Il libro di Qoèlet: stato della ricerca attuale e riflessione ermeneutica. Due lezioni di Ludger Schwienhorst-Schönberger tenute presso il Pontificio Istituto Biblico

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /02 /2016 - 10:05 am | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito il testo delle due lezioni tenute dal prof. Ludger Schwienhorst-Schönberger della Universität Wien presso il Pontificio Istituto Biblico il 26/1/2016 nel corso del Seminario di aggiornamento per studiosi e docenti di S. Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico (25-29 gennaio 2016) dedicato ai Libri sapienziali. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Libri poetici e sapienziali nella sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (15/2/2016)

Indice

I/ Il libro di Qoèlet: stato della ricerca attuale, di Ludger Schwienhorst-Schönberger

1. Introduzione: Un libro difficile e affascinante allo stesso tempo

Il libro di Qoèlet esercita un fascino speciale su molti contemporanei. Alcune delle sue frasi e dei suoi temi sono entrati nelle lingue di molte nazioni come modi di dire. Per esempio: «Non c'è niente di nuovo sotto il sole» (1,9), oppure: «Vanità delle vanità, ... Tutto è vanità» (1,2; 12,8). Il versetto-motto «Vanitas vanitatum, omnia vanitas» fu scelto come motto della Imitatio Christi ed è divenuta la frase programmatica del contemptus mundi cristiano[1].

D'altro canto, però, questo libro esercita un particolare effetto anche a causa del suo contenuto. Insieme al filosofo delle religioni Rudolf Otto si potrebbe definire questo effetto un «mysterium tremendum et fascinosum». Il libro di Qoèlet affascina, ma incute anche timore. Affascina soprattutto coloro che hanno interrotto il loro rapporto con la fede ortodossa giudaica o cristiana o se ne sono allontanati: gli scettici, gli agnostici, gli intellettuali. Una volta Norbert Lohfink[2] lo ha chiamato «La porta di servizio scettica per entrare nella Bibbia». Inoltre, Qoèlet è amato soprattutto da quanti vi trovano dei temi che non trovano invece negli altri libri della Bibbia. Se l'apostolo Paolo esorta a vivere «senza mangiare e bere smisuratamente e senza sregolatezze» (Rm 13,13; cf. Is 22,13), Qoèlet invece consiglia di godersi la vita: «Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace [or. ted.: "piena di vanità"] esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole». Se in tutto l'Antico Testamento l'osservanza della Torah svolge un ruolo essenziale, Qoèlet invece sembra mettere in guardia da un'eccessiva devozione per la Legge, invitando simpaticamente a una via media: «Accade che un giusto vada (presto) in rovina nonostante la sua giustizia e che un malvagio viva a lungo nonostante la sua iniquità. Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio oltre misura! Perché vuoi rovinarti?» (7,15s.).

Ma accade anche che non pochi siano intimiditi da Qoèlet. Non riescono infatti a collegare il contenuto del libro con quanto si trova scritto su Dio e sull'uomo negli altri libri della Bibbia. Di questo gruppo fanno parte importanti esegeti, come ad esempio Aarre Lauha, Diethelm Michel, Bernhard Lang, Michael Fox, Antoon Schoors e altri. Tra tutti è Diethelm Michel ad aver espresso in modo più chiaro la sua posizione critica verso Qoèlet. Scrive, infatti:

«Dal punto di vista della purezza della dottrina avevano ragione quelli che non avevano voluto Qoèlet nel canone... Con un grande sforzo di pensiero, Qoèlet ha cercato di trovare un senso ultimo nel mondo e di dire qualcosa su Dio basandosi sulle sue conoscenze. È assolutamente certo che le sue affermazioni su quel Dio che troneggia in cielo e che non si può mai incontrare, non si possono accordare con quanto altrimenti si dice su Dio nell'Antico Testamento: che cioè si è rivelato, è intervenuto nella storia agendo ed eleggendo e che lo si può anche riconoscere e adorare in questo suo agire elettivo. Stando alla testimonianza tanto dell'Antico quanto del Nuovo Testamento si deve parlare di Dio in altri termini».[3]

Questo giudizio è molto diffuso, sia pure con varie sfumature. Mi esonero dal produrre ulteriori attestazioni. Come Nuria Calduch-Benages ha ottimamente detto: «Qoèlet è un libro difficile e affascinante allo stesso tempo».[4]

Ai fini di un' esegesi scientifica, di fronte a queste percezioni ambivalenti del libro ci si chiede se tali ambivalenze possano essere superate o almeno relativizzate ricorrendo a un tipo di interpretazione ponderata e verificabile in maniera intersoggettiva. Alla luce di tale interrogativo, in questa mia prima conferenza vorrei proporvi una breve impressione di alcune interpretazioni recenti di questo libro.

2. La datazione

Su certe questioni introduttive classiche, da alcuni decenni si è creato un vasto consenso nell'esegesi. Tra queste c'è la questione della datazione del libro. Quasi tutti gli esegeti attribuiscono questo libro all'epoca postesilica, preferibilmente al terzo secolo. A favore di questo giudizio parlano il contenuto e soprattutto il linguaggio. In due ampi studi, Antoon Schoors si è occupato del linguaggio del libro, confermando la sua datazione all'epoca successiva all'esilio. Una minoranza preferisce attribuire la sua formazione all'epoca persiana (tra il quinto e il quarto secolo; così ad es. C.L. Seow[5]), mentre la maggioranza la attribuisce all'epoca ellenistica (terzo secolo). Tra questi c'è Anton Schoors, secondo il quale «that it is easier to situate Qoh's language in the Hellenistic than in the Persian period».[6]

3. È un trattato o una raccolta di sentenze («Sentenzensammlung»)?

Si continua a discutere se il libro di Qoèlet sia una compilazione di singole sentenze senza un ordine preciso («Sentenzensammlung») o un trattato dalla composizione curata («Komposition»). Vi si può riconoscere una chiara struttura oppure l'autore ha messo insieme e commentato dei detti in modo più o meno associativo? La tendenza degli ultimi anni - come del resto anche per molti altri libri dell'Antico Testamento - è quella di considerarlo una composizione. Una serie di esegeti, come Vittoria d'Alario, Franz-Josef Backhaus, Norbert Lohfink, Thomas Krüger, Ludger Schwienhorst-Schönberger e altri, ha cercato di mostrare che il libro presenta una chiara struttura.[7] Tuttavia, le proposte divergono tra loro. La presentazione e la discussione dei singoli modelli in questa sede ci porterebbe troppo lontano. Esiste però un vasto consenso sul fatto che 1,12-2,26 presenta la cosiddetta parodia regale. Si tratta di un brano nel quale Qoèlet si cala nel ruolo di un re. Il ruolo assunto ricorda molto re Salomone. L'inizio della parodia regale appare evidente in 1,12: «Io, Qoèlet, fui re d'Israele a Gerusalemme». Non così chiara appare però la fine della parodia regale e potrebbe non essere un caso. La finzione di essere un re resta per certi versi aperta. In genere si accetta che finisca con 2,24-26, quando Qoèlet da re si trasforma in saggio. La corretta comprensione della parodia regale è di fondamentale importanza per l'interpretazione del libro. Vi ritorneremo in seguito.

Il modello da me rappresentato comprende una struttura quadripartita del libro in analogia alla struttura quadripartita del discorso classico antico:[8]

1,1 Titolo del libro

  1,2 Versetto-cornice e -motto («soffio di vento [BCEI: vanità]»)

    1,3-3,22 Esposizione (propositio):Contenuto e condizione di una possibile felicità umana

    4,1-6,9 Dimostrazione (explicatio):Discussione di una concezione prefilosofica della fortuna

    6,10-8,17 Difesa (refutatio):Discussione di definizioni alternative della fortuna

    9,1-12,7 Applicazione (applicatio):Esortazione alla gioia e ad agire fattivamente

  12,8 Versetto-cornice e -motto («soffio di vento [BCEI: vanità]»)

12,9-14 Parole conclusive

Tuttavia, ci sono sempre altre opinioni secondo cui il libro rappresenta una compilazione senza un ordine più o meno preciso di diversi temi e sentenze. Secondo Annette Schellenberg, nel libro «non si può riconoscere una struttura generale che permetta di distinguere tra loro in modo chiaro differenti parti principali».[9] Molti esegeti sostengono una posizione intermedia seguendo la tradizione di Walther Zimmerli,[10] come ad esempio José Vilchez Lindez («una solución intermedia»)[11] o più recentemente Antoon Schoors. Nel libro allora non si troverebbe certamente una chiara struttura letteraria - così Schoors - ma un'«unità tematica» («thematic unity»).[12]

Le opinioni degli esegeti continuano a divergere molto tra loro sul modo di determinare il contenuto di questa «unità tematica» e su come collocarla nel contesto biblico. Ma prima di occuparcene in modo più dettagliato, vorrei accennare ancora a un altro punto, importante e molto discusso: vale a dire il modo con cui spiegare le tensioni e le contraddizioni reali o presunte del libro.

4. Tensioni e contraddizioni

Sulla questione si è creato più di recente un certo consenso. Prima di tutto diciamo qualcosa sul fenomeno stesso. Nel libro di Qoèlet vi sono una serie di affermazioni, i cui contenuti appaiono in tensione o in contraddizione tra loro. Facciamo due esempi:

 (1) In 2,1-2 Qoèlet condanna la gioia come vanità:

«Io dicevo fra me: "Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia.
Gusta il piacere!" Ma ecco, anche questo è vanità.
Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: "A che giova?"».

Altrove, però, Qoèlet loda la gioia perché è un dono di Dio ed è l'unico bene che rimane all'uomo nella sua vita passeggera sotto il sole. Si dice allora in 3,12s.:

«Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio».

Verso la fine del libro, nel v. 11,9 esorta il giovane a rallegrarsi nei giorni della
sua giovinezza:

«Godi, o giovane, nella tua giovinezza,
e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù».

In che modo si possono accordare tra loro queste asserzioni sulla gioia così chiaramente diverse?

 (2) Ma ci sono ulteriori contraddizioni e tensioni. In 7,26 si trova un'affermazione misogina, mentre in 9,9 Qoèlet esorta a godere la vita con la (propria) donna amata:

7,26: «Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso».

9,9: «Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole».

Come si possono spiegare queste tensioni e contraddizioni? Nella prima metà del ventesimo secolo, si preferiva spiegare le contraddizioni ricorrendo all'analisi letteraria, come si faceva anche nel caso del Pentateuco. Si ipotizzava allora la presenza di diversi strati letterari. Una posizione estrema era quella rappresentata da Carl Siegfried,[13] il quale arrivava a supporre nel complesso nove strati letterari da cui sarebbe stato composto il libro. Oggi si registrano ancora solo alcune isolate posizioni (radicali) di analisi letteraria, ad esempio quelle di Renate Brandscheidt e di Martin Rose,[14] che però giungono a risultati completamente differenti. Non mi occuperò qui più approfonditamente di ciò.

Gran parte degli esegeti oggi preferiscono un altro modello esplicativo, il cosiddetto modello delle citazioni [Zitatenmodell].Secondo questo modello, non tutte le affermazioni del libro riportano la concezione di Qoèlet. Spesso egli cita le concezioni di una sapienza tradizionale, aggiungendovi alla fine un commento critico. Per ritornare alla già citata concezione misogina, si può molto probabilmente ritenere che Qoèlet abbia certamente trovato questa concezione,senza però trovarne una conferma: «Continuamente trovo (questa concezione): "amara più della morte è la donna"». Questa concezione misogina è tuttavia respinta da Qoèlet con il riferimento al racconto della creazione: «Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni».

Grazie alla cosiddetta teoria delle citazioni si possono spiegare molte tensioni del libro. D'altro canto si dovrebbe tener conto del fatto che ogni tanto Qoèlet pone una accanto all'altra opinioni diverse senza commentarle per invitare il lettore a farsi egli stesso un'opinione. Molti esegeti sottolineano il carattere aperto del libro. Soprattutto l'approccio interpretativo orientato alla ricezionemette in evidenza che la mancanza di una chiara distinzione tra citazione e commento potrebbe essere intenzionale, al fine di coinvolgere il lettore in modo particolare nella costituzione della comprensione del testo.

5. Il tema

5.1. Tutto assurdo?

A mio avviso, la questione più importante e teologicamente più interessante riguardo al libro di Qoèlet è questa: Qual è veramente il messaggio del libro? Si può assolutamente dire che il libro rappresenta una dottrina unitaria? E se fosse così, in che consiste questa dottrina, qual è il tema del libro? Come sempre, su questa domanda centrale le opinioni degli esegeti divergono tra loro. In generale si può dire che la cosiddetta spiegazione pessimistica, come era rappresentata ad esempio da Aarre Lauha e da Diethelrm Michel, in questi ultimi anni ha perso di importanza. In genere oggi si mette in evidenza che il libro è «profondamente radicato nella tradizione israelitico-protogiudaica», come ha scritto di recente Annette Schellenberg nel suo commentario.[15]

Tuttavia, le opinioni su come si debba inquadrare esattamente la posizione di Qoèlet all'interno della tradizione israelitico-giudaica divergono molto tra loro. Di recente, Antoon Schoors ha ripreso la posizione di Diethelm Michel. Secondo Schoors, il messaggio del libro è questo: tutto è assurdo.

La reazione appropriata di fronte a questa realtà è rappresentata dal godersi la vita.[16] «The thesis... of the book is presented in 1:2, "AlI is absurdity". The author does not "prove" his thesis in a logical exposition, but instead he offers various musings that reveal that absurdity».[17] Sul modo con cui Qoèlet immagina Dio scrive Schoors: «...we cannot be sure that Qohelet's God is not YHWH. However, he is very different from the YHWH which the other biblical books depict for us. Qoh.'s image of God leaves a fatalistic impression».[18]

Si tratta, a mio avviso, di una spiegazione sbagliata. Una sua discussione dettagliata ci porterebbe oltre i limiti di questa conferenza. Vorrei, invece, presentare la mia concezione, fondandola su delle argomentazioni.

5.2. Gioia nella coscienza della presenza di Dio

Ovviamente ciò non può avvenire in maniera esauriente. A tale proposito ho scritto un commentario dettagliato. Vorrei tuttavia mostrare in che modo vada compreso il tema del libro, vale a dire l'esortazione alla gioia.

È largamente accettato il fatto che Qoèlet esorta alla gioia. Per un totale di sette volte incontriamo questo tema espresso con formulazioni dal linguaggio simile: 2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-9; 11,9-12,1.[19]

Perciò potrebbe non essere un caso il fatto che molti esegeti vedono nell'esortazione alla gioia il tema centrale del libro. Secondo Marie Maussion, è la gioia il filo conduttore del libro: «...on ne peut que constater que la joie est le fil conducteur de cette réflexion existentielle».[20]

A tale proposito si pongono due interrogativi:

1. Di che genere di gioia si tratta?

2. Qual è il rapporto tra le affermazioni positive e quelle (poche) negative sulla gioia?

Riguardo al primo interrogativo: quelli che vedono nel messaggio del libro una filosofia dell'assurdo, intendono la gioia di cui parla Qoèlet come una specie di promessa confortante, una specie di fuga. Aiutandosi con la gioia e il godimento della vita, l'uomo deve dimenticare l'assurda realtà della sua vita. Bernhard Lang parla esplicitamente della gioia di Qoèlet come di un narcotico.[21]

Riguardo poi al secondo interrogativo: nel libro ci sono delle affermazioni che rifiutano la gioia o la relativizzano. Il passo più importante potrebbe essere Qo 2,1-2, che ho già citato:

«Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: "A che giova?"».

Un altro passo è Qo 7,13s.,dove si dice:

«Osserva l'opera di Dio:
chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?
Nel giorno lieto sta' allegro
e nel giorno triste rifletti
:
Dio ha fatto tanto l'uno quanto l'altro»

In quest'ultimo passo citato è evidente che nella vita di ogni uomo ci sono sempre anche dei giorni tristi. Nasce dunque l'impressione che ci siano dei giorni in cui l'uomo non può gioire. In generale, nel libro di Qoèlet si può osservare la tendenza a sottolineare particolarmente l'aspetto dell'indisponibilità della vita umana. In un dialogo critico con una sapienza orientata all'ottimismo, ricorrendo a molti esempi Qoèlet mostra che l'uomo non «ha in pugno» tutto. Molte cose, infatti, gli capitano come un destino al quale non può sfuggire. A tale riguardo, molti esegeti interpretano la gioia di Qoèlet anche come uno stato d'animo che dipende dalle circostanze esterne, che in fondo va e viene a seconda dell'imprevedibilità di un «arbitrio divino». Per Qoèlet, così scrive Lauha, l'uomo è «impotente...di fronte ai capricci del lontano despota celeste».[22]

A mio avviso, questa è un'interpretazione limitata. La gioia di cui parla Qoèlet è un atteggiamento che scaturisce dalla coscienza della presenza di Dio. Non si può identificare con un sentimento piacevole che va e viene a seconda delle circostanze esteriori. Quella a cui esorta Qoèlet è una gioia nella quale vengono trascesi gli stati d'animo piacevoli o spiacevoli. È questa una tesi che vorrei spiegare qui di seguito.

Nel testo poetico conclusivo, Qoèlet esorta il giovane alla gioia nella giovinezza: «Godi, o giovane, nella tua giovinezza!» (11,9). Ciò potrebbe suscitare l'impressione che la gioia sia riservata alla giovinezza, poiché nel seguito del testo poetico Qoèlet descrive i giorni faticosi della vecchiaia e della morte che alla fine sopraggiunge (12,1-8). Ma per opporsi all'impressione che la gioia sia riservata alla giovinezza, Qoèlet premette al testo poetico conclusivo un'affermazione, da intendersi come sua interpretazione previa e che dice così (Qo 11,8):

«Anche se l'uomo vive molti anni, se li goda tutti».

Antoon Schoors sostiene, a mio avviso giustamente, l'idea che in questo caso il termine ismḥ sia da ritenersi uno iussivo (787): «Even if a man should live many years, he ought to take pleasure in them all». Ma questo significa che Qoèlet esorta a una gioia che deve pervadere tutta la vita dell'uomo. Allo stesso tempo però sa che ci sono i «giorni tenebrosi». Nel versetto immediatamente successivo dice esplicitamente che anche questi giorni saranno numerosi: «E pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti» (11,8). A meno che in questo caso Qoèlet non si contraddica, per gioia deve intendersi un atteggiamento da cui l'uomo non deve allontanarsi neanche nei giorni delle tenebre. Con l'espressione «i giorni delle tenebre» si potrebbero voler dire due cose: o dei giorni nei quali l'uomo è colpito da una sciagura, nei quali le cose non vanno bene, il «giorno triste» di cui parla Qo 7,14; oppure si potrebbero voler intendere anche i giorni, che vengono descritti nel seguito del testo poetico (12,1ss.), della malattia e della faticosa vecchiaia, quando risuona ineludibile la voce della morte (12,5).

Quando Qoèlet esorta alla gioia, non vuole significare la gioia superficiale di un uomo dedito ai piaceri, che si immerge nel divertimento per ignorare il proprio vuoto interiore e la propria disperazione. Qoèlet, invece, intende una gioia che proviene dalle mani di Dio e che deve comprendere e pervadere tutta la vita dell'uomo, tanto i suoi giorni buoni quanto quelli tristi. Ma ciò significa anche che Qoèlet smantella un'interpretazione superficiale della gioia. In questo modo, a mio avviso, si risolvono i problemi a cui abbiamo accennato all'inizio.

Partendo da questa prospettiva esaminiamo (ancora una volta) i passi corrispondenti.

Tenendo presenti le osservazioni sinora fatte, si spiegano le affermazioni negative sulla gioia di 2,1-2 che abbiamo già citato:

«Io dicevo fra me: "Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia.
Gusta il piacere!" Ma ecco, anche questo è vanità.
Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: "A che giova?"».

In questo passo, la gioia si colloca sullo sfondo della parodia regale, la quale smantella un tipo di vita in cui l'uomo si innalza a homo faber. Nel suo modo di vivere riferito totalmente a se stesso (si osservi la ricorrenza per un totale di nove volte del sintagma li «a me, per me» in 2,4-9), «re Qoèlet» persegue proprio la gioia e i piaceri per ignorare la sua disperazione. Vive ciò che Neil Postman, nella sua opera di analisi della cultura, ha descritto come «Amusing Ourselves to Death» (New York 1985). Ed effettivamente, con questo «esperimento regale», Qoèlet cade nella disperazione. Una vita fondata sull'edonismo e che prende consapevolezza di sé, arriva a odiare l'esistenza e deve confessare insieme a Qoèlet: «Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole» (2,17). Tutti i giorni di una vita trascorsa a quel modo «non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa» (2,23).

Colpisce il fatto che nella parodia regale Dio non svolge alcun ruolo. Il re ha preso, per così dire, il ruolo di Dio. Egli solo si costruisce un giardino regale che sembra alludere chiaramente al paradiso di Gen 2 (cf. 2,4-11). Ma questo esperimento fallisce. Su questa gioia sbagliata, in un certo senso edonistica, senza Dio, spicca ora chiaramente l'unità testuale Qo 2,24-26, dove si parla di una gioia proveniente dalle mani di Dio:

Non nell'uomo ha origine la felicità quando egli mangia e beve e alla sua anima mostra il bene nelle sue fatiche. Invece io stesso ho visto che ciò proviene dalle mani di Dio (2,24).

Per Qoèlet si può parlare propriamente di gioia solo quando si parla anche di Dio. È quello che mostrano le altre attestazioni del tema, le quali sono disposte in modo tale da far emergere, dopo una lettura progressiva, la gioia come una realtà che pervade tutta la vita dell'uomo. I primi riferimenti a tale riguardo si trovano in 3,12 e in 3,22, dove si dice:

Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita (3,12).

E più avanti:

Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere (3,22).

Con l'indicazione «delle sue opere» (3,22) Qoèlet va al di là di 3,12 (e durante la loro vita»), indicando che la gioia a cui esorta consiste in un tipo di atteggiamento di fondo, un tipo di stato d'animo di fondo che deve pervadere ogni opera dell'uomo. Nei termini della dottrina aristotelica delle virtù si potrebbe parlare di un habitus.

Lo si dice più chiaramente in 8,15:

«Perciò faccio l'elogio della gioia, perché l'uomo non ha altra felicità sotto il sole che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole».

La gioia, si dice qui, deve accompagnare (lwh) l'uomo «nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole». La gioia a cui esorta Qoèlet non vuol indicare un avvenimento puntuale, che si distingue dalle fatiche abituali dell'uomo, ma un atteggiamento, una disposizione d'animo che deve pervadere tutte le opere dell'uomo.

In 9,7-10 si dice ancora una volta che la gioia viene percepita come un qualcosa di permanente, e stavolta lo si dice in particolare con la figura stilistica della ripetizione e con insistenza:

«In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua vita fugace che lui ti ha dato sotto il sole, per tutti i giorni della tua vita fugace».

Secondo questa comprensione della linea argomentativa presente nel libro la gioia emergerebbe come un'entità permanente che pervade tutta la vita dell'uomo. Tuttavia, ciò è possibile solo se si percepisce la realtà di Dio. Pertanto, nel suo testo poetico conclusivo Qoèlet non esorta solo alla gioia (11,9), ma anche a ricordarsi di Dio: «Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza» (12,1). Alcuni commentatori ritengono che questo consiglio sia una «glossa ortodossa».[23] Ma in questo modo non si tiene conto dell'indole del libro. Secondo l'autocomprensione del libro, l'esortazione alla gioia (11,9-10) el'esortazione a ricordarsi del proprio creatore (12,1-7.8) vanno essenzialmente insieme. Il consiglio di ricordarsi del proprio creatore già nei giorni della propria giovinezza assume la sua specificità sullo sfondo di quella giovinezza che il «re Qoèlet» ha cercato di vivere senza Dio (1,12-2,24). La quintessenza della parodia regale consiste proprio nel fatto che vi si parla della fragilità di un progetto di vita nel quale non compare Dio. Comprendendo con la riflessione le aporie che vi si presentano e assimilando esistenzialmente le crisi che lo accompagnano, re Qoèlet arriva a capire che la felicità - che anche lui, come tutti gli altri uomini, cerca - non può essere concepita senza Dio: è un dono (2,24; 3,13), anzi in definitiva una «risposta di Dio» (5,19). Ora, al termine della sua vita e del suo libro, (re) Qoèlet esorta il «giovane» (11,9) a mettere in pratica questa concezione.

Su questo sfondo si spiegano anche le cosiddette affermazioni pessimistiche del libro. Queste hanno la funzione di smantellare le concezioni della felicità false, ma diffuse. Mettono in luce il nichilismo che si nasconde in una concezione di vita (superficialmente) ottimistica, per preparare la via che porta alla «felicità vera». Soprattutto quella parte del libro nella quale Qoèlet si presenta come re («parodia regale»: 1,12-2,16) mostra che una vita esteriormente brillante, a cui non mancano piaceri e gioia (2,10), porta alla disperazione (2,17.22s.). Un tale modello di vita viene superato sperimentando quella gioia che «viene dalle mani di Dio» (2,14; cf. 3,13).

Qoèlet giunge così a una concezione che appartiene al nucleo dell'identità cristiana. Nel vangelo di Giovanni, Gesù parla di una gioia che non si può più togliere. È una gioia che non nega la realtà della morte e del dolore, ma è a conoscenza di un' altra realtà in cui la morte e il dolore sono superati ed eliminati: «La vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). «Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,22).

Anche Paolo è consapevole delle tribolazioni di questo mondo e non le nega, avendole sperimentate nel proprio corpo. E sa anche delle tribolazioni dei cristiani in questo mondo. Ma nonostante questo può esortare: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!» (Fil 4,4).

Queste e altre attestazioni, che qui non riportiamo, mostrano che nella coscienza religiosa esiste un luogo che non può essere distrutto dalle realtà esteriori del mondo. È senza tempo. Meister Eckhart chiama questo luogo il «fondo dell'anima». Si tratta della ragione suprema in cui Dio genera ininterrottamente il Figlio suo. «C'è una forza nell'anima» - così leggiamo in Meister Eckhart - «che non tocca né il tempo né la carne. Sgorga dallo spirito e nello spirito resta ed è completamente spirituale... È una gioia così sincera e così inconcepibilmente grande che nessuno riesce a parlarne esaurientemente. Poiché in questa forza l'eterno Padre genera ininterrottamente il suo Figlio eterno».[24]

Ci sembra che il libro di Qoèlet dia un'idea di questa esperienza e per questo va collocato al centro della Sacra Scrittura.

II/ Come affrontare un libro difficile? riflessioni ermeneutiche, di Ludger Schwienhorst-Schönberger

Nel corso della mia prima conferenza dovrebbe essere divenuto chiaro che già la comprensione fondamentale del libro di Qoèlet è discussa. Già in considerazione di ciò si pone la questione: come affrontare questo fatto? Tra gli esegeti predomina in genere l'opinione che in un tale caso si deve spiegare come va compreso il libro, e quindi, quale ne sia l'interpretazione giusta. Ma siamo onesti: Ars longa, vita brevis. Può passare molto tempo fino a quando questa questione venga definitivamente chiarita. Ma è anche possibile che non la si riesca a chiarire in maniera definitiva, sia perché il testo è inteso dal suo autore come ambiguo (polisemantico), sia perché il testo che abbiamo è effettivamente ambiguo.

E che succederebbe se fosse giusta l'interpretazione nichilista, secondo cui il libro di Qoèlet rappresenterebbe una filosofia dell'assurdo e pertanto, per sua stessa natura, non rientrerebbe nel canone biblico?

Andiamo così a toccare alcune questioni fondamentali dell'Ermeneutica Biblica. L'«Ermeneutica Biblica» costituisce da alcuni anni un tema classico della scienza biblica. Più di recente, Ulrich Luz ha proposto un'impressionante monografia sul tema: «L'ermeneutica teologica del Nuovo Testamento» [Theologische Hermeneutik des Neuen Testaments,Neukirchen-Vluyn 2014]. Nel corso della mia conferenza non posso certamente affrontare tutti gli aspetti di questo tema. Mi limiterò a desumere la plausibilità di alcuni principi dell'esegesi cattolica basandomi su alcuni esempi scelti dal libro di Qoèlet. In altri termini: come si possono superare le sfide che il libro di Qoèlet pone all'esegesi sullo sfondo di una ponderata ermeneutica (cattolica) della Scrittura?

1. L'unità della Scrittura (unitas scripturae)

Un principio fondamentale della ermeneutica cattolica della Scrittura è la dottrina dell'unità della Scrittura (unitas scripturae).Secondo questo principio, ogni testo e ogni libro della Bibbia va letto e interpretato alla luce di tutta la Sacra Scrittura. Nell'ambito dell'esegesi storico-critica questo principio è caduto in discredito, ma a torto, mi sembra. Si è detto che la dottrina dell'unità della Scrittura è una costruzione dogmatica che non rende giustizia alla polifonicità e alla pluralità della Bibbia. Qui di seguito, ricorrendo ad alcuni esempi scelti dal libro di Qoèlet vorrei mostrare che non è così.

Applicato al libro di Qoèlet, il principio dell'«unità della Scrittura» vuol dire: ammesso che la lettura pessimistica o nichilistica del libro di Qoèlet sia giusta, questa interpretazione va integrata nel dibattito intrabiblico in modo tale che da una parte non sia universalizzata, ma dall'altra parte non sia neanche immunizzata. È invece importante integrarla nel dibattito intrabiblico in modo che, dialogando con affermazioni apparentemente contraddittorie di altri libri, porti a una comprensione più profonda della fede. L'esegesi è una questione di pensiero, almeno così i Padri della Chiesa intendevano l'interpretazione della Sacra Scrittura. Se vi percepivano delle tensioni o delle contraddizioni, questa osservazione era l'occasione per riflettere più approfonditamente sulla questione stessa.

Ricorrendo ad alcuni esempi scelti dalla storia dell'interpretazione cristiana, vorrei mostrarvi come funziona questo metodo e quale può essere il suo contributo alla comprensione di questo libro nel contesto della Sacra Scrittura. Il punto centrale di quanto esporrò verte su questa domanda: In che modo Girolamo e la tradizione cristiana che lo ha seguito ha affrontato la frase assolutamente provocatoria di Qo 1,2: «Vanitas, vanitatum, dixit Ecclesiastes, vanitas vanitatum, omnia vanitas»? Abbiamo visto che soprattutto questa frase ha portato a una comprensione pessimistica o addirittura nichilistica del libro nell'esegesi moderna. In che modo l'esegesi patristica e medievale hanno affrontato questa affermazione provocatoria?

2. Origene: Proverbi - Qoèlet - Cantico dei cantici

È Origene ad aver effettuato le scelte decisive per la storia dell'interpretazione cristiana di questo libro. Egli mise in relazione i tre libri di Salomone (Proverbi, Qoèlet e Cantico dei cantici) con le tre branche della filosofia antica, assegnando al libro di Qoèlet la posizione centrale (In cant. prol. 3,1-3):

Proverbi - Etica (disciplina moralis)

Qoèlet - Fisica (disciplina naturalis)

Cantico dei Cantici - Teologia (disciplina inspectiva)

Origene inoltre associò a questi libri tre gradi dello sviluppo psichico e spirituale dell'uomo (In canto prol. 3,5-23): nel libro dei Proverbi, il giovane impara il modo di comportarsi nel mondo («la morale»). Il libro di Qoèletinsegna poi all'adulto (che nel frattempo è diventato il giovane) la vera natura delle cose del mondo, che cioè sono fugaci «la fisica»). E nel Cantico dei cantici «sotto la figura della sposa e dello sposo infonde nell'anima l'amore per le cose celesti e il desiderio delle realtà divine, insegnando come arrivare alla comunione con Dio per le vie dell'amore e del desiderio» (In cant. prol. 3,6s.).

3. Girolamo

3.1. Una via spirituale

Sulla linea tracciata da Origene si muove anche il «Commentarius in Ecclesiasten» (CCL 72) di Girolamo (347-419 d. C.).[25] Il commentario, che distingue chiaramente tra un'interpretazione «storico-letteraria» (I,1,14s.: «secundum historiam»; I,1,47: «iuxta litteram») e un «senso spirituale» (I,1,48: «secundum intellegentiam spiritalem»), per tutto il medioevo e fino all'epoca della Riforma rimase il «commentario di riferimento» al libro di Qoèlet.

Girolamo si pone nel solco della tradizione di Origene, quando corrispondentemente alla norma canonica diffusa, associa la sequenza dei tre libri salomonici (Proverbi, Qoèlet, Cantico dei cantici) allo sviluppo psichico e spirituale che l'uomo deve percorrere: Nel libro dei Proverbi,Salomone istruisce «il bambino (parvulum),insegnandogli i doveri con l'aiuto di sentenze, e anche per questa ragione gli si rivolge così spesso chiamandolo "figlio". Nel libro dell'Ecclesiaste,però, istruisce
l'uomo maturo a non considerare durevole nessuna delle cose del mondo
, ma passeggero e fugace tutto quello che percepiamo. Infine, nel Cantico dei cantici spinge tra le braccia della sua sposa l'uomo già progredito ed esercitato al disprezzo delle cose temporali... Non si allontana da questo ordinamento dottrinale neanche l'insegnamento dei filosofi ai loro discepoli. Dapprima insegnano loro l'etica,poi spiegano loro la fisica e, infine, conducono fino alla teologia colui che a loro giudizio ha progredito in quelle branche» (I,1,17-30). Il libro dei Proverbi introduce il giovane nel mondo (etica). Il libro di Qoèlet scopre la natura del mondo (fisica) rivelandone la volubilità e la transitorietà, gettando in tal modo i presupposti per il distacco dal mondo. È un libro di addio (cf. Qo 12,1ss.). Il Cantico dei cantici prepara colui che si è distaccato dal mondo a una venuta permanente (teologia). «Se prima, infatti, non abbiamo abbandonato i vizi e non abbiamo rinunciato ai lussi di questo mondo e non ci siamo preparati alla venuta di Cristo, non possiamo dire: "Mi baci con i baci della sua bocca" (Ct 1,1)» (I,1,24-27). Secondo Girolamo, allora, il libro del Qoèlet intende portare i suoi lettori al disprezzo di questo mondo («ad contemptum istius saculis), suscitando in loro l'idea che tutte le cose che sono nel mondo in fondo non sono nulla («et omne quod in mundo cerneret, putaret esse pro nihilo»: in eccl. praefatio 2-4)». Ma questa interpretazione, forse, non tradisce al nucleo l'indole del libro di Qoèlet?

Il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi)divenne l'idea che ha guidato l'interpretazione cristiana del Qoèlet. Poiché questo concetto è esposto a molteplici fraintendimenti, necessita di una spiegazione più approfondita. Per anticipare subito il risultato: il contemptus mundi non significa disdegnare un mondo che Dio ha creato come cosa buona (cf. Gen 1), ma considerarlo per quello che è veramente. E come sia da intendere ciò, lo si mostrerà qui di seguito.

3.2. «Vanitas, vanitatum» e «contemptus mundi»disprezzo del mondo»)

Interpretando Qo 1,2, Girolamo si interessa subito dell'ovvio fraintendimento di cui abbiamo appena detto. Egli vede una tensione tra Qo 1,2 «vanitas, vanitatum» e l'affermazione di Gen 1,31 «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona». Scrive Girolamo: «Se tutto quello che Dio ha fatto è cosa molto buona, come può essere tutto vanità, e non solo vanità, ma addirittura "vanità delle vanità (vanitas vanitatum)?» (I,2,73-75). Allora, per prima cosa Girolamo interpreta - in un modo assolutamente corretto da un punto di vista esegetico con un riferimento a Ct 1,1 «Canticum canticorum» - l'espressione «vanitas vanitatum» come un superlativo o elativo. Poi si addentra nella vera e propria problematica di fondo: secondo Girolamo l'affermazione «omnia vanitas» non va intesa in senso universale e assoluto. Il mondo «di per sé (per se)»non è vanitas,ma lo è solo «in confronto a Dio (ad Deum comparata)».Scrive Girolamo: «Possiamo allora dire che il cielo, la terra, i mari e tutto quello che è racchiuso nel globo terrestre va ritenuto di per sé buono, ma è nulla (pro nihilo)se confrontato a Dio. Allo stesso modo, quando vedo una piccola lampada mi accontento della sua luce; ma poi, quando è sorto il sole, non posso più accorgermi che essa brilla. Allo stesso modo, riesco a vedere brillare le luci delle stelle solo quando il sole è tramontato. Così mi stupisco per la grandezza della creazione quando vedo gli elementi e la grande varietà delle cose. Ma se mi rendo conto che tutto passa e che il mondo va incontro alla sua fine e che solo Dio rimane sempre colui che era, so allora dire, non solo una, ma due volte: "Vanità delle vanità, tutto è vanità"» (1,2,85-96).

Per una comprensione adeguata dell'interpretazione che abbiamo qui citato, conviene ricordare che il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi),in analogia alla tripartizione della filosofia, non fa parte dell'«etica», bensì della «fisica». La fisica scopre la vera natura delle cose del mondo, che cioè sono instabili. Il contemptus mundi vuol dire comportarsi corrispondentemente a questa concezione. Si tratta di un modo di vedere adeguato alle cose del mondo e del mondo inteso come un tutto. Il concetto del «contemptus mundi» contrasta una tendenza presente nell'uomo che considera il mondo come un luogo di compimento duraturo. Il «disprezzo del mondo» significa quindi: considerarlo «più piccolo» di quanto faccia normalmente l'uomo preda di illusioni. Considerato attentamente, il contemptus mundi è una forma di illuminazione e di emancipazione. L'uomo prigioniero delle passioni e delle illusioni deve essere illuminato sulla verità delle cose, venendo così liberato dalle loro schiavitù. Se correttamente inteso, il concetto del «contemptus mundi»- come mostra molto bene l'interpretazione data da Girolamo a Qo 1,2 che abbiamo riportato sopra - nella tradizione cristiana resta inserito in una teologia della creazione. Non revoca il mondo come creazione buona di Dio, ma si rivolge piuttosto contro una divinizzazione del mondo (che passa spesso inosservata).

Nel «disprezzo del mondo» correttamente inteso, l'uomo partecipa, in termini teologici, alla ricapitolazione e al compimento di un mondo decaduto (o che ha rinnegato Dio). In termini antropologici, il contemptus mundi si rivolge contro quella schiavitù dell'uomo prigioniero delle cose e delle situazioni che si oppone alla sua dinamica tendente alla trascendenza. Questo atteggiamento sbagliato di attaccamento viene collegato dalla tradizione cristiana al peccato originale. Le cose del mondo non sono solo cose (res),ma anche segni (signa)che rimandano a Dio. Con il peccato originale si offusca la percezione dell'uomo, il quale non riesce più a riconoscere che le cose rimandano a Dio. Si rivolge alle cose come se fossero il suo «tutto». Qoèlet mostra che questo rapporto con il mondo porta alla crisi. Egli stesso lo ha vissuto da «re». Il libro porta a una dis-illusione nel vero senso della parola, vale a dire: toglie un'illusione. Libera l'uomo da un'identificazione falsamente intesa con le cose transitorie di questo mondo. Favorisce il processo, necessario per la maturazione dell'uomo, della dis-identificazione.

3.3. Quale gioia?

Ma come interpreta Girolamo l'esortazione alla gioia, il nucleo dell'insegnamento di Qoèlet? Scrive Girolamo: «Si illudono, quindi, quanti pensano che siamo esortati da questo libro al piacere (ad voluptatem)e a una vita dissoluta. È vero il contrario: vi si insegna che quanto vediamo nel mondo è vano (vana) e che non dobbiamo desiderare con ardore quanto va in rovina mentre è tenuto (da noi)» (I,1,67-71).

Girolamo fa notare che con l'esortazione alla gioia non si intendono delle dissolutezze che ignorino la disperazione. Su Qo 3,12 scrive: «Questo non significa che noi, come interpretano alcuni, siamo esortati a essere avidi di piaceri, alla dissolutezza e alla disperazione come le bestie, secondo la parola di Isaia: "Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo" [Is 22,13], ma secondo la parola dell'apostolo: "Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci" [1Tm 6,8]. Quando abbiamo la possibilità di possedere del superfluo, utilizziamolo per nutrire i poveri e per assistere i bisognosi» (In eccl. III,12.13,187-193). Chiarendo che l'esortazione alla gioia nel libro di Qoèlet non si riferisce a forme eccessive di piacere, coglie pienamente il senso del libro. Inoltre questo è anche un elemento centrale della dottrina di Epicuro, cosa che purtroppo viene spesso trascurata. Tanto Epicuro quanto il libro di Qoèlet mettono allo scoperto delle forme sbagliate di piacere.

Ora Girolamo nel commentare i passi del carpe diem del libro di Qoèlet va al di là del puro significato «letterario» dello stesso. Egli fa questo in modo metodologicamente ponderato, in genere marcando espressamente il passaggio dall'interpretazione «secundum litteram» all'interpretazione «secundum spiritualem sensum» (ad. es. In ecc. II,24.26,365s.; III,12.13,190: «secundum apostolum»; 194: «iuxta ἀναγωγήν»; V,17.19,203: «iuxta apostolum»). Metodologicamente procede in modo tale da aprire il contesto della recezione del libro di Qoèlet all'intera Sacra Scrittura. Così, all'interno del contesto della Sacra Scrittura cristiana, consistente di Antico e Nuovo Testamento, con la gioia collegata al mangiare e al bere di cui parla il libro di Qoèlet egli indica l'Eucaristia e questa a sua volta indica la «conoscenza delle Scritture (scientia scripturarum):"Inoltre, poiché la carne del Signore è il vero cibo e il suo sangue la vera bevanda, corrispondentemente all'interpretazione mistica, il nostro unico bene in questo tempo terreno è che noi mangiamo la sua carne e beviamo il suo sangue non solo nel sacramento, ma anche quando leggiamo le (Sacre) Scritture. Infatti, la conoscenza delle (Sacre) Scritture è il vero cibo e la vera bevanda, provenienti dalla parola di Dio"» (In eccl. III,12.13,193-198).

3.4. Un'interpretazione legata ai destinatari

Girolamo non limita l'interpretazione del libro di Qoèlet alla sua situazione comunicativa originaria. Partendo da essa, la supera deducendo dei significati sviluppati dal libro in un contesto di ricezione cha va al di là della situazione comunicativa originaria. Facendo questo, tiene presente in particolar modo la situazione delle sue lettrici. Ha dedicato il suo commentario a una certa Paola, sua figlia Eustochio e alla memoria della defunta Blesilla. Queste persone facevano parte di un circolo ascetico di nobili cristiane a Roma, il cui maestro spirituale e intellettuale era Girolamo. Si discute se talora in questo circolo si eccedesse nell'ascetica (cf. Alfons Fürst, Hieronymus. Askese und Wissenschaft in der Spätantike, Freiburg 2003, 162).

4. Bonaventura

Nel gruppo dei commentari medievali spicca quello di Bonaventura (1217-1274 d. C.). In maniera programmatica egli inizia con le parole del Sal 39,5 [40,5]: «Beatus vir, cuius est nomen Domini spes eius, et non respexit in vanitates et insanias falsas - Beato l'uomo che spera nel nome del Signore, e non considera le futilità e gli eccessi sbagliati». Secondo Bonaventura, lo scopo (finis)del libro di Qoèlet è il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi;In eccl. q. I). Pertanto anche Bonaventura, similmente a quanto aveva già fatto Girolamo, pone la domanda su come ciò si possa conciliare con la bontà della creazione. Se si disprezza la creazione, non si disprezza forse anche il suo creatore («qui contemnit mundum contemnit Deum», q. I sed contra I)? Bonaventura risolve il problema ricorrendo a una bella similitudine. Paragona, infatti, il mondo con l'anello nuziale di una sposa, la quale lo accetta e lo ama. Se lo disprezzasse, disprezzerebbe anche lo sposo che le ha regalato quell'anello in segno del suo amore. Se però amasse quell'anello più del suo sposo, non distinguerebbe l'essenza dell'anello. La stessa cosa avviene per il mondo. Il «disprezzo del mondo» (contemptus mundi)vuol dire allora contrastare un'inclinazione presente nell'uomo che lo spinge ad amare la creazione più del suo creatore. Il disprezzo del mondo, correttamente inteso, è quindi una forma di amore, un «amore puro» (amor castus)per il mondo.

5. Tommaso da Kempis: Imitatio Christi

Il tema della vanitas pervade anche il primo libro di uno degli scritti più letti della storia della spiritualità cristiana: l'«Imitazione [Nachfolge]di Cristo» (Imitatio Christi),oggi generalmente attribuito a Tommaso da Kempis (1380-1471 d. C.). Questo scritto, composto intorno al 1427 d.C., è costituito da quattro trattati in origine indipendenti. Il primo libro vuole condurre il lettore alla gioia interiore mediante la relativizzazione delle cose esteriori:«"Vanità delle vanità e tutto è vanità!" [Qo 1,2]: fuorché amare Dio e servire lui solo. È questa la suprema sapienza: tendere al regno dei cieli disprezzando il mondo. Dunque, è vanità ricercare le ricchezze passeggere e porre le speranze in esse - Vanitas vanitatum et omnia vanitas [Eccl. 1,2], praeter amare Deum et illi soli servire. Ista est summa sapientia: per contemptum mundi tendere ad regna caelestia (1,1,3s.)... Ricòrdati spesso di quella parola vera: "L'occhio non si sazia di vedere né l'orecchio si riempie di ciò che ascolta!'' (Qo 1,8). Cerca, dunque, di distogliere il tuo cuore dall'amore delle cose visibili e di rivolgerti a quelle invisibili... Veramente saggio e istruito da Dio più che dagli uomini è colui che stima tutte le cose per quello che sono, non per quello che se ne dice o per come le si valuta. Se uno sa vivere interiormente (ab intra scit ambulare)senza prendere troppo sul serio le cose esteriori, non si perde nel ricercare il luogo adatto o nell'attendere il tempo opportuno per dedicarsi a esercizi di devozione. L'uomo interiore (homo internus)si raccoglie subito in se stesso, giacché non si disperde mai del tutto nelle cose esteriori (II,1,7)... Mantieni prima te stesso nella pace, poi potrai dare pace agli altri» (II,3,1).

6. Riassunto

Ricorrendo a una scelta di esempi tratti dalla storia dell'interpretazione, ho cercato di mostrare come si è affrontato l'apparentemente «difficile libro» di Qoèlet all'interno della Sacra Scrittura. Il compito dell'esegesi consiste innanzi tutto in una attenta lettura del testo. Il testo va percepito come voce propria e autonoma. In una seconda tappa, però, questa voce va ascoltata in concerto con altre voci. Ogni testo e ogni libro della Bibbia non va letto e compreso in definitiva come un testo isolato, ma come testo nel contesto di tutta la Sacra Scrittura.

Per il libro di Qoèlet ciò significa che viene innanzi tutto percepita una voce particolare e straordinaria. Questa però non può essere isolata e in fin dei conti eliminata dal canone della Sacra Scrittura, ma va letta come parte integrale del canone biblico. Percepita come voce particolare nel concerto di altre voci, riesce a contribuire una comprensione più approfondita della fede testimoniata nella Bibbia. Ogni singola pericope potrebbe essere interpretata in tal senso. Di due di queste pericopi parleremo nel seminario di oggi pomeriggio. Contro attese esagerate dell'escatologia profetica Qoèlet fa notare che Dio è un Dio del presente (cf. 1,9s.; 3,1-9). Egli relativizza forme esagerate dell'osservanza della Torah e false attese che vi sono collegate, e - situandosi così all'interno di una buona tradizione sapienziale - consiglia una via media (cf. 7,15-22). Egli smantella forme sbagliate di piacere (cf. 2,3-11) che in definitiva portano a odiare l'esistenza e alla disperazione (cf. 2,17), con il fine di condurre alla vera gioia, che è un dono di Dio e che deve pervadere tutta la vita dell'uomo (cf. 8,15; 9,8s.; 11,8).

La tradizione cristiana era benissimo a conoscenza della polifonia della Scrittura. In essa, però, riconosceva una melodia armoniosa. La polifonia è allo stesso tempo una sinfonia. Le tante voci suonano insieme ben ordinate. Scrive Ireneo di Lione (ca. 140-200 d. C.): «Tutta la Scrittura dataci da Dio ci si mostra armoniosa (symphonos)... e mediante la polifonia (polyphonia)dei modi di esprimersi risuonerà tra noi un melodia armoniosa (symphonon(Adversus Haereses II,28,3). Queste e simili affermazioni fanno riconoscere che, secondo la tradizione, l'unità della Scrittura non è monodica, ma è una polifonia armoniosa.Le voci sono differenti, ma non contrastanti.

Il modo che abbiamo qui delineato di leggere contestualmente la Scrittura dovrebbe essere concepito in maniera tale da avviare e non chiudere un processo teologico-filosofico di riflessione. La Bibbia ci fa pensare e il libro di Qoèlet ne è un bellissimo esempio. Affrontando in modo riflessivo e critico la tradizione sapienziale che gli era data, il libro di Qoèlet è un paradigma per il carattere dialogico della Bibbia. Per questo il suo posto non è ai margini, ma al centro della Sacra Scrittura.

Bibliografia

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Luz, Ulrich: Theologische Hermeneutik des Neuen Testaments,Neukirchen-Vluyn 2014.

Schwienhorst-Schönberger, Ludger: "Eines hat Gott gesagt, zweierlei habe ich gehört" (Ps 62,12). Sinnoffenheit als Kriterium einer biblischen Theologie", in: Jahrbuch für Biblische Theologie 25 (2010) 45-61.

Scott, Carl (ed.), Verbum Domini and the Complementarity of Exegesis and Theology,Grand Rapids/Cambridge 2015.

Note al testo

[1] Cf. Ludger Schwienhorst-Schönberger, "Via media: Koh 7,15-18 und elle griechisch-hel-lenistische Philosophie", in: Antoon Schoors (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom (BETL 136), Leuven: Peeters 181-203. Luca Mazzinghi, "Qohelet tra Giudaismo ed Ellenismo. Un'indagine a partire da Qo 7,15-18", in: Giuseppe Bellia/Angelo Passaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia,Milano: Paoline 2001, 90-116.

[2] Norbert Lohfink, "Der Bibel skeptische Hintertur, Versuch, den Ort des Buches Kohelet neu zu bestimmen", in: Stimmen der Zeit 198 (1980) 17-31 (= Id., Studien zu Kohelet [SBAB 26], Stuttgart 1998, 11-30).

[3] Diethelm Michel, Untersuchungen zur Eigenart des Buches Qohelet (BZAW 183), Berlin 1989, 288.

[4] La Bibbia. Via, Verità e Vita. Versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, edizione riveduta e ampliata, Cinisello Balsamo 2012, 1486. Cf. Angelo Passaro, "Le possibili letture di un libro difficile", in: Giuseppe Bellia/Angelo Passaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia,Milano: Paoline 2001, 21-39.

[5] Choon-Leong Seow, Ecclesiastes (AB 18C), New York 1997, 38: "He probably composed his work in Palestine some time between the second half of the fifth and the first half of the fourth centuries B.C.E.".

[6] A. Schoors, The Preacher Sought to Find Pleasing Words. A Study of the Language of Qoheleth.Part II. Vocabulary, Leuven et al 2004, 502.

[7] Vittoria d'Alario, Il libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica (Supplementi alla Rivista Biblica 27), Bologna 1992. Franz-Josef Backhaus, Es gibt nichts Besseres für den Menschen (Koh 3,22). Studien zur Komposition und zur Weisheitskritik im Buch Kohelet (BBB 121), Bodenheim 1998. Norbert Lohfink, Kohelet (NEB), Würzburg 41993. Id., Qoheleth (Continental Commentaries), Minneapolis 2003. Thomas Krüger, Kohelet (Prediger) (BK AT XIX - Sonderband), Neukirchen-Vluyn 2000.

[8] Ludger Schwienhorst-Schönberger, Kohelet (HThK AT), Freiburg 2004, 22011, 46-53. Elisabeth Birnbaum/Ludger Schwienhorst-Schönberger, Das Buch Kohelet (NSK AT 14/2), Stuttgart 2012, 15-17.

[9] Annette Schellenberg, Kohelet (ZB AT 17), Zürich 2013, 19. Così anche Melanie Köhlmoos, Kohelet. Der Prediger Salomos (ATD 16,5), Göttingen 2015, 28.

[10] Cf.Walther Zimmerli, "Das Buch Kohelet - Traktat oder Sentenzensammlung?", in: VT 24 (1974) 221-230.

[11] José Vilchez Lindez, Sapienciales III. Eclesiastes o Qohelet,Estella 1994, 59.

[12] Antoon Schoors, (an. 6) 19: "As seen above, in spite of much scholarly ingenuity, it is not possible to detect a clear literary structure in the book, but there is no doubt that it has a thematic unity".

[13] Carl Siegfried, Prediger und Hoheslied (HK II 3,2), Göttingen 1998.

[14] Renate Brandscheidt, Weltbegeisterung und Offenbarungsglaube. Literar-, form- und traditionsgeschichtliche Untersuchungen zum Buch Kohelet (TThSt 64), Trier 1999. Martin Rose, Rien de nouveau (OBO 168), Freiburg (Schweiz) - Göttingen 1999.

[15] Annette Schellenberg, Kohelet (ZB AT 17), Zürich 2013, 31.

[16] Antoon Schoors, Ecclesiastes (HCOT), Leuven: Peeters 2013, 19s.

[17] Ibid. 20.

[18] Ibid. 22.

[19] Cf. Marie Maussion, Le mal, le bien et le jugement de Dieu dans le livre de Qohélet (OBO 190), Fribourg - Göttingen 2003, 122-150. Cf. specialmente Johan Yeong-Sik Pahk, Il canto della gioia in Dio. L'itinerario sapienziale espresso dall'unità letteraria in Qohelet 8,16-9,10 e il parallelo di Gilgames Me. iii,Napoli 1996. Antonio Bonora, Il libro di Qoèlet,Roma 1992. Roger Norman Whybray, "Qoheleth, Preacher of Joy": JSOT 23 (1982) 87-98. Marc Faessler, Qohélet philosophe. L'éphémère et la joie. Commentaire herméneutique de l'Ecclésiaste (Labor et Fìdes), Genève 2013.

[20] Maussion (an. 19) 150.

[21] Bernhard Lang, "Ist der Mensch hilflos? Das biblische Buch Kohelet, neu und kritisch gelesen": ThQ 159 (1979) 109-124.

[22] Aarre Lauha, Kohelet (BKAT XIX), Neukirchen-Vluyn 1978, 114.

[23] Così A. Lauha, ibid. 209: R2; Diethelm Michel, Qohelet (EdF 258), Darmstadt 1988, 167.

[24] Meister Eckhart, Predigt 2 (Werke I. Text und Übersetzung von Josef Quint, herausgegeben und kommentiert von Niklaus Largier (Bibliothek des Mittelalters 20), Frankfurt 1993, 29s.

[25] Cf. Elisabeth Birnbaum, Der Kohelet-Kommentar des Hieronymus. Einleitung, revidierter Text, Übersetzung und Kommentierung (CSEL Extra Seriem), Berlin: de Gruyter 2014. Elisabeth Birnbaum/Ludger Schwienhorst-Schönberger (Hg.), Hieronymus als Exeget und Theologe. Interdisziplinäre Zugänge zum Koheletkommentar des Hieronymus (BETL 268), Leuven: Peeters 2014. Ludger Schwienhorst-Schönberger, Kohelet (HThK AT), Freiburg 2004, 22011, 123-134 ("Christliche Auslegungsgeschichte").