1/ Il vero senso dell'«avere» che dà valore e misura all'«essere» dell'uomo, di Fabrice Hadjadj 2/ Non sappiamo più possedere. E non ci resta che vendere... , di Fabrice Hadjadj
- Tag usati: fabrice_hadjadj
- Segnala questo articolo:
1/ Il vero senso dell'«avere» che dà valore e misura all'«essere» dell'uomo, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 24/1/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)
Tra le tante espressioni di cui ho fatto uso e abuso c'è questa (o qualcosa di simile): «Gli uomini si preoccupano di avere quando, prima di tutto, si tratta di essere», preceduta o seguita da una denuncia del «possesso» e delle «ricchezze»… Quanti mezzi-filosofi hanno suonato e ancora suonano questo disco!
Il loro sforzo metafisico consiste nel porre «la questione dell'essere» in modo talmente ossessivo da dimenticare quella dell'avere, lasciandola al di fuori del pensiero, abbandonandola al capriccio e al calcolo.
Così, costoro parlano dell'essenza dell'uomo come se non gli fosse necessario avere un habitat e degli abiti, sempre lasciando intendere quanto sarebbe per lui decisivo avere i loro libri.
San Tommaso osserva però che tra le dieci categorie (vale a dire tra i dieci generi supremi con i quali si rapporta tutto quanto si può dire di qualcosa) la categoria dell'«avere» è la sola a essere specificamente umana. Quando si dice che una mucca ha le corna si intende dire che essa è cornuta: questo rimanda alla sua «sostanza». È come quando si dice che l'uomo ha la ragione o che ha le mani.
E tuttavia, grazie alla nostra ragione e alle nostre mani siamo capaci di produrre o di tenere una miriade di cose «estrinseche» alla nostra sostanza, e cioè separabili dal nostro corpo e allo stesso tempo non dovute a un semplice determinismo (perché il nido può essere separabile quanto si vuole dal corpo dell'uccello, ma resta malgrado tutto intrinseco alla sua sostanza essendo prodotto per istinto e non a partire da un'idea concepita deliberatamente).
Essere senza avere, di conseguenza, sarebbe essere angeli o bestie – ma non essere umani. Avere ci è necessario e la giusta misura vuole che tale avere sia proporzionato al nostro essere. L'avere è talmente fondamentale per l'uomo che, secondo Heidegger, è il solo animale che «ha da essere»: la nostra propria essenza, che non è l'avere, è sempre in gioco come se fosse l'avere, così che al contrario del maiale, che non si pone la domanda di sapere cosa sia un maiale né di continuare la sua vita di maiale, posso chiedermi cosa è l'umano e decidere di vivere come un porco.
E, nella misura in cui io consenta a restare umano, dovrò cercare la mia umanità non soltanto in me stesso ma anche nelle cose che mi circondano. Mi preoccuperò di un'abitazione veramente umana, di strumenti veramente umani, di un ambiente che permetta il vero dispiegamento della nostra esistenza. Se il nostro essere è segnato profondamente dall'avere, il nostro avere deve a sua volta trovarsi propizio al nostro essere e diventarne l'ostensorio.
Questa doppia segnatura risuona nella nostra lingua: avere, come anche essere, è un verbo ausiliare che viene a incidere su tutti gli altri verbi. Ecco perché, come abbiamo già detto, ci sono usi del termine «avere» che non corrispondono in senso stretto ad avere.
Dico: «ho un corpo» mentre io sono il mio corpo. Alcune espressioni stanno tuttavia al punto di giunzione: ho un amico, ho una moglie, ho dei figli… Qui non posso rettificare dicendo che io sono il mio amico, sono mia moglie o i miei figli. Il pericolo è da un lato di farne degli oggetti, ma, dall'altro, non minore è il pericolo di esserne il soggetto.
Ora è in questo luogo di possibile confusione che si può probabilmente discernere l'essenza dell'avere: avere degli amici, una moglie, dei figli, ecco il cuore dell'essere e dunque il criterio dell'avere. Ho veramente soltanto ciò che mi apre alla vita con gli altri. Da qui la parola del Redentore: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta” (Lc 16, 9). Anche il denaro, parodia dell'avere (ne parlerò la prossima settimana) vede il suo inganno sventato se si riesce a servirsene non per il profitto, ma per la prossimità, per quell'avere al di là di ogni avere – quello degli amici.
2/ Non sappiamo più possedere. E non ci resta che vendere... , di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 31/1/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2016)
Di solito si pensa che basti comprare una cosa per averla. Ma in che modo quello che compriamo diventa nostro? Mi pongo spesso questa domanda quando vedo sui miei vestiti i nomi di Hugo Boss e di Abercrombie & Fitch, oppure il piccolo giocatore di polo di Ralph Lauren, mentre io non ho mai giocato a polo e gli sport con la palla non sono mai stati il mio forte – neanche il calcio-balilla…
E siccome i marchi ci trasformano in specie di uomini-sandwich volontari, possiamo seriamente chiederci se i loro prodotti davvero ci appartengono o se invece siamo noi ad appartenergli. Del resto il prêt-à-porter non ha alcun interesse ad esser fatto su misura. Se qualcosa ci va a pennello non saremmo presto spinti ad acquistare qualcos'altro.
Le carte di fedeltà sono molto spesso gli emblemi di un tradimento consenziente e ripetuto: il segno che ciò che ci è stato venduto non era adatto a noi al punto da rendere inutile il ritornare. Un buon sarto invece non teme di mandarci altrove: il suo taglio ci si attaglia così bene, è così ben fatto e così poco soggetto alla moda, che non ci occorre comprar da lui nient'altro, anche se la sua persona ci sta a cuore.
La cosa più bella, quasi non oso immaginarlo, sarebbe avere un vestito tagliato per me da qualcuno con cui avessi una relazione, non di denaro, ma di amicizia, forse anche di amore, mia moglie per esempio, se possedesse perfettamente l'arte del cucito. Con quale fierezza allora indosserei l'abito sul quale lei avesse ricamato le nostre iniziali intrecciate! Quasi non oso immaginarlo – dicevo – perché so che questo sogno è reazionario, sessista, se non addirittura fascista, certo, tanto è oggigiorno evidente che la liberazione della donna passa attraverso la sua completa sottomissione all'industria dell'abbigliamento (per fortuna mi chiamo Hadjadj e il nome di mia moglie da nubile è Michel: possiamo ritrovare un pochino l'unione delle nostre famiglie nell'etichetta H&M).
Il problema può essere affrontato da un altro punto di vista. Nell'Economico di Senofonte, Socrate si interroga sulla nozione di possesso e pone al suo interlocutore Critobulo questa domanda fondamentale: «Se tu avessi un flauto e non lo sapessi suonare, possederesti veramente quel flauto?». La risposta è no, certo. Avere senza saper usare non è ancora avere. Il flauto del non-flautista è solamente il «ninnolo d'inanità sonora» di cui parlava Mallarmé – al limite un oggetto decorativo, ed è certo che il consumo ci spinge ad accumulare questo genere di oggetti.
Ho già avuto modo di dirlo in una puntata precedente: sappiamo usare appieno un foglio di carta e una penna? Ne traiamo tutti i disegni, tutta la letteratura, tutto il pensiero di cui sono capaci? La verità è che noi moltiplichiamo i titoli nominali di proprietà per compensare una espropriazione permanente.
È tuttavia a questo punto che Critobulo interviene con una genialità bastante a far sgorgare tutto il mercantilismo del futuro: «Questo flauto, obietta, è per me qualcosa, anche se non so suonarlo, perché posso venderlo».
Ecco un'osservazione di una profondità inaudita. Cosa ci svela? Che la vendita è l'uso di ciò che non si sa usare. Grazie ad essa, tutto può passare dalle mani del commerciante, come l'acqua che scorre tra le sue dita, certo, ma lasciandogli un'ebbrezza e un "margine".
Il flauto, il cavallo, la casa, la donna, le stelle, il lavoro degli altri, la terra che non è sua, tutto può vendere, tutto scambiare con profitto. È precisamente perché non sa usare niente che lo scambio è l'uso di tutto, e soprattutto la sua usura.
Ma cosa ci procura alla fine tutto questo consumare? La capacità di comprare ancora, e dunque di non avere veramente, e dunque di vendere ancora, accumulando sempre più denaro, provando cioè la vertigine di possedere virtualmente il mondo, perché non si è stati capaci di possedere nemmeno una penna e un foglio di carta, scrivendoci una poesia.