, ma mai figlio di sua madre che pure esiste non essendo morta. Perché chi aspira alle unioni civili è "perseguitato". Perché l’omofobia così "devastante" in Italia crea loro sofferenza.

Si noti bene che il paese non è contrario ad una legge sulle unioni civili che escluda l'adozione e che conceda diritti equi, ma escludendo l'equiparazione alla famiglia che non è ammessa dalla Costituzione - e non è ammessa giustamente perché il regime delle unioni non prevede gli stessi doveri del matrimonio e, soprattutto, è una realtà diversa perché non ha fra i suoi fini la procreazione. Ma per costoro è meglio nascondere che il paese non è contro le unioni civili di per sé, bensì le accetterebbe se fossero accettate le due differenze sopracitate: affermando che gli altri non vogliono i "diritti" li si fa passare per carnefici, per intolleranti, per anti-moderni, per anti-democratici. Per costoro è opportuno far passare l'idea che siano i cattolici a non essere d'accordo, come se persone di altre religioni e atei non la pensassero alla stessa maniera. Per costoro è meglio far sembrare che siano i "medievalisti" a non essere d'accordo, come se modernissime femministe non avessero parlato chiaramente contro la stepchild adoption

Il dubbio sul ddl Cirinnà – è il sospetto insinuato da tanti commentatori – deve essere messo a tacere perché viene dai “nemici” degli omosessuali, non dalla realtà. Il dubbio contro chi vuole le unioni civili così come le definisce la Cirinnà – è il sospetto insinuato da tanti commentatori – viene dai potenti, viene da chi detiene il controllo dei mezzi di comunicazione. Ops? Ma non è il potere politico che vuole il ddl Cirinnà? Ops, ma non sono i mezzi di comunicazione che vogliono l’approvazione del ddl Cirinnà?

Ops, ma il potere politico ed i mezzi di comunicazione sono a favore delle unioni civili e vogliono questa legge senza che sia sollevato il minimo dubbio su di essa.

Ci resta allora almeno un sollievo. Una volta che il ddl sarà approvato, sarà evidente che il potere e la comunicazione sono detenuti in Italia da chi è favorevole alle unioni civili. Ottenuta la legge sarà evidente che lo Stato difende le unioni civili, mentre si disinteressa delle famiglie (si veda, solo per fare un esempio, la questione degli sgravi fiscali per le famiglie numerose). Almeno terminerà il vittimismo dei giornalisti che difendono le unioni civili. Terminerà la nenia: nessuno riconosce i diritti delle unioni civili. Terminerà. Terminerà?

Post scriptum

Si noti che il ddl Cirinnà bis è realizzato con un copia/incolla e taglia/cuci del diritto matrimoniale e non è pensato ex novo da aver generato il problema rilevato da alcuni quotidiani come La stampa: “Le unioni civili? Nulle se uno dei due è gay…”: il pasticcio sul ddl Cirinnà, di Mattia Feltri

Note al testo

[1] Homepage al 10/2/2016.

[2] Lo psicologo: "Il sesso dei genitori? Irrilevante. L'idea di coppie gay con figli è ancora un tabù", di Susanna Turco, su L’espresso on-line del 9/2/2016.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 11 Febbraio 2016 - 10:15 pm | | Default

Idrogeno, carbonio, ossigeno… Da dove vengono gli elementi (dal sito della NASA)

Riprendiamo dal sito della NASA http://apod.nasa.gov/apod/ap160125.html una foto con il suo commento pubblicati il 25/1/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Image Credit: Cmglee (Own work) 
CC BY-SA 3.0 or GFDL, via Wikimedia Commons

L'IDROGENO nei nostri corpi, presente in ogni molecola di acqua, proviene dal Big Bang. Non ci sono altre fonti di idrogeno nell'universo.

Il CARBONIO nei nostri corpi è stato fabbricato per fusione nucleare nei nuclei delle stelle, e lo stesso vale per l'OSSIGENO.

La maggior parte del FERRO nei nostri corpi è stato prodotto durante l’esplosione di stelle avvenute molto tempo fa e molto lontano (l’esplosione di una stella di grande massa è detta supernova).

L'ORO con cui fabbrichiamo gioielli si è prodotto probabilmente durante l’esplosione di stelle di neutroni che sono forse state visibili come sorgenti esplosive di raggi gamma.

Elementi come il FOSFORO e il RAME sono presenti nei nostri corpi solo in piccole quantità, ma sono essenziali per la vita così come noi la conosciamo.

La tavola periodica qui mostrata è colorata in maniera da indicare quella che consideriamo l’origine più probabile dei nuclei di tutti gli elementi noti.

I luoghi di nucleosintesi di alcuni elementi, come per l’appunto il RAME, non sono ancora ben conosciuti e sono oggetto di ricerca e simulazione con il computer.

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:49 pm | | Default

Il desiderio di un’eventuale unione civile di avere un figlio è un bisogno? Oppure è un piacere che non può essere negato? Considerazioni psicologiche, di Giovanni Amico

Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

«Il desiderio di essere genitori non è certo un diritto». Così titolava recentemente un  articolo di Huffington Post[1], ma proseguiva poi dicendo che l’avere un figlio per una coppia omossessuale era non un diritto, bensì un bisogno.

L’Espresso spingeva ancora oltre l’argomentazione affermando: «Avere un figlio non è un dovere, ma un piacere che nessuno può vedersi negato»[2].

Freud ha parlato in maniera ancora oggi insuperata del fatto che la maturità psicologica consista nel passaggio dal principio del piacere al principio della realtà. Il bambino pretende tutto e lo pretende come un bisogno, ma viene aiutato dalla “realtà” a capire che i suoi presunti “bisogni” non sono tali, ma anzi deve imparare dalla frustrazione, ad accettare la realtà che poi gli darà più “piacere” dell’esistenza immaginaria del suo “bisogno”.

Anche in relazione alle coppie omosessuali diviene evidente l’importanza della questione. Se un mio “bisogno” è un danno per il bambino allora io recedo dal mio desiderio, per quanto comprensibile esso sia. È il bambino, infatti, ad avere, lui sì, veramente bisogno reale di un padre e di una madre.

Per capire cosa si intende qui per “bisogno”, basti pensare ad altre situazioni. Molte persone hanno bisogno di un partner e non lo hanno, hanno bisogno di fare sesso e non trovano una persona che le ami, hanno bisogno di avere un bambino e non lo possono avere, hanno bisogno che una certa persona divenga loro amica e quella persona si rifiuta, hanno bisogno di emergere nel mondo dello spettacolo e non ci riescono, hanno bisogno di una persona più fresca con cui fare sesso al posto della loro moglie o marito che ha ormai 60 anni e non lo fanno perché non è giusto e così via: è la realtà.

La realtà si rivela però feconda se io, accogliendo il principio di realtà, rinuncio al mio desiderio infantile di onnipotenza (terminologia freudiana)  e riesco a canalizzare il mio desiderio in maniera reale. Se provo un desiderio di fecondità - come è legittimo ed anzi costitutivo dell’essere umano -, ecco che posso provare a domandarmi se non possa esser bello dedicarmi, per  esempio, al volontariato e al sostegno di progetti di paesi in via di sviluppo, o se ancora la mia ricerca debba spingersi e cercare ancora.  

L’utilizzo perverso – da un punto di vista psicologico - dell’utilizzo della parola “bisogno” (in questo caso addirittura peggiorativo rispetto alla parola “diritto”) consiste nel fatto che si intende insinuare il maccanismo della colpevolizzazione dell’altro. Potremmo semplificare così il meccanismo del capro espiatorio che, piuttosto che affrontare il diniego della realtà, cerca di spostare in senso moralistico la colpa su di un malvagio persecutore ricostruito psicologicamente: io ho questo bisogno, tu me lo rifiuti, tu sei cattivo. O ancora: se tu non ci fossi ecco che potrei soddisfare il mio bisogno che invece mi viene negato dalla tua presenza ingiusta. La persona infantile evita così di confrontarsi con la realtà frustrante e scarica sul presunto "nemico" il suo malessere.

Così fa il bambino. Vuole qualcosa e comincia a piangere, lanciando il messaggio che quella cosa è per lui un bisogno e che il genitore che glielo rifiuta, non gli vuole bene, bensì è un crudele tiranno.

Ebbene, il genitore  che ama quel figlio rifiuta, invece, il ricatto e mostra che tutti possono vivere anche senza quell’oggetto desiderato, mostrando che nella vita infinite persone non hanno avuto quella cosa e, nonostante questo, vivono una vita bellissima. Ma il genitore deve avere ben chiaro che la frustrazione che il figlio vivrà non è per la sua infelicità, bensì per la sua crescita in giustizia e accoglienza della realtà.

Qui la situazione è ancora più seria, poiché non si tratta di cose, ma di persone. Si pretende di avere persone, di avere figli.

Per questo quando opinionisti e giornalisti incentivano posizioni vittimistiche in realtà trattano in maniera infantile coloro che affermano di avere bisogni e piaceri, trasformandoli - secondo il principio del piacere e a detrimento del principio di realtà - in diritti. Un atteggiamento psicologicamente maturo dovrebbe tendere, piuttosto, a mostrare che si comprende la mancanza, che si comprende il dolore, ma appunto che la mancanza e il doloro possono essere vissuti perché questo è il limite della condizione di una coppia omosessuale.

La fecondità di una coppia omosessuale consisterà, dal punto di vista psicologico, in qualcosa di diverso dalla fecondità di una famiglia che vive naturalmente l’attesa di un bambino, perché composta da un uomo e da una donna. La famiglia, a sua volta, avrà altre frustrazioni, poiché solo nei messaggio ideologici esiste una patinatura tipo Mulino Bianco.

La fecondità di un amore omosessuale sarà tutta da scoprire da un punto di vista psicologico, consisterà forse piuttosto in uno stimolo ad uscire dalle regole, in un essere un richiamo alla diversità. Consisterà, comunque certamente  in una ricerca alternativa di fecondità, che però accetti come limite “frustrante” – in senso freudiano – il non poter avere figli e il non poterli avere perché è il bambino ad avere bisogno di un padre e di una madre.

L’impostazione dell’articolo citato di Huffington Post così come dell’intervento di Saviano su L’Espresso  ha, comunque, il merito di mostrare perché è giusto dedicare tanto tempo a discutere del diniego delle adozioni da parte di coppie omosessuali: non sono in questione solo piccoli dettagli che interessano in fondo un numero irrisorio di persone – la maggior parte delle unioni civili non chiederebbero di avere un figlio.

È in questione qualcosa di molto più grande, l’importanza di non confondere il principio del piacere con il principio di realtà, è in questione l’intera storia della psicologia e della spiritualità umana.

Note al testo

[1] Il desiderio di essere genitori non è certo un diritto, di Giuseppina La Delfa, fondatrice ed ex presidente di Famiglie Arcobaleno Associazione Genitori Omosessuali, 3/2/2016.

[2] Quegli atti d’amore dietro i diritti negati, di Roberto Saviano, 5/2/2016.

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:48 pm | | Default

1/ Il vero senso dell'«avere» che dà valore e misura all'«essere» dell'uomo, di Fabrice Hadjadj 2/ Non sappiamo più possedere. E non ci resta che vendere... , di Fabrice Hadjadj

1/ Il vero senso dell'«avere» che dà valore e misura all'«essere» dell'uomo, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 24/1/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Tra le tante espressioni di cui ho fatto uso e abuso c'è questa (o qualcosa di simile): «Gli uomini si preoccupano di avere quando, prima di tutto, si tratta di essere», preceduta o seguita da una denuncia del «possesso» e delle «ricchezze»… Quanti mezzi-filosofi hanno suonato e ancora suonano questo disco!

Il loro sforzo metafisico consiste nel porre «la questione dell'essere» in modo talmente ossessivo da dimenticare quella dell'avere, lasciandola al di fuori del pensiero, abbandonandola al capriccio e al calcolo.

Così, costoro parlano dell'essenza dell'uomo come se non gli fosse necessario avere un habitat e degli abiti, sempre lasciando intendere quanto sarebbe per lui decisivo avere i loro libri.

San Tommaso osserva però che tra le dieci categorie (vale a dire tra i dieci generi supremi con i quali si rapporta tutto quanto si può dire di qualcosa) la categoria dell'«avere» è la sola a essere specificamente umana. Quando si dice che una mucca ha le corna si intende dire che essa è cornuta: questo rimanda alla sua «sostanza». È come quando si dice che l'uomo ha la ragione o che ha le mani.

E tuttavia, grazie alla nostra ragione e alle nostre mani siamo capaci di produrre o di tenere una miriade di cose «estrinseche» alla nostra sostanza, e cioè separabili dal nostro corpo e allo stesso tempo non dovute a un semplice determinismo (perché il nido può essere separabile quanto si vuole dal corpo dell'uccello, ma resta malgrado tutto intrinseco alla sua sostanza essendo prodotto per istinto e non a partire da un'idea concepita deliberatamente).

Essere senza avere, di conseguenza, sarebbe essere angeli o bestie – ma non essere umani. Avere ci è necessario e la giusta misura vuole che tale avere sia proporzionato al nostro essere. L'avere è talmente fondamentale per l'uomo che, secondo Heidegger, è il solo animale che «ha da essere»: la nostra propria essenza, che non è l'avere, è sempre in gioco come se fosse l'avere, così che al contrario del maiale, che non si pone la domanda di sapere cosa sia un maiale né di continuare la sua vita di maiale, posso chiedermi cosa è l'umano e decidere di vivere come un porco.

E, nella misura in cui io consenta a restare umano, dovrò cercare la mia umanità non soltanto in me stesso ma anche nelle cose che mi circondano. Mi preoccuperò di un'abitazione veramente umana, di strumenti veramente umani, di un ambiente che permetta il vero dispiegamento della nostra esistenza. Se il nostro essere è segnato profondamente dall'avere, il nostro avere deve a sua volta trovarsi propizio al nostro essere e diventarne l'ostensorio.

Questa doppia segnatura risuona nella nostra lingua: avere, come anche essere, è un verbo ausiliare che viene a incidere su tutti gli altri verbi. Ecco perché, come abbiamo già detto, ci sono usi del termine «avere» che non corrispondono in senso stretto ad avere.

Dico: «ho un corpo» mentre io sono il mio corpo. Alcune espressioni stanno tuttavia al punto di giunzione: ho un amico, ho una moglie, ho dei figli… Qui non posso rettificare dicendo che io sono il mio amico, sono mia moglie o i miei figli. Il pericolo è da un lato di farne degli oggetti, ma, dall'altro, non minore è il pericolo di esserne il soggetto.

Ora è in questo luogo di possibile confusione che si può probabilmente discernere l'essenza dell'avere: avere degli amici, una moglie, dei figli, ecco il cuore dell'essere e dunque il criterio dell'avere. Ho veramente soltanto ciò che mi apre alla vita con gli altri. Da qui la parola del Redentore: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta” (Lc 16, 9). Anche il denaro, parodia dell'avere (ne parlerò la prossima settimana) vede il suo inganno sventato se si riesce a servirsene non per il profitto, ma per la prossimità, per quell'avere al di là di ogni avere – quello degli amici.

2/ Non sappiamo più possedere. E non ci resta che vendere... , di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 31/1/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Di solito si pensa che basti comprare una cosa per averla. Ma in che modo quello che compriamo diventa nostro? Mi pongo spesso questa domanda quando vedo sui miei vestiti i nomi di Hugo Boss e di Abercrombie & Fitch, oppure il piccolo giocatore di polo di Ralph Lauren, mentre io non ho mai giocato a polo e gli sport con la palla non sono mai stati il mio forte – neanche il calcio-balilla…

E siccome i marchi ci trasformano in specie di uomini-sandwich volontari, possiamo seriamente chiederci se i loro prodotti davvero ci appartengono o se invece siamo noi ad appartenergli. Del resto il prêt-à-porter non ha alcun interesse ad esser fatto su misura. Se qualcosa ci va a pennello non saremmo presto spinti ad acquistare qualcos'altro.

Le carte di fedeltà sono molto spesso gli emblemi di un tradimento consenziente e ripetuto: il segno che ciò che ci è stato venduto non era adatto a noi al punto da rendere inutile il ritornare. Un buon sarto invece non teme di mandarci altrove: il suo taglio ci si attaglia così bene, è così ben fatto e così poco soggetto alla moda, che non ci occorre comprar da lui nient'altro, anche se la sua persona ci sta a cuore.

La cosa più bella, quasi non oso immaginarlo, sarebbe avere un vestito tagliato per me da qualcuno con cui avessi una relazione, non di denaro, ma di amicizia, forse anche di amore, mia moglie per esempio, se possedesse perfettamente l'arte del cucito. Con quale fierezza allora indosserei l'abito sul quale lei avesse ricamato le nostre iniziali intrecciate! Quasi non oso immaginarlo – dicevo – perché so che questo sogno è reazionario, sessista, se non addirittura fascista, certo, tanto è oggigiorno evidente che la liberazione della donna passa attraverso la sua completa sottomissione all'industria dell'abbigliamento (per fortuna mi chiamo Hadjadj e il nome di mia moglie da nubile è Michel: possiamo ritrovare un pochino l'unione delle nostre famiglie nell'etichetta H&M).

 Il problema può essere affrontato da un altro punto di vista. Nell'Economico di Senofonte, Socrate si interroga sulla nozione di possesso e pone al suo interlocutore Critobulo questa domanda fondamentale: «Se tu avessi un flauto e non lo sapessi suonare, possederesti veramente quel flauto?». La risposta è no, certo. Avere senza saper usare non è ancora avere. Il flauto del non-flautista è solamente il «ninnolo d'inanità sonora» di cui parlava Mallarmé – al limite un oggetto decorativo, ed è certo che il consumo ci spinge ad accumulare questo genere di oggetti.

Ho già avuto modo di dirlo in una puntata precedente: sappiamo usare appieno un foglio di carta e una penna? Ne traiamo tutti i disegni, tutta la letteratura, tutto il pensiero di cui sono capaci? La verità è che noi moltiplichiamo i titoli nominali di proprietà per compensare una espropriazione permanente.

È tuttavia a questo punto che Critobulo interviene con una genialità bastante a far sgorgare tutto il mercantilismo del futuro: «Questo flauto, obietta, è per me qualcosa, anche se non so suonarlo, perché posso venderlo».

Ecco un'osservazione di una profondità inaudita. Cosa ci svela? Che la vendita è l'uso di ciò che non si sa usare. Grazie ad essa, tutto può passare dalle mani del commerciante, come l'acqua che scorre tra le sue dita, certo, ma lasciandogli un'ebbrezza e un "margine".

Il flauto, il cavallo, la casa, la donna, le stelle, il lavoro degli altri, la terra che non è sua, tutto può vendere, tutto scambiare con profitto. È precisamente perché non sa usare niente che lo scambio è l'uso di tutto, e soprattutto la sua usura.

Ma cosa ci procura alla fine tutto questo consumare? La capacità di comprare ancora, e dunque di non avere veramente, e dunque di vendere ancora, accumulando sempre più denaro, provando cioè la vertigine di possedere virtualmente il mondo, perché non si è stati capaci di possedere nemmeno una penna e un foglio di carta, scrivendoci una poesia.

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:47 pm | | Default
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Elogio della lezione frontale. Il multimediale, le parole e il gesso, di Roberto Contu

Riprendiamo dal sito http://www.laletteraturaenoi.it/ un articolo scritto da Roberto Contu e pubblicato l’1/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Letteratura e la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

So utilizzare bene il pc. Lo so usare perché mi è sempre piaciuto farlo o semplicemente perché appartengo a una delle prime generazioni che l’ha usato fin dall’infanzia. A sette anni digitavo load/return su un Commodore 16 (ma avevo già messo le mani su un Vic 20), a dieci iniziavo a scrivere linee di Basic con il Commodore 64. Al liceo mi sono fatto regalare un Amiga 2000 per la possibilità di fare programmazione e utilizzare Workbench oltre che giocarci a SWOS. Ho visto, utilizzato e smontato tutte le versioni di Windows: dal primo a Win 95, per passare al 97, dal 2000-XP-Vista-7-8 fino all’attuale Win 10.

Ho sperimentato tante macchine, sono partito con un 286 e arrivato a un 486 per avere Monkey Island 2 che girasse fluido. Ho passato in rassegna i Pentium fino ad arrivare a l’ i7 che sto usando ora. Utilizzo la rete da sempre, ho iniziato a spedire mail fin dai tempi della loro comparsa. Nel frattempo ho scoperto il mondo Open source, Linux, ho iniziato ad aprire Terminal ma conosco bene anche il mondo Apple. So montare e smontare file, creare archivi e database, gestire hardware e far funzionare al meglio i software. Ho creato ipertesti, so costruire un sito web, abito naturalmente il mondo social. Mi tengo aggiornato, sto difronte ad un monitor molte ore al giorno. Insomma posso dire di usare il pc bene. Non a livello di un informatico certo, ma so utilizzare il pc bene.

Lo utilizzo a scuola

I miei alunni sono in rete con me, i gruppi classi on line sono da tempo una consuetudine nella mia prassi didattica. Mi sono presto interessato ai nuovi approcci didattici, possibili e immaginabili, che integrassero in modo intelligente passione per l’insegnamento, solidità degli obbiettivi e nuove tecnologie. Ho seguito corsi on line sulla flipped-classroom, capisco le potenzialità dell’e-learning, so gestire didatticamente un e-book. Utilizzo ogni risorsa che offre il registro elettronico apprezzandone la comodità e l’infinito risparmio di tempo che consente. Con il pc integro senza problemi la Lim sfruttandone le potenzialità, metto in condivisione i lavori, utilizzo mappe interattive, linee del tempo, questionari. Uso Moodle, cloud vari, per non parlare di software di ogni tipo, dai più comuni (suite varie, Office, Prezi e simili) fino a software per l’elaborazione grafica (Gimp, Photoshop), video (Premiere Pro) e audio (Cubase, Pro tools, Reaper). Ovviamente so usare anche i nuovi device smart (telefoni e tablet) e relative applicazioni.

Ebbene?

Tutto questo per dire che, anche se il mio profilo sembrerebbe quello del cosiddetto docente 2.0, continuo a considerare la lezione frontale la pietra angolare del mio essere insegnante. Sì, proprio la lezione frontale, docente di fronte agli alunni, messi all’antica: l’uno in cattedra, gli altri seduti dietro i banchi a due, il libro o una fotocopia, nient’altro che voce e gessetto. Per scelta e aspirazione personale. Sebbene personalmente in grado di capire o utilizzare quanto di meglio le nuove tecnologie o metodologie possano offrire (ecco il senso della premessa giustificatoria). Al netto dei fiumi di parole spesi negli ultimi cinquant’anni sulla didattica innovativa. Consapevole di tutti i processi di ogni grado ad un sistema d’istruzione unidirezionale considerato obsoleto e improduttivo. Io so che, per quanto mi riguarda e per via del tutto empirica, i risultati migliori a scuola li ho ottenuti e li ottengo con lezioni frontali. Con una precisazione: ad oggi, dopo tredici anni di insegnamento, un dottorato e un impegno anche nella ricerca letteraria e didattica, posso dire di saper fare lezione frontale, per come la intendo, solo su alcuni argomenti, quelli che ho studiato molto bene e che conosco molto bene.

Per capire

Alcuni esempi per stemperare l’apparente banalità dell’ultima affermazione. Negli ultimi anni ho lavorato e studiato a lungo su alcuni autori della nostra letteratura moderna e contemporanea. Contemporaneamente ho insegnato in diverse quinte classi di istituti tecnici dove (ma tu guarda) ho fatto lezioni frontali su Pasolini e Calvino, della durata anche di due ore, con un piccolo intervallo nel mezzo, senza problemi di cali di attenzione e con risultati ottimi alle verifiche. Ho letto passi da Che cos’è questo golpe o L’antitesi operaia e gli alunni non si sono annoiati (ne sono testimoni gli insegnanti di sostegno presenti), hanno capito (si, hanno capito lo snodo dei Settanta e la perdita di centro della riflessione sul reale di fine Cinquanta), ne hanno tratto beneficio all’Esame di Stato (ne sono testimoni almeno due commissari esterni di due tornate di esami). Alunni che studiavano meccanica e costruzioni, economia aziendale e informatica. Sempre in questi anni ho fatto leggere a delle seconde Il sentiero dei nidi di ragno e Una questione privata e poi ho fatto lezioni frontali sul punto di vista dei personaggi attraverso il rapporto con le armi da fuoco e gli alunni non si sono annoiati e i risultati sono stati altrettanto eccellenti (pur trattandosi di un contesto più complesso, quello del primo biennio). Potrei fare altri esempi (su Leopardi, Manzoni o la seconda rivoluzione industriale e le due guerre mondiali per quanto concerne l’insegnamento della Storia) ma il senso dovrebbe essere chiaro. Se l’insegnante è depositario di un’esperienza letteraria o storica compresa realmente e profondamente, la trasmissione di tale tesoro non sarà mai troppo complicata. Occorreranno i ferri del mestiere che sono tanti e andranno conosciuti, ma se l’esperienza fatta dal docente è vera, questa non potrà non diventare anche vera per gli alunni. Il vissuto emozionale provato da un insegnante per un’esperienza letteraria, per la comprensione di uno snodo storico denso e appassionante non potrà non transitare se vero e autentico. È questo a mio giudizio il grado zero della trasmissione didattica: il sentire che tutto ciò che si conosce con sicurezza passi e arrivi senza troppo faticare, quasi per osmosi verbale.

Sì, però

Ma allora, alla luce di quanto affermato, sarebbe possibile fare lezioni convincenti solo su argomenti su cui ci siamo laureati o addottorati? Certo che no, ed è qui che viene il bello o il brutto a seconda di come la si voglia vedere. L’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato. È quello che ho sperimentato e che continuo a verificare ogni anno che passa, da tredici che sono in cattedra, con un pizzico di timore di reggere alla lunga ai miei pomeriggi cinque giorni su sette, dalle tre alle sei del pomeriggio chino sui libri, dopo le cinque ore mattutine di scuola. Insegnando prevalentemente al triennio mi occupo di letteratura italiana dalle origini ad oggi e della storia medievale fino a quella contemporanea. Ogni giorno mi trovo, oltre all’ordinario, nella necessità di studiare sempre più approfonditamente argomenti che continuamente mi sfuggono o che si complicano. Non parlo delle strategie di come comunicarli, no, parlo dell’argomento in sé, delle tanto vituperate conoscenze. Per riportare tutto in classe? Certo che no. Per sapere mille per poter trasmettere dieci, questo sì. Ogni anno che passa si ampia il ventaglio delle mie lezioni frontali che so arriveranno a traguardo. Ho in mente la mia personale lista di argomenti e autori dove so di aver bisogno giusto di un libro o di una fotocopia e una lavagna per portare a casa una lezione ben fatta (il nostro Novecento letterario mi è sempre più semplice da trasmettere). Ma ho in mente anche la mia personale lista di argomenti e autori dove so di aver bisogno di molti più strumenti per ottenere lo stesso risultato (quelle poche volte che ho dovuto insegnare Storia antica ho vissuto veri e propri calvari didattici a fronte della mia scarsa preparazione). Del resto non è esperienza di ogni docente quella di conoscere e accrescere le proprie carte vincenti e i propri argomenti a prova di classe, nonché quella di sanare i propri buchi formativi? So bene che il mio traguardo ideale (magari a fine carriera) dovrebbe essere quello di poter muovermi negli anni con sicurezza crescente su tutto il panorama curricolare delle mie due discipline (Italiano e Storia). Così bene da poter sostenere nel mio caso, anche una riuscitissima lezione frontale sulla cultura sumerica.

Concludendo

Il discorso è semplificatorio e forzato per suscitare un confronto dialettico. Ho in mente le possibili obiezioni ad una riduzione di questo tipo, occorrerebbe ad esempio specificare ed entrare nel merito di cosa significhi condurre con la parola e qualche colpo di gesso un’ora di lezione frontale. Occorrerebbe chiarire come la lezione frontale non implichi la passività (tantomeno verbale) dello studente e la sua esclusione dall’interazione con il docente. Occorrerebbe affrontare il tema dell’autorevolezza del docente, della sua costruzione al fine di consentire la prassi comunque forzata dell’ascolto unidirezionale. Concordo sul ritenere la pratica didattica migliore quella che integra in modo intelligente ogni risorsa spendibile in classe. Ma interessa porre la questione con una presa di posizione iniziale chiara: ribadire la centralità dell’insegnante e del suo bagaglio insostituibile di conoscenza. Sì, la conoscenza, parola a quanto pare sempre più soggetta ad un equivoco sottile e recente, quasi fosse la conoscenza pietra d’inciampo ad una formazione di tipo moderno, quella conoscenza che a mio giudizio resta invece alla base della trasmissione e della condivisione del serio sapere.

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:46 pm | | Default

«Raccontami una storia, o ti ammazzo!». La cornice narrativa delle Mille e una notte, di Andrea Lonardo. A partire da una nota introduttiva all’edizione Einaudi di Tahar Ben Jelloun

Mettiamo a disposizione sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

«“Raccontami una storia, o ti ammazzo!” Il punto di partenza delle Mille e una notte è questo. Shehrazade inventa le sue storie a rischio della vita, o più esattamente per salvare la pelle. Il silenzio, la mancanza di immaginazione, l'assenza di fantasia o di astuzie potrebbero aprire per lei la porta della morte. Allora, per non morire, per non subire la stessa fine delle belle e giovani ragazze che l'hanno preceduta, che il re aveva convocato per soddisfare il proprio piacere prima di tagliar loro la testa, Shehrazade fa ricorso non alla piccola astuzia di una ragazza smaliziata, ma a un lungo, pericoloso stratagemma colmo di sorprese e di invenzioni, a una sfida difficile»[1].

Così Tahar Ben Jelloun racconta della cornice letteraria de Le mille e una notte, cornice estremamente peculiare, basti pensare ad altre ipotesi di cornice come quella totalmente diversa del Decamerone nel quale i giovani di Boccaccio si raccontano storie per “ingannare” il tempo che sono costretti a trascorrere in campagna dove si sono rifugiati per sfuggire alla peste.

E tale cornice è voluta dall’autore anonimo de Le mille e una notte, nonostante il libro si apra con una lode ad Allah:  

«In nome di Dio misericordioso e clemente.
Lode a Dio signore dei mondi, benedizione e salute al Principe dei Profeti, al nostro signore e patrono Muhammad cui Dio doni benedizione e salute continue, incessanti fino al dì del giudizio! Le gesta degli Antichi servano da esempio alle generazioni seguenti affinché l’uomo vegga gli eventi ammonitori capitati agli altri, e ne tragga ammonimento, e, leggendo la storia delle genti passate, ne ricavi un freno salutare. Lode a Colui che delle storie degli Antichi ha fatto un esempio ai posteri! Di tali narrazioni esemplari sono i racconti detti
Mille e una notte, con le meravigliose avventure e gli apologhi in esse contenuti»[2].

Il re ha deciso la morte, dopo il sesso, di un ragazza per notte, dal momento che ha sorpreso la moglie che lo tradiva e dal momento che il fratello del re, a sua volta, è stato tradito dalla moglie: le donne del regno sono così condannate a morte una dopo l’altra, una per notte.

Le origini de Le mille e una notte sono antichissime. Se ne ha notizia per la prima volta in due scrittori arabi del X secolo, Masudi e l’autore del Fihrist, ma i due autori arabi potrebbero aver attinto a loro volta da una raccolta iranica con titolo persiano (forse, a sua volta, con precedenti nella penisola indiana).

Certo è che la raccolta si ampliò con nuovi racconti sorti in ambiente arabo-musulmano e riemerse nell’Egitto, in particolare nell’Egitto mamelucco del XII secolo. Fu tale versione ad essere portata poi alle stampe nel settecento da Antoine Galland.

La storia letteraria de Le mille e una notte è comprovata dal fatto che i riferimenti geografici dell’opera sono tutti in Siria e in Egitto e che essa è scritta in arabo letterario[3].

Tahar Ben Jelloun, nel suo scritto introduttorio Le mille e una notte. Raccontami una storia, o ti ammazzo!, spiega:

«“Raccontami una storia, o ti ammazzo!” Il punto di partenza delle Mille e una notte è questo. Shehrazade inventa le sue storie a rischio della vita, o più esattamente per salvare la pelle. Il silenzio, la mancanza di immaginazione, l'assenza di fantasia o di astuzie potrebbero aprire per lei la porta della morte. Allora, per non morire, per non subire la stessa fine delle belle e giovani ragazze che l'hanno preceduta, che il re aveva convocato per soddisfare il proprio piacere prima di tagliar loro la testa, Shehrazade fa ricorso non alla piccola astuzia di una ragazza smaliziata, ma a un lungo, pericoloso stratagemma colmo di sorprese e di invenzioni, a una sfida difficile.

Raccontare storie non è affare da poco. È sempre stato un rischio, un'avventura che va aldilà del semplice piacere di trascorrere il tempo. Più precisamente, deve riuscire a far passare il tempo in modo che l'ascoltatore si addormenti nel momento in cui appare la luce del giorno.

L'accordo stabilito tra la giovane e il re, che vuole compiere la sua vendetta togliendo ogni notte la vita a una ragazza nella speranza di dimenticare il tradimento della sua sposa, la regina, prevede che l'esecuzione venga rinviata qualora sopraggiunga il giorno. In effetti è una corsa contro l'orologio, una corsa contro il tempo, un modo di rimandare la morte. E per venirne fuori non c'è migliore artificio che lasciare il racconto incompiuto. Lasciare le cose in sospeso è l'unica possibilità per salvarsi.

Restare in vita raccontando storie. Tutti gli scrittori potrebbero essere dei condannati a morte; per questo scrivono. Finché producono storie inventate si assicurano la sopravvivenza, fisica e materiale, e più ambiziosamente si prefiggono di lasciare una traccia dopo la morte. Qualcuno scrive per non impazzire, altri perché non possono farne a meno. Shehrazade racconta storie perché non le sia tagliata la testa dal boia del re. Una ragione abbastanza valida per evocare parole e immagini e metterle insieme in una trama di favole e di bugie.

Così Shehrazade non soltanto inventa il principio stesso della narrazione, il principio del racconto ininterrotto che intriga l'uditore e lo mette in stato di attesa e di curiosità, ma apre le porte della fiction, sia essa letteraria, teatrale o cinematografica, per non parlare dei serial televisivi che di questo principio hanno conservato soltanto l'ossatura e il congegno. Se i produttori di serial televisivi rischiassero la vita, farebbero film di gran lunga migliori, mentre al massimo rischiano il danaro altrui.

La letteratura è un baluardo contro la morte. Non solo la nostra, ma quella di tutta l'umanità. Una società senza letteratura sarebbe una società in cui non si manifestano problemi, quindi senza immaginazione. Impossibile. Una società felice, assolutamente felice, che abbia risolto tutti i problemi, non esiste. La fiction che circola è segno di vita, cioè di un'esistenza tumultuosa sulla quale aleggiano la morte e il mistero»[4].

La cornice letteraria e le riflessioni sul ruolo eterno della letteratura non no però il fatto che le mille e una storie non sono ambientate in un mondo libero e sensuale:

«Non appena sorge qualche incomprensione, si evoca il mondo favoloso, meraviglioso e incantatore di quei racconti. Grave errore. Perché le storie che racconta questo libro non sono sempre meravigliose. Spesso sono crudeli, macabre, dure, razziste, e soprattutto misogine. Il razzismo nelle Mille e una notte esiste senza nessun complesso. Doveva sembrare del tutto naturale a quell'epoca.

Era l'epoca degli schiavi, degli harem sorvegliati da eunuchi, e delle donne prive del diritto di parola. Era l'epoca in cui molti popoli erano tenuti in stato di sottomissione da potenze occidentali, epoca dell'arbitrario e del dispotismo.

In tutto il libro i negri sono considerati una sottospecie umana, sessualmente perversa, di cui diffidare (d'altra parte la regina ha tradito il re con degli schiavi negri nei quali trovava una potenza sessuale che non aveva confronto con quella del marito bianco). Gli ebrei sono disprezzati. Quanto alle donne, esse hanno aspetti contraddittori. Talvolta si mostrano deboli o fingono di esserlo, si presentano come streghe, diavolesse, infedeli e rabbiose. Altrove sono intelligentissime, scaltre, di temperamento forte e potente, oppure buone e raffinate.

Per lo psicanalista algerino Malek Chebel, le Notti sono un'iniziazione ai misteri della carne. Egli richiama il versetto coranico (Sura XII, 28): “Immensa è la vostra astuzia, o donne!”»[5].

Ma, proprio per questo, il raccontare di Shehrazade ha un intento catartico, è lo sforzo compiuto da una donna che riesce ad emanciparsi attraverso la letteratura in un mondo altrimenti senza vera libertà e speranza:

«Così la figlia del visir di Chahzeman, Shehrazade, si sacrifica per far cessare il massacro delle ragazze. Mette in gioco la sua vita per salvare tutta una generazione. Ci riuscirà. Sedurrà l'orribile re che la sposerà. Lui ammetterà di essere vinto e riconoscerà i talenti e il coraggio di quella fanciulla, che non soltanto è riuscita a salvare la pelle, ma anche a umanizzare un mostro. Ci si potrebbe porre la questione dell'astuzia suprema: come sottomettere un despota sanguinario fino a farsi sposare da lui. Trasformarlo. Il sogno impossibile è questo. Shehrazade dunque è riuscita dove tutti hanno fallito.

È una vittoria delle donne? Il libro prende l'avvio dal tradimento delle spose del re e di suo fratello. Il visir Chahzeman e il re suo fratello hanno appena voltato le spalle alle proprie mogli (per una partita di caccia o per un breve viaggio) che loro decidono di tradirli con alcuni schiavi negri. Un classico. La reazione è proporzionale all'umiliazione. Di qui la loro volontà di farla finita con il genere femminile senza però rivolgersi a un tipo diverso di sessualità. Saranno invece le donne a rivelare la loro omosessualità a certi uomini. Quando appare, raggiante di bellezza, una donna che esce da un forziere portato da un genio malizioso e li irride dicendo: «Noi donne riusciamo a ottenere tutto ciò che vogliamo», gli uomini decidono non soltanto di diffidare di loro ma di abusarne e poi sterminarle. Cosa fa Shehrazade? Mette in pratica l'affermazione della donna uscita dal forziere. E ci riesce.

Ne derivano due insegnamenti. Il primo di ordine letterario: l'invenzione del racconto senza fine. Il secondo di ordine sociale: l'origine della lotta delle donne, l'inizio di quello che più tardi sarà chiamato femminismo»[6].

Note al testo

[1] Le mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, con uno scritto di Tahar Ben Jelloun, vol. I, Einaudi, Torino 2006, p. XV.

[2] Le mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, con uno scritto di Tahar Ben Jelloun, vol. I, Einaudi, Torino 2006, p. 3.

[3] Cfr. su questo la Prefazione di Francesco Gabrieli all’edizione già citata: Le mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, vol. I, Einaudi, Torino 2006.

[4] Tahar Ben Jelloun, Le mille e una notte. Raccontami una storia, o ti ammazzo!, in Le mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, vol. I, Einaudi, Torino 2006, pp. XV-XVI.

[5] Tahar Ben Jelloun, Le mille e una notte. Raccontami una storia, o ti ammazzo!, in Le mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, vol. I, Einaudi, Torino 2006, p. XVII.

[6] Tahar Ben Jelloun, Le mille e una notte. Raccontami una storia, o ti ammazzo!, in Le mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, vol. I, Einaudi, Torino 2006, pp. XVII-XVIII.

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:44 pm | | Default

1/ «Stop globale all'utero in affitto». La Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata firmata presso l'Assemblea nazionale francese 2/ Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata 3/ Vacca: Family day non reazionario, la sinistra rischia la deriva nichilista. Il filosofo marxista ritiene giusto il sì alle unioni civili, ma sulla stepchild adoption sposa la posizione del Circo Massimo: «Come si fa a dire che avere un figlio è un diritto?», di Massimo Rebotti 4/ Maternità surrogata, uno scambio ineguale, di Valentina Pazé

1/ «Stop globale all'utero in affitto». La Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata firmata presso l'Assemblea nazionale francese, di A.Ma.

Riprendiamo da Avvenire del 2/3/2016 un articolo a firma A.Ma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Le firme sono state apposte alle 19.30, al termine di tre ore di interventi e riflessioni nella prestigiosa sede dell'Assemblea nazionale francese, il Parlamento. "Stop alla maternità surrogata": la richiesta di rappresentanti di associazioni femministe di vari Paesi di tutto il mondo è perentoria: rendere fuorilegge la pratica dell'utero in affitto a livello internazionale, proibire dovunque «una pratica sociale ingiusta e che lede i diritti fondamentali dell’essere umano».

Nelle tre ore di dibattito hanno preso la parola intellettuali, studiose ed economiste che hanno raccontato come l'utero in affitto non sia affatto un dono o una espressione di solidarietà, ma una sopraffazione nei confronti delle donne più povere. Notevole impatto ha avuto il racconto della situazione in India: così come in Thailandia, migliaia di donne sono diventate il bersaglio designato di un crescente "sistema di produzione biotecnologica di bambini", come l'ha definita in apertura senza giri di parole la filosofa femminista francese Sylviane Agacinski, mente delle Assise per l'abolizione universale della maternità surrogata.

I tre raggruppamenti che hanno dato vita all'iniziativa francese sono il CADAC (Collettivo diritti delle donne), il CLF (Coordinamento Lesbiche francese) e il CoRP (Collettivo Rispetto della Persona) capitanato per l'appunto da Agacinski.

Non serve regolamentare il settore, si è detto, ma abolirlo ovunque. La lotta alla maternità surrogata ha a che fare con la lotta alla prostituzione, perché in ambedue si vendono corpi di donna. Violenza, schiavitù, mercato neocoloniale sono state le immagini più evocate. Dunque, una delle prime sfide è combattere la visione edulcorata della maternità surrogata, forse anche a partire dal nome: maternità evoca qualcosa di bello e positivo: forse meglio il più crudo "utero in affitto".

Dall'Italia è partita una delegazione di "Se non ora quando - Libere", l'organizzazione che ha promosso una raccolta firme di sostegno alla petizione internazionale. Del drappello fanno parte Francesca Izzo, Francesca Marinaro, Ilenia De Bernardis, Sara Ventroni e Antonella Crescenti. […]

2/ Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata

Riprendiamo dal sito http://abolition-gpa.org/ la traduzione italiana della Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

La maternità surrogata, detta “gestazione per altri” (GPA), praticata in diversi paesi, è la messa a disposizione del corpo delle donne per far nascere bambini che saranno consegnati ai loro committenti.

Lungi dall’essere un gesto individuale, questa pratica sociale è realizzata da imprese che si occupano di riproduzione umana, in un sistema organizzato di produzione, che comprende cliniche, medici, avvocati, agenzie etc. Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali, dotate di un valore d’uso e di un valore di scambio, e si iscrivano nella cornice della globalizzazione dei mercati che hanno per oggetto il corpo umano.

Se nessuna legge lo protegge, il corpo delle donne è richiesto in quanto risorsa a vantaggio dell’industria e dei mercati della riproduzione. Certe donne acconsentono a impegnarsi in un contratto che aliena la loro salute, la loro vita e la loro persona, sotto pressioni multiple: i rapporti di dominazione famigliari, sessisti, economici, geopolitici.

Infine, la maternità surrogata fa del bambino un prodotto con valore di scambio, in modo che la distinzione tra persona e cosa viene annullata. Il rispetto del corpo umano e l’uguaglianza tra donne e uomini devono prevalere sugli interessi particolari.

Di conseguenza, in nome dei diritti della persona umana, noi, firmatarie e firmatari della Carta:

denunciamo l’utilizzo degli esseri umani il cui valore intrinseco e la cui dignità sono cancellati a favore del valore d’uso o del valore di scambio;

rifiutiamo la mercificazione del corpo delle donne e dei bambini;

– chiediamo alla Francia e agli altri paesi europei di rispettare le convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino di cui sono firmatari e di opporsi fermamente a tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata sul piano nazionale e internazionale.

Noi chiediamo inoltre, in nome dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, che essi agiscano con fermezza per abolire questa pratica a livello internazionale, in particolare promuovendo la redazione, l’adozione e l’efficace messa in pratica di una convenzione internazionale per l’abolizione della maternità surrogata.

3/ Vacca: Family day non reazionario, la sinistra rischia la deriva nichilista. Il filosofo marxista ritiene giusto il sì alle unioni civili, ma sulla stepchild adoption sposa la posizione del Circo Massimo: «Come si fa a dire che avere un figlio è un diritto?», di Massimo Rebotti

Riprendiamo dal Corriere della sera del 2/2/2016 un’intervista di Massimo Rebotti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Giuseppe Vacca è un filosofo marxista, una vita nel Pci e nelle sue successive declinazioni, fino al Pd di cui è uno degli intellettuali più autorevoli. Nel 2012, insieme ad altre figure di riferimento della sinistra, come Mario Tronti e Pietro Barcellona, firma un documento sulla «emergenza antropologica»: si sostiene che esistono «valori non negoziabili» e si apprezza l’impegno della Chiesa, allora di Benedetto XVI, per difenderli . Ai firmatari viene affibbiata l’etichetta di «marxisti ratzingeriani». Qualche anno dopo quei temi sono al centro del dibattito sulle unioni civili; il professor Vacca ha seguito con attenzione sia il Family day che le iniziative a favore del ddl Cirinnà.

Che cosa pensa di chi dice che le piazze contro le unioni civili sono reazionarie ?
«Definire il Family day reazionario è assolutamente improprio. Su come regolare le questioni della vita non si può applicare la coppia progresso-reazione. Quella folla esprime un modo di vedere la famiglia che appartiene a una vasta parte della società italiana».

Si sente equidistante?
«No. Io penso che sia un bene che la legge sulle unioni civili passi. Ma si deve risolvere il nodo della stepchild adoption: trovo fondate le osservazioni di chi dice che può essere un modo surrettizio per introdurre la maternità surrogata, l’utero in affitto».

Hanno quindi ragione i manifestanti del Family day?
«Sul punto sì, il problema c’è. Così come penso che non sia necessario declinare al plurale la famiglia, che è una. Detto questo, è necessario riconoscere le unioni civili».

C’è un clima da fronti contrapposti?
«Direi di no. Al netto delle sigle politiche che si sono aggiunte, penso che entrambe le piazze fossero dialoganti. Chiunque giochi alla contrapposizione, sbaglia».

Un passo avanti rispetto ad altri «scontri» tra laici e cattolici?
«Sì, il confronto è più maturo rispetto ai tempi dell’aborto o del divorzio. Basta guardare l’intervista, molto bella, che il cardinale Ruini ha rilasciato al Corriere quando ha detto che non c’è una sola modernità».

A proposito di modernità: lei ha parlato di una «emergenza antropologica».
«È un’epoca in cui ci sentiamo sottoposti a varie minacce, il discrimine tra il naturale e l’artificiale si mescola, non ci sono solo “magnifiche sorti e progressive”. È una deriva per cui, come diceva Margaret Thatcher, la società non esiste ma esistono solo gli individui».

C’entra con le unioni civili?
«Come si fa a dire, per esempio, che avere un figlio è un diritto? Come si può pensare di declinare tutto nella chiave della libertà individuale, come se ciò che accade prescindesse dal modo in cui si compongono le volontà e le coscienze dei gruppi umani?».

Sbaglia la sinistra a fare dei diritti individuali il fulcro della sua azione politica?
«Assolutamente sì. La sinistra subisce una deriva nichilista, in termini marxisti la definiremmo spontaneista».

Cioè?
«Non è più capace di grandi visioni sul mondo, dalle guerre ai conflitti economici. Assolve mediamente i suoi compiti nazionali, ma sui grandi scenari mostra un impoverimento culturale che genera analisi povere. Negli anni Settanta laici e cattolici hanno fatto la più bella riforma del diritto di famiglia. E dopo? Di fronte a quello che cambia su questi temi, la sinistra non ha più niente da dire? Penso al referendum sulla fecondazione assistita quando tutto è stato ridotto a uno scontro tra fede e scienza. Insomma, il professor Veronesi è un grande medico, ma non uno statista...».

La piazza cattolica le è sembrata più consapevole dei «grandi scenari»?
«Lì si è manifestato un denominatore comune, la nostra civiltà cristiana. È una grande eredità».

4/ Maternità surrogata, uno scambio ineguale, di Valentina Pazé

Riprendiamo da Il Manifesto 9/1/2016 un articolo a firma di Valentina Pazé. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che – ricordiamolo – ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi consentita – a mia conoscenza – solo in Iran), sono invece perfettamente lecite al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.

Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto, come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.

La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico.

«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?» - si chiede Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali, a cura di M. Bovero, Laterza 2004).

Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il “prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali (come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per “amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico – e anche un po’ sospetto – appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia (anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).

Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che – da Marcel Mauss in avanti – si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali?

Il confronto con la donazione del rene – con tutte le differenze del caso – può aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente, e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A. Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico.

La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare “per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano, che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna gratificazione personale?

In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni del tutto particolari, come i detenuti. È facile immaginare le motivazioni che possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico, super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico). Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore” di estranei non si prestino a una simile lettura.

Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente condizionate, da fattori economici. Non chiamiamola, per favore, libertà. Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro al capitalista.

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:42 pm | | Default

“Le unioni civili? Nulle se uno dei due è gay…”: il pasticcio sul ddl Cirinnà, di Mattia Feltri

Riprendiamo da La Stampa del 5/2/2016 un articolo a firma di Mattia Feltri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)

Qualcuno di voi sa che il disegno di legge sulle unioni civili (il famoso Cirinnà) prevede la nullità delle medesime unioni se uno dei partner è omosessuale? Non avete letto male. Pensate a due uomini che decidano di unirsi civilmente: bene, secondo il ddl, se uno dei due uomini è gay, l’unione civile è nulla.  

È un po’ colpa della fretta, un po’ colpa delle pletoriche e sconfinate norme italiane ma, dove il disegno di legge si incrocia con il codice civile (che prevede solo unioni fra coppie eterosessuali), vengono fuori dei meravigliosi frankenstein giuridici. Fortuna che qualcuno se ne è accorto, così si stanno scrivendo degli emendamenti che sistemino le cose.  

Un altro di questi frankenstein è la norma che prevede la nullità dell’unione se uno dei coniugi scopre la «deviazione sessuale» dell’altro; il problema è che in giurisprudenza si definisce «deviazione sessuale» proprio l’omosessualità. Dunque, secondo il testo, se due uomini si sposano e dopo un po’ uno scopre che l’altro è gay...

Redazione de Gliscritti | Domenica 07 Febbraio 2016 - 9:41 pm | | Default
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La differenza fra le unioni civili e la famiglia nel ddl Cirinnà ed una proposta sulle “adozioni”, di Giovanni Amico

Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (3/2/2016)

N.B. de Gli scritti Da più parti si è richiesta un’elaborazione propositiva e non solo critica sulla legislazione in merito alle unioni civili. Questo intervento provocatorio di Giovanni Amico, che mettiamo a disposizione su Gli scritti, intende essere non un testo definitivo, bensì uno stimolo ad aprire il dibattito in vista di scelte legislative aderenti alla vera condizione delle unioni civili e non, invece, ideologicamente condizionate.

La differenza fra le unioni civili e la famiglia nel ddl Cirinnà ed una proposta sulle “adozioni”, di Giovanni Amico

Non dobbiamo dimenticare che creando le unioni civili si intende creare dichiaratamente un istituto nuovo. Deliberatamente le unioni civili non sono famiglie. Se si fosse deciso di allargare il concetto di famiglia si sarebbe dovuto modificare l’articolo 29 della Costituzione. Si è scelto invece di avere da un lato la famiglia e dall’altro una nuova realtà: l’unione civile. Chiunque continua a ripetere che una volta che fosse approvato il ddl Cirinnà ci sarebbero diversi tipi di famiglie o non sa quello che sta dicendo o finge di non saperlo o ci sta dicendo che il governo ci sta deliberatamente prendendo per i fondelli.

Le unioni civili saranno, nel nostro ordinamento italiano, profondamente diverse dalle famiglie fondate sul matrimonio: lo si vede chiaramente, solo per fornire un esempio, dal loro essere proposte come qualcosa di light, di leggero, di non eccessivamente impegnativo, basato più sui diritti che sui doveri (e, quindi, conferenti poi minori diritti rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio).

Si pensi, ad esempio, allo scioglimento delle unioni stesse. Mentre la costituzione di una famiglia è protetta da leggi più forti che prevedono che l’eventuale scioglimento non sia immediato, ma attraversi prima la separazione poi il divorzio, non così nel ddl Cirinnà, dove lo scioglimento delle unioni è molto più rapido.

Non solo l'eventuale scioglimento è più rapido, ma le responsabilità anche economiche in tal caso sono minori rispetto al matrimonio. Il ddl prevede che il mantenimento economico sia assicurato al partner dopo lo scioglimento per un “periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza” (da stabilirsi da parte del giudice). La famiglia, invece, ha una diversa legislazione: immaginiamoci cosa succederebbe se si intendesse livellare l’istituto familiare sulle unioni e tutti i separati non dovessero essere più tenuti a sostenere economicamente la moglie – o viceversa  - se non solamente per un periodo determinato tanto più breve quanto più breve fosse stato il matrimonio.

Questo permette di ipotizzare una doverosa e diversificata legislazione sulla genitorialità, perché essa non sia ricalcata sul modello della famiglia, bensì aderisca alla realtà più leggera e comunque profondamente diversa delle unioni civili in relazione ai figli. Infatti, mentre nella famiglia un figlio è figlio parimenti di entrambi i coniugi e lo è senza alcuna distinzione fra i due anche se adottato: entrambi, infatti, lo adottano ed il bambino non è figlio naturale di nessuno dei due. Diversamente accadrebbe nelle unioni civili dove il figlio, secondo la proposta dell’articolo 5, sarebbe “figlio naturale” di uno e “figlio adottivo” dell’altro.

Sarebbe più corrispondente alla realtà una diversa denominazione che evitasse la terminologia di “figlio adottivo” e che chiamasse “padre” o “madre” il genitore biologico (sarebbe fra l’altro il genitore che dona il cognome) e conferendo un diverso nome alla seconda figura, quella detta impropriamente “adottante”: questo perché la relazione dei due contraenti l’unione con il figlio sarebbe diversa - e diversa anche rispetto alla famiglia basata sul matrimonio.

Potrebbe, ad esempio, essere chiamata “madre” la madre che ha portato nel grembo il figlio e “tutore materno” – o un termine equivalente - la compagna della madre. “Padre” potrebbe essere chiamato il padre che ha fornito al figlio il patrimonio genetico e “tutore paterno” il compagno del padre.

Una simile terminologia che non scimmiotti quella della famiglia sarebbe utile a tanti fini. Ne indichiamo qui due.

1/ In primo luogo aiuterebbe il figlio a situarsi. Il suo inconscio e via via la scoperta della somiglianza con il padre o con la madre reale gli permetterebbe di esprimere anche linguisticamente la maggiore rilevanza nella sua vita di una delle due figure che lo educheranno.

Al contempo, tale terminologia aiuterebbe il bambino a conserverà nella memoria che esiste realmente un padre o una madre dell’altro sesso, rispetto ai due con cui vive, anche se egli forse non potrà mai conoscere tale figura. Il racconto di diverse coppie omosessuali mostra che il bambino stesso desidera differenziare la terminologia con la quale si riferisce alle due persone che lo educano – non dimentichiamo mai che il bambino non è stupido e sa chi è il suo genitore reale e chi è il compagno del suo genitore. Solo per dare un esempio, conosciamo una situazione nella quale il figlio chiama “mamma” la madre nel cui grembo sa di essere stata portato e “mimì” la sua compagna.

La legge potrebbe riconoscere al partner che non è padre biologico un ruolo comunque importantissimo, riferendosi a lui come “tutore paterno” o “materno”, poiché la sua presenza in casa è un dato di fatto. Non si deve dimenticare che il fine della proposta legislativa sulle unioni civili è quello di regolarizzare la situazione, di conferire un orizzonte legislativo adeguato, di risolvere le questioni aperte con il realismo proprio del diritto, di indicare i comportamenti che debbono essere messi in opera. La legge deve così regolarizzare le situazioni già esistenti dove, talvolta, un figlio si trova già a vivere in casa con due uomini o con due donne e non si può fare finta che ciò non avvenga, pur senza mai scimmiottare l’istituto familiare.

La legge dovrebbe allora indicare i precisi diritti e doveri del “tutore”,  figura che sarebbe creata appositamente per il nuovo dispostivi legislativo delle unioni – garantendogli di intervenire in tutto ciò che riguarda il figlio come vero educatore del bambino insieme al genitore reale.

2/ La distinzione fra “tutore paterno” e “materno” sarebbe, in secondo luogo, di grande aiuto nei casi che si porranno certamente in essere di scioglimento delle unioni stesse, a volte anche con profonde liti e malumori. Una volta sciolto il vincolo, mentre le responsabilità economiche verso il figlio non cesserebbero da parte di nessuno dei due, è però giusto che la madre o il padre biologico abbiano un ruolo maggiormente significativo nella crescita del figlio.

Sarebbe assurdo, ad esempio, nel caso di uno scioglimento dell’unione avvenuto nei primissimi mesi di vita del bambino, pretendere che la madre che ha portato in grembo il figlio non abbia maggiori diritti (e doveri) rispetto alla sua compagna, con la quale ha interrotto il vincolo, e che è, però, “tutore materno” del figlio. Se le due donne avessero pari diritti, la madre non biologica potrebbe pretendere una relazone con il figlio assolutamente paritaria rispetto a colei che gli ha dato la vita. La libera scelta per il figlio di lasciare la madre biologica per il "tutore materno" potrebbe essere prevista solo dopo i 14 anni di età. Sotto i 14 anni, invece, una volta avvenuta una separazione, dovrebbe essere riconosciuta una maggiore responsabilità decisionale alla vera madre.

Il legislatore non si deve fare ingannare dai mielosi spot pubblicitari – vedi il recente Real Time – che vogliono con chiari intenti propagandistici presentare un’unione civile tipo “Mulino bianco”, con atmosfere da cuore-amore-batticuore. La vita di coppia, invece, è estremamente conflittuale, anche se appassionante, e così sarà delle unioni civili che non sono più pure di quelle familiari. Fra l’altro siamo a conoscenza di studi di avvocati che stanno già preparando giovani praticanti a rappresentare la parte omosessuale che chiederà un avvocato per difendere i propri diritti contro il compagno, una volta interrottasi l’unione civile.

Post scriptum

La diversificazione della terminologia proposta renderebbe più accettabile la situazione una volta che il Governo accogliesse ciò che da tante parti del paese si invoca e cioè un impegno convinto nella lotta contro la maternità surrogata, divenendo realmente un governo che lotta per i diritti dei più deboli e non un governo che difende implicitamente le multinazionali dell’industria scientifica produttrice di figli a scapito delle donne più povere del pianeta.

Se si passasse dalle parole ai fatti nella difesa dei diritti, come sta avvenendo in tante democrazie avanzate, l’aver avuto accesso alla maternità surrogata potrebbe diventare una condizione che potrebbe impedire dal punto di vista legislativo l’adozione. Chiamare “tutore paterno” il compagno del padre biologico, permetterebbe di avere a disposizione un escamotage per affrontare realisticamente la questione e non sottrarre un bambino ormai nato al padre biologico ed al suo compagno, come pure sarebbe teoricamente giusto fare da un punto di vista prettamente legislativo per il reato di grave entità compiuto dai due.

Post scriptum secondo

Ovviamente una tale revisione implicherebbe il ritiro del ddl Cirinnà ed una successiva rielaborazione dell’intera materia. La nostra proposta di revisione si basa ovviamente sulle parole pronunciate da diversi esponenti del governo in carica che hanno dichiarato più volte di non voler aprire la strada né all’adozione, né all’equiparazione delle unioni civili con il matrimonio.  Se tali parole dovessero invece rivelarsi false e, come molti sostengono, il ddl intendesse invece solo ingannare gli italiani per aprire un cuneo che poi permetta a ulteriore disegni di legge di equiparare famiglia e unioni, allora ogni discussione sarebbe inutile e resterebbe solo da trarre le conclusioni politiche di tale presa per i fondelli, prendendo le distanze dalla maggioranza di governo.

Redazione de Gliscritti | Mercoledì 03 Febbraio 2016 - 11:38 am | | Default

Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito un breve testo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (1/2/2016)

Nel ddl Cirinnà originario l’adozione di figli da parte di coppie omosessuali era esplicita. Così recitava il ddl [disegno di legge] originario all’art. 14:

«(Diritti dei figli e concorso all'adozione o all'affidamento)

  1. I figli delle parti dell’unione civile, nati in costanza dell'unione civile, o che si presumano concepiti in costanza di essa secondo i criteri di cui all'articolo 232 del codice civile, hanno i medesimi diritti spettanti ai figli nati in costanza di matrimonio.
  2. Le parti dell'unione civile possono chiedere l'adozione o l'affidamento di minori ai sensi delle leggi vigenti, a parità di condizioni con le coppie di coniugi.
  3. In caso di separazione delle parti dell'unione civile, si applicano con riguardo ai figli le disposizioni dettate dall'articolo 155 del codice civile».

Il “merito” della formulazione originaria era quello di mostrare apertamente che i proponenti la legge ritenevano la possibilità di “adottare” figli requisito essenziale delle unioni civili. Ritenevano cioè essenziale permettere che un bambino abbia due “padri” e nessuna madre. A loro dire, una nazione che non lo permettesse non sarebbe né civile, né moderna.

La nuova formulazione, invece, è assolutamente oscura per i non addetti ai lavori: sceglie il linguaggio giuridico per esperti, inaccessibile al comune cittadino. Recita così: 

«Art. 5. [ADOZIONE]
(Modifiche alla legge 4 maggio 1983 n. 184)
1. All'articolo 44 lettera b) della legge 4 maggio 1983, n. 184 dopo la parola “coniuge” sono inserite le parole “o dalla parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso”»
.

Per capire cosa si intende affermare si deve cercare l’articolo in questione che dice:  

«Dell'adozione in casi particolari
Capo I - Dell'adozione in casi particolari e dei suoi effetti

  • 44. 1. I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell'articolo 7:
    • a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre;
    • b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge;
    • c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall'articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre;
    • d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
  • 2. L'adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita anche in presenza di figli legittimi.
  • 3. Nei casi di cui alle lettere a), c), e d) del comma 1 l'adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l'adottante è persona coniugata e non separata, l'adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi.
  • 4. Nei casi di cui alle lettere a) e d) del comma 1 l'età dell'adottante deve superare di almeno diciotto anni quella di coloro che egli intende adottare (51).
    (51) Articolo così sostituito dall'art. 25, L. 28 marzo 2001, n. 149. In precedenza, la Corte costituzionale, con sentenza 31 gennaio-2 febbraio 1990, n. 44 (Gazz. Uff. 7 febbraio 1990, n. 6 - Serie speciale), aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 44, quinto comma, nella parte in cui, limitatamente al disposto della lettera b) del primo comma, non consentiva al giudice competente di ridurre, in presenza di validi motivi per la realizzazione dell'unità familiare, l'intervallo di età a diciotto anni»
    .

Se si montano i due pezzi – i ddl art. 5 e il testo riguardante le coppie precedentemente ammesse all’adozione  (un uomo e una donna)- si ottiene:

«44. 1. I minori possono essere adottati:

  • a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre;
  • b) dal coniuge o dalla parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge
  • c) ecc. ecc.».

Cosa si afferma allora? La Cirinnà bis propone che qualsiasi figlio di una persona sia adottabile anche dal partner dell’unione civile. Ora come può un uomo single avere concretamente un figlio di modo che poi il suo partner lo adotti, una volta che la legge fosse approvata?

La risposta è semplice: se un maschio tramite i propri spermatozoi inseminati in un ovulo, poi impiantato in un utero affittato per una maternità surrogata, ottiene un figlio, ecco che quel figlio può divenire, secondo la Cirinnà bis, figlio anche del compagno omosessuale. 

Secondo la strategia che le unioni civili potrebbero intenzionalmente porre in atto col beneplacito della legge, quel figlio potrà essere adottato dal compagno dell’uomo solo perché alla vera madre che lo ha portati in grembo è stato previamente imposto di rinunciare a qualsiasi diritto sul figlio stesso.

L’adozione non riguarda, infatti, partner eterosessuali cui morisse la moglie e divenissero poi omosessuali. Non riguarderebbero nemmeno semplicemente unioni che chiederebbero di usufruire del normale iter – spesso lungo anni e anni – tramite il quale una coppia chiede in adozione un figlio già nato e abbandonato, spesso in un paese straniero povero.

L’adozione di cui qui si tratta è quella della “fabbricazione” di un figlio con una donna esterna alla coppia – nel caso di un’unione composta da due maschi – che diverrebbe poi figlio dei due uomini dello stesso sesso, ritrovandosi ad avere due padri e perdendo il diritto ad avere una madre.

È evidente che il ddl Cirinnà bis non sposta una virgola rispetto al ddl Cirinnà: concederebbe, se approvato, che per legge ci siano bambini fatti nascere apposta per essere presi in consegna da due uomini.

Nel ddl Cirinnà bis non c’è nessun ammorbidimento sulla questione delle adozioni, il ddl Cirinnà non è assolutamente, come vorrebbero alcuni, estremamente prudente. La modifica nella lettera del testo è solo un aggiustamento linguistico che nasconde la realtà.

Anzi, a ben vedere, la versione bis è ancora più devastante della prima. Infatti, l’adozione a cui mira il ddl Cirinnà bis non è più quella generale e “normale”, ma quella prevista “in casi particolari” dall’art. 44.

Ora, è bene sottolineare che questa disposizione è stata originariamente approvata dal Parlamento solo per rimediare a casi difficili, di bambini monogenitoriali, orfani di entrambi i genitori o bambini abbandonati portatori di handicap;  proprio per far fronte a queste situazioni più drammatiche di abbandono, il legislatore si è spinto a forzare le regole generali dell’adozione, basate sull’idea, basilare nel nostro ordinamento, che quest’ultima debba ricalcare il rapporto che esiste in natura tra genitori e figli, con regole consistenti: nella diversità di sesso dei genitori, nella loro unione matrimoniale, in un’adeguata differenza di età, ecc. Dunque, l’adozione speciale dell’art. 44 deve avere finalità sociale, di solidarietà e salvataggio estremo di casi critici, altrimenti non diversamente gestibili.

Ebbene, la gravissima distorsione creata dal Cirinnà bis è che la forzatura delle regole dell’adozione “naturale” non avviene più per un interesse di un minore in situazione difficile: qui il bambino diventa un prodotto commerciale che si acquista da qualche parte e che si vuole legittimare come figlio, come un giocattolo.

Nel chirurgico intervento parlamentare, le lettere a, c e d dell’art. 44 rimangono uguali: il bambino orfano handicappato alle unioni civili non interessa?

Inoltre, lo stesso dispositivo legislativo si contraddice da solo, come avviene in tutti i dispositivi ideologici. Se da un lato concede la possibilità di adottare un bambino concepito con maternità surrogata, lo concederebbe a chi fosse "impegnato" con un legame che è per sua natura light poiché prevede che l'unione civile possa essere sciolta senza l'iter di separazione e divorzio necessaria per il matrimonio: il bambino, insomma, diverrebbe figlio di entrambi, ma allo Stato non interesserebbe minimamente che i due lo educhino poi insieme e non difenderebbe così in alcun modo il supremo bene del figlio, poiché sarebbe impegnato a sostenere la libertà dei due contraenti dal vincolo stesso dell'unione civile, poiché essi la potrebbero istituire e sciogliere a loro piacimento, a differenza del matrimonio. 

Preferisco allora mille volte il confronto leale con un esponente LGBT che dichiara esplicitamente di ritenere che una legge che preveda qualsiasi diritto per le unioni, ma non l’adozione, non gli interessa, perché egli vuole che sia possibile diventare genitori omogenitoriali.   

Ciò che è veramente offensivo del lavoro degli estensori del ddl Cirinnà bis e dei politici che la sostengono è il trattare noi del popolo come se fossimo dei bambini. Fingono di venire incontro alle richieste di tanti, ma in realtà ci ingannano, senza avere il coraggio di dichiarare quale sarà la situazione che si verrà a creare una volta accettato il disegno di legge. Questo modo di procedere è un’operazione mistificante. La cosa peggiore che possa fare un uomo è ingannare: ancor più ciò vale per un uomo politico, per un rappresentante del popolo. Chi inganna non sarà più creduto.

Se ritengono che l’adozione di bambini da parte di unioni omosessuali debba diventare legittima che lo dichiarino apertamente - dove, lo ripetiamo, per adozione non si intende l'adozione di minori, la cosiddetta adozione legittimante, che resta esclusa, bensì la possibilità di adottare il figlio dell'altra parte ottenuto non si sa bene come (la cosiddetta stepchild adoption). Quale che sia la via di tale ottenimento ciò è certo è che o il padre o la madre sono realmente esistenti dato che il bambino non è orfano, ma sono stati "occultati". 

Se si dichiarasse apertamente l'intenzione dei proponenti il ddl forse si giungerebbe ad un referendum e sarebbe la popolazione a decidere se tale possibilità debba essere introdotta nella nazione o meno. Sarebbe la popolazione a dire se per ognuno di noi è indifferente a che un bambino abbia o non abbia un padre ed una madre. Ma che un cambiamento così decisivo sia introdotto con una legge che si dichiara essere interessata semplicemente ai giusti diritti delle coppie omosessuali è una presa per i fondelli

Noi voteremmo contro, mentre saremmo a favore dei veri diritti delle unioni civili. Voteremmo contro perché, a partire dagli studi psicologi e dalla nostra esperienza, riteniamo che i bambini non siano stupidi e sappiano bene chi è il loro papà, chi è il compagno del loro papà e che esiste una mamma che è da qualche parte del mondo anche se sarà forse loro impossibile incontrarla anche una volta sola nella vita.

Non possiamo negare l’inconscio dei bambini. La follia di una legge che voglia imporre la “nominazione” di due persone sotto la stessa dicitura di “papà” consiste proprio nella negazione dell’inconscio, nella mistificazione di ciò che è.

Non è accettabile che un cambiamento così grande sia introdotto senza neanche dichiarare il fatto che lo si sta introducendo, poiché lo si sta introducendo sotto il paravento di legittimi diritti di eredità, di successione, abitativi o alimentari.

Essere presi in giro su di un tema così importante questo no, questo non lo possiamo accettare, di questo non ci dimenticheremo. Non possiamo accettarlo non perché si ledono nostri diritti, non perché siamo offesi nella nostra dignità e trattati come ragazzini: non possiamo accettarlo perché si lede il diritto dei bambini ad avere un padre ed una madre, senza nemmeno discuterne.

Qualora personalità politiche disprezzassero e offendessero la dignità del popolo italiano, trattandolo come se fosse composti da deficienti su di un tema così importante, sappiano che questo fatto segnerà irrevocabilmente il giudizio degli italiani consapevoli di essere stati presi in giro su di una questione essenziale nella nostra storia e nella stessa nostra Costituzione repubblicana.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 01 Febbraio 2016 - 6:01 pm | | Default