Islam e Repubblica italiana: la via è nella Costituzione, di Carlo Cardia

Riprendiamo da Avvenire del 30/3/2016 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Carlo Cardia, cliccare sul tag carlo_cardia. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (1/4/2016)

Nel mischiarsi delle emozioni, delle riflessioni, proposte, scaturite dalle giornate terribili degli attentati prima di Francia e Belgio, si torna a parlare del profilo istituzionale che dovrebbe riguardare l’islam presente in Italia. Non di rado, però, lo si fa prescindendo dai princìpi della Costituzione che pone al primo piano la tutela della libertà religiosa, e insieme chiede alle Confessioni religiose il rispetto dei diritti umani fondamentali e dei valori essenziali del nostro ordinamento. Forse è necessaria una riflessione di verità su un tema così decisivo.

Esaminiamo alcune recenti proposte, e suggestioni, emerse nei giorni scorsi, sull’argomento. Non mi soffermo, ma devo richiamarli, sui tentativi di voler limitare per l’islam presente in Italia l’esercizio dei diritti costituzionali, a cominciare dalla libertà religiosa. Si tratta di pulsioni inaccettabili, pervase dalla paura, e che provocano paura e disordine. Mi interessano di più proposte apparentemente interessanti. Ad esempio di chi vuole che lo Stato faccia un «albo degli imam», con diritti e doveri specifici, dimenticando però che il nostro non è uno «Stato giurisdizionalista» che interviene negli interna corporis delle Confessioni; come non interviene, secondo quanto prospettano altre proposte, per regolare i luoghi di culto, moschee comprese, al di là di quelle norme generali che valgono per tutti.

Si ventila poi l’ipotesi di dare alle associazioni religiose gli stessi diritti delle Confessioni, scardinando così lo stesso sistema costituzionale che eleva la Confessione a un livello di tutela superiore, in quanto struttura che regola una importante settore della società civile.

Ancora, si propone di stipulare un’Intesa con l’islam, ma si dimentica che, per giungere all’Intesa, il culto interessato deve essere prima riconosciuto ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione e della legge 1159/1929.

Anche la proposta di dare all’islam l’8 per mille è, per il momento, quasi un’astrazione perché l’8 per mille non è una regalia discrezionale dello Stato, né un istituto a sé stante: è il risultato di un cammino che passa attraverso il riconoscimento della Confessione e la stipulazione dell’Intesa, mentre per l’islam non c’è ancora né l’uno né l’altra. E già oggi, deve essere chiaro, lo Stato ha tutti i poteri per intervenire quando si presentino attività sovversive, o della sovversione fiancheggiatrici, a prescindere dalla qualifica religiosa dell’organizzazione.

Torniamo allora ai princìpi cardine del nostro assetto costituzionale. La libertà religiosa è valore primario dell’ordinamento italiano (e internazionale), e non è concessa a discrezione dei poteri pubblici, essendo un bene prezioso per la collettività. Essa è un diritto individuale e collettivo perché il suo esercizio contribuisce a far crescere la coesione sociale, nel rispetto delle norme costituzionali che la disciplinano.

C’è però un problema di fondo che riguarda l’organizzazione che le confessioni religiose si danno, nel caso specifico i musulmani: la rappresentatività di chi governa comunità, moschee e altre strutture religiose. L’islam non conosce il nostro concetto di personalità giuridica, tende a vivere in modo atomistico, senza organizzazioni rappresentative nazionali, capaci di interloquire con lo Stato e le pubbliche istituzioni.

Ciò ha impedito sino a oggi di seguire la via maestra della Costituzione che riconosce il diritto di (tutte) le Confessioni religiose a darsi i propri Statuti purché non contrastino con i princìpi dell’ordinamento giuridico. Si tratta d’un caposaldo non aggirabile, ma col passar del tempo s’è determinato un paradosso quasi unico. Da un lato aumenta e cresce la presenza dei musulmani, immigrati o cittadini italiani, sul nostro territorio (fino al punto che essi costituiscono una delle minoranze religiose più cospicue presenti in Italia), dall’altro non è mai stata riconosciuta alcuna confessione islamica ai sensi dell’art. 8 della Costituzione e della Legge 1159/1929. Di fatto l’islam vive attraverso una molteplicità di strutture, centri, moschee (spesso piccole, o fatiscenti) che operano orizzontalmente sul territorio e nell’ordinamento senza voler raggrupparsi in uno, due, o tre, organizzazioni veramente rappresentative a livello comunitario. Esistono alcune eccezioni, come quella del Centro culturale legato alla Grande Moschea di Roma, che però è un ente con ramificazioni internazionali; o della Co.Re.Is che ha fatto il massimo e lodevole sforzo di costituirsi in confessione, ma la cui rappresentatività è assai ridotta. Ma in genere prevale una realtà frammentaria, a volte inafferrabile. Bisogna allora comprendere che organizzarsi in una Confessione non è un dato giuridico o formale, essa fa entrare la comunità di fedeli in una dimensione nuova: nel caso dell’islam, fa uscire da una semi-clandestinità moschee e centri culturali, li inquadra in un orizzonte certo di diritti e doveri, giova al consolidamento della identità collettiva, la fa evolvere in collegamento con la società esterna. La costituzione della Confessione comporta il coinvolgimento dei fedeli, la formazione di uno Statuto con diritti e doveri anche interni alla confessione, l’attivazione di organismi dirigenti responsabili di fronte alla società, e via di seguito.

Insomma, la fuoriuscita dalla semiclandestinità immette in un circuito di conoscenza, e di controlli, un pulviscolo di strutture e organizzazioni e centri che altrimenti vivrebbero per sempre isolati.

Per questa ragione, nel 2008, con una Dichiarazione di Intenti, i massimi esponenti delle Comunità islamiche si proposero di creare una Federazione dell’islam, con la quale si proclamava l’accettazione e la fedeltà ai princìpi di libertà religiosa, all’eguaglianza tra uomo e donna, al valore della vita umana e si dichiarava di «rifiutare ogni collegamento con organizzazioni integraliste» e di voler «marcare un confine netto nei confronti di ogni tipo di fondamentalismo». Il tentativo si esaurì con la caduta del secondo Governo Prodi, e nulla più è stato fatto. Ogni gruppo islamico vive ancora oggi separato rispetto agli altri, con una permanente frammentazione che lascia aperte le porte a diverse possibilità.

Riprendere oggi tesi sciagurate di matrice illiberale e xenofoba contro la libertà religiosa dei musulmani, oltre a contraddire i diritti umani che competono a tutti, accentuerebbe proprio l’isolamento e l’abbandono di una rilevante minoranza religiosa, esponendola tra l’altro alle lusinghe di estremisti e fondamentalisti.

D’altronde, immaginare fughe in avanti, con l’8 per mille da dare all’islam, la stipulazione di un’Intesa con entità ancora neanche riconosciute, vuol dire immaginare obiettivi che potranno un giorno realizzarsi ma che richiedono, prima, un impegno da parte di tutti nel realizzare quel cammino previsto dalla Costituzione per la regolarizzazione una Confessione religiosa. A questo bisogna dedicarsi.

Massimo D’Alema, autore di una
sommaria proposta di destinazione
dell’8xmille alla costruzione di moschee

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 9:19 pm | | Default

La rivoluzione pedagogica che fabbrica teste vuote, di Giorgio Israel [Contro i discepoli di Edgar Morin e non solo]

Riprendiamo da Libero del 7/10/2015 un articolo del recentemente defunto Giorgio Israel: con la lucidità che lo ha sempre contraddistinto smaschera le nuove teorie educative proposte dai seguaci di Edgar Morin. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

Newton, William Blake

«È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena». Chi potrebbe non convenire con questa affermazione? Essa rammenta che è inutile riempire la testa di nozioni senza saper ragionare, ovvero senza assimilare razionalmente le conoscenze; ammonisce contro il caso limite di quel signore che voleva farsi una cultura leggendo l’uno dopo l’altro, in ordine alfabetico, tutti i libri di una biblioteca.

Ma se Michel de Montaigne, autore di questa frase, avesse saputo che, qualche secolo dopo, qualcuno avrebbe pensato di fare di questa osservazione un programma culturale ed educativo universale, sarebbe rimasto di stucco. Questo qualcuno è stato Edgar Morin, intellettuale di interessi multiformi che ha deciso che il mondo rischiava di bloccarsi se non metteva mano alle teste degli uomini.

L’attitudine a porre e trattare correttamente i problemi doveva diventare il fine dell’educazione e imporsi sulle conoscenze e sulle discipline. Soltanto così si potevano ricostruire i principi che soggiacciono a tutti i saperi, riconnettendoli in un unico tessuto e risolvendo di colpo la separazione tra cultura umanistica e scientifica.

La consapevolezza che “tutto si connette” sta nella presa di coscienza della centralità del concetto di “complessità”, anzi di “ipercomplessità” del mondo, e la nuova cultura unificata deve sostituire all’idea di interdisciplinarità quella di iperdisciplinarità, e quindi l’attitudine “olistica” a muoversi “bene” in tutti i saperi svelandone il tessuto unitario. Insomma, prima viene il metodo e poi i contenuti.

Si farebbe troppo onore a Morin riconducendo a lui soltanto gli orientamenti di certa pedagogia contemporanea. Un altro suo padre nobile è John Dewey e l’idea che la pedagogia debba aderire ai metodi delle scienze esatte e divenire uno strumento per l’autoformazione del fanciullo, cui non bisogna trasmettere conoscenze, bensì fornire un aiuto affinché acquisisca la capacità di apprendere.

Sono teorie che si muovono su un crinale ambiguo e che, nelle mani di teste “mal fatte”, diventano pericolose come la nitroglicerina. Difatti, dall’aforisma di Montaigne non discende che una testa vuota (o quasi), soprattutto se restìa a riempirsi, possa essere ben fatta. E difatti sono le teste vuote e restìe a riempirsi che si sono lanciate a corpo morto sul programma di Morin e sull’idea di autoapprendimento spingendoli fino alle conseguenze più radicali, ovvero mettendo semplicemente da parte le conoscenze in favore della metodologia pura.

Se Morin è un intellettuale di tutto rispetto (e così alcuni suoi seguaci), discendendo per li rami ci si imbatte in una pletora di ignoranti che hanno fatto dell’infermità virtù, coprendo l’ignoranza con un ammasso di fumisterie inconsistenti sulla complessità, l’ipercomplessità, l’iperdisciplinarità e, in definitiva, giustificando il disprezzo delle conoscenze con il primato del metodo.

Sarebbe lungo esaminare questa letteratura ma chi ne voglia cogliere gli effetti sul disastro scolastico può leggere i programmi del 2004 e le indicazioni per il curricolo scolastico primario del 2007. Qui dalla geografia sparisce la descrizione della Terra e la sua definizione è ridotta a «scienza che studia l’umanizzazione del pianeta e i processi attivati dalle collettività nelle loro relazioni con la natura», per cui lo studente, lungi dal dover assimilare conoscenze, è invitato a «costruire le proprie geografie».

Così lo studio della storia è ridotto al fine precipuo di acquisire una consapevolezza critica che eviti usi «strumentali» e «impropri» e di avviare un «confronto sereno» sulle differenze per costruire una società multiculturale e multietnica. Sapere se Giulio Cesare sia vissuto nell’Ottocento e se il Volga attraversi la Lombardia è secondario. Per non dire delle indicazioni per le secondarie in cui tutto viene sbrindellato attorno al concetto indefinito di complessità.

Ma più che insistere su queste miserie – il che alla fine è impietoso – interessa qui sottolineare alcuni aspetti della fabbrica delle “teste ben fatte”. In fondo, ci si chiede, prima di Edgar Morin, abbiamo avuti la filosofia greca e gli Elementi di Euclide, la scienza di Galileo e Newton, le opere di Dante e Shakespeare, la musica di Bach e Beethoven. E via citando tanti altri frutti geniali di teste certamente ben fatte.

Evidentemente la pedagogia basata sulle conoscenze e sulla divisione disciplinare – in vigore nell’Accademia ateniese, nelle università medioevali, fino alle scuole moderne – funzionava assai bene quanto a produzione di teste ben fatte. E non si venga a dire che i prodotti intellettuali di società così “semplici” fossero meno complessi del pensiero ispirato dalla complessità del mondo contemporaneo. A meno che non si pensi che complessità sia sinonimo di nebulosità.

Quale incredibile presunzione ha ispirato l’idea che occorresse gettare all’aria un’idea di cultura che ha sempre – ripetiamo, sempre, da quando il mondo conosce sé stesso – dimostrato il successo di un rapporto indissolubile tra conoscere e ragionare in cui ognuno dei due aspetti non può esistere senza l’altro, tantomeno tiranneggiandolo?

A una simile pretesa possiamo trovare varie spiegazioni che non si escludono a vicenda. La prima è la democratizzazione della conoscenza: tutte le teste devono essere ben fatte, mentre, nei sistemi educativi passati, soltanto una parte riusciva a farsi avanti. Insomma, pur non essendo in partenza uguali, dobbiamo diventarlo e, allo scopo, dobbiamo essere assoggettati ai procedimenti di una pedagogia scientifica che definisce in modo universale e uniforme le competenze da conseguire. Non si tratta di fornire pari opportunità secondo una visione aperta della società, bensì di conseguire appiattimento egualitario caratteristico di una visione totalitaria.

Ma il totalitarismo si manifesta in altri modi. Difatti, non ci si limita a osservare, con Montaigne, che «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», ma si formula un programma di “rifacimento” delle teste, che si pretende non soltanto scientifico ma universale, e in quanto tale mira a diventare ricetta egemonica dei sistemi d’istruzione. Totalitaria è la pretesa di voler fare le teste attribuendosi il possesso della ricetta giusta per fabbricarle, sentenziando cosa sia una testa “ben fatta”. La lettura delle prescrizioni che vengono date in certi testi (addirittura da applicare in classe) per fare bene le teste è raccapricciante per il modo in cui fumisterie senza capo né coda vengono servite con l’arroganza di chi crede di possedere la verità scientifica.

Si dirà che parlare di mentalità totalitaria è un’offesa alla biografia di una persona come Morin che ruppe coraggiosamente mezzo secolo fa con lo stalinismo. Ma sono soltanto a metà le rotture con il comunismo che conservano un legame con l’idea cruciale secondo cui nulla della storia dell’umanità è accettabile, il mondo è fatto male – e, in particolare, la sua cultura – e occorre rifare tutto daccapo. È l’idea palingenetica che si è mantenuta nel percorso di chi è passato dallo stalinismo al sessantottismo. La malattia è il persistere dell’idea rivoluzionaria.

Su tutto plana un aspetto tragicomico. Nella dissoluzione delle conoscenze disciplinari, nella soppressione della figura dell’insegnante (che trasmette le conoscenze) sostituita da quella del “facilitatore” del processo di autoapprendimento, e nella conseguente distruzione dell’insegnamento ex cathedra, sopravvive una sola forma di conoscenza legittima e un solo gruppo di “insegnanti” titolati a fare lezioni ex cathedra: la pedagogia olistica e della complessità e i suoi sacerdoti, i teorici dell’autoapprendimento, agenti della rivoluzione educativa ed epistemologica globale. È una casta che ripropone (in farsa, per dirla con Marx) la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria di lontana memoria. Ma la farsa si è fatta tragedia per il sistema dell’istruzione che ha subito queste ricette e ha prodotto un paio di generazioni di teste vuote di conoscenze e plasmate su inconsistenti paradigmi della complessità.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 5:07 pm | | Default

«Giovanni Rucellai figlio di Paolo onde ottenere la sua salvezza là dove con Cristo avvenne la Resurrezione di tutti». Il tempietto del Santo Sepolcro disegnato da Leon Battista Alberti per Giovanni Rucellai in Firenze. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti. cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

«Giovanni Rucellai figlio di Paolo onde ottenere la sua salvezza là dove con Cristo avvenne la Resurrezione di tutti curò che fosse costruito questo sacello sul modello del Sepolcro di Gerusalemme, 1467»[1]. Così recita l’iscrizione all’ingresso del Tempietto a immagine del Santo Sepolcro di Gerusalemme voluto da Giovanni Rucellai, ricco mercante fiorentino – al suo tempo era il terzo contribuente di Firenze e, quindi, il terzo più ricco fiorentino del momento[2].

La Cappella per il quale il Tempietto venne progettato fu disegnata dall’Alberti, ma, come molti edifici antichi, venne completamente rovinata per la doppia confisca prima dei rivoluzionari francesi in età napoleonica e poi del regno d’Italia in età risorgimentale.

Infatti, il convento e la chiesa di San Pancrazio vennero sottratti all’uso liturgico con le leggi anti-ecclesiastiche del tempo ed il complesso venne adibito prima a luogo per l’estrazione della lotteria, poi a manifattura dei tabacchi ed infine a caserma.

Ricorda Vaccaro[3]:

«Nel 1808, con le soppressioni, la chiesa di San Pancrazio fu ridotta a sala di estrazione dell’Imperiale Lotteria di Francia. Le due colonne e la trabeazione del triforio albertiano furono utilizzati per realizzare il nuovo ingresso della chiesa sconsacrata».

E ancora[4]:

«Nel 1883 la chiesa fu destinata a sede della Regia Manifattura dei Tabacchi, iniziando così nuovi lavori di adattamento con la demolizione della cappella del Coro e il montaggio delle travi metalliche destinate a sorreggere un solaio che divise orizzontalmente in due la navata. Nel 1921 un violento incendio, distrusse tutta l’antica struttura lignea di copertura.

Nel 1937 l’edificio, ormai totalmente trasformato dalle diverse destinazioni d’uso, veniva adibito a sede della Caserma "Vannini''. Soltanto nel 1971 e dopo lunghi interessamenti delle amministrazioni competenti, visto il pregio storico artistico dell'immobile, fu possibile attuare, dopo la dismissione dell’edificio dal Demanio della Difesa, il passaggio al Demanio ramo Artistico-Storico».

Per fortuna se l’intera Cappella dell’Alberti subì danni irreparabili non venne invece mai distrutto il tempietto stesso che è oggi nuovamente accessibile tramite il Museo Marino Marini che ha preso infine il posto della Caserma all’interno della chiesa di San Pancrazio. L’attuale ingresso al Museo è costituito dall’antica facciata della chiesa alla quale vennero applicate le colonne e la trabeazione che appartenevano alla Cappella dell’Alberti. Entrati nel Museo, a sinistra, si accede al vano dell’antica Cappella che reca tuttora al centro il Tempietto del Santo Sepolcro.

Leon Battista Alberti, architetto, letterato umanista e prete – era “parroco” del paesino di Gangalandi[5], ma aveva cura che un altro sacerdote curasse la parrocchia al suo posto, come era usanza all’epoca -, era l’uomo di fiducia di Giovanni di Paolo Rucellai per la costruzione di edifici.

All’Alberti aveva già commissionato la sistemazione del palazzo di famiglia (palazzo Rucellai, al quale l’architetto aveva lavorato dal 1447) e la costruzione della Loggia Rucellai (completata nel 1460). Inoltre, a partire dal 1456, l’Alberti aveva lavorato su commissione del Rucellai anche al completamento della facciata di Santa Maria Novella che reca in alto il nome del benefattore, appunto secondo la grafia del tempo Johanes Oricellarius e lo stemma del casato con il simbolo della vela spiegata al vento.

Giovanni Rucellai commissionò a Leon Battista Alberti anche la cappella di famiglia alla quale l’architetto lavorò dal 1456 al 1467, con al centro il tempietto del Santo Sepolcro.

Per essa il committente Rucellai volle all’interno la costruzione di un modello del Santo Sepolcro di Gerusalemme perché chi si fosse recato in quella cappella, dove sarebbero stati poi sepolti i Rucellai delle diverse generazioni a partire dal suo stesso corpo, la visita fosse contemporaneamente un pellegrinaggio alla tomba vuota del Cristo. La spiritualità dei secoli successivi alle crociate aveva fatto nascere in diversi luoghi d’Europa il desiderio di ricostruire cappelle simili al Santo Sepolcro proprio per far immaginare quel luogo e potervisi recare – diremmo oggi – almeno “virtualmente”. In quei luoghi venivano poi offerte le messe per i defunti ed i vescovi concedevano spesso indulgenze a chi vi si recasse a pregare.

Le fonti ricordano che Giovanni Rucellai organizzò una spedizione di uomini di sua fiducia in Terra Santa perché riferissero all’Alberti dell’architettura del Sepolcro perché egli potesse realizzare una cappella che ne avesse le stesse dimensioni[6]:

«Vi dò avviso come ieri fini di fare la spedizione in Terra Santa - scriverà alla madre Caterina - avendo inviati colà due legni a tutte mie spese con ingegnere et uomini, acciò mi piglino il giusto disegno e misura del Santo Sepolcro e che, colla maggiore celerità [che] gli sarà possibile, in qua ritornino e me le portino». Ora il cantiere della «nostra cappella che nuovamente fo fabbricare... è a buon porto, non mancandovi altro per renderla perfetta che il modello di così ricco e prezioso tesoro». Ed in una altra lettera alla madre (ma sospetta di falso: Kent, 1974), stavolta datata al 25 aprile 1457, le confermerebbe che «ieri fini di terminare le incumbenze tutte per la spedizione che fo per Terra Santa, inviando colà un legno a tutte mie proprie spese con ingegnere, quale è un giovane di molta vaglia, statomi proposto et dato dal nobil uomo Leon Batista Alberti».

L’esterno del tempietto venne poi decorato secondo lo stile caro al periodo umanistico. In alto corre la scritta:

YHESVM QVERITIS NAZARENVM CRVCIFIXVM SURREXIT NON EST HIC ECCE LOCVS VBI POSVERVNT EVM

Che significa:

Cercate Gesù il Nazareno crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove lo avevano deposto.

Per l’iscrizione Leon Battista Alberti disegnò, uno ad uno, i bellissimi caratteri delle lettere, su base geometrica.

Le tarsie recano, invece, gli stemmi di Giovanni Rucellai (la vela gonfia), di Lorenzo il Magnifico (tre anelli con diamante incastonato), di Cosimo il Vecchio (il mazzocchio con tre piume) e di Piero de’ Medici (un anello con diamante con due piume). I Rucellai si imparentarono con i Medici attraverso il matrimonio di Bernardo con Nannina (1461), ma il simbolo dei tre anelli ha anche valenza teologica poiché venne usato nell’iconografia antica come simbolo trinitario[7].

Intorno alla sommità del Tempietto vennero realizzati supporti in ferro per l’applicazione di candele, per illuminare il luogo e riportare all’atmosfera della notte della resurrezione del Cristo.

Nell’interno del sacello sulla destra è posta una sepoltura a somiglianza del sepolcro di Gerusalemme, il luogo dove porre il corpo di Giovanni Rucellai. Due affreschi vennero inoltre realizzati all’interno, il più grande con il Cristo risorto con il vessillo della vittoria, con a fianco due angeli, il secondo in fondo alla cappella con la Deposizione del Cristo morto, fra le mani del committente.

Note al testo

[1] IOHANNES RUCELLARIUS PAULI FIL. UTINDE SALUTEM SUAM PRECARETUR UNDE OMNIUM CUM CHRISTO FACTA EST RESURECTIO SACELLUM HOC ADISTAR IHEROSOLIMITANI SEPULCHRI FACIUNDUM CURAVIT MCCCCLXVII.

[2] Lo ricorda, citando i registri fiorentini del 1451 e de 1457, M. Dezzi Bardeschi, Ad instar: una intensa architettura parlante d’Autore, in V. Vaccaro (a cura di), Comunicare con Leon Battista Alberti. Il nuovo collegamento tra il Museo Marino Marini e la Cappella del Santo Sepolcro, Edizioni Polistampa, Firenze 2013, p. 66.

[3] V. Vaccaro, La Cappella Rucellai a Firenze, in V. Vaccaro (a cura di), Comunicare con Leon Battista Alberti. Il nuovo collegamento tra il Museo Marino Marini e la Cappella del Santo Sepolcro, Edizioni Polistampa, Firenze 2013, p. 17.

[4] V. Vaccaro, La Cappella Rucellai a Firenze, in V. Vaccaro (a cura di), Comunicare con Leon Battista Alberti. Il nuovo collegamento tra il Museo Marino Marini e la Cappella del Santo Sepolcro, Edizioni Polistampa, Firenze 2013, p. 18.

[5] Cfr. su questo Leon Battista Alberti, architetto ma anche priore (cioè parroco) di San Martino a Gangalandi e romano di adozione, probabilmente sepolto nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio. Breve nota di Andrea Lonardo.

[6] M. Dezzi Bardeschi, Ad instar: una intensa architettura parlante d’Autore, in V. Vaccaro (a cura di), Comunicare con Leon Battista Alberti. Il nuovo collegamento tra il Museo Marino Marini e la Cappella del Santo Sepolcro, Edizioni Polistampa, Firenze 2013, p. 66.

[7] M. Dezzi Bardeschi, Ad instar: una intensa architettura parlante d’Autore, in V. Vaccaro (a cura di), Comunicare con Leon Battista Alberti. Il nuovo collegamento tra il Museo Marino Marini e la Cappella del Santo Sepolcro, Edizioni Polistampa, Firenze 2013, p. 74.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 5:05 pm | | Default

Cosa fanno i jihadisti quando non combattono, di Ursula Lindsey

Riprendiamo dal sito della rivista Internazionale del 13/12/2105 la traduzione a cura di Cristina Biasini di un articolo di Ursula Lindsey pubblicato su The Chronicle of Higher Education. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

Thomas Hegghammer ha dedicato gli ultimi quattordici anni allo studio dei gruppi jihadisti. Come la maggior parte degli studiosi dell’islam radicale, in quanto direttore delle ricerche sul terrorismo presso l’Istituto di ricerca della difesa norvegese si è concentrato sulle tattiche militari e sulle dichiarazioni politiche dei gruppi, sulle loro dottrine e sui loro leader.

Tuttavia, è giunto alla conclusione che ciò che i jihadisti fanno nel tempo libero (le barzellette che si raccontano, le poesie che scrivono e recitano, le interpretazioni che si danno a vicenda dei loro sogni, le manifestazioni pubbliche di dolore) ha la stessa importanza ai fini di una comprensione più profonda dei gruppi militanti.

La cultura jihadista è “una delle ultime grandi frontiere inesplorate della ricerca sul terrorismo, che merita un intero nuovo programma di ricerca”, ha sostenuto Hegghammer in una conferenza che ha tenuto nell’aprile del 2015 all’università di St. Andrews.

Ricerca multidisciplinare

Hegghammer appartiene al gruppo crescente di studiosi che analizzano le attività quotidiane, apparentemente inutili, dei jihadisti per spiegare il fascino e la capacità di resistenza dell’estremismo islamico.

Pur riconoscendo a diversi studiosi (tra cui Manni Crone, Behnam Said ed Elisabeth Kendall) il merito di un lavoro pionieristico sulle particolari pratiche culturali che accompagnano la radicalizzazione, Hegghammer sostiene che sono stati fatti pochi tentativi per collegare queste ricerche ed esaminare la cultura “in quanto categoria dell’attività militante”. “Stiamo solo grattando la superficie”, afferma.

Le ricerche sulla cultura jihadista si stanno sviluppando in modo decisamente multidisciplinare; in un libro di prossima uscita curato da Hegghammer figurano i contributi di studiosi di musicologia, letteratura, antropologia e scienze politiche. Il volume, provvisoriamente intitolato Jihadi culture: what militant islamists do when they’re not fighting, sarà pubblicato dalla Cambridge University Press il prossimo anno.

Oltre alla frequenza con cui i leader jihadisti scoppiano in lacrime, ci sono altre sorprese

Secondo la definizione di Hegghammer, la cultura jihaidista include attività che non si limitano a soddisfare le esigenze militari di base. Alcune sono piuttosto sorprendenti. Un aspetto della cultura jihadista che affascina Hegghammer è rappresentato dalle manifestazioni pubbliche di dolore. Lo studioso osserva che questa pratica è così diffusa che Abu Musab al Zarqawi, leader di Al Qaeda in Iraq fino alla sua morte avvenuta nel 2006, era noto come “il macellaio” ma anche come “colui che piange molto”.

Il messaggio nel sogno

È un segno molto rispettato di devozione piangere durante le letture del Corano, quando si guardano i video di propaganda e si riflette sulla sofferenza dei musulmani in tutto il mondo, quando si parla del martirio e del desiderio di compierlo. Tuttavia non è opportuno piangere sulla morte in combattimento dei commilitoni – in questo caso la reazione corretta è gioire.

Oltre alla frequenza con cui i leader jihadisti scoppiano in lacrime, ci sono altre sorprese. Iain Edgar, professore di antropologia alla Durham university e collaboratore del libro di Hegghammer, ha studiato il ruolo dei sogni all’interno dei gruppi jihadisti.

Edgar è un esperto di culture del sogno in tutto il mondo. Molti musulmani prendono sul serio i sogni, in quanto messaggi potenzialmente divini.

In Pakistan, Edgar ha scoperto che si attribuiva al defunto leader taliban mullah Omar l’abitudine di agire in base ai suoi sogni premonitori. E Osama bin Laden, seguendo l’esempio del profeta Maometto, secondo Edgar avrebbe spesso cominciato la giornata chiedendo se qualcuno dei suoi seguaci avesse fatto un sogno significativo. I leader jihadisti usano i sogni per legittimare le loro decisioni (sferrare un attacco, per esempio) riconducendole all’ispirazione divina e per sottolineare il loro stretto legame con il profeta e i suoi compagni.

Trovo affascinante l’idea che il sogno faccia ancora parte della politica contemporanea e del più grande conflitto odierno”, afferma Edgar.

Altri studiosi sono interessati alle storie che i movimenti jihadisti creano su se stessi. Bernard Haykel e Robyn Creswell, rispettivamente professore di studi sul vicino oriente all’università di Princeton e assistente di letteratura comparata all’università di Yale, hanno scritto un articolo sulla poesia dei gruppi islamici radicali (pubblicato da New Yorker a giugno, è tradotto in italiano sul numero 1132 di Internazionale). I due studiosi analizzano il ruolo preminente della poesia all’interno della cultura musulmana in generale e dei gruppi jihadisti in particolare, laddove la maggior parte delle altre forme di arte è vietata. La poesia, sostengono, è “una finestra sul movimento che parla a se stesso”.

Le pratiche culturali possono avere un valore strategico vitale, anche se difficile da definire e quantificare

I jihadisti scrivono poesie in cui lamentano le difficoltà che patiscono (ma spiegando perché ne valga la pena), vincono dispute retoriche contro i loro critici, celebrano i commilitoni caduti, prendono posizione su temi politici e teologici, lodano i leader e commemorano le battaglie. Si tratta di una poesia oscura, afferma Haykel, spesso modellata su antiche forme islamiche perché i jihadisti, che pure sono decisi a creare una nuova realtà radicale, hanno scelto il ruolo di eredi della tradizione islamica.

Perché i jihadisti, dei ricercati che passano la loro vita in clandestinità o combattendo, “perdono” tanto tempo in attività apparentemente inutili? Una risposta è che le pratiche culturali possono avere un valore strategico vitale, anche se difficile da definire e quantificare.

Il confine tra attività culturale e attività militare può essere indistinto, afferma Hegghammer. I video di propaganda che supportano il reclutamento hanno un chiaro scopo militare – ma è necessario spenderci tempo per registrarne le colonne sonore?

Nel reclutamento di nuovi membri nei gruppi radicali “si punta alla cultura e ai legami sociali, e in questo modo l’ideologia riesce a farsi comprendere,” dice Jonathan Pieslak, professore associato di teoria e composizione al City college di New York. Il suo libro Radicalism and music (Radicalismo e musica), pubblicato dalla Wesleyan University Press, analizza la cultura musicale di Al Qaeda, degli skinhead razzisti, degli estremisti di ispirazione cristiana e dei militanti animalisti.

La forza della musica

Il suo libro precedente, Sound targets: american aoldiers and music in the Iraq war (Obiettivi sonori: i soldati americani e la musica nella guerra in Iraq)(Indiana University Press, 2009), riguardava l’uso della musica per reclutare i soldati statunitensi nella guerra in Iraq e per ispirare al combattimento. “Così”, dichiara, “ho pensato: cosa sta facendo l’altra parte?”.

Gli estremisti islamici praticano solo una forma di musica, che non riconoscono come tale poiché ritengono che l’islam proibisca la musica. Il nasheed, un genere reso popolare dagli islamisti negli anni settanta, elude questo divieto perché si tratta di un canto non accompagnato da strumenti. È la colonna sonora più comune dei video jihadisti.

Inizialmente i gruppi jihadisti prendevano in prestito vecchi canti popolari; poi, espandendosi, hanno cominciato a produrne di propri, per celebrare i loro leader e rievocare particolari battaglie. Osservando che la qualità del suono è migliorata e che gli arrangiamenti sono diventati più sofisticati, Pieslak ipotizza che “è possibile valutare la forza di un’organizzazione dalla forza della cultura musicale originale che produce”. E afferma che esistono molti parallelismi tra i gruppi radicali che ha analizzato. Tutte le loro canzoni sottolineano il bisogno di difendere una causa nobile e contrastata.

La musica può “plasmare i sentimenti di una persona”, afferma Pieslak, e ha un impatto emotivo molto più immediato rispetto ad altre forme di comunicazione. In un opuscolo intitolato 44 modi per sostenere il jihad, Anwar Al Awlaki, un jihadista ucciso nello Yemen nel 2011, sosteneva che “un buon nasheed può avere una diffusione tale da conquistare un pubblico che sarebbe impossibile raggiungere con una conferenza o con un libro. I nasheed sono una fonte di ispirazione soprattutto per i giovani”.

I jihadisti fanno riferimento a un passato immaginario; sono fuorilegge provenienti da paesi diversi che spesso hanno rotto con gli amici e le famiglie. “Hanno bisogno di una cultura che li supporti”, dice Haykel. Di fatto, “la durata del movimento si può spiegare solo con il fatto che è una cultura”.

Hegghammer, ispirato dal lavoro del sociologo Diego Gambetta su come i criminali comunicano e stabiliscono la reciproca affidabilità, propone un’altra teoria: ci vuole tempo per padroneggiare le particolari espressioni di una determinata cultura. Questo investimento di tempo segnala la devozione alla causa jihadista.

Conoscere la cultura jihadista ha importanti implicazioni per la politica

Lo studio della cultura jihadista presenta sfide particolari. I ricercatori devono svolgere un lavoro etnografico mediato, usando fonti secondarie per ricostruire e immaginare la vita quotidiana dei gruppi esaminati. Fortunatamente, i militanti islamisti producono una grande quantità di materiale su se stessi e sulle loro attività e lo rendono disponibile online.

Tra le fonti figurano diari e autobiografie di jihadisti, documenti giudiziari e verbali di processi, interviste con vecchi militanti e un grande numero di video, registrazioni e testi. Naturalmente questo materiale non può essere preso come oro colato, avverte Hegghammer; l’obiettivo dei militanti è attirare le persone, perciò “si tratta di una versione abbellita della vita sul campo”. Ma la quantità di materiale fa sì che gli studiosi possano trovare validi elementi di analisi.

Guardando i video, Hegghammer si concentra su “ciò che accade sullo sfondo”; è così che si è accorto, per esempio, delle persone che piangono durante la lettura delle poesie.

Oltre che alla difficoltà di intervistare i soggetti, Haykel attribuisce la scarsità di studi sulla cultura jihadista a diversi altri fattori: le competenze linguistiche e le conoscenze culturali richieste, la titubanza a esplorare i forum online jihadisti, la riluttanza a umanizzare gruppi che suscitano orrore ovunque.

Ma gli accademici che si concentrano sulla cultura jihadista affermano che essa ha importanti implicazioni per la politica. Una migliore conoscenza di questi gruppi e del modo in cui reclutano, motivano e conservano i loro seguaci può contribuire a migliorare il controreclutamento, che potrebbe quindi tenere conto del fascino dei gruppi sul piano emotivo e immaginario.

Il fascino ignorato

“Non sempre si tratta della causa, non sempre si tratta della dottrina. Si tratta dei piccoli piaceri della vita del militante jihadista”, afferma Hegghammer. “Cosa che, incidentalmente, è molto in linea con ciò che sappiamo dei nostri soldati. La gente si arruola non per la politica estera ma perché le piace la vita militare. L’ordine, l’avventura, le amicizie: insomma, le gratificazioni sociali immediate”.

Anche se le implicazioni politiche sono importanti, Hegghammer ammette che non sono quelle a motivarlo come studioso. “Lo faccio perché ho l’urgenza di comprendere perché queste persone si comportano così”, afferma. A suo parere, nell’analisi ravvicinata della cultura jihadista c’è un’implicita “critica sia verso chi considera i terroristi dei mostri o dei pazzi, sia verso chi li considera vittime dell’emarginazione, della povertà e del razzismo”, cioè verso le semplificazioni degli osservatori a destra e a sinistra dello spettro politico. “Entrambi gli approcci ignorano il fatto che la vita del jihadista esercita un suo fascino”, afferma.

Analizzando ciò che induce le persone a unirsi a gruppi terroristici, gli studiosi ammettono di sviluppare inevitabilmente una forma di empatia verso i loro soggetti, i cui percorsi personali, se osservati da vicino, formano una catena di scelte comprensibili. “Nessuno si sveglia la mattina e va a farsi saltare in aria”, dice Hegghammer. “È un processo lungo e graduale”.

Potrebbe essere l’elemento di conoscenza più semplice e insieme più inquietante offerto dallo studio della cultura jihadista: non solo il fascino e la possibile longevità di questi gruppi, ma anche la loro umanità.

(Traduzione di Cristina Biasini)

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 5:03 pm | | Default
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Un’Europa non farisaica per l’islam integrato e contro l’islam terrorista, di Samir Khalil Samir

Riprendiamo dall'Agenzia di stampa AsiaNews del 24/3/2016 un articolo scritto da Samir Khalil Samir. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag samir_khalil_samir.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

Roma (AsiaNews) - I tragici attentati di Bruxelles, hanno prodotto in Europa due atteggiamenti: uno guerriero e uno sentimentale. I terroristi che hanno compiuto gli attentati erano conosciutissimi dalla polizia, dai servizi segreti, eppure hanno fatto quello che hanno voluto. La nostra gente allora è diventata “guerriera”: attuare un sistema di sicurezza preciso, controllare i confini, rifiutare tutti i migranti, maledire tutte le proposte di integrazione.

Poi c’è la gente comune, per esempio alcuni giovani che chiedono solo tranquillità e delegano la difesa a uno Stato divenuto ormai così fragile. Ma loro non si sentono responsabilizzati in nulla.

Di fatto vi è la diffusa paura che il terrorismo ci derubi del nostro modo di vivere spensierato e “libero”. Molti giornali poi sottolineano “la guerra” dell’Europa. Ma l’Europa è in guerra da tanto tempo contro il jihadismo.

Certo vi è ormai una escalation. La febbre islamista è ormai dappertutto. Non vi è più solo una zona o un Paese preciso. I jihadisti operano ovunque: per le strade, nei ristoranti, all’aeroporto, in metro. Sembra non ci sia più scampo.

I terroristi approfittano di ogni situazione per far saltare tutto: Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Kenya, Libia,… Magari non sono le stesse persone o lo stesso gruppo, ma tutta questa violenza ha lo stesso cespite, che è il salafismo. C’è una ramificazione del pensiero islamico, che cerca di mondializzare il terrore.

Il prof. Pierre Vermeren su Le Monde di ieri mostra la storia di questi gruppi marocchini, a cui appartengono i terroristi di Parigi e di Bruxelles. Essi o i loro genitori sono arrivati in Europa col boom delle industrie minerarie e dell’acciaio; con la crisi sono divenuti disoccupati; dopo la disoccupazione sono diventati criminali (spacciando hashish). Ma a questo punto, anche per uno strano patto economico con il mondo saudita, sono cominciati ad arrivare decine di predicatori wahhabiti, costruendo moschee su moschee. E questo fondamentalismo li ha presi e resi terroristi.

Un fatto simile è avvenuto anche in Francia. Ma Belgio e Francia, con governi secolari, disinteressati alla religione, non si sono curati di questo aspetto e lo hanno lasciato crescere fino ad oggi. Gli Stati pensavano di poter controllare la situazione in modo politico e sociologico. E invece il fenomeno è loro scoppiato in faccia.

In Belgio ci sono ormai quartieri dove la polizia non entra più. A Molenbeek [il quartiere di Salah Abdeslam, il terrorista arrestato in Belgio, responsabile delle stragi di Parigi – ndr], ma anche in altri quartieri, la polizia arriva, ma uomini barbuti li bloccano dicendo che quella è “casa loro” e le forze dell’ordine non ci devono entrare.

Sono zone non più controllabili. In Francia c’è una situazione simile con quartieri dove la delinquenza giovanile fa il bello e il cattivo tempo. Anche se i loro genitori, più anziani, non sono d’accordo, i giovani si comportano da padroni e sono loro la legge.

D’altra parte i prezzi e gli affitti in centro città sono molto alti e questa gente va a vivere nelle periferie, che diventano delle città a sé stanti.

Il wahhabismo si diffonde dappertutto: coi soldi, con le moschee, con gli imam pagati dall’estero e questo è il risultato.

La malattia islamica

Gli Stati europei ora fanno proclami su un sistema di sicurezza forte, condiviso, ma non confessano la superficialità con cui hanno lasciato ad Arabia saudita, Qatar e altri Paesi finanziare predicatori, imam, moschee, lasciando predicare in arabo, lasciando crescere l’ideologia jihadista.

Pochi Paesi, come l’Austria e la Svezia, hanno dato regole precise: non si accettano progetti di moschee finanziate dall’estero; le prediche nelle moschee devono avvenire nella lingua del Paese ospitante; gli imam devono essere formati nel Paese. In Austria ad esempio, si è cercato di iniziare una scuola teologica islamica locale dentro l’università, con programmi accademici: chi vuole essere imam riconosciuto, deve passare di là.

Occorre mettere un minimo di regole: ad esempio, non si può pregare bloccando le strade. Questo, che è una specie di ricatto, è diventato molto diffuso. Una volta succedeva anche a Milano; a Parigi succede ancora adesso; a Marsiglia vi sono quartieri interi sequestrati per la preghiera!

Gli Stati non capiscono nulla della religione e ancora meno della religione islamica e lasciano fare. Magari ai cattolici metteranno divieti, ma verso i musulmani si mostra accondiscendenza.

La Francia, ad esempio, è spesso anti-cattolica nel suo governo e fa di tutto per frenare i cattolici, ma facilita i musulmani allo scopo di avere voti da loro. Forse lo stesso avviene in Italia.

In Francia l’allora presidente Sarkozy ha messo in atto una legge dell’800, per la quale con il pagamento di un franco all’anno è possibile affittare per “motivi culturali” un terreno per la durata di 99 anni. Egli ha incoraggiato tutti i sindaci a affittare i terreni ai musulmani e non ai cristiani.

E questo solo per motivi politici ed economici, per attirare voti e investimenti da parte di Arabia saudita, Qatar, Emirati.

Qatar e Arabia saudita sono ufficialmente wahhabiti. In Europa nessuno li accusa di terrorismo, ma nella stampa araba tutti lo dicono, perché sono loro che aiutano i jihadisti. Sono loro a finanziare l’Isis; le armi comprate da loro passano attraverso la Turchia e finiscono proprio nelle mani dei jihadisti che poi ci ritroviamo in Europa.

La Turchia fa il doppio gioco: si mostra “europea” e nello stesso tempo lascia passare i foreign fighters fino in Siria. Eppure nessuno critica questi Paesi. Da quasi un anno Riyadh sta bombardando lo Yemen, nelle regioni dove ci sono i sciiti, colpisce ospedali e piazze del mercato con civili, e nessuno protesta.

È ovvio pensare che ci sono accordi economici di alto livello. Lo scorso anno la Francia ha venduto al Qatar 24 aerei da guerra Rafale per 3,5 miliardi di dollari Usa. Così le violenze contro i diritti umani vengono taciute. Riyadh aiuta anche l’Egitto e in cambio il nostro Paese deve lasciare un po’ di spazio ai Fratelli musulmani.

Insomma, nella lotta al terrorismo e nelle denunce che fa l’occidente c’è molto farisaismo.

Anche l’accordo della Ue con la Turchia per il rimpatrio dei rifugiati soffre di molta ambiguità. Sembra fatto in fretta e con superficialità. Come si può pensare di far tornare indietro un profugo che ha pagato 5mila euro per imbarcarsi, ha rischiato la vita per arrivare in Europa, per poi rimandarlo in Turchia, non certo un modello di diritti umani, e in più una base degli scafisti?

C’è una piaga, una malattia islamica dentro l’islam e tutte le lotte sono interne all’islam per definire che cosa sia la vera religione. Una parte di questa lotta è finanziata da questi Paesi che vogliono far vincere l’islam wahhabita.

Ad Al-Azhar, l’università più autorevole  del mondo sunnita, non sono wahhabiti, ma poiché l’Arabia saudita sostiene l’università, essi insegnano questo islam fondamentalista. Loro dicono: No, no, stiamo cambiando, ma non è vero. I libri sono sempre gli stessi: irridono verso le altre religioni, verso i kuffār (i pagani), … Un mese fa alcuni grandi pensatori egiziani accusavano al-Azhar alla televisione: “Non potremo fare nulla – essi dicevano – finche questa università non cambia i suoi programmi di insegnamento”.

L’integrazione con le regole

Per cambiare la situazione abbiamo pochi strumenti in mano. L’unica via d’uscita è che l’Europa sia rigorosissima nelle norme, insegnando a qualunque immigrato, anche ai musulmani, che qui ci sono leggi precise e precise tradizioni culturali che vanno rispettate. Non è ammissibile cedere e lasciare che si preghi per strada bloccando il traffico, aiutando per questo e per quest’altro; non si può accettare che essi rifiutino di andare a scuola e poi pretendano il sussidio di disoccupazione.

Tempo fa seguivo alcuni profughi musulmani nelle periferie di Parigi. E ho osservato che le ragazze studiavano in modo molto proficuo, la sera stavano a casa a studiare le lezioni. I giovani invece la sera se la spassavano, andavano al bar fino a mezzanotte, e così hanno concluso male la scuola. In questo modo trovavano solo lavori precari, temporanei, o andavano a rifugiarsi alla moschea chiedendo un sostegno. Le famiglie non riescono a guidare i loro ragazzi.

Occorre educare al rispetto delle regole della convivenza. In Germania, ad esempio, nella città dove passo alcuni mesi ogni anno, dopo le 10 di sera non si può fare chiasso. Che ci sia festa o no, non si può fare rumore. La polizia arriva e mette in guardia i colpevoli. Dopo due volte porta i trasgressori in prigione per alcuni giorni.

L’integrazione è anche questo. E prima di dare a tutti questi profughi il permesso di soggiorno, occorre un periodo di prova per vedere se loro sono capaci di integrarsi.

In Germania, a 200 metri dalla parrocchia dove vado, c’è un campo profughi a maggioranza musulmana. Provengono da Siria, Libano, Medio oriente, Africa…  e sono felicissimi. Con loro parlo in arabo, o in francese con gli Africani. E tutti loro dicono sempre in coro: Dio benedica la Germania!

Cosa fanno? Li ospitano per esempio in una scuola dismessa, ogni famiglia in una stanza, molto sobri, e danno loro non soldi, ma buoni per comprare le cose necessarie (cibo, vestiti, ecc.., non tabacchi o alcol). I bambini vengono messi a scuola a imparare la lingua. Per i genitori vi è la scuola per adulti, tenuta da volontari. Dentro queste regole ferree, loro ringraziano il governo tedesco

In questo modo l’Europa può anche mostrare il suo stile di attento umanesimo. Una famiglia libanese di quel campo profughi, ad esempio, è rimasta colpita che il papà sia stato sostenuto a fare un’operazione molto delicata al cuore e la riabilitazione. Mi dicevano: Al nostro Paese nessuno avrebbe accettato di aiutarlo.

L’integrazione significa anche lavoro. Occorre una formazione intorno ai due anni; poi è necessario metterli alla prova; e se dimostrano la loro capacità di integrazione, ricevono il permesso di soggiorno. In seguito, qualcuno di loro può anche chiedere la cittadinanza.

In Germania, usando questo metodo ci sono meno problemi, anche se vi sono diversi milioni di rifugiati.

Occorre che i nostri politici, insieme coi musulmani che capiscono i problemi dell’occidente, trovino una strada per educare all’integrazione. In Italia, invece, ho trovato problemi. Ad esempio ho incontrato due egiziani i quali rifiutano di lavorare, rifiutano di integrarsi e vivono alla giornata. L’unica cosa a cui aspirano è di trovare qualche donna italiana da sposare per mettersi a posto con il visto e restare in Italia.

Purtroppo le donne si sono lasciate conquistare, ma ora si lamentano perché nel periodo di corteggiamento i due erano gentili, corretti, disponibili. Dopo, quando si sono sposati, hanno cominciato a comandare le loro donne come se fossero in Medio oriente: non andare di là, dove ci sono troppi uomini; stai dietro al tuo uomo e mai al suo fianco, ecc… 

Integrazione significa far comprendere che qui in Italia l’uomo e la donna hanno gli stessi diritti e doveri, sono perfettamente alla pari. Anzi, se c’è da privilegiare qualcuno, questa è la donna. E questo è proprio il contrario della cultura medio-orientale.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 5:02 pm | | Default

1/ [Oggi si dorme un'ora in meno rispetto a 10 anni fa] Incubo insonnia, casi raddoppiati fra gli under 20. Il 'bon ton' del sonno per batterla. Un articolo Adnkronos 2/ Dormire bene per vivere meglio [Si dorme in media 90 minuti in meno di un secolo fa]. Un’intervista al prof. Luigi Ferini Strambi a cura di Maria Castellano

1/ [Oggi si dorme un'ora in meno rispetto a 10 anni fa] Incubo insonnia, casi raddoppiati fra gli under 20. Il 'bon ton' del sonno per batterla. Un articolo Adnkronos

Riprendiamo dall’agenzia di stampa Adnkronos un articolo pubblicato il 17/3/2016 http://www.adnkronos.com/salute/2016/03/17/incubo-insonnia-casi-raddoppiati-fra-gli-under-bon-ton-del-sonno-per-batterla_RSgnPylBBIgdUiGMDXpa3K.html?refresh_ce. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educazione e media nella sezione Catechesi, scuola e famiglia

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

Si portano smartphone e tablet sotto le lenzuola e restano incollati ai social network fino a tarda ora. E poi la tv, e le uscite serali che si moltiplicano. Tutto comincia con una notte persa, alla quale se ne aggiunge un'altra e poi un'altra, fino a quando tornare indietro diventa troppo difficile. Gli under 20, italiani e non solo, sono un esercito di 'privati di sonno'. Dormono sempre meno e non sanno neanche cos'è il 'coprifuoco' del Carosello (che un tempo scandiva l'ora della buonanotte per i più piccoli), ormai retaggio del passato.

Il risultato è che l'insonnia diventa sempre più un problema per giovani: "Negli ultimi 4-5 anni i pazienti con meno di 20 anni afflitti dal disturbo sono quasi raddoppiati nei centri di medicina del sonno. Se 10 anni fa erano meno del 10%, oggi sono il 18-20%", segnala all'AdnKronos Salute il neurologo Luigi Ferini Strambi, direttore del Centro di medicina del sonno dell'Irccs San Raffaele Turro di Milano e presidente della Associazione mondiale di medicina del sonno (Wasm). Ma il sonno disturbato non fa differenze d'età ed è un problema comune a molti italiani, avverte l'esperto alla vigilia del 'World Sleep Day', la Giornata mondale del sonno.

Proprio venerdì 18 marzo all'ospedale San Raffaele Turro si terrà sul tema un incontro aperto al pubblico, con gli esperti di medicina del sonno dei principali istituti milanesi. Obiettivo: tracciare un quadro della situazione, delle nuove ricerche, dei progetti in corso e in arrivo. Perché il 'mal di sonno' non risparmia nessuno: uomini e donne, mamme e single, anziani e bambini. "Soltanto l'insonnia cronica di una certa rilevanza interessa l'8-10% della popolazione generale", ricorda Ferini Strambi. Il disturbo si accompagna a ripercussioni negative durante il giorno e ha mille facce: c'è chi ha difficoltà a prendere sonno, chi vive frequenti risvegli nella notte, chi si risveglia precocemente al mattino senza riuscire a riaddormentarsi.

"Oggi - avverte Ferini Strambi - quasi il 20% della popolazione generale adulta assume almeno saltuariamente un farmaco a scopo ipnotico, mentre quasi il 10% lo assume in maniera continuativa. Il tipo di insonnia in cui si tende a ricorrere più frequentemente al farmaco è quella 'iniziale', con difficoltà di addormentamento, mentre la forma che tende più a cronicizzare (nel 70% dei casi) è quella che si manifesta con frequenti risvegli nel corso della notte". A volte, però, "l'assunzione cronica di un farmaco è legata a una non corretta diagnosi. Le cause dell'insonnia sono numerose".

Un problema di addormentamento può essere dovuto a un disturbo d'ansia o alla sindrome delle gambe senza riposo (frenesia alle gambe quando ci si stende a letto). Se ci sono diversi risvegli durante il sonno, potrebbe trattarsi di un mioclono notturno (brevi scatti alle gambe ogni 30-40 secondi) o di un problema respiratorio, come le apnee; oppure, la frammentazione del sonno potrebbe essere legata a rumori esterni. Nel caso in cui una persona tende a svegliarsi molto presto, senza riaddormentarsi, potrebbe esserci un problema di depressione. Capire l'origine permette di mirare al meglio le cure.

"All'orizzonte - dice lo specialista - ci sono nuovi farmaci, come quelli che agiscono sul sistema dell'orexina, un neuromediatore che stimola la veglia (recentemente è stato approvato dall'Fda statunitense suvorexant, un antagonista del recettore per l'orexina, per il trattamento dell'insonnia iniziale e di quella da mantenimento del sonno)". E poi c'è la terapia cognitivo-comportamentale, che si può associare al farmaco e spesso contribuisce anche a ridurne le dosi o in alcuni casi rappresentare un'alternativa. In altre parole: una scuola di 'bon ton' del sonno, che agisce sia sul fronte della condotta - insegnando a evitare abitudini nemiche del riposo notturno - sia sul fronte cognitivo, togliendo dalla mente per esempio le false credenze che spingono a dire 'se non dormo 8 ore non sto bene'.

"Questa terapia - prosegue Ferini Strambi - funziona soprattutto se è di gruppo, con sedute settimanali di una o 2 ore per circa 2 mesi. Il vantaggio è che ha un'efficacia più duratura, perché la persona impara i trucchi per gestire meglio certe situazioni che mettono a rischio il sonno. La percentuale di successo è intorno al 70-75%. E quando il problema è proprio l'incapacità di spegnere il cervello per addormentarsi, i risultati sono ancora più eclatanti. Il problema è che in Italia pochi centri sono in grado di proporla".

E intanto l'attacco al sonno continua. Dentro casa cattive abitudini e tecnologia invasiva; fuori la città che non si ferma mai, con rumori h 24 e luci sempre accese. Le preoccupazioni che aumentano e gli orari di lavoro che si dilatano fanno il resto. "Oggi si dorme un'ora in meno rispetto a 10 anni fa. Siamo a meno di 7 ore in media nella popolazione generale". Quando si parla di insonnia "è importante non trascurarla: le conseguenze non sono solo sulla qualità della vita, ma sulla salute", assicura lo specialista. "Dormire bene e in quantità sufficiente significa inibire il rilascio di cortisolo, l'ormone dello stress. Ma un recente studio Usa ha dimostrato anche che dormire meno di 6 ore per notte aumenta di oltre 3 volte il rischio di sviluppare ipertensione arteriosa". Senza contare che la sonnolenza è responsabile del 20% circa degli incidenti stradali.

Altre ricerche hanno evidenziato come dormire meno di 5 ore a notte aumenta di una volta e mezzo il rischio di diabete mellito. "L'insonnia è anche causa di disfunzione dei circuiti cerebrali implicati nei processi cognitivi ed emozionali. L'ippocampo, struttura cerebrale fondamentale per la memoria, riduce il suo volume in rapporto alla durata dell'insonnia, secondo uno studio di neuroimaging condotto in Corea. Ci sono poi sempre più evidenze sulla correlazione tra scarso sonno e rischio di sviluppare l'Alzheimer: un recente studio olandese - conclude Ferini Strambi - ha dimostrato come una singola notte di privazione di sonno, in soggetti adulti di media età, è in grado di aumentare i livelli di beta-amiloide, proteina coinvolta nell'eziopatogenesi della malattia".

2/ Dormire bene per vivere meglio [Si dorme in media 90 minuti in meno di un secolo fa]. Un’intervista al prof. Luigi Ferini Strambi a cura di Maria Castellano

Riprendiamo dal sito http://www.bgsalute.it/2016-numero-1-gennaio-febbraio/1893-dormire-bene-per-vivere-meglio un’intervista al prof. Luigi Ferini Strambi a cura di Maria Castellano pubblicata il 29/1/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2016)

I consigli dell’esperto per fare sogni d’oro. Rispetto a decenni fa in Occidente si dorme meno: in particolare, secondo i dati del Centro del Sonno del San Raffaele di Milano (centro di riferimento a livello internazionale), gli italiani negli anni hanno “perso” per strada un’ora di sonno e oggi il 30% della popolazione soffre d’insonnia o di privazione di sonno. 

«Nel mondo industrializzato si è verificato un importante mutamento negli schemi del riposo e del sonno, che ne ha causato una netta diminuzione» conferma il professor Luigi Ferini Strambi, neurologo responsabile del Centro di Medicina del Sonno San Raffaele Turro – Milano e President della World Associaton of Sleep Medicine (WASM). «William Dement, professore emerito della Stanford University, ha affermato che l’umanità è nel bel mezzo di una “pandemia di stanchezza”.

Secondo Dement, la popolazione dei Paesi industrializzati dorme oggi in media ogni notte circa 90 minuti meno di quanto avrebbe fatto un secolo fa. Chiaramente lo stile di vita nelle società industrializzate si è modificato radicalmente: viviamo in un'epoca in cui molte persone hanno un orario di lavoro lungo, ma anche molte opportunità in più per divertirsi. Così l’umanità si è creata un mucchio di ragioni per non dormire». Con pesanti, e spesso sottovalutate, conseguenze negative sulla salute pisco-fisica. Già, perché dormire, e dormire bene, è fondamentale per stare bene, poter affrontare al meglio le giornate sia dal punto di vista fisico sia psicologico e di rendimento e anche per prevenire diverse patologie.

Professor Ferini Strambi, a cosa serve il sonno? Perché è così importante?

Dormire bene è fondamentale per la salute in generale, per l’efficienza del sistema immunitario, per le corrette funzioni organiche e per il benessere quotidiano. Abbassa la pressione, perché inibisce la produzione di cortisolo (l’ormone dello stress), e aiuta quindi a prevenire malattie cardiovascolari. Incide anche sul peso forma: durante il sonno avviene il normale rilascio di leptina, l’ormone che porta il messaggio di sazietà al cervello e viene invece inibito il rilascio di grelina, prodotta dallo stomaco e responsabile del senso di appetito. Dormire male al contrario altera questo meccanismo: inibisce la produzione di leptina a favore della grelina, aumentando la sensazione di fame, con conseguente aumento del peso. Inoltre la mancanza di sonno, oltre ad interferire con i processi di crescita e ridurre le difese immunitarie, produce effetti negativi sulla concentrazione, sulla capacità di decisione e sull’efficienza in generale.

Ma quante ore dovrebbe durare il sonno per trarre questi benefici?

È un’esigenza soggettiva. In genere, si può dire che la durata media del sonno notturno è di circa sette ore. Ma bisogna tenere conto che il sonno di ogni persona ha caratteristiche distinte che dipendono dal DNA. Per questo si parla di “ipnotipo”. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare e che dipende sempre dalla genetica: il “cronotipo”. Ecco allora che accanto ai “gufi”, cioè a coloro che vanno a letto tardi e si alzano tardi, ci sono le “allodole”, che si svegliano all’alba e si addormentano presto. Ciò che conta è conoscere il proprio cronotipo e adattare a esso i propri ritmi di sonno-veglia, tenendo conto che l’ideale è andare a dormire quando si ha sonno.

Per alcune persone però riuscire a dormire bene sembra un miraggio. Quando si può parlare di insonnia?

Il termine insonnia definisce la percezione individuale di sonno insufficiente o poco ristoratore o comunque inadeguato allo svolgimento efficace delle attività quotidiane. In altre parole l’insonnia è l’incapacità di dormire in modo o in quantità insufficiente per recuperare le forze spese durante la giornata e quindi affrontare con la giusta dose di energia ciò che aspetta il giorno seguente. Per arrivare a una diagnosi precisa e quindi a un’adeguata terapia, bisogna in prima battuta distinguere le diverse caratteristiche dell’insonnia: difficoltà di addormentamento (il tempo per addormentarsi può essere considerato normale se non supera la mezz’ora); difficoltà di mantenimento del sonno (frammentazione), risveglio troppo precoce (il soggetto dorme 3-4 ore, si sveglia e non riesce a riprendere sonno). è importante riferire al medico il tipo di insonnia di cui si soffre per facilitare la diagnosi.

È esperienza comune che donne e anziani siano più soggetti a problemi di insonnia. Come si spiega?

L’insonnia è più frequente nelle donne anche perché ansia e depressione, che rappresentano la causa di circa il 50% di tutte le insonnie, sono maggiormente presenti nel sesso femminile. Per quanto riguarda l’età, la prevalenza dell’insonnia aumenta con l’avanzare dell’età per diversi fattori fisiologici, compresa la diminuzione del rilascio di melatonina, sostanza che facilita il sonno. Tuttavia oggi negli ambulatori di medicina del sonno si vedono sempre più giovani affetti da insonnia. Il non rispetto di una corretta igiene del sonno (vedi box) è sicuramente alla base di questo fenomeno.

Corretta igiene del sonno a parte, che altro si può fare per conciliare il sonno? Integrazioni di melatonina, spesso consigliate, possono essere utili?

La melatonina è una sostanza prodotta durante la notte (al buio) dalla ghiandola pineale alla base del cervello che ha la funzione di facilitare lo “scivolamento” verso il sonno. Non è un ipnotico vero e proprio. La sua azione è riequilibrare il ritmo sonno-veglia, rallentando le funzioni dell’organismo. Quindi è utile nella “sindrome da fase di sonno ritardata”, cioè in quelle persone, chiamate comunemente “gufi”, che la sera non andrebbero mai a dormire, mentre al mattino fanno fatica ad alzarsi; nei casi di jet-lag, perché migliora sia il sonno sia i sintomi che compaiono di giorno (malessere generale, disturbi gastrointestinali); e negli anziani, perché spesso, come già accennato, la sua secrezione si riduce con il progredire dell’età. Attenzione però al fai da te o a rimedi consigliati dall’amica o dalla collega. L’insonnia, non curata tempestivamente, di qualunque natura essa sia, può portare a un circolo vizioso. È sufficiente una settimana senza chiudere occhio per portare a un condizionamento negativo e alla cronicizzazione del disturbo: una volta sdraiati a letto, il pensiero e la paura di non addormentarsi agevoleranno un’altra notte in bianco. Al primo campanello di allarme è indispensabile consultare il proprio medico. Una terapia farmacologica è necessaria in circa il 70% dei casi di insonnia: il trattamento farmacologico, con la possibilità di interrompere rapidamente il circuito vizioso caratterizzato dalla triade coricamento allertamento-insonnia, consente soprattutto di evitare l’instaurarsi di un condizionamento negativo e quindi il rischio di cronicizzare l’insonnia stessa.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 5:01 pm | | Default
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“Il figlio da se stesso non può fare nulla” [Cosa è l'educazione di un figlio e cosa è la testimonianza], di Giacomo Tantardini

Pubblichiamo alcuni brani da una meditazione di don Giacomo Tantardini sul libro di don Luigi Giussani “Si può vivere così?”, meditazione tenuta il 19/11/2008 e pubblicata su sito http://piccolenote.ilgiornale.it/27840/il-figlio-da-se-stesso-non-puo-fare-nulla il 23/3/2105. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr,. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

A pagina 118 volevo rileggere queste frasi, queste righe di Giussani. Sta parlando dell’ubbidienza che nasce dall’attrattiva sua, dall’attrattiva di Gesù: «se mi amate – dice Gesù – osservate i miei comandamenti». È anche un comando, ma prima di essere un comandamento è una constatazione. L’osservanza dei suoi comandamenti nasce dal fatto che gli si vuole bene: «se mi amate osservate i miei  comandamenti». Come la grazia di una corrispondenza che quasi senza accorgersi diventa ubbidienza. Perché così si gioca il mistero della libertà. Pag. 118:

Sono stati con Lui. Badate: non dalla sua parte; non si può dire soltanto «dalla sua parte», come se avessero approvato quello che Lui diceva, non hanno detto: «approviamo quello che tu dici», perché non capivano neanche loro; ma «con Lui» sì. Hanno seguito Lui, hanno aderito a Lui, nonostante che non capissero. Mi spiego? Hanno seguito Lui [così nasce e così rimane e così vive la vita cristiana: hanno seguito Lui. E seguendo Lui poi, poi, quelle parole sono diventate luminose e piene di realtà. Anche le sue parole! Ma seguendo Lui; seguendo Lui anche le sue parole sono diventate luminose e piene di realtà]”.

[…] 

E poi a pagina 124 dà il suggerimento:

“Capire le cose [vuol dire anche il vangelo] che uno dice esige il minimo di fatica che si possa concepire [non esige una grande fatica, esige il minimo di fatica che si possa concepire], esige semplicità, esige di avere il cuore da bambino; e stare attenti a come lui le fa [come Gesù fa le cose] esige anche questo una curiosità da bambini [esige di avere il cuore da bambino. E stare attenti a come Gesù fa – per esempio leggendo il vangelo – esige anche questo una curiosità da bambino]”.

Allora iniziamo leggendo alcuni brani. Innanzitutto proprio l’inizio del capitolo quinto di Giovanni:

 [Inizia a leggere e spiegare il brano della guarigione del paralitico alla Piscina probatica… ]

Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina». E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare. Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: «È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina». Gli chiesero allora: «Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina?». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse”. 

Questa è una delle cose più belle del vangelo di Giovanni – anche nel miracolo del cieco nato, il cieco nato non sapeva –, perché prima viene la realtà e poi il nome. Prima accade qualcosa, poi diventa interessante anche il nome. È questo che accade anche nei bambini: che prima c’è la realtà del papà e della mamma. Prima del nome! Questo accade anche nell’esperienza cristiana: prima viene la realtà, prima viene la realtà della grazia che attrae e poi il nome, poi si domanda il nome. 

[…]

Ma Gesù rispose loro [e qui inizia il dialogo su quale testimonianza Gesù ha, su quale testimonianza Gesù dona. Per dire quello che dice, che è il Figlio di Dio, che testimonianza dà per dire quello che dice. Tutto il capitolo quinto potrebbe essere letto così: quale testimonianza dà. Anche perché così si può intuire qual è la testimonianza dei suoi, dei discepoli, qual è la testimonianza dei cristiani]: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» [tutte le parole che poi dirà è per dire che anche lui opera ciò che il Padre gli dona di operare; perché lui da sé non opera, il figlio da sé non può fare nulla. Lui quello che fa è ciò che il Padre gli dona di compiere].

Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio. Gesù riprese a parlare e disse [e qui è il versetto, uno dei versetti che mi sono più cari di tutto il vangelo]: «In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla [il Figlio, Gesù, da sé non può fare nulla. Lui, Figlio Unigenito, da sé non può fare nulla. Nella sua umanità ha reso evidente il mistero eterno che il Figlio tutto riceve dal Padre. L’avere un cuore mite e umile, nel suo cuore umano, il cuore che gli ha donato sua madre Maria, nel suo cuore umano mite e umile ha fatto intravedere il mistero eterno del Figlio che riceve tutto dal Padre. Il Figlio da sé non può fare nulla ] se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa [quello che il Padre fa], anche il Figlio lo fa. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati [ma questo che il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre, come è bello. Perché in questo, in questo!, lo possiamo imitare. Anche noi. «Voi senza di me non potete fare niente», così Gesù ai suoi nel giovedì santo: «voi senza di me non potete fare niente».

In questo non poter far niente se non quello che vediamo fare imitiamo perfettamente Gesù: «anche il Figlio da sé non può fare niente se non quello che vede fare dal Padre». Quando dice che solo i bambini entrano nel regno dei cieli in fondo parlava di se stesso. Il figlio di Dio come un bambino che fa quello che vede fare dal padre]. Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole; il Padre infatti non giudica nessuno ma ha rimesso [ha dato] ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. … [Poi dice al versetto 30:] Io non posso far nulla da me stesso [ripete ancora!]; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. [E poi inizia il brano della testimonianza:] Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera [e così anche noi. Non siamo noi che diamo testimonianza. Non siamo noi.

La testimonianza è quello che il Signore opera in noi. E così la testimonianza che Gesù dà sono le opere che il Padre gli dona da compiere. Le opere che il Padre gli dona da compiere rendono testimonianza: che il Padre lo ama e che lui ama il Padre. E così noi. La testimonianza che possiamo dare è ciò che Gesù dona da compiere. La testimonianza che il cristiano dà è ciò che il Signore, che la grazia del Signore, opera nella sua vita; secondo una delle frasi più belle di Giussani detta qui a Roma, secondo me in una delle cose più belle che ha fatto Giussani, nell’aula magna del Laterano nel marzo ’79: “noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che egli opera in noi. È il concetto di testimonianza”.

Così Gesù testimonia il Padre attraverso le opere che il Padre gli dona di compiere. È il concetto di testimonianza. Se è un’iniziativa nostra testimoniamo solo noi stessi. Testimoniamo solo noi stessi e il vuoto in cui viviamo, come intuiva Cesare Pavese: la peggiore delle insincerità. Il darsi da fare per gli altri normalmente è la peggiore delle insincerità]; ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace. Voi avete inviato messaggeri da Giovanni ed egli ha reso testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo [come è bello questo: io non ricevo testimonianza da un uomo. Sarebbe solo l’evidenza di una mancanza. Di una mancanza!, non di una presenza]; ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi. Egli era una lampada che arde e risplende, e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce. Io però ho una testimonianza più grande di quella di Giovanni: [qual è la sua testimonianza?] le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato [«le opere che il Padre mi dona – quelle opere che io faccio perché me le dona il Padre, perché io da me non posso fare niente –, quelle opere che mi dona il Padre testimoniano che il Padre mi ha mandato»].

[…]

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 5:00 pm | | Default

Toccare è essere toccati, di Alessandro D’Avenia [Un professore che va con le sue quinte ogni anno in Terra Santa]

Riprendiamo dal Blog Prof 2.0 di Alessandro D’Avenia  un suo articolo pubblicato il 30/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi dello stesso autore, cfr. il tag alessandro_d_avenia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2016)

La messa nel deserto di Giuda durante un 
pellegrinaggio con don Andrea Lonardo tanti anni fa

O Amor, divino Amore, perché m’hai assediato?
Da cinque parti vedo che tu m’hai assediato:
audito, viso, gusto, tatto e odorato”

Così il mistico e poeta Iacopone da Todi si lamenta con un Dio opprimente. Assedia i suoi cinque sensi, che percepiscono in ogni luogo e momento il Dio geloso dell’Antico Testamento e lo Sposo del Nuovo. Se questo è spiritualmente vero ovunque, diventa materialmente vero in Terra Santa, che ho visitato per una settimana con un gruppo di studenti del mio liceo. Il viaggio delle Quinte della mia scuola si svolge ogni anno lì ed è un assedio dei sensi da parte di Dio, tanto che anche i ragazzi più lontani e distratti si sentono “oppressi”. Uno di loro mi confidava: “se le persone qui si comportano così ci deve essere qualcosa di non umano dietro” e un altro “mi rendo conto di quanto poco io conosca il Vangelo, mi è venuta voglia di leggerlo”.

Un senso si è aggiunto alla mia fede: quello del tatto. Quando sono arrivato sul lago di Tiberiade e la natura, pur essendo febbraio, era già in fiore, i colori tenui e la luce impazzava, ho esclamato “io qui ci sono già stato”, avevo consuetudine con colori, volti, pietre, piante, luce, acqua, cantilene, parabole, parole, del Vangelo letto e riletto. Tutto era incarnato e quindi carnale.

Le mie dita, sedotte, volevano toccare.

Hanno toccato l’acqua del lago di Tiberiade, feconda in una terra così arida, scintillante di luce, solcata dal legno ruvido delle barche. Hanno toccato le palme sul monte delle Beatitudini, una collinetta poco sopra il lago, dove Gesù si appartava quando ancora tutti dormivano per parlare con suo Padre, per vedere il sole sorgere inesorabile e scintillare su quel lago verde, azzurro e rosa.

Ho toccato la pietra su cui il risorto ha mangiato il pesce di quel lago dopo la resurrezione e sulla quale Pietro è stato confermato capo della Chiesa. Ho capito quale grande follia d’amore sia affidare ad un semplice pescatore la più grande rivoluzione avvenuta nel cuore dell’uomo di tutti i tempi venuti e a venire: il massimo del progresso raggiunto e raggiungibile è affidato a quel pescatore.

Ho toccato la pietra del deserto che non diventa pane e con essa le tentazioni di Cristo e poi ho toccato l’acqua fredda e battesimale del Giordano. Ho toccato le pareti della grotta dell’Annunciazione, le scale che portavano alla casa di Maria, l’acqua della fonte a cui attingeva per Gesù e Giuseppe, e di Giuseppe ho toccato il pavimento della casa dove Gesù è cresciuto.

Ho toccato anche il pavimento della grotta di Betlemme. Tutto è così piccolo e quotidiano da diventare lampante che è anche vero, non ci può essere niente di mitico in un posto così, solo un Dio senza miti si innamora dell’ordinario. Tra quei luoghi e gli affreschi della cappella Sistina ci può essere solo un Dio che ama la Bellezza, che è la Bellezza, che causa la Bellezza, a partire dal minuscolo “sì” di una ragazza di 15 anni.

Ho toccato le pareti della casa di Pietro e l’attracco del porticciolo di Cafarnao e ho capito perché Gesù ha scelto quel quartier generale: perché è il posto più bello di tutti. Ho toccato l’aria fresca e pulita del Tabor e il panorama ininterrotto, degna platea per una Trasfigurazione. Ho toccato gli ulivi del Getsemani e la pietra su cui Cristo sudò il sangue della paura, dell’amore e dell’abbandono. Ho toccato il suolo del percorso della Via Crucis immersa nelle vie caotiche del suq arabo e ho capito che la strada, qualsiasi strada, è teatro adatto alla storia della salvezza. Ho toccato la pietra malinconica dell’Ascensione. E poi la pietra dove Maria si è addormentata e quella dalla quale è stata assunta e ho capito perché la invoco per “l’ora della nostra morte”.

Ho toccato le pareti del cenacolo, dell’amore “sino alla fine” e del fuoco dello Spirito. Ho toccato la pietra scabra del Golgota e il buco in cui era conficcato il legno escogitato dalla nostra violenza. Ho toccato la pietra nuda della resurrezione e lì con la fronte appiccicata ho saputo che dipende tutto dalla nudità di quella pietra.

Le mie dita si sono fatte spirituali pur rimanendo le mie dita. Toccando ho capito che non ero io che toccavo, ma ero io che venivo toccato e sedotto. Il tocco di un Dio che ti assedia, un tocco a volte dolce, a volte ruvido, un “carico leggero”, come le mani degli amanti. Adesso quando ascolto una pagina del Vangelo mi pare di toccarla come accade nel bellissimo e recente libro che mi fa compagnia in questi giorni “Sorpresi dall’amore” di A.Mardegan, capace di far vivere le pagine del Vangelo rendendole permeabili al quotidiano di ciascuno, in uno scambio che va da lì a qui e viceversa. Solo così la terra che calpestiamo tutti i giorni in qualunque luogo del mondo diventa santa, perché è la terra del Vangelo, la terra di un Dio che assedia i nostri sensi addormentati, fino a sedurci.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 31 Marzo 2016 - 4:54 pm | | Default
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Perché vale la pena andare a messa? Come vivere la domenica? Perché abbiamo bisogno di riti? Traccia per il III incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana, di Andrea Lonardo per l’Ufficio catechistico della diocesi di Roma

Riprendiamo sul nostro sito una traccia per il III incontro dell’itinerario formativo per i genitori dell’Iniziazione cristiana proposto dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma ad experimentum. I differenti temi saranno via via proposti nel corso dell’anno. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Iniziazione cristiana nella sezione Catechesi, famiglia e scuola. La traccia del I e del II incontro sono on-line ai link Perché avete fatto bene ad accompagnare i vostri figli in parrocchia? Traccia per un I incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana e Bisogna lasciare liberi i nostri figli? Oppure la libertà nasce dalle proposte alte e da regole sagge che noi dobbiamo curare? Traccia per il II incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana.

Il Centro culturale Gli scritti (30/3/2016)

1/ Il tema: Quali sono le obiezioni che i genitori hanno quando si propone loro di partecipare alla Messa? E conseguentemente perché vale la pena andare a messa?

I genitori hanno due grandi obiezioni riguardo alla messa domenicale che non dobbiamo dimenticare: le dobbiamo prendere in seria considerazione. Possiamo cominciare chiedendo direttamente loro – ma con tanta leggerezza  e nel sorriso - quali sono le obiezioni che hanno nell’essere fedeli alla messa. Oppure possiamo chiedere loro quali obiezioni solleverebbero i loro amici genitori, di modo che non si sentano subito messi in mezzo. Oppure possiamo dirle noi per primi, poiché, se conosciamo bene la vita delle famiglie, le abbiamo sentite ripetere tante volte.

1.1/ Siamo stanchi della fatica della settimana

I genitori diranno innanzitutto che la domenica sono molto stanchi. Che tutti i giorni della settimana corrono come dei pazzi nell’inferno del traffico, per accompagnare i figli a scuola, per andare al lavoro, per tornare in orario a fare i compiti con i figli o per portarli ai diversi sport, oppure solo per preparare la cena.

Dietro queste parole c’è una stanchezza reale. Oggi la vita è difficilissima. I genitori hanno bisogno veramente di tempo per riposare, di tregua dal ritmo soffocante della società moderna.

Noi dobbiamo capire questa loro stanchezza. Li comprendiamo e ci fanno tenerezza nella loro stanchezza. Dobbiamo mostrare che comprendiamo questa stanchezza – altrimenti come potremmo voler loro bene -, mostrare come siamo lontanissimi da uno sciocco moralismo che pretenderebbe di dire che la messa è importante e che quindi anche se sono stanchi a noi non importa niente purché vengano a messa.

Io anzi rincarerei la dose perché si rendano ben conto di quanto sono stanchi e di come la stanchezza sia un problema che condiziona la loro vita e la intristisce. Gli direi, ad esempio, che una delle condizioni nuove e più difficili del nostro tempo è che Internet sta diminuendo le nostre ore di sonno: è provato che da quando Internet ha iniziato ad affermarsi fino ad oggi, con l’invasione degli attuali iPhone, noi dormiamo tutti, compresi i preti, un’ora in meno a notte! Dieci anni fa, ognuno di noi dormiva un’ora di più ogni giorno. Oggi torni a casa e stai almeno un’ora nella notte in più sveglio per lavorare o navigare sul web. Qualcuno va a dormire tutte le sere all’1 di notte o ancora più tardi. Guardate che non è una cosa da poco. Poi ci si domanda come mai siamo nervosi e come mai litighiamo in famiglia! Come mai non abbiamo la lucidità per evitare di arrabbiarci, come mai ci manca la serenità se qualcuno ci dice qualcosa di spiacevole. Noi siamo stanchi, molto stanchi.

Non si deve dimenticare poi la stanchezza ingenerata dal traffico. In una città come Roma ogni 10 metri c’è una macchina in doppia fila. Ogni 10 metri c’è uno che va troppo lento. Ogni 10 metri c’è uno che ti taglia la strada. Noi tutti arriviamo al luogo di lavoro con una grande tensione addosso, perché sappiamo che guidare in queste condizioni è pericoloso. Ed abbiamo sempre paura di arrivare tardi. La sera poi ci distruggono nuovamente le file: non vediamo l’ora di tornare a casa dai bambini e dalla moglie o dal marito e stiamo ore in fila, a volte per uno stupido incidente, a volte perché non c’è altra via che quella trafficatissima per la quale passano tutti.

Dobbiamo dire loro che hanno ragione ad essere stanchi. Ma allora, se hanno ragione ad essere stanchi hanno anche ragione a dirci: “Don, mi lasci riposare almeno la domenica!”, “Don, almeno la domenica mi faccia dormire”? (vedremo fra breve cosa rispondiamo come cristiani, ma vi suggerisco di lasciare in sospeso con loro la questione per qualche minuto, mostrando che hanno ragione a dire che sono stanchi).

1.2/ La domenica mi lasci stare in famiglia, non sto mai con loro

Prima di rispondere,  vale la pena sollevare la seconda obiezione: ognuno di loro sente che la domenica desidera stare in famiglia e uscire la mattina gli appare come un ulteriore impedimento allo stare con le persone che ama e che vede pochissimo, talvolta solo a sera tardi, durante la settimana. I genitori lo dicono sempre: “Vorrei stare di più in famiglia”. E lo dicono a noi preti e ai catechisti: “Don, mi lasci stare in famiglia almeno la domenica”, “Don, non parlo mai con i miei figli, non parlo mai con mia moglie, almeno la domenica mi lasci stare in famiglia!”.

Anche qui è sciocco obiettare che la messa è più importante: l’obiezione non li aiuterebbe nel loro dramma. Anzi credo che dobbiamo anche qui approfondire il dramma di cui parlano, perché è reale. Ci sono padri – e anche madri – che non hanno più tempo per stare con i loro figli. Ci sono donne che non sono state “liberate”, come voleva il femminismo, dal fatto di lavorare fuori casa, bensì sono ancora più schiave. Lavorano come matte fuori di casa e poi, tornate a casa, debbono fare lo stesso tutto quello che facevano un tempo le donne che lavoravano come casalinghe. Insomma tante lavorano il doppio di prima. Sono meno libere di un tempo. Spesso sono solo i nonni o le tate che stanno con i figli al pomeriggio. Moltissimi genitori, soprattutto i papà, vedono i figli solo alla sera. Non fanno  mai i compiti con loro. Parlano pochissimo con loro. E quando li vedono alla sera, stanno con loro con il peso della stanchezza della giornata, hanno poche energie per stare con i figli in maniera gioiosa e attenta.

Non parliamo poi del rapporto tra uomo e donna, marito e moglie. Le lunghe chiacchierate dei tempi del fidanzamento sono talvolta un lontano ricordo. Ma spessissimo non per cattiveria. Le donne desidererebbero parlare con i mariti ed anche i mariti, sebbene più taciturni, in fondo lo desidererebbero. E la domenica appare come l’ultimo rifugio per parlarsi negli occhi marito e moglie, per scambiarsi confidenze e coccole.

Anche questa obiezione è tutt’altro che stupida, anzi è verissima: “Don, almeno la domenica mi faccia stare con la mia famiglia!”.

1.3/ Ma allora perché venire a messa se siamo stanchi ed abbiamo bisogno di stare in famiglia?

Ebbene – eccoci al dunque – perché noi proponiamo loro di venire a messa? Perché Gesù Cristo ha inventato la messa, proprio lui che sa tutto della stanchezza dei genitori e del loro desiderio di riscoprire la vita familiare?

L’ha “inventata” esattamente perché senza la messa non ci riposeremmo mai veramente e non staremmo mai veramente in famiglia! Gesù Cristo ha voluto la messa domenicale perché essa ci riposa e ci rasserena. E perché essa ci permette di stare insieme, marito, moglie e bambini!

Nella riunione con loro, possiamo passare così dal riflettere insieme sulle obiezioni, allo scoprire che la messa non solo regge alle obiezioni, ma anzi è il vero antidoto ed è il vero dono che rasserena e sostiene la famiglia: proprio ciò che le famiglie cercano.

Ecco l’angolatura dalla quale vi propongo di parlare dell’eucarestia domenicale: la messa è il vero riposo e la messa è il vero dono di grazia che ci permette di crescere nella comunione.

Se aiutiamo loro a capire come di fatto vivono la domenica, fallendo negli obiettivi che si propongono, si accorgeranno che è proprio così. La domenica è un giorno stressantissimo per tante famiglie. Non solo di domenica molti si recano nei centri commerciali, stancandosi tantissimo. Su questo dobbiamo insegnare loro a fare obiezione di coscienza: la domenica non si va nei centri commerciali. Andare in un centro commerciale nel giorno del Signore vuol dire stancarsi anche di domenica e rendere schiavi coloro che vi lavorano. Noi contribuiamo così a rovinare le famiglie di chi lavora in quei luoghi nei giorni festivi.

Ma soprattutto dobbiamo mostrare ai genitori che il vero riposo non è dato dal distrarsi. Tanti hanno scambiato il riposo con la “distrazione”. Andare allo stadio, vedere le partite in TV, giocare con la playstation, stare al computer, ecc. ecc. No, questo non riposa, ma stanca ancora di più. Se si passa così la domenica si torna  casa – o vi si resta – per ritrovarsi poi vuoti. Quando i loro figli saranno adolescenti la società tenterà di insegnare loro che il sabato sera e la domenica sono fatti per bere, per fumare spinelli, per fare qualche mattata, per distrarsi insomma. Cioè per dimenticare che la vita è brutta.

Ecco la bestemmia. Se il riposo viene identificato con il “divertimento” – divertimento , dal latino divertere, cioè allontanarsi – è perché se la vita è brutta, se le cose non vanno bene, se il lavoro e le persone incontrate durante la settimana sono un peso, ecco che mi serve qualcosa per dimenticarmi della vita, per dimenticarmi della bruttezza e del non senso della vita.

La festa, invece, a differenza del divertimento, è il tempo nel quale riscoprire che andare al lavoro ha un senso, che costruire la propria famiglia ha un senso, che lavorare per guadagnare il denaro che serve ai miei cari e per la carità ha un senso, che nel lavoro si può fare del bene, che avere una famiglia, amare la propria moglie, amare i propri bambini e farli crescere è una vocazione santa e straordinaria.

La messa serve innanzitutto a questo. Noi entriamo in chiesa stanchi e ne usciamo riposati. È l’esperienza che facciamo tutti. Non vorremmo alzarci per andare in chiesa, ma quando usciamo dalla messa sentiamo che la presenza del Signore ci ha rasserenati. Avviene così anche nella Confessione. Noi non vorremmo mai confessarci. Ma quando ci siamo confessati, usciamo dal confessionale con una grande pace.

Nella messa noi entriamo portando con noi tutto il peso della settimana, le cose che sono andate bene così come i fallimenti e nella Parola del Signore, nei canti, nei gesti, soprattutto nell’Eucarestia noi riscopriamo che il Signore ci da forza. Abbiamo bisogno del pane del cammino, proprio perché siamo tanto stanchi.

La liturgia non ci fa dimenticare la vita, come fa invece il divertimento stupido. Non ci distrae semplicemente. Anzi ci ri-crea, ci crea nuovamente e ci fa riscoprire il valore della fatica che facciamo ogni giorno. Ci fa riscoprire che esistono la bellezza e l’amore anche se nella settimana non sempre riusciamo a vederli.

Un genitore a messa riscopre che è proprio Dio a chiedergli di amare ancora la sua famiglia, i suoi figli, il suo lavoro, la sua città. Dio è con noi. Non è sprecato allora il tempo del lavoro – ci annunzia la festa. Dio ci da forza perché possiamo cominciare una nuova settimana. Dio ci fa riscoprire che la verità, l’amore e la bellezza esistono.

Ma la messa è stata voluta dal Signore per aiutarci a realizzare anche l’altro nostro grande desiderio, quello di stare in famiglia. Se non andiamo a messa, spesso stiamo a casa, nella stessa casa, ma non stiamo “in famiglia”. Infatti avviene che il figlio gioca con la sua playstation, il papà guarda la sua partita, la moglie o il marito vorrebbero essere ascoltati, ma ci sono da fare gli acquisti al centro commerciale e ci sono tante cose da sistemare in casa.

Uscire tutti insieme per andare a messa è il grande aiuto che Dio ci da per crescere insieme come famiglia. Ci si reca insieme marito e moglie, genitori e figli. Si sta insieme, tutti. Non solo, ma la messa ci aiuta a parlare delle cose grandi. Di solito un papà vorrebbe parlare di cose serie con suo figlio, ma non ne ha il coraggio. Vorrebbe parlare con lui della fede e dell’amore, ma si vergogna. La messa lo aiuta. Uscendo dalla messa è più facile che qualcuno - a volte è il figlio a farlo - chieda spiegazioni sulla messa, oppure che le parole del vangelo o di un canto aiutino ad aprire un discorso.

Io ricordo i mei genitori che un giorno avevano litigato per una cosa stupidissima: il condimento dell’insalata. Mio padre sosteneva che l’olio e l’aceto dovevano essere messi all’ultimo momento, altrimenti l’insalata appassiva. Mia madre, invece, che doveva preoccuparsi in casa di tante cose, a volte metteva l’olio e l’aceto prima in maniera da essere sicura di non doversi poi alzare. Un giorno mio padre si arrabbiò più di altre volte e pose la zuppiera con l’insalata su di un tavolino al centro della sala da pranzo pretendendo che restasse lì per mostrare l’appassimento dell’insalata. Né mio padre, né mia madre avevano il coraggio di fare un passo – l’orgoglio di noi umani è strano a volte – per chiedere perdono  o per riderci sopra, tanto era stupida la cosa. Fu una settimana di inferno per noi figli, mentre i genitori non si parlavano. Finalmente venne la domenica, il prete disse nella messa: “Scambiatevi il segno della pace”, i miei si abbracciarono, si commossero, sorrisero e tutto finì. La messa ci aiuta a stare in famiglia, ci fornisce la grazia divina ed i gesti concreti per stare insieme e non ognuno alla propria postazione tecnologica di computer o iPhone che sia!

Ecco perché proponiamo loro la messa. Perché sappiamo che sono stanchi e perché desiderano stare in famiglia. Perché sappiamo che senza la messa il loro desiderio di riposarsi e di ritrovare il gusto della vita, il loro desiderio di comunicare e volersi bene come famiglia sarà più difficile da realizzare.

Vedete bene che così affrontiamo il tema della partecipazione alla messa da un punto di vista diverso da quello che loro si aspettano. Dobbiamo spiazzare i genitori e non dire loro ciò che si aspettano, perché se diciamo ciò che già si aspettano, vuol dire che il nostro discorso è inutile, è già risaputo!

I genitori si aspettano che noi diciamo loro che debbono andare a messa. Si aspettano che diciamo loro che debbono andare a messa con i loro figli perché altrimenti saranno incoerenti e non daranno loro testimonianza. Si aspettano anche che noi diciamo loro che ogni bambino che vede il proprio padre chiedergli l’impegno in qualcosa – in questo caso prepararsi alla comunione – ma poi come adulto disinteressarsene, offrirà un messaggio diseducativo.

Invece noi diciamo loro che la messa è ciò che Dio ci dona per il nostro riposo e per aiutarci ad amarci in famiglia. Si può usare anche un escamotage che ho utilizzato qualche volta per iniziare la riunione con i genitori sul tema della messa. Ho detto loro così: “Vedete, cari genitori, voi vi aspettate che io vi dica come prima cosa che la riunione non basta e che la messa domenicale è più importante della riunione. Vi aspettate che io vi dica che non ha senso preparare alla Comunione i vostri figli e non venire a messa, perché senza la domenica stiamo già dicendo ai bambini che ciò che gli proponiamo non è qualcosa di decisivo per la vita. Vi aspettate, probabilmente, soprattutto che io vi dica che se lasciate i bambini a messa e non venite voi siete incoerenti e mancherà ai figli la vostra testimonianza. Ebbene io non vi dirò queste cose, perché già le sapete bene! Se insistessi su queste cose giuste ed ovvie vi tratterei come dei cretini” – ed intanto gliele avevo dette!

Proseguivo allora, con ciò che vi ho proposto sopra: “No, non vi ho chiamati per dirvi ciò che è ovvio e già sapete bene, che dovete venire a messa con i vostri figli. Questo è scontato. No, vi ho chiamato per parlarvi di qualcosa su cui forse non avete mai pensato, cioè delle due grandi e vere obiezioni che avete dinanzi alla messa: la vostra stanchezza reale ed il desiderio di stare di più in famiglia”. E da lì si apre il discorso più importante che vi ho proposto.

Se volete ripassare ciò che vi ho detto sul “discorso antico” (l’oratoria) nel primo incontro vi accorgerete facilmente che affrontando il tema della loro stanchezza e del loro desiderio di stare in famiglia abbiamo anche fatto una captatio benevolentiae, che per i latini era sempre il primo passo: mai la critica come primo passo, bensì il mostrare che si vuole loro bene e si capisce la loro vita. Sciogliendo poi i due nodi, anzi trasformandoli in riflessioni che danno motivi grandi per partecipare alla messa, abbiamo fatto anche quella che i latini chiamavano la  refutatio, cioè lo smontare gli argomenti contro la proposta che si intende fare. Mostrando il bene che la messa ci dona abbiamo infine fatto anche la cosiddetta narratio, cioè l’evidenziare, il narrare le questioni che spingono verso una soluzione positiva.

1.4/ Materiali

Prima di proseguire con la traccia della riunione, voglio consigliarvi anche questa volta alcuni materiali utili. Non è detto che debbano essere utilizzati nel corso dell’incontro, anzi possono essere forse meglio valorizzati o nella preparazione, inviandoli per posta elettronica o sui social network, o proponendoli come materiali su cui confrontarsi in  famiglia o a gruppi nelle settimane successive.

Potete utilizzare innanzitutto una catechesi di papa Francesco, nella quale afferma: «La festa è un’invenzione di Dio… non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma “signori”».

Il nostro Ufficio catechistico ha preparato una lettera da inviare ai genitori sulla domenica (il testo esiste anche in word per poterlo modificare a piacimento inserendo ulteriori considerazioni o immagini)

Nel giorno del Signore. Vivere la domenica in famiglia http://www.gliscritti.it/blog/images/2012-12/schede_vicariato_27.pdf

Potete suggerire anche il video di una bellissima canzone di Angelo Branduardi: Branduardi, Domenica lunedì

Oppure potete suggerire il video di un intervento di Giacomo Poretti, nel quale tiene un breve discorso in onore del nuovo arcivescovo di Milano, accennando, come sempre con ironia e poesia, al ruolo della comunità cristiana e degli oratori nella metropoli lombarda: La confessione di un innamorato, di Giacomo Poretti

Per una riflessione più ampia ed una formazione personale, si possono invece suggerire i due video del nostro Ufficio catechistico:

COMUNIONI 9 - Entrare nella celebrazione eucaristica (parte I)

COMUNIONI 10 - Entrare nella celebrazione eucaristica (parte II)

Per la formazione dei catechisti suggeriamo infine due contributi:

a/ INIZIARE A CELEBRARE: LA MESSA DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA. Sussidio per la formazione ed il coinvolgimento dei genitori a cura dell’Ufficio catechistico diocesano e dell’Ufficio liturgico diocesano per vivere insieme il Convegno pastorale 2015 “Noi genitori testimoni della bellezza della vita. Vi trasmettiamo quello che abbiamo ricevuto (cfr. 1 Cor 15,3)”

b/ Il file audio di una lezione tenuta presso la chiesa di Sant'Angelo in Pescheria: Il sabato e la domenica, giorno del Signore, di Andrea Lonardo.

2/ Il giorno del Signore: la gratitudine è la misura di ogni felicità

In realtà quanto abbiamo fin qui detto sarebbe già sufficiente, almeno a livello esistenziale. Ma è bene fare qualche passo in più - si possono prevedere anche più riunioni sul tema se il tempo non bastasse.

Ritengo importante che si dia ai genitori anche qualche notazione storica, prima di trarne le conseguenze esistenziali, perché i genitori capiscano la serietà di ciò di cui stiamo parlando. Sono adulti e debbono conoscere la loro fede, non solo ricevere fervorini.

Per quell’analfabetismo religioso che caratterizza l’Italia probabilmente molti di loro non sanno nemmeno che prima del popolo ebraico non esisteva il giorno di riposo settimanale. Come ha detto papa Francesco nel brano sopra riportato: «La festa è un’invenzione di Dio».

Si può ricordare loro che i popoli pagani avevano sì delle feste, ma non una volta a settimana. Ancora oggi i negozi cinesi sono aperti tutti il giorno non perché i cinesi siano particolarmente stakanovisti, ma molto più semplicemente perché la cultura cinese, essendo pre-cristiana, non conosce il riposo settimanale – sono perciò abituati a chiudere i negozi solo nei giorni del capodanno cinese!

Prima dell’ebraismo e del cristianesimo (e di conseguenza nelle culture che non hanno conosciuto l’ebraismo e il cristianesimo) non è esistito il giorno di riposo settimanale. Ebrei  e cristiani hanno regalato al mondo intero un giorno di riposo ogni sette. Qui si vedono le radici culturali dell’Europa! Anche gli atei debbono ringraziare l’ebraismo e il cristianesimo se la domenica non vanno a lavorare! L’Islam ha preso il venerdì come giorno settimanale, anche se esso non ha alcun significato specifico per i musulmani, non commemora niente di particolare. Il venerdì venne scelto solo per poter riprendere ciò che vivevano ebrei e cristiani ma, al tempo stesso, differenziarsi da loro, consapevoli comunque della grande “invenzione”. Quando i rivoluzionari francesi cercarono di cancellare le tracce del cristianesimo, durante l’illuminismo, divisero il tempo in decadi, in periodi di dieci giorni, concedendo un giorno di riposo ogni dieci. Anche dai diversi modi di combattere l’invenzione ebraico-cristiana se ne vede la genialità.

I nomi dei giorni della nostra settimana – vale la pena farglielo notare, perché molti di loro non lo hanno mai sentito spiegare – ci ricordano le origini della nostra cultura. Le origini pagane: lunedì-Luna, martedì-Marte, mercoledì-Mercurio. giovedì-Giove, venerdì-Venere, con 5 divinità pagane. Le origini ebraiche: sabato-Shabbat. Le origini cristiane: domenica-Dies Domini, perché il Signore è risorto il primo giorno dopo il sabato. Insomma 5 nomi di origine pagana, uno di origine ebraica, uno di origine cristiana.

Vale la pena soffermarsi con i genitori sul senso profondo di Genesi 1 facendo notare che tale racconto è un testo ebraico. Anche qui non dimenticate che tutti trattano stupidamente i testi di Genesi sulla creazione come se fossero dei testi cristiani, mentre essi sono ebraici: è l’amore di Dio verso il popolo di Israele che ci rende certi che la pretesa degli ebrei di aver ricevuto la rivelazione di Dio è vera. Proprio dinanzi al tema della festa è importante non dimenticare che Genesi 1 è un testo ebraico.

Gli ebrei, che non sono stupidi, non hanno mai pensato che il mondo sia stato creato esattamente in 7 giorni e con quella sequenza di opere, tanto è vero che in Genesi 2 gli stessi ebrei hanno fornito una sequenza diversa: in Genesi 2, infatti, Dio non crea l’uomo per ultimo, bensì per primo. Nel secondo capitolo Dio crea prima l’uomo, poi le piante, poi gli animali, poi la donna. Se si fosse trattato di un trattato sulla storia evolutiva dell’universo gli ebrei avrebbero cancellato uno dei due capitoli! Meriterebbe tutta una trattazione la spiegazione di Genesi ai genitori, ma non è il caso di farlo ora. Potete rimandarli ad un mio commento sul testo: Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo (http://www.gliscritti.it/blog/entry/2720).

Qui basta sottolineare che Genesi 1 con il settimo giorno vuole affermare una potentissima e poetica verità (Genesi non è un testo mitologico, bensì un testo teologico-poetico): Dio è Dio non solo perché crea, non solo perché è onnipotente al punto da essere il creatore di tutto ciò che esiste, ma ancor più Dio è Dio perché egli si “riposa”, cioè perché gode di ciò che ha creato. Il compimento della sua creazione non è una qualche opera da lui fatta, bensì ancor più l’astensione dalle opere, il godimento, la gioia, la festa per ciò che ha creato.

Il termine shabbat/sabato viene, infatti, dal verbo ebraico shabat che vuol dire “riposare”, “fermarsi”, “arrestarsi” e, quindi, godere di ciò che si è fatto. L’essere Signore non consiste solo nel fare, nel creare: l’essere Signore consiste nella capacità di essere felice, beato. Dio è la suprema felicità, Dio è capace di “riposo”.

Se Dio ha saputo fermarsi e contemplare la meraviglia del suo operare, a maggior ragione, dice Genesi, l’uomo è uomo non solo perché lavora, ma soprattutto perché sa gioire del lavoro compiuto, perché sa fermarsi, riposare e ringraziare, perché sa fare festa. L’uomo è stato creato ad immagine di Dio non solo perché con il suo lavoro può fare tante cose, può creare tante opportunità, può progettare e lavorare: è ad immagine di Dio perché è fatto per la gioia, per il “riposo”, per la beatitudine.

Un rabbino moderno, Isidor Grunfeld, ha scritto in proposito:

«L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore. Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L'uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso. Osservando lo Shabbath, l'ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso».

Per spiegare questa grandezza dell’uomo che può arrestarsi dal lavorare, faccio sempre l’esempio di mia madre, che era una di quelle donne che non stavano mai ferme. Aveva quattro figli, ogni giorno doveva fare dieci telefonate per augurare buon compleanno o anniversario a parenti ed amici, poi altre per chiedere notizie di persone che erano malate o in difficoltà, preparava i dolci per l’oratorio, faceva la catechista, ci seguiva nei compiti, si preoccupava di riparare gli oggetti che si rompevano perché ricomprarli significava sprecare dei soldi. Alla fine della giornata iniziava a recriminare con noi che continuavamo a giocare: “Ecco, voi state sempre lì a giocare, mentre io ho fatto tante cose!”, e noi puntualmente rispondevamo: “Mamma, ma chi te lo ha chiesto?”. Non è vero che non avrebbe potuto fermarsi un’ora o leggere un libro o pregare o riposarsi. Il problema è che spesso è più facile continuare a fare sempre nuove cose piuttosto  che sapersi riposare, che saper godere, che sapersi fermare per gioire del lavoro fatto.

Vale la pena ricordare loro anche che, data l’importanza del sabato per la mentalità ebraica, dovette avvenire una rivoluzione perché il giorno di festa venisse traslato all domenica, il “primo giorno dopo il sabato”. Ci fu qualcosa come uno sconvolgimento nella mente degli apostoli, tutti di origine ebraica. Essi non avrebbero mai iniziato a celebrare la festa nel giorno di domenica se non fosse successo qualcosa di decisivo in quel giorno. Potremmo dire che l’esistenza della domenica è una prova della resurrezione di Gesù: questo evento è stato così decisivo che la Chiesa primitiva ha sentito il bisogno di inventare un nuovo giorno di riposo, anche se modellato sull’antico sabato, un nuovo giorno che ne portasse a compimento il significato. Il termine giorno del Signore, Dies Domini, domenica, è antichissimo, lo si ritrova già nell’Apocalisse, perché è nel “giorno del Signore” che Giovanni riceve le rivelazioni che scriverà nel suo libro (Ap 1,10): insomma è già nel Nuovo Testamento che inizia la celebrazione della domenica.

Possiamo ora mostrare il significato spirituale e l’attualità di questa riflessione storica. Ci aiuterà a completare quanto abbiamo già detto e a capire meglio come mai ci capita di entrare a messa stanchi e di uscirne riposati e incoraggiati a vivere bene la nostra vita.

Il testo di Genesi 1 ci insegna che l’uomo è stato creato per diventare amico di Dio. Tutto ciò che esiste nel mondo non basta all’uomo se egli non trova Dio. E trovare Dio per l’uomo non è in antitesi con il godere delle cose e delle persone. Anzi l’uomo capisce il vero valore delle cose e delle persone proprio quando si accorge che esse sono anche dei segni, sono realtà che rimandano al Dio che le ha create e salvate. Io amo mia moglie, io amo mio figlio, ma riesco ad amarlo veramente e con libertà quando comprendo quanto è grande Dio che me li ha donati e quanto essi sono preziosi agli occhi di Dio che ne ha voluto l’esistenza e che è morto per la loro salvezza.

Con la domenica la Chiesa non afferma una cosa qualsiasi. Essa dichiara, invece, lo scopo di tutto l’universo! Il fine di tutta la creazione non è semplicemente l’esistenza dell’uomo, ma che l’uomo diventi amico di Dio. Che l’uomo scopra la vicinanza di Dio e la bellezza della vita stessa da Lui voluta. Perché l’uomo, se non scopre di essere lui stesso un dono, non riesce a capire la propria vita. Cristo, venendo a visitarci nella celebrazione, ci conferma nella bontà della nostra vita, nell’importanza del nostro esserci e della nostra vocazione.

Ciò di cui ha bisogno ogni uomo non è semplicemente di lavorare, di mangiare, di avere una famiglia, ma di capire che tutto questo è abbracciato dalla provvidenza di Dio per vivere pieno di gratitudine la vita. L’uomo ha bisogno di contemplare la bellezza della vita, di affidarla a Dio, di ringraziarlo e di trovare in Lui il nutrimento necessario per ripartire per la propria missione. Questo è ciò che avviene nel giorno del Signore, questo è ciò che avviene nell’Eucarestia.

L’uomo è uomo quando si rivolge a Dio e scopre il misterioso legame fra tutto ciò che esiste ed il Creatore, come San Francesco nel Cantico delle creature.

G.K. Chesterton, uno scrittore inglese convertitosi al cattolicesimo, ha detto con un’espressione enorme: «La misura di ogni felicità è la riconoscenza».

Invitate i genitori ad impararla a memoria. «La misura di ogni felicità è la riconoscenza». La felicità non è qualcosa che semplicemente esiste, che c’è o non c’è. La felicità esiste di più o di meno ed ha una misura: la gratitudine. Esiste in proporzione a quanto io mi accorgo che tutto è un dono.  Esiste in proporzione a quanto dico “grazie”. Ci sono persone che hanno tutto, ma non sono felici perché non comprendono che ciò che hanno è un dono. Ci sono persone che hanno pochissimo, ma poiché si accorgono che è un dono, sanno godere di quella cosa.

Il giorno di festa, con la liturgia che ne è il centro, non ci fa dimenticare il lavoro, la fatica, il bisogno del cibo e tutte le altre cose. Ce le fa riscoprire come un dono. Dio ce le ha donate durante la settimana e Dio, con la sua provvidenza, ci guiderà ancora nella settimana che inizia. Per questo la festa ci rasserena: perché ci fa riscoprire che la fatica che stiamo vivendo è secondo la volontà di Dio. Per questo la festa ci da gioia: perché ci fa riscoprire che tutto è un dono. Perché ci fa riscoprire che viviamo in presenza di Dio e sotto il suo sguardo provvidente che tutto dona.

I rabbini ebrei ricordano che il sabato è talmente importante che senza di esso Israele non solo non sarebbe felice, ma avrebbe cessato di esistere già da tempo, sarebbe scomparso come popolo divenendo uguale ai popoli che non conoscono Dio. Così ha scritto un rabbino:   

 «Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele» (Achad Ha-am (=”uno del popolo”, pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg, 1856-1927).

E un altro maestro ha detto: «Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato» (Y. Vainstein).

La festa sembra una cosa meno importante del lavoro, mentre solo la festa e la ritrovata comunione con Dio danno senso e forza al lavoro.

Un cristiano, Jean Vanier, fondatore dell’Arca e di Fede e Luce - due realtà che desiderano creare comunità nelle quali le persone disabili possano trovare una casa -, ha scritto, approfondendo ancora:

«Le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa. La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa. Molto spesso oggi abbiamo la gioia senza Dio o Dio senza la gioia. La festa, al contrario, è la gioia con Dio».

Solo dove c’è la presenza di Dio che ci conferma tutti nel fatto che vivere sia una benedizione ritroviamo il gusto profondo delle cose.

3/ Perché i sacramenti? L’annuncio che Dio è vicino e che noi abbiamo bisogno di segni

Ma qual è la novità del ringraziamento cristiano? Perché è proprio il sacramento dell’eucarestia domenicale che ci fa vivere l’amicizia con Dio e ci sostiene nel nostro cammino?

La risposta è semplice e bella. Perché l’eucarestia prolunga l’incarnazione. Questa è la novità cristiana. Nell’incarnazione Dio non ci ha mandato un libro da leggere. Dio ha voluto esserci vicino, facendosi uomo. E questa è la novità della liturgia cristiana: Dio non ci ha semplicemente consegnato un rito, bensì è lui che viene in mezzo a noi nell’eucarestia perché lo possiamo incontrare. Nella messa ci da il suo corpo e il suo sangue come lo dette nell’ultima cena ai dodici.

Ricordo un’omelia di un vescovo che celebrava il 25° di sacerdozio di un mio amico. Nell’omelia disse qualcosa che all’inizio non capivo: “Essere cristiani non vuol dire annunciare che Gesù è morto e risorto”. E proseguì: “Immaginate un ragazzo che sia pazzamente innamorato di una ragazza e lei è viva, ma vive negli USA. Lei è viva, ma non c’è modo di fare la trasvolata e mai lui la potrà accarezzare o baciare o abbracciare. Ebbene quel ragazzo non può essere felice”. Cominciai a capire. “Essere cristiani non vuol dire solo annunziare che Gesù è vivo, ma annunziare che Gesù è vicino, che Gesù non è in un cielo irraggiungibile, ma che può venire vicino a voi. Gesù viene in mezzo a noi nel sacramento dell’eucarestia. Per questo è così importante celebrare i 25 anni di un prete”.

La messa annunzia che Gesù è vicino e che chi mangia il suo corpo si siede alla sua stessa mensa. Non è il prete a darci il suo corpo, ma è Gesù stesso che, nella persona del prete, ci dona se stesso.

Ecco cosa ci dona la liturgia. Ed è di questo che noi abbiamo bisogno. Non di sentir parlare di Dio, ma che lui venga veramente nella nostra vita, nella nostra storia familiare, nella fatica del nostro lavoro o del nostro studio.

E la seconda cosa che è importantissimo sottolineare è che Gesù viene in mezzo a noi tramite i segni della liturgia. I segni della liturgia non esistono perché così Dio sia accontentato. È lui piuttosto che si “umilia” ancora una volta, come nell’incarnazione, perché siamo noi ad avere bisogno dei segni. Noi siamo un popolo e siamo corporei e non potremmo avere esperienza di Dio se non tramite segni, canti, gesti, acqua, pane, vino e così via. Nella liturgia attraverso i segni noi comunichiamo con Dio. La liturgia è divina perché Gesù è presente in essa ed è insieme estremamente umana perché Gesù è presente nei segni.

È proprio dai segni che è nutrita la nostra vita. L’uomo non potrebbe fare a mano dei segni. Chi non vive e non capisce i segni si sta smarrendo come uomo. Ricordo una volta una donna che venne da me piangendo e mi disse: “Sono sicuro che mio marito mi tradisce perché si è comprato una camicia nuova”. Io cercai di tranquillizzarla dicendole che il suo ragionamento mi sembrava una costruzione mentale. Ed invece aveva ragione lei. Era una donna così capace di leggere i segni della vita che da un semplice gesto dell’uomo che lei amava aveva intuito il dramma.

Nella nostra vita la cura dei segni è decisiva. Dai segni capiamo come stanno la moglie o il figlio, intuiamo cosa c’è che non va e quando le cose sono a posto. Celebriamo l’amore con segni e nei segni ci scambiamo l’amore. Certo il cuore è più importante dei segni. Ma solo la follia del ’68 ha fatto credere per un certo lasso di tempo che qualcosa può essere vero anche senza segni.

È vero il contrario: senza i segni il cuore si inaridisce. Certo un bacio non è l’amore, ma senza baci l’amore diviene sterile. Certo l’amore non è semplicemente ricordarsi sempre dei gusti dell’altro, non è semplicemente ricordarsi gli anniversari, non è semplicemente fare attenzione agli sguardi e ai gesti, ma è tramite questi gesti che io riesco a crescere in un amore dove ci si aiuta e ci si sostiene.

Così il rito non è la fede, ma senza rito la fede si inaridisce, viene dimenticata e smette di prendermi il cuore. Sono i sacramenti, è la confessione, è la celebrazione liturgica che sostengono il mio amore per Dio e per i fratelli e lo nutrono continuamente, rinnovandolo.

Un liturgista disse una volta una frase bellissima: “La  liturgia si fa con i piedi”, intendendo che la liturgia non è un concetto, ma si vive con il corpo. Con il suono delle campane, con il camminare di una processione, con il profumo dell’incenso, con la freschezza dell’acqua del battesimo, con il gesto di sedersi per ascoltare la Parola o di inginocchiarsi per la consacrazione, noi ci incontriamo con Dio. Mentre trascurandoli ci allontaniamo da Lui che è la nostra festa.

Nella messa domenicale noi incontriamo Cristo e lo incontriamo veramente. Lo incontriamo tramite i segni che ce ne fanno fare esperienza.

4/ Dire almeno una parola sulle questioni che tutti discutono

Credo sia opportuno dire ai genitori qualche parola anche su alcune questioni concrete. Innanzitutto sui divorziati risposati. Nell’incontro comune mi limiterei a proporre con grande affetto una grande accoglienza ed una disponibilità di cuore, comunicando un grande senso di rispetto per tutti: papa Francesco ci deve essere maestro ed i suoi gesti, i suoi sorrisi, i suoi abbracci, debbono essere per tutti noi uno stimolo.

Inviterei invece ogni persona che ne avesse il desiderio o che volesse capire meglio il proprio percorso a venire in un altro momento a parlare personalmente con i sacerdoti. Anzi eviterei di proposito una riflessione sul caso singolo, presentato da qualche genitore che alzasse la mano. In primo luogo per rispetto della privacy, poi perché le cose serie hanno bisogno di tempo per essere dette e comprese, ad esempio se esiste un caso di nullità. Ed, infine, perché si rischierebbe di scatenare un putiferio su di una questione che riguarda una singola situazione, mentre nella riunione bisogna avere a cuore il bene di tutti. Direi subito a chi avesse presentato pubblicamente la propria situazione alzando la mano: “Grazie di averci raccontato qualcosa della sua vita, la ringrazio di questo coraggio e di questa franchezza. Venga in settimana, una sera che le sarà possibile, ed io sarò molto contento di ascoltarla per poterla aiutare”.

Ciò che direi a tutti è questo: ricorderei loro innanzitutto che i divorziati risposati e i conviventi non solo non sono scomunicati, ma anzi sono tenuti alla liturgia domenicale. Se non possono ricevere la Comunione, sono aiutati dalla liturgia nella loro fede, ma anche sono aiutati dalla liturgia a dare testimonianza ai figli. La liturgia, infatti, non si esaurisce solo nel “fare la Comunione”. Ricorderei ancora una volta che sono i migliori “genitori” che i figli possano avere, anche perché non ne hanno altri! I figli amano i loro genitori – e debbono amarli – perché sono i loro genitori, anche se eventuali gesti personali fossero stati inopportuni o addirittura sbagliati.

Ascoltare la Parola del Signore e sforzarsi di viverla, domandare perdono, pregare con la preghiera dei fedeli, professare la fede nel Credo insieme ai fratelli, inginocchiarsi alla Consacrazione, pregare con il Padre nostro, scambiare il segno della pace, cantare le lodi del Signore sono momenti di vera comunione con Dio e con la Chiesa tutta.

Mi vengono sempre in mente due incontri - ma ognuno può raccontare, con garbo, le sue esperienze. Il primo, quello di una persona divorziata risposata che mi diceva: “Padre, io so di non poter fare la comunione, ma guai se lei mi impedisce di partecipare a tutte le altre parti della liturgia. La messa è come una cena dove ci sono tantissime “portate” – così mi disse. Io non mangio l’eucarestia, ma “mangio” la Parola di Dio, l’omelia, la preghiera dei fedeli, il canto, ecc. Certo è un dolore non poter giungere fino a condividere l’eucarestia, ma guai se non condividessi tutte le altre “portate”.

Ricordo anche una donna che accompagnava la figlia per la prima comunione e mi domandava come avrebbe potuto mostrare alla figlia quanto importante era per lei, mamma, la comunione della sua bambina. Io le risposi: “Prometta alla bambina che verrete insieme anche l’anno prossimo per la comunione e mentre la piccola farà la comunione lei farà la comunione di desiderio, dirà cioè a Gesù il suo desiderio di essere in comunione con lui. Questo educherà sua figlia più che se lei facesse la comunione il giorno della sua prima comunione e poi non venisse più a celebrare la messa”. Mi sorrise facendomi capire che sapeva bene che avevo ragione.

Ma, poi, si faccia in modo che i catechisti invitino i genitori che non faranno la comunione a compiere quei gesti che ne valorizzano la loro testimonianza di credenti e che non sono loro preclusi, come proporre preghiere dei fedeli o portare in processione i doni all’altare nell’offertorio: si faccia tutto ciò che è possibile, insomma, per far sentire loro quanto il Signore li ami e quanto la Chiesa riconosca la bellezza della loro partecipazione all’azione liturgica, pur nella consapevolezza del dolore di non potersi accostare a ricevere il pane eucaristico.

Importantissimo è che si invitino i genitori separati in lite a saper vivere, per amore dei figli, con quella delicatezza e quel rispetto che permettano ad entrambi di stare vicino ai bambini. Se anche ci fossero motivi molto gravi di disaccordo, è bene che si sappiano vivere momenti di “tregua” almeno la domenica, almeno nel giorno delle prima comunione, per testimoniare al bambino un amore che sa mettere da parte le giuste rivendicazioni al cospetto di un bene più grande come quello della cura filiale. La preghiera comune per il figlio potrà giovare anche a considerare da un punto di vista nuovo il dolore ricevuto dal coniuge.

5/ La messa è per tutti, anzi è soprattutto per i piccoli

Vi invito anche a ricordare che la celebrazione domenicale è un luogo importantissimo nel quale la chiesa accompagna le famiglie che hanno figli con disabilità. Quell’appuntamento domenicale fa incontrare tutti i genitori insieme - ognuno con la propria fatica e la bellezza della propria vocazione - e fa sì che essi si conoscano e che imparino a condividere la crescita dei figli.

La bellezza del rito, il canto, i gesti, aiutano tutti, anche i bambini con disabilità, a scoprire quanto la vita di ognuno sia preziosa non solo agli occhi di Dio, ma anche per i fratelli.

L’assemblea liturgica della Messa dell’Iniziazione cristiana non solo si abituerà a qualche parola o gesto talvolta imprevisti, ma ancor più ad apprezzare proprio quella presenza che ci chiede ancor più di essere comunità che cammina insieme.

Sono proprio i piccoli ad obbligarci ad uno sguardo nuovo: ci invitano a guardare la vita con gli occhi di Cristo, dove non conta l'efficienza, come nella nostra società nevrotica, dove conta invece camminare insieme. Dove ognuno è unico e portatore di un dono.

6/ L’eucarestia come cuore della vita cristiana

Prima di salutarli e dare l’appuntamento all’incontro successivo concluderei facendo una sintesi propositiva. Direi loro che per esser cristiani, di per sé, non è necessario far parte di un gruppo parrocchiale, non è necessario far parte del consiglio pastorale o di qualche comitato, anche se tutto ciò è bello e prezioso. Per essere cristiani bastano due cose: la messa domenicale, che è il nutrimento che Cristo ha pensato per ogni cristiano, e la vita cristiana in famiglia, nel lavoro e nella carità.

Perché la messa è talmente importante da bastare per vivere poi da cristiani? Con tutto ciò che si è detto in questa riunione la risposta è ormai chiara. La messa è così importante perché in essa è concentrata la presenza stessa di Cristo che si dona a noi come agli apostoli nell’ultima cena.

In fondo l’anno liturgico, con le sue feste, con le sue letture dell’Antico e del Nuovo Testamento, con i suoi segni, con i suoi canti, è forse il capolavoro più grande che la Chiesa abbia costruito e donato al mondo. Più grande delle opere di Michelangelo o di Caravaggio, più grande delle cattedrali medioevali o barocche, più grandi di Dante e di Manzoni, tutti grandissimi. La liturgia è stata fatta dalla Chiesa tutta intera perché ci permette di accogliere Cristo, perché permette a Lui di farci visita.

La liturgia è una cosa così grande che tutti i popoli e tutte le epoche hanno contribuito a renderla ciò che è nella sua bellezza. Alcune sue parole vengono dall’ebraico, altre dall’aramaico, altre dal greco, altre dal latino, altre dalle lingue moderne. Allo stesso modo le feste dell’anno liturgico vengono alcune dall’oriente, altre dall’occidente, altre da Roma, altre da santi particolari, altre da un papa o da un altro.

L’anno liturgico, quest’opera d’arte preparata per noi dalla Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo, permette ad ogni uomo di incontrarsi con tutta la vita di Cristo. Nell’anno liturgico la mia vita, fatta di famiglia, lavori, problemi e gioie, si unisce con tutta la vita di Cristo e con tutta la storia della salvezza.

Concluderei con un esempio che faccio spesso. Una volta stavo parlando con due catechiste. La prima che credeva di proporre una riflessione molto intelligente, disse: “In realtà la catechesi non serve a niente. Lo so bene. Io non ricordo niente di quello che mi hanno insegnato i miei catechisti quando avevo l’età dei bambini di cui sono catechista oggi”. L’altra la guardò e con molta più intelligenza le rispose: “Non è vero. Ti sbagli. Tu nella catechesi hai scoperto la messa. Tu hai imparato l’anno liturgico da bambina.  E chi conosce l’anno liturgico e vi partecipa, in fondo conosce tutto di Cristo. Chi partecipa domenica per domenica all’anno liturgico non solo conosce Cristo, ma ha Cristo vicino a sé”. Aveva ragione.

Redazione de Gliscritti | Mercoledì 30 Marzo 2016 - 3:38 pm | | Default

Una proposta radicale dinanzi agli attentati che continuano e continueranno: educare con passione e in libertà, a cominciare dalle bambine e dalle ragazze. Breve nota di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (29/3/2016)

Una proposta radicale dinanzi agli attentati che continuano e continueranno: educare con passione e in libertà, a cominciare dalle bambine e dalle ragazze. Breve nota di Andrea Lonardo

Non serve a molto dire «io condanno» e «not in my name», dinanzi ai continui – continueranno – gesti di morte a Lahore (contro famiglie cristiane), ad Alessandria in Iraq (contro bambini sciiti al termine di un incontro di calcio), a Bruxelles (contro civili occidentali), a Mostaba in Yemen (contro musulmani) e ad Aden sempre in Yemen (contro le suore di madre Teresa ed un prete salesiano), ad Istanbul (contro israeliani e occidentali), ecc. ecc.

Bisogna creare una cultura nuova, soprattutto a partire dalle nuove generazioni.  La mia proposta è di puntare nella scuola inter-culturale, nelle parrocchie, nelle moschee, nei luoghi di dialogo inter-religioso, nei luoghi di incontri «laici» sulla testimonianza di persone che hanno già trovato la soluzione: educare con passione, insegnando a leggere e a dibattere liberamente di tutti i temi, approfondendo ogni insegnamento religioso che invita alla libertà e al  perdono, a partire dalla possibilità di studio per le donne.

Solo con uno studio più libero e più appassionato nel cercare il bene e la libertà si potrà rispondere al male: il cuore umano non va lasciato a se stesso, ma va aiutato con i doni degli uomini e di Dio per affrontare il male. L’educazione è la vera arma contro la povertà, l’ingiustizia, la violenza. Anche noi siamo dei radicali e non dei moderati, crediamo che Dio voglia oggi che lottiamo tutti insieme contro povertà, ingiustizia e violenza impegnandoci nell’educazione. Le due testimonianze più alte che ho in mente sono di due donne, due ragazze, una musulmana ed una cristiana, Malala e Maryam. Ci impegniamo a farle conoscere a tutti?

I video che propongo sono questi che seguono – notissimi, ma mai abbastanza – da far vedere a scuola, in parrocchia, in moschea, negli incontri non religiosi. Sono due donne, due ragazze, che hanno da insegnare a tutti, innanzitutto agli uomini e agli adulti.

Il Centro culturale Gli scritti (29/3/2016)

1/ Malala, musulmana

Malala Yousafzai è la giovane pakistana musulmana colpita alla testa e al collo da un colpo di pistola esploso da un talebano il 9 ottobre del 2012. Ha tenuto il 12 luglio 2013 nella sede di New York delle Nazioni Unite, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, durante l’Assemblea della Gioventù, il discorso che riproponiamo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (29/3/2016)

2/ Maryam, cristiana

Maryam è la ragazzina cristiana iraqena che con la sua famiglia fuggì da Qaraqosh a causa delle violenze dell’Isis/Daesh. In un’intervista all’emittente Sat 7 Arabic raccontò la sua vita a Erbil (Kurdistan) e, con parole semplici ma profonde, anche la sua fede, già così certa sebbene la giovanissima età. In un secondo video, pubblicato il 24/3/2016, presenta un modo per venire in soccorso attraverso il sostegno ad Aiuto alla Chiesa che soffre (Fondazione pontificia) e racconta la sua vita attuale: il bus, la scuola, le preghiere e il desiderio di diventare una cantante o una suora. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il centro culturale Gli scritti (29/3/2016)

Maryam racconta della sua vita e della scuola:

Questo il primo video che ha fatto conoscere la sua testimonianza in tutto il mondo:

Appendice. Intervento di Malala all’ONU

1/ Traduzione italiana

In nome di Allah, il massimo benefattore e la suprema misericordia,

Onorevole Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon, spettabile presidente dell'Assemblea Generale Vuk Jeremic, onorevole inviato speciale delle Nazioni Unite per l'istruzione globale Gordon Brown, rispettati anziani rispettati e miei cari fratelli e sorelle: Assalamu alaikum (la pace sia con voi, n.d.T).

Oggi è un onore per me tornare a parlare dopo un lungo periodo di tempo. Essere qui con persone così illustri è un grande momento nella mia vita ed è un onore per me che oggi sto indossando uno scialle della defunta Benazir Bhutto. Non so da dove cominciare il mio discorso. Non so cosa la gente si aspetti che dica, ma prima di tutto voglio ringraziare  Allah per il quale siamo tutti uguali e ringraziare tutti coloro che hanno pregato per una mia veloce guarigione e una nuova vita. Non riesco a credere quanto amore le persone mi hanno dimostrato. Ho ricevuto migliaia di cartoline di auguri e regali da tutto il mondo. Grazie a tutti. Grazie ai bambini le cui parole innocenti mi hanno incoraggiato. Grazie ai miei anziani le cui preghiere mi hanno rafforzato. E grazie agli infermieri, ai medici e al personale degli ospedali in Pakistan e nel Regno Unito e il governo degli Emirati Arabi Uniti che mi hanno aiutato a stare meglio e a riprendere le forze.

Sono qui per dare tutto il mio appoggio al segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon nella sua Iniziativa Globale "Prima l'istruzione" e al lavoro dell'inviato speciale delle Nazioni Unite per l'Educazione Globale Gordon Brown. Li ringrazio per la leadership che continuano a esercitare. Essi continuano a stimolare tutti noi all'azione. Cari fratelli e sorelle, ricordiamo una cosa: il Malala Day non è il mio giorno. Oggi è il giorno di ogni donna, ogni ragazzo e ogni ragazza che hanno alzato la voce per i loro diritti.

Ci sono centinaia di attivisti per i diritti umani e operatori sociali che non solo parlano per i loro diritti, ma che lottano per raggiungere un obiettivo di pace, educazione e uguaglianza. Migliaia di persone sono state uccise dai terroristi e milioni sono state ferite. Io sono solo una di loro. Così eccomi qui, una ragazza come tante. Io non parlo per me stessa, ma per dare voce a coloro che meritano di essere ascoltati. Coloro che hanno lottato per i loro diritti. Per il loro diritto a vivere in pace. Per il loro diritto a essere trattati con dignità. Per il loro diritto alle pari opportunità. Per il loro diritto all'istruzione.

Cari amici, il 9 ottobre 2012, i talebani mi hanno sparato sul lato sinistro della fronte. Hanno sparato ai miei amici, anche. Pensavano che i proiettili ci avrebbero messi a tacere, ma hanno fallito. Anzi, dal silenzio sono spuntate migliaia di voci. I terroristi pensavano di cambiare i miei obiettivi e fermare le mie ambizioni. Ma nulla è cambiato nella mia vita, tranne questo: debolezza, paura e disperazione sono morte; forza, energia e coraggio sono nati. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Le mie speranze sono le stesse. E i miei sogni sono gli stessi.

Cari fratelli e sorelle, io non sono contro nessuno. Né sono qui a parlare in termini di vendetta personale contro i talebani o qualsiasi altro gruppo terroristico. Sono qui a parlare per il diritto all'istruzione per tutti i bambini. Voglio un'istruzione per i figli e le figlie dei talebani e di tutti i terroristi e gli estremisti. Non odio nemmeno il talebano che mi ha sparato.

Anche se avessi una pistola in mano e lui fosse in piedi di fronte a me, non gli sparerei. Questo è il sentimento di compassione che ho imparato da Maometto, il profeta della misericordia, da Gesù Cristo e Buddha. Questa è la spinta al cambiamento che ho ereditato da Martin Luther King, Nelson Mandela e Mohammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non violenza che ho imparato da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che ho imparato da mio padre e da mia madre. Questo è ciò che la mia anima mi dice: stai in pace e ama tutti.

Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell'importanza della luce quando vediamo le tenebre. Ci rendiamo conto dell'importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere. Allo stesso modo, quando eravamo in Swat, nel Nord del Pakistan, abbiamo capito l'importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi. Il saggio proverbio "La penna è più potente della spada" dice la verità. Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell'educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa. Questo è il motivo per cui hanno ucciso 14 studenti innocenti nel recente attentato a Quetta. Ed è per questo che uccidono le insegnanti donne. Questo è il motivo per cui ogni giorno fanno saltare le scuole: perché hanno paura del cambiamento e dell'uguaglianza che porteremo nella nostra società. Ricordo che c'era un ragazzo della nostra scuola a cui un giornalista chiese: "Perché i talebani sono contro l'educazione dei ragazzi?". Lui rispose molto semplicemente: indicò il suo libro e disse: "I talebani non sanno che cosa c'è scritto in questo libro".

Loro pensano che Dio sia un piccolo esseruccio conservatore che punterebbe la pistola alla testa delle persone solo per il fatto che vanno a scuola. Questi terroristi sfruttano il nome dell'islam per i propri interessi. Il Pakistan è un Paese democratico, amante della pace. I Pashtun vogliono educazione per i loro figli e figlie. L'Islam è una religione di pace, umanità e fratellanza, che dice: è un preciso dovere quello di dare un'educazione a ogni bambino. La pace è necessaria per l'istruzione. In molte parti del mondo, in particolare il Pakistan e l'Afghanistan, il terrorismo, la guerra e i conflitti impediscono ai bambini di andare a scuola. Siamo veramente stanchi di queste guerre. Donne e bambini soffrono in molti modi in molte parti del mondo.

In India, bambini innocenti e poveri sono vittime del lavoro minorile. Molte scuole sono state distrutte in Nigeria. La gente in Afghanistan è colpita dall'estremismo. Le ragazze devono lavorare in casa e sono costrette a sposarsi in età precoce. La povertà, l'ignoranza, l'ingiustizia, il razzismo e la privazione dei diritti fondamentali sono i principali problemi che uomini e donne devono affrontare.

Oggi, mi concentro sui diritti delle donne e sull'istruzione delle ragazze, perché sono quelle che soffrono di più. C'è stato un tempo in cui le donne hanno chiesto agli uomini di difendere i loro diritti. Ma questa volta lo faremo da sole. Non sto dicendo che gli uomini devono smetterla di parlare dei diritti delle donne, ma il mio obiettivo è che le donne diventino indipendenti e capaci di combattere per se stesse. Quindi, cari fratelli e sorelle, ora è il momento di alzare la voce. Oggi invitiamo i leader mondiali a cambiare le loro politiche a favore della pace e della prosperità. Chiediamo ai leader mondiali che i loro accordi servano a proteggere i diritti delle donne e dei bambini. Accordi che vadano contro i diritti delle donne sono inaccettabili.

Facciamo appello a tutti i governi affinché garantiscano un'istruzione gratuita e obbligatoria in tutto il mondo per ogni bambino. Facciamo appello a tutti i governi affinché combattano il terrorismo e la violenza. Affinché proteggano i bambini dalla brutalità e dal dolore. Invitiamo le nazioni sviluppate a favorire l'espansione delle opportunità di istruzione per le ragazze nel mondo in via di sviluppo. Facciamo appello a tutte le comunità affinché siano tolleranti, affinché rifiutino i pregiudizi basati sulle casta, la fede, la setta, il colore, e garantiscano invece libertà e uguaglianza per le donne in modo che esse possano fiorire. Noi non possiamo avere successo se la metà del genere umano è tenuta indietro. Esortiamo le nostre sorelle di tutto il mondo a essere coraggiose, a sentire la forza che hanno dentro e a esprimere il loro pieno potenziale.

Cari fratelli e sorelle, vogliamo scuole e istruzione per il futuro luminoso di ogni bambino. Continueremo il nostro viaggio verso la nostra destinazione di pace e di educazione. Nessuno ci può fermare. Alzeremo la voce per i nostri diritti e la nostra voce porterà al cambiamento. Noi crediamo nella forza delle nostre parole. Le nostre parole possono cambiare il mondo, perché siamo tutti insieme, uniti per la causa dell'istruzione. E se vogliamo raggiungere il nostro obiettivo, cerchiamo di armarci con l'arma della conoscenza e di farci scudo con l'unità e la solidarietà.

Cari fratelli e sorelle, non dobbiamo dimenticare che milioni di persone soffrono la povertà, l'ingiustizia e l'ignoranza. Non dobbiamo dimenticare che milioni di bambini sono fuori dalle loro scuole. Non dobbiamo dimenticare che i nostri fratelli e sorelle sono in attesa di un luminoso futuro di pace.

Cerchiamo quindi di condurre una gloriosa lotta contro l'analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, perché sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L'istruzione è l'unica soluzione. L'istruzione è la prima cosa.

Grazie.

(traduzione di Fulvio Scaglione con alcune correzioni de Gli scritti)

2/ Testo originale inglese

In the name of God, The Most Beneficent, The Most Merciful.

Honourable UN Secretary General Mr Ban Ki-moon,

Respected President General Assembly Vuk Jeremic

Honourable UN envoy for Global education Mr Gordon Brown,

Respected elders and my dear brothers and sisters;

Today, it is an honour for me to be speaking again after a long time. Being here with such honourable people is a great moment in my life.

I don't know where to begin my speech. I don't know what people would be expecting me to say. But first of all, thank you to God for whom we all are equal and thank you to every person who has prayed for my fast recovery and a new life. I cannot believe how much love people have shown me. I have received thousands of good wish cards and gifts from all over the world. Thank you to all of them. Thank you to the children whose innocent words encouraged me. Thank you to my elders whose prayers strengthened me.

I would like to thank my nurses, doctors and all of the staff of the hospitals in Pakistan and the UK and the UAE government who have helped me get better and recover my strength. I fully support Mr Ban Ki-moon the Secretary-General in his Global Education First Initiative and the work of the UN Special Envoy Mr Gordon Brown.  And I thank them both for the leadership they continue to give. They continue to inspire all of us to action.

Dear brothers and sisters, do remember one thing. Malala day is not my day. Today is the day of every woman, every boy and every girl who have raised their voice for their rights. There are hundreds of Human rights activists and social workers who are not only speaking for human rights, but who are struggling to achieve their goals of education, peace and equality. Thousands of people have been killed by the terrorists and millions have been injured. I am just one of them.

So here I stand...    one girl among many.

I speak – not for myself, but for all girls and boys.

I raise up my voice – not so that I can shout, but so that those without a voice can be heard.

Those who have fought for their rights:

Their right to live in peace.

Their right to be treated with dignity.

Their right to equality of opportunity.

Their right to be educated.

Dear Friends, on the 9th of October 2012, the Taliban shot me on the left side of my forehead. They shot my friends too. They thought that the bullets would silence us. But they failed. And then, out of that silence came, thousands of voices. The terrorists thought that they would change our aims and stop our ambitions but nothing changed in my life except this: Weakness, fear and hopelessness died. Strength, power and courage was born.  I am the same Malala. My ambitions are the same. My hopes are the same. My dreams are the same.

Dear sisters and brothers, I am not against anyone. Neither am I here to speak in terms of personal revenge against the Taliban or any other terrorists group. I am here to speak up for the right of education of every child. I want education for the sons and the daughters of all the extremists especially the Taliban.

I do not even hate the Talib who shot me. Even if there is a gun in my hand and he stands in front of me. I would not shoot him. This is the compassion that I have learnt from Muhammad-the prophet of mercy, Jesus Christ and Lord Buddha. This is the legacy of change that I have inherited from Martin Luther King, Nelson Mandela and Muhammad Ali Jinnah. This is the philosophy of non-violence that I have learnt from Gandhi Jee, Bacha Khan and Mother Teresa. And this is the forgiveness that I have learnt from my mother and father. This is what my soul is telling me, be peaceful and love everyone.

Dear sisters and brothers, we realise the importance of light when we see darkness. We realise the importance of our voice when we are silenced. In the same way, when we were in Swat, the north of Pakistan, we realised the importance of pens and books when we saw the guns.

The wise saying, “The pen is mightier than sword” was true. The extremists are afraid of books and pens. The power of education frightens them. They are afraid of women. The power of the voice of women frightens them. And that is why they killed 14 innocent medical students in the recent attack in Quetta. And that is why they killed many female teachers and polio workers in Khyber Pukhtoon Khwa and FATA. That is why they are blasting schools every day.  Because they were and they are afraid of change, afraid of the equality that we will bring into our society.

I remember that there was a boy in our school who was asked by a journalist, “Why are the Taliban against education?” He answered very simply. By pointing to his book he said, “A Talib doesn't know what is written inside this book.” They think that God is a tiny, little conservative being who would send girls to the hell just because of going to school. The terrorists are misusing the name of Islam and Pashtun society for their own personal benefits. Pakistan is peace-loving democratic country. Pashtuns want education for their daughters and sons. And Islam is a religion of peace, humanity and brotherhood. Islam says that it is not only each child's right to get education, rather it is their duty and responsibility.

Honourable Secretary General, peace is necessary for education. In many parts of the world especially Pakistan and Afghanistan; terrorism, wars and conflicts stop children to go to their schools. We are really tired of these wars. Women and children are suffering in many parts of the world in many ways. In India, innocent and poor children are victims of child labour. Many schools have been destroyed in Nigeria. People in Afghanistan have been affected by the hurdles of extremism for decades. Young girls have to do domestic child labour and are forced to get married at early age. Poverty, ignorance, injustice, racism and the deprivation of basic rights are the main problems faced by both men and women.

Dear fellows, today I am focusing on women's rights and girls' education because they are suffering the most. There was a time when women social activists asked men to stand up for their rights. But, this time, we will do it by ourselves. I am not telling men to step away from speaking for women's rights rather I am focusing on women to be independent to fight for themselves.

Dear sisters and brothers, now it's time to speak up.

So today, we call upon the world leaders to change their strategic policies in favour of peace and prosperity.

We call upon the world leaders that all the peace deals must protect women and children's rights. A deal that goes against the dignity of women and their rights is unacceptable.

We call upon all governments to ensure free compulsory education for every child all over the world.

We call upon all governments to fight against terrorism and violence, to protect children from brutality and harm.

We call upon the developed nations to support the expansion of educational opportunities for girls in the developing world.

We call upon all communities to be tolerant – to reject prejudice based on cast, creed, sect, religion or gender. To ensure freedom and equality for women so that they can flourish. We cannot all succeed when half of us are held back.

We call upon our sisters around the world to be brave – to embrace the strength within themselves and realise their full potential.

Dear brothers and sisters, we want schools and education for every child's bright future. We will continue our journey to our destination of peace and education for everyone. No one can stop us. We will speak for our rights and we will bring change through our voice. We must believe in the power and the strength of our words. Our words can change the world.

Because we are all together, united for the cause of education. And if we want to achieve our goal, then let us empower ourselves with the weapon of knowledge and let us shield ourselves with unity and togetherness.

Dear brothers and sisters, we must not forget that millions of people are suffering from poverty, injustice and ignorance. We must not forget that millions of children are out of schools. We must not forget that our sisters and brothers are waiting for a bright peaceful future.

So let us wage a global struggle against illiteracy, poverty and terrorism and let us pick up our books and pens. They are our most powerful weapons.

One child, one teacher, one pen and one book can change the world. 

Education is the only solution. Education First.

Redazione de Gliscritti | Martedì 29 Marzo 2016 - 10:23 am | | Default

La preparazione e la celebrazione delle feste pasquali. Riflessioni pastorali e indicazioni liturgiche (a cura dell’Ufficio liturgico della diocesi di Roma)

Riprendiamo sul nostro sito una nota dell’Ufficio liturgico della diocesi di Roma pubblicata nella Quaresima 2016. Ad essa abbiamo aggiunto, fra parentesi quadre, alcune ulteriori brevi annotazioni a cura dell’Ufficio catechistico della stessa diocesi. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Catechesi e liturgia nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (26/3/2016)

La nota che segue è pensata come aiuto ai sacerdoti e anche ai laici per la preparazione e celebrazione delle feste pasquali.
Si tratta di una esposizione il più possibile sintetica ed essenziale, che riporta le indicazioni proposte nel messale e nella lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali Paschalis sollemnitatis pubblicata il 16 gennaio 1988 dalla Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti.

LA PREPARAZIONE E LA CELEBRAZIONE DELLE FESTE PASQUALI

Il 16 gennaio 1988 la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti pubblicò una lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali intitolata Paschalis sollemnitatis. Si tratta di una lettera semplice e chiara, che costituisce tuttora l’ultimo aggiornamento valido in materia e che ha una forte attenzione alla pratica liturgica e alla valenza pastorale di una celebrazione ben preparata e compiuta. Ne suggeriamo una rilettura a tutti i sacerdoti e diaconi, invitandoli anche a trasmettere il testo a tutti i loro collaboratori per la liturgia (ministri istituiti, lettori di fatto, ministranti, salmisti e responsabili del coro e della musica, religiose, sacristi, ministri straordinari della comunione).

La celebrazione del Triduo è il vertice dell’anno liturgico. La ricchezza dei segni richiede disponibilità di persone competenti e generose ed esige una preparazione fatta con largo anticipo e meticolosa cura. Suggeriamo uno schema che, adeguatamente dettagliato e discusso col gruppo liturgico, può favorire la preparazione:

1/ Opzioni rituali (p. es.: quale forma di ingresso per la Domenica delle Palme? Come si fa la lavanda dei piedi il giovedì santo? Quale forma per l’ostensione della croce? Forma lunga o breve delle letture della veglia che prevedono doppia possibilità? Si battezzano adulti o bambini? … )

2/ Chi fa che cosa (sacerdoti, diaconi, accoliti, ministranti, lettori, chi ritira gli oli in cattedrale, chi suona le campane nei momenti prescritti, persone per la lavanda dei piedi, …)

3/ Suppellettile necessaria (acquisto, lucidatura, allestimento,…).

4/ Ornamentazione floreale del giovedì santo, sua rimozione, ornamentazione per la veglia (compresi il candelabro pasquale, il fonte battesimale ed, eventualmente, il portale, che è un segno che parla anche a chi passa davanti alla chiesa per caso).

5/ Animazione musicale e canora (quali canti per quali momenti delle singole celebrazioni, scelta dei cantori per il Passio, dei salmisti, del cantore del preconio se non c’è un diacono o presbitero cantore, quali parti può cantare il celebrante o il diacono…)

Si eviti di sommergere la ricchezza dei gesti e dei segni con troppe parole e lunghe monizioni esplicative. Basterà un intervento del commentatore prima dell’inizio delle singole celebrazioni in cui si richiami il senso della giornata e della celebrazione (oltre all’invito a spegnere il telefono). Una brevissima monizione può introdurre la lavanda dei piedi e la processione di reposizione, specificare la destinazione della questua, introdurre la liturgia battesimale. Altri interventi del commentatore vadano valutati con molta parsimonia.

Si approntino i sussidi liturgici necessari per favorire la partecipazione dei fedeli con il canto: tutti dovrebbero avere a disposizione testi e note delle acclamazioni, delle risposte ai salmi, dei canti corali…

DOMENICA DELLE PALME

«La processione sia una soltanto e fatta sempre prima della Messa con maggiore concorso di popolo, anche nelle ore vespertine, sia del sabato che della domenica. Per compierla si raccolgano i fedeli in qualche chiesa minore o in altro luogo adatto fuori della chiesa, verso la quale la processione è diretta. I fedeli partecipano a questa processione portando rami di palma o di altri alberi. Il sacerdote e i ministri precedono il popolo portando anch’essi le palme» (PS 29).

Si potrebbe prevedere una breve spiegazione ai fedeli sul senso della processione e dei rami benedetti che, se portati a casa, hanno valore di testimonianza e richiamo all’atteggiamento spirituale di adesione a Cristo che la celebrazione ha nutrito.

Possibilmente non si rinunci alla forma lunga della Passione. La forma breve è proposta dal Lezionario per celebrazioni e contesti particolari (con i bambini, negli ospedali, etc.). Il Vangelo, come sempre, si ascolta in piedi. Naturalmente, chi ha bisogno potrà sedersi, tuttavia è più opportuno non formulare inviti generalizzati a stare seduti, con il pretesto di un ascolto più favorevole.

«Il “Passio” viene cantato o letto dai diaconi o dai sacerdoti o, in loro mancanza, dai lettori, nel qual caso la parte di Cristo deve essere riservata al sacerdote.

La proclamazione della Passione si fa senza candelieri, senza incenso, senza il saluto al popolo e senza segnare il libro; solo i diaconi domandano la benedizione del sacerdote, come le altre volte prima del Vangelo». (PS 33)

Al ricordo della morte del Signore si fa una pausa e tutti si inginocchiano, stando rivolti all’altare.

FERIE DELLA SETTIMANA SANTA

Sono giorni particolarmente favorevoli per le celebrazioni comunitarie della Penitenza, per la formazione liturgica attraverso incontri per gli operatori pastorali (anche con l’aiuto dell’ufficio liturgico diocesano) e la preparazione prossima dei riti.

GIOVEDÌ SANTO - MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

Per tutto il giorno non è consentita la celebrazione di messe esequiali. Si può celebrare il solo rito esequiale con la Liturgia della Parola (il sacerdote indossa il piviale di colore violaceo).

«La Messa nella Cena del Signore si celebra nelle ore vespertine, nel tempo più opportuno per una piena partecipazione di tutta la comunità locale. Tutti i presbiteri possono concelebrarla, anche se hanno già concelebrato in questo giorno la Messa del crisma, oppure se sono tenuti a celebrare un’altra messa per il bene dei fedeli». (PS 46)

«Prima della celebrazione il tabernacolo deve essere vuoto. Le ostie per la comunione dei fedeli vengano consacrate nella stessa celebrazione della Messa. Si consacri in questa Messa pane in quantità sufficiente per oggi e per il giorno seguente.

Si riservi una cappella per la custodia del Santissimo Sacramento e si orni in modo conveniente, perché possa facilitare l’orazione e la meditazione: si raccomanda il rispetto di quella sobrietà che conviene alla Liturgia di questi giorni, evitando o rimuovendo ogni abuso contrario. Se il tabernacolo è collocato in una cappella separata dalla navata centrale, conviene che in essa venga allestito il luogo per la reposizione e l’adorazione». (PS 48-49)

Questa norma chiede di essere rettamente intesa e puntualmente applicata, anche rimuovendo alcune situazioni di vero e proprio abuso. Si chiede di riservare una cappella e un tabernacolo, ovvero il luogo della custodia abituale del SS. Sacramento, per quella che è una custodia con adorazione solenne protratta nella notte e finalizzata alla comunione nel giorno seguente. Non è prevista la possibilità di realizzare scenari sul modello del presepio che propongono allegorizzazioni di episodi della passione, del sacerdozio, dell’Eucaristia, della fedeltà dei discepoli o del tradimento di Giuda. Non si deve ricostruire l’ambiente del Cenacolo, né tentarne la trasposizione nell’oggi del quartiere.

[All’inizio della celebrazione possono essere accolti gli Olî santi. Cfr. il Sussidio Giovedì Santo. Presentazione e accoglienza degli Olî santi nella comunità parrocchiale]

Durante il canto dell’Inno “Gloria a Dio” si suonano le campane. Terminato il canto, non si suoneranno più fino alla Veglia pasquale […] Durante questo tempo l'organo e gli altri strumenti musicali possono usarsi soltanto per sostenere il canto. (PS 50)

La lavanda dei piedi è un rito facoltativo. Su richiesta di Papa Francesco, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nel gennaio 2016 ha mutato la rubrica del Messale che riservava questo gesto agli uomini. Secondo il prudente giudizio dei parroci si potranno quindi ammettere anche le donne. Si possono coinvolgere anche bambine e bambini ma non in modo esclusivo: sarebbe opportuno che il gruppo esprimesse opportunamente la variegata composizione di una comunità cristiana, che comprende anche anziani, poveri, sofferenti… Si valuti la collocazione, evitando ove possibile di utilizzare il presbiterio o di disporre panche o sedie davanti l’altare: si creerebbe un effetto palcoscenico che offusca la dignità dei luoghi liturgici e appiattisce il gesto, allontanando il gruppo dei fedeli dalla comunità di cui invece sono parte e immagine.

«Durante la processione delle offerte, mentre il popolo canta l'inno “Dov'è carità e amore”, possono essere presentati i doni per i poveri, specialmente quelli raccolti nel tempo quaresimale come frutti di penitenza» (PS 52). È l’unico caso in cui il Messale indica il canto per l’offertorio: un canto che peraltro è conosciuto da tutti i fedeli, è presente in tutti i repertori parrocchiali, in latino o in italiano, con varie melodie. Non è il caso di cercare altri canti.

Si raccomanda la processione dei doni portati dai fedeli: innanzitutto il pane e il vino per l’Eucaristia, quindi, se ci sono, doni veri per la chiesa e i poveri. I doni non destinati alla mensa eucaristica, come pure le offerte in denaro, non vanno mai deposti davanti all’altare, ma su una apposita credenza ben distinta dai luoghi liturgici. Si evitino monizioni esplicative dei doni (la processione è accompagnata dal canto) e doni simbolici o allegorici.

Si consiglia l’uso del Canone Romano, che il Messale riporta nel proprio del tempo con le varianti proprie del giorno.

Si valuti la possibilità di distribuire a tutti i fedeli la comunione sotto le due specie.

Terminata l’orazione dopo la Comunione, si forma la processione che, attraverso la Chiesa, accompagna il Santissimo Sacramento al luogo della reposizione. Apre la processione il crocifero; si portano le candele accese e l’incenso. Intanto si canta l’Inno “Pange lingua” o un altro canto eucaristico. La processione e la reposizione del Santissimo Sacramento non si possono fare in quelle chiese in cui il Venerdì santo non si celebra la Passione del Signore.

Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può mai fare l’esposizione con l’ostensorio, perché questa non è una esposizione del Santissimo Sacramento. Il tabernacolo o custodia non deve avere la forma di un sepolcro. Si eviti il termine stesso di “sepolcro”: infatti la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare “la sepoltura del Signore”, ma per custodire il pane eucaristico per la Comunione, che verrà distribuita il Venerdì nella Passione del Signore.

Si invitino i fedeli a trattenersi in chiesa, dopo la Messa nella Cena del Signore, per un congruo spazio di tempo nella notte, per la dovuta adorazione al Santissimo Sacramento solennemente lì custodito in questo giorno. Durante l’adorazione eucaristica protratta può essere letta qualche parte del Vangelo secondo Giovanni (Cap. 13-17). Dopo la mezzanotte si faccia l’adorazione senza solennità dal momento che ha già avuto inizio il giorno della Passione del Signore.

Questa adorazione notturna deve essere preparata con molta cura, predisponendo anche sussidi scritti per la preghiera personale. Nel caso di una animazione con preghiere e canti si lasci sempre uno spazio cospicuo di silenzio per la preghiera di adorazione personale. Dopo la mezzanotte, alla chiusura della chiesa, si valuti la possibilità di eliminare i segni della solennità, lasciando accanto alla custodia del SS. Sacramento la lampada eucaristica e una sobria ornamentazione floreale o verde (i germi di grano tradizionali, per esempio) e alcuni ceri.

[Si abbia cura di invitare ad una determinata ora anche i bambini dei gruppi dell’Iniziazione cristiana con i loro genitori per vivere almeno un breve momento di preghiera di adorazione con loro].

Terminata la Messa viene spogliato l’altare della celebrazione. È bene coprire le croci della chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della domenica V di Quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle immagini dei Santi. (PS 54-57)

[Il SS. Sacramento sarà custodito nella cappella a ciò predisposta fino alla Liturgia della Passione del Signore del venerdì Santo proprio per indicare la continuità delle azioni liturgiche]

VENERDÌ SANTO - PASSIONE DEL SIGNORE

Il Venerdì nella Passione del Signore è giorno di penitenza obbligatoria in tutta la Chiesa, da osservarsi con l’astinenza e il digiuno.

In questo giorno sono del tutto proibite le celebrazioni dei sacramenti, eccetto quelli della Penitenza e dell'Unzione degli infermi. Le esequie siano celebrate senza canto e senza il suono dell'organo e delle campane.

Si raccomanda che l’Ufficio delle letture e le Lodi mattutine di questo giorno siano celebrati con la partecipazione del popolo.

Si faccia la celebrazione della Passione del Signore nelle ore pomeridiane e specificamente circa le ore quindici nel pomeriggio. Per motivi pastorali si consiglia di scegliere l’ora più opportuna, in cui è più facile riunire i fedeli: per es. dal mezzogiorno o in ore più tarde, non oltre però le ore ventuno.

Si rispetti religiosamente e fedelmente la struttura dell’azione liturgica della Passione del Signore (Liturgia della Parola, Adorazione della Croce e santa Comunione), che proviene dall'antica tradizione della Chiesa. A nessuno è lecito apportarvi cambiamenti di proprio arbitrio. (PS 60-64)

Non è consentito unire (per fusione o giustapposizione) la celebrazione della Passione con i pii esercizi (via crucis, quadri viventi, processioni).

Nella Diocesi di Roma la celebrazione della Passione è normalmente posticipata al tardo pomeriggio, in modo da favorire la partecipazione dei fedeli.

Non si tema, anzi si favorisca il silenzio che scandisce i passaggi tra i vari momenti celebrativi: è lo sfondo su cui si stagliano sia la Parola di Dio, sia la parola orante della Chiesa, che rispettivamente annunciano e celebrano il grande mistero della croce.

«La Croce da mostrare al popolo sia sufficientemente grande e di pregio. Per questo rito si scelga la prima o la seconda formula indicata nel Messale. Non si ometta il silenzio riverente dopo ciascuna prostrazione, mentre il sacerdote celebrante rimane in piedi tenendo elevata la Croce.

Si presenti la Croce all’adorazione di ciascun fedele, perché l’adorazione personale della Croce è un

elemento molto importante in questa celebrazione. Si adoperi il rito dell’adorazione fatta da tutti contemporaneamente solo nel caso di un’assemblea molto numerosa.

Per l’adorazione si presenti un’unica Croce, nel rispetto della verità del segno. Durante l’adorazione della Croce si cantino le antifone, i “Lamenti del Signore” e l’Inno, che ricordano la storia della salvezza, oppure altri canti adatti». (PS 68-69)

«Dopo la celebrazione si procede alla spogliazione dell’altare, lasciando però la Croce con alcuni candelieri. Si prepari in chiesa un luogo adatto (per es. la cappella di reposizione dell'Eucaristia nel Giovedì Santo, rimuovendo i fiori), ove collocare la Croce del Signore, che i fedeli possano adorare e baciare e dove ci si possa trattenere in meditazione.

Per la loro importanza pastorale, non siano trascurati i pii esercizi, come la “Via Crucis”, le processioni della Passione e la memoria dei dolori della Beata Vergine Maria. I testi e i canti di questi pii esercizi siano in armonia con lo spirito liturgico. L’orario dei pii esercizi e quello della celebrazione liturgica siano composti in modo tale che l’azione liturgica risulti di gran lunga superiore per sua natura a tutti questi esercizi». (PS 71-72)

SABATO SANTO

«Il Sabato santo la Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua Passione e morte, la discesa agli inferi ed aspettando nella preghiera e nel digiuno la sua Risurrezione. È molto raccomandata la celebrazione dell’Ufficio delle letture e delle Lodi mattutine con la partecipazione del popolo. Dove ciò non è possibile, sia prevista una celebrazione della Parola di Dio o un pio esercizio rispondente al mistero di questo giorno. [Durante le Lodi del Sabato Santo è bene inserire la Redditio Symboli e l’Unione pre-battesimale dei catecumeni, cfr. su questo I Sussidio Rito per l'Unzione pre-battesimale e la Redditio Symboli]

Possono essere esposte nella chiesa per la venerazione dei fedeli l’immagine del Cristo crocifisso o deposto nel sepolcro o un’immagine della sua discesa agli inferi, che illustra il mistero del Sabato santo; ovvero l’immagine della beata Maria Vergine Addolorata.

Oggi la Chiesa si astiene del tutto dal celebrare il sacrificio della Messa. La santa Comunione si può dare solo in forma di Viatico. Si rifiuti la celebrazione delle nozze e degli altri sacramenti, eccetto quelli della Penitenza e dell’Unzione degli Infermi» (PS 73-75).

VEGLIA PASQUALE

L’intera celebrazione della Veglia pasquale si svolge di notte; essa quindi deve o cominciare dopo l’inizio della notte o terminare prima dell’alba della domenica (PS 78). Tale regola è di stretta interpretazione e pertanto è bene rimuovere gli abusi e le consuetudini contrarie, che talvolta si verificano, così da anticipare l’ora della celebrazione della veglia pasquale nelle ore in cui di solito si celebrano le Messe prefestive della domenica. (PS 78)

1/ IL LUCERNARIO

«Per quanto possibile, si prepari fuori della chiesa in luogo adatto il rogo per la benedizione del nuovo fuoco, la cui fiamma deve essere tale da dissipare veramente le tenebre e illuminare la notte.

Nel rispetto della verità del segno, si prepari il cero pasquale fatto di cera, ogni anno nuovo, unico, di grandezza abbastanza notevole, mai fittizio, per poter rievocare che Cristo è la luce del mondo» (PS 82).

Va definitivamente abbandonata la cattiva prassi del finto cero pasquale, ovvero un tubo di plastica che simula forma e colore di un cero, ma che non lo è, non si consuma e non finisce: questo è in aperto contrasto con le indicazioni liturgiche e contraddice ciò che viene cantato nel preconio (si pensi al riferimento all’ape madre che ha prodotto la cera che si consuma). Da evitarsi anche il ricorso ai vecchi ceri monumentali con la sovrapposizione di un piccolo cero, che è l’unica parte cambiata ogni anno.

2/ LA LITURGIA DELLA PAROLA

L’attenzione pastorale consente di limitare le letture dell’Antico Testamento fino a un minimo di tre, con obbligo di non omettere la narrazione della prima pasqua (terza lettura), ma si tratta di una concessione pastorale legata a situazioni particolari, non della normalità, che prevede le nove letture, seguite dai salmi cantati e dalle singole orazioni.

Il Gloria è un inno: come tale, soprattutto in questa notte, richiede il canto.

È opportuno che sia il celebrante stesso a intonare solennemente l’Alleluia pasquale. Il cantore prosegue con le strofe del salmo 118 al quale fa seguito immediatamente la proclamazione del Vangelo.

3/ LA LITURGIA BATTESIMALE

La Pasqua è per eccellenza e fin dall’antichità la notte battesimale. Occorre però distinguere tra l’iniziazione cristiana degli adulti, che nella veglia trova il suo luogo proprio, e il battesimo dei bambini. In quest’ultimo caso occorrerà individuare una famiglia sensibile, che conosca, apprezzi e viva con fede la celebrazione della veglia. Non è opportuno indicare alla famiglia un orario di massima (posteriore all’inizio della veglia) in cui arrivare per il momento del Battesimo.

I battesimi si compiono esclusivamente nel fonte battesimale, luogo liturgico fisso in ogni parrocchia. Il fonte non può essere sostituito da allestimenti posticci o bacili, approntati in presbiterio o nelle immediate vicinanze con il pretesto della visibilità dei riti: con i battezzandi vanno presso il fonte i padrini e i parenti più stretti. L’assemblea accompagna con la preghiera e il canto delle litanie la processione al fonte; può accogliere poi con una acclamazione festosa i neofiti che tornano al loro posto.

Il modo di inserire l’iniziazione cristiana degli adulti nella Veglia è indicato nel Messale Romano e nel RICA. Concretamente si può fare in questo modo: si seguono le indicazioni del Messale fino al n. 43. Si continua con RICA n. 217 (rinuncia) e si procede fino a RICA n. 213 (cresima dei neofiti). Quindi si riprende il Messale: il sacerdote pronuncia l’orazione a fine di p. 181 («Dio onnipotente, Padre del nostro Signore Gesù Cristo…»), e attraversa l’assemblea aspergendola con l’acqua benedetta mentre la schola e l’assemblea cantano Vidi aquam o altro canto adatto. [Cfr. su questo il Sussidio Libretto della liturgia battesimale nella celebrazione della veglia pasquale]

Per il battesimo dei bambini la sequenza rituale è simile ma le formule vanno prese dal RIBA, con alcune accortezze indicate nel medesimo rituale e nel messale:

- introducendo la rinuncia il sacerdote si rivolge a genitori e padrini (RIBA 64)

- si omette l’assenso alla professione di fede (n. 68)

- Al battesimo segue l’unzione postbattesimale con il crisma (n. 72)

- Non si fa la consegna del cero acceso

- Si tralascia il rito dell’effeta.

Per celebrare nella stessa veglia l’iniziazione degli adulti e il battesimo dei bambini occorrerà seguire attentamente le indicazioni per i due riti, evitando doppioni e incongruenze (soprattutto tra la cresima degli adulti e l’unzione postbattesimale dei bambini). L’Ufficio liturgico è disponibile per la consulenza del caso.

Tornato alla sede, il sacerdote introduce la preghiera universale, alla quale prendono parte i nuovi battezzati adulti (o i genitori e padrini dei bambini). Si abbia cura però che l’intenzione sui neofiti non sia letta da uno di loro.

I neofiti adulti porteranno i doni all’altare. Si possono coinvolgere in questo gesto anche le famiglie dei bambini battezzati.

Ove non ci siano battesimi, si benedice comunque il fonte. La formula per la benedizione dell’acqua lustrale è riservata alle chiese non parrocchiali (che non hanno il fonte).

4/ LA LITURGIA EUCARISTICA

I neo battezzati portino i doni all’altare.

Si valuti la possibilità di distribuire a tutti i fedeli, oltre che ai neofiti, la comunione sotto le due specie.

[Al termine della liturgia si invitino i padri  benedire la mensa familiare del giorno di Pasqua secondo le indicazioni suggerite nel Sussidio Preghiera per il pranzo di Pasqua con la benedizione della famiglia]

IL GIORNO DI PASQUA

Si suggerisce di sostituire l’atto penitenziale con la memoria battesimale e l’aspersione con l’acqua benedetta nella Veglia.

Il canto della sequenza è obbligatorio il giorno di Pasqua, facoltativo dell’ottava. L’assemblea rimane seduta. L’uso di alzarsi è retaggio del passato, quando la sequenza, che nasce come tropo dell’Alleluia, seguiva l’acclamazione. Ora che la precede, non ha senso alzarsi.

[Al termine della liturgia si invitino i padri  benedire la mensa familiare del giorno di Pasqua secondo le indicazioni suggerite nel Sussidio Preghiera per il pranzo di Pasqua con la benedizione della famiglia]

«Si raccomanda molto che soprattutto nell'ottava di Pasqua la santa Comunione sia portata agli infermi» (PS 104).

Ove possibile, è opportuno concludere la giornata di Pasqua con la celebrazione in canto dei vespri. A imitazione dell’antico uso lateranense, i vespri possono prevedere anche la processione al fonte dei neofiti.

Redazione de Gliscritti | Sabato 26 Marzo 2016 - 5:10 pm | | Default

1/ Così Facebook si sta mangiando il mondo digitale (e non è un'esagerazione), di Gigio Rancilio 2/ Come Facebook ha inghiottito il giornalismo, di Emily Bell

1/ Così Facebook si sta mangiando il mondo digitale (e non è un'esagerazione), di Gigio Rancilio

Riprendiamo da Avvenire del 18/3/2016 un articolo di Gigio Rancilio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educazione e media nella sezione Catechesi, scuola e famiglia

Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

Facebook si sta mangiando il mondo. Scritto così, senza punti interrogativi finali. Non è l'allarme di qualche catastrofista a buon mercato apparso sul web, ma il titolo di una lucida analisi tenuta all'Università di Cambridge da Emily Bell, direttrice e fondatrice del Tow Center for Digital Journalism della Columbia Journalism School. È una delle pensatrici più autorevoli del mondo digitale, con un curriculum da fare invidia a molti.

Bell non è la sola esperta a pensarla così. Facciamo però finta per un attimo che lei e tutti quelli che la pensano più o meno come lei siano dei catastrofisti. La prima cosa che ci viene in mente per contrastare la loro tesi è che non esiste solo Facebook e che, in fondo, non passiamo poi così tanto tempo sui social. Quindi il loro è un allarme ingiustificato.

La realtà, però, è un po' diversa. Innanzitutto – come svelano le statistiche – passiamo tutti sempre più tempo sui social. E quando diciamo social, dobbiamo anche ricordarci che l'80% di quel mondo è rappresentato da Facebook e dalle aziende del gruppo, come Instagram e Whatsapp. Probabilmente ve ne sarete già accorti, ma ogni volta che entriamo in Facebook è sempre più difficile uscirne. Perché troviamo sempre più spesso qualcosa per cui vale la pena fermarci ancora un attimo: un video, un post, un articolo, una foto, una novità... Di click in click passano i minuti. E le ore. Solo che a scegliere cosa vedere su Facebook non siamo noi (su questo punto ci torneremo fra un attimo).

Se pensate che Facebook sia "solo" un social (anzi, "il" social per antonomasia visto che è usato da quasi 2 miliardi di persone), vi sbagliate di grosso. Facebook è sempre di più un mondo. Che distribuisce notizie (e i media che non si adeguano alle sue "offerte" vengono piano piano nascosti alla vista degli utenti), musica, video (sempre più video, anche a 360 gradi) e giochi. Un dispensatore di pensieri e di emozioni. E fra poco anche di beni, visto che chiunque potrà aprire un negozio "social" sulla piattaforma dove vendere la propria merce, che si tratti di oggetti artigianali, viaggi, soggiorni in hotel o film. Insomma, piano piano, anche colossi come Amazon e Tripadvisor dovranno fare i conti con lo strapotere di Facebook.

«Il prossimo passo sarà socializzare con la realtà virtuale» ha spiegato recentemente Mark Zuckerberg, proprietario dell'impero (che controlla anche Instagram, Whatsapp e centinaia di altre aziende più piccole ma non meno importanti nel mondo digitale). E lo diceva a una platea che aveva sugli occhi un visore per la realtà virtuale e che quindi non si era nemmeno accorta che lui era entrato nella sala.

L'unico che non vedeva una realtà filtrata era Zuckerberg. Lui che, con i suoi algoritmi, decide ogni giorno quali post dei nostri amici farci vedere, quali articoli farci leggere, quali pubblicità mostrarci e così via. Il vero problema, in fondo, non è che Facebook provi a mangiarsi il mondo, ma che – come ha scritto su «Medium» Alessio Banini – «la più grande rete di comunicazione della nostra storia, al pari della sanità e dell'educazione, non dovrebbe mai essere demandata unicamente al settore privato». Solo che potrebbe essere già tardi. Facebook si è già mangiato un pezzo di mondo. Per non parlare di Google, Apple e di certi colossi cinesi.

2/ Come Facebook ha inghiottito il giornalismo, di Emily Bell

Riprendiamo da Il Post http://www.ilpost.it/2016/03/18/facebook-giornalismo/ del 18/3/2016 un testo di Emily Bell. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

Il panorama dei media, il dibattito pubblico e il settore del giornalismo stanno attraversando una trasformazione drammatica di cui quasi non ci rendiamo conto e che di sicuro non viene analizzata e discussa pubblicamente come invece sarebbe necessario. Negli ultimi cinque anni il mondo dell’informazione è cambiato forse più che nei cinque secoli passati.

La tecnologia fa passi enormi – la realtà virtuale, la pubblicazione di video in diretta, le nuove forme di intelligenza artificiale, la messaggistica istantanea, le app di chat – e stiamo assistendo a grandi trasformazioni sul fronte del potere e dei finanziamenti, che stanno mettendo il futuro dell’editoria nelle mani di poche persone che oggi controllano il destino di molti. I social media non hanno fagocitato solo il giornalismo: hanno fagocitato ogni cosa, dalle campagne politiche al sistema bancario, alle nostre storie personali, al settore dell’intrattenimento, della vendita al dettaglio, fino al governo e alla sicurezza. Il telefono che teniamo in tasca rappresenta la nostra finestra sul mondo.

Dal mio punto di vista, questa trasformazione è messaggera di opportunità entusiasmanti nel campo dell’istruzione, dell’informazione e  della connettività, ma porta con sé anche una serie di rischi esistenziali. Il giornalismo è una piccola attività secondaria per il core business delle piattaforme sociali, ma è di interesse centrale per i cittadini. Internet e i social media permettono al giornalismo di fare grandi cose, ma allo stesso tempo contribuiscono a rendere poco sostenibile economicamente il giornalismo stesso.

Due cose importanti sono già successe senza che facessimo abbastanza attenzione. Innanzitutto, gli editori nel settore dell’informazione hanno perso il controllo sulla sua distribuzione. Le aziende che sviluppano social media e piattaforme tecnologiche hanno realizzato quello che gli editori non avrebbero potuto costruire neanche se avessero voluto, prendendone di fatto il posto.

Le notizie oggi sono filtrate da algoritmi e piattaforme poco trasparenti e non prevedibili. Il settore dell’informazione sta abbracciando questa tendenza e prodotti nativi digitali come BuzzFeed, Vox e Fusion hanno costruito la loro forza partendo dal presupposto di lavorare nel nuovo sistema, e non contro di esso.

Le piattaforme e le aziende di social media più importanti, come Google, Apple, Facebook, Amazon, ma anche Twitter, Snapchat e le aziende di messaggistica istantanea emergenti hanno acquisito un potere enorme nel controllare chi-mostra-cosa-a-chi, e nel monetizzare la pubblicazione. In questo senso, oggi il potere è concentrato tanto quanto mai in passato. I network prediligono le economie di scala e i grandi numeri, e così la nostra cura minuziosa del pluralismo svanisce di colpo, mentre le dinamiche del mercato e le leggi antitrust su cui si fa affidamento per risolvere anomalie come questa stanno fallendo nel loro intento.

Responsabile di gran parte di questo fenomeno è la rivoluzione della tecnologia mobile, che ha fatto aumentare in modo straordinario il tempo che trascorriamo online, la quantità di cose che facciamo online e l’attenzione che dedichiamo ai social network. La struttura e le capacità dei nostri telefoni favoriscono le app, che promuovono comportamenti diversi. Una recente ricerca di Google attraverso il suo sistema operativo Android mostra che usiamo solo quattro o cinque app al giorno delle 25 che in media abbiamo sul telefono, e che passiamo la maggior parte del tempo sulla app di un social network. Al momento Facebook è più diffuso di ogni altro. La maggior parte degli adulti americani sono utenti di Facebook, e la maggioranza degli utenti si informa in qualche modo su Facebook: secondo i dati del centro studi Pew Research Center questo significa che circa il 40 per cento degli adulti americani considera Facebook una fonte di notizie.

Quindi, per ricapitolare: le persone usano sempre di più i loro smartphone per fare qualsiasi cosa, e usano soprattutto app, in particolare quelle social e di messaggistica come Facebook, WhatsApp, Snapchat e Twitter. La concorrenza per imporsi in questo mercato si è intensificata molto. Il vantaggio competitivo di queste aziende sta nel riuscire a mantenere gli utenti collegati all’app: più a lungo gli utenti usano la tua app, più sono le informazioni che si ottengono sul loro conto, che possono poi essere sfruttate per vendere spazi pubblicitari, aumentando così le entrate. La competizione per conquistare l’attenzione degli utenti è agguerrita. I “quattro cavalieri dell’apocalisse” – Google, Facebook, Apple e Amazon (cinque, se si conta anche Microsoft) – sono impegnati in una continua e accesa guerra per stabilire quali tecnologie, piattaforme, e addirittura quali ideologie avranno la meglio.

L’anno scorso Snapchat ha presentato l’app Discover dedicando dei canali a pubblicazioni come BuzzFeed, il Wall Street Journal, Cosmo e il Daily Mail. Facebook ha lanciato Instant Articles e ha annunciato di recente che ad aprile il servizio sarà aperto a tutti. Apple e Google si sono accodate presto, lanciando rispettivamente Apple News e Accelerated Mobile Pages . Per non rischiare di rimanere esclusa Twitter ha introdotto Moments, che raccoglie i contenuti più discussi sulla piattaforma per fornire un resoconto completo dei fatti del momento. Nel corso dell’ultimo anno giornalisti ed editori hanno beneficiato inaspettatamente di questa competizione. Il fatto che aziende tecnologiche con grandi risorse stiano progettando sistemi per la distribuzione di notizie è molto positivo: ma mentre si apre una nuova porta, un’altra si sta chiudendo. Nello stesso momento in cui gli editori venivano spinti a pubblicare direttamente sulle app e sui nuovi sistemi, il che permetterebbe loro di far crescere rapidamente il numero dei lettori su dispositivi mobili, Apple annunciava che avrebbe permesso di scaricare dal suo App Store dei software di ad-blocking che permettono di bloccare gli annunci pubblicitari. In altre parole, se come editore la vostra alternativa a pubblicare attraverso una di queste nuove piattaforme era guadagnare dalla pubblicità sui dispositivi mobili, chiunque abbia un iPhone ora può bloccare quelle pubblicità e il loro fastidioso sistema di registrazione dei dati. Mentre gli articoli che compaiono su piattaforme come Discover di Snapchat o Instant Articles di Facebook sono in gran parte – non del tutto – immuni agli ad-blocker. Di fatto, la già esigua quota di pubblicità digitale che gli editori possono gestire autonomamente su dispositivi mobili viene potenzialmente eliminata. Naturalmente si potrebbe aggiungere che gli editori se la sono cercata riempiendo le loro pagine con annunci invasivi che nessuno voleva.

Gli editori commerciali hanno tre alternative. La prima è aumentare la quantità di contenuti pubblicati direttamente su app come quella di Facebook e sul suo servizio Instant Articles, dove il blocco degli annunci non è impossibile, ma è più difficile che sul browser. Mi ha raccontato un editore: «Pensando ai ricavi che possono arrivare dal mobile, anche se dessimo tutto direttamente a Facebook sarebbe comunque un guadagno». Tuttavia i rischi derivanti dalla dipendenza da un solo distributore sono molto alti.

La seconda possibilità è sviluppare business diversi e altre fonti di entrate lontano dalle piattaforme suddette, accettando il fatto che per gli editori accettare di poter raggiungere un pubblico più ampio attraverso queste reti non solo non è d’aiuto, ma peggiora la qualità del giornalismo: e quindi indirizzandosi sul criterio dei coinvolgimento del proprio pubblico piuttosto che sulla quantità del traffico. I servizi di registrazione e abbonamento sono le opzioni più comuni in questo contesto. Ma, a complicare le cose, richiedono un brand dall’identità forte verso cui i lettori si sentano affini e contenuti competitivi. In un tempo in cui i contenuti sono distribuiti in misura massiccia questo è molto più difficile per il mondo dell’informazione rispetto a chi fa prodotti tangibili. Anche nei pochi casi in cui funzionano, gli abbonamenti non riescono comunque a compensare le mancate entrate pubblicitarie.

La terza alternativa è produrre contenuti pubblicitari che non sembrino tali, che non possono essere rilevati dai software per il blocco degli annunci. Una volta erano definiti “pubbliredazionali” o “sponsorizzazioni”, mentre oggi sono conosciuti come native advertising: negli Stati Uniti rappresentano ormai quasi il 25 per cento della pubblicità display digitale. Siti online come BuzzFeed, Vox e ibridi come Vice hanno rivoluzionato il modello editoriale trasformandosi in sostanza in agenzie pubblicitarie (mentre quelle tradizionali rischiano di fallire). Trattano direttamente con gli inserzionisti, producono i video virali e le GIF che poi si diffondono a macchia d’olio sulle nostre pagine Facebook, per poi destinarle a tutte le persone che in precedenza avevano messo un like o avevano condiviso altri contenuti di quello stesso editore.

La conclusione logica a cui sono giunti diversi editori è stata investire in una propria app. Ma come si è visto, per funzionare anche le app devono seguire gli standard di distribuzione propri di altri servizi. E le risorse per investire nella propria app e aggiornarla sono richieste in un momento storico in cui il settore pubblicitario è in difficoltà soprattutto sulla carta stampata, ma non cresce nemmeno su internet. Come raggiungere il difficile equilibrio tra dove andare e come andarci è probabilmente la decisione più complicata che gli editori tradizionali sono costretti a prendere in termini di investimenti.

Alcuni editori raccontano che con Instant Articles stanno riuscendo a ottenere un traffico dalle tre alle quattro volte superiore al previsto. Per gli editori la tentazione di puntare tutto su queste reti e iniziare a creare contenuti e storie che funzionino sui social sta diventando più forte. Immagino che sempre più società abbandoneranno del tutto risorse di produzione, tecnologia e persino i settori che si occupano di pubblicità per delegare tutto a piattaforme terze nel tentativo di sopravvivere. Ma è una strategia molto rischiosa: in questo modo gli editori perdono il controllo del rapporto con i loro utenti e del percorso che le loro storie fanno per arrivare a destinazione. Ogni giorno miliardi di utenti e centinaia di migliaia di articoli, foto e video sono pubblicati online, e le piattaforme social devono ricorrere ad algoritmi per tentare di capire quali contenuti sono importanti, recenti e popolari, e stabilire chi-deve-vedere-cosa. E a noi non resta che fidarci: in realtà, sappiamo poco o niente di come ogni rete classifica le notizie. Se Facebook, per esempio, decidesse che i video funzionano meglio degli articoli, e vanno promossi di più, noi non potremmo scoprirlo a meno che Facebook non scelga di dircelo o che non lo capiamo da soli. È un settore non ancora regolato, e i metodi di lavoro di questi sistemi non sono trasparenti.

Il fatto che una classe di persone tecnicamente capaci, con coscienza sociale, successo finanziario e grande energia come Mark Zuckerberg stia appropriandosi delle funzioni e del potere economico dai vecchi guardiani compassati, arroccati politicamente, e a volte corrotti a cui eravamo abituati in passato, porta grandi vantaggi. Ma dobbiamo essere consapevoli della profondità di questo cambiamento culturale, economico e politico. Stiamo cedendo il controllo di parti importanti della nostra vita pubblica e privata a una manciata di persone che non sono state elette per questo e non rispondono del loro operato.

Abbiamo bisogno di norme che garantiscano che tutti i cittadini abbiano pari accesso alle reti di opportunità e servizi di cui hanno bisogno. Dobbiamo anche poter essere sicuri che tutti i discorsi e le espressioni pubbliche siano trattate in modo trasparente, se non è possibile trattarle in modo uguale. Sono precondizioni essenziali per una democrazia che funzioni. Affinché questa accada bisogna almeno essere d’accordo sul fatto che i responsabili in questi settori stanno cambiando. Chi ha fondato queste piattaforme non è partito con l’idea di sostituirsi alla stampa libera, ma anzi è preoccupato all’idea che questo possa diventare il risultato del loro successo tecnologico. Oggi a queste società viene contestato di aver privilegiato con cura i settori più redditizi del processo editoriale e di aver trascurato il business più costoso della creazione di giornalismo di qualità. Se esperimenti nascenti come Instant Articles porteranno a una maggiore integrazione con il giornalismo, potremo assistere a un cambiamento significativo dei costi di produzione, soprattutto in termini di tecnologia e vendita di spazi pubblicitari.

Il nuovo processo di mediazione dell’informazione – che una volta si pensava sarebbe diventata totalmente democratica grazie all’evoluzione del web aperto – probabilmente peggiorerà i meccanismi di finanziamento del giornalismo, prima che riesca a migliorarli. Se si considerano gli scenari futuri della pubblicità e gli aggressivi obiettivi di crescita che Apple, Facebook, Google e le altre società devono soddisfare per appagare Wall Street, è probabile che – a meno che le piattaforme social non decidano di destinare molti più soldi alla fonte – produrre notizie diventi un’operazione senza fini di lucro, piuttosto che un motore del capitalismo.

Per essere sostenibili, le società di news e di giornalismo dovranno ora modificare radicalmente i loro investimenti. Molto probabilmente la prossima infornata di società di news fonderà le proprie attività sulla distribuzione di storie, talenti e prodotti su diversi dispositivi e piattaforme. Mentre questa transizione è in corso, la pubblicazione di contenuti giornalistici direttamente su Facebook e altre piattaforme diventerà la regola, invece che l’eccezione. Anche l’attività di aggiornamento di un sito web potrebbe venire abbandonata in favore di un’iperdistribuzione. La distinzione tra piattaforme ed editore sarà definitivamente superata.

Per quanto si pensino società tecnologiche, i grandi gruppi citati prendono decisioni fondamentali anche per molti altri campi come l’accesso alle piattaforme, la fisionomia del giornalismo e del dibattito, l’inclusione o la censura di determinati contenuti o di diversi editori. Il destino degli editori tradizionali è una questione molto meno importante rispetto al tipo di società informata che vogliamo creare e a quale sia il modo per costruirla.

Questo articolo, pubblicato sul sito della Columbia Journalism Review, è una versione leggermente rivista di un intervento tenuto da Emily Bell a Cambridge, dal titolo “La fine delle notizie come le conosciamo: come Facebook ha inghiottito il giornalismo”.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 25 Marzo 2016 - 11:49 pm | | Default
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Papa Francesco, quando predica contro una teologia complicata, non predica contro la teologia di papa Benedetto, bensì contro l’astrattezza di noi catecheti, teologi e pastoralisti. Nota di Andrea Lonardo

Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

A chi si rivolgono le critiche e le correzioni fraterne di papa Francesco su di una teologia troppo astratta, lontana dalla vita, incomprensibile per il popolo di Dio e per chi non crede?

Alcuni a torto ritengono che con queste parole il papa voglia segnare una svolta rispetto al suo predecessore. Ma l’affetto da lui sempre dimostrato per papa Benedetto smentisce - se proprio ce ne fosse bisogno, tanto la smentita è ovvia – questa ipotesi. Per dovere di cronaca si può aggiungere che lo sforzo fatto da papa Benedetto perché la teologia divenisse sempre più semplice e chiara è stato importantissimo e, aiutato dalla grazia del ministero papale, le sue omelie e le sue catechesi sono diventate cibo quotidiano di tanti catechisti e semplicissimi cristiani. È come se la grazia del ministero papale gli avesse consentito di semplificare le tante riflessioni accademiche prodotte in passato. Non si deve mancare poi di menzionare l’enciclica Lumen fidei, per la quale si è parlato di una “scrittura a quattro mani”. Mai encicliche papali erano partite dalle periferie tanto quanto le tre sulle virtù teologali, le prime due di Benedetto e la terza di Francesco: in tutte si intesse un dialogo con l’uomo moderno e con i suoi maestri anche quelli decisamente anti-cristiani, in tutte non si citano solo brani biblici, padri e dottori della Chiesa e santi, ma anche uomini alla “periferia” della fede.

Ma allora chi papa Francesco vuole provocare oggi? A chi si rivolge se le sue parole non sono rivolte ovviamente alla “teologia” di Benedetto XVI?

Ad un primo livello, è necessario ed importante dare una risposta ampia: tutti! La visione di una Chiesa che non disprezzi nessuno, che sia vicina alla gente semplice, che non trascuri, anzi metta al centro, le famiglie semplici delle nostre parrocchie e non gli esperti della fede, non gli intellettuali della fede, non i sempre “praticanti” e “sempre commentanti” della fede, vuole provocare tutti. La proposta di mettere al centro della Chiesa chi è povero, chi è nel peccato, chi ha in casa un figlio disabile, chi non ha gli strumenti per compiere complicati itinerari iniziatici è un chiaro invito a vedere la Chiesa e la vita da un diverso punti di vista.

Ma, ad un secondo livello, dobbiamo avere il coraggio di affermare che la proposta di papa Francesco riguarda noi catecheti, noi pastoralisti, noi teologi. Proprio quella visione di Chiesa di popolo deve aiutarci a porre uno stop a visioni troppo paludate, troppo accademiche, troppo complicate, troppo metodologiche, per riportarci alla vita reale e semplice delle nostre comunità cristiane e delle nostre famiglie. Ci invita a farla finita con relazioni eccessivamente accademiche, infarcite di citazioni di documenti precedenti e di citazioni magisteriali, di power-point e di classificazioni per tornare a parlare con il cuore in mano e con un po’ di passione.

Ci invita ad abbandonare tutto ciò che è troppo complicato, per un rapporto più semplice e diretto con le persone che si riavvicinano alla fede.

È incredibile che papa Francesco “governi” con la semplice omelia dei giorni feriali e con i gesti di abbracciare, baciare e incontrare chiunque.

È una testimonianza, la sua, di una vita vicina al popolo di Dio più semplice, vicina a quella gente semplice che è sempre disprezzata e messa da parte. Ed è una testimonianza della forza della semplice omelia e della semplice celebrazione liturgica, senza che si appartenga a nessun gruppo, senza che si metta in atto alcuna tecnica di dinamica di gruppo, senza che si faccia uno stage di lectio divina o di linguaggio narrativo o di analisi del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, senza che si ricorra al feedback ed alla verifica, tutte cose buone, ma che vengono dopo.

Per vivere da cristiani, ci ricorda il papa, non sono di per sé necessari piccoli gruppi, équipes di accompagnamento, cellule particolari di un tipo o di un altro, comunità di una qualità o di un’altra: serve che la vita semplice di ogni giorno, la vita di famiglia, la vita di lavoro, l’incontro con i poveri, la vita di discernimento sui fatti del mondo e della cultura, entri in contatto con Gesù, con il suo vangelo e con i suoi sacramenti.

Ecco le chiavi per un rinnovamento dell’Iniziazione cristiana - pochi registrano nelle loro pubblicazioni che il papa  non utilizza mai termini come “stile catecumenale” che per la gente semplice cui lui ci manda non hanno grande significato, perché ciò che per loro conta innanzitutto è l’atteggiamento misericordioso di accoglienza e quella fraternità che respirano o che manca loro non appena si affacciano in una parrocchia.

Mettere al centro la comunità cristiana che celebra, mettere al centro la domenica, con i suoi canti, la sua liturgia della Parola, l’incontro con tutti fratelli, “con i belli e con i brutti”, esattamente come avveniva in antico, quando i catecumeni andavano a messa ancor prima di essere battezzati (uscivano solo alla preghiera dei fedeli, ma tutte le domeniche erano lì).

Ed insieme stare vicino alla gente così come essa è, “baciandola e abbracciandola”, senza essere troppo fiscali nell’impostazione del cammino, nelle sue tappe, nel suo ordine. Sapendo che, sia per i genitori che chiedono il Battesimo dei figli sia per gli adulti che chiedono di essere battezzati, tutto è molto più semplice di come a noi sembra. Si tratta di mostrare loro la novità della fede cristiana e la sua sensatezza. E se ne fa esperienza incontrando la comunità cristiana tutta intera che già vive ogni domenica la sua comunione con il Signore.

L’invito del papa non è ad organizzare ancora di più, bensì piuttosto a semplificare gli itinerari, a non essere troppo fiscali ed impositivi nelle nostre richieste. È l’invito a saper da un lato chiudere un occhio e, dall’altro, a saper offrire possibilità piene di calore e di contenuti, piene di fede e di carità perché liberamente il cuore accetti di approfittarne.

Mi permetto di aggiungere anche una notazione personale, per motivare ulteriormente quella fiducia verso la gente semplice cui il papa ci invita. La mia esperienza prima di vice-parroco – 9 anni con i giovani dalle medie al post-università - e poi da parroco – con le famiglie dell’Iniziazione cristiana - mi ha aiutato a vedere quanto interesse ci sia da parte di bambini, adolescenti, giovani ed adulti, solo che si cammini con loro offrendogli la proposta di crescere nella fede senza schemi troppo rigidi e pre-determinati, semplicemente mettendo al centro l’eucarestia domenicale offerta a tutti, vero cuore del cammino, ed accompagnandola con catechesi per fasce di età, anch’esse aperte a tutti senza distinzione di preparazione o di anni di cammino, con campi estivi e ritiri, proposte di servizio ai poveri, proposte per un servizio culturale, disponibilità al dialogo personale ed alla direzione spirituale ed alla confessione. Solo per fornire un esempio, cfr. Due lettere sul cammino di un gruppo giovanile in parrocchia, di Andrea Lonardo.

Merita soffermarsi  e soffermarsi ancora sulle parole testuali delle provocazioni del papa ai teologi, ai pastoralisti ed ai catecheti. Non dobbiamo pensare di averle già digerite. Esse indicano chiaramente una linea al nostro lavoro di catecheti, teologi e pastoralisti che non possiamo disattendere.

Voglio ricordare innanzitutto l’invito ad una “chiesa di popolo” rivolto al Convegno della Chiesa italiana a Firenze, proprio perché rivolte direttamente a noi d’Italia: «La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte»[1].

Richiamo poi alcuni passaggi del discorso alla comunità dell’Università Gregoriana:

«Il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori, è disgustoso. […] Il fine degli studi in ogni Università pontificia è ecclesiale. La ricerca e lo studio vanno integrati con la vita personale e comunitaria, con l’impegno missionario, con la carità fraterna e la condivisione con i poveri, con la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore. I vostri Istituti non sono macchine per produrre teologi e filosofi; sono comunità in cui si cresce, e la crescita avviene nella famiglia» (Udienza di papa Francesco alle Comunità della Pontificia Università Gregoriana, del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale, 10/4/2014).

Allo stesso modo siamo chiamati a riflettere sui passaggi dell’omelia nella Messa Crismale del Giovedì Santo 2016: «Come sacerdoti, noi ci identifichiamo con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono. Ma ricordiamo anche che ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate. Sentiamo che la nostra anima se ne va assetata di spiritualità, ma non per mancanza di Acqua Viva – che beviamo solo a sorsi –, ma per un eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”».  

In Evangelii Gaudium papa Francesco aveva già scritto:

«È necessario che i teologi abbiano a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una teologia da tavolino» (EG 133).

E ancora, riferendosi all’omelia:

«Diceva già Paolo VI che i fedeli “si attendono molto da questa predicazione, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta”. La semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev'essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).

La forza delle nostre parrocchie sta proprio nella loro semplicità, nel loro essere di tutti, nel loro non farsi fagocitare da progetti particolari, per quanto validi. La parrocchia è di tutti, è del popolo semplice di Dio e tale deve restare. Chiunque, per il solo fatto di essere battezzato, ha diritto ad essere accompagnato anche se non volesse appartenere ad alcun gruppo.

Anzi la parrocchia si offre anche a chi non è battezzato, come punto di riferimento e segno della Chiesa che accoglie e apre le porte.

Tutto questo non vuol dire che gruppi, associazioni, movimenti, cammini, ecc. ecc. non siano benvenuti e benedetti. Ma piuttosto che tutti costoro sono chiamati a non identificarsi con la Chiesa, bensì a servirla, a servire quella Chiesa che è tutto il popolo di Dio, maturo ed immaturo, presente in quel territorio.

A maggior ragione questo non vuol dire abbassare il livello della proposta, perché esso è anzi oggi incredibilmente già troppo basso. Il popolo di Dio semplice non è però stupido ed è attratto dalla liturgia ben celebrata con tutta la comunità che vi partecipa. È estremamente attento alla qualità della predicazione e della catechesi, essendo assolutamente in grado di riconoscere dove risuona la Parola di Dio che illumina la vita e dove vengono pronunciate parole banali, ripetitive ed insignificanti. È in grado di percepire immediatamente lo stile di fraternità e di carità di una comunità, dove ognuno ha interesse per gli altri e per i piccoli, ed è estremamente generoso nel coinvolgersi nel servizio.

Si tratta allora non di “abbassare l’asticella della proposta cristiana”, quanto di svincolarla dalle complicatezze proprie di una o di un’altra proposta catechetica o pastorale. Si tratta invece di mettere in risalto, fra i criteri di un vero cammino cristiano, l’attenzione non solo a chi partecipa a gruppi con ritmi impegnativi , ma proprio a tutti, l’attenzione a chi si avvicina anche solamente alla Messa o anche solamente per chiedere i sacramenti per i figli, o ancora a chi si avvicina e basta senza nemmeno sapere all’inizio perché. Si tratta di partire da ciò che esiste nel cuore degli uomini e non pretendere che le persone seguano il tutto della nostra proposta o altrimenti siano trattate da estranee.

Note al testo

[1] Cfr. su questo Un cristianesimo “popolare”. La chiara proposta di papa Francesco alla Chiesa italiana. Breve nota di Andrea Lonardo.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 25 Marzo 2016 - 11:26 pm | | Default

Educare alle "opere di misericordia". File audio di una relazione di Andrea Lonardo presso l'Ostello don Luigi Di Liegro alla stazione Termini della Caritas diocesana di Roma

Riprendiamo sul nostro sito i file audio di alcuni interventi dell'incontro tenutosi presso l'Ostello don Luigi Di Liegro della Caritas diocesana, il 23/1/2016. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

Introduzione e passaggio della Porta Santa, di don Giorgio Gabrielli

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Educare alle "opere di misericordia", di don Andrea Lonardo

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Redazione de Gliscritti | Venerdì 25 Marzo 2016 - 11:24 pm | | Default

Dal santuario alla parrocchia. File audio di una relazione tenuta da Andrea Lonardo agli animatori dei pellegrinaggi

Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una relazionedi don Andrea Lonardo tenuta il 20/1/2016 in occasione del Giubileo degli animatori dei pellegrinaggi, prersso la chiesa di Sant'Antonio in via Merulana. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

La colazione a Villa Mattei nel pellegrinaggio 
di San Filippo Neri alle sette chiese. Tela custodita
presso l'archivio di Santa Maria in Vallicella/Chiesa Nuova

 

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Redazione de Gliscritti | Venerdì 25 Marzo 2016 - 11:23 pm | | Default

1/ «Siamo ciechi, privi della bella luce della fede, per un eccesso di teologie complicate». L’omelia di papa Francesco nella Messa crismale 2016 2/ «Gesù e Giuda: due gesti. Due gesti anche oggi qui. Un gesto: tutti noi insieme: musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici, ma fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace, integrati. Tre giorni fa, un gesto di guerra, di distruzione, in una città dell’Europa, di gente che non vuol vivere in pace. Ma dietro a quel gesto, come dietro a Giuda, c’erano altri». L’omelia di papa Francesco al CARA di Castelnuovo di Porto (Centro di accoglienza per richiedenti asilo)

1/ «Siamo ciechi, privi della bella luce della fede, per un eccesso di teologie complicate». L’omelia di papa Francesco nella Messa crismale 2016

Riprendiamo sul nostro sito l'omelia tenuta da papa Francesco nella celebrazione della Messa crismale nel Giovedì Santo 24/3/2016, celebrata nella basilica di San Pietro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

Ascoltando dalle labbra di Gesù, dopo la lettura del passo di Isaia, le parole «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21), nella sinagoga di Nazareth avrebbe ben potuto scoppiare un applauso. E poi avrebbero potuto piangere dolcemente, con intima gioia, come piangeva il popolo quando Neemia e il sacerdote Esdra leggevano il libro della Legge che avevano rinvenuto ricostruendo le mura.

Ma i Vangeli ci dicono che sorsero sentimenti opposti nei compaesani di Gesù: lo allontanarono e gli chiusero il cuore. All’inizio «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); ma dopo, una domanda insidiosa si fece largo: «Non è costui il figlio di Giuseppe, il falegname?». E infine: “Si riempirono di sdegno” (Lc 4,28). Volevano buttarlo giù dalla rupe... Si adempiva così quello che il vecchio Simeone aveva profetizzato alla Madonna: sarà «segno di contraddizione» (Lc 2,34). Gesù, con le sue parole e i suoi gesti, fa in modo che si riveli quello che ogni uomo e donna porta nel cuore.

E lì dove il Signore annuncia il vangelo della Misericordia incondizionata del Padre nei confronti dei più poveri, dei più lontani e oppressi, proprio lì siamo chiamati a scegliere, a «combattere la buona battaglia della fede» (1 Tm 6,12). La lotta del Signore non è contro gli uomini ma contro il demonio (cfr Ef 6,12), nemico dell’umanità. Però il Signore «passa in mezzo» a coloro che cercano di fermarlo “e prosegue il suo cammino” (cfr Lc 4,30). Gesù non combatte per consolidare uno spazio di potere. Se rompe recinti e mette in discussione sicurezze è per aprire una breccia al torrente della Misericordia che, con il Padre e lo Spirito, desidera riversare sulla terra. Una Misericordia che procede di bene in meglio: annuncia e porta qualcosa di nuovo: risana, libera e proclama l’anno di grazia del Signore.

La Misericordia del nostro Dio è infinita e ineffabile, ed esprimiamo il dinamismo di questo mistero come una Misericordia “sempre più grande”, una Misericordia in cammino, una Misericordia che ogni giorno cerca il modo di fare un passo avanti, un piccolo passo in là, avanzando sulla terra di nessuno, dove regnavano l’indifferenza e la violenza.

Questa è stata la dinamica del buon Samaritano, che “praticò la misericordia” (cfr Lc 10,37): si commosse, si avvicinò all’uomo tramortito, bendò le sue ferite, lo portò alla locanda, si fermò quella notte e promise di tornare a pagare ciò che si sarebbe speso in più. Questa è la dinamica della Misericordia, che lega un piccolo gesto con un altro, e senza offendere nessuna fragilità, si estende un po’ di più nell’aiuto e nell’amore. Ciascuno di noi, guardando la propria vita con lo sguardo buono di Dio, può fare un esercizio con la memoria e scoprire come il Signore ha usato misericordia con noi, come è stato molto più misericordioso di quanto credevamo, e così incoraggiarci a chiedergli che faccia un piccolo passo in più, che si mostri molto più misericordioso in futuro. «Mostraci, Signore, la tua misericordia» (Sal 85,8). Questo modo paradossale di pregare un Dio sempre più misericordioso aiuta a rompere quegli schemi ristretti nei quali tante volte incaselliamo la sovrabbondanza del suo Cuore. Ci fa bene uscire dai nostri recinti, perché è proprio del Cuore di Dio traboccare di misericordia, straripare, spargendo la sua tenerezza, in modo tale che sempre ne avanzi, poiché il Signore preferisce che si perda qualcosa piuttosto che manchi una goccia, preferisce che tanti semi se li mangino gli uccelli piuttosto che alla semina manchi un solo seme, dal momento che tutti hanno la capacità di portare frutto abbondante, il 30, il 60, e fino al cento per uno.

Come sacerdoti, siamo testimoni e ministri della Misericordia sempre più grande del nostro Padre; abbiamo il dolce e confortante compito di incarnarla, come fece Gesù, che «passò beneficando e risanando» (At 10,38), in mille modi, perché giunga a tutti. Noi possiamo contribuire ad inculturarla, affinché ogni persona la riceva nella propria personale esperienza di vita e così la possa comprendere e praticare – creativamente – nel modo di essere proprio del suo popolo e della sua famiglia.

Oggi, in questo Giovedì Santo dell’Anno Giubilare della Misericordia, vorrei parlare di due ambiti nei quali il Signore eccede nella sua Misericordia. Dal momento che è Lui che ci dà l’esempio, non dobbiamo aver paura di eccedere anche noi: un ambito è quello dell’incontro; l’altro è quello del suo perdono che ci fa vergognare e ci dà dignità.

Il primo ambito nel quale vediamo che Dio eccede in una Misericordia sempre più grande, è quello dell’incontro. Egli si dà totalmente e in modo tale che, in ogni incontro, passa direttamente a celebrare una festa. Nella parabola del Padre Misericordioso rimaniamo sbalorditi di fronte a quell’uomo che corre, commosso, a gettarsi al collo di suo figlio; vedendo come lo abbraccia e lo bacia e si preoccupa di mettergli l’anello che lo fa sentire uguale, e i sandali propri di chi è figlio e non dipendente; e poi come mette tutti in movimento e ordina di organizzare una festa. Nel contemplare sempre meravigliati questa sovrabbondanza di gioia del Padre, al quale il ritorno del figlio permette di esprimere liberamente il suo amore, senza resistenze né distanze, noi non dobbiamo avere paura di esagerare nel nostro ringraziamento. Il giusto atteggiamento possiamo prenderlo da quel povero lebbroso che, vedendosi risanato, lascia i suoi nove compagni che vanno a compiere ciò che ha ordinato Gesù e torna ad inginocchiarsi ai piedi del Signore, glorificando e rendendo grazie e Dio a gran voce.

La misericordia restaura tutto e restituisce le persone alla loro dignità originaria. Per questo il ringraziamento effusivo è la risposta giusta: bisogna entrare subito alla festa, indossare l’abito, togliersi i rancori del figlio maggiore, rallegrarsi e festeggiare… Perché solo così, partecipando pienamente a quel clima di celebrazione, si può poi pensare bene, si può chiedere perdono e vedere più chiaramente come poter riparare il male commesso. Può farci bene domandarci: dopo essermi confessato, festeggio? O passo rapidamente ad un’altra cosa, come quando dopo essere andati dal medico, vediamo che le analisi non sono andate tanto male e le rimettiamo nella busta e passiamo a un’altra cosa. E quando faccio l’elemosina, dò tempo a chi la riceve di esprimere il suo ringraziamento, festeggio il suo sorriso e quelle benedizioni che ci danno i poveri, o proseguo in fretta con le mie cose dopo “aver lasciato cadere la moneta”?

L’altro ambito nel quale vediamo che Dio eccede in una Misericordia sempre più grande, è il perdono stesso. Non solo perdona debiti incalcolabili, come al servo che lo supplica e poi si dimostrerà meschino con il suo compagno, ma ci fa passare direttamente dalla vergogna più vergognosa alla dignità più alta senza passaggi intermedi. Il Signore lascia che la peccatrice perdonata gli lavi familiarmente i piedi con le sue lacrime. Appena Simon Pietro gli confessa il suo peccato e gli chiede di allontanarsi, Lui lo eleva alla dignità di pescatore di uomini. Noi, invece, tendiamo a separare i due atteggiamenti: quando ci vergogniamo del peccato, ci nascondiamo e andiamo con la testa bassa, come Adamo ed Eva, e quando siamo elevati a qualche dignità cerchiamo di coprire i peccati e ci piace farci vedere, quasi pavoneggiarci.

La nostra risposta al perdono sovrabbondante del Signore dovrebbe consistere nel mantenerci sempre in quella sana tensione tra una dignitosa vergogna e una dignità che sa vergognarsi: atteggiamento di chi per sé stesso cerca di umiliarsi e abbassarsi, ma è capace di accettare che il Signore lo innalzi per il bene della missione, senza compiacersene. Il modello che il Vangelo consacra, e che può servirci quando ci confessiamo, è quello di Pietro, che si lascia interrogare a lungo sul suo amore e, nello stesso tempo, rinnova la sua accettazione del ministero di pascere le pecore che il Signore gli affida.

Per entrare più in profondità in questa “dignità che sa vergognarsi”, che ci salva dal crederci di più o di meno di quello che siamo per grazia, ci può aiutare vedere come nel passo di Isaia che il Signore legge oggi nella sua sinagoga di Nazareth, il Profeta prosegue dicendo: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio» (61,6). È il popolo povero, affamato, prigioniero di guerra, senza futuro, residuale e scartato, che il Signore trasforma in popolo sacerdotale.

Come sacerdoti, noi ci identifichiamo con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono. Ma ricordiamo anche che ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate. Sentiamo che la nostra anima se ne va assetata di spiritualità, ma non per mancanza di Acqua Viva – che beviamo solo a sorsi –, ma per un eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”. Ci sentiamo anche prigionieri, non circondati, come tanti popoli, da invalicabili mura di pietra o da recinzioni di acciaio, ma da una mondanità virtuale che si apre e si chiude con un semplice click. Siamo oppressi, ma non da minacce e spintoni, come tanta povera gente, ma dal fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sentieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori.

E Gesù viene a riscattarci, a farci uscire, per trasformarci da poveri e ciechi, da prigionieri e oppressi in ministri di misericordia e consolazione. E ci dice, con le parole del profeta Ezechiele al popolo che si era prostituito e aveva tradito gravemente il suo Signore: «Io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza [...] Allora ricorderai la tua condotta e ne sarai confusa, quando riceverai le tue sorelle maggiori insieme a quelle più piccole, che io darò a te per figlie, ma non in forza della tua alleanza. Io stabilirò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto – oracolo del Signore Dio» (Ez 16,60-63).

In questo Anno Giubilare celebriamo, con tutta la gratitudine di cui è capace il nostro cuore, il nostro Padre, e lo preghiamo che “si ricordi sempre della sua Misericordia”; accogliamo, con dignità che sa vergognarsi, la Misericordia nella carne ferita del nostro Signore Gesù Cristo, e gli chiediamo che ci lavi da ogni peccato e ci liberi da ogni male; e con la grazia dello Spirito Santo ci impegniamo a comunicare la Misericordia di Dio a tutti gli uomini, praticando le opere che lo Spirito suscita in ciascuno per il bene comune di tutto il popolo fedele di Dio.

2/ «Gesù e Giuda: due gesti. Due gesti anche oggi qui. Un gesto: tutti noi insieme: musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici, ma fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace, integrati. Tre giorni fa, un gesto di guerra, di distruzione, in una città dell’Europa, di gente che non vuol vivere in pace. Ma dietro a quel gesto, come dietro a Giuda, c’erano altri». L’omelia di papa Francesco al CARA di Castelnuovo di Porto (Centro di accoglienza per richiedenti asilo)

Riprendiamo sul nostro sito in una nostra trascrizione, il testo dell'omelia tenuta da papa Francesco nella celebrazione della Messa in Coena Domini al CARA di Castelnuovo di Porto (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) nel Giovedì Santo 24/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2016)

Ci sono in questa Parola di Dio che abbiamo letto due gesti: Gesù che serve, che lava i pedi. Lui, che era il capo, lava i piedi agli altri, ai suoi, ai più piccoli. Un gesto.

Secondo gesto: Giuda che va dai nemici di Gesù, da quelli che non vogliono la pace con Gesù a prendere il denaro con il quale lo ha tradito: le trenta monete.

Due gesti anche oggi qui, ci sono due gesti.

Questo: tutti noi. Insieme: musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici, ma fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace, integrati. Un gesto.

Tre giorni fa, un gesto di guerra, di distruzione, in una città dell’Europa, di gente che non vuol vivere in pace. Ma dietro a quel gesto, come dietro a Giuda, c’erano altri. Dietro a Giuda c’erano quelli che hanno dato il denaro perché Gesù fosse consegnato. Dietro quel gesto ci sono i fabbricanti, i trafficanti di armi, che vogliono il sangue, non la pace, che vogliono la guerra, non la fratellanza.

Due gesti. Lo stesso Gesù lava i piedi, Giuda vende Gesù per denaro.

Voi, noi, tutti insieme, diverse religioni, diverse culture, ma figli dello stesso Padre, fratelli. E là, poveretti quelli, che comprano le armi per distruggere la fratellanza. Oggi, in questo momento, quando io farò lo stesso gesto di Gesù di lavare i piedi a voi dodici, tutti noi stiamo facendo il gesto della fratellanza, e tutti noi diciamo: “Siamo diversi, siamo differenti, abbiamo differenti culture e religioni, ma siamo fratelli e vogliamo vivere in pace”.

E questo è il gesto che io faccio con voi. Ognuno di noi ha una storia addosso, ognuno di voi ha una storia addosso. Ha tante croci e tanti dolori, ma ha anche un cuore aperto che vuole la fratellanza.

Ognuno, nella sua lingua religiosa, preghi il Signore, perché questa fratellanza si contagi nel mondo, perché non ci siano le 30 monete per uccidere il fratello, perché sempre ci sia la fratellanza e la bontà. Così sia.

Redazione de Gliscritti | Venerdì 25 Marzo 2016 - 11:30 am | | Default

Scrivo a voi terroristi islamici. Lettera dopo gli attentati di Bruxelles, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una lettera scritta da Andrea Lonardo. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (23/3/2016)

Scrivo a voi terroristi islamici,
scrivo a voi ben sapendo che siete credenti. Solo l’ottusità di alcuni vuole negarvi questa dignità di credenti, quasi voi foste solo dei ribelli sociali, quasi foste solo un potere fra i tanti in lotta per il controllo del petrolio. Nessuno si farebbe saltare in aria per un qualche accrescimento di benessere: voi lo fate urlando di combattere per Dio.

 Un filosofo musulmano ha scritto con grande acutezza:

«La maggior parte degli intellettuali occidentali ha talmente dimenticato che cos’è la potenza della religione, nel bene e nel male sulla vita e sulla morte, che mi dicono "no, il problema del mondo musulmano non è l’islam, non è la religione ma la politica, la storia, l’economia, etc.". Vivono in società cosi secolarizzate che non si ricordano per niente che la religione può essere il cuore del reattore di una civilizzazione umana!».

Il vostro grido di guerra è “Allah akbar”, “Dio è il più grande”. Per voi è inconcepibile che si viva in una società senza Dio. Per voi è inconcepibile che non si abbia rispetto per Dio. Che si ironizzi su di Lui. Per voi è inconcepibile che si educhino le giovani generazioni senza prestare attenzione al bene e al male, proponendo ai giovani solamente di arricchirsi, o addirittura invogliandoli a cercare piaceri effimeri come la droga o il sesso, senza la costruzione di una famiglia solida ed il dono di sé fino al sacrificio, senza la preoccupazione di vivere secondo i comandamenti di Dio.

Anche noi avvertiamo l’urgenza di questa grande questione. Mi colpì un giorno la confessione di un  algerino che scriveva:

«Da noi la libertà rimane un miraggio, qui in Occidente troppo spesso diventa una scatola vuota, un alibi per consentire a ciascuno di fare quel che gli salta in mente. Libertinismo, direi, più che libertà. Che libertà è, per esempio, quella di sfruttare il corpo femminile come veicolo per ogni genere di messaggio pubblicitario? Il velo può essere un simbolo di oppressione della donna, ma certamente l’ostentazione della nudità o un certo modo provocante e provocatorio di vestire non esaltano la libertà femminile. Dov’è finito il rispetto per la persona? È questo l’Occidente che vogliamo proporre al mondo islamico? I musulmani ci guardano: ora che vivo in Italia, capisco quanto possa risultare decisivo, per essere davvero credibili, dimostrare nei fatti che una civiltà che ha ereditato i grandi valori del cristianesimo può diventare punto di riferimento anche per il mondo islamico, dove è in corso un acceso dibattito sul rapporto tra fede e modernità. Grande è la responsabilità dei cristiani e della Chiesa per testimoniare che si può vivere fino in fonda da credenti in una società che si dice laica ma che non fa della laicità un alibi per ridurre Dio a un soprammobile. Se questo accadesse, sarebbe la morte di ogni vera esperienza religiosa di fronte agli dei del consumismo, della tecnica e del razionalismo che vogliono cancellare il Mistero dall’esistenza umana».  

Ebbene non dimenticate che siete proprio voi, voi più di tutti, che oggi state distruggendo l’onore di Dio. Sebbene riusciate ancora a reclutare giovani per le vostre azioni violente, è sempre più evidente che tanti musulmani e tanti non musulmani si stanno allontanando da Dio per l’odio che leggono nei vostri gesti, sapendo che chi odia non viene da Dio.

La violenza con cui agite, sgozzando, uccidendo, torturando, la violenza con cui parlate, la violenza con la quale esponete i cadaveri decapitati, portando oltraggio non solo ai vivi ma anche ai morti, sta allontanando tanti da Dio. Per questo vi sentite sempre più soli.

Il vostro uso della violenza testimonia che non credete più nella forza che Dio invece ha di convertire i cuori. Dio è talmente grande che non può accettare che qualcuno lo segua per paura. Dio è talmente grande che desidera essere amato.

Voi usate la violenza perché non avete niente da dire. Usate la violenza perché avete paura che la causa di Dio sia ormai persa. Usate la violenza perché avete paura che i giovani dinanzi alla modernità abbandonino Dio. Non credete che Dio sia capace, Lui che è l’onnipotente, di attirare il mondo a sé con la sua misericordia.

Vi rende violenti la certezza che avvertite di non avere più niente da dire su Dio per cui valga la pena ascoltarvi. L’odio con cui uccidete e non dialogate è il segno che sapete già di avere perso.

Dio, invece, ci insegna che la vittoria non è di chi distrugge, ma di chi costruisce. Dio ama chi è capace di mostrare, con la bellezza della propria vita, di cosa è capace la fede. Dio chiama ognuno a mostrare come fiorisca la vita quando ci si affida a Lui.

La disperazione e la tristezza che traspare dai vostri ghigni non testimoniano della grandezza e della bellezza di Dio. Infatti, sempre più musulmani e non musulmani pensano giustamente che se Dio fosse come voi pensate, allora sarebbe meglio essere atei, allora sarebbe meglio che Dio non ci fosse. Se Dio è violento come voi credete, allora sarebbe meglio fare a meno di Dio.

Ad una terrorista pentita delle Brigate Rosse, che aveva ucciso come voi, domandarono un giorno: «Pensi mai a quello che avresti potuto fare se non fossi diventata una guerrigliera?»

Lei rispose:

«Oh sì. Con la nostra intelligenza, la nostra passione, la nostra dedizione, l'autodisciplina di cui eravamo capaci noi avremmo dovuto e potuto spenderci nella battaglia delle idee, nell'arte, nella ricerca, nella letteratura e avremmo potuto migliorare il mondo, se non cambiarlo».

Voi non state migliorando il mondo, mentre potreste farlo. Potreste testimoniare Dio facendo nascere bambini, scrivendo poesie, componendo canzoni, aiutando i poveri, annunciando la misericordia di Dio. Tanti si stanno accorgendo che, invece, avete paura di intraprendere il confronto con la cultura, con le idee, con la filosofia, con la scienza, con la libertà.

Avete moltissimo denaro. Perché non impiegarlo per la formazione dei giovani? Perché non impiegarlo perché frequentino le scuole superiori e l’università? Perché le donne studino? Avete paura che se qualcuno studia e pensa si dimenticherà di Dio?

Ma che povero Dio sarebbe un Dio che avesse creato l’uomo con la mente per pensare, con un cuore per comporre poesie, con occhi per vedere la bellezza del creato e dell’arte, con orecchie per udire la bellezza della musica, e poi avesse paura che l’uomo dinanzi a queste meraviglie si possa dimenticare di Lui?

Un filosofo francese che ha scoperto da poco la fede in Dio ha scritto:

«In questo consiste il problema del fondamentalismo… assomiglia a quel tipo di ammiratori che rivolgendosi a Dante, per esempio, gli direbbero: “Signor Dante, lei è ammirevole, lei è il grande Dante!”; e Dante domanda loro: “Avete letto La Divina Commedia? Qual è il canto che vi ha colpito di più?” e gli ammiratori rispondono: “Veramente no, non l’abbiamo letta”. Allora il poeta chiede: “ma allora, perché quest’ammirazione per me?”, e gli ammiratori: “Noi sappiamo che lei e il grande Dante, abbiamo sentito parlare di lei, del suo genio, della fama che circonda la sua persona, ma della sua poesia, no, non ce ne siamo mai interessati". Vedete, spesso andiamo da Dio a dirgli: "Io ti amo, o Creatore", ma non ci interessa la creatura. E questo è assurdo, o meglio, perverso».

L’uomo non può vivere pienamente la sua vita senza testimoniare che Dio è grande. Ma testimonia che Dio è grande appunto nell’amore per le creature del suo Dio. È il diavolo, invece, che odia le creature amate da Dio. Tanti cristiani e musulmani si rivolgono agli esorcisti perché sanno che bisogna lottare contro Satana che odia e non ama.

Giovanni, il discepolo che l’inviato di Dio Isa/Gesù amava più di tutti i suoi discepoli, ha scritto sintetizzando tutto quello che aveva imparato: «Dio è amore».

Ha scritto anche: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui».

Avete bisogno di un aiuto per far crescere il livello di istruzione dei vostri figli, perché diano gloria a Dio? Contate su di noi. Noi cristiani siamo pronti a rinunciare a qualsiasi interesse sul petrolio, sul denaro, sui beni. Ci interessa solo la libertà di studio e quella libertà religiosa con la quale ogni uomo può cercare la verità su Dio per poterlo amare così come la propria coscienza gli detta. Per la libertà religiosa siamo disposti a rinunciare a tutto. Perché sappiamo che un uomo che non sia libero dinanzi a Dio non potrà amarlo e non potrà dire con l’adesione libera del cuore che Dio è il più grande, il più grande perché è amore e misericordia.

Avete bisogno di qualcuno che faccia crescere nella gente semplice l’amore per la letteratura, la poesia, la bellezza, l’amicizia, l’arte, la storia, la scienza, la teologia? Contate su di noi. In tanti periodi più luminosi dell’attuale nella storia dell’Islam musulmani e cristiani hanno studiato insieme ed i vostri paesi si sono aperti alla sapienza di altre culture: oggi tristemente le uniche cose che sembrano interessarvi dell’occidente sono la tecnologia e il benessere. Non vi rendete conto che non ci sarebbe tecnologia e nemmeno benessere senza una libera ricerca, senza lo studio, senza la passione per cose ben più importanti della tecnologia e del benessere. Quanto assomigliate in questo a quegli occidentali che hanno dimenticato Dio, voi che vivete solo per Dio.

Se, invece, non vi interessa che i vostri giovani maturino nel cuore e nella mente, studiando e crescendo, continuerete a distruggere e ad uccidere, ma allontanerete ancor più gli uomini da Dio. Perché continuando a fare così disonorerete Allah.

Con la vigliaccheria con cui vi scagliate contro civili, contro donne e bambini, state già disonorando Dio. Se anche aveste ragione su alcune questioni di politica internazionale, se anche aveste ragione sull’ingiustizia con cui americani, europei, arabi, turchi, cinesi hanno trattato le vostre terre - ma non dimenticate che nei secoli tante volte siete stati voi ad attaccare ed invadere ingiustamente terre che non erano vostre - il vostro modo violento di agire contro civili, donne e bambini sta facendo sì che ognuno degli obiettivi politici che avevate è stato squalificato dal vostro comportamento. Nessuno vede più in voi la dignità e la nobiltà dei cavalieri antichi, che lottavano per difendere il proprio popolo, mantenendo dignità, onore e rispetto anche nei confronti del nemico.

Vi invito a domandarvi - anche se voi rifiutate la crocifissione affermando che la morte in croce è stata inventata da noi cristiani perché Allah avrebbe portato Gesù in cielo per strapparlo alla morte ingiusta – come mai tanti musulmani e non musulmani avvertono la grandezza di Isa/Gesù. Isa/Gesù non ha mai odiato, anzi ha perdonato l’adultera, anzi ha perdonato il ladro e l’omicida, anzi con la sua bontà ha convertito i cuori di tanti violenti e malvagi.

Non è forse questo lo sguardo di bontà di cui hanno bisogno anche i vostri figli? Non è forse questo lo sguardo di cui hanno bisogno le donne dell’Islam? Non è forse di questo sguardo di bontà che avete bisogno anche voi?

Dinanzi allo sguardo di bontà di Isa/Gesù ognuno potrà dire liberamente che Dio è il più grande e non fuggirà da Dio come voi temete perché non credete nella sua grandezza. Se Dio è il più grande saprà attirare liberamente i cuori a sé, anche in mezzo al benessere dell’occidente, attraverso la bellezza, la serenità, la dolcezza, l’allegria pacifica della vita di coloro che lo amano.

Redazione de Gliscritti | Mercoledì 23 Marzo 2016 - 09:31 am | | Default

Quando i califfi appoggiavano i cristiani del Medio Oriente, di Samir Khalil Samir

Riprendiamo dal Corriere della sera del 19/3/2016 un testo di Samir Khalil Samir. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag samir_khalil_samir, oltre alla sezione Storia e filosofia per la storia dell'Islam ed, in particolare, dell'Islam altomedioevale e andaluso (cfr. ad esempio Andalusia: dal mito alla storia, di Andrea Lonardo).

Il Centro culturale Gli scritti (22/3/2016)

Hunayn ibn Ishaq, filosofo e traduttore 
di lavori scientifici dal greco all’arabo

Padre Samir Khalil Samir è un teologo gesuita, islamista e studioso di lingue semitiche. Questo articolo è un estratto di un saggio che appare sul numero 22 della rivista «Oasis» intitolato «La croce e la bandiera nera», sui cristiani d’Oriente al tempo dell’Isis in Siria e in Iraq.

Uno sguardo alla storia dei cristiani nel mondo arabo mostra una feconda dialettica tra radicamento nella propria tradizione e apertura verso le altre culture. Momenti forti sono stati la creazione di un umanesimo interreligioso nella Bagdad del X secolo e il rinnovamento ecclesiale all’epoca della Riforma cattolica, che ha preparato il Risorgimento arabo. Oggi come ieri tuttavia questa interazione è possibile solo in presenza di regimi aperti all’alterità e non ripiegati su un settarismo ossessivo.

Che futuro può esistere per la civiltà araba in un Medio Oriente dominato dal settarismo e dal fondamentalismo? Questa domanda, che ha iniziato a profilarsi già diversi decenni or sono, si è imposta nella sua forma più drammatica dopo l’ascesa dell’Isis in Iraq e Siria. Vi è poi una seconda questione, non meno gravida di conseguenze, che riguarda in modo specifico le comunità cristiane della regione: ci sarà ancora posto per loro? Una risposta conclusiva a questi due quesiti, tra loro strettamente legati, non è probabilmente possibile. Tuttavia una visione d’insieme sul ruolo che i cristiani hanno storicamente svolto nella civiltà araba evidenzia alcune direttrici che, proiettate sul futuro, consentono di valutare a che condizioni una presenza cristiana nel Medio Oriente del XXI secolo sia ancora possibile.

L’obiettivo che ci proponiamo in questo articolo non è quindi rievocare le glorie del tempo passato, sostando malinconici a piangere sulle rovine del passato, come usavano fare i poeti dell’età preislamica (al-bukâ’ ‘alâ al-atlâl). Il nostro scopo è piuttosto gettare uno sguardo retrospettivo e sintetico sulla composita identità cristiana mediorientale, frutto di accumuli successivi, per giudicare in prospettiva quale progetto sia possibile nutrire per l’avvenire. E poiché è impossibile condensare in poche pagine una storia millenaria , ci concentreremo su due snodi fondamentali, cercando nell’ultima parte di trarne alcune lezioni valide anche per il nostro travagliato presente.

Un umanesimo arabo inter-religioso

Quando i musulmani, sotto la guida del secondo califfo ‘Umar (634-644), si lanciano fuori dai confini della Penisola arabica, s’impadroniscono nel giro di pochi anni di alcune tra le regioni più prospere e progredite del tempo. La Siria, l’Egitto e la Mesopotamia, per quanto dilaniate dal secolare conflitto che oppone bizantini e persiani, sono famose per le loro scuole di filosofia, scienze, diritto e teologia, che prolungano e irradiano il patrimonio classico. Inizialmente i conquistatori sono attratti dagli aspetti esteriori di questa civiltà: l’architettura, con i monumenti, i palazzi, le chiese e i monasteri, la tecnica, l’organizzazione amministrativa; lo testimonia il vocabolario arabo che in questi settori è ricco di prestiti da greco, siriaco, persiano e in misura minore dal latino.

Ma ben presto i conquistatori iniziano a interessarsi anche alla cultura che queste realizzazioni materiali presuppongono. Così, sotto i primi califfi abbasidi prende avvio il movimento di traduzione dal greco all’arabo, che ha come proprio centro la nuova capitale Baghdad, fondata nel 762 sulle rive del Tigri. I traduttori, quasi tutti cristiani di lingua siriaca, possono far leva su un’esperienza consolidata in questo campo, in quanto già dal V secolo è in atto nel Levante un passaggio linguistico dal greco al siriaco, in particolare ad opera del sacerdote Sergio di Resh ‘Ayna (morto nel 536), sintomo di una reazione delle popolazioni locali all’influsso fino a quel momento pervasivo della cultura ellenistica.

L’appropriazione del patrimonio scientifico e filosofico avviene per tappe: dapprima la traduzione, quindi la glossa e infine la produzione di opere autonome. È il processo normale di ogni fenomeno d’acculturazione. Essa ha luogo in alcune scuole, inizialmente legate ai monasteri, ma successivamente indipendenti da essi. Mentre nelle prime generazioni dopo la conquista gli allievi sono tutti cristiani, progressivamente i musulmani aumentano di numero fino a diventare maggioritari.

Questa prevalenza dell’elemento islamico riflette probabilmente il nuovo dato demografico, per cui a partire dal 950 circa i cristiani non sono più maggioritari a Bagdad e in Iraq. Al di là degli apporti dei singoli pensatori, la loro comune genealogia intellettuale testimonia la nascita di un umanesimo arabo inter-religioso. Cristiani, musulmani ed ebrei sono discepoli gli uni degli altri. Si forma così una nuova cultura mondiale, che possiamo definire «interconfessionale» perché è l’opera comune di sudditi dell’impero musulmano che appartengono alle diverse comunità religiose. Essa ha per lingua l’arabo, forgiato a Bagdad in modo da poter integrare tutte le scienze dell’epoca. In effetti, quando Hunayn Ibn Ishâq (808-873), il più consapevole dei traduttori, si mette a lavorare sulle opere di Galeno, deve misurarsi con una lingua araba che è uno strumento ben mediocre per l’opera a cui si accinge. Per rendere numerosi concetti dovrà ricorrere a termini greci, siriaci e persiani, arricchendo così il lessico tecnico arabo. I nostri autori siro-arabi medievali avevano ben percepito il problema soggiacente alle traduzioni: una lingua deve continuare ad arricchirsi adattandosi alle novità per non diventare una realtà moribonda che si spegne poco a poco per mancanza d’innovazione. Ecco un primo insegnamento per il presente: se la cultura araba vorrà continuare a esistere al di fuori di un ghetto confessionale, dovrà tornare a esprimere tutta la realtà del nostro tempo.

Il Risorgimento prima del Risorgimento

Trasportiamoci ora, con un salto temporale di diverse centinaia d’anni, alla seconda metà del XVI secolo. Il paesaggio culturale è totalmente mutato: l’impero abbaside è tramontato da tempo e i turchi hanno preso il posto di arabi e persiani nella guida del mondo islamico. Si respira un’aria di decadenza, la conservazione si è sostituita all’innovazione. Dopo essere state fieramente perseguitate sotto i mamelucchi, le minoranze cristiane riprendono un po’ di respiro con l’avvento del potere ottomano. L’impero infatti è pienamente inserito nella politica europea dell’epoca e questo permette ai cristiani di stabilire rapporti più stretti con l’Occidente.

È l’età della riforma cattolica e una figura chiave in Oriente ne è Giambattista Eliano (1530-1589), ebreo nato a Roma da una celebre famiglia di rabbini, convertitosi al Cattolicesimo e accolto nella Compagnia di Gesù dallo stesso Sant’Ignazio. Dopo una prima missione in Egitto, che si rivela fallimentare, Eliano è inviato in Libano a due riprese tra il 1578 e il 1582. Riesce a convocare un Sinodo della Chiesa maronita a Qannûbîn, nell’agosto 1580, che rafforza i tradizionali rapporti con Roma. Durante questi soggiorni Eliano concepisce un’idea rivoluzionaria: formare alcuni seminaristi maroniti a Roma, in un collegio specifico, in cui possano coltivare la loro tradizione all’interno del respiro universale della cattolicità. A Roma infatti essi avranno accesso alla cultura teologica in misura molto più ampia che tra le montagne del Monte Libano, sempre esposte al rischio di incursioni e razzie.

Il Collegio Maronita è aperto nel 1584 con una bolla di Gregorio XIII e subito i giovani seminaristi si buttano a corpo morto nello studio di tutte le discipline, imparando le matematiche e le scienze, la storia e la geografia, ma soprattutto la filosofia, la teologia, la morale, il diritto canonico, l’esegesi e le lingue. Di ritorno ad Aleppo, allora il centro urbano più importante della regione, o nel Libano, molti di questi giovani sacerdoti maroniti si sforzeranno di trasmettere nei sermoni e nell’insegnamento quotidiano quello che hanno ricevuto a Roma. Introducono così nuove forme di devozione e d’apostolato e rinnovano totalmente la predicazione. Rilanciano la vita monastica, modernizzandola e modellandola sulla vita religiosa occidentale. Di concerto con i numerosi missionari latini giunti in Oriente all’inizio del Seicento, cominciano a tradurre i manuali che hanno utilizzato a Roma o le opere spirituali che hanno maggiormente apprezzato. Sul piano intellettuale, ripercorrono il cammino dei cristiani di Bagdad nel IX e X secolo: in una prima fase traducono, quindi passano a commentare e infine producono opere originali ispirate dall’Occidente.

Tutti i trattati importanti come la Summa Theologiae di San Tommaso (1225-1274) sono tradotti dal latino in arabo, mentre nel 1671 vede la luce la più bella opera dell’epoca in lingua araba, la prima traduzione integrale della Bibbia, impressa in eleganti caratteri latini e arabi e arricchita di numerose xilografie. La stampa infatti è introdotta in Oriente per rispondere alle necessità delle comunità cristiane.

Personaggio centrale di questo periodo è Germânos Farhât (1670-1732), vescovo maronita di Aleppo e vero artefice del rinnovamento integrale della Chiesa, tanto sul piano culturale che spirituale e pastorale. Uno dei suoi obiettivi principali è la ri-arabizzazione dei cristiani. In età ottomana infatti la conoscenza dell’arabo classico si era grandemente ridotta, non solo tra i cristiani, ma anche tra i musulmani, a causa della generale decadenza culturale e dell’influsso invadente del turco. Soltanto gli esperti di scienze religiose islamiche padroneggiavano ancora questa lingua. Germânos Farhât si mette innanzitutto alla scuola di un famoso shaykh musulmano, Sulaymân al-Nahwî, per impadronirsi perfettamente della lingua. Dà poi avvio alla sua riforma redigendo una grammatica araba basata interamente sui Vangeli, in tal modo imitando il procedimento dei musulmani che componevano le loro sulla base del Corano, e un manuale di stilistica illustrato con esempi tratti esclusivamente dai Vangeli. Questa scelta pedagogica si rivelò fondamentale. I cristiani infatti provavano delle reticenze verso l’arabo, che pure nella sua forma colloquiale aveva soppiantato da tempo le lingue originarie delle varie comunità, perché lo sentivano come estraneo, legata al Corano e all’Islam.

Germânos Farhât compone anche una bella apologia del Cristianesimo per i musulmani, primo autore moderno a riprendere questo genere dopo quattro secoli di silenzio e di ripiegamento imposto dalle persecuzioni. Attorno a lui si forma nel tempo una squadra di letterati cristiani che rinnova in profondità la lingua araba. Non altrettanto successo arride purtroppo a questo movimento sul piano strettamente ecclesiale: i tentativi di unione con Roma riescono solo parzialmente e ogni Chiesa locale, con l’eccezione di quella maronita, finisce per dividersi in due branche, una cattolica e l’altra ortodossa. In ogni caso, se Risorgimento (in arabo Nahda) è il termine con cui si designa abitualmente il risveglio della cultura araba nell’Ottocento, è a mio avviso più che legittimo parlare, per le comunità della Grande Siria, di un Risorgimento prima del Risorgimento, specificamente cristiano nelle origini e nelle finalità, che ha preparato la strada al grande rinnovamento del mondo arabo.

Qualche lezione

Quello che colpisce ripercorrendo questi due episodi è che i cristiani nel mondo arabo sono stati in generale uomini aperti alle altre culture, pur essendo ben radicati nella propria. Viceversa, quando uno dei due elementi è venuto a mancare, l’interazione con l’ambiente circostante si è interrotta. I cristiani hanno svolto una funzione di ponte tra due religioni e due mentalità: questi autori sono cristiani, certamente, ma culturalmente parlando sono anche musulmani. Personalmente non mi vergogno di dire che ho acquisito molto dall’Islam sul piano culturale, attraverso la lingua, le usanze, un certo modo di agire, etc. Ciò che dovrebbe caratterizzare i cristiani – e in un certo modo distinguerli dai musulmani – non è che siano meno radicati di questi nella cultura araba, ma che lo siano restando aperti alle altre culture e oggi naturalmente alla cultura europeo-americana.

Questa funzione di ponte si gioca del resto anche nel senso opposto: sono stati infatti i cristiani a trasmettere agli occidentali le prime informazioni scientifiche sul mondo musulmano. I cristiani orientali sono quindi chiamati dalla loro storia a svolgere una funzione di discernimento, che li renda capaci di cogliere ciò che c’è di positivo nelle culture circostanti, integrando gli elementi allogeni. La cultura infatti non è un blocco, un pezzo di pietra. È vita, è in continua evoluzione. Quella dei cristiani d’Oriente è costituita dal patrimonio greco, siriaco, arabo, musulmano e occidentale e da tanti altri elementi. Ma che ne sarà domani? Che ne è già oggi? Occorre riconoscere realisticamente che il ruolo culturale dei cristiani arabi è stato possibile a una condizione precisa: l’esistenza di regimi musulmani aperti all’alterità.

Quando il decimo califfo abbaside al-Mutawakkil (847-861) diede il via a una politica fanatica e persecutoria contro tutti i non sunniti, che si trattasse di sciiti o di cristiani, il risultato fu una battuta d’arresto molto netta nella produzione araba cristiana. Al contrario, sotto il suo predecessore al-Ma’mûn (813-833), solo qualche decennio prima, il clima di grande apertura si era tradotto nella pubblicazione di decine di trattati da parte dei cristiani arabi, che si illustrarono per il loro contributo alla civiltà dell’epoca. La millenaria vicenda dei cristiani arabi consegna loro il compito meraviglioso e nobile di creare una società sempre aperta al meglio, in piena solidarietà con il passato e in evoluzione continua verso un futuro da edificare. Ma non lo potranno fare senza il sostegno dei musulmani. Ed è proprio questo sostegno che manca oggi in Medio Oriente, non solo, com’è ovvio, nei territori controllati dai criminali jihadisti, ma anche in tante espressioni di diffidenza e discriminazione che sono sintomi di un clima culturale diffuso. Il jihadismo infatti non nasce dal nulla, ma è stato alimentato da decenni di propaganda islamista fanatica. Mentre però in passato i cristiani potevano cercare rifugio in alcune aree remote, aspettando che la tempesta si calmasse e i tempi ritornassero più favorevoli, la tecnologia moderna rende questa opzione del tutto irrealistica.

La posta in gioco

La posta in gioco diventa tutto o niente, vita o morte. Vita o morte dei cristiani orientali, certamente, ma anche e non di meno, vita o morte di un mondo arabo musulmano che rischia sempre di più di chiudersi in una ripetizione autistica dell’identico, tagliandosi così definitivamente fuori dalle forze vive che fanno oggi la storia. I cristiani arabi hanno dunque un ruolo essenziale a livello socio-politico ed etico-culturale, per mantenere o rilanciare la pace e la giustizia: 1) la pace politica, tra Israele e il mondo arabo, basata sulla giustizia e sugli accordi internazionali rappresentati dall’Onu; 2) pace e giustizia per applicare e rispettare tutti i punti della Carta universale dei diritti umani, in particolare l’uguaglianza assoluta tra uomo e donna, musulmano e non musulmano; 3) la pace sociale, per cancellare il divario scandaloso tra i ricchissimi e i poverissimi all’interno del mondo arabo; 4) la pace religiosa all’interno dell’Islam, tra sunniti e sciiti, causa principale della guerra attuale nel Medio Oriente; 5) pace culturale per aprire il mondo arabo e islamico alla modernità, senza cadere nel secolarismo o in una concezione meramente individualistica della libertà.

Redazione de Gliscritti | Martedì 22 Marzo 2016 - 9:40 pm | | Default

La cultura islamica non esiste più, di Navid Kermani

Riprendiamo dal sito della rivista Micromega (19 dicembre 2015) una relazione di Navid Kermani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (22/3/2016)

N.B. de Gli scritti Pubblichiamo questo testo anche se diverse affermazioni sarebbero da discutere - in particolare quelle relative alla situazione siriana e alle accuse rivolte ad Assad e, conseguentemente, anche quelle relative ad alcuni atteggiamenti tenuti dai religiosi -, per l’importanza della prospettiva proposta dall’autore.

Padre Paolo Dall’Oglio, padre Jacques Mourad e la comunità di cristiani e musulmani di al-Qaryatayn sono la dimostrazione che l’amore è in grado di superare i confini etnici, religiosi, ideologici. Una comunità che aveva vissuto in pace e in reciproco rispetto fino all’arrivo dell’Is pochi mesi fa e di cui oggi rimangono macerie: padre Mourad, dopo essere stato ostaggio dell’Is, è riuscito a fuggire, di padre Dall’Oglio ormai da diversi mesi si sono perse le tracce, la sorte dei duecento cristiani rapiti insieme a padre Mourad è appesa a un filo, mentre il monastero di Mar Elian è stato distrutto. Navid Kermani, scrittore tedesco di origini iraniane, musulmano, in questo discorso pronunciato il 18 ottobre 2015 – qualche settimana prima degli attentati di Parigi del 13 novembre – presso la Paulskirche di Francoforte in occasione del conferimento del Premio per la pace dei librai tedeschi, ricorda il suo incontro con padre Mourad, esorta i musulmani a fare i conti con quel che la loro cultura è diventata e l’Occidente a non girarsi dall’altra parte. 

Il testo è un'anticipazione dal nuovo numero di MicroMega in edicola dal 17 dicembre

Nel giorno in cui ricevevo la notizia di essere stato insignito del Premio per la pace dei librai tedeschi, in quello stesso giorno veniva rapito in Siria Jacques Mourad. Due uomini armati sono entrati nel monastero di Mar Elian alla periferia della cittadina di al-Qaryatayn chiedendo di padre Jacques. Lo hanno trovato nel suo piccolo, misero ufficio, che fungeva allo stesso tempo da soggiorno e camera da letto, lo hanno preso e portato via. Il 21 maggio 2015 Jacques Mourad è diventato un ostaggio del sedicente «Stato islamico».

Ho conosciuto padre Jacques nell’autunno del 2012, mentre attraversavo per un reportage una Siria già scossa dalla guerra. Si occupava della comunità cattolica di al-Qaryatayn e allo stesso tempo faceva parte dell’ordine di Mar Musa, fondato agli inizi degli anni Ottanta sulle rovine di un antico monastero paleocristiano. Si tratta di una comunità cristiana particolare, certamente unica, che si è dedicata all’incontro con l’islam e all’amore per i musulmani. Le suore e i monaci osservano scrupolosamente i precetti e i riti della propria Chiesa cattolica, e con altrettanta abnegazione si dedicano all’islam, partecipando alle tradizioni musulmane fino al punto di prendere parte al Ramadan. Suona folle, da pazzi: cristiani che, stando alle loro stesse parole, si sono innamorati dell’islam. Eppure questo amore cristiano-musulmano è stato fino a non molto tempo fa realtà in Siria ed è rimasto ancora nei cuori di molti siriani. Con il lavoro delle loro mani, con la bontà del loro cuore e le preghiere della loro anima, le suore e i monaci di Mar Musa avevano creato un luogo che a me pareva utopico e che per loro rappresentava niente di meno che l’imminente – loro non avrebbero detto anticipata, ma certamente vissuta in anticipo – riconciliazione escatologica. Un convento di pietra del VII secolo nel mezzo della travolgente solitudine delle montagne nel deserto siriano, visitato da cristiani provenienti da ogni parte del mondo, ma al quale ogni giorno dozzine, centinaia di musulmani arabi bussavano per incontrare le loro sorelle e i loro fratelli cristiani, parlare con loro, cantare, stare in silenzio e anche per pregare secondo il loro rito islamico in un angolo della chiesa privo di immagini.

All’epoca della mia visita a padre Jacques nel 2012, il fondatore della comunità, il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, era appena stato espulso dal paese. A voce troppo alta padre Paolo aveva criticato il governo di al-Asad che, alla richiesta di democrazia e libertà da parte del popolo siriano – richiesta rimasta per nove mesi pacifica – aveva risposto con arresti e torture, manganelli e fucili d’assalto e infine anche con mostruosi massacri e persino gas tossici, finché il paese non è sprofondato nella guerra civile. Ma padre Paolo si era opposto anche alla leadership della Chiesa ufficiale siriana, che di fronte alla violenza del governo taceva. Invano aveva cercato di ottenere sostegno in Europa al movimento per la democrazia siriano, invano si era appellato alle Nazioni Unite per creare una no fly zone o perlomeno per inviare degli osservatori. Invano aveva messo in guardia dal rischio di una guerra di religione, mentre i gruppi laici e moderati venivano abbandonati a se stessi e gli jihadisti ottenevano sostegno dall’estero. Invano aveva tentato di spezzare il muro della nostra apatia. Nell’estate del 2013 il fondatore della comunità di Mar Musa tornò nuovamente in segreto in Siria per darsi da fare per alcuni amici musulmani che erano nelle mani dello Stato islamico, e infine è stato egli stesso rapito da quello stesso Stato islamico. Dal 28 luglio 2013 di padre Paolo Dall’Oglio si è persa ogni traccia.

Padre Jacques, rimasto il solo responsabile del monastero di Mar Elian, ha un’indole molto diversa: non è un oratore particolarmente dotato, non è un italiano carismatico ed esuberante ma, come molti siriani che ho conosciuto, un uomo altero, riflessivo, estremamente cortese, piuttosto alto, il volto largo, i capelli corti ancora scuri. Non ho avuto ovviamente modo di conoscerlo approfonditamente. Ho partecipato alla messa, che come in tutte le chiese orientali consisteva in canti meravigliosi e soavi, e ho osservato come volentieri scambiava quattro chiacchiere con i fedeli e i notabili locali al pranzo dopo la messa. Quando gli ospiti si furono congedati, mi portò per una mezz’ora nella sua minuscola stanza e accostò una sedia al suo piccolo letto, sul quale egli stesso prese posto per l’intervista.

A colpirmi non furono solo le sue parole: il coraggio con cui criticava il governo, la franchezza con cui parlava anche dell’arroccamento della sua stessa comunità cristiana. A imprimersi ancora più profondamente nella mia mente fu il suo contegno: un servitore di Dio – questa la mia percezione – taciturno, molto zelante, introverso e persino ascetico che, adesso che Dio lo aveva chiamato alla cura delle anime della difficile comunità cristiana di al-Qaryatayn e alla guida della comunità monastica, metteva tutto il suo impegno anche in questo ruolo pubblico. Gli occhi perlopiù chiusi, parlava a voce bassa e molto lentamente, come se stesse consapevolmente rallentando le pulsazioni e usando quell’intervista come pausa tra due incombenze ben più faticose. Allo stesso tempo parlava con grande ponderazione, usando frasi perfettamente compiute e ciò che andava dicendo era di una tale chiarezza e politicamente di una tale durezza che più volte gli ho chiesto se non fosse troppo pericoloso riferire tutto testualmente. Al che lui apriva i suoi gentili occhi scuri e faceva stancamente un cenno col capo: certo che potevo pubblicare tutto, se no semplicemente non avrebbe detto quel che aveva detto; il mondo deve sapere quel che accade in Siria.

Questa stanchezza – un altro aspetto potente, forse il più potente, dell’immagine che mi ero fatto di padre Jacques – era la stanchezza di un uomo che non solo ha compreso, ma ha anche accettato che per lui ci sarà pace forse solo nell’altra vita, la stanchezza di un medico o di un pompiere che risparmia le proprie forze per quando la necessità prenderà il sopravvento. E padre Jacques, in quanto prete in mezzo alla guerra, era davvero anche un medico e un pompiere, non solo per le anime della gente impaurita, ma anche per i corpi degli indigenti, a cui egli nella sua chiesa offriva cibo, protezione, vestiti, dimora e soprattutto cura a prescindere dalla loro fede. Centinaia, se non migliaia sono stati i rifugiati, per la maggior parte musulmani, accolti nel convento e assistiti fino alla fine dalla comunità di Mar Musa. Non solo: padre Jacques riuscì a mantenere la pace, anche la pace religiosa, per lo meno ad al-Qaryatayn. In particolare è grazie a lui, al taciturno, serio padre Jacques, che i diversi gruppi e milizie – alcuni filogovernativi, altri d’opposizione – si misero d’accordo per mettere al bando dalla cittadina le armi pesanti. E questo prete critico con la Chiesa riuscì anche a persuadere quasi tutti cristiani della sua comunità a rimanere. «Noi cristiani», mi disse padre Jacques, «apparteniamo a questo paese, anche se i fondamentalisti, tanto qui quanto in Europa, non amano sentirlo dire. La cultura araba è la nostra cultura».

Gli appelli di taluni politici occidentali ad accogliere solo gli arabi cristiani gli lasciavano l’amaro in bocca. Quell’Occidente che ha ignorato milioni di siriani di tutte le confessioni che manifestavano pacificamente per la democrazia e i diritti umani, quell’Occidente che ha rovinato l’Iraq e che procurato ad al-Asad il gas tossico, quell’Occidente alleato dell’Arabia Saudita e, in quanto tale, anche principale sponsor del jihadismo, quello stesso Occidente si preoccupa adesso dei cristiani arabi? Ci sarebbe da ridere, commentò padre Jacques rimanendo però impassibile. E, richiudendo gli occhi, proseguì: «Questi politici con le loro dichiarazioni irresponsabili promuovono esattamente quel confessionalismo che minaccia noi cristiani».
Le responsabilità che gravavano su padre Jacques, e che egli ha continuato ad assumersi come sempre senza lamentarsi, crescevano continuamente. I membri stranieri della comunità erano stati costretti a lasciare la Siria e a trovare rifugio nell’Iraq del Nord. Erano rimasti solo sette fra suore e monaci siriani, che si dividevano fra i due monasteri di Mar Musa e Mar Elian. Il fronte di guerra si spostava in continuazione e al-Qaryatayn si trovava ora sotto il controllo dello Stato ora sotto quello delle milizie. Come il resto della cittadinanza, i monaci e le suore dovevano adeguarsi ora all’una ora all’altra delle parti in guerra e in più tentare di sopravvivere agli attacchi aerei, quando la cittadina si trovava nelle mani dell’opposizione. Nel frattempo lo Stato islamico avanzava sempre di più verso il cuore della Siria. Pochi giorni prima di essere rapito, padre Jacques scriveva ad un’amica francese: «La minaccia dell’Is, una setta di terroristi che dà un’immagine terrificante dell’islam, è arrivata nella nostra regione. È difficile decidere cosa fare: dovremmo forse lasciare le nostre case? Sarebbe per noi difficile. È terribile rendersi conto che siamo stati abbandonati, soprattutto da quel mondo cristiano che ha deciso di mantenersi a distanza nella speranza di tenere lontano da sé il pericolo. Per loro non significhiamo niente».

In queste poche righe di una semplice mail, per di più scritta certamente di fretta, si incontrano due frasi caratteristiche di padre Jacques che sono allo stesso tempo un metro di paragone per ogni pensiero razionale. La prima è: «La minaccia dell’Is, una setta di terroristi che dà un’immagine terrificante dell’islam…»; la seconda è quella sul mondo cristiano: «Per loro non significhiamo niente». Difendeva la comunità altrui e criticava la propria. Fino a pochi giorni prima del suo rapimento, quando il gruppo che si richiama all’islam e pretende di applicare la legge del Corano minacciava già fisicamente lui e la sua comunità, padre Jacques insisteva ancora sul fatto che questi terroristi deformavano il vero volto dell’islam. A un musulmano a cui, di fronte allo Stato islamico, l’unica cosa che viene in mente da dire è la frase retorica che la violenza non ha a che fare con l’islam, non potrei che controbattere. Ma un cristiano, un prete cristiano, che potrebbe essere cacciato, umiliato, rapito o ucciso da fedeli di un’altra religione e che nonostante tutto si ostina a difenderla, un tale servitore di Dio mostra una grandezza che ho incontrato solo nelle vite dei santi.

Uno come me non può difendere l’islam con questi argomenti. Non deve. L’amore verso se stessi – la propria cultura, il proprio paese e anche la propria stessa persona – si mostra nell’autocritica. L’amore verso gli altri – un’altra persona, un’altra cultura e anche un’altra religione – può permettersi di essere più appassionato, incondizionato. Certo, l’amore per gli altri presuppone l’amore per sé. Ma innamorati si può essere solo degli altri, proprio come padre Paolo e padre Jacques lo sono dell’islam. L’amore per se stessi, invece, deve essere tormentato, dubbioso, sempre pronto a porsi delle domande, se non vuole soccombere sotto il peso del narcisismo, dell’autoincensamento, della vanità. Quanto vale oggi questo discorso per l’islam! Chi da musulmano non lotta con l’islam, non lo mette in dubbio, non lo interroga criticamente, non ama l’islam

Non parliamo solo delle terribili notizie e delle ancor più terribili immagini che provengono dalla Siria e dall’Iraq, dove a ogni atto di barbarie viene sventolato il Corano e a ogni decapitazione viene urlato «Allahu akbar». Anche in molti altri paesi del mondo islamico, se non nella maggior parte, quando si tratta di opprimere il popolo, discriminare le donne, perseguitare, cacciare, massacrare dissidenti, i fedeli di altre religioni, chiunque viva in modo diverso, le autorità statali, le istituzioni filogovernative, le scuole teologiche o i gruppi ribelli si appellano all’islam. In nome dell’islam, in Afghanistan le donne vengono lapidate, in Pakistan intere classi di studenti uccise, in Nigeria centinaia di ragazze rese schiave, in Libia i cristiani decapitati, in Bangladesh i blogger fucilati, in Somalia vengono messe bombe nei mercati, in Mali i sufi e i musicisti uccisi, in Arabia Saudita i dissidenti crocifissi, in Iran le più importanti opere della letteratura contemporanea vietate, in Bahrein gli sciiti oppressi, in Yemen i sunniti e gli sciiti aizzati gli uni contro gli altri. 

Non c’è dubbio che la maggior parte dei musulmani rifiuti il terrore, la violenza e la repressione. Non si tratta solo di un’affermazione retorica, ma ne ho fatto esperienza diretta nel corso dei miei viaggi: coloro per i quali la libertà non è affatto scontata ne comprendono a maggior ragione il valore. Tutte le rivolte di massa degli scorsi anni nel mondo islamico erano rivolte per la democrazia e i diritti umani: non solo le rivoluzioni – tentate, anche se per la maggior parte fallite – in quasi tutti i paesi arabi, ma anche le proteste in Turchia, Iran, Pakistan e non ultima la rivolta nelle urne alle scorse elezioni presidenziali in Indonesia. Allo stesso modo i flussi di rifugiati mostrano dov’è che molti musulmani sperano di poter avere una vita migliore che nel loro paese: certamente non in dittature confessionali. E ancora: le notizie che ci giungono da Mosul o da al-Raqqa ci raccontano non dell’entusiasmo ma del panico e della disperazione della popolazione. Le principali autorità del mondo islamico hanno respinto la pretesa dell’Is di parlare in nome dell’islam e hanno sviscerato in dettaglio in che modo il suo agire e la sua ideologia contraddica il Corano e gli insegnamenti fondamentali della teologia islamica. E non dimentichiamo che sono musulmani quelli che combattono in prima linea contro l’Is: curdi, sciiti, persino alcuni gruppi sunniti e i soldati dell’esercito iracheno.

È necessario ribadirlo per non cadere nell’inganno – a cui ricorrono, usando le stesse parole, islamisti e critici dall’islam – secondo il quale l’islam sta conducendo una guerra contro l’Occidente. In verità bisognerebbe dire che l’islam sta conducendo una guerra contro se stesso: il mondo islamico è sconvolto da un conflitto interno, le cui conseguenze sulla cartografia politica ed etnica potrebbero uguagliare le fratture della prima guerra mondiale. L’Oriente multietnico, multireligioso e multiculturale che ho studiato sulle testimonianze letterarie medievali e che ho imparato ad amare come una realtà certamente mai perfetta, anzi continuamente minacciata, ma comunque vivacissima durante i miei lunghi soggiorni al Cairo e a Beirut, durante le vacanze estive da bambino a Isfahan e come reporter nel monastero di Mar Musa, questo Oriente esiste ormai tanto poco quanto il mondo di ieri, cui Stefan Zweig negli anni Venti guardava colmo di malinconia e tristezza.

Cos’è accaduto? Lo Stato islamico non è nato oggi e neanche con la guerra civile in Iraq e in Siria. I suoi metodi vengono respinti, ma la sua ideologia è il wahhabismo, che oggi dispiega i suoi effetti fino al più remoto angolo del mondo islamico e che, nella sua versione salafita, è diventato attraente anche per i giovani in Europa. Quando si scopre che i libri di testo e i piani di studi nello Stato islamico coincidono per il 95 per cento con quelli usati in Arabia Saudita, allora si scopre anche che il mondo è diviso in vietato e permesso e le persone in fedeli e infedeli non solo in Iraq e in Siria. Sponsorizzato dai miliardi derivanti dal petrolio, negli ultimi decenni nelle moschee, nei libri, in televisione si è andato diffondendo un pensiero che definisce tutti i fedeli di altre religioni senza eccezioni eretici, li oltraggia, li terrorizza, li denigra e li offende. Quando giorno per giorno altri essere umani vengono sistematicamente sminuiti, la logica conseguenza è che alla fine anche la loro stessa vita diventa priva di valore. E noi tedeschi, con la nostra storia, lo sappiamo bene. Che un tale fascismo religioso sia anche semplicemente pensabile, che l’Is trovi così tanti combattenti e ancora più simpatizzanti, che possa travolgere interi paesi e conquistare quasi senza combattere intere metropoli, non è l’inizio ma al contrario il punto di arrivo provvisorio di un lungo declino, un declino anche e soprattutto del pensiero religioso.

Ho iniziato a studiare orientalistica, e in particolare il Corano e la poesia, nel 1988. Credo che chi abbia studiato questa materia nella sua versione classica giunge al punto in cui non riesce più a tenere insieme passato e presente. Perde la speranza e diventa irrimediabilmente sentimentale. Ovviamente il passato non è stato tutto rose e fiori. Ma come filologo ho avuto a che fare soprattutto con gli scritti dei mistici, dei filosofi, dei retori e anche dei teologi. E io, anzi, noi studenti rimanevamo e rimaniamo meravigliati dall’originalità, l’apertura mentale, la forza estetica e anche la grandezza umana che incontriamo nella spiritualità di Ibn Arabi, nella poesia di Rumi, nella storiografia di Ibn Khaldun, nella teologia poetica di Abdulqaher al-Dschurdschani, nella filosofia di Averroè, nelle descrizioni di viaggi di Ibn Battuta e ancora nelle storie di Le mille e una notte, storie profane – sì, proprio profane – ed erotiche e per di più persino femministe e allo stesso tempo permeate in ogni singola pagina dello spirito e della poesia del Corano. Non si tratta certo di notizie di giornali, no. La realtà sociale di questa civiltà avanzata era più grigia e violenta. Eppure queste testimonianze raccontano di qualcosa che un tempo era pensabile, se non addirittura ovvio, nell’islam. Nella cultura religiosa dell’islam moderno non c’è niente, assolutamente niente che possa essere anche solo lontanamente paragonato – in termini di fascino e profondità – agli scritti in cui mi sono imbattuto nel corso dei miei studi. Per non parlare dell’architettura islamica, dell’arte islamica, della musica islamica: tutto questo non esiste più.

Porto come esempio la perdita di creatività e libertà nel mio ambito. Una volta era pensabile, se non addirittura ovvio, che il Corano fosse un testo poetico, nient’altro che poesia, che poteva essere compreso esclusivamente con gli strumenti e i metodi della poetologia. Era pensabile, se non addirittura ovvio, che un teologo fosse allo stesso tempo uno studioso di letteratura e un esperto di poesia, in molti casi persino poeta egli stesso. Oggi il mio professore al Cairo Nasr Hamid Abu Zayd è stato accusato di eresia, allontanato dalla sua cattedra e costretto persino al divorzio, perché intende lo studio del Corano come uno studio letterario. Ciò significa che oggi un simile approccio al Corano, che era un tempo ovvio e per il quale Nasr Abu Zayd poteva ricorrere ai migliori studiosi di teologia islamica classica, è diventato semplicemente impensabile. Un simile approccio al Corano viene oggi perseguito, punito e tacciato di eresia. Per di più il Corano è un testo non solo scritto in versi, ma che parla attraverso immagini sconcertanti, ambigue, misteriose. Non è neanche un vero e proprio libro, ma una messa in scena, lo spartito di un canto che commuove gli ascoltatori arabi con la sua ritmica, il suo andamento onomatopeico, la sua melodia. La teologia islamica non solo ha apprezzato le peculiarità estetiche del Corano, ma ha anche interpretato la bellezza della lingua alla stregua del miracolo autenticatore dell’islam. Oggi ovunque nel mondo islamico vediamo cosa accade quando la struttura linguistica di un testo non viene tenuta in alcun conto, non viene più compresa adeguatamente o semplicemente non se ne prende atto. Il Corano viene degradato a un vademecum da interrogare con un motore di ricerca su questa o quella parola d’ordine. La potenza linguistica del Corano si trasforma in dinamite politica.

Si legge spesso che l’islam dovrebbe attraversare le fiamme dell’illuminismo o che dovrebbe contrapporre la modernità alla tradizione. Ma forse si tratta di una semplificazione, visto che il passato dell’islam è stato molto più illuministico e la letteratura tradizionale talvolta pare più moderna del discorso teologico odierno. Goethe e Proust, Lessing e Joyce erano affascinati dalla cultura islamica, e certamente non soffrivano di disturbi mentali. Nei suoi libri e nei suoi monumenti essi hanno visto qualcosa che noi, costretti a confrontarci in maniera spesso brutale con il presente dell’islam, facciamo fatica a vedere. Il problema dell’islam forse non è tanto la tradizione quanto la rottura pressoché totale con questa tradizione, la perdita di memoria culturale, l’amnesia della sua civiltà

Tutti i popoli dell’Oriente hanno conosciuto, con il colonialismo e le dittature laiciste, una modernizzazione brutale, imposta dall’alto. Per fare un esempio, le donne iraniane non hanno tolto il velo gradualmente, ma i soldati sciamavano per le strade e, per un ordine dello scià del 1936, glielo strappavano dalla testa con violenza. Diversamente che in Europa – dove la modernità, con tutti i suoi contraccolpi e crimini, è stata comunque vissuta come un processo di emancipazione compiuto nel corso di decenni e di secoli – in Medio Oriente essa è stata principalmente un’esperienza di violenza. La modernità è associata non con la libertà ma con lo sfruttamento e il dispotismo. Provate a immaginare un presidente italiano che entra con la macchina nella basilica di San Pietro, sale sull’altare con gli stivali lerci e colpisce sul volto il papa con la frusta: ecco, così potete avere più o meno un’idea di cosa significò quando Reza Shah nel 1928 con i suoi stivali da cavallerizzo attraversò marciando il tempio sacro di Qom e, quando l’imam lo invitò a togliersi le scarpe come tutti gli altri fedeli, lo colpì al volto con la frusta. E potete trovare simili episodi e momenti chiave in molti altri paesi del Medio Oriente, episodi che invece di aiutare a emanciparsi lentamente dal passato, questo passato lo hanno distrutto e hanno tentato di cancellarlo dalla memoria. 

Si poteva pensare che i fondamentalisti religiosi che, dopo il fallimento del nazionalismo, hanno avuto un’influenza sempre crescente nel mondo islamico, tenessero almeno in gran conto la propria cultura. E invece è stato esattamente il contrario: nel voler tornare indietro alle presunte origini, essi non hanno semplicemente trascurato la tradizione, ma le hanno fatto decisamente la guerra. Ci sorprendiamo oggi dell’iconoclastia dello Stato islamico solo perché non abbiamo realizzato che in Arabia Saudita praticamente non esistono più resti dell’antica civiltà. Alla Mecca i wahhabiti hanno distrutto le tombe e le moschee dei parenti del profeta, e persino la sua casa natale. La storica moschea del profeta a Medina è stata sostituita da un gigantesco edificio moderno e là dove fino a pochi anni fa si trovava la casa dove Maometto aveva vissuto con la moglie Khadija, oggi c’è un bagno pubblico.

Oltre che del Corano, nel corso dei miei studi mi sono occupato anche della mistica islamica, il sufismo. «Mistica» sembra qualcosa di marginale, di esoterico, una sorta di cultura clandestina. In relazione all’islam niente può essere più falso. Fino al XX secolo il sufismo rappresentava la base della religiosità popolare in quasi tutto il mondo islamico. Nell’islam asiatico lo è ancora oggi. Allo stesso modo anche l’alta cultura – specialmente la poesia, l’arte figurativa e l’architettura – era permeata dello spirito della mistica. In quanto era la forma più comune di religiosità, il sufismo rappresentava il contrappeso etico ed estetico all’ortodossia degli esperti della legge. Dando rilievo soprattutto alla misericordia di Dio, scorgendola dietro ogni singola lettera del Corano, cercando sempre nella religione la bellezza, riconoscendo la verità anche nelle altre religioni e prendendo esplicitamente dal cristianesimo il comandamento «Ama il tuo nemico», il sufismo permeò le società islamiche di valori, storie e suoni che non sarebbero potuti derivare da una semplice devozione letterale al Corano. Il sufismo in quanto islam vissuto non depotenziava l’islam della Legge ma lo integrava, lo rendeva nella quotidianità più morbido, ambivalente, permeabile, tollerante e soprattutto, grazie alla musica, alla danza, alla poesia, lo trasformava in un’esperienza sensoriale. 

Di tutto ciò non rimane quasi nulla. Ovunque mettano piede gli islamisti – a cominciare dall’Arabia Saudita già nel XIX secolo fino al Mali solo di recente – pongono innanzitutto fine alle feste sufite, vietano gli scritti mistici, distruggono le tombe dei santi, tagliano i capelli alle guide spirituali sufite o le uccidono. In verità non solo gli islamisti, ma anche i riformatori e i religiosi illuministi del XIX e XX secolo consideravano le tradizioni e i costumi dell’islam popolare arretrati e obsoleti. Costoro non hanno mai preso sul serio la letteratura sufita. Furono invece studiosi occidentali, come Annemarie Schimmel (che ricevette il Premio per la pace nel 1995), a pubblicare i manoscritti, salvandoli così dalla distruzione. E ancora oggi sono pochissimi gli intellettuali islamici che si occupano della ricchezza della loro stessa tradizione. Ovunque nel mondo islamico le antiche città distrutte, dimenticate, trasformate in discariche con le rovine dei loro monumenti architettonici assurgono a simbolo della decadenza dello spirito islamico esattamente come il più grande centro commerciale del mondo costruito alla Mecca proprio di fianco alla Ka‘ba. Provate a visualizzare davanti agli occhi l’immagine che si può vedere anche dalle foto: il luogo più sacro dell’islam, questa sobria e meravigliosa costruzione, nella quale il profeta in persona pregava, è letteralmente sovrastato da Gucci ed Apple. Forse avremmo dovuto prestare più attenzione all’islam delle nostre nonne piuttosto che a quello dei nostri eruditi. 

Certamente in alcuni paesi si è cominciato a restaurare edifici e moschee, ma sono dovuti venire storici dell’arte occidentali o anche musulmani occidentalizzati come me per riconoscere il valore della tradizione. E purtroppo siamo arrivati con un secolo di ritardo, quando gli edifici erano già caduti a pezzi, le tecniche edili dimenticate e i libri cancellati dalla memoria. Credevamo di avere tempo per studiare le cose approfonditamente, e invece all’improvviso, in quanto lettore, mi sono sentito quasi come un archeologo in territorio di guerra che, sempre con grande attenzione anche se di corsa, raccoglie reperti, in modo che le future generazioni possano almeno osservarli nei musei. Non c’è dubbio che i paesi islamici producano ancora oggi opere eccellenti, come si vede in occasione delle biennali, dei festival cinematografici e anche di recente alla Fiera del libro di Francoforte, ma questa cultura non ha quasi nulla a che fare con l’islam. Una cultura islamica, perlomeno una di qualità, non esiste più. Ad aleggiare intorno a noi oggi sono le macerie di una gigantesca implosione spirituale.

C’è ancora speranza? Come ci insegna il fondatore della comunità di Mar Musa, padre Paolo, fino all’ultimo respiro c’è speranza. La speranza è il tema centrale dei suoi scritti. Il giorno dopo il rapimento del suo discepolo e sostituto, i musulmani di al-Qaryatayn affluirono in massa nella chiesa e pregarono per il loro padre Jacques. È questo a darci la speranza: che l’amore supera le barriere delle religioni, delle etnie e delle culture. Lo shock provocato dalle notizie e dalle immagini provenienti dallo Stato islamico è enorme e ha scatenato le forze antagoniste. Finalmente persino nell’ambito dell’ortodossia islamica si è formata una resistenza contro l’uso della violenza in nome della religione. E già da qualche anno assistiamo allo sviluppo di un nuovo pensiero religioso, forse meno nel cuore arabo dell’islam e più alla sua periferia – in Asia, in Sudafrica, in Iran, in Turchia e non ultimo tra i musulmani d’Occidente. Anche l’Europa dopo le due guerre mondiali si è dovuta reinventare. E di fronte alla sventatezza, alla sottovalutazione e all’aperto disprezzo che, non solo i nostri politici, ma anche noi come società da qualche anno mostriamo nei confronti del progetto politicamente più prezioso che questo continente abbia mai prodotto – il progetto di un’Unione europea – forse è il caso che io da questo podio faccia menzione di quante volte nel corso dei miei viaggi l’Europa mi sia stata indicata come modello, quasi come un’utopia. Chi ha dimenticato il motivo per cui abbiamo bisogno dell’Europa guardi i volti sfiniti, spossati, impauriti dei rifugiati che hanno abbandonato tutto dietro di sé e hanno rischiato la vita per quello che ancora l’Europa rappresenta per loro: una promessa

E questo mi riconduce alla seconda frase di padre Jacques che mi aveva colpito, quella sul mondo cristiano: «Per loro non significhiamo niente». Non sta a me, da musulmano, rimproverare ai cristiani del mondo di disinteressarsi non solo del popolo siriano o iracheno, ma anche dei propri stessi fratelli e sorelle cristiani. Eppure è proprio quello che penso spesso di fronte al disinteresse della nostra opinione pubblica nei confronti dell’apocalittica catastrofe di quell’Oriente che tentiamo di tenere lontano con filo spinato, navi da guerra, fantasmi e paraocchi mentali. A poche ore di volo da qui interi popoli vengono sterminati o perseguitati, ragazze rese schiave, molti dei più importanti monumenti dell’umanità fatti saltare per aria, intere culture – e con esse un’originaria varietà etnica, religiosa e linguistica che, contrariamente all’Europa, si era conservata ancora fino al XXI secolo – si inabissano, eppure noi ci raduniamo e ci ribelliamo solo quando le bombe di questa guerra ci colpiscono direttamente come il 7 e 8 gennaio a Parigi o quando le persone che da questa guerra fuggono bussano alle nostre porte.

È un bene che le nostre società, diversamente da quanto avvenuto dopo l’11 settembre, al terrore abbiano contrapposto la nostra libertà. Ci rende felici vedere quante persone in Europa e in particolare in Germania si danno da fare per i rifugiati. Ma questa protesta e questa solidarietà rimangono troppo spesso su un terreno impolitico. Non c’è nessun dibattito pubblico ampio sulle cause del terrorismo e del flusso di rifugiati e su come la nostra stessa politica abbia forse addirittura favorito la catastrofe che si compie ai nostri confini. Non ci chiediamo perché il nostro partner più stretto in Medio Oriente sia proprio l’Arabia Saudita. Non impariamo dai nostri errori quando stendiamo un tappeto rosso a un dittatore come il generale al-Sisi. O impariamo la lezione sbagliata quando dalle disastrose guerre in Iraq o in Libia traiamo la conclusione che sia meglio tenersi fuori dai genocidi. Non ci è venuta in mente nessuna buona idea per evitare l’uccisione del suo stesso popolo perpetrata da quattro anni dal regime siriano. E allo stesso modo ci siamo rassegnati all’esistenza di un nuovo fascismo religioso, il cui territorio è grande circa quanto la Gran Bretagna e che si estende dai confini dell’Iran fino quasi al Mediterraneo. Non che ci sia una risposta facile alla domanda su come liberare una città di un milione di abitanti come Mosul. Ma noi non ci poniamo neanche seriamente la domanda. Un’organizzazione come lo Stato islamico i cui combattenti si possono stimare in circa 30 mila unità non è invincibile per la comunità mondiale. Non deve esserlo. «Oggi sono da noi», ha detto il vescovo di Mosul, Yohanna Petros Mouche, invocando l’aiuto dell’Occidente e delle altre potenze mondiali, «domani saranno da voi».

Non voglio neanche immaginare a cosa dobbiamo ancora assistere prima di dare ragione al vescovo di Mosul, visto che fa parte della logica della propaganda dello Stato islamico creare con le sue immagini un livello di orrore sempre superiore, in modo da penetrare nelle nostre coscienze. Quando l’uccisione di un singolo ostaggio cristiano che, mentre veniva decapitato, pregava il rosario, ci ha lasciato indifferenti, l’Is ha iniziato a decapitare interi gruppi di cristiani. Quando noi abbiamo messo al bando le decapitazioni dai nostri schermi, l’Is ha iniziato a bruciare i dipinti del museo nazionale di Mosul. Quando noi ci siamo abituati alle statue distrutte, l’Is ha iniziato a radere al suolo intere città antiche come Nimrud e Ninive. Quando non ci siamo più occupati della persecuzione degli yazidi, siamo stati scossi dalle notizie degli stupri di gruppo. Quando credevamo che l’orrore fosse confinato a Iraq e Siria, sono cominciati ad arrivare video di torture e uccisioni dalla Libia e dall’Egitto. Quando ci siamo abituati alle decapitazioni e alle crocifissioni, le vittime hanno cominciato ad essere dapprima decapitate e poi crocifisse, da ultimo in Libia. Palmira non è stata fatta saltare in aria tutta in una volta, ma edificio per edificio, nel corso di settimane, in modo da creare ogni volta una nuova notizia. E tutto ciò non avrà fine, l’Is continuerà a produrre orrore finché noi in Europa nella nostra quotidianità non avremo visto, sentito e percepito che questo orrore non avrà da sé una fine. Parigi sarà stato solo l’inizio e Lione non rimarrà a lungo l’ultima decapitazione. E più attendiamo, minori possibilità ci rimangono. Detto in altri termini: è già troppo tardi.

Può un Premio per la pace esortare alla guerra? Io non esorto alla guerra. Io faccio notare che una guerra c’è già e che noi in quanto i vicini più prossimi dobbiamo agire, forse anche militarmente, sì, ma soprattutto sul piano diplomatico molto più risolutamente di come si sia fatto finora, e anche a livello di società civile. Questa è una guerra che non può trovare una soluzione solo in Siria e in Iraq. Solo le potenze mondiali che stanno dietro agli eserciti e alle milizie in lotta – l’Iran, la Turchia, gli Stati del Golfo Persico, la Russia e anche l’Occidente – vi possono porre fine. Ma i governi si muoveranno solo quando le nostre società civili non accetteranno più la follia. Qualunque cosa faremo probabilmente commetteremo degli errori. Ma l’errore più grande che possiamo compiere è continuare a non fare nulla o quasi contro i genocidi che lo Stato islamico da una parte e al-Asad dall’altro perpetrano davanti l’uscio della nostra porta europea. 

«Torno adesso da Aleppo», scriveva padre Jacques nella mail che scrisse il 21 maggio, pochi giorni prima di essere rapito, «una città che dorme sulle rive dell’orgoglio, che sorge al centro dell’Oriente. Una città che oggi appare come una donna divorata dal cancro. Tutti fuggono da Aleppo, per primi i poveri cristiani, sebbene questo massacro non riguardi solo i cristiani ma l’intero popolo siriano. I nostri propositi sono difficili da realizzare, specialmente dopo che padre Paolo, il maestro e il fondatore del dialogo nel XXI secolo, è sparito. In questi giorni noi viviamo il dialogo come sofferenza comune, comunitaria. Siamo tristi in questo mondo ingiusto, che porta una parte di responsabilità per le vittime di questa guerra. Il mondo del dollaro e dell’euro, che guarda solo ai propri popoli, al proprio benessere, alla propria sicurezza, mentre il resto del mondo muore per la fame, per le malattie, per le guerre. Sembra che il suo unico obiettivo sia quello di trovare zone dove poter portare la guerra per accrescere ancora il commercio di armi, di aerei. Che giustificazioni forniscono questi governi che potrebbero mettere fine ai massacri e invece non fanno nulla? Io non temo per la mia fede, temo per il mondo. La domanda che ci facciamo è: abbiamo o no il diritto di vivere? La risposta ce l’abbiamo davanti agli occhi, perché questa guerra è una risposta chiara, chiara come la luce del sole. Quello che viviamo oggi è il vero dialogo, il dialogo della misericordia. Coraggio, mia cara, sono con te e ti abbraccio forte, Jacques». 

Il 28 luglio 2015, due mesi dopo il rapimento di padre Jacques, lo Stato islamico ha conquistato la cittadina di al-Qaryatayn. La maggior parte degli abitanti è riuscita a scappare appena in tempo, duecento cristiani però sono stati sequestrati dall’Is. Dopo un mese, il 21 agosto, il monastero di Mar Elian è stato raso al suolo con i bulldozer. Non una delle millenarie pietre è rimasta in piedi, come si può vedere dalle immagini messe online dall’Is. Dopo altre tre settimane, il 3 settembre, da un sito dello Stato islamico sono venute fuori delle foto che mostrano alcuni dei cristiani di al-Qaryatayn seduti in prima fila in una grande sala, forse un’aula magna di una scuola, completamente rasati, alcuni smagriti al punto da vederne le ossa, lo sguardo vuoto, tutti portano i segni della prigionia. Tra i prigionieri si riconosce anche padre Jacques in abiti civili, anch’egli completamente rasato ed emaciato, con lo sguardo colmo di sgomento, la mano davanti alla bocca, come a non voler ammettere ciò che vede. Sul palco dell’aula siede un uomo in uniforme, barba lunga e spalle larghe, che firma un contratto. Si tratta di un cosiddetto contratto dhimmi, che assoggetta i cristiani al dominio dei musulmani, impedendo loro di costruire chiese e monasteri, di portare con sé un croce o una Bibbia. Secondo questo contratto, ai preti cristiani è fatto divieto di indossare i loro abiti religiosi, ai musulmani di ascoltare le preghiere, di leggere gli scritti e di mettere piede nelle chiese dei cristiani. Questi ultimi non possono portare armi e devono ubbidire incondizionatamente alle disposizioni date dallo Stato islamico. Devono piegarsi, sopportare in silenzio qualunque ingiustizia e persino pagare una tassa pro capite per poter vivere. Ci si sente male a leggere questo tipo di contratti, che divide molto chiaramente le creature di Dio in esseri umani di prima e di seconda classe e non lascia dubbi sul fatto che ci sia anche una terza classe di esseri umani, la cui vita vale ancora meno.

Lo sguardo di padre Jacques mentre tiene la mano davanti alla bocca è calmo, ma profondamente sconfortato e inerme. Aveva messo in conto il proprio martirio, ma che la sua comunità – i bambini che egli aveva battezzato, gli innamorati che aveva sposato, i vecchi a cui aveva promesso l’estrema unzione – finisse in prigionia era una cosa che doveva far impazzire persino un uomo così riflessivo, dotato di una così grande forza interiore, pronto ad accogliere la volontà di Dio come padre Jacques. In fondo è stato per amor suo che coloro che erano stati fatti prigionieri erano rimasti ad al-Qaryatayn invece di fuggire dalla Siria come hanno fatto molti altri cristiani. Senza dubbio padre Jacques pensa di portarne la colpa. Ma io so che il giudizio di Dio sarà diverso.

C’è speranza? Sì, c’è speranza, c’è sempre una speranza. Avevo appena finito di scrivere questo discorso quando, cinque giorni fa, martedì, ho ricevuto la notizia che padre Jacques era libero. Alcuni abitanti della cittadina di al-Qaryatayn lo hanno aiutato a fuggire dalla propria cella, lo hanno vestito in modo da camuffarlo e con l’aiuto di alcuni beduini sono riusciti a portarlo fuori dal territorio dello Stato islamico. Successivamente egli è tornato dai suoi fratelli e dalle sue sorelle della comunità di Mar Musa. Sono state chiaramente molte le persone che hanno preso parte alla liberazione di padre Jacques e ciascuna di esse, tutte musulmane, ha rischiato la propria vita per un prete cristiano. L’amore ha superato i confini delle religioni, delle etnie e delle culture. Questa notizia è splendida, letteralmente meravigliosa. Eppure prevale la preoccupazione, e in maniera più cocente proprio in padre Jacques, perché dopo la sua liberazione la vita degli altri duecento cristiani di al-Qaryatayn è più che mai in pericolo. E poi c’è anche padre Paolo, suo maestro e fondatore di quella comunità cristiana che ama l’islam, di cui continuano a non esserci tracce. Ma fino all’ultimo respiro c’è speranza. 

Un Premio per la pace non può esortare alla guerra. Può però invitare alla preghiera. Signore e signori, so di chiedervi qualcosa di insolito – anche se così insolito non è trovandoci in una chiesa. Vi prego alla fine di questo discorso di non applaudire ma di pregare per padre Paolo e per i duecento cristiani di al-Qaryatayn che sono ancora prigionieri, per i bambini che padre Jacques ha battezzato, per gli innamorati che egli ha sposato, per i vecchi a cui ha promesso l’estrema unzione. E se non siete religiosi, vi prego di rivolgere le vostre speranze agli ostaggi e anche a padre Jacques, che se la prende con se stesso perché è l’unico a essere stato liberato. Cos’altro sono infatti le preghiere se non speranze rivolte a Dio? Io credo alle speranze e credo che esse – con o senza Dio – possano operare nel nostro mondo. Senza speranze l’umanità non avrebbe posto una pietra sull’altra, quelle stesse pietre che in guerra con tanta leggerezza vengono distrutte. E dunque, signore e signori, pregate per padre Jacques Mourad, pregate per padre Paolo Dall’Oglio, pregate per i cristiani di al-Qaryatayn, pregate o rivolgete le vostre speranze alla liberazione di tutti gli ostaggi e per la libertà in Siria e in Iraq. Vi invito anche ad alzarvi in piedi, in modo da contrapporre ai barbari video dei terroristi l’immagine della nostra fratellanza

Vi ringrazio.

(traduzione di Cinzia Sciuto)

Redazione de Gliscritti | Martedì 22 Marzo 2016 - 9:38 pm | | Default
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1/ La pedagogia dei T-Rex di peluche, di Fabrice Hadjadj 2/ Il sangue dietro il mondo digitale non è virtuale, di Fabrice Hadjadj

1/ La pedagogia dei T-Rex di peluche, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 13/3/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

Ho spesso denunciato il fatto che l'immaginario storico è stato sostituito da uno preistorico o addirittura pre-preistorico. Non sono più re e regine, Romani in toga o greci in clamide che si insegnano ai bambini prima di tutto il resto, ma il diplodoco, il triceratopo, lo pterodattilo e – certamente – il divo dell'ossario: il tirannosauro, il cui nome mescola insidiosamente il tiranno e il re e che, abbreviato in T-Rex, lascia intendere che è il Christus Rex dai lunghi denti di un mondo concorrenziale e colpito da amnesia.

Devo tuttavia correggermi. C'è una profonda pedagogia del dinosauro di peluche. Con esso un bambino può non soltanto addomesticare le sue paure, come con il buon vecchio Teddy Bear, ma anche apprendere delicatamente un'idea così fondamentale da costituire ormai lo snodo tra modernità e postmodernità.

Nel suo saggio The Sixth Extinction: an Unnatural History (Premio Pulitzer 2015), Elizabeth Kolbert osserva che «l'idea di estinzione è forse la prima nozione scientifica che i bambini di oggi si trovano ad affrontare. Ai bambini di un anno si danno pupazzetti di dinosauri e i bambini di due anni comprendono più o meno intuitivamente che quelle piccole bestie di plastica rappresentano in effetti animali molto grossi. Portano ancora i pannolini e già sono capaci di spiegare che un tempo ci furono innumerevoli tipi di dinosauri e che perirono tutti, tantissimo tempo fa, in una catastrofe planetaria».

Così il T-Rex di pezza o di plastica è molto più educativo dei giocattoli educativi, giacché familiarizza il bimbo non solo con la feroce lotta per la sopravvivenza ma anche e soprattutto con la prospettiva di un'estinzione totale. È la garanzia per lui di una precocità senza precedenti.

Perché l'idea di estinzione non va da sé. Fino al XVIII secolo, gli scienziati non immaginavano che una specie potesse sparire. Per gli antichi gli animali muoiono individualmente, ma, grazie alla riproduzione, la loro specie rimane: è proprio del movimento stesso della vita il tendere all'immortalità.

San Tommaso d'Aquino, nel suo commento al De anima di Aristotele, dice: «È naturale per il vivente generare un altro essere come se stesso per partecipare sempre al divino ed all'immortale». Siamo ben lontani da questo "naturale" ormai.

La teoria dell'evoluzione – che sul piano della natura è l'equivalente della "distruzione creatrice" dell'economia liberale – ci insegna anzitutto che le specie lentamente scompaiono per far posto ad altre specie più adattate. Darwin immagina tuttavia uno slancio uniforme, senza catastrofi, in una parola progressista. È in questo che è moderno.

Ora siamo andati oltre. Curiosamente, il primo a lavorare seriamente allo studio dei fossili e sostenere improvvisamente la tesi di specie scomparse fu il fissista Cuvier. Chiamato al Museo di Storia Naturale dal governo rivoluzionario, Cuvier non credeva al progresso ma alla catastrofe. Fu forse l'esperienza della caduta improvvisa dell'Ancien régime che fece germogliare in lui in questa intuizione? Joseph de Maistre non parlava forse a questo riguardo di «distruzione violenta della specie umana»?

Ma la questione è ancor più seria. Non si tratta qui soltanto del nuovo orizzonte di un'estinzione prossima che rende caduchi tutti i sogni di un progresso indefinito. Si tratta più radicalmente di capire: se la vita non è partecipazione all'immortalità, è al contrario solo partecipazione alla morte, al massacro che senza tregua ricomincia, fino al trionfo ultimo del vuoto intersiderale? Ecco ciò che il dinosauro in peluche insinua nel bambino che, diventato grande, ha solo due alternative: o gettarsi nei divertimenti della disperazione, o aprirsi a una speranza divina che lo spinge a coltivare questa terra proprio perché non durerà per sempre e perché è gloria dell'Eterno prendersi cura dell'effimero.

2/ Il sangue dietro il mondo digitale non è virtuale, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 6/3/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2016)

Tutti conoscono il mito, ma chi ne conosce la realtà? Tantalo è immerso per metà in un fiume, sotto i rami di alberi da frutto; quando si china per bere, l'acqua si ritira; se stende le braccia i frutti si sottraggono; ed eccolo condannato a morire di sete in mezzo alla sorgente, mentre arde sempre di più dal desiderio che suscita in lui la promessa di refrigerio che gli sta davanti senza requie.

Perché una tale condanna? Perché ha dato suo figlio Pelope in pasto agli dèi… Invece di accogliere la nascita umana ha brigato per favori sovrumani, dimenticando che i veri dèi del cielo sono i garanti dell'ordine sulla terra e che la dismisura che pretende di avvicinarsi all'Olimpo fa in verità sprofondare nel Tartaro.

Ora, stranamente, il supplizio di Tantalo assomiglia alle delizie dell'internauta. Tutto sta sul suo schermo ma niente è realmente presente. Crede che il mondo sia diventato più piccolo, che si riversi nella sua stanza, che sia a portata di mano, quando invece non è mai stato così lontano e le sue dita non possono afferrare neanche i pulsanti della tastiera.

Come suggerisce Albert Borgmann non si tratta soltanto del virtuale: si tratta dell'“opacità” degli apparecchi tecnologici. La loro sedicente trasparenza è una dissimulazione nascosta. La loro pretesa immediatezza è una mediazione occulta. Vuoi mandare un messaggio, clic, ed è partito, è già arrivato, e tutto sembra scorrere liscio come l'olio, e tuttavia per sostenere questa fulmineità occorrono centrali nucleari, satelliti, antenne giganti che emettono onde come tsunami, enormi datacenter o server farm (giacché si utilizza il termine molto contadino di “fattoria” per designare questi parchi di macchine, e credo che si potrebbe parlare anche di “stalla” dove il verbo si fa bit) con sale più soffocanti che in un sottomarino, tubature multicolori, spaghetti di cavi, fumi che salgono verso le nuvole, come sopra la città-fabbrica di Lenoir nella Carolina del Nord.

Ci si può stupire dell'ignoranza di un Ray Kurzweil che sogna di immortalare la sua coscienza personale grazie a “supporti non-biologici”, come se questi supporti non fossero ancora più materiali del corpo umano, e per questo più fragili, più dipendenti dalle incertezze del mercato mondiale. Ma, conformemente al mito, occorre che il trans-umanista consegni il bimbo agli dèi digitali per avere in cambio soltanto immagini di frutti e fontane la cui realtà gli sfugge.

Non è tutto. Il software ci nasconde l'hard, ed ecco qui il più hard, ecco, dietro la pseudo-immaterialità della tecnologia, la sua materialità più pesante: i minerali necessari alla fabbricazione dei suoi componenti, e dunque le miniere, giudiziosamente delocalizzate lontano dal cybersurfer, dove uomini, donne e bambini lavorano in condizioni in confronto alle quali il “Voreux” (la miniera raccontata da Emil Zola in Germinale) sembra un'attrazione di Disneyland.

Ed ecco qui il più bello: come per caso, tra questi “minerali di sangue” ce n'è uno specialmente dedicato all'elettronica, ai condensatori dei nostri computer e in particolare dei cellulari, che si chiama – ve la do a mille contro uno – il tantalio. Derivato dal coltan, il tantalio proviene principalmente dalla regione del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove alcuni gruppi armati da anni uccidono, saccheggiano e stuprano per avere il controllo dell'estrazione.

Dal 1998 a oggi, guerre e guerriglie e le loro fatali conseguenze hanno causato non meno di 6 milioni di morti. L'industria dell'elettronica può vantare un'efficacia simile a quella dei campi di concentramento. E di averci incorporati in una specie di grande Sonderkommando mondiale. Perché i tasti che scatenano i massacri, come una volta si azionava la leva della camera a gas, sono quelli dei nostri piccoli meravigliosi apparecchi che ci aprono all'“immateriale” e all'“immediato”… Certo, ho potuto avere queste notizie tramite Google. La macchina che realmente partecipa al male è anche quella che virtualmente lo denuncia. Ma noi siamo come Tantalo alla rovescia: vediamo le vittime dei nostri schermi sui nostri schermi e le nostre mani non possono venire loro in aiuto.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:08 pm | | Default
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Telemann & Brockes, Passione visionaria, di Alessandro Beltrami

Riprendiamo da Avvenire dell’11/3/2016 un articolo di Alessandro Beltrami. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Musica classica nella sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

Francoforte, 10 aprile 1716. Venerdì Santo. Fuori dalla Barfüsserkirche, la chiesa dei carmelitani scalzi, c’è una lunga fila di persone. Hanno tutti in mano un libretto di una ventina di pagine, stampato – con una cura tipografica esemplare – nei consueti caratteri gotici. All’ingresso due guardie ne verificano il possesso, come un moderno biglietto di ingresso. Il volume è la Passione di Cristo descritta nei versi di Barthold Heinrich Brockes, dentro li aspetta la traduzione in musica di Georg Philipp Telemann.

È una data importante sotto molti punti di vista. Non solo è uno dei primi concerti pubblici a pagamento, e forse anche il primo evento musicale caritativo della storia: i proventi, infatti, erano destinati al sostegno dell’orfanotrofio cittadino (dove era stata programmata l’esecuzione, spostata poi nella chiesa per l’afflusso di persone). Ma soprattutto è la data di nascita di un capolavoro, uno dei più grandi successi dell’epoca, replicato per anni in molte città della Germania: anche, almeno in parte, dallo stesso Bach a Lipsia. In Italia non è mai stato eseguito. Trecento anni dopo la Brockes Passion di Telemann risuonerà il prossimo 17 marzo a Milano, sotto le volte della chiesa di San Marco, grazie a Simone Toni, la sua orchestra Silete Venti! e le voci, tra le altre, di Miriam Feuersinger, Dan Norman, Raffaele Pe, Mauro Borgioni e Riccardo Pisani.

«Non è possibile disgiungere la musica di Telemann dalle parole di Brockes» spiega Simone Toni, che ha voluto il grande affresco come terza tappa del suo Progetto Passioni, che nei due anni scorsi ha portato a San Marco la Passione secondo Giovanni di Bach e il Messiah di Haendel (mentre una “digressione” discografia è costituita dalla recente pubblicazione dello Stabat Mater di Pergolesi per la Bottega Discantica). «La Passione di Brockes, pubblicata per la prima volta nel 1712, ha avuto un impatto impressionante sui musicisti. Sono stati almeno in quindici a musicarla: e tra i primi furono Telemann e Haendel, nello stesso anno. In area tedesca il testo è stato uno dei più musicati in assoluto. Il successo fu tale che nelle chiese di Amburgo, dove il poeta viveva, nelle Settimane Sante del 1718 e del 1719 ne vennero eseguite quattro diverse versioni in quattro diverse serate».

Lo stesso Telemann, nella sua autobiografia, ricorda che il libretto era «considerato dagli esperti come insuperabile». «È un testo di una potenza e di una violenza inaudite. Telemann ne è come soggiogato. E lo dice esplicitamente introducendo la sua partitura: se le lacrime che io verso leggendo questo testo, scrive l’autore, potessi trasformarle nelle lacrime di molti con la mia musica, se fossi capace di trasformare la parole di tuono in un suono di tempesta, non sarebbe merito mio ma merito della poesia di Brockes». Anche per questo Simone Toni ha voluto che il recupero “italiano” della Brockes Passion fosse completo, chiedendo a Quirino Principe di approntarne la prima traduzione, pubblicata per l’occasione.

Le Passioni bachiane, nel corso della storia, hanno schiacciato le altre, eseguite in occasione del Triduo pasquale nelle chiese della Riforma. «Eppure questa di Telemann è una vetta con pochi rivali. È una continua tempesta di suoni, che corrisponde alla tempesta delle immagini. Per questo era fondamentale tradurre anche il testo. In entrambi troviamo un approccio che stimola la nostra empatia. La musica è un susseguirsi di sconvolgimenti emotivi, capaci di portarti al pianto, di farti salire la rabbia, di svuotarti per la disperazione, di farti sciogliere per la dolcezza ». I personaggi dell’oratorio sono quelli dei Vangeli, con l’evangelista a narrare i fatti, a cui si affiancano, come un commento, le figure simboliche della figlia di Sion e l’anima credente.

«Telemann usa la timbrica orchestrale per colorare e far vibrare simbolicamente i diversi passaggi. Così accade nel momento in cui Pietro rinnega Gesù, o nelle arie di Giuda, o ancora nel miracolo sonoro quando, alla morte di Cristo in croce, si oscura. È uno spirito estremo che non troviamo – sostiene Toni – nelle passioni bachiane». Ed è un’impronta che si avverte subito. «La sinfonia si apre con delle note lunghe, dolorosissime, dell’oboe, che poi si trasformano in rabbia. C’è un Telemann devastato perché ha preso coscienza che il mondo ha ucciso il suo Dio. Mentre in Bach hai l’impressione che inizi un racconto, questa sinfonia sembra scritta a posteriori: come in un flashback, guardando la storia dal sepolcro».

Georg Philipp Telemann, contemporaneo di Johann Sebastian Bach, fu il musicista di maggior successo della sua epoca. Il suo nome oggi è conosciuto anche tra chi non è un esperto, eppure la sua musica non la si ascolta facilmente. «All’epoca era il musicista che incarnava la modernità. È stato un grande imprenditore: era anche editore, ha inventato una rivista musicale in cui ogni mese pubblicava un movimento di una sonata, di un quartetto, di suite per ensemble: così tu dovevi comprare il numero successivo per vedere come andavano a finire. Era il romanzo di appendice in partitura». Nella sua vita ha scritto migliaia e migliaia di pezzi. Solo i brani per la chiesa ammontano a circa tremila. Il catalogo strumentale è sterminato. «Ha scritto moltissima musica per così dire di consumo, per gli amateur. Lui sapeva scrivere per dare il piacere di suonare. In numeri così alti perdi il potere delle singole cose, e il mestiere vince. Ma nella Brockes Passion Telemann si trasforma. È un pezzo fuori da ogni schema, in cui emerge il genio. A fronte di una quotidianità che fruttava ma disperdeva il talento, qui nulla è comune, nulla è ridotto a mestiere. Un’opera visionaria».

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:06 pm | | Default
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Nell’anniversario della morte di C.S. Lewis ecco un romanzo da riscoprire: “Quell’orribile forza”, di Roberto Persico

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Roberto Persico ripubblicato il 22/11/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Chesterton, Lewis, Tolkien nella sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

In un college di Oxford, una cerchia di illuminati progetta di manipolare la vita per ridisegnarne il destino. Ma si scontra con un’insolita compagnia di amici che ama il mondo così com’è. In occasione dell’anniversario della morte del grande scrittore Clive Staples Lewis (1898 – 1963), ripubblichiamo un articolo uscito nel luglio 2006. Si tratta della recensione di uno dei libri più belli, sebbene poco conosciuti, dell’autore: Quell’orribile forza.

Non è un libro nuovo. Neanche appena ristampato. Non c’è nemmeno qualche centenario a suggerirne la riscoperta. È solo una rappresentazione genialmente profetica dei tempi nostri.

L’attacco è piano, quotidiano, quasi banale. Una coppia normale che come tante dopo sei mesi di matrimonio si domanda già cosa si è sposata a fare. Lui, Mark, è professore in un prestigioso college di Oxford. Lei, Jane, lavora al suo dottorato in inglese. Anche la novità destinata a sconvolgere le loro vite entra in punta di piedi.

Mark è membro di uno dei tanti consigli di amministrazione del college. Quel giorno, all’ultimo punto dell’ordine del giorno, figura la «vendita di terreni del College». Compare quasi ogni volta, nessuno ci fa caso. Stavolta però è diverso. Si tratta infatti di alienare il bosco di Bragdon, dov’è collocata l’antichissima “fonte di Merlino”, una sorgente circondata da una pavimentazione che risale ai tempi dei Romani.

È il cuore del College; ma «la Componente Progressista aveva gestito molto bene tutta la faccenda» (le antenne del lettore attento cominciano a vibrare): per tutta l’assemblea gli interventi dei suoi membri non fanno che magnificare le prospettive, culturali e finanziarie, del rapporto fra il college e l’”Istituto Nazionale per il Coordinamento degli Esperimenti”, l’Ince, il nuovo, prestigioso istituto di ricerca finanziato dallo Stato e gestito privatamente (altro fremito di antenne) su cui si appuntano tante speranze. Così, quando viene il momento di approvare la cessione della storica fonte all’Istituto la minoranza che si oppone viene facilmente liquidata come nemica del progresso e dell’università.

Nel discorso di saluto ai laureati del King’s College di Londra nel 1944, Clive Staples Lewis aveva messo in guardia gli alunni contro un tarlo sottile che può rovinare la vita. In ogni gruppo umano, spiegava, esistono “cerchie esclusive”, il “giro giusto” di quelli che sembrano saperne sempre una di più, che appaiono in grado di decidere davvero quello a cui gli altri poi inconsapevolmente obbediranno. La smania di entrare nella “cerchia esclusiva”, ammoniva Lewis, può fare di un galantuomo un mascalzone, può avvelenargli il gusto del proprio lavoro, piegando ogni sua attività all’inseguimento di un potere che si rivelerà inevitabilmente un fantasma. Mark evidentemente non aveva ascoltato il discorso di Lewis, perché è perfettamente in preda alla sindrome. E quando uno della “cerchia” gli si avvicina e gli lascia intendere che potrebbe essere anche lui iniziato, abbocca lusingato. Viene così messo a parte degli scopi dell’Ince.

«”Al momento, è la questione più importante: da quale parte si sta, dalla parte dell’oscurantismo o da quella dell’ordine. Sembra proprio che noi come specie avremo finalmente il potere di costruirci un futuro sbalorditivo, di controllare il nostro destino. Se veramente le si darà mano libera, la scienza potrà impadronirsi della razza umana e rimetterla in funzione rendendo l’uomo un animale veramente efficiente. Altrimenti. be’, sarà la nostra fine”. “Prosegua. Questo mi interessa moltissimo”. “L’uomo deve farsi carico dell’uomo, il che significa, tenga bene a mente, che certi uomini devono farsi carico di tutti gli altri – il che è un ulteriore motivo per trarne tutto il vantaggio possibile, appena si può. Lei e io vogliamo essere quelli che si fanno carico, non quelli di cui ci si fa carico, questo è chiaro”.

“A cosa si riferisce in particolare?”. “Cose semplici e ovvie, tanto per cominciare. la sterilizzazione dei disabili, l’eliminazione delle razze arretrate (non vogliamo pesi morti), la riproduzione selettiva. Poi l’educazione vera, compresa l’educazione prenatale. La vera educazione infallibilmente trasforma chi la subisce in ciò che essa si prefigge, senza che il soggetto in questione o i suoi genitori possano farci nulla (le antenne di ogni lettore con figli a questo punto sono al massimo, ndr). Naturalmente si tratterà all’inizio di un influsso soprattutto psicologico, ma alla fine arriveremo al condizionamento biochimico e alla diretta manipolazione del cervello”».

A Mark viene spiegato quel che l’organizzazione si attende da lui: che presenti i suoi scopi mettendoli nella giusta luce.

«”Non mi dirà che vuole che io scriva cose del genere?”. “No. Vogliamo che lei le addolcisca, che le mimetizzi. Solo per ora naturalmente. Per esempio, se solo si sussurrasse che l’Ince vuole avere la possibilità di usare i criminali per i propri esperimenti, salterebbero su subito tutte le donnette di entrambi i sessi a protestare e ad abbaiare in nome dell’umanità; se invece si parla di recupero dei disadattati, tutti si metteranno a sbavare di gioia perché finalmente è terminata l’era brutale della punizione retributiva. È curioso che la parola ‘esperimento’ sia mal accetta, ma non la parola ‘sperimentale’. Non si devono fare esperimenti sui bambini; ma se ai cari ragazzini si offre istruzione gratuita in una scuola sperimentale collegata all’Ince, tutto andrà benissimo!”».

«È l’inizio di un potere assoluto»

Mark incomincia così la sua collaborazione con l’Ince. Poco a poco, comincia a scoprire cose che non gli piacciono affatto. Vorrebbe, tanto per cominciare, che fosse precisato il suo lavoro; ma riceve solo risposte evasive. Quando insiste, gli viene fatto capire che non si sta mettendo in buona luce, non sono graditi quelli che non si fidano ciecamente del Comitato. A un certo punto, vorrebbe addirittura lasciare l’Istituto. Scopre che non è così facile. Anzi, è addirittura impossibile. Uno che ci ha provato davvero è stato ritrovato cadavere. Uno spiacevole incidente, naturalmente. Non c’è via d’uscita, non si può tornare indietro, si può solo andare avanti, diventare sempre più complici del Progetto.

«“Questo Istituto servirà a sconfiggere la morte o a sconfiggere la vita organica, se preferisce. È la stessa cosa. Servirà a trarre fuori dal bozzolo della vita organica che ha protetto l’infanzia della mente l’Uomo Nuovo, l’uomo che non morirà. L’uomo artificiale, indipendente dalla Natura. Le offriamo di diventare uno di noi. È l’inizio di un potere assoluto; vivrà per sempre”. “È l’inizio dell’Uomo Immortale e dell’Uomo Ubiquo” disse Strik “L’Uomo sul trono dell’universo: è questo il vero significato di tutte le profezie”».

Per essere definitivamente ammesso al vertiginoso disegno a Mark manca una cosa: deve consegnare all’Istituto sua moglie. Jane, nel frattempo, non è rimasta inattiva. Meglio, è stata anche lei coinvolta in un’altra congrega. Dalle caratteristiche diametralmente opposte. Un gruppetto di gente ordinaria, semplice, sulle prime perfino quasi antipatica per la sua mediocrità. Ma stranamente lieta. Tanto quelli vogliono rifare il mondo, tanto questi lo amano così com’è.

«”Perché non venite a pranzo da me?” disse Jane. “Non è certo una giornata da picnic”. “Sarebbe solo un disturbo per lei” disse Camilla. “E poi” continuò “non le piace una giornata nebbiosa nel bosco in autunno? Vedrà che, seduti in macchina, non avremo affatto freddo”. Jane rispose di non avere mai sentito prima di allora che a qualcuno piacesse la nebbia. “Il motivo per cui Camilla e io ci siamo sposati” disse Denniston mentre partivano “è che tutti e due amiamo qualsiasi tempo, non questo o quello in particolare, ma il tempo così com’è; a chi vive in Inghilterra è molto utile avere di questi gusti”. “Come siete riusciti ad arrivare a tanto, Mr. Denniston?” replicò Jane “Non credo che sarò mai capace di amare la pioggia o la neve”. “È tutto il contrario” disse Arthur “Da bambini amiamo il tempo. Si impara l’arte di detestarlo quando si cresce. Ha mai notato cosa succede quando nevica? Gli adulti vanno in giro con la faccia lunga, ma guardi i bambini. E i cani! Loro sanno a cosa serve la neve”. “Io so che da bambina odiavo le giornate piovose” osservò Jane. “Solo perché gli adulti la tenevano chiusa in casa” intervenne Camilla. “E un bambino ama la pioggia se può andare a sguazzare nelle pozzanghere”».

Quella strana piccola comunità

Jane si trova così coinvolta nella piccola banda («la nostra piccola comunità, o compagnia, o associazione, o come preferisce chiamarla») che sta combattendo per salvare il mondo, così com’è, dal diabolico progetto del Nemico. Una banda di cui fa parte anche mister MacPhee, un vero scienziato (la polemica di Lewis, va da sé, non è contro la scienza, che è nella sua natura impresa cristiana, ma contro la tentazione luciferina di usarla per “essere come Dio”). Una banda in cui non si entra per costrizione, ma per il rischio della libertà.

«”È come sposarsi, entrare in Marina da ragazzo, farsi monaco o provare un cibo nuovo. Non si può sapere com’è finché non ci si è buttati”. “È difficile, allora, capire perché mai uno dovrebbe buttarsi”. “Ammetto, in tutta franchezza” disse Arthur “che si tratterebbe di fidarsi. Immagino che in realtà dipenda tutto dall’impressione che le hanno fatto Grace, i Dimble e che le abbiamo fatto noi; e naturalmente da quella che le farà il capo, quando lo conoscerà”».

Una banda con le sue regole, dettate da un bonario, ironico realismo.

«“Cosa significa ‘è il giorno delle donne oggi in cucina’?” chiese Jane a Mamma Dimble. “Qui non ci sono persone di servizio” rispose la signora “quindi lavoriamo tutti. Un giorno le donne e un giorno gli uomini. Cosa? No, è un accordo molto ragionevole. L’idea del Direttore è che gli uomini e le donne non possano sbrigare insieme le faccende domestiche senza litigare. Penso che abbia ragione. Naturalmente non bisogna ispezionare le tazze troppo per il sottile quando è il turno degli uomini, ma nel complesso andiamo avanti benissimo”. “Ma perché dovrebbero litigare?” chiese Jane. “Metodi diversi, mia cara. Gli uomini non sono capaci di aiutare quando si fa qualcosa, sai. Si può indurli a fare un certo lavoro, ma non ad aiutare chi lo fa. È una cosa che come minimo li irrita”. “La difficoltà basilare” intervenne MacPhee “nella collaborazione tra i sessi è che le donne parlano un linguaggio senza sostantivi. Se due uomini fanno un lavoretto insieme, l’uno dice all’altro: ‘Metti questa ciotola dentro quella più grande che sta sul ripiano in alto dell’armadio verde’. Il corrispettivo femminile è: ‘Mettila nell’altra là dentro’. Se poi uno chiede: ‘Dentro dove?’, le donne dicono: ‘Là dentro, naturalmente’. Ne deriva quindi una capacità di comunicare ridotta all’osso”».

Il lettore non ha bisogno d’altro. Ha già capito tutto. Tra i due schieramenti si combatterà la battaglia decisiva; una battaglia che a che fare, si scoprirà, con qualcosa che va al di là del destino della Terra. Lewis è un genio. È riuscito a costruire un vero, piacevole, accattivante romanzo (dopo le prime decine di pagine si rimane avvinti dalla brama di vedere “come va a finire”, che è insieme una lucida profezia dei tempi che stiamo attraversando. Come si vede dai pochi esempi, non c’è passaggio che non faccia esclamare “ma è davvero così!”. Quell’orribile forza (Adelphi) pone in luce la vera, grande alternativa: tra una ragione infinitamente grande, aperta a tutti i risvolti del reale; e una asfittica, che cerca di far rientrare l’infinita ricchezza del mondo negli schemi che riesce a dominare.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:05 pm | | Default
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Roditori evangelici [L’adultera perdonata], di padre Maurizio Botta

Riprendiamo dal sito www.cinquepassi.org un articolo di padre Maurizio Botta pubblicato il 13/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

La situazione è drammatica. Un flagrante adulterio viene “usato” chiaramente per incastrare Gesù. Scribi e farisei invidiano l’amore che il popolo ha per Gesù, perché sanno come tutti pendano dalla sue labbra. Per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo, gli pongono, allora, questo caso. Il motivo del loro agire non è l’amore per la Legge di Dio. Il motivo del loro agire non è la compassione per l’uomo e la donna traditi da questi adulteri. Il motivo del loro agire non è il pensiero dei bambini di questi due amanti. Loro usano un peccato per accusare Gesù. Cercano di chiudere Gesù in un vicolo cieco in cui ogni sua parola può rovinarlo. I suoi avversari, i suoi nemici sapevano che se lui avesse lasciato fare, se avesse detto “Lapidatela!”, questa sarebbe stata la fine della sua predicazione. Si sarebbe contraddetto. Gesù avrebbe dovuto con una sola parola rimangiarsi tutte le parole sulla bontà del Padre, sul perdono. Il vero volto del Padre si sarebbe infranto. Ma se avesse dichiarato caduta la gravità dell’adulterio (cosa che invece avviene oggi) allora avrebbe dovuto rimangiarsi tutte le sue parole di conferma della validità perenne dei comandamenti della Legge.

Scriveva per terra

La “non fretta” di Gesù placa il tumulto, interrompe il linciaggio. L’attenzione si è concentrata su di lui, non è più sulla donna. L’umiliazione per lei è finita. Gesù sposta il cono dell’attenzione dalla persona a proposito della quale viene interrogato al cuore di coloro che gli pongono la domanda. Ma che cosa accomuna i farisei e questa donna? Proprio il mistero del peccato. Gesù invita i farisei a guardare prima al loro cuore, e al loro peccato nascosto.

Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei

Gesù da per scontata l’esistenza del peccato, il mistero del peccare. Gesù non condanna la donna. Anche i farisei alla fine non la condannano. Sono costretti a lasciar cadere la pietra che tenevano tra le mani non sul corpo della donna, ma a terra vicinissima a loro. Obbligati a uno sguardo che passa dal peccatore esterno al loro peccato interno. Oggi, riconosciamolo, c’è invece il rischio che non si possa mai dire che una realtà è peccato, perché anche solo questo chiamare le cose con il loro nome viene considerato condannare, ma se fosse così dovremmo concludere che il primo a condannare è stato proprio Gesù perché le parole con cui si conclude questo Vangelo sono: va’ e d’ora in poi non peccare più. Ciò che, invece, rende dell’“altro mondo” il modo di agire di Gesù è proprio il fatto che lui senza abolire o relativizzare la gravità del peccato di adulterio, dice e fa cose che esprimono “non giudizio” e “non condanna”. Arriva a dire “Non peccare più” in un contesto di misericordia e di perdono. Gesù mantiene tutta la serietà della storia di salvezza che lo ha preceduto, mantiene Mosè e l’adulterio come peccato gravissimo, restituendo ancora una volta al peccatore la dignità e la libertà. E visto che Gesù è lo stesso ieri oggi è sempre non è lecito troncare il Vangelo alle parole neanch’io ti condanno, rosicchiando come moderni roditori evangelici quel fastidioso  non peccare più.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:04 pm | | Default
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Il mercato dei corpi, di Mariangela Mianiti

Riprendiamo da Il Manifesto del 15/3/2016 un articolo scritto da Mariangela Mianiti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

Nel felice racconto della genitorialità con la gestazione per altri si è trattato con pochi accenni a una parte importante della questione, ovvero il prima dell’impianto dell’embrione. Quel prima non è un pezzo da poco perché riguarda la selezione e l’acquisto del materiale genetico che serve per costruire la nuova vita, ovvero lo sperma e gli ovuli, fondamentali perché determinano le caratteristiche di una persona. La scelta di questi donatori e della portatrice di utero hanno dei costi e si stanno muovendo secondo criteri economici e geografici simili a quelli dei movimenti dei capitali finanziari.

Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione. L’invasione del linguaggio e della mentalità del marketing nel mercato dei corpi, perché di questo si tratta, è già avvenuto e basta guardare gli slogan di certe agenzie che ricalcano quelli della promozione di viaggi low cost, come Pacchetto bimbo in braccio, Pacchetto Surrogacy, pacchetto Economy Plus che stabiliscono tariffe diverse secondo i tentativi di fecondazione e le scadenze del compenso.

In questa compravendita lo sperma è la merce che costa di meno. Si va dalle poche centinaia di dollari chiesti da un’agenzia israeliana, ai diversi prezzi che un’agenzia russa paga secondo la nazionalità del donatore/venditore. Per la stessa quantità di liquido seminale a un russo vengono dati meno di 200 euro, mentre a un danese o a uno svedese più di 800. Stessa cosa succede con le donatrici di ovuli. Negli Usa, dove la media per una donazione di ovuli è ricompensata dai 10 ai 15mila dollari, se la donatrice è alta, bionda e ha frequentato Harvard può chiedere un prezzo molto più alto di una donna non laureata.

Anche per le portatrici di utero le tariffe si adeguano a una geografia economica. Un’americana percepisce al massimo 30mila dollari, un’indiana poco più di 5mila, un’ucraina 10mila circa e basta guardare il costo complessivo dell’operazione per farsi un’idea di come si muove questo business. Negli Usa il costo totale di una maternità surrogata può andare dai 150 ai 200mila dollari, in Ucraina dai 30 ai 50mila, in Russia dai 30 ai 65mila dollari. Per offrire prezzi concorrenziali c’è chi si è organizzato con gli stessi criteri della movimentazione dei capitali. E allora ecco agenzie americane che ricorrono a portatrici di utero messicane, o agenzie israeliane che propongono l’inseminazione negli Usa e poi trasferiscono gli embrioni congelati in Nepal dove vengono impiantati nell’utero di donne indiane, per risparmiare.

In «Clinical Labor», libro uscito nel 2014, le ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby analizzano le nuove forme di lavoro bioeconomico come la maternità surrogata. Osservano come il mercato della riproduzione assistita cresce sempre di più espandendosi in servizi e settori dell’industria biomedica. Rivelano come il clinical labor diventerà sempre più rappresentativo delle economie neoliberiste del 21esimo secolo.

C’è chi per pagare un percorso così vende una proprietà, se ce l’ha, o chiede un prestito. Dall’altra parte ci sono donne che si sottopongono a cure ormonali e a una gravidanza conto terzi per comprare una casa o pagare l’università ai figli. Intanto medici, cliniche, agenzie, assicurazioni, ospedali e avvocati vedono crescere il proprio conto in banca. In mezzo c’è il desiderio di un figlio. Viene davvero da chiedersi se un bisogno così ha il diritto di essere esaudito a qualunque costo, letteralmente parlando.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:03 pm | | Default

Omicidio a Roma, di che cosa parliamo quando parliamo di chemsex, di Manuel Peruzzo

Riprendiamo da Il Foglio dell’11/3/2016 un articolo di Manuel Peruzzo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Droga e dipendenze nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

Fateci caso, c’è sempre: un periodo di fragilità, un genitore che ti caccia, un momento buio, un bicchiere di troppo. C’è sempre un “è tanto che non lo faccio più, sono una persona per bene” o “ora sono fidanzato, ma mi è capitato”. C’è sempre una scusa. Trovare qualcuno che rivendichi il piacere e l’intenzione di un’orgia tra fattoni, senza troppi tecnicismi, uno che ti dica “so che mi fa male ma mi piace tanto”, è più difficile di trovare un fan di Donald Trump, ma sappiamo esistono. Spesso chi lo ha fatto non vuole essere giudicato e sente il bisogno di specificarti che: "Non lo faccio sempre, non ne ho bisogno", e di chiarire: "Non sono un drogato". Più sei ossessionato dall’approvazione sociale più parlare di certe pratiche sessuali è difficile: equivale ad ammettere di violare le norme, di essere diversi, di essere mostri.

In questi giorni di omicidi romani e di padri che affidano i propri figli a Bruno Vespa presentandoceli “dall’intelligenza superiore alla media”, salvo che a trent’anni sono ancora studenti fuori corso, ci sono poche cose chiare. A complicare il quadro sull’omicidio di Luca Varani c’è il non saper a chi dare la colpa (per il padre è della cocaina, per alcuni omosessuali è dell’omofobia interiorizzata, per altri l’odio per la famiglia naturale e così via), ci si è interessati al motivo per il quale Marco Prato e Manuel Foffo erano chiusi in un attico da giorni. Ecco trovato il colpevole: il chemsex.

Se vogliamo fare chiarezza dobbiamo iniziare dalle parole che usiamo. Nessuno ti invita a un festino, forse solo i titolisti dei giornali, ma a un chill out. La richiesta su Grindr o altre sex app non è mai il diretto “ti droghi?”, ma è l’alchemico “fai chem?”. Non è sesso ma sessione di, perché dura molto. E cosa succede a queste serate? Serve la tecnologia (Grindr. Scruff, siti per incontri), serve la droga (mdpv, ghb, cocaina), serve qualcuno con molto tempo libero, ed è pur sempre una pratica di nicchia che quindi è possibile in centri urbani (siamo a Londra, Berlino, Milano, Roma e non a Vidigulfo o a Gioia Tauro).  Si inizia il venerdì e si finisce domenica (lunedì, solo per le sciampiste). Nonostante si raccontino di orge chemsex etero, possiamo dire, senza paura di passare per omofobi o esser smentiti, che è una pratica più in voga tra gli omosessuali (provate a organizzarla su Tinder se riuscite), almeno in Italia, complice un giro di club culture, eventi come il Circuit, e una agevole promiscuità sessuale. Ma cosa succede in queste serate?

C’è chi affitta un appartamento su Airbnb, chi usa il proprio, chi se lo fa prestare. Ti inviano le foto, ti dicono che sono in sei o sette, arrapati e disponibili. Ogni volta ci speri. Entri e ti ritrovi ragazzi spesso palestrati (c’è una correlazione non studiata tra cibarsi solo di pollo e broccoli e poi imbottirsi di steroidi: una volta che prendi droghe estetiche, puoi prendere anche le droghe ricreative), ma non è una regola (diciamo che aiuta se devi attrarre altre persone con la promessa di molto sesso). Te li ritrovi già fatti, aggrappati ai loro bonghi artigianali, cioè bottigliette di plastica perforate da una cannuccia da cui aspirano il fumo prodotto dal riscaldamento di una soluzione di ammoniaca o bicarbonato di sodio misto a cocaina. Ma non si limitano a quella: sniffano ghiaccio sintetico, tirano di popper, si fanno di ghb, di mefedrone o di quel che mio padre al mercato comprò. Inutile aggiungere che la libido cresce, tanto da farli andare in fotta, ma completamente inutilizzabili da attivi: il sangue non va dove dovrebbe. Per questo di solito chiamano esterni sobri (i più ricchi si avvalgono di escort con tanta pazienza imbottiti di viagra) che riescano a combinarci qualcosa. In effetti c’è molto chem ma poco sex. Da sobri te ne vai presto e insoddisfatto, da fatto rimani finché riesci. Di norma non si muore. Tranne di noia.

Secondo il sociologo americano Tim Dean, autore di un interessante studio sulla bareback culture, oggi è impossibile fare sesso bareback, o raw sex, cioè grezzo, senza profilattico, nudo. Non quello che fa nascere i bambini ma quello che ti fa prendere tante malattie veneree. L’idea stessa che esista una parola per definire sesso senza il condom è sintomatico dell’esistenza di una pratica e della sua erotizzazione. È impossibile perché il sesso è mediato da tanti fattori. La prima mediazione è linguistica. La seconda mediazione è pornografica, che costruisce il nostro immaginario e negozia tra desiderio (ciò che mi piace) e mimesi (ciò che potrebbe o finisce per piacermi guardandolo). La terza mediazione è farmacologica, (Viagra Cialis, Truvada) e la quarta mediazione è la droga. Questa consente di abbassare le inibizioni e aumentare la libido fino a creare una illusione di intimità non mediata, completando il quadro. Il chem-sex è una pratica del tutto contemporanea che unisce l’offerta tecnologica, l’offerta farmaco-pornografica e la libertà di poterne fare uso e abuso. Sta alla responsabilità di ciascuno scegliere le proprie complicazioni.

Detto ciò, c’è un’ultima chiosa alla faccenda. Ultimamente il giornalismo italiano ha scoperto che i gay non sono tutti sensibili e grandi amici delle donne ma possono accoltellare, come Marco Prato, o gettare una donna in un pozzo, come Gabriele DeFilippi. C’è chi pensa non si dovrebbe parlare dell’orientamento, ché il gay assassino ti sporca il tappeto dei movimenti civili («danneggia la comunità»), c’è chi lo sottolinea con enfasi come ad alludere che una sessualità inconsueta è un’aggravante, quando non proprio la causa di tutto, cioè il movente sarebbe l’essere omosessuali. La spiegazione psicologica fai da te è irresistibile. Andare a sbirciare nel profilo Facebook e trasformarci in criminologi, individuando elementi di squilibrio mentale dalla foto profilo o dal commento rubato ci spinge a trovare una differenza tra noi e loro. Sarà stata la droga, sarà stato il travestitismo, sarà stato l’alcol, sarà stato la mitizzazione di Dalida, saranno stati i genitori oppressivi dell’uno o troppo permissivi dell’altro: tutto, fuorché ammettere l’esistenza della malvagità. Molto meno rassicurante.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:02 pm | | Default
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I migranti e noi: ciò che si dice, ciò che è, di Leonardo Becchetti

Riprendiamo da Avvenire del 12/3/2016 un articolo di Leonardo Becchetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

I migranti stanno invadendo i Paesi ricchi? Rapporto rifugiati per 1.000 abitanti: Libano 232, Giordania 87, Malta 23, Svezia 9, Italia 2 (media Ue 2). I musulmani ci invadono? Meno di un terzo tra gli immigrati che arrivano in Italia sono musulmani. Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Con i 5 miliardi di differenza tra contributi versati e percepiti dagli immigrati l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. Saremo travolti da milioni di poverissimi? Sono prevalentemente quelli dei ceti medi che riescono ad arrivare nei nostri Paesi perché i soli con le risorse economiche necessarie per fare il viaggio. Rischiamo una catastrofe demografica? Il Paese si sta spopolando, con la perdita di 180mila italiani nel 2015, rimpiazzati da meno di 40mila stranieri immigrati.

L’arrivo degli immigrati ridurrà le nostre possibilità di sviluppo? Come ricordava ieri su questa prima pagina Massimo Calvi, gli Stati Uniti calcolano che l’invecchiamento della popolazione toglierà 0,8% punti di Pil all’anno per i prossimi otto anni: figuriamoci da noi dove la popolazione invecchia ancor più e non vogliamo forza lavoro giovane immigrata. Il Pil è la somma di beni e servizi prodotti e venduti e, a parità di competitività, con più anziani e meno forza lavoro (e forza lavoro più anziana) si produce meno e a tassi di produttività inferiori. Semplice. E drammatico. La differenza tra realtà e pregiudizio sul tema delle migrazioni, come anche qui si continua a documentare, è sostanziale.

Il tema delle migrazioni è ostaggio delle chiacchiere del bar dello Sport e di una narrativa ansiogena che certa politica, e purtroppo anche certi media, hanno interesse ad alimentare. Questa narrativa è lo specchio delle paure e delle ansie della popolazione nei confronti della globalizzazione, alimenta le opinioni di settori importanti dell’elettorato e riduce lo spazio per le politiche d’integrazione. Nessun governo può pensare di approvare leggi lungimiranti in materia, conservando il consenso dell’opinione pubblica in presenza di questa congiuntura comunicativa e culturale avversa. Se le statistiche non bastano a contrastare la narrazione distorta (e qualcuno del bar dello Sport arriverà a pensare che la statistica fa parte del "complotto") c’è bisogno di contro-narrazioni e di iniziative che possano contrastare il fenomeno.

Per risolvere il problema "politico" non basta dunque (anche se è ottimo e doveroso) proporre iniziative eccellenti che tante realtà della società civile organizzano rendendo vivo e tangibile il principio della sussidiarietà. In questo, la nostra cultura del "fare il bene, ma non dirlo" non aiuta affatto. Non si tratta di vantare quello che si fa quanto di affrontare una missione culturale. Bisogna anche sporcarsi le mani "entrando nel bar dello Sport" e affrontando direttamente il problema della narrativa distorta (come, ripeto, su queste pagine si fa spesso). Confutando innanzitutto il falso principio della "torta fissa". Come è noto in letteratura scientifica, la paura e l’ostilità per lo straniero è alimentata dal pregiudizio che l’economia e la società siano un gioco a somma zero.

La torta delle risorse è fissa e, se c’è un nuovo arrivato, bisognerà dargliene una fetta e quindi ridurre la nostra (la recessione da questo punto di vista aggrava il problema di percezione in questione perché per anni la torta si è ridotta). L’economia, invece, è un gioco a somma positiva, perché quella torta bisogna produrla, e farlo in un Paese che invecchia è sempre più difficile. La produttività dipende anche dallo spirito imprenditoriale e dalla struttura per età della popolazione. Le nuove risorse ed energie che vengono da altri Paesi diventano quindi preziose per far funzionare l’economia, stimolare creatività e innovazione. Le abilità e le qualifiche degli stranieri sono molto spesso complementari e non sostitute di quelle degli italiani e rendono più vivo e vitale il "tessuto produttivo" del Paese.

Per contrastare la narrazione culturale dominante ci vuole un lavoro paziente e capillare di formazione che faccia incontrare concretamente i 'diversi'. Lo straniero è molto più minaccioso quando è un’entità astratta che entra in casa nostra attraverso le ansie alimentate dalla televisione. Può diventare relazione quando è persona della porta accanto che entra nella nostra vita. Accanto a questo lavoro paziente e impegnativo c’è anche bisogno di produrre narrative diverse. In questa seconda fase della globalizzazione in cui i movimenti di persone stanno diventando fluidi e veloci quasi come i movimenti di capitali è illusorio (oltre che moralmente ed economicamente sbagliato) opporre resistenza alla società meticcia che verrà ed allora la cosa più giusta che possiamo fare è predisporre nel modo migliore possibile il nostro Paese a un’accoglienza ben regolata e intelligente. Da questo punto di vista c’è bisogno di raccontare in modo efficace storie diverse (quale sarà il commediografo che scriverà l’Indovina chi viene a cena dei nostri giorni?), di abitare sporcandosi le mani lo spazio dei social media perché altrimenti quello spazio lo occuperanno altri producendo livori e diffondendo la cultura del mors tua vita mea e degli 'italiani prima'. E di organizzare momenti visibili di piazza. È arrivato il momento di mobilitazioni che affrontino il tema. L’Europa di questi anni sarà giudicata per il modo in cui ha accolto chi è nel bisogno e ha preparato il suo stesso futuro. Oltre al Family day, per valorizzare la troppo sottovalutata bellezza e la forza della famiglia, sta forse arrivando il giorno di un Migration day, per valorizzare la complessità buona e la ricchezza del fenomeno migratorio nel nostro Paese. Per chiedere, anche qui, una legalità salda e accogliente. E per cambiare la percezione della globalizzazione.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 5:00 pm | | Default

Il giorno dei giovani e dei piccoli. Gli evangelisti non ne fanno cenno: sono stati gli artisti di ogni epoca a immaginare che in una «folla numerosissima» non potessero mancare i ragazzi, di Gian Carlo Olcuire

Riprendiamo dal sito http://www.vinonuovo.it un articolo di Gian Carlo Olcuire pubblicato il 20/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

L'INGRESSO IN GERUSALEMME (particolare della Maestà)
(Duccio di Buoninsegna, 1308-11, Siena, Museo dell'Opera del Duomo)

«Benedetto colui che viene, / il re, nel nome del Signore. / Pace in cielo / e gloria nel più alto dei cieli!». Lc 19,28-40

Se la sera precedente, a Betania, gli amici hanno organizzato per Gesù una festa privata, quel giorno gli abitanti di Gerusalemme - più la gente convenuta per la Pasqua - gliene fanno una di popolo. Non si può non osannare chi ha ridato la vita a un uomo sepolto da quattro giorni.

L'entusiasmo è alle stelle, come per una popstar, e sembra quasi improvvisato, l'evento, a giudicare da quanti sono ancora all'opera, soprattutto persone di giovane età. In realtà gli evangelisti non fanno cenno a questo particolare. Sono stati gli artisti di ogni epoca a immaginare che in una «folla numerosissima» - così scrive Matteo - non potessero mancare i ragazzi: impegnati a stendere mantelli sulla strada, a mo' di tappeto; arrampicati sugli alberi, a lanciare rami; affacciati dalle mura e dalle finestre, a salutare... [solo Mt 21,1 ricorda «i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide!”»]

Gesù ricambia l'accoglienza, facendo capire che razza di signore sia il Signore: è vero che entra acclamato come un re, ma, mentre un qualunque sovrano monterebbe in sella al cavallo più bello e più bardato, lui - disarmato e povero - siede su un'asina, che non ha voluto separare dal suo puledrino (un omaggio ai piccoli e alle madri?). Li aveva mandati a prendere nel villaggio di fronte (un dettaglio che qualunque reporter avrebbe omesso, giudicandolo ininfluente, ma necessario a Gesù per dare compimento alla profezia di Zaccaria). Assicurando (altro particolare "inutile", riferito da Matteo e da Marco) che i due animali sarebbero stati rimandati indietro «subito»: difficile trovare dei re con tale delicatezza... (il suo scrupolo svela anche come lui avesse preparato l'evento).

Eppure, guardando da vicino i volti degli adulti, colpisce come siano tutti seri, da funerale più che da festa: forse era nell'aria che si stesse tramando per far fuori Gesù, questo re così poco regale e così sensibile, capace di dire parole tranquillizzanti, attento ai piccoli dettagli e alle piccole creature.

Da quel giorno, la tragedia si coglie nell'ambiguità dei segni, che aumenta: "fare la festa a qualcuno" comincia a significare un'altra cosa; anziché dire affetto, un bacio serve a identificare e a consegnare; un catino, nel giro di poche ore, viene usato per lavare i piedi e per lavarsi le mani, in un caso per farsi carico, nell'altro per non farsi carico.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 12:07 pm | | Default

Satana si comprerà certi preti: "Quel gallo non deve cantare", di don Marco Pozza

Riprendiamo da Il Sussidiario del 19/3/2016 un articolo di don Marco Pozza. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)

Il gallo vaticano, Museo del tesoro di San Pietro. 
Era in cima alla basilica di San Pietro
fino alla costruzione della nuova basilica

Il trucco è diabolico, nel senso ch'è la specialità di Lucifero: farti credere che, per la scorciatoia, alla meta ci giungerai in tempo minore. Non t'avverte, Satana, che la strada più breve è anche quella più sconnessa: non sarebbe più demonio. È nota la sua arte, anche maledetta: i santi la bistrattano. Eppur pare sempre gagliarda: promette molto meno di Cristo (questo lo sanno tutti) ma lo fa in tempi molto più rapidi (a questo pochi resistono). In caso d'infortunio, poi, mica risponderà il serpente: sedotti-e-abbandonati è il suo biglietto da visita.

Prendete, a mò di esempio, la pagina del Vangelo che fa da ouverture alla Settimana Santa: la narrazione della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo scritta dall'evangelista Luca (liturgia della Domenica delle Palme). Materia per pittori, squarci d'arte, vita. A colpire, però, è la lunghezza della storia proclamata: nessuna pagina, nell'arco di tutto l'anno liturgico, è così lunga da fare da test alla sopportazione di chi legge, di chi ascolta.

Satana lo sa molto bene, li conosce a menadito gli uomini: la fretta è il suo punto-di-forza. Sarà per questo che la liturgia – nel lezionario come nel foglietto sui banchi – subito all'inizio mette le cose in chiaro: scegliere tra “forma breve” o “forma lunga” del racconto. La liturgia è una mamma rispettosa: non si può inseguire la Bellezza senza possedere anche la libertà d'abbandonarla. A maggior ragione se quella Bellezza, per diventare eterna, dovrà subire l'onta della sfigurazione, della maledizione: è una bellezza crocifissa, scandalosa, impossibile da imporre quella cristiana. O s'accetta di fare i conti col suo potere d'attrazione, oppure sarebbe bellezza pagana, una delle tante.

Inseguirla, invece, ha un prezzo che nessuna bellezza ha mai sopportato: la saliva di un bacio, la salita al Calvario, il martello coi chiodi, la pietà ingobbita di Maria. A Pasqua si giunge solo da questa strada, strada senza scorciatoie: ai piedi del Calvario nessun evangelista parla di circonvallazioni. L'unica segnaletica è Veronica, sono le donne: un velo, quasi uno straccio per asciugarsi le lacrime. Al Calvario, però, si dovrà salire. Di quella sofferenza disumana, a Cristo non fu concessa una forma-breve: ne subì tutt'intero l'affronto, ne pianse tutto l'aceto.

Solo un coccodrillo goffo come Satana può proporre alle creature una forma-breve della Passione, far leggere la forma-breve di quel Vangelo: la sofferenza, qualsiasi nome abbia, è sempre e solo in forma-lunga. Nulla è più temerario, nell'intera storia della salvezza, del tagliare pezzi di Vangelo: il male, anche quello più vigliacco, da Cristo fu affrontato in tutta la sua perfidia, senza considerare «un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (Fl 2,6). Tradimento compreso.

Forse è per questo che, leggendo la forma-breve (del racconto scritto da Luca) si taglia la narrazione del canto del gallo. Il suo chicchirichì è l'eterna angoscia di Satana, è la voce che smaschera la sua identità di truffatore. Quando il gallo canta, la memoria di Pietro si scioglie - «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte» (Gv 13,38) - e scoppia a singhiozzare: aveva ragione l'Amico tradito, non il Lucifero seguito.

Un primo-annuncio della Pasqua, in piena tempesta: Cristo t'amerà anche quando, ingrato della sua premura, basteranno le chiacchiere da cortile di una serva per farti cadere. Il gallo canta, Pietro rinnega, l'Amico resiste nell'amicizia: nonostante tutto. Nessuno tocchi il gallo: chi lo tocca, zittendolo, si ricordi d'averlo zittito.

Come di chi, in questa domenica, nelle chiese s'azzarderà di leggere la forma-breve della Passione. Liberi di farlo: la liturgia, a bocce ferme, lo prevede come possibilità. Loro signori, però, in caso d'incidente ricordino d'averla letta in forma-breve: se ne assumano, almeno, la responsabilità. Cristo, da parte sua, s'è assunto la responsabilità solo di quella lunga. Circa i trucchi, le scorciatoie, le diavolerie, faccia come si crede: nessuno obbliga ad andar dietro a Cristo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 20 Marzo 2016 - 11:36 am | | Default
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«Simeone è il “nonno” che ci insegna questi due atteggiamenti fondamentali della vita: quello di ringraziare e quello di benedire». Papa Francesco all'ospedale pediatrico “Federico Gómez” in Città del Messico

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nella visita all'ospedale pediatrico “Federico Gómez” in Città del Messico il 14/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2016)

Signora Prima Dama,
Signora Ministro della Salute,
Signor Direttore,
Membri del Patronato,
Famiglie qui presenti,
Amiche a amici, cari bambini,
buonasera!

Ringrazio Dio per l’opportunità che mi dona di poter venire a visitarvi, di incontrarmi con voi e le vostre famiglie in questo Ospedale. Poter condividere un pochino della vostra vita, di quella di tutte le persone che lavorano come medici, infermieri, membri del personale e volontari che li assistono, tanta gente che sta lavorando per voi.

C’è un passo nel Vangelo che ci racconta la vita di Gesù quando era bambino. Era molto piccolo, come alcuni di voi. Un giorno i suoi genitori, Giuseppe e Maria, lo portarono al Tempio per presentarlo a Dio. E lì si incontrano con un anziano che si chiamava Simeone, il quale, quando lo vede, molto deciso e con molta gioia e gratitudine, lo prende in braccio e comincia a benedire Dio. Vedere il bambino Gesù provocò in lui due cose: un senso di gratitudine e il desiderio di benedire. Ossia, a questo anziano venne voglia di rendere grazie a Dio e di benedire.

Simeone è il “nonno” che ci insegna questi due atteggiamenti fondamentali della vita: quello di ringraziare e quello di benedire.

Qui io benedico voi; i medici vi benedicono, ogni volta che vi curano, gli infermieri, tutto il personale, tutti quelli che lavorano vi benedicono, voi bambini, però anche voi dovete imparare a benedire loro e a chiedere a Gesù che abbia cura di loro perché loro hanno cura di voi. Io qui (e non solo per l’età) mi sento molto vicino a questi due insegnamenti di Simeone. Da un lato, attraversando quella porta e vedendo i vostri occhi, i vostri sorrisi – alcuni birbanti! – i vostri volti, mi ha fatto venire il desiderio di rendere grazie. Grazie per l’affetto che avete nell’accogliermi; grazie perché vedo l’affetto con cui siete curati qui, l’affetto con cui siete accompagnati. Grazie per lo sforzo di tanti che stanno facendo del loro meglio perché possiate riprendervi presto. È così importante sentirsi curati e accompagnati, sentirsi amati e sapere che state cercando il modo migliore di curarci; per tutte queste persone dico: grazie, grazie.

E nello stesso tempo, desidero benedirvi. Voglio chiedere a Dio che vi benedica, accompagni voi e i vostri familiari, tutte le persone che lavorano in questa casa e fanno in modo che quei sorrisi continuino a crescere ogni giorno. A tutte le persone che non solo con medicinali bensì con la “affettoterapia” aiutano perché questo tempo sia vissuto con più gioia. È tanto importante la “affettoterapia”! Tanto importante. A volte una carezza aiuta tanto a stare meglio.

Conoscete l’indio Juan Diego voi, o no? [“Sì!”] Vediamo: alzi la mano chi lo conosce… Quando lo zio del piccolo Juan era malato, lui era molto preoccupato e angustiato. In quel momento, appare la Vergine di Guadalupe e gli dice: “Non si turbi il tuo cuore e non ti inquieti cosa alcuna. Non ci sono qui io, che sono tua Madre?”. Abbiamo la nostra Madre: chiediamole di offrirci al suo Figlio Gesù.

E adesso, ai bambini chiedo una cosa: chiudiamo gli occhi, chiudiamo gli occhi e domandiamo quello che il nostro cuore oggi desidera. Un momento di silenzio con gli occhi chiusi e dentro chiediamo quello che vogliamo… E adesso insieme diciamo a nostra Madre: Ave Maria…

Che il Signore e la Vergine di Guadalupe vi accompagnino sempre. Tante grazie! E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Non dimenticatevi! Il Signore vi benedica.

Redazione de Gliscritti | Sabato 19 Marzo 2016 - 8:39 pm | | Default

«Il nemico di Dio e dell’uomo è “il divisore” e comincia spesso col farci credere che siamo buoni, magari migliori degli altri: così ha il terreno pronto per seminare zizzania… vi ringrazio, a nome mio, ma anche a nome di tutta la Chiesa per questo gesto di andare, andare verso l’ignoto e anche soffrire. Io rimango qui, ma col cuore vengo con voi». Papa Francesco nell’incontro con le nuove missio ad gentes del cammino neocatecumenale

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’udienza agli aderenti al Cammino Neocatecumenale in occasione delle50 nuove missio ad gentes, il 18/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2016)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono contento di incontrarvi e vi ringrazio, perché siete venuti così numerosi. Un saluto speciale a quelli che stanno per partire! Avete accolto la chiamata ad evangelizzare: benedico il Signore per questo, per il dono del Cammino e per il dono di ciascuno di voi. Vorrei sottolineare tre parole che il Vangelo vi ha appena consegnato, come un mandato per la missione: unità, gloria e mondo.

Unità. Gesù prega il Padre perché i suoi siano «perfetti nell’unità» (Gv 17,23): vuole che siano tra loro «una sola cosa» (v. 22), come Lui e il Padre. È la sua ultima richiesta prima della Passione, la più accorata: che ci sia comunione nella Chiesa. La comunione è essenziale. Il nemico di Dio e dell’uomo, il diavolo, non può nulla contro il Vangelo, contro l’umile forza della preghiera e dei Sacramenti, ma può fare molto male alla Chiesa tentando la nostra umanità. Provoca la presunzione, il giudizio sugli altri, le chiusure, le divisioni. Lui stesso è “il divisore” e comincia spesso col farci credere che siamo buoni, magari migliori degli altri: così ha il terreno pronto per seminare zizzania. È la tentazione di tutte le comunità e si può insinuare anche nei carismi più belli della Chiesa.

Voi avete ricevuto un grande carisma, per il rinnovamento battesimale della vita; infatti si entra nella Chiesa attraverso il Battesimo. Ogni carisma è una grazia di Dio per accrescere la comunione. Ma il carisma può deteriorarsi quando ci si chiude o ci si vanta, quando ci si vuole distinguere dagli altri. Perciò bisogna custodirlo. Custodite il vostro carisma! Come? Seguendo la via maestra: l’unità umile e obbediente. Se c’è questa, lo Spirito Santo continua a operare, come ha fatto in Maria, aperta, umile e obbediente. È sempre necessario vigilare sul carisma, purificando gli eventuali eccessi umani mediante la ricerca dell’unità con tutti e l’obbedienza alla Chiesa. Così si respira nella Chiesa e con la Chiesa; così si rimane figli docili della «Santa Madre Chiesa Gerarchica», con «l’animo apparecchiato e pronto» per la missione (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 353).

Sottolineo questo aspetto: la Chiesa è nostra Madre. Come i figli portano impressa nel volto la somiglianza con la mamma, così tutti noi assomigliamo alla nostra Madre, la Chiesa. Dopo il Battesimo non viviamo più come individui isolati, ma siamo diventati uomini e donne di comunione, chiamati ad essere operatori di comunione nel mondo. Perché Gesù non solo ha fondato la Chiesa per noi, ma ha fondato noi come Chiesa. La Chiesa non è uno strumento per noi: noi siamo Chiesa.Da lei siamo rinati, da lei veniamo nutriti con il Pane di vita, da lei riceviamo parole di vita, siamo perdonati e accompagnati a casa. Questa è la fecondità della Chiesa, che è Madre: non è una organizzazione che cerca adepti, o un gruppo che va avanti seguendo la logica delle sue idee, ma è una Madre che trasmette la vita ricevuta da Gesù.

Questa fecondità si esprime attraverso il ministero e la guida dei Pastori. Anche l’istituzione è infatti un carisma, perché affonda le radici nella stessa sorgente, che è lo Spirito Santo. Lui è l’acqua viva, ma l’acqua può continuare a dare vita solo se la pianta viene ben curata e potata. Dissetatevi alla fonte dell’amore, lo Spirito, e prendetevi cura, con delicatezza e rispetto, dell’intero organismo ecclesiale, specialmente delle parti più fragili, perché cresca tutto insieme, armonioso e fecondo.

Seconda parola: gloria. Prima della sua Passione, Gesù preannuncia che sarà «glorificato» sulla croce: lì apparirà la sua gloria (cfr Gv 17,5). Ma è una gloria nuova: la gloria mondana si manifesta quando si è importanti, ammirati, quando si hanno beni e successo. Invece la gloria di Dio si rivela sulla croce: è l’amore, che lì risplende e si diffonde. È una gloria paradossale: senza fragore, senza guadagno e senza applausi. Ma solo questa gloria rende il Vangelo fecondo. Così anche la Madre Chiesa è feconda quando imita l’amore misericordioso di Dio, che si propone e mai si impone. Esso è umile, agisce come la pioggia nella terra, come l’aria che si respira, come un piccolo seme che porta frutto nel silenzio. Chi annuncia l’amore non può che farlo con lo stesso stile diamore.

E la terza parola che abbiamo ascoltato è mondo. «Dio ha tanto amato il mondo» da inviare Gesù (cfr Gv 3,16). Chi ama non sta lontano, ma va incontro. Voi andrete incontro a tante città, a tanti Paesi.Dio non è attirato dalla mondanità, anzi, la detesta; ma ama il mondo che ha creato, e ama i suoi figli nel mondo così come sono, là dove vivono, anche se sono “lontani”. Non sarà facile per voi la vita in Paesi lontani, in altre culture, non vi sarà facile. Ma è la vostra missione. E questo lo fate per amore, per amore alla Madre Chiesa, all’unità di questa madre feconda; lo fate perché la Chiesa sia madre e feconda.Mostrate ai figli lo sguardo tenero del Padre e considerate un dono le realtà che incontrerete; familiarizzate con le culture, le lingue e gli usi locali, rispettandoli e riconoscendo i semi di grazia che lo Spirito ha già sparso. Senza cedere alla tentazione di trapiantare modelli acquisiti, seminate il primo annuncio: «ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 35). È la buona notizia che deve sempre tornare, altrimenti la fede rischia di diventare una dottrina fredda e senza vita. Evangelizzare come famiglie, poi, vivendo l’unità e la semplicità, è già un annuncio di vita, una bella testimonianza, di cui vi ringrazio tanto. E vi ringrazio, a nome mio, ma anche a nome di tutta la Chiesa per questo gesto di andare, andare verso l’ignoto e anche soffrire. Perché ci sarà sofferenza, ma ci sarà anche la gioia della gloria di Dio, la gloria che è sulla Croce. Vi accompagno e vi incoraggio, e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Io rimango qui, ma col cuore vengo con voi.

Redazione de Gliscritti | Sabato 19 Marzo 2016 - 8:17 pm | | Default

Cos’è la fede? L’intervista inedita di Servais a Benedetto XVI

Riprendiamo da Avvenire del 16/3/2016 brani di un’intervista di Jacques Servais al papa emerito Benedetto XVI. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi di J. Ratzinger-Benedetto XVI, cfr. la sotto-sezione Documenti del magistero degli ultimi pontefici nella sezione Bibbia e magistero della Chiesa.  

Il Centro culturale Gli scritti (17/3/2016)

L'intervista al papa emerito Joseph Ratzinger-Benedetto XVI di cui pubblichiamo ampi stralci, è stata curata e realizzata dal gesuita belga Jacques Servais ed è stata presentata nel contesto del Convegno dal titolo: “Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione degli Esercizi Spirituali” promosso dalla Rettoria del Gesù a Roma tra l’8 e il 10 ottobre 2015. L’intervista scritta e rilasciata nella lingua madre del Pontefice, il tedesco, fu letta, nell’ambito del convegno romano, dal prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare di Benedetto XVI, l’arcivescovo Georg Gänswein. Il testo è stato tradotto dallo stesso Jacques Servais e rivisto dall’intervistato. In questo intervento papa Ratzinger torna con la mente agli studi universitari e alla sua ricerca teologica, ma soprattutto agli anni trascorsi come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. (F.R.)

Santità, la questione posta quest’anno nel quadro delle giornate di studio (8-10 ottobre 2015) promosse dalla Rettoria del Gesù a Roma è quella della giustificazione per la fede. L’ultimo volume della Sua Opera omnia (GS IV) mette in evidenza la Sua affermazione risoluta: «La fede cristiana non è un’idea, ma una vita». Commentando la celebre affermazione paolina (Rm 3,28), Lei ha parlato, a questo proposito, di una duplice trascendenza: «La fede è un dono ai credenti comunicato attraverso la Comunità, la quale da parte sua è frutto del dono di Dio» («Glaube ist Gabe durch die Gemeinschaft, die sich selbst gegeben wird», GS TV; 512). Potrebbe spiegare che cosa ha inteso con quell’affermazione, tenendo conto naturalmente del fatto che l’obiettivo di queste giornate è chiarire la teologia pastorale e vivificare l’esperienza spirituale dei fedeli? 

«Si tratta della questione: cosa sia la fede e come si arrivi a credere. Per un verso la fede è un contatto profondamente personale con Dio, che mi tocca nel mio tessuto più intimo e mi mette di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che io possa parlargli, amarlo ed entrare in comunione con lui. Ma al tempo stesso questa realtà massimamente personale ha inseparabilmente a che fare con la comunità: fa parte dell’essenza della fede il fatto di introdurmi nel noi dei figli di Dio, nella comunità peregrinante dei fratelli e delle sorelle. La fede deriva dall’ascolto (fides ex auditu), ci insegna san Paolo. L’ascolto a sua volta implica sempre un partner. La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile. La Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui. Ciò trova la sua espressione nei sacramenti, innanzitutto in quello del battesimo: io entro nella Chiesa non già con un atto burocratico, ma mediante il sacramento. E ciò equivale a dire che io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé e che si proietta al di là di se stessa. 
La pastorale che intende formare l’esperienza spirituale dei fedeli deve procedere da questi dati fondamentali. È necessario che essa abbandoni l’idea di una Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo. Essa deve introdurre all’incontro con Gesù Cristo e portare alla Sua presenza nel sacramento».

Quando Lei era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando la Dichiarazione congiunta della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999, ha messo in evidenza una differenza di mentalità in rapporto a Lutero e alla questione della salvezza e della beatitudine così come egli la poneva. L’esperienza religiosa di Lutero era dominata dal terrore davanti alla collera di Dio, sentimento piuttosto estraneo all’uomo moderno, marcato piuttosto dall’assenza di Dio (basti rileggere il suo articolo scritto per la rivista Communio nel 2000). La dottrina di Paolo della giustificazione per la fede, in questo nuovo contesto, può raggiungere l’esperienza “religiosa” o almeno l’esperienza “elementare” dei nostri contemporanei?

«Innanzitutto tengo a sottolineare ancora una volta quello che scrivevo su Communio 2000 in merito alla problematica della giustificazione. Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura diretto e formale tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi avrebbe per così dire cancellato le colpe di Dio. Anche per ora la maggior parte dei cristiani non condivide un così drastico capovolgimento della nostra fede, si può dire che tutto ciò fa emergere una tendenza di fondo del nostro tempo. Quando Johann Baptist Metz sostiene che la teologia di oggi deve essere «sensibile alla teodicea» (theodizeeempfindlich), ciò mette in risalto lo stesso problema in modo positivo. Anche a prescindere da una tanto radicale contestazione della visione ecclesiale del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa

Tuttavia, a mio parere, continua ad esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante – a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò piace all’uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza». 

Negli Esercizi Spirituali, Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di vendetta, al contrario di Paolo (come si evince nella seconda lettera ai Tessalonicesi); ciò non di meno egli invita a contemplare come gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all’inferno» e a considerare l’esempio dagli «innumerevoli altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io». È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione eterna quanti più «infedeli» possibile. Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto?

«Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i Padri e i teologi del medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del nuovo mondo all’inizio dell’era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive. Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana. Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto, e ciò spiega il loro impegno missionario, nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata. Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo. Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione.
Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de Lubac e con lui alcuni altri teologi che hanno fatto forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la proesistenza di Cristo sarebbe espressione della figura fondamentale dell’esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problema non è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l’intuizione essenziale che così tocca l’esistenza del singolo cristiano. Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti e i cristiani, che nella grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale essere-per. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo. È chiaro che dobbiamo riflettere sull’intera questione».

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Marzo 2016 - 5:46 pm | | Default

100 giorni alla Maturità: ma quale?, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da La stampa del 14/3/2016 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori articoli, cfr. il tag alessandro_d_avenia. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (15/3/2016)

Se l’adolescenza è l’età chiamata a scoprire per cosa valga la pena morire e quindi vivere, e si può protrarre per questo indefinitamente, la maturità è l’età chiamata alla fedeltà a quanto intuito. Se la prima è diapason sensibilissimo verso ciò che ha valore in termini di bellezza, verità, bontà, e le loro gradazioni, la seconda è esercizio per ampliare nello spazio e nel tempo quei valori liberamente assunti come portanti.

Se l’adolescente si innamora con un vigore che lo rende folle è perché scopre che il valore primo dell’esistenza è amare, ma poco a poco l’incanto dell’innamoramento narcisistico scema e quella ricerca di sé è chiamata a diventare vera apertura all’altro: o l’io uccide l’amore o l’amore uccide l’io. Non finisce l’amore, come molti adolescenti credono, ma l’amore comincia: quello maturo, che richiede affermazione del valore intuito in origine, a costo della mia carne per farlo essere. Solo così l’amore diventa più interessante dell’innamoramento e lo supera, perché va a incidere sulla fibra della vita ad un livello più profondo, da cui sgorga la pienezza di sé e dal quale diventiamo capaci di dire: sono felice. Altrimenti l’amore, soltanto inaugurato, viene scartato e si cerca un nuovo innamoramento, non gustando mai la solidità della maturità, ma accontentandosi dei movimenti caotici, frenetici, spesso regressivi, delle emozioni.

La maturità è la trasformazione dell’incanto iniziale in canto della vita, passando per l’inevitabile disincanto che tutte le cose umane, con il loro fardello di imperfezione, si portano dentro. Maturità è il canto della vita, modulato da chi ne comincia a conoscere le asperità, dopo essersi reso conto che la realtà non è a disposizione dei propri desideri, ma resiste, e resiste non in modo “cattivo”, anzi, fornisce il materiale per l’avverarsi (diventare vero) di quel valore intuito e che si vuole realizzare. La realtà è come il legno di una foresta, che servirà come “materia” (parola che in latino significava appunto il legno fornito da un bosco vivo, come wood in inglese è sia il legno sia il bosco) per il lavoro ispirato e paziente dell’artigiano, che vi scava e leviga con sudore e fatica un bellissimo tavolo attorno al quale molti potranno riunirsi per banchettare e parlare.

L’adolescente non sopporta la resistenza, perché si deve ancora affrancare dal pensiero magico dell’infante che tutto vuole e tutto pretende, ma proprio quella resistenza, accolta e trasformata, diventa pienezza di vita, che cambia se stessi e il mondo attorno a sé, attraverso l’incarnarsi di un nuovo inizio. Così la filosofa ebrea Hannah Arendt definiva quest’avventura esistenziale: “Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può aspettare l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza”.

Di questa maturità, nutrita di fede e speranza, oggi abbiamo bisogno tutti, i ragazzi ne sperimentano solo una rituale tappa simbolica fra 100 giorni, il principio di massima resistenza “scolastico”, necessario a misurarsi con il nuovo da realizzare, prima di un cammino fatto finalmente di scelte più libere e consapevoli. Maturità è fedeltà all’unicità della propria vita, che si svincola dal principio di piacere o d’obbligo, e si lascia guidare dal principio di ispirazione, che più si realizza, cioè diventa reale, più si rafforza, al contrario del piacere, che brucia rapidamente e cerca altro piacere dopo averne distrutto la materia stessa che lo ha provocato, e dell’obbligo, che costringe ad una realizzazione senza libertà, e quindi fonte di stanchezza e tensione.

Maturità, se dovessi oggi definirla, lo farei con quelle parole che Leopardi scrisse nello Zibaldone ormai trentenne, considerando la sua fedeltà alla vocazione di poeta, nonostante gli scarsi riscontri dei suoi contemporanei: “e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui”.

Aver fatto una cosa bella al mondo, con o senza applausi, questa è la maturità che ci aspetta tutti. I ragazzi, con la loro “scolasticissima” maturità, non fanno altro che ricordarcelo.

NB. L’immagine è un quadro della mia collega di Storia dell’Arte, Valentina Grilli

Redazione de Gliscritti | Martedì 15 Marzo 2016 - 09:05 am | | Default

Spiegare il Nuovo Testamento passeggiando per il Palatino ed i Fori imperiali. Una guida per la visita, di Andrea Lonardo

Mettiamo a disposizione sul nostro sito una guida al Palatino ed ai Fori Imperiali scritta da Andrea Lonardo come memoria dei diversi itinerari proposti a gruppi diversi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

N.B. Il presente itinerario è la collazione di diversi itinerari proposti nel tempo con gruppi diversi. Per realizzarlo concretamente si suggerisce di ridurre il numero delle tappe e delle catechesi scegliendo di volta in volta quelle che si ritengono più adatte. Seguirà un secondo itinerario sulla figura di san Pietro, su cui vedi già La basilica di San Pietro in Vaticano: guida per la visita. I testi di www.giubileovirtualtour.it, di Andrea Lonardo.

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1/ Introduzione storica per situare in parallelismo la cronologia imperale e la cronologia neotestamentaria e dei primi decenni del cristianesimo (dal panorama su via di San Gregorio dalla salita al Palatino, a fianco dei resti degli archi Celimontani dell’acquedotto Claudio)

San Paolo entrò probabilmente in Roma da Porta Capena, accompagnato dal gruppo dei cristiani che gli erano andati incontro, oltre che dai soldati romani che lo conducevano nell’urbe. Porta Capena è la porta ormai scomparsa aperta lungo le antiche Mura Serviane: è localizzata dagli archeologi al di sotto dell’attuale piazza di Porta Capena. Prendeva il suo nome dalla città di Capua, perché, attraversandola, si imboccava la strada che portava a quella città. L’ingresso in Roma venne spostato più a sud già in età romana con la costruzione di Porta Appia - oggi Porta San Sebastiano – appartenente al nuovo recinto delle Mura Aureliane. Oggi è Porta San Sebastiano a segnare l’inizio del cammino verso il sud della penisola, quello che si snoda, appunto, sulla via Appia, ma al tempo di Paolo le mura Aureliane non erano ancora state costruite, per cui egli entrò nell’urbe proprio in quel punto che oggi è riconoscibile solamente da un incrocio semaforico. Vale la pena fermarsi ad immaginare l’antica porta, mentre Paolo la attraversa. Un buon punto per fermarsi a riflettere su questo evento così importante è la strada bianca, all’interno della zona archeologica del Palatino, che passa al fianco dei resti dell’acquedotto subito dopo essere entrati da via di San Gregorio. Paolo giunse a Porta Capena percorrendo la via.

Il Colle Palatino è oggi uno dei luoghi più belli di Roma perché su di esso si possono visitare le rovine del palazzo imperiale e godere dei migliori panorami sul centro della città. Il legame fra il colle ed il Palazzo è così forte che proprio l’attuale termine “palazzo” deriva da “Palatino”, il colle sul quale sorgeva appunto il “palatium” per eccellenza, la residenza imperiale. I resti ancora visibili permettono di ricostruire le diverse fasi della residenza che venne eretta dall’imperatore Augusto, negli anni quindi della nascita e della vita nascosta di Gesù.

Prima di visitare le rovine vale la pena dare uno sguardo globale alla cronologia del periodo imperiale, per poterla comparare con gli eventi neotestamentari: questo aiuterà a situare poi gli eventi della vita di Gesù e degli apostoli nel contesto degli eventi politici del tempo, in relazione alle rovine che via via si visiteranno – soffermarsi sui resti di alcuni edifici permette di soffermarsi anche visivamente nella scuola e nella catechesi sulle origini e sui primi secoli del cristianesimo.

I primi cinque imperatori appartennero ad un’unica dinastia, quella giulio-claudia. In realtà già Giulio Cesare governò da solo e con lui venne ad essere utilizzato il termine “imperator” in un senso nuovo, mentre prima con esso si indicava la figura di un generale delle truppe. Ma è solo con Ottaviano che si chiarisce definitivamente il nuovo utilizzo del termine: Ottaviano si fece chiamare Princeps, Caesar (come erede dell’autorità di Giulio Cesare), Augustus (etimologicamente “colui che accresce”, titolo che gli attribuiva un’aurea di nobiltà personale) ed, appunto, Imperator.

Cesare Ottaviano Augusto viene allora indicato dalle fonti come il primo imperatore: fu durante il suo governo che nacque Gesù, come affermano chiaramente i vangeli.

Ad Ottaviano succedette Tiberio, che fu il secondo imperatore: fu sotto il suo governo che Gesù venne crocifisso e risorse da morte: Ponzio Pilato era, a quel tempo, rappresentante di Tiberio in Giudea. Durante il suo regno avvenne ancor prima la predicazione del Battista e, alcuni anni dopo, la conversione di san Paolo.

A Tiberio successe Caligola, terzo imperatore romano, noto per aver espresso il desiderio di porre statue delle divinità romane all’interno del Tempio di Gerusalemme: a questa sua espressa richiesta fa probabilmente riferimento, come si vedrà, il Vangelo di Marco.

Quarto imperatore fu Claudio, durante il cui regno avvennero fatti molto importanti per la comunità primitiva descritti da san Paolo, cui si accennerà subito, come l’espulsione degli ebrei da Roma e, con essi, di Aquila e Priscilla e come l’incontro dell’apostolo con Gallione.

Quinto imperatore fu Nerone durante il cui regno vennero uccisi Pietro e Paolo: si attirò via via l’odio della popolazione romana e, per questo, cadde in disgrazia e non riuscì a designare un nuovo erede al trono. Giunse così al termine con lui la dinastia giulio- claudia.

Dopo aver visto in sequenza gli imperatori della dinastia, qualche approfondimento.

Nello schema a disposizione è possibile rendersi conto visivamente innanzitutto del lunghissimo regno di Ottaviano Augusto che durò 44 anni: la sua età venne chiamata saeculum augustum o saeculum aureum, a sottolineare che fu un periodo di splendore economico e letterario, con grandi letterati, giuristi, poeti.

Nel 4 a.C., durante il governo di Augusto, morì Erode il Grande – che, come si vedrà, venne fatto re da Ottaviano e Antonio, allora triumviri, proprio qui ai Fori, nella Curia del Senato. Gesù, quindi, nacque prima di questa data, come si può dedurre dal riferimento dei vangeli alla strage dei bambini innocenti: generalmente si pone la nascita del Cristo al 6 o al 5 a.C.

Tiberio morì invece nel 37 d.C. e suo governatore in Giudea fu Ponzio Pilato. Ponzio Pilato governò quella regione dell’impero romano per ben dieci anni (26-36 d.C.); sono gli anni del processo e della condanna a morte di Gesù. Sotto Tiberio si deve collocare anche la predicazione di Giovanni Battista, che è attestata anche dagli storici pagani tra il 27 e il 29 d.C. Sotto Tiberio si deve collocare anche la vocazione di san Paolo, intorno al 36 d.C., quindi probabilmente nell’ultimo anno di Tiberio. Perché è possibile datare tale conversione con relativa certezza? Perché Areta IV, che era re nabateo, cioè della zona conosciuta nell’Antico Testamento con il nome di Edom, il regno che aveva per capitale Petra al di là del Giordano, morì nell’anno 39 o 40 d.C. e quando Paolo venne condotto a Damasco, dopo aver incontrato il Cristo sulla via che portava appunto a Damasco, ne fuggì proprio a motivo di Areta. Così racconta lo stesso Paolo nella Seconda lettera ai Corinti: «A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani» (2 Cor 11, 32-33). Areta potrebbe essere il re di Petra che fece realizzare la famosa Khazneh (letteralmente il “tesoro”), il tempio funerario più famoso di Petra, ma la cosa non è certa.

A Tiberio successe Caligola. È certo che egli voleva far erigere una statua – probabilmente delle divinità romane oppure di tipo dinastico - all’interno del Tempio di Gerusalemme: la cosa destò giustamente grande preoccupazione presso il popolo ebraico che difendeva la dedicazione del Tempio a Yahweh e che sosteneva un deciso aniconismo a partire dall’Antico Testamento. Alcuni studiosi collegano questa decisione di Caligola ad un’espressione misteriosa del vangelo di Marco:

«Quando vedrete l’abominio della devastazione presente là dove non è lecito – chi legge, comprenda –, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano sui monti» (Mc 13,14). Filone di Alessandria, grande filosofo ebreo-ellenista, giunse anche lui qui al Palatino presso Caligola, per farsi ricevere dal sovrano ed invitarlo a porre fine alle vessazioni che subivano gli ebrei di Alessandria d’Egitto.

A Caligola successe Claudio e durante il suo impero si verificarono eventi neotestamentari databili con certezza. Innanzitutto il proconsolato di Gallione. Dagli Atti degli Apostoli si sa che Paolo venne interrogato a Corinto dal proconsole Gallione. Questo incontro segna una data fondamentale, insieme a quella della morte di Areta, per la cronologia paolina. Gallione era il fratello di Lucio Anneo Seneca, il grande filosofo: i due erano fratelli di sangue. Gallione fu governatore dell’Acaia, la regione di cui Corinto faceva parte, ed il suo proconsolato è databile con certezza fra il 50 e il 52 d.C.: dunque in quegli anni Paolo fu a Corinto. A partire da quella data si riescono poi a collocare con precisione cronologica alcuni fatti. Poiché Paolo inviò la Prima Lettera ai Tessalonicesi prima di essere interrogato da Gallione, tale Lettera va situata negli anni 50-51 ed è pertanto probabilmente il testo più antico del Nuovo Testamento perché anteriore all’incontro con Gallione: la Lettera è, infatti, scritta da Atene (1 Tes 3,1), prima che Paolo arrivi a Corinto.

Ma sotto Claudio avvenne anche un altro episodio molto importante per la cronologia neotestamentaria, episodio che è ricordato pure nelle fonti pagane. Esse informano che sotto Claudio avvenne una rivolta dei giudei di Roma: infatti, un testo dello storico pagano Svetonio ricorda che si verificò un tumulto nell’urbe che coinvolse gli ebrei della città “impulsore Chresto”, cioè "a causa di un Cresto che spingeva" – il fatto è raccontato nella Vita Claudii. L’evento avvenne probabilmente nell’anno 49 ca. Lo storico pagano, avendo sentito che gli scontri fra fazioni ebraiche avvenivano a nome di un tal Chresto, deve aver pensato che questi fosse un agitatore politico o un capopopolo del tempo di Claudio. Invece quel Chresto – a motivo del fenomeno linguistico dello iotacismo che porta il suono “i” a modificarsi spesso in “e” – è proprio Gesù Cristo. Evidentemente gli ebrei dell’epoca insorgevano contro quei loro confratelli pure ebrei che erano diventati cristiani ed il nome di Cristo generava dissenso: sarà solo nell’anno 90, probabilmente, che gli ebrei decretarono la definitiva espulsione dei cristiani dalle sinagoghe.

Il nome di Cristo, solo una quindicina di anni dopo la sua morte e resurrezione, era quindi già così noto a Roma che la comunità ebraica era divisa al suo interno per questo. Una parte rifiutava Gesù, un’altra parte affermava che quell’uomo era il Cristo, che era il Messia atteso da Israele. Claudio cercò di placare gli scontri espellendo gli ebrei – cioè l’una e l’altra parte – dalla città, ma ovviamente il suo ordine dovette avere carattere transitorio.

Si ritrova traccia di questa espulsione in Atti 18,1-2, senza menzione però della causa del fatto. Gli Atti raccontano che una coppia di sposi, di nome Aquila e Priscilla, si trovavano a quel tempo in Grecia perché espulsi dall’urbe a motivo dell’editto di Claudio: «Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei».

È veramente un fatto enorme che già nell’anno 49, una quindicina d’anni dopo la morte e la resurrezione di Cristo, il cristianesimo a Roma era così importante che faceva discutere la comunità ebraica locale.

A Claudio successe Nerone. Sotto il suo governo, che andò dal 54 al 68 d.C., venne scritta certamente la Lettera ai Romani generalmente datata dagli studiosi tra il 55 e il 58 d.C. Dal tenore del testo si evince chiaramente che Paolo non era ancora mai venuto a Roma e che aveva inviato la Lettera, di cui si parlerà più avanti, per preparare la sua venuta. È quindi uno scritto che egli invia per presentarsi, per spiegare cosa verrà ad annunciare, raccontando cos’è per lui la fede e la grazia che salva. Generalmente si ipotizza che Paolo sia arrivato a Roma fra il 59 ed il 60 d.C. e che vi sia arrivato insieme ad altri cristiani ed, in particolare, a Luca – come si vedrà fra breve.

Sempre durante il regno di Nerone deve essere situata l’uccisione di Giacomo il Minore, che dovette avvenire nell’anno 62 d.C. Anche questa fu decretata dal Sinedrio, nel periodo in cui la Giudea non ebbe un prefetto romano, poiché, morto Festo, il nuovo governatore impiegò del tempo a giungere dall’urbe. Dall’insieme dei dati si evince che nel I secolo, tragicamente, l’ebraismo perseguitò il cristianesimo fino alla morte; poi, ancor più tragicamente, nei secoli che seguirono, fu la fede cristiana a perseguitare in diverse occasioni il popolo ebraico. Vennero poi gli anni recenti nei quali, a partire dalla II guerra mondiale, ebrei e cristiani si ritrovarono vicini, innanzitutto negli anni dell’occupazione nazista della città, quando addirittura le suore dei monasteri di clausura nascosero nei loro conventi gli ebrei, li nascosero cioè proprio dove era vietato a chiunque l’ingresso – ovviamente ciò non poté avvenire senza l’intervento diretto del papa Pio XII che ordinò alle monache di infrangere la loro legge millenaria per l’emergenza di carità di quei mesi.

Ma, per tornare ai tempi del Nuovo Testamento, nel I secolo proseguì purtroppo da parte di alcuni responsabili del Sinedrio quell’astio che già aveva portato alla morte di Cristo. L’ebraismo cercò anche con la forza di estirpare il cristianesimo finché non si giunse all’espulsione dei cristiani di origine ebraica dalle sinagoghe: ciò dovette avvenire intorno all’anno 90 d.C.: da quel momento il cristianesimo divenne nell’impero religio illicita.

L’ebraismo, infatti, era religio licita dai tempi di Giulio Cesare: era cioè consentito agli ebrei di essere fedeli all’impero pur essendo esonerati dal rendere culto agli dèi pagani ed agli imperatori divinizzati. Finché il cristianesimo venne considerato un gruppo interno all’ebraismo, valsero queste garanzie anche per i cristiani, ma esse cessarono man mano che divenne chiara la nuova identità dei discepoli di Cristo. Nell’anno 90 appunto - così si ritiene dai più - si sancì la separazione definitiva fra ebraismo e cristianesimo.

Ma la prima persecuzioni contro i cristiani da parte romana scattò alcuni decenni prima, sotto Nerone, sicuramente nell’anno 64 d.C. In quella data vennero martirizzati i Protomartiri romani, di cui si parlerà, come ricorda un importantissimo testo di Tacito e probabilmente, anche se lo storico non lo afferma esplicitamente, fu in quella persecuzione che nel Circo presso il colle Vaticano trovò la morte Pietro, insieme a tanti altri cristiani: egli così non morì solo, ma insieme a catechisti, preti e semplici fedeli della comunità romana.

Vedere i diversi edifici realizzati qui sul Palatino e nei Fori imperiali dai diversi imperatori aiuterà a situare i dati certi della cronologia neotestamentaria.

Terminata la dinastia giulio-claudia a motivo della disgrazia di Nerone, dopo un periodo di lotte e disordini, ebbe inizio una nuova dinastia, quella dei Flavi.

Primo imperatore della nuova dinastia fu Vespasiano. Egli era ancora generale quando scoppiò la cosiddetta prima guerra giudaica nel 66. In quell’anno gli ebrei si rivoltarono al potere romano. Vespasiano stava conducendo vittoriosamente la campagna militare romana quando venne acclamato imperatore. Immediatamente prese la strada per Roma lasciando suo figlio Tito a terminare la guerra. Fu Tito, quindi, a sconfiggere definitivamente i rivoltosi giudei. Alla morte del padre Tito divenne a sua volta imperatore.

A Tito successe l’altro figlio di Vespasiano che si chiamava Domiziano. Quest’ultimo è quasi sicuramente l’imperatore che ha di mira l’Apocalisse: fu lui a far erigere a Efeso un Tempio alla dinastia flavia divinizzata, Tempio nel quale erano poste per la pubblica venerazione le grandi statue imperiali (cfr. Ap 13,14 «Per mezzo di prodigi, che le fu concesso di compiere in presenza della [prima] bestia, [la seconda bestia] seduce gli abitanti della terra, dicendo loro di erigere una statua alla bestia, che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta»).

Dopo Domiziano venne Nerva. Sebbene le fonti non siano chiarissime, sembra che con questo imperatore si sia avuta una prima inversione di tendenza nei confronti dei cristiani - qualche storico ha ipotizzato addirittura una vicinanza di Nerva al cristianesimo. Certamente già sotto Nerva alcuni personaggi della famiglia imperiale appartennero al cristianesimo.

Seguì poi Traiano, di cui si tratterà più avanti, che fu il primo imperatore ad emanare una vera e propria legge contro i cristiani, mentre la persecuzione neroniana deve essere considerata ancora episodica: è il famoso Rescritto di Traiano che chiede esplicitamente che i cristiani debbano essere perseguitati se denunziati.

Collochiamo adesso gli eventi della storia ebraico-cristiana in relazione agli imperatori della dinastia flavia.

Per la datazione del Nuovo Testamento cruciale è la data del 70 d.C., l’anno in cui Gerusalemme venne conquistata, saccheggiata e data alle fiamme. Siamo negli anni della I guerra giudaica che si svolse fra il 66 ed il 70, quando la prima grande rivolta giudaica fu sedata con la forza da Vespasiano e poi da Tito – in realtà la rivolta si prolungò ulteriormente nel tempo perché solo nel 73 cadde Masada dove si erano rifugiati gli ultimi zeloti. Ma decisivo è l’anno 70 quando anche il Tempio fu distrutto e, di fatto, la guerra ebbe termine.

In quell’anno si concluse il cosiddetto periodo del “secondo Tempio”, cioè del Tempio eretto dopo la distruzione del primo ad opera dei Babilonesi nel VI secolo a.C. Fino all’anno 70 gli ebrei ancora celebravano il culto sacrificando animali a Dio sull’altare del Tempio, ancora il sacerdozio era in vigore, ancora il Tempio era il centro del culto di Israele. Fino al 70 ancora i sacerdoti ebrei sgozzavano gli agnelli, così come gli altri animali sacrificali – anche le famiglie portavano animali al Tempio perché i sacerdoti li sacrificassero all’unico Dio. Dal 70, invece, da quando i romani distrussero il Tempio, si interruppe la ritualità templare e sacrificale d’Israele, mentre restò solo il culto sinagogale, basato sull’ascolto della Torah. Nacque così quello che viene chiamato il “giudaismo” che non è più l’ebraismo biblico, o meglio è l’ebraismo biblico ma con delle varianti significative.

Perché l’anno 70 è importante anche per la datazione del Nuovo Testamento? Perché quella data fornisce un criterio per la datazione degli scritti. Se da uno scritto appare evidente che il Tempio è ancora in attività, quello scritto è anteriore al 70. Se invece il Tempio è chiaramente distrutto, quello scritto è posteriore, almeno nella sua ultima redazione.

Ad esempio, nella Lettera agli Ebrei si parla del Tempio come chiaramente esistente, si dichiara che i sacerdoti si recano nel Tempio che è descritto come un’entità vivente. Questo fa ritenere che quel testo, poiché la liturgia templare è descritta come operante dall’autore che non accenna minimamente alla sua cessata attività, sia anteriore all’anno 70.

Il riferimento al Tempio è utile anche per la datazione dei Vangeli. Generalmente si ritiene che il Vangelo di Marco sia stato scritto prima del 70 d.C. per lo stesso motivo, cioè perché vi si accenna alla profezia di Gesù sulla distruzione del Tempio, ma in maniera molto vaga, mentre in Luca e Matteo la fine del Tempio è descritta con particolari che indicano che l’evento è avvenuto ed è avvenuto in un determinato modo: «Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte» (Lc 19,24). Quindi i Vangeli di Matteo e Luca nella loro redazione finale hanno conosciuto la fine storica del Tempio di Gerusalemme e sono perciò successivi al 70. Marco non l’ha conosciuta, ma riferisce solo della profezia di Gesù.

Sempre durante la dinastia flavia, sotto Domiziano, proprio a causa della I guerra giudaica Flavio Giuseppe, così importante per la storiografia del I secolo, venne a Roma. Flavio Giuseppe è il grande storico ebreo, che portando il nome di Giuseppe vi aggiunse poi quello di Flavio perché volle onorare la dinastia dei Flavi. Partecipò alla rivolta ebraica come condottiero in Galilea, legato inizialmente agli zeloti. Sulle alture vicino il Lago di Tiberiade si consegnò ai romani e passò dalla parte dei vincitori, facendosi “romano”. Tutt’oggi, in alcuni testi storiografici di parte ebraica, è considerato come uno dei grandi traditori. Venuto a Roma, vi scrisse una serie di opere, le più famose delle quali sono la Guerra giudaica e le Antichità giudaiche. Scrisse questi testi per mostrare all’imperatore - e alla cultura romana - che gli ebrei erano un popolo valente, nonostante la rivolta, che erano capaci di vivere in obbedienza all’impero e che di loro non si doveva avere paura poiché la loro fede era carica di valori. Negli scritti di Flavio Giuseppe si parla, fra l’altro, dei diversi gruppi presenti nell’ebraismo di allora: i farisei, i sadducei, gli esseni, gli zeloti. Flavio Giuseppe parla anche di Gesù, con chiarissimi riferimenti alla sua vicenda, come a quella di Giovanni Battista, che, confrontate con i testi evangelici, ne testimoniano l’affidabilità storica.

Le fonti attestano anche che i cristiani, durante il regno di Domiziano, vennero perseguitati con l’esplicita accusa di “ateismo”. Emergeva così per la prima volta l’accusa già implicita nella persecuzione neroniana: i cristiani, che affermavano a torto dal punto di vista pagano di essere credenti, erano “atei” - e, quindi, perseguibili dallo Stato che invece invitava a venerare gli dèi - perché affermavano che gli dèi pagani erano idoli e pertanto inesistenti.

Emerge qui dove si appuntava la critica del cristianesimo del I secolo alle religioni del tempo: i cristiani amavano i loro concittadini pagani e pregavano per loro, anche nel martirio, ma avevano il coraggio di affermare che la rappresentazione delle divinità che i pagani si facevano erano false e contrarie alla rivelazione del vero volto di Dio in Cristo e nella sua croce. Il cristianesimo faceva sua e prolungava la libertà di Israele che, a partire dall’incontro con il vero Dio di Abramo e di Mosè, si scagliava contro gli idoli, cioè le false e talvolta anche crudeli rappresentazioni di Dio dei popoli circostanti. Per i primi cristiani gli idoli non erano valori sbagliati – questo è il significato che il termine ha assunto oggi dove idoli sono il potere, il denaro, il sesso, ecc. -, ma immagini false di Dio presenti nel politeismo del tempo. Essi, insieme con noi, ritenevano che solo nel crocifisso che si fa carico del male degli uomini è possibile vedere il vero volto di Dio: le altre raffigurazioni delle divinità sono umane, troppo umane.

Sempre sotto Domiziano si situa cronologicamente la Lettera di Clemente ai Corinzi. Clemente è vescovo di Roma e scrive ai Corinzi. È il primo intervento della Chiesa di Roma al di fuori dell’urbe. Già alla fine del I secolo, insomma, la comunità di Roma inviava una lettera a Corinto invitando la comunità locale a cessare le divisioni presenti fra preti e fra preti e vescovo, rileggendo in maniera straordinaria il messaggio inviato decenni prima da san Paolo alla stessa comunità ed, in particolare, l’inno (o “elogio”) alla carità.

A Domiziano successe Nerva e si ipotizza da parte degli studiosi, avendo come fonte Eusebio di Cesarea, che durante il suo regno Giovanni, o comunque l’autore dell’Apocalisse, poté tornare da Patmos a Efeso, poiché la persecuzione contro di lui era cessata.

Si giunge quindi a Traiano, il primo imperatore che emanò la prima disposizione contro i cristiani con valore di legge e non come atto provvisorio e momentaneo. La legge fu emanata a partire da una precisa richiesta da parte di Plinio il Giovane, originario insieme a Plinio il Vecchio, lo zio, del nord Italia, precisamente di Como. Plinio il giovane, verso la fine della sua vita, venne mandato in Bitinia - nell’odierna Turchia - e da quella regione scrisse a Traiano chiedendo lumi. Traiano rispose emanando le condizioni della persecuzione, come si vedrà in seguito.

Sotto Traiano venne martirizzato Ignazio di Antiochia, di cui si parlerà più avanti nella spiegazione al Colosseo. Ignazio venne perseguitato probabilmente già con le leggi emanate da Traiano. Egli era vescovo di Antiochia di Siria, la città nella quale per la prima volta i discepoli di Gesù vennero chiamati “cristiani”. Antiochia era la città più importante del tempo dopo Roma e Alessandria d’Egitto: era così la terza città dell’impero. Ignazio ne venne prelevato e venne poi deportato per nave – è possibile seguire tramite le sue lettere tutto l’itinerario percorso - finché arrivò a Roma dove venne martirizzato quasi sicuramente al Colosseo perché lui parla proprio dei leoni che lo divoreranno.

Si può riassumere, anche per memorizzarla, la lista dei primi dieci imperatori, cinque per ognuna dinastia, ricordando che fra le due ebbero il dominio alcuni imperatori di minore importanza di cui qui non si è parlato. Regnarono in successione Ottaviano Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone della dinastia giulio-claudia e Vespasiano, Tito, Domiziano, Nerva e Traiano della dinastia Flavia.

Cronologia

DINASTIA GIULIO-CLAUDIA
30 a.C.-14 d.C. OTTAVIANO (saeculum augustum) Nel 4 a.C. morte di ERODE IL GRANDE Prima del 4 a.C. NASCITA DI GESÙ CRISTO
14-37 d.C. TIBERIO 26-36 PONZIO PILATO, prefetto in Giudea *) 27-29 predicazione di GIOVANNI IL BATTISTA
*) 30 ca. MORTE E RESURREZIONE DI GESU' CRISTO
*) 36 ca. vocazione di S. PAOLO (comunque prima del 39/40 perché in quell'anno morì il re nabateo Areta IV, re di Petra, e Paolo, appena convertito, sfuggì da un governatore di quel re facendosi calare in una cesta dalle mura di Damasco (2 Cor 11, 32-33)
37-41 CALIGOLA Progetto di una statua imperiale nel Tempio di Gerusalemme  
41-54 CLAUDIO 50-52 proconsolato di GALLIONE, fratello di SENECA, in Acaia *) 49 ca. oppure 41: tumulto a Roma "IMPULSORE CHRESTO" ("a causa di Cristo che incitava"), nella Vita Claudii di Svetonio; il fatto si ritrova in At 18,1-2 che racconta di Aquila e Priscilla allontanati da Roma a causa di un ordine dell'imperatore Claudio)
*) PAOLO dinanzi a Gallione fra il 51 e il 52 ca.
*) Prima di questa data, I LETTERA AI TESSALONICESI
54-68 NERONE 64 incendio di Roma *) tra il 55 e il 58 LETTERA AI ROMANI
*) ca 59-60 PAOLO E LUCA a Roma (brani "noi" di At)
*) 62 uccisione di GIACOMO IL MINORE, il "fratello del Signore" durante l'assenza del governatore romano
*) 64 ca. persecuzione dei cristiani e martirio di a Roma
I FLAVI
69-79 VESPASIANO *) 66-70 I rivolta giudaica
*) 70 DISTRUZIONE DEL "SECONDO" TEMPIO DI GERUSALEMME
70: a partire da questa data si possono datare molti scritti del NT (ante quem o post quem)
79-81 TITO    
81-96 DOMIZIANO *) Opere di FLAVIO GIUSEPPE
*) fra l'80 e il 90 espulsione dei cristiani dalle sinagoghe
*) Persecuzioni per "ateismo"
*) Lettera di CLEMENTE ai Corinzi
96-98 NERVA   Secondo Eusebio è sotto Nerva che Giovanni venne liberato dall'esilio di Patmos e tornò ad Efeso
98-117 TRAIANO   *) Fra il 111 ed il 113 lettere sui cristiani fra PLINIO IL GIOVANE e TRAIANO
*) Martirio di IGNAZIO D'ANTIOCHIA a Roma, non sappiamo se prima o dopo le lettere di Plinio e Traiano
GLI ANTONINI
117-138 ADRIANO 132-135 II rivolta giudaica Rescritto di Adriano nella prima Apologia di Giustino
138-161 ANTONINO PIO   *) 140-150 ca. PASTORE DI ERMA,
*) 153-160 APOLOGIE DI GIUSTINO
161-180 MARCO AURELIO   Martirio di GIUSTINO

2/ Perché san Paolo e san Pietro sono giunti fino a Roma? (dal panorama sul Circo Massimo nei resti del Palazzo imperiale)

Ambientazione

Vi propongo di riflettere su di un primo aspetto che qui possiamo visualizzare bene. Perché Paolo è giunto fin qui? Perché Pietro è venuto fino a Roma? Perché tanta gente è venuta fin qui a portare Cristo? Qui è possibile, di nuovo, immaginare il loro arrivo.

Da questa terrazza magnifica si vedono in basso i resti del Circo Massimo. Tale Circo era il grande circo di Roma, era il luogo delle più importanti corse delle quadrighe. Si potrebbe paragonare a ciò che è oggi per l’Italia l’autodromo di Monza. Era il luogo della massima velocità allora possibile. Un auriga guidava un cocchio trainato da quattro cavalli e sfidava altre quadrighe nella corsa.

Quando Costantino trasferì la capitale a Costantinopoli fece costruire anche lì un ippodromo analogo, oggi trasformato in piazza: è quello che ancora oggi ha al centro l’obelisco di Teodosio, vicino a Santa Sofia e alla Moschea Blu.

L’imperatore da questa alta tribuna poteva vedere le corse, ma ovviamente aveva un podio proprio ai fianchi del Circo. A quei tempi vi correvano quadrighe appartenenti a squadre contraddistinte da quattro colori: quella dei rossi, quella degli azzurri, quella dei verdi e quella dei bianchi. I tifosi erano così divisi in quattro tifoserie che divenivano talvolta dei veri e propri partiti politici che lottavano fra loro anche nella vita cittadina.

Guardando a sinistra, dove è la torre medioevale della Moletta, un tempo appartenuta alla famiglia dei Frangipane - di cui fece parte anche Jacopa dei Settesoli, discepola di san Francesco di Assisi che forse vi abitò – si vede chiaramente piazza di Porta Capena. Da quella porta ormai scomparsa si accedeva a Roma provenendo dal sud dell’Italia. Lì giungeva la via Appia che partiva da Brindisi. La via ricevette nuova sistemazione con Traiano. Paolo raggiunse la via Appia dopo essere sbarcato da Malta a Pozzuoli, che era il porto più importante vicino a Roma (Napoli non era ancora una città importante, mentre Pozzuoli era così importante che vicino ad essa sorgeva il porto della flotta imperiale romana vicino Capo Miseno). Da Pozzuoli san Paolo risalì verso Roma lungo una via litoranea che si collegava poi con la via Appia.

Ora la Porta, come si è già detto, è spostata un poco più a sud: è la Porta di San Sebastiano. Ma la Porta di San Sebastiano ai tempi di Paolo non esisteva. Quindi è possibile immaginare Paolo che entra in Roma proprio in quel punto, proprio dove è ora piazza di Porta Capena.

Questa arte dell’immaginazione è preziosa per far vivere anche emotivamente in noi i luoghi antichi. Come in Israele è possibile immaginare i luoghi calpestati da Gesù, così qui vale la pena immaginare cosa deve aver provato san Paolo al vedere le porte della città che si aprivano al suo arrivo.

Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che la comunità romana, saputo dell’arrivo di Paolo, per quanto egli fosse scortato da soldati, inviò incontro a lui dei fratelli perché lo aiutassero e lo accompagnassero. L’incontro avvenne in due luoghi: al Foro di Appio e alle Tre Taverne (quasi sicuramente l’odierna Cisterna), come racconta At 28,15. Si può immaginare che fra di essi vi fossero Aquila e Priscilla e qualcuno dei romani che Paolo saluta nell’ultimo capitolo della lettera scritta appunto per preparare il suo viaggio.

Non solo: la finale degli Atti, che racconta dell’arrivo di Paolo a Roma, appartiene alle cosiddette “sezioni-noi”, in tedesco Wir-stücken, degli Atti (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16), cioè a quei brani dell’opera che hanno il soggetto alla prima persona plurale: “noi”. Si dice, ad esempio: «Arrivammo a Roma» (At 28,14) e non: «Paolo arrivò a Roma». L’autore di quei brani degli Atti era con Paolo. In questi testi, cioè, Luca stesso o qualcuno che è una sua fonte appare come testimone oculare a fianco di Paolo. Paolo e Luca arrivarono così insieme nell’urbe. Possiamo immaginare san Paolo e l’evangelista, ed insieme a loro Aquila e Priscilla e altri cristiani romani, nel momento in cui attraversarono Porta Capena e passarono a fianco del Palazzo Imperiale e del Circo Massimo, proprio nei luoghi che si possono ammirare da questo punto panoramico - la tradizione colloca poi la residenza di Luca a Roma nella zona sottostante la chiesa di Santa Maria in via Lata, mentre colloca la casa di Aquila e Priscilla sul colle Aventino, chiaramente visibile da questa terrazza, dove ora sorge la chiesa di Santa Prisca.

Le “sezioni-noi” cominciano in At 16,10: «Dopo che ebbe questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo» per giungere fino alla fine degli Atti con l’arrivo a Roma: «I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia» (At 28,15-16).

È possibile immaginare il dialogo che si sarà svolto fra di loro: qualcuno avrà presentato i diversi monumenti a Paolo e a Luca proprio come sto facendo io con voi.

In un’altra occasione vi invito a percorrere a piedi almeno un tratto della via Appia antica per immaginare ancora di più l’itinerario di Paolo e Luca. In estate, nei giorni festivi, il Parco archeologico di Villa dei Quintili permette l’accesso alla via Appia dalle rovine della villa e di lì, con un’ora a piedi, si raggiunge facilmente la Tomba di Cecilia Metella: sono 4 chilometri splendidi che permettono di porre i piedi proprio dove li pose l’apostolo e di immaginare quali dovevano essere allora i suoi sentimenti.

Catechesi

Affrontiamo allora di petto la domanda che questo luogo ci presenta: perché venire a Roma? Perché abbandonare la propria terra, le proprie sicurezze, per giungere in un posto così lontano e così pericoloso, che difatti portò Paolo, come Pietro, al martirio?

Si pensi anche alla fatica di questo itinerario. Uno studioso, Lorenzo De Lorenzi, ha calcolato che san Paolo percorse nei suoi quattro viaggi missionari almeno 16.500 chilometri, a piedi o in barca. Li ha percorsi attraversando pericoli di briganti e di fiere, con naufragi e persecuzioni. Tutto questo evidentemente con una motivazione fortissima che lo aiutava a superare ogni difficoltà. Quale?

Il testo che più di tutti aiuta a capire è un brano della Lettera ai Romani, scritta da Paolo proprio per preparare il viaggio. Così Paolo scrive: «Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni» (Rom 1,13).

Questa confessione di Paolo mostra che già da tempo egli aveva questa idea fissa di venire a Roma. Negli Atti è evidente che l’idea del viaggio a Roma nasce ad Efeso (At 19,21): «Paolo decise nello Spirito di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme, dicendo: “Dopo essere stato là, devo vedere anche Roma”». Ma sarà Cristo stesso a confermarlo in questa intenzione a Gerusalemme. Paolo, infatti, giunto a Gerusalemme, venne imprigionato perché un gruppo integralista ebraico voleva la sua morte, sobillato dal sinedrio (At 21,27-22,29). I soldati romani, per proteggere Paolo che altrimenti sarebbe stato ucciso sulla spianata del Tempio, lo portarono nella Fortezza Antonia. Gli Atti raccontano che, addirittura, 40 ebrei facinorosi e zelanti fecero voto di non prendere cibo prima di averlo ucciso, tanto la sua predicazione appariva loro come contraria all’ebraismo (At 23,12-15).

Quando i romani decisero di flagellarlo nella Fortezza Antonia, Paolo si dichiarò cittadino romano. La notte seguente gli apparve Cristo che gli disse di recarsi a Roma: «La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”» (At 23,11). È l’unico brano del Nuovo Testamento nel quale il Signore Gesù stesso – qui il Signore risorto – utilizza la parola “Roma”. Non sappiamo se l’abbia mai pronunciata con Cefa/Pietro, perché i Vangeli non ci dicono niente a riguardo. Ma gli Atti ci dicono che Paolo sentì pronunciare dal Signore il nome di “Roma” mentre era nella Fortezza Antonia.

Paolo sfruttò allora le possibilità che gli erano data dal suo essere cittadino romano. Pur essendo la sua famiglia di Tarso aveva acquisito la cittadinanza romana. Non si sa precisamente come, ma si conosce la prassi imperiale del tempo di concederla a famiglie importanti. Probabilmente dovette ottenerla per un motivo simile, perché solo molto tempo dopo venne emanata una Legge che garantiva a tutti la cittadinanza romana che era precedentemente riservata solo a pochi maggiorenti delle province.

Comunque Paolo usò lo stratagemma di appellarsi a Cesare, come cittadino romano. Dichiarò di voler essere giudicato a Roma e non da un tribunale della Giudea per realizzare finalmente il suo desiderio di giungere a Roma, per annunziare anche qui il vangelo.

Per lui, insomma, il cosiddetto “viaggio della prigionia”, il viaggio a Roma apparentemente così diverso dagli altri tre viaggi missionari, è in realtà uguale agli altri, è un viaggio di evangelizzazione. Già questo è estremamente istruttivo: approfittare di ogni circostanza per annunziare in nuovi luoghi il vangelo. Avviene qualcosa di simile quando un prete si ammala, deve essere ricoverato in ospedale e l’ospedale diventa un luogo di annunzio, per i suoi compagni di camera diventa l’occasione per incontrare un cristiano ed avvicinarsi alla fede.

Ma ecco che Paolo, dopo aver detto di essere stato fin lì impedito di recarsi a Roma – e abbiamo detto che sfrutterà la circostanza dell’appello a Cesare per giungervi finalmente – fornisce la motivazione: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Rom 1,14-15).

È un’espressione bellissima: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti». Cosa significa qui questa parola “debito”? Chiaramente non s’intende qui certamente un debito economico da pagare. Oggi se noi diciamo a una persona: «Sei in debito, ad esempio perché hai da pagare un mutuo» descriviamo una situazione difficile. Paolo non può utilizzare ovviamente l’espressione in questo senso, anche perché non avrebbe senso sentirsi in una situazione di debito verso persone che ancora non conosce. Ma di un vero debito si tratta lo stesso! E allora?

Si potrebbe dire, in maniera semplice, che per Paolo l’essere in debito è la condizione di chi ha ricevuto qualcosa di talmente grande e bello che lo rende consapevole di non essere a posto finché non l’ha donata a sua volta a chi non possiede ancora quel dono. Paolo è in debito perché ciò che ha ricevuto è così bello e grande che avverte che quel dono è necessario per la vita di altri. Quel che gli è stato regalato è necessario anche ad altri per vivere, perché senza quel dono la vita non è fiorita in pienezza. Paolo è in debito non perché deve restituire il Vangelo a chi glielo ha donato, bensì perché lo deve dare a chi ancora non l’ha mai ricevuto!

Possiamo capirlo meglio con qualche esempio abbastanza semplice e vero.

Pensiamo alla generazione della vita, al diventare padri e madri. Perché si diventa madre o padre? In fondo ciò avviene perché io so di essere “in debito” con la vita, perché i miei genitori mi hanno dato la vita ed è realmente bello vivere. Ognuno sa che i nostri genitori hanno fatto bene a darci la vita: come possiamo noi, allora, non far nascere nuovi bambini? È perché io sono felice di vivere che mi viene in mente di dare la vita! Questo aiuta a capire anche la reale questione che oggi si pone: il problema è che molti non si decidono a generare figli perché non sono convinti a sufficienza che la vita sia bella. Non sentendosi in debito con la vita, non sentendosi di dire “grazie” a chi ha dato loro la vita, perché dovrebbero sprecare la propria vita per la vita di un figlio senza avere sicurezza se la nuova vita sarà bella e significativa? Non è l’egoismo che impedisce di generare: ciò che rende infecondi nel cuore è il non avere motivi sufficienti per dire che vivere è comunque un bene.

Un secondo esempio. Mi ricordo che quando ero ragazzo il mio parroco, che si chiamava don Tonino - adesso è in cielo - era stato precedentemente un ingegnere delle acciaierie di Terni: era una vocazione adulta perché solo ad un certo punto era diventato prete. Dato che aveva dovuto lasciare il lavoro per entrare nella comunità del Collegio Capranica per divenire prete, gli era stata offerta una borsa di studio da alcune famiglie per potersi pagare il vitto in Collegio, per poter pagare gli studi ed i libri di teologia. Una volta lo sentii dire: «Io avrò detto “grazie” a quelli che mi hanno pagato la retta al Collegio Capranica e all’Università quando avrò pagato la retta a un nuovo alunno più giovane». Questa testimonianza mostra che la gratitudine non consiste tanto nel girarsi indietro a dire “grazie” a chi ci ha fatto del bene, ma sta nel protendersi avanti e ripetere il gesto, offrire ad altri ciò che è stato donato a noi, creare le condizioni perché un altro possa avere lo stesso nostro dono.

Di fatto questo è poi ciò che avviene concretamente nella vita. Le nostre madri riceveranno molto raramente un “grazie”, soprattutto da noi maschi che siamo spesso molto parchi di parole. Mia madre avrebbe desiderato tante volte ricevere da noi figli un “grazie” esplicito, ma spesso noi non le abbiamo dato questa soddisfazione perché i maschi dicono raramente “grazie”, anche se a torto. Però quando una madre si accorge che un figlio si sposa, si fa prete, o diventa a sua volta madre o padre, capisce che in realtà gli ha trasmesso tutto, capisce di essere stata capita in ciò che ha fatto. Quando un figlio o una figlia rivive nel proprio corpo l’esperienza di metter alla vita un bambino, ecco che i genitori divenuti nonni hanno la prova che il loro amore è stato accolto e capito. Non è un grazie “diretto”, ma è ancora più significativo. “Vedo che i miei figli hanno talmente amato la vita che ho donato loro che a loro volta ne fanno dono a nuovi figli”. Se io mi limitassi a volgermi indietro e a ringraziare chi mi ha fatto un dono, resteremmo sempre e solo io e lui o lei e in realtà non nascerebbe mai niente di nuovo. Se invece io ripeto il gesto di chi mi ha amato e nasce una terza persona ecco che la gratitudine si allarga.

Allora, cosa vuol dire Paolo quando afferma di essere in debito con coloro che abitano a Roma, anche se ancora non li conosce? Vuol dire: «Mi è stato regalato Cristo senza che io lo meritassi. Lui stesso mi è apparso ed è ciò che rende la mia vita degna di essere vissuta. Allora adesso io, Paolo, voglio che a voi non manchi ciò che senza merito è stato donato a me. Finché non avrò donato Cristo a chi ancora non lo conosce, sono in debito». Per questo Paolo sente di dover andare laddove Cristo non è ancora conosciuto.

Un terzo esempio. Ricordo una semplice riflessione che mi colpì quando ero ragazzo. Non è il motivo decisivo per il quale sono diventato prete, ma lo stesso mi fece riflettere. Nella mia parrocchia c’era un viceparroco molto in gamba che si spendeva totalmente per noi ragazzi, per farci crescere e perché diventassimo cristiani. All’opposto vedevo alcuni miei compagni di classe che talvolta provenivano da parrocchie spente, nelle quali non c’era alcun gruppo giovanile, né un prete che si occupasse con intelligenza e passione dei giovani: venivano da parrocchie dove talvolta dicevano di ascoltare omelie tristi, parrocchie nelle quali non c’era nessuno che sapesse conquistare i loro cuori. E mi dicevo: «Perché io devo vivere in questa realtà così bella e loro debbono esserne privi? Non è giusto che loro non abbiano una parrocchia viva e piena di giovani, che non abbiano un prete che cammina con loro, che non abbiano un gruppo, un campo estivo, le riunioni. Chi offrirà loro questo? Chi renderà possibile vivere l’esperienza che io stavo vivendo ad altri giovani, in altri luoghi?» E pensavo: «Ma potrei farlo io questo!». Io ho ricevuto questo dono, io so come posso donarlo ad altri.

Ecco. Paolo dice: «Io sono in debito verso tutti». Notate che Paolo dice “verso tutti” e spiega poi “verso i greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti”. Paolo non seleziona i ricchi o i poveri. La parola “barbaro” proviene dalla ripetizione del suono “bar”: “bar-bar”. I latini e i greci non capivano la lingua dei galli, dei sassoni, dei teutoni, ecc. e dicevano: «Questi balbettano, ripetono espressioni come “bar-bar”, ripetono delle cose incomprensibili». Per l’uomo greco il mondo si divideva in greci - il mondo che contava - e in barbari, cioè il resto del mondo. Paolo afferma invece: «Io sono pronto a predicare il Vangelo ai greci e ai barbari. Sono pronto a predicare ai sapienti e agli ignoranti perché io sono in debito sia verso i sapienti, sia verso gli ignoranti, sono in debito verso tutti».

Due ultime considerazioni. Innanzitutto sulla vergogna e la fierezza. Paolo aggiunge un’ulteriore espressione al sentirsi in debito: «Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rom 1,16). Il Vangelo, per lui, non è una vergogna, ma anzi è la cosa più bella che abbia mai ricevuto perché potenza di Dio. Non lo si può tenere per sé e goderne in proprio senza donarla ulteriormente. In questo si rileva la giustizia di Dio.

L’atteggiamento abituale di tanti, invece, è questo: «Voi potete pure essere cristiani, basta che ve lo tenete per voi. Che cosa ci state a rompere le scatole!» Come se parlare di Cristo, parlarne ai figli, parlarne in pubblico, fosse una vergogna, fosse una cosa disonesta, una cosa di malaffare.

Noi non possiamo non parlare pubblicamente di Cristo, perché Cristo è una “cosa” bella”! Si predica Cristo perché il vangelo è una cosa bella – la più bella - e io le cose belle te le voglio far conoscere. Se io ascolto per la prima volta lo Stabat Mater di Pergolesi subito mi sale nel cuore il bisogno di parlarne ad altri, perché anche loro lo ascoltino. Se poi le persone che non lo conoscono non vogliono ascoltarlo sono fatti loro, ma io non riesco a non dire che è un’opera meravigliosa. Se vedo il film “Il concerto” di Radu Mih?ileanu - lo dovete vedere, non aver visto questo film è una mancanza gravissima, è un peccato mortale culturale – non posso non invitare tutti a vederlo. Così è del Vangelo. Se ne parlo è perché è un regalo. Dire: «Il Vangelo» è dire: «Questa realtà è bellissima».

Julien Green ha scritto una volta: «È sempre bello e legittimo augurare all’altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano». Si sente riecheggiare talvolta una vecchia polemica intorno alla questione se sia giusto o meno pregare perché persone di altre religioni diventino cristiane. J. Neusner, un rabbino americano, ha scritto in risposta: «Ma guardate che nelle nostre preghiere noi preghiamo perché i pagani diventino ebrei». Come dire che è normale che un ebreo che è felice di essere ebreo desideri la stessa felicità per altri. Noi cristiani abbiano fra le nostre preghiere tante invocazioni a Dio per il mondo perché possa incontrare il vero volto di Dio. Non c’è niente di strano, anzi sarebbe strano il contrario. Certo sempre in un contesto di libertà, dove chi non è interessato al cristianesimo fa la sua strada e basta.

Questo sentirsi in debito, infine, aiuta ad entrare nel difficile tema della vocazione e della predestinazione.

Hans Urs von Balthasar scrisse un piccolissimo e preziosissimo libretto che si chiama Vocazione - lo lessi quando dovevo decidere se entrare o no in seminario. È un libro veramente luminoso. Balthasar afferma che ogni vocazione è una “pro-vocazione”, cioè è una chiamata “pro”, a favore, per gli altri. Ogni chiamato è chiamato a servizio di altri. Se Dio vuole arrivare a chiamare un uomo, certamente ha un disegno di predestinazione su di lui. Dinanzi a questa certezza spirituale della chiamata di Dio Calvino giunse a dire che se c’è una vocazione di Dio, cioè una predestinazione al bene, ma allora c’è anche una predestinazione al male, all’inferno. Egli parlò di doppia predestinazione, perché non riusciva ad uscire dal dilemma: o Dio non chiama nessuno, oppure se chiama qualcuno, deve necessariamente chiamare altri alla via contraria, alla perdizione.

Con la conseguenza terribile che Dio dividerebbe allora a metà il mondo: di qui gli eletti, i salvati, predestinati al bene e di là coloro che sono destinati a perdersi lontano da Dio. Invece Balthasar risponde: «La novità cristiana è che Dio sceglie te: Dio ha un disegno, un destino in mente per te, ha un’elezione, ma ti sceglie per gli altri, ti sceglie a favore degli altri, che vuole salvare tramite di te». Tu sei chiamato non contro tuo fratello, ma perché la chiamata di Dio tramite te arrivi ad un altro. Paolo sente così la sua chiamata: «Io sono stato chiamato, ma sono stato chiamato perché i romani diventino cristiani. Sono stato chiamato a servizio della chiamata universale». Ecco perché Paolo è venuto fin qui.

Antologia per la riflessione personale

Rom 1,13-16
Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma. Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco.

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.
Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.

LG 14
Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare.

-Itinerari dell'apostolo Paolo (tutti i luoghi antichi ed odierni), di Lorenzo De Lorenzi 

3/ I “vangeli” di Augusto ed il vangelo di Cristo (catechesi dinanzi all’Antiquarium, sui resti del quadriportico del palazzo di Augusto)

Ambientazione

Siamo nel cuore del palazzo imperiale di Augusto. Sono evidenti al centro i resti di una fontana ottagona intorno alla quale sorgeva un peristilio – un quadriportico, potremmo dire - del quale sono ancora oggi visibili le basi delle colonne. Il palazzo era molto grande. Il balcone sul Circo Massimo ce ne ha mostrato una parte, qui siamo in un cortile più vicino all’ingresso, magnificente, perché era la parte pubblica del palazzo, alla quale avevano accesso coloro che venivano a conferire con l’imperatore stesso. Le zone del palazzo più interne, quelle più vicine al balcone sul Circo Massimo, erano, invece, le zone più interne. Purtroppo gli scavi vennero eseguiti nel settecento e nell’ottocento, quando non esisteva ancora una scienza archeologica accurata e, quindi, non è così facile per gli studiosi oggi comprendere con precisione l’articolazione dell’intero complesso. Il peristilio, comunque, come molte delle murature che oggi ancora si vedono mostrano oggi la veste che assunsero al tempo di Domiziano, che abbellì l’intero palazzo fino al 92 d.C., affidando i lavori al famoso architetto Rabirio.

Possiamo, comunque, immaginare Augusto, l’imperatore durante il cui regno nacque Gesù, passeggiare con i suoi procuratori camminando al coperto, mentre la fontana gorgoglia con la sua acqua. Solo nel II millennio il luogo divenne poi Villa dei Farnese e potete vedere la palazzina che si erge sulle rovina. La visiteremo nella tappa successive: è divenuta l’Antiquarium del Palatino e conserva i resti del Palazzo emersi dagli scavi. Osservandoli vi potrete rendere conto della ricchezza del palazzo in età imperiale. Si vedono resti di affreschi, di stucchi, di pavimentazione, di statue in marmo. Mostra la cura architettonica che gli imperatori avevano per la bella vita che qui conducevano con le mogli, con i figli, con le amanti, con i potenti del tempo. Era il palazzo più importante di tutto l’occidente. L’imperatore era, nella mente dell’uomo antico, veramente il capo di tutta la terra: gli antichi non percepivano allora quanto grande fosse il mondo e così, per loro, l’imperatore era il supremo governante dell’orbe intero. Uno dei miei fratelli, con grande intelligenza, ripete spesso: «Si vede quanto sono stupidi gli uomini perché prima del 1492, prima di Cristoforo Colombo e della scoperta delle Americhe – anzi ancora qualche anno dopo Colombo perché egli non si accorse neanche di essere giunto in un “altro mondo”, ma pensava di essere giunto nelle Indie - , la metà dell’umanità non sapeva dell’esistenza dell’altra metà», europei ed americani non conoscevano l’esistenza reciproca gli uni degli altri. Questo dice la piccolezza del nostro sguardo umano miope. L’imperatore si sentiva veramente il capo di tutta la terra e passeggiava qui, in questo cortile.

Catechesi

Se noi ascoltiamo oggi la parola “vangelo” la colleghiamo subito con Gesù. Ma in quei tempi, prima ancora che Gesù la utilizzasse, incredibilmente era una parola che apparteneva al linguaggio di Augusto, anche se pochi sono oggi a conoscenza di questo – lo ha ricordato recentemente anche papa Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret. Proprio l’utilizzo imperiale di questa parola ci fa capire chi fosse l’imperatore e, per contrasto, quale novità sia il Vangelo di Gesù.

Sono le iscrizioni antiche a farci conoscere come coloro che erano chiamati a pubblicizzare l’operato imperiale utilizzassero il termine. Il più importante di questi testi è la cosiddetta Iscrizione di Priene. Priene è una meravigliosa città – oggi è possibile visitarne le rovine in Turchia – il cui piano urbanistico con vie che si incrociavano sempre ad angolo retto venne progettato dal grande Ippodamo di Mileto. L’Iscrizione di Priene ci testimonia un testo laudativo che doveva essere stato redatto per comparire in diverse città, dovunque l’apparato statale voleva che il nome di Augusto fosse lodato. Ne esisteva una precedente versione in latino meno esplicita, perché la cultura latina era molto meno propensa alla divinizzazione della figura imperiale, mentre in oriente il processo era più avanzato e accettato dalla popolazione. Se l’imperatore in occidente avesse affermato esplicitamente di essere un dio, avrebbe incontrato la ribellione di molti – la goccia che fece traboccare il vaso nel caso di Cesare fu proprio la sua decisione di presentarsi nel Tempio di Venere al Foro, quasi pretendendo la discendenza dalla dea – mentre in oriente la situazione era più tranquilla da questo punto di vista perché c’era tutta una tradizione ellenistica di sovrani che si erano paragonati alle divinità.

L’Iscrizione che loda il giorno di nascita dell’imperatore, inizia paragonando il suo venire al mondo all’inizio del mondo: «Se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû theiotàtou Kaìsaros) [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pánt?n arch?)».

La nascita di Augusto è, per l’Iscrizione, l’inizio delle cose! Viene immediatamente in mente il Prologo di Giovanni: per Giovanni il “logos”, il Verbo, il Figlio è l’origine, è all’origine, è presso Dio, è Dio. Il termine che Giovanni utilizza è “arché”, “inizio”, “principio”. Tutto ha origine da Dio e dal suo Figlio. Invece l’Iscrizione di Priene dice che l’“arché” del mondo è la nascita di Augusto!

Non si dimentichi che l’Iscrizione di Priene è scritta prima del Vangelo di Giovanni. Augusto voleva che si pensasse che il mondo era nato in riferimento alla sua nascita imperiale.

Il testo prosegue: «Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (arch?n toû bíou kaì tês z?ês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati». È come se l’imperatore volesse dire che solo la sua nascita ha portato gioia ad un mondo triste e senza speranza. Prima della nascita di Augusto tutti erano tristi di essere vivi, tutti tristi di essere nati, ma quando giunse la notizia che egli regnava ecco che il mondo trovò la gioia di vivere. Solo un dittatore può affermare che la sua nascita «segna il limite e il termine del pentimento di essere nati». Di quale visione della vita doveva sentirsi portatore chi faceva scolpire tali affermazioni! Il testo spiega poi in che modo si è deciso di festeggiare ogni anno la nascita dell’imperatore e perché proprio in quel giorno debbano iniziare le pubbliche magistrature che dell’imperatore sono espressione: «Poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis t?n arch?n eisódou),… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» a nome della città] che tutte le comunità (politeí?n) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre».

L’Iscrizione si conclude con un ulteriore passaggio nel quale per ben due volte viene usato il termine “vangelo”, anche se in entrambe le volte al plurale: «Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (s?têra charisamén?) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci/i vangeli di tutti (euangélia pánt?n), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, e il giorno di nascita del dio (h? genéthlios h?méra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci/vangeli a lui collegati (hêrxen dè tô-i kósm?-i tôn di’autòn euaggelí?n)». Ecco che Cesare Augusto è chiamato Salvatore e dalla sua nascita dipendono – a dire dell’Iscrizione – tutti i “buoni annunzi”, tutti i “vangeli”. Insomma la nascita di Augusto è la gioia del mondo, è la vittoria sulla tristezza, è il senso della vita, è il vero annunzio di bene.

Questo testo è veramente incredibile. Certo con Augusto venne nei territori dominati dai romani un lungo periodo di pace e di benessere, le strade erano più sicure, le navi potevano viaggiare senza rischio di essere attaccate dai pirati, ma è questo l’annunzio di vita che da senso all’esistenza? Proprio questo pretendeva l’imperatore: di essere il senso della vita del mondo intero. Il mondo esisteva per collaborare al suo progetto politico, tutti i popoli trovavano il senso alla loro vita uniti a Roma ed al suo capo.

Ben più famose sono le parole di Virgilio, nella IV Ecloga, che vanno nella stessa direzione. In maniera meno esplicita, anche qui l’avvento al potere di Augusto viene visto come un fatto divino. L’immagine è quella dell’età dell’oro che appare sulla terra:

«Giunge ormai l’ultima età dell’oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto).
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orbem).
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità.
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo
. Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese»
.

Qui è la Sibilla Cumana a parlare per bocca di Virgilio per annunziare che il cielo, con tutti i suoi pianeti, ha ormai segnato il giorno nel quale “resteranno poche vestigia dell’umana malvagità” e “inizierà questa splendida età”, poiché “egli – non si dice il nome, ma è chiaramente Augusto - riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato”. Qui Augusto è presentato come colui che unisce finalmente uomini, divinità ed eroi e lui stesso apparterrà alla schiera divina: per Virgilio tutto è nuovo con l’imperatore. I contemporanei chiameranno il lungo periodo che vide Augusto governare, dal 30 a.C. al 14 d.C., il saeculum augustum.

Quando allora Luca ci ricorda che la nascita di Gesù avvenne nel contesto di un censimento decretato da Augusto, possiamo immaginare i sentimenti dell’imperatore nell’indirlo. Luca dice precisamente: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta» (Lc 2,1-5). Gli studiosi discutono sull’esatta data del censimento e se non ci sia un errore dato che i due mandati di Quirinio di cui si ha notizia sembrerebbero non corrispondere esattamente alla data ipotizzata per la nascita di Cristo. Ma quello che Luca vuole mostrare è, invece, l’azione “totalizzante” e “totalitaria” di Augusto – il “censimento di tutta la terra” -, che però si lascia sfuggire l’avvento del vero vangelo, la nascita di Gesù. Il documento delle Res gestae di Augusto, un altro testo propagandistico che racconta tutta la vita dell’imperatore ed il suo successo politico, ricorda con orgoglio che egli fece ben tre censimenti di tutto l’impero. I censimenti avevano ovviamente l’intento di controllare la popolazione e di stabilire una tassazione adeguata e funzionale, ampliando la capacità organizzativa dell’impero. Ebbene, anche se il censimento contemporaneo alla nascita di Gesù fosse avvenuto sotto un diverso governatore e anche se Luca avesse commesso un errore sul nome del magistrato che lo portò a compimento in Giudea, ciò che l’evangelista vuole mostrare è l’onnipresenza del potere imperiale dinanzi alla quale risalta ancor più la sorprendente libertà di Dio che fa entrare suo Figlio nel modo in modo che Augusto neanche se ne accorga. Ecco cosa ci permette di immaginare innanzitutto questo splendido cortile: un imperatore che si illude di governare il mondo, tenendolo sotto controllo, ed un Bambino che nasce e rinnova il mondo senza che colui che presiede all’impero ne prenda minimamente coscienza. Chissà cosa stava facendo Augusto il giorno in cui nacque Gesù, perché l’Incarnazione avvenne proprio durante il suo regno. Eppure non ne ebbe conoscenza alcuna.

Ma c’è una considerazione ancora più importante da fare. L’Iscrizione di Priene dichiara che tutto è cambiato con Augusto, ma poi parla di tanti “vangeli”, di tante “buone notizie” che la sua nascita consegnò alla storia. L’utilizzo del termine “vangelo” nel cristianesimo è nella stessa direzione, ma in una maniera ancora più personale, perché c’è “un solo” vangelo, Gesù Cristo.

Importantissimo è qui soffermarsi sul primo versetto del Vangelo di Marco. Ai tempi in cui i Vangeli furono scritti il termine “vangelo” non indicava ancora un testo scritto – tale uso è successivo e solo dopo un certo tempo si iniziò a dire che i vangeli erano quattro.

Marco si apre con le parole: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio». Questo versetto non vuol dire assolutamente: “Questo è l’inizio del mio scritto”, il vangelo secondo Marco, altrimenti troveremmo scritto “Inizio del vangelo di Marco” o “Inizio del mio vangelo”. Cosa vuol dire esattamente quell’espressione “Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”?

Il nome di Gesù è al genitivo: “di Gesù Cristo”. Gli esegeti spiegano che, in un’espressione come questa, il genitivo può avere tre valori. Può essere un genitivo soggettivo, oggettivo o epesegetico.

Se fosse un “genitivo soggettivo” vorrebbe dire che Gesù è il soggetto e che il vangelo è composto dall’annunzio buono che egli farà nel prosieguo del testo.

Se fosse un “genitivo oggettivo” vorrebbe dire che il vangelo è un annunzio che ha come oggetto Gesù. Il buon annunzio parlerà di lui - non lui parlerà del buon annunzio, come nel caso del genitivo soggettivo.

Se pensiamo, ad esempio, all’espressione “l’amore di Dio”, noi possiamo intendere sia l’amore che Dio ha per noi (genitivo soggettivo), sia l’amore che noi abbiamo per Dio (genitivo oggettivo).

Ma c’è un terzo valore del genitivo, quello appunto epesegetico. Se io so che un’amica sta per avere un bambino e so insieme a tutti gli amici che quel bambino si chiamerà Andrea – e tutta la famiglia lo aspetta, sta preparano i vestitini, i pannolini, ha pronta la macchina fotografica, l’auto è sempre vicina per correre in ospedale per il parto – non appena arriva la telefonata e qualcuno dice: “È arrivata la lieta notizia di Andrea”, che cosa vuol dire? Non che Andrea ha parlato dicendoci una notizia e nemmeno che la notizia riguarda semplicemente Andrea, ma che la lieta notizia è Andrea stesso, è la sua nascita, è le sua vita.

Il senso del genitivo epesegetico è l’identificazione dei due termini: “la lieta notizia è Andrea”. Ecco il senso del primo versetto di Marco. La lieta notizia? Il Vangelo? Il Vangelo è Gesù stesso, la lieta notizia è la persona di Gesù. Si vede qui subito come il pretendere di essere la buona notizia da parte dell’imperatore è la cosa più ridicola che possa esistere al mondo. Nessun uomo può pretendere di essere “la buona notizia” del mondo, “la fine al pentimento di essere nati”. Con Cristo tutto è diverso. Noi certo sentiamo la forza di queste parole, ne siamo stupefatti da un lato, ma dall’altro diveniamo credenti proprio perché comprendiamo che solo la sua nascita conferisce pienamente senso ad ogni gioia e ad ogni dolore che è nel mondo. Per la prima volta nella storia l’uomo si trova dinanzi al fatto che Dio non gli rivolge una qualche parola, ma gli dona la sua Parola intera, completa, totale. Perché in Cristo la parola non viene a noi come quando una divinità ci offre un libro da leggere. In Cristo Dio stesso viene ad abitare in mezzo a noi. La grande novità proposta dal Concilio Vaticano II, nella Dei Verbum, è stata proprio quella di presentare all’uomo contemporaneo la rivelazione di Dio non come una serie di parole o di scritti, bensì come il suo rivelarci se stesso: «Piacque a Dio rivelare se stesso» (DV 2). Ecco cosa significa che Gesù è il Vangelo, che lo è personalmente. Per questo, poi, nasce anche il genere letterario “vangelo”, cioè la necessità di raccontare tutto di Gesù, non solo le sue parole, ma anche i suoi silenzi, le sue lacrime, le sue gocce di sangue sulla croce, perché ogni suo gesto è Parola di Do, perché Lui è la Parola di Dio. Non una parola di carta, ma una parola di carne.

Ma è Gesù ad essere il buon annunzio. Potremmo tradurre correttamente Mc 1,1 così, allora: «Inizio del vangelo che è Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il grande teologo francese de Lubac, che tanta parte ebbe nell’elaborazione della Dei Verbum, ebbe il coraggio di scrivere, prima della II guerra mondiale: «È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano». Non basta parlarne al plurale, come se esistessero tanti singoli annunzi di bene in lui, tante parole di libertà e di carità da lui pronunciate, tanti insegnamenti di sapienza che da lui provengono, tanti miracoli e gesti di carità da lui compiuti: no, bisogna parlarne al singolare. Gesù è lui in persona il lieto annunzio, il vangelo. Se il Signore è vero, allora tutto nella vita ha un significato.

Antologia per la riflessione personale

da Virgilio, IV Egloga
Giunge ormai l’ultima età dell’oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto)
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orbem).
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità.
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese.

dall’Iscrizione di Priene; OGIS 458
…[Inizio mutilo] se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû theiotàtou Kaìsaros) [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio (5) noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pánt?n arch?)… (10) Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (arch?n toû bíou kaì tês z?ês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati. E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis t?n arch?n eisódou), (15)… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, (20) mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» (riga 44) a nome della città] che tutte le comunità (politeí?n) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre… (32) Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… (35) a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (s?têra charisamén?) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (euangélia pánt?n), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, (40) e il giorno genetliaco del dio (h? genéthlios h?méra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (hêrxen dè tô-i kósm?-i tôn di’autòn euaggelí?n)…

Lc 2, 1-7
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio..

Mc 1,1
Inizio del Vangelo che è Gesù Cristo Figlio di Dio

Dei Verbum 2
Piacque a Dio rivelare se stesso… Cristo è il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione.

da H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, Cerf, Paris, 2010, p. 265
È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano.

 

4/ L’altare al dio ignoto, la consapevolezza dell’uomo di non poter conoscere Dio con le proprie forze (nell’Antiquarium dinanzi all’ara al dio ignoto)

Ambientazione

Al piano inferiore del Museo Palatino si trova questo straordinario altare pagano che ci aiuta a capire cosa sia un altare al Dio ignoto simile a quello dal quale san Paolo prese spunto per annunciare a rivelazione di Dio ad Atene, come raccontano gli Atti degli apostoli. Quello del Palatino venne ritrovato nel 1829 nell'area sud-ovest del Palatino, ancora al suo posto originario.

Il personaggio dell'iscrizione che lo dedicò, Sextius Calvinus, è stato ritenuto il figlio dell'omonimo console il cui consolato è datata all’anno 124 a.C.; l'altare sarebbe stato dedicato quindi alcuni anni dopo, nell'età di Silla (i caratteri confermano tale datazione) a cavallo fra II e I secolo a.C. L’iscrizione dice: "Sei deo sei deivae / sac(rum) C. Sextius / C. f. Calvinus pr(aetor) / de senati sententia / restituit", cioè Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio Calvino, pretore, per decreto del Senato rifece”.

L’uomo che lo consacrò non poteva dire nemmeno se la divinità protettrice cui offriva sacrifici animali su quell’altare fosse maschio o femmina, fosse un dio o una dea. Le regole rituali richiedevano che si conoscesse esattamente il nome della divinità cui ci si rivolgeva perché il sacrificio avesse effetto, ma si aveva anche paura che eventuali avversari conoscessero quel nome e lo si occultava perché non potessero pronunciarlo. Di fatto l’iscrizione denuncia l’incapacità umana di sapere quale sia il vero volto di Dio, quale sia il suo nome: per evitare di non essere ascoltati, si preferisce una formula generica in modo che – si spera – gli dei ascoltino comunque. “Ascoltami, sia che tu sia un dio sia che tu sia una dea, dato che sei sostanzialmente ignoto”.

Il verbo restituit fa supporre che l'altare fosse dedicato da tempi più antichi ad una divinità ignota e che venisse periodicamente rinnovato nella sua forma arcaica, per mantenere vivo il ricordo delle origini.

Catechesi

Questo altare ci ricorda che la tarda classicità non era più sicura dei suoi dei, che l’ellenismo non credeva più nei suoi dei. Perché non è stato solo il cristianesimo a liberare l’uomo dal paganesimo, ma era il paganesimo ad essere già moribondo. Nel periodo ellenistico il politeismo era entrato in crisi. Gli uomini erano ormai pienamente consapevoli che le divinità non potevano essere come la mitologia le rappresentava. Questo altare ci riporta alla condizione di uomini che continuavano a rivolgersi alla divinità, coscienti però di non sapere nulla della divinità: è commovente tutto questo e vale la pena cercare di metterci nei loro panni. Gli uomini dell’età ellenistica sentivano di non poter vivere senza Dio, ma allo stesso tempo erano molto scettici sulla possibilità di conoscere il suo vero volto. Potevano gli dei avere veramente i volti di Giove, di Giunone o di Minerva? Nessuno credeva più a questa ipotesi. Eppure la gente continuava a pregare, a invocare la grazia, a chiedere il perdono, a credere nella vita eterna. Non riuscivano ad essere atei, perché il desiderio di Dio era nel loro cuore.

Da questo punto di vista l’ellenismo è un punto alto e non basso nella storia del pensiero e della religiosità dell’uomo. In quel tempo l’uomo prese coscienza di non poter conoscere Dio con le sole proprie forze. È allora che l’uomo imparò a comprendere meglio la condizione in cui si trovava. Da un lato, infatti, nessun uomo può fare a meno di Dio: senza Dio tutto è perduto ed ogni vera speranza è morta. Ma d’altro canto Dio lo si può solo invocare, si può solo chiedere che Egli venga, perché noi non siamo in grado di trovarlo. Gli uomini che hanno offerto sacrifici su questo altare avevano il senso di Dio, avevano un senso religioso, ma lo stesso non sapevano bene in cosa credere.

Cosa fece san Paolo dinanzi ad un altare simile a questo, per aiutare gli uomini del suo tempo? Disse: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”. Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» (At 17,22-31).

Ogni seria riflessione teologica non può che partire dall’impossibilità da parte dell’uomo di conoscere Dio. Dio è talmente più grande dell’uomo da non poter essere da lui conosciuto. C’è solo una possibilità: che Dio si riveli. Che Dio colmi quell’abisso che lo divide dall’uomo, “aprendo i cieli”. Il grande contributo della Dei Verbum, che era chiamata a chiarire quale rapporto esista fra la Scrittura e la Tradizione, è stato innanzitutto quello di mostrare che non si può rispondere a tale questione se prima non si parla della rivelazione. Dio ha voluto rivelarsi. E lo ha fatto facendosi carne, mandando il suo Figlio. Se Egli non si fosse rivelato, noi saremmo ancora nella condizione dell’uomo che eresse questo altare. Saremmo con un cuore fatto per Dio, ma, insieme, nell’impossibilità di vedere il suo volto.

L’impossibilità di conoscere Dio con le nostre forze e la meraviglia della sua rivelazione sono due affermazioni corrispettive, sono sorelle.

Ne consegue qualcosa che è molto significativo: la rivelazione non distrugge l’uomo, ma anzi lo completa. L’uomo è fatto per la rivelazione, è aperto ad essa, avverte - come ai tempi in cui venne eretto questo altare - che desidera sapere chi è veramente Dio, ha un cuore fatto per la conoscenza di Dio ed ha, in fondo, coscienza che tutto ciò che di Dio ha pensato prima della rivelazione personale di Dio non corrisponde alla verità.

In una importante riflessione l’allora cardinal Ratzinger volle sottolineare che proprio per questo la fede cristiana non violenta mai le culture precedenti. La fede sa riconoscere il bene che c’è in ogni cultura, così come noi riconosciamo il desiderio bello degli uomini che costruirono quest’ara di cercare Dio. In ogni uomo ed in ogni cultura c’è sempre il bene presente, c’è sempre almeno un po’ d’amore, c’è sempre il senso del sacrificio, c’è sempre il valore della vita e della famiglia, c’è sempre la ricerca del bello, dell’eterno, la ricerca di Dio.

Ma, contemporaneamente, in ogni cultura, ci sono errori e peccati. Ad esempio il Dio vero non può essere onorato con sacrifici animali come avveniva su quest’ara, anzi non può che rifiutarli – e difatti Gesù, una volta venuto, cacciò tutti coloro che vendevano e compravano animali per il sacrificio al tempio di Gerusalemme. Similmente la cultura romana organizzava giochi gladiatori, dedicandoli agli dei, e questi giochi sono stati una delle vergogne più grandi della storia dell’umanità: gente che si radunava per divertirsi e commuoversi vedendo uomini uccidersi fra di loro o nella lotta con animali – lo si vedrà meglio più avanti.

Nella cultura romana c’erano lati luminosi e lati oscuri e la fede cristiana seppe apprezzare i lati luminosi e combattere i lati oscuri. E così sempre farà la fede dinanzi a qualsiasi cultura, dinanzi alla grecità, dinanzi alla cultura latina classica, dinanzi alla cultura Incas, dinanzi alle culture delle popolazioni barbariche, dinanzi alla cultura di una tribù africana. Opererà un discernimento per lodare il bene e denunciare il male.

Ma, soprattutto, sempre la fede cristiana - la fede nella rivelazione di Dio avvenuta in Cristo -, cercherà di scorgere nelle culture che incontra l’incompiutezza, l’anelito, la mancanza, il desiderio di verità non soddisfatto per scoprire che anche quella cultura è viva, perché è in cammino, perché misteriosamente anela al Dio vivo e vero come al suo compimento, conscia di essere incompleta. Saprà cogliere quell’apertura che è tipica di una cultura in cammino, di una cultura che non ha ancora incontrato il vero volto di Dio. I romani che si convertirono al cristianesimo erano romani che amavano la cultura romana, erano romani che criticavano aspetti deteriori della cultura romana, ma erano soprattutto romani che sentivano che tutto il bene della loro cultura romana era insufficiente perché tutta la loro sapienza non li aveva ancora condotti a vedere il volto di Dio. Erano come davanti ad un Dio ignoto. Solo quando incontrarono il Cristo capirono che Dio si era finalmente rivelato loro.

Così disse l’allora cardinal Ratzinger in merito: «Possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse. Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione. [...] La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro. [...] Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo».

Rivolgersi ad un Dio ignoto era una finestra, un’apertura, un’attesa, che permise alla fede cristiana di non annientare la cultura latina e greca, bensì di compierla.

Antologia per la riflessione personale

da J. Ratzinger, Cristo, la fede e la sfida delle culture, relazione all’incontro dei vescovi della FABC (2-6 marzo 1993 a Hong Kong), pubblicato da Asia News, n. 141, 1-15 gennaio 1994 e disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger200609.htm .
Possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta.
Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.
Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione. [...]
La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro. [...]
Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo.

da G.K. Chesterton, The Catholic Church and Conversion, in Perché sono cattolico, Gribaudi, 1994, p.135
La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo.

5/ Lo scandalo della croce e la scoperta che Dio è amore (nell’Antiquarium dinanzi al graffito con crocifisso blasfemo)

Ambientazione

Al piano superiore del Museo Palatino è conservato un reperto importantissimo, forse la più antica rappresentazione del crocifisso. Ma non è rappresentato da qualcuno che era cristiano, bensì da un uomo che voleva irridere ai cristiani: è, infatti, un crocifisso blasfemo che permette di capire quali critiche ricevessero allora – e sempre – i cristiani. Proviene dal cosiddetto Pedagogio (dove fu ritrovato negli scavi del 1856), cioè dall’edifico nel quale si formavano i paggi imperiali.

Il graffito di fattura molto elementare viene datato alla I metà del III secolo (fra il 200 ed il 250 d.C.) e rappresenta un crocifisso con testa di asino che ha al fianco un uomo con braccio alzato. A fianco l’iscrizione graffita recita in greco: "Alexamenos sebete theon", cioè Alexamenos adora il suo dio”. La maggior parte degli archeologi concorda nel ritenere che sia stato graffito da qualche paggio che si prendeva gioco di un paggio cristiano di nome Alexamenos. La critica è evidente: chi adora un Dio crocifisso adora un asino, adora un Dio incapace.

Catechesi

Questo crocifisso è chiaramente blasfemo, è chiaramente una presa in giro del cristianesimo. Un Dio che muore in croce non può essere – per l’autore del graffito – un Dio vero, ma solo un asino. Eppure proprio un’opera così irrisoria permette di capire ancora meglio la novità e la verità del cristianesimo. Il cristianesimo dava – e sempre darà – scandalo, perché la ragione umana non può ipotizzare da sé la croce. Essa appartiene alla rivelazione. È un fatto che si impone all’uomo nella sua grandezza e bellezza: un Dio che prende su di sé i peccati del mondo e ne muore (se ne parlerà più avanti, quando giungeremo ai luoghi di Tiberio imperatore). La croce non era prevista nel modo umano di concepire Dio. Qui si vede che l’impossibilità per l’uomo di giungere a contemplare il vero volto di Dio senza la rivelazione, l’impossibilità per l’uomo di comprendere l’amore di Dio senza la rivelazione, non è una questione oziosa per filosofi e teologi: è invece la verità. L’uomo poté dire: “Dio è amore”, solo dopo aver incontrato il fatto dell’amore di Cristo sulla croce. Questo graffito mostra da solo che senza l’accoglienza della rivelazione di Dio, la croce resta una cosa folle e sciocca e l’uomo non riesce a comprendere che Dio è amore.

Dinanzi a questo graffito divengono ancora più chiare le parole di san Paolo ai Corinti: «Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,20-25).

Paolo qui presenta gli uomini del suo tempo tutti tesi a giungere alla sapienza e a ricevere grazie e miracoli. Ebbene la sapienza della croce e la forza guaritrice della croce è inimmaginabile prima che Cristo venga. Non è come una filosofia od una conoscenza di una legge scientifica che qualcuno potrebbe elaborare per proprio conto come qualcosa di universale. È invece qualcosa di storico, di singolare, che avviene quando Dio stabilisce di mandare il suo Figlio. Non basta che l’uomo abbia le giuste domande, perché egli trovi Dio. Questo è un assurdo presupposto portato avanti da autori che propongono metodi pedagogici assolutamente falsi e disorientanti. L’uomo non trova Dio solo perché lo cerca. Anzi, l’uomo si mette in cerca di Dio perché Egli si rivela e viene a noi. La ricerca di Dio non nasce solo dalle nostre domande – per quanto esse siano importanti, vedi appunto l’altare al dio ignoto – ma la nostra ricerca può raggiungere la sua meta solo se Dio si rivela. E questo è ciò che è avvenuto in Cristo. Altrimenti nessun sottile indagatore di domande ed interrogativi esistenziali sarebbe mai stato in grado di trovarsi dinanzi al meraviglioso scandalo della croce.

Vero è piuttosto che solo quando l’uomo trova il Cristo ed il suo amore capisce se stesso e porta fino in fondo le proprie domande – per cui le domande sono decisive per trovare la fede, ma decisive almeno tanto quanto lo è la rivelazione. Non mi viene in mente descrizione migliore di questo straordinario passaggio di don Luigi Giussani, un prete milanese che fondò Comunione e Liberazione: «Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove». Nessuno ha mai immaginato il crocifisso, eppure quando lo incontriamo, se non lo rifiutiamo, scopriamo che corrisponde perfettamente al nostro cuore, al nostro desiderio.

Antologia per la riflessione personale

1 Cor 1,20-25
Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini

don Luigi Giussani
Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove.

6/ Erode Antipa fatto re della Galilea dinanzi ai resti del Tempio di Apollo

Ambientazione

Ci fermiamo qui, davanti alle rovine del Tempio di Apollo. Il tempio, che aveva anche due biblioteche, era stato fatto erigere da Augusto stesso. Vi si riuniva spesso il Senato in età imperiale, segno della sottomissione dei senatori al potere imperiale, ormai quasi assoluto.

Questo uso politico è confermato anche da un evento che fu decisivo per la storia neotestamentaria anche se è ignorato dalla maggioranza dei romani: proprio qui venne fatto re Erode Antipa, colui che fece uccidere Giovanni Battista, ordinandone la decapitazione, e colui che si trovò poi a giudicare Gesù, quando Pilato glielo inviò prigioniero per essere consigliato sul da farsi.

Proprio qui gli fu dato il titolo di tetrarca, re di una quarta parte, proprio perché Augusto divise il regno di Erode il grande in quattro parti.

Allo stesso modo pochi sanno che proprio qui venne assegnato ad Erode Filippo il nord della Galilea, e precisamente il regno che comprendeva la regione della Traconitide proprio dove Filippo costruì Cesarea di Filippo per ringraziare Cesare Augusto per il regno che gli aveva concesso e dove Gesù si recò per chiedere ai suoi chi credevano che egli fosse.

A raccontarci di questi fatti è Giuseppe Flavio, lo storico ebreo che volle unire al suo nome ebraico Giuseppe il nome della famiglia dei Flavi, quando abbandonò la lotta contro i romani e passò dalla parte dei vincitori, accettando poi di trasferirsi a Roma dove compose le sue famose opere che tante informazioni ci restituiscono sul popolo ebraico e sulla vita ebraica al tempo di Gesù.

Flavio Giuseppe racconta che alla morte di Erode il Grande – si vedrà più tardi che anche lui venne fatto re proprio qui nei Fori - scoppiò una disputa sulla sua successione. Nell’ultimo suo testamento egli aveva designato re il figlio Archelao. Erode Antipa – conosciuto anche come Antipatro – facendosi forza su di un precedente testamento aspirava anch’egli al trono. Si presentarono così entrambi a Roma, al cospetto di Ottaviano Augusto, che infine decise per la divisione del regno in tre parti, pronunciando sul Palatino il suo giudizio. Nel frattempo era giunto anche Erode Filippo per rivendicare anche lui una parte del regno del padre.

Ad Archelao toccò la Giudea con Gerusalemme. Fu, però, deposto nel 6 d.C. poiché si era reso impopolare. Augusto decise allora di nominare al suo posto un prefetto direttamente dipendente da Roma. Ad Erode Antipa, toccò la Galilea e la Perea (così si chiamava allora la regione al di là del Giordano). Per questo motivo il tetrarca sarà poi coinvolto nel processo di Gesù, perché il Cristo era un cittadino di quel regno e la sua attività pubblica, prima della sua ascesa a Gerusalemme, si svolse nei territori assoggettati a Erode Antipa.

A Filippo (che era fratellastro di entrambi, di Erode Antipa e di Archelao) fu assegnata la regione settentrionale della Galilea nella quale egli fondò la città di Cesarea di Filippo. Il luogo è noto nei vangeli, perché nei suoi pressi Gesù condusse i dodici per porre loro la domanda sulla sua identità: «Voi, chi dite che io sia?».

In occasione di un ulteriore viaggio a Roma avvenuto sotto Tiberio (descritto in Antichità giudaiche 18,109 ss) Erode Antipa si fermò ad alloggiare presso Erode Filippo e si innamorò della di lui moglie Erodiade, figlia del re nabateo Areta IV. Da questo fatto nacquero le vicende che portarono alla morte di Giovanni il Battista ed alla guerra fra Erode Antipa ed Areta. Erode Antipa, spinto dalla moglie Erodiade, venne ancora in Italia, questa volta a Baia, da Caligola, per chiedere la benevolenza dell’imperatore contro il re Agrippa. Avvisato da quest’ultimo Caligola fece, invece, esiliare la coppia a Lione, in Gallia (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18, 240-255).

Queste le parole testuali di Giuseppe Flavio: «Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare Archelao… Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Fra i presenti era anche Filippo, il fratello di Archelao, inviato amichevolmente da Varo col seguito di una scorta per due motivi: per appoggiare Archelao e per ottenere una parte del patrimonio di Erode nel caso che Cesare l’avesse ripartito fra tutti i suoi discendenti… Sentite le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad Archelao col titolo di “etnarca”, promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la Samaria».

I luoghi del Palatino ci mostrano così quanto fosse dipendente ormai la vita della Giudea e dell’intera Siria-Palestina dalle decisioni di Roma. Le principali decisioni politiche che riguardavano quei luoghi erano ormai prese tutte a Roma.

Catechesi

Il Tempio di Apollo apparteneva al Palazzo imperiale, ma era al contempo un luogo – si potrebbe dire – pubblico. Come abbiamo appena visto l’imperatore lo utilizzava non solo per sé e per i suoi sacrifici privati al dio, ma anche per l’accoglienza di personalità che, probabilmente, voleva in qualche modo porre sotto la protezione divina o, comunque, dinanzi ai quali voleva mostrare che ciò che egli faceva lo faceva con atteggiamento religioso. Immaginiamo allora il giorno in cui qui venne fatto re della Galilea, da Augusto, Erode Antipa, colui che poi fece decapitare Giovanni Battista e colui che per qualche momento ebbe dinanzi a sé Gesù nel giorno della sua crocifissione.

Erode Antipa mai avrebbe immaginato di passare alla storia per due gesti così poco regali come quelli che portarono alla morte del Battista e all’abbandono di Gesù stesso alla sua sorte. Immaginatelo qui il giorno della sua designazione a re ed immaginate che siamo in un luogo dove è venuto uno che ha veramente incontrato il Signore ed il suo precursore.

Dinanzi al Battista Erode Antipa non ebbe il coraggio di opporsi ad una donna, a sua moglie. Raccontano i Vangeli che il Battista, nella sua predicazione, non solo denunciava in generale i peccati, ma si scagliava pure contro precisi peccati pubblici commessi dalle autorità ed, in particolare, ci informano che era stato molto critico riguardo alle seconde nozze di Erode Antipa che aveva ripudiato, come si è detto, la prima moglie, la figlia del re Areta di Petra, probabilmente colui che costruì il grande tempio della Khazneh, e aveva sposato Erodiade, nonostante essa fosse già stata sposa del fratello Erode Filippo – non è del tutto chiaro se sia Erode Filippo, il tetrarca della Traconitide, oppure un ulteriore figlio di Erode il Grande che ebbe un ulteriore Erode Fiippo che non salì mai al regno. Fu proprio Erodiade a non tollerare le critiche del Battista e a decretarne la morte, quando sua figlia – è ancora una volta Flavio Giuseppe che ci ricorda un particolare: si chiamava Salome - ballò così bene che il re le promise qualsiasi cosa gli avesse chiesto.

L’episodio ricorda quanto ancor più grave del peccato di incesto – l’aver preso la moglie di suo fratello – sia il pretendere di non essere criticati per il peccato. Il peccatore che riconosce il suo peccato è ancora in qualche modo ancorato alla realtà: Erodiade, invece, non solo aveva peccato, come suo marito, ma soprattutto non tollerava di essere criticata. Questa è la cosa più grave: non accettare critiche e pretendere che tutti plaudano alla tua scelta anche se essa è ingiusta. Quante persone vogliono l’allontanamento di chiunque parli male di loro, quante persone non accettano la vicinanza di chi le ha criticate. L’incapacità di una donna di accettare la giusta critica per il peccato proprio e del marito fu la causa della morte del Battista. Giovanni non taceva, infatti, e continuava a criticare quel matrimonio come contrario alla volontà di Dio. Erode Antipa decise la decapitazione del Battista perché non ebbe il coraggio di opporsi all’astio della moglie contro il profeta. I Vangeli ci ricordano anche che Erode ebbe vergogna di smentire la promessa che aveva fatto pubblicamente a Salome. Anche da questo punto di vista la sua buona reputazione veniva per lui prima della giustizia e della verità. Sia lui che Erodiade preferirono uccidere un uomo piuttosto che vedere incrinata la loro reputazione. Ecco la prima triste vicenda che coinvolse Erode Antipa, nominato re da Augusto proprio qui al Palatino.

Un punto da sottolineare è che la vicenda neotestamentaria del Battista ci ricorda come la sua profezia non riguardi solo questioni puramente teologiche, ma anche la vita e le scelte morali, così come avveniva per i profeti veterotestamentari. Giovanni era profeta anche perché riteneva di dover insegnare la volontà di Dio sul matrimonio. Papa Giovanni Paolo II e papa Francesco hanno utilizzato più volte l’espressione “vangelo del matrimonio” per indicare che il matrimonio stesso è vangelo, è annunzio di gioia e che il vangelo di Gesù non è mai totalmente annunziato se se ne tacciono le conseguenze morali ed anche quelle riguardanti i rapporti affettivi. La storia ci ha insegnato quanto siano decisive nella vita le questioni affettive, al punto che possono decidere addirittura della sorte di popoli interi. Basti pensare al caso di Enrico VIII che generò la separazione della Chiesa di Inghilterra da Roma a motivo di un matrimonio, poiché egli pretendeva, contro la verità, che fosse sciolto il suo matrimonio e gli fosse concesso di sposare in Chiesa una nuova regina. Addirittura pretese la decapitazione del suo gran cancelliere fidatissimo, Tommaso Moro, che nemmeno criticava il fatto, essendo un funzionario del regno, ma non riteneva, per motivi di coscienza, di approvare in pubblico un comportamento affettivo ingiusto per la sua coscienza. Anche il re Enrico VIII, come già Erodiade, pretese l’assenso, non accettò che ci fosse chi, pur non criticandolo apertamente, non lo approvava. E fece uccidere Tommaso Moro ed altri con lui. Tommaso Moro fu, in quella triste circostanza, il vero difensore della libertà di coscienza, mentre il re Enrico VIII esercitò tutto il suo violento potere a proprio uso e consumo.

Ma c’è un secondo incontro ancora più importante che vide protagonista Erode Antipa e anche questo non sarebbe mai avvenuto se qui Augusto non gli avesse assegnato il regno. Infatti Erode incontrò infine anche il Signore stesso, quando ormai era imperatore Tiberio e governatore in Giudea Pilato. Pilato, non sapendo bene come comportarsi dinanzi a Gesù, approfittò del fatto che Gesù era galileo e, quindi, suddito di Erode Antipa e del fatto che Erode Antipa si trovava in quei giorni a Gerusalemme.

Il vangelo di Luca ricorda che Erode non volle coinvolgersi nel giudizio: egli non si preoccupò di far niente in difesa di Gesù. Gli interessava solo vedere se era capace di fare dei miracoli. Gesù, invece, non gli rispose nulla e si rifiutò implicitamente di fare segni in sua presenza: ormai il vero segno sarebbe stato solo quello della sua morte e resurrezione. Luca ricorda che Erode, una volta accortosi che Gesù non si prestava alla sua curiosità vuota, «con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro». L’uomo che qui divenne re è così anche lui colpevole di ciò che avvenne a Gesù, così come è colpevole della morte del Battista.

Nel tempio di Apollo venne fatto tetrarca anche Erode Filippo. Giunse in un secondo momento rispetto ad Archelao e ad Erode Antipa, perché, una volta capito che qui si giocavano le sorti dell’eredità del padre, accettò l’invito a presentarsi e fu così presente al momento della divisione del regno. Come già è stato detto, toccò a lui la Traconitide dove, alle sorgenti del Giordano, fece costruire la città che porta il nome suo e quello di Cesare, Cesarea di Filippo – oggi il parco archeologico di Banyas, alle pendici del monte Hermon – per ringraziare Augusto del dono del regno.

Chissà se Erode Filippo seppe mai che Gesù portò i suoi discepoli proprio nel suo territorio, nei pressi di Cesarea di Filippo, per porre loro la grande domanda sulla sua persona. Sono i sinottici a raccontare di questo viaggio in Traconitide: «Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (Mc 8,27-30).

Si vede qui come Gesù per primo fosse interessato a che gli apostoli avessero piena comprensione della sua persona. Chiaramente il motivo non è un qualche problema di egocentrismo. Invece è ancora una volta in questione la rivelazione di Dio. Prima della venuta di Gesù, era quasi normale ritenere che la rivelazione di Dio potesse al massimo consistere in un Libro inviato da Dio all’umanità o in un profeta che parlasse in suo nome.

Dalla risposta dei discepoli al quesito su cosa pensasse la gente di Gesù si vede che la gente intuiva qualcosa della sua grandezza, ma la leggeva sempre a partire dai propri presupposti, dalle proprie pre-comprensioni basate su personaggi già conosciuti: Gesù viene paragonato dalla gente a uno dei profeti, fosse pure il profeta più grande, sia stato esso Elia o Giovanni Battista.

Ma a Gesù non basta essere paragonato ai profeti, a Gesù non basta nemmeno essere considerato il profeta più grande, un profeta più grande dei più grandi profeti, Elia e Giovanni. Se Gesù è solo un profeta, Dio non è venuto ancora in mezzo agli uomini. Quando Gesù mette alle strette i discepoli, mostrando di rifiutare le visioni che la gente aveva su di lui, Pietro per primo ha il coraggio di proclamare che egli è il Cristo, che egli è l’atteso, che egli è colui che porta a compimento tutte le promesse di Dio: in Cristo tutte le promesse di Dio sono compiute. Dio ci parla ormai non più attraverso un libro, non più attraverso degli oracoli o dei comandamenti. Dio ci parla ormai nel suo Figlio venuto in mezzo a noi. Non ci parla più attraverso altri: ormai ci ha mandato il suo Messia, che lo rende presente nel mondo.

Incredibile è pensare di essere dinanzi al luogo dove Erode Filippo ricevette il regno, il luogo nel quale Gesù si recò con i suoi. Erode Filippo fu contemporaneo di Gesù, Gesù venne vicino alla sua città, ma anche egli, come Augusto, non lo incontrò, non lo conobbe, non divenne suo discepolo, non ebbe la grazia che è stata fatta a noi.

Antologia per la riflessione personale

da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98
«Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare Archelao… Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Fra i presenti era anche Filippo, il fratello di Archelao, inviato amichevolmente da Varo col seguito di una scorta per due motivi: per appoggiare Archelao e per ottenere una parte del patrimonio di Erode nel caso che Cesare l’avesse ripartito fra tutti i suoi discendenti… Sentite le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad Archelao col titolo di «etnarca», promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la Samaria» (da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98).

Mc 6,17-29
Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Lc 23,5-12
I capi dei sacerdoti insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.

Giuseppe Flavio, Ant. 18, 109-119
Vennero in conflitto Areta, re di Petra, ed Erode [Antipa]. Il tetrarca Erode aveva sposato la figlia di Areta ed era unito a lei già da molto tempo. In procinto di partire per Roma, egli prese alloggio da Erode [Filippo, nominato in Mc 6,17], suo fratello, essendo di diversa madre; infatti questo Erode era nato dalla figlia del sommo sacerdote Simone. Innamoratosi di Erodiade, sua moglie, che era figlia del loro fratello Aristobulo e sorella di Agrippa il Grande [=Erode Agrippa I, nominato in At 12], cominciò impudentemente a parlarle di matrimonio. Avendo ella accettato, convennero che lei si sarebbe trasferita a casa di lui, appena fosse tornato da Roma. Nei patti c'era che egli doveva ripudiare la figlia del re Areta. Trovatisi d'accordo su queste cose, egli s'imbarcò per Roma. Al ritorno, dopo aver sbrigato le sue faccende a Roma, sua moglie, venuta a conoscenza dei contatti con Erodiade e prima ancora di informarlo che sapeva ogni cosa, chiese di essere inviata a Macheronte, che era ai confini dei domini di Areta e di Erode, senza dare alcuna spiegazione delle sue intenzioni. Ed Erode la lasciò andare, senza sospettare cosa la donna tramasse. Ma questa aveva già mandato dei messaggeri a Macheronte, che allora era soggetto a suo padre, in modo che il governatore (della fortezza) potesse preparare tutto per il viaggio. Appena giunta, ella partì per l'Arabia, pensando i vari governatori al trasporto, finché giunse velocemente dal padre e gli rivelò il progetto di Erode. Quegli (=Areta) fece di ciò un motivo di inimicizia, in aggiunta alla questione dei confini nella regione della Gabalitide. Raccolte truppe da ambedue le parti in vista della guerra, designarono dei comandanti invece di prendere essi stessi il comando. Data battaglia, l'intero esercito di Erode fu distrutto, in seguito al tradimento di alcuni rifugiati, che provenivano dalla tetrarchia di Filippo e si erano uniti alle forze di Erode. Erode scrisse queste cose a Tiberio. Questi, adiratosi perché Areta aveva cominciato le ostilità, scrisse a Vitellio [Legato in Siria negli anni 35-37: cf. Tacito, Ann 6, 32] di dichiarargli guerra e di condurre a lui Areta in catene, se l'avesse catturato vivo, o di mandargli la testa, se fosse stato ucciso. Queste cose Tiberio ordinò al governatore di Siria.
Ma ad alcuni giudei sembrò che l'esercito di Erode fosse stato distrutto da Dio, e del tutto giustamente, per punire il suo trattamento di Giovanni soprannominato “battista”. Erode, infatti, aveva ucciso quest'uomo buono, che esortava i giudei a condurre una vita virtuosa e a praticare la giustizia vicendevole e la pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo. In ciò, infatti, il battesimo doveva risultare secondo lui accetto (a Dio): non come richiesta di perdono per eventuali peccati commessi, ma come consacrazione del corpo, poiché l'anima era già tutta purificata con la pratica della giustizia. Ma quando altri si unirono alla folla, poiché erano cresciuti in grandissimo numero al sentire le sue parole, Erode cominciò a temere che l'effetto di una tale eloquenza sugli uomini portasse a qualche sollevazione, dato che sembrava che essi facessero qualunque cosa per decisione di lui. Ritenne perciò molto meglio prendere l'iniziativa e sbarazzarsene, prima che da parte sue si provocasse qualche subbuglio, piuttosto che, creatasi una sollevazione e trovandosi in un brutto affare, doversene poi pentire. Perciò (Giovanni), per il sospetto di Erode, fu inviato in catene a Macheronte, la fortezza di cui abbiamo già parlato, e là fu ucciso. Ma l'opinione dei giudei fu che la rovina dell'esercito venne da Dio, che volle punire Erode per averlo condannato”

Mc 8,27-30
Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

7/ Perché Gesù venne ucciso sotto Ponzio Pilato, governatore di Tiberio? Chi decise la sua morte? (dalla terrazza sul Campidoglio vicino alla Domus Tiberiana)

Ambientazione

La terrazza del Palatino che permette la meravigliosa vista dei Fori e dell’intera città, è pertinente oggi ai cosiddetti Orti farnesiani, perché nel Cinquecento i Farnese vi sistemarono la loro villa di famiglia con i giardini tuttora visibili. Sotto la Villa si trova la cosiddetta Domus Tiberiana – scavata dagli archeologi solo in alcuni punti - che è l’estensione del palazzo imperiale fatta realizzare dal secondo imperatore, Tiberio, succeduto ad Augusto. Se sotto Augusto nacque Gesù, è sotto Tiberio che avvenne la morte del Battista e la crocifissione del Cristo. L’immaginazione ci permette di tornare ai tempi nei quali Tiberio passeggiava in questa zona del Palazzo. Sicuramente alla Domus Tiberiana dovette salire più volte anche Ponzio Pilato, che era governatore di Tiberio per la Giudea. Dalla terrazza è possibile scorgere un ulteriore luogo nel quale sicuramente Pilato si dovette recare, il Tempio di Marte Ultore.

Augusto ne decise l’edificazione nel 42 a.C., come atto votivo prima della battaglia di Filippi contro gli uccisori di Cesare, perché il dio lo sostenesse in questo atto di vendetta, anche se il tempio fu terminato solo nel 2 a.C.

Il tempio di Marte divenne il luogo nel quale si recavano a sacrificare alla divinità prima della loro missione tutti i condottieri dell’esercito romano, così come i capi dell’amministrazione imperiale delle diverse province. Il motivo di questi riti e di questi sacrifici è facilmente intuibile. Come Marte aveva sostenuto Augusto nella vittoria contro coloro che avevano attentato all’impero – gli uccisori di Cesare – così la stessa divinità avrebbe punito qualsiasi ufficiale dell’impero che non fosse stato fedele ad Augusto e ai suoi successori.

Possiamo immaginare allora Ponzio Pilato che, in partenza per la Giudea, offre sacrifici a Marte ultore, nel Tempio a lui dedicato - Pilato fu prefetto della Giudea dal 26 al 36 d.C. Solo con gli imperatori successivi il titolo di prefetto fu poi mutato in quello di procuratore.

Nato sotto Augusto, Gesù visse quindi la sua vita pubblica e venne poi crocifisso sotto Tiberio, essendo prefetto della Giudea Ponzio Pilato che qui giurò fedeltà a Roma ed al suo imperatore, consapevole che Marte lo avrebbe punito se si fosse ribellato a Cesare. L’imperatore è citato una volta nel Vangelo di Luca che dice: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-2).

Catechesi

Tiberio, dunque, è il secondo imperatore romano. È il successore di Ottaviano Augusto e regnò dal 14 al 37 d.C. Se si torna a Luca 3 - «Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare» - si vede che Tiberio è definito Cesare. Il termine voleva un tempo dire semplicemente “governante”, ma il suo significato era ormai equivalente a quello di “imperatore”, poiché Augusto si era fatto chiamare Cesare e prima di lui tale titolo era stato assunto da Giulio appunto Cesare. Si ritrova nei secoli l’evoluzione di quel titolo in tedesco ed in russo: in tedesco Kaiser ed in russo Zar (da Kzar).

Luca ricorda che a quel tempo «Ponzio Pilato era governatore della Giudea». Non c’era più, quindi, alcun etnarca: si era passati dall’etnarchia di Archelao al governatorato romano e la Giudea era sotto diretto governo romano. Pilato governava la Giudea e Gerusalemme a nome dell’imperatore Tiberio.

Ricorda ancora che «Erode era tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide – quindi, come si è visto, Erodiade passò dal regno dell’uno al regno dell’altro - e Lisània tetrarca dell'Abilène» - dall’altra parte del Giordano c'era l’Abilène, un’ulteriore quarta parte del regno voluta dai romani.

Si era «sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa». In realtà qui Luca probabilmente si sbaglia, poiché vi era un unico sommo sacerdote, ma era ancora vivo il predecessore. Caifa era il sommo sacerdote, succeduto ad Anna, ma poiché Anna era ancora molto importante i due sono associati nei sinottici, mentre Giovanni ricorda con più precisione che Caifa rivestiva quella carica.

Luca prosegue affermando che proprio mentre tutti costoro esercitavano il potere civile e religioso, ognuno nel suo ambito, «la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto». Luca annunzia così che la Parola di Dio è libera, scende dove vuole, scende in una determinata cronologica ed in determinate regioni con i loro governanti, ma scende senza aver bisogno di chiedere alcun permesso a tutti costoro.

Ma la catechesi che vogliamo qui svolgere riguarda l’importantissima questione del motivo della condanna di Gesù. Gesù fu condannato sotto Tiberio imperatore e sotto Ponzio Pilato governatore della Giudea. Ma chi fu il vero responsabile della morte del Cristo e soprattutto perché egli venne condannato?

Il passato recente si è abituato a rispondere a questi due quesiti importantissimi - ed ovviamente legati fra di loro - con affermazioni che poco hanno di storico. La preoccupazione sembra talvolta più quella di essere “politicamente corretti” e di inseguire immagini di Gesù à la page piuttosto che quella di raggiungere la verità storica.

Una certa vulgata ha voluto imporre una visione degli eventi secondo la quale Gesù sarebbe stato condannato a morte perché da lui si temeva un sommovimento popolare e, conseguentemente, il vero responsabile della crocifissione sarebbe stato il potere romano, deputato a mantenere l’ordine e, quindi, chiaramente ostile ad innovatori pericolosi.

Questa interpretazione rimonta a quel filone di pensiero che, prescindendo dalle fonti, vuole vedere in Gesù primariamente un contestatore dello status quo stabilito dai potenti del tempo, un maestro di morale venuto a rivelare la falsità di ogni legge umana e l’arbitrarietà di ogni legge scritta ed, in particolare, a rivelare la falsità della classe dirigente del tempo che di quella legge si serviva per tutelare i propri privilegi. Il sinedrio avrebbe sì contribuito alla morte del Cristo, ma solo perché avrebbe sentito traballare il proprio potere a motivo di quel galileo che era sorto a contestarne la legittimità.

Peccato, però, che nessun dato storico autorizzi questa visione degli eventi. Nell’episodio del pagamento della tassa al Tempio, Gesù invita, pur ritenendosene esente, a versare la tassa stabilita per il culto. Nella risposta a chi lo interroga sulla liceità del tributo a Cesare, Gesù, pur invitando a rendere culto innanzitutto a Dio, afferma che bisogna rendere a Cesare, nel suo caso a Tiberio, ciò che è contrassegnato dalla sua effige. Anche quando il Maestro critica coloro che si sono seduti sulla cattedra di Mosè, cioè gli scribi ed i farisei del suo tempo, egli non invita però a disprezzarli con facili irrisioni del tipo “predicano bene e razzolano male”, bensì afferma: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (Mt 23,3).

Anche l’osservazione del comportamento di Pilato orienta nella stessa direzione. Egli, come suprema autorità politica nella Giudea di allora, non aveva certamente esercitato la sua autorità sempre in maniera esemplare, abusandone talvolta, come insegna Flavio Giuseppe e come attestano gli stessi vangeli (cfr. Lc 13,1 che parla di «quei Galilei il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici»), ma pure, in occasione del processo, mostra in un primo momento di non avere niente da ridire contro quell’uomo. Doveva sapere bene che nessun pericolo sarebbe mai venuto a lui ed al potere romano da quel Gesù e dai suoi discepoli.

Solo contro voglia, arrivò a “lavarsene le mani”, con espressione che da quel giorno diventerà memorabile ad indicare tutti coloro che vengono costretti ad interessarsi di una questione scottante e, pur avendo buone ragioni per prendere una decisione favorevole, preferiscono cedere alle pressioni.

Se è evidente, allora, che nessuno dei potenti del tempo aveva mai dovuto temere una diminuzione del proprio potere da quel “galileo”, perché Gesù fu condannato a morte e da chi?

La risposta è semplice e straordinariamente interessante. Gesù fu condannato per ragioni religiose, perché il suo insegnamento contravveniva alla Legge di Mosè. «Avete udito la bestemmia» (Mt 26,65), ripetono i vangeli. Il sinedrio determina la condanna di Gesù, perché non può accettare che egli si ponga sullo stesso piano di Dio: «Vedrete il Figlio dell’uomo stare alla destra di Dio» (Mt 26,64).

Ciò che è evidente in occasione del processo non è meno evidente nel corso di tutta la vita del Maestro. Continua è l’accusa di sovvertire la Legge di Dio, di farsi più grande di Mosè, di rivendicare cioè il ruolo di vero legislatore divino. Il processo appare, da questo punto di vista, solo come l’apice di una tensione crescente, perfettamente distinguibile e costante nei suoi motivi.

Gesù si attribuiva un ruolo che era spettato fino ad allora a Dio solo. Solo Dio, infatti, può chiedere di essere seguito, senza se e senza ma, ma questo Maestro pretendeva che la sua sequela divenisse il criterio determinante della stessa comunione con Dio.

Proprio la condanna a morte di Gesù da parte del sinedrio mostra come l’establishment religioso del tempo si accorgesse bene che Gesù non si riteneva un rabbino come gli altri, bensì pretendeva un’autorità divina che faceva gridare alla bestemmia. Ci si poteva convertire a lui ed accoglierlo come Figlio di Dio, oppure bisognava che egli fosse soppresso perché la sua vita violava l’unicità di Dio.

Pilato ed il potere romano entrano in gioco solo quando la sua condanna a morte è già decisa. Essendoci un regime di occupazione, il diritto romano vietava ai suoi sudditi di eseguire condanne a morte senza previa autorizzazione. La condanna a morte, che era stata comminata a Gesù a motivo della legislazione religiosa del sinedrio allora vigente, non poteva essere eseguita dalle guardie dei sacerdoti, ma solamente dall’autorità romana.

Pilato accondiscese alla condanna non perché temeva una rivolta da parte dei discepoli di Gesù, ma perché, una volta che il sinedrio ebbe sobillato la popolazione, il governatore dovette rendersi conto che la popolazione si sarebbe rivoltata se egli non lo avesse fatto crocifiggere. Il movente politico entra in seconda battuta ed in una direzione totalmente diversa da quella che abitualmente si ipotizza. Era dagli avversari di Gesù che Pilato doveva guardarsi se voleva mantenere la pace nei territori che doveva amministrare.

Un autore moderno, C.S. Lewis, l’autore delle Cronache di Narnia, ha mostrato in maniera chiarissima quali sono le due uniche possibilità dinanzi a Gesù. Poiché egli mostrava chiaramente un’autocoscienza di qualcuno che si poneva allo stesso livello di Dio non restano che due possibilità: o ritenerlo un pazzo, un megalomane, un egocentrico paranoico, oppure riconoscerlo Dio e farsi suo discepoli. Affermare che egli si ritenesse solo un rabbino, che si considerasse solo un uomo e che solo i discepoli lo abbiano innalzato al rango di Dio contraddice il dato storico: tutti i suoi ascoltatori sentivano che Gesù “bestemmiava”, che si faceva simile a Dio. Così afferma Lewis, in maniera straordinaria:

«Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: “Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio”. Questa è proprio l’unica cosa che non dobbiamo dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e che dicesse le cose che disse Gesù non sarebbe certo un grande maestro di morale, ma un pazzo - allo stesso livello del pazzo che dice di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il Diavolo. Dovete fare la vostra scelta: o quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure era un matto o qualcosa di peggio. Potete rinchiuderlo come un pazzo, potete sputargli addosso e ucciderlo come un demonio, oppure potete cadere ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non tiriamo fuori nessuna condiscendente assurdità come la definizione di grande uomo, grande maestro. Egli ha escluso la possibilità di questa definizione – e lo ha fatto di proposito».

Fu, allora, il Sinedrio a decretare la morte di Gesù e fu Pilato invece l’esecutore, perché non ebbe il coraggio di opporsi al Sinedrio e se ne lavò le mani.

Ma tali responsabilità storiche del sinedrio non debbono far dimenticare il valore teologico di quanto avvenne in quei giorni: Cristo non morì solo per i peccati del sinedrio, ma perché prese su di sé i peccati di noi tutti. Come disse Giovanni Paolo II, nella sua storica visita alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986, «agli ebrei come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le sue opere”, gli ebrei come i cristiani».

Se è utile tornare a parlare di quella responsabilità non è assolutamente per infierire sul colpevole storico di quell’omicidio, bensì per affermare il fatto che Gesù rivendicava una vicinanza unica con il Padre.

Proprio per questo egli prese su di sé i peccati di noi tutti. Egli, coscientemente, dette compimento all’antica parola che Dio aveva pronunciato per mezzo della bocca del profeta Isaia: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5).

Antologia per la riflessione personale

Lc 3 1-4
Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.

da C.S. Lewis, Scusi... Qual è il suo Dio?, GBU, Roma, 1993, pp. 75-76
Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: “Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio”. Questa è proprio l’unica cosa che non dobbiamo dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e che dicesse le cose che disse Gesù non sarebbe certo un grande maestro di morale, ma un pazzo - allo stesso livello del pazzo che dice di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il Diavolo. Dovete fare la vostra scelta: o quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure era un matto o qualcosa di peggio. Potete rinchiuderlo come un pazzo, potete sputargli addosso e ucciderlo come un demonio, oppure potete cadere ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non tiriamo fuori nessuna condiscendente assurdità come la definizione di grande uomo, grande maestro. Egli ha escluso la possibilità di questa definizione – e lo ha fatto di proposito.

8/ La fine dei sacrifici animali ed il nuovo culto nella Lettera agli Ebrei (dinanzi all’Arco di Tito)

Ambientazione

La Via Sacra era la via per la quale passavano tutte le processioni e tutti i trionfi. Quando l’esercito vinceva una guerra, al ritorno dalla campagna vittoriosa, un lunghissimo corteo sfilava per la Via Sacra, passava sotto gli archi di trionfo e arrivava al Campidoglio dove venivano offerti sacrifici agli dèi nel tempio di Giove Capitolino, dove era venerata la Triade Capitolina, per ringraziare della vittoria ottenuta. Il corteo iniziava con i buoi destinati ad essere sacrificati e continuava con i soldati, con gli addetti che trasportavano gli oggetti del bottino di guerra, con i prigionieri di guerra ed i capi nemici catturati, e si concludeva con il vincitore i cui capo veniva cinto da alloro.

I romani presero ad edificare templi alla triade capitolina in ogni luogo delle loro conquiste e proprio il desiderio di Adriano di erigere un tale tempio a Gerusalemme suscitò le ire dei giudei, perché gli abitanti rifiutarono l’idea di un tempio pagano a Gerusalemme; si scatenò così la seconda guerra giudaica e si giunse alla successiva espulsione degli ebrei dalla loro capitale.

L’arco di Tito è uno degli archi eretti sulla Via Sacra: venne costruito al termine della I guerra giudaica. L’arco è detto di Tito, ma fu, in realtà, fatto erigere dal fratello Domiziano in onore del suo predecessore. Entrambi erano figli di Vespasiano. Sotto questo arco Tito non è mai passato, ma è stato costruito alla sua morte per celebrare la sua gloria.

L’iscrizione dedicatoria è ancora leggibile dal lato dal quale il corteo trionfale attraversava l’arco, percorrendo la Via Sacra verso il Campidoglio. L’iscrizione recita: "SENATUS POPULUS QUE ROMANUS DIVO TITO DIVI VESPASIANI F VESPASIANO AUGUSTO" cioè: “Il senato ed il popolo di Roma al divino Tito, figlio del divino Vespasiano, Vespasiano Augusto”. È un modo propagandistico di parlare, perché in realtà non è stato il senato o il popolo a prendere la decisone, ma tutto si deve alla volontà di Domiziano.

I punti scuri che si vedono ancora oggi nelle lettere che compongono l’iscrizione sono i fori nei quali erano fissate le lettere in bronzo, ma, nel tempo, tutti gli oggetti in metallo furono asportati per essere fusi e riutilizzati.

La I guerra giudaica che l’Arco celebra fu iniziata da Vespasiano, che era allora un generale di Nerone - Nerone morì nel 68, mentre la guerra iniziò nel 66 con la rivolta degli zeloti. Mentre Vespasiano combatteva, Nerone morì e Vespasiano fu acclamato imperatore dalle truppe. Dovette, allora, recarsi a Roma, per assumere il potere e lasciò il figlio Tito a continuare la guerra. Tito vinse la guerra, prendendo Gerusalemme ed espugnando, infine, anche Masada. Morto il padre, nel 79 divenne poi imperatore. Alla sua morte, solo due anni dopo, nell’81, divenne imperatore suo fratello Domiziano. Sotto Domiziano, secondo la tradizione, avvenne la persecuzione durante la quale si colloca l’Apocalisse. Con questo arco, appunto, Domiziano volle celebrare il fratello appena morto.

Le raffigurazioni più famose dell’arco sono sotto il fornice. In quella di sinistra, secondo il verso di ingresso per la celebrazione dei Trionfi, si vede raffigurato l’esercito romano che passa sotto l’arco trionfale. Il rilievo è scolpito in maniera prospettica, come se fosse un rotolo che gira, per dare una maggiore impressione di veridicità. L’arco è, quindi, rappresentato leggermente di traverso. I soldati romani portano dei cartelli sui quali erano scritte, come nei fumetti, le didascalie nelle quali si raccontavano gli eventi importanti della guerra vinta o le città conquistate.

Altri soldati inneggiano con le trombe, altri ancora portano in trionfo gli oggetti razziati dal Tempio di Gerusalemme. Fra gli oggetti del bottino di guerra si vede chiaramente la menorah, il candelabro a sette bracci - la menorah non è un oggetto particolare di culto, ma così erano realizzati i candelabri in oro presenti nel Tempio di Gerusalemme.

 

Sotto la menorah si vede un oggetto che viene identificato, ma la cosa è discussa, con la tavola per la presentazione dei pani nel Tempio. Tutto fu portato via dal Tempio, prima di darlo alle fiamme, e da quel momento in poi cessarono i sacrifici nel Tempio ed il giudaismo visse un culto ormai solo sinagogale, senza più la parte sacrificale che avveniva solo nel Tempio.

È ridicolo come ci sia ancora oggi qualche ignorante che si mette alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza; si tratta di sciocchezze, perché già dalla distruzione del cosiddetto “primo Tempio” di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi nel 587/86, fu razziato tutto e non rimase nulla. Già ai tempi della distruzione del “secondo Tempio” nell’anno 70 questi oggetti quindi, qualsiasi cosa si pensi degli eventi dell’Esodo, non esistevano più.

I romani distrussero quello che è noto come il secondo Tempio che fu, appunto, la ricostruzione del primo Tempio scomparso nell’anno 587/86. Dopo la distruzione del primo Tempio i profeti del post-esilio, Esdra, Neemia, ecc. chiesero, a nome di Dio, che il Tempio fosse ricostruito, dopo la distruzione del secondo questo non è avvenuto.

Il cosiddetto “Muro del pianto”, che gli ebrei chiamano in realtà “Muro occidentale” (in ebraico 'Hakotel Hama'aravi) è il muro occidentale di fondazione di questo secondo Tempio, con gli abbellimenti monumentali voluti da Erode il Grande.

Prese il nome tradizionale di “Muro del pianto” perché gli ebrei, dinanzi a queste mura di fondazione, si recavano a piangere il fatto che oramai il Tempio non c’era più e non era più possibile offrire a Dio i sacrifici che la Legge prescriveva. Dio aveva, in qualche modo, cessato di abitare in mezzo al popolo nel suo Tempio.

La lettura cristiana dell’evento vedrà nella distruzione del Tempio non solo un fatto storico dovuto ad una guerra cruenta, ma anche un evento provvidenziale che confermava che il vero sacrificio gradito a Dio era ormai solo la croce di Cristo. Per un cristiano offrire degli animali in sacrificio non avrebbe alcun senso. Alcuni rabbini discutono anche oggi sulla questione della ricostruzione di un III Tempio e sull’ipotesi che Dio potrebbe tornare a chiedere i sacrifici che erano prescritti per gli ebrei prima dell’anno 70.

L’ebraismo si è, comunque, trasformato, proprio a motivo degli eventi della I guerra giudaica, in una religione sinagogale che ha cessato i sacrifici ed ha incentrato il suo culto nella lettura della Torah, della Sacra Scrittura. Le sinagoghe esistevano anche prima del 70, ma solo da quell’anno quello sinagogale divenne il culto ufficiale.

Nel pannello sul lato destro, si vede il trionfo dell’imperatore. L’imperatore è sulla quadriga e segue il corteo con i prigionieri e le armi. Il corteo che abbiamo visto sull’altro pannello precedeva l’imperatore. Il trionfo era un momento di festa nell’urbe, perché Roma aveva sconfitto un altro nemico; durava giorni interi. I prigionieri più importanti arrivavano al carcere Mamertino e venivano o imprigionati o uccisi.

Alle spalle dell’imperatore si vede la Vittoria alata che lo incorona con l’alloro. In origine la parola imperator voleva dire semplicemente “colui che porta l’alloro”, cioè “colui che ha vinto”. Spesso tutti i soldati, qui lo vedete raffigurato, avevano l’alloro in testa: era il segno della vittoria.
Si vedono anche due figure che sono chiaramente simboliche, una nuda che rappresenta il popolo tutto, l’intera urbs di Roma che ha vinto, l’altra, vestita, che rappresenta il Senato
 (le due figure esprimono simbolicamente l’espressione proverbiale Senatus populusque romanus, il Senato e il popolo romano, abbreviata in SPQR).

Se guardate nella volta dell’arco, si vede l’imperatore Tito che viene portato in cielo da un’aquila. È un’immagine dell’apoteosi, della divinizzazione; la religione pagana promossa dagli imperatori voleva che alcuni uomini ed, in particolare, gli imperatori, potessero ascendere al cielo e diventare dèi.

 

La fede cristiana, al contrario, è discendente: è il Figlio di Dio che si incarna. Noi crediamo non nella divinizzazione di alcuni uomini, ma nell’umanizzazione di Dio! Dio, che è infinito, si fa piccolo, si fa uomo. Qui vediamo il contrario, l’imperatore che ha vinto la guerra viene portato in alto.

Se torniamo dal lato dell’iscrizione, si vede in alto, sulla cornice, il corteo trionfale. Si vedono qui, in particolare, gli animali destinati al sacrificio ed una piccola portantina, detta ferculum, sulla quale viene portato un simulacro (potrebbe essere la rappresentazione del fiume Giordano, ma questo non è certo).

Catechesi

Dinanzi all’arco di Tito vi invito a riflettere sulla questione di cosa abbia pensato fin dalle origini il cristianesimo dei sacrifici antichi. Quasi tutte le religioni antiche – ma anche molte delle moderne, come l’Islam che lo conserva ancora una volta l’anno – davano valore ai sacrifici animali ritenendo che essi fossero graditi a Dio. Anche nell’ebraismo esisteva il sacrificio rituale fino alla distruzione del Tempio avvenuta nell’anno 70 e ricordata, appunto, da questo Arco trionfale.

Un libro del Nuovo Testamento, in particolare, è importantissimo in questo senso ed è la Lettera agli Ebrei. In essa si spiega quale sia il sacrificio veramente gradito a Dio e si congedano definitivamente i sacrifici animali. I sacrifici animali vengono ritenuti ormai inutili perché superati totalmente dall’offerta del Figlio e dalla sua croce. Meglio: non inutili del tutto, perché importanti come prefigurazione di ciò che doveva avvenire, ma ormai da abbandonare, una volta che si è realizzato ciò che essi non erano in grado di raggiungere.

Qual è la vera novità del sacrificio di Cristo? Si può rispondere in maniera sintetica con queste straordinarie parole:

«Non è il dolore in quanto tale che conta nel sacrificio della croce, bensì la vastità dell’amore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’altare della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati altrimenti i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale». Così scriveva nel 1968 J. Ratzinger nelle sue lezioni sul Simbolo apostolico del volume Introduzione al cristianesimo.

La domanda sul significato della croce non cessa di scuotere ogni generazione. Proprio la lettera agli Ebrei ne chiarifica il senso. Essa è, in realtà, la trascrizione di un’omelia pronunciata prima dell’anno 70 dopo Cristo. In quell’anno – come si è già detto - si interruppero le offerte dei sacrifici nel Tempio e la storia dell’ebraismo conobbe una svolta radicale.

Nella lettera agli Ebrei, che confronta il nuovo sacerdozio di Cristo con il sacerdozio levitico che si svolgeva nel Tempio, non è possibile trovare neanche un minimo accenno alla fine dell’antico culto; gli esegeti ne deducono che la lettera è di poco anteriore al 70, poiché se l’autore avesse avuto conoscenza della distruzione del Tempio ne avrebbe certamente inserito la notizia nella sua argomentazione.

L’omelia divenne una lettera, come è facile vedere dagli ultimi versetti; fu cioè inviata ad un altra comunità perché lì fosse letta. Questa comunità è probabilmente Roma, poiché si dice in chiusura del testo: «Vi salutano quelli dell’Italia» (Eb 13,24). Queste parole sono testimonianza del fatto che alcuni emigrati dall’Italia inviarono insieme alla lettera il saluto ai loro compatrioti; è ovvio che un invio dello scritto in Italia non poteva non comprendere come destinazione anche Roma.

Perché il sacrificio di Cristo è “nuovo” e “definitivo”? Perché la morte in croce? Perché un sacrificio compiuto una volta per tutte? Queste sono le grandi domande a cui risponde la lettera agli Ebrei. Afferma l’Autore: «La legge non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19)! I tanti sacerdoti che avevano offerto sempre nuovi sacrifici a Dio dovevano offrirli sempre di nuovo, perché né loro, né il popolo erano mai senza peccato. I sacrifici rinnovavano sempre il ricordo dei peccati, ma mai rendevano totalmente nuovo il cuore.

Cristo non offrì una vittima per quanto preziosa, ma offrì se stesso (cfr. Eb 8,27). A Dio fu gradita non semplicemente la sua morte, non il suo dolore - lungi dal cristianesimo l’idea di un Dio che si compiace del dolore! Dio ha amato, nella croce, l’amore del Figlio. È questo la novità cristiana, è questa la salvezza del mondo: Cristo ha riempito di amore il dolore fisico della crocifissione, Cristo ha colmato di amore, attraverso il perdono, anche il dolore del suo essere rifiutato degli uomini. Lì dove l’uomo accresce la rabbia o il rifiuto, Egli ha riempito di obbedienza al Padre e di misericordia il male che gli era inflitto.

Ma perché ha potuto farlo? Proprio perché è il Figlio fattosi uomo. I sacrifici delle religioni sono offerte dell’uomo rivolte a Dio; ogni popolo nei secoli ha cercato di prendere quanto di più bello e prezioso aveva per offrirlo a Dio. Nella fede cristiana, invece, l’offerta discende dal cielo. Il dono giunge da Dio, il sacrificio ed il sacerdote provengono da lui. Dio ci ha donato il Cristo perché noi accogliessimo il suo sacrificio per noi. Cristo, dice l’Autore della lettera agli Ebrei, non è solo “misericordioso” verso noi uomini, ma è, insieme, “degno di fede” (cfr. Eb 2,17ss.), perché più grande degli angeli, perché, luce della stessa gloria divina, porta impressa in sé tutta la divinità di Dio.

Ecco allora la salvezza cristiana: non l’uomo che si acquista l’amore di Dio con le sue opere ed i suoi sacrifici, ma Dio che si dona perché l’uomo possa avere comunione con Lui. La soteriologia è così intimamente legata alla dogmatica: dire che Cristo è il Salvatore è aver detto tutto su di lui. Infatti, se Cristo è morto in croce per i nostri peccati, se ci ha salvati, se crediamo che Dio è amore dopo aver visto la croce, noi crediamo che Gesù è veramente Dio. Nella croce noi non incontriamo una bella testimonianza, bensì molto più profondamente noi siamo abbracciati dal suo amore, cioè dall’amore di Dio. Nella croce noi siamo amati e salvati. Senza quell’amore non potremmo con le nostre sole opere incontrare Dio.

È importante sottolineare che molte religioni rifiutano l’idea di un salvatore. Il buddismo, ad esempio, ritiene che l’uomo non abbia bisogno di essere salvato, bensì che debba purificarsi ed abbia le forze per farlo. L’Islam, invece, rifiuta Cristo come salvatore, nonostante il fatto che, per i musulmani, Gesù sia il più grande profeta prima di Maometto. In una Sura coranica, infatti, gli ebrei di Medina sono accusati per aver detto: «"Abbiamo ucciso il Messia, Gesù figlio di Maria, l'Apostolo di Dio!", mentre non l'hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro [di averlo ucciso]» (Sura IV, 157). Per l’Islam la crocifissione sarebbe così una invenzione di ebrei e cristiani ed i racconti sulla morte di Gesù sarebbero falsificati. Gesù sarebbe, invece, asceso in cielo in corpo e anima, senza prima morire.

Gli studiosi affermano che il rifiuto storico di accettare la morte in croce di Gesù dipenda da un motivo più profondo: l’Islam non può accettare la croce, perché se la accettasse, dovrebbe riconoscere che abbiamo bisogno di un Salvatore. E che è Gesù che ci ha salvati. E che non è la sola fede in Allah che salva. E che sarebbe necessario “associare” a Dio un altro, il suo Figlio.

La visione islamica ha difficoltà ad accettare anche che un giusto possa essere fatto soffrire da Dio: Dio, se è giusto, “deve” proteggere i suoi profeti. Ma cancellando la croce, cancella anche il perdono: l’eliminazione della croce fa sì che l’adultera, il ladro, l’omicida, il rinnegatore di Dio non abbiano più chi li difenda, li perdoni e li protegga.

La fede cristiana proclama invece con gioia che proprio nella croce del Figlio Dio si è manifestato come il Dio del perdono, il Dio della misericordia. Se Gesù è Figlio di Dio allora la croce ha un senso: non è solo una sconfitta, ma la più grande rivelazione di amore. Se Gesù non è Figlio di Dio allora la croce non ha alcun significato, è solo un orrendo omicidio.

Ma vale pure l’inverso. Se Gesù è morto in croce consapevolmente per salvarci, allora egli è Dio.

Ancora una volta appare evidente come il dogma non sia una questione teologica astratta per specialisti, ma la custodia del fatto che la vita è stata salvata e che Dio è venuto in mezzo a noi.

Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che con il sacrificio della croce si trasforma tutto il rapporto tra l’uomo ed il male, così come tutto il rapporto tra l’uomo e Dio. R. Girard, pensatore francese, ha intuito che il sacrificio cruento, violento, accompagna tutta la storia umana fino all’avvento del cristianesimo. In ogni cultura, quando viene commesso il male, ecco che la società se ne distacca accusando il colpevole e pretendendo da lui o da un capro espiatorio di pagare per il male commesso. Ma così il male non viene superato, bensì riproposto nuovamente: per liberare la società dal male, si cerca una nuova vittima - reale nel caso della pena di morte o simbolica nel caso del sacrificio animale - e la si sacrifica.

Gesù Cristo spezza questo circuito che si ripete eternamente. Dinanzi al male commesso, Egli non chiede una vittima, un sacrificio, un capro espiatorio, ma offre se stesso. La vittima non sale più dall’uomo a Dio, ma discende da Dio stesso, perché l’uomo sa perdonato.

Non solo, ma il cuore di questo nuovo sacrificio, quello della croce, non consiste più nel sangue versato, bensì nell’amore di Cristo. Dio Padre non ama che il Figlio soffra, bensì che il Figlio ami e si doni totalmente. Il vero sacrificio diviene ormai la misericordia: non più qualcuno che paghi ancora per il male, ma il Signore che ama chi non è meritevole d’amore.

Per questo l’agnello diviene il simbolo stesso di Cristo, come profetizzò Giovanni Battista e come storicamente avvenne quando Gesù fu immolato proprio in occasione della Pasqua: Cristo è il nuovo e definitivo agnello pasquale. Il sinedrio, Giuda, Pilato e i nostri peccati lo consegnano con indifferenza ed anzi con odio alla morte, ma Egli riempie quel male del suo amore. Egli continua ad amarci, anzi manifesta in maniera suprema il suo amore, continuando ad amare noi peccatori che lo conduciamo al macello. Nel punto più lontano da Dio, la morte inflitta al Figlio di Dio, regna ormai e per sempre l’amore.

 

9/ Il nuovo sacerdozio (dinanzi al Tempio di Faustina e Antonino Pio/San Lorenzo in Miranda)

Ambientazione

Più avanti è possibile vedere il Tempio di Antonino e Faustina che permette di cogliere un altro aspetto della novità cristiana, della nuova liturgia nata con il cristianesimo. Il tempio venne dedicato all’imperatore e alla moglie - Divi Antonini et Divae Faustinae – divinizzati. La sua trasformazione in Chiesa mostra come era cresciuto il livello del terreno. La porta della Chiesa si apre al livello del riempimento causato dallo scorrere del tempo che aveva interrato gran parte dei Fori. Da quando però sono stati effettuati gli scavi e si ritornò al livello degli edifici di età romana, ecco che la porta appare altissima. La si osserva oggi sempre dalla Via Sacra. Le colonne mostrano anche le scanalature create nei secoli per poter legare ad esse animali.

Catechesi

Sulla scalinata si vede ancora l’altare per i sacrifici. È interessante rendersi conto che nei templi pagani l’uomo non aveva accesso alla cella della divinità. Gli offerenti laici portavano gli animali al sacerdote che li sgozzava sull’altare e preparava poi l’offerta, suddividendo le carni. Ma era poi solo il sacerdote ad entrare nella cella per portare l’offerta alle divinità All’uomo “comune” non era consentito alcun accesso agli dèi.

Tutto cambia con il cristianesimo. Non solo viene abolito il sacrificio animale. Soprattutto si amplia la navata del tempio e tutti, uomini e donne, sono ammessi insieme al cospetto di Dio. L’eucarestia, il vero sacrificio, è certamente presieduta dal sacerdote, ma tutto il popolo si stringe intorno all’altare e nessuno resta fuori dal tempio. Anche questo è sottolineato dalla lettere agli Ebrei: l’autore vuole porre l’accento sul fatto che Cristo, dal punto di vista della sua storia familiare, non apparteneva ad una discendenza sacerdotale, non apparteneva alla tribù dei leviti, non era discendente di Aronne: era un “laico”. Inoltre la sua croce venne innalzata non nel Tempio, non nella Città Santa, ma al di fuori di essa. Eppure lì si manifestò la vera santità, la presenza di Dio, la salvezza, che nessun sacrificio aveva mai potuto realizzare.

Poiché Cristo è il nuovo sacerdote ecco che tutto il popolo e non solo una tribù, diviene popolo sacerdotale ed è ammesso fin nel cuore del tempio, mentre offre a Dio la propria vita nella liturgia quotidiana del dono di sé a Dio ed ai fratelli in famiglia, nel mondo del lavoro e ovunque vada.

Non solo. Con Cristo cambia allora anche il ruolo stesso del sacerdote. Anzi gli apostoli inizialmente non sono nemmeno chiamati sacerdoti nel Nuovo Testamento, nonostante sia chiaro che siano essi a celebrare l’eucarestia - può sembrare strano, ma l’unico del quale esplicitamente si afferma che celebrò l’eucarestia è san Paolo di cui si dice, negli Atti degli apostoli, che spezzò il pane ed il contesto è chiaramente liturgico (At 20,11).

Il motivo per cui ci si mise del tempo a chiamare gli apostoli ed i loro successori è facilmente comprensibile proprio perché nel linguaggio ebraico e pagano del tempo sacerdote era uno che sacrificava gli animali. Immaginatevi che diversità rispetto ad uno che celebrava invece l’eucarestia dove il sacrificio è incruento! Se un sacerdote odierno fosse stato un sacerdote veterotestamentario avrebbe dovuto studiare nozioni di macelleria ed abituarsi allo sgozzamento di animali.

La lettera agli Ebrei chiama per la prima volta Cristo sommo sacerdote e da lì in poi fu possibile applicare nuovamente tale termine anche agli apostoli ed ai loro successori, poiché essi offrivano il nuovo ed eterno sacrificio nell’eucarestia: Cristo stesso. Il prof. Giancarlo Biguzzi ha scritto con grande acutezza, citando il grande studioso della Lettera agli Ebrei A. Vanhoye: «“[I ministri cristiani] non ricevono nel NT il titolo di sacerdoti. La cosa si capisce senza difficoltà: i titoli dei dirigenti della Chiesa primitiva furono scelti in un tempo in cui la dottrina del sacerdozio di Cristo non era stata ancora elaborata. Siccome le loro funzioni erano molto diverse da quelle dei sacerdoti del tempo, ebrei o pagani, l’idea di chiamarli sacerdoti non poteva venire in mente. Dopo l’elaborazione della cristologia sacerdotale del ministero cristiano diventava possibile, anzi necessaria. Essa si fece strada in modo quanto mai naturale nel tempo posteriore al Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento stesso è soltanto suggerita”. Per chi conosceva il tempio di Gerusalemme e le sue celebrazioni sacrificali, infatti, i sacerdoti erano collegati con l’uccisione degli animali (quando l’offerente era in stato di impurità, Ez 44,11; 2Cr 30,17), erano collegati con la manipolazione del sangue che era la parte più santa della vittima (Lv 17,11.14) e con la collocazione sopra l’altare delle carni offerte a Dio. Si può dunque davvero pensare che coloro che presiedevano l’Eucaristia non sono stati chiamati “sacerdoti” perché non avevano a che fare né con l’altare del tempio di Gerusalemme, né con il sangue o con le carni degli animali offerti in sacrificio».

L’allora cardinal Ratzinger ebbe una volta a spiegare che con la fede cristiana il sacerdozio non era abolito, ma trasformato. Ormai non era più l’uomo ad offrire doni a Dio in via ascendente, bensì era Dio a donare se stesso in offerta, in via discendente. Ed il cuore di questo dono, come si è già detto, non consisteva nel sangue o nel dolore, bensì nell’amore con il quale Dio salvava l’uomo. Giovanni Paolo II, nella Pastores dabo vobis, ha scritto, allora, che il sacerdozio è tuttora necessario, anche se è al servizio della Chiesa intera: «Non si deve pensare al sacerdozio ordinato come se fosse anteriore alla Chiesa, perché è totalmente al servizio della Chiesa stessa; ma neppure come se fosse posteriore alla comunità ecclesiale, quasi che questa possa essere concepita come già costituita senza tale sacerdozio» (Pastores dabo vobis 16). Del sacerdozio abbiamo bisogno ed esso non è abolito, ma è un sacerdozio diverso da quello antico che è solo una prefigurazione del nuovo.

Antologia per la riflessione personale

Eb 13,24-25
Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano gli emigrati dall’Italia. La grazia sia con tutti voi.

Eb 8,1-5
Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e della vera tenda, che il Signore, e non un uomo, ha costruito.
Ogni sommo sacerdote, infatti, viene costituito per offrire doni e sacrifici: di qui la necessità che anche Gesù abbia qualcosa da offrire. Se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la Legge. Questi offrono un culto che è immagine e ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu dichiarato da Dio a Mosè, quando stava per costruire la tenda: «Guarda – disse – di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte.

da G. Biguzzi, Dispense dal titolo Il Sacerdozio del Cristo in Ebrei, presso la Pontificia Università Urbaniana
«[I ministri cristiani] non ricevono nel NT il titolo di sacerdoti. La cosa si capisce senza difficoltà: i titoli dei dirigenti della Chiesa primitiva furono scelti in un tempo in cui la dottrina del sacerdozio di Cristo non era stata ancora elaborata. Siccome le loro funzioni erano molto diverse da quelle dei sacerdoti del tempo, ebrei o pagani, l’idea di chiamarli sacerdoti non poteva venire in mente. Dopo l’elaborazione della cristologia sacerdotale del ministero cristiano diventava possibile, anzi necessaria. Essa si fece strada in modo quanto mai naturale nel tempo posteriore al Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento stesso è soltanto suggerita» (A. Vanhoye, «Sacerdozio», 1398).
– Per chi conosceva il tempio di Gerusalemme e le sue celebrazioni sacrificali, infatti, i sacerdoti erano collegati con l’uccisione degli animali (quando l’offerente era in stato di impurità, Ez 44,11; 2Cr 30,17), erano collegati con la manipolazione del sangue che era la parte più santa della vittima (Lv 17,11.14) e con la collocazione sopra l’altare delle carni offerte a Dio. Scrive per esempio R. De Vaux: «Le prêtre est donc très proprement le “ministre de l’autel” … par (…) évolution (…), l’action sacrificielle leur [= ai sacerdoti] a été de plus en plus réservée, elle est devenue une fonction essentielle et, conséquemment, la ruine du Temple [nell’anno 70 d.C.] a marqué la fin de leur influence : la religion de la Tôra a remplacé le rituel du Temple et les prêtres ont été supplantés par le rabbins» (R. De Vaux, Les institutions de l’AT, vol. II, 210).
- Si può dunque davvero pensare che coloro che presiedevano l’Eucaristia non sono stati chiamati «sacerdoti» perché non avevano a che fare né con l’altare del tempio di Gerusalemme, né con il sangue o con le carni degli animali offerti in sacrificio.
- San Paolo, ad esempio, era certamente sacerdote cristiano e presiedeva l'eucarestia; cfr. At 20,11
[Paolo a Troade risalì dopo la resurrezione del ragazzo], spezzò il pane, mangiò e, dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì.

10/ Una nuova concezione del potere (dinanzi alla Colonna di Foca)

Ambientazione

Al centro dei Fori si leva l’ultimo monumento dedicato da un imperatore in Roma: la colonna di Foca. Essa venne dedicata appunto da Foca imperatore nell’anno 608. Cosa vuol dire questo: che non è vero che l’impero romano in occidente finisce nell’anno 476 con la cattura a Ravenna di Romolo Augustolo! L’impero romano continuò la sua esistenza millenaria e Roma restò una città imperiale, anche se l’imperatore era ormai lontano perché abitava a Costantinopoli. Pian piano si ebbe, invece, un’evoluzione amministrativa perché l’imperatore nominò a rappresentarlo un’esarca, che ebbe sede a Ravenna, poiché Ravenna era più facilmente raggiungibile via mare da Costantinopoli e perché era più facilmente difendibile grazie alle sue paludi. Roma era ormai una città di confine, ma l’esarca scendeva sovente da Ravenna a Roma per il governo dell’urbe. L’esarca, legittimo rappresentante dell’imperatore, risiedeva allora nel palazzo imperiale del Palatino ogni volta che questo fosse necessario. L’iscrizione della colonna di Foca ricorda il nome dell’esarca Smaragdo che la fece erigere:

«All'ottimo principe signore nostro, Foca imperatore, di somma clemenza e somma pietà, per l'eternità incoronato da Dio, trionfatore sempre augusto, Smaragdo, patrizio e esarca d'Italia, per decisione del sacro palazzo, devoto alla sua clemenza, per gli innumerevoli benefici ottenuti dalla sua pietà, e per la pace procurata all'Italia, e per la libertà mantenuta, questa statua di sua maestà, splendente di aureo fulgore, pose su questa sublime colonna a perenne sua gloria, e la dedicò il primo giorno di agosto, nell'undicesima indizione, nell'anno quinto dopo il consolato di sua pietà».

In quegli anni nacque anche l’usanza di inviare, da parte dell’imperatore, un suo ritratto, oppure una ciocca dei suoi capelli, perché queste “reliquie” rendessero presente simbolicamente in Roma la presenza imperiale: tali oggetti venivano conservati ed esposti nella chiesa di Santa Maria al Palatino, oggi nota come Santa Maria Antiqua. Il dominio imperiale su Roma è evidente per quel che riguarda l’imperatore Foca anche dal fatto che fu lui a concedere alla Chiesa di Roma che il Pantheon, tempio che apparteneva al dominio imperiale, fosse trasformato in chiesa cristiana. È il primo tempio pagano in Roma ad essere trasformato in chiesa nell’anno 609. Prima di questa data – siamo ben tre secoli dopo l’editto di Costantino – ancora nessun tempio nell’urbe era stato distrutto, né tanto meno trasformato in chiesa. Fu possibile tale trasformazione nell’anno 609 solo una volta che l’imperatore ebbe dato l’assenso.

Catechesi

Con questa riflessione facciamo un salto dal periodo neotestamentario a quello patristico e medioevale, per non perdere l’occasione di approfondire alcune questioni storiche importantissime, correggendo la visione ideologicamente falsificata che abitualmente viene proposta riguardo al presunto atteggiamento mistificatorio della Chiesa relativo alla Donazione costantiniana. La vera questione non è come mai esista quel falso che è la Donatio di Costantino, ma come mai esista il potere temporale della Chiesa. Se la Donazione di Costantino è un falso, come mai allora il vescovo di Roma venne in possesso del potere temporale? Vedremo subito che, una volta capito cosa avvenne realmente, si riesce allora a collocare quel testo, che non fu mai per la Chiesa un testo importante, nella giusta luce

Che il passaggio dell’acquisizione di un potere temporale sia avvenuto gradatamente è manifesto anzitutto dall'impossibilità di individuare una datazione precisa di tale transizione.

Gli storici, alla ricerca del momento fondativo di tale potere, hanno suggerito che la svolta decisiva sia avvenuta nel 680, oppure nel 726 o nel 732/33, oppure nel 751, o ancora nel 754. Il 680 è l'anno in cui venne stipulata una pace con i longobardi, con un conseguente calo dell’organico militare imperiale presente in Italia e con la concessione al pontefice da parte di Costantinopoli del diritto di coniare monete. Nel 726 e nel 732/33 Roma rifiutò l'aumento del censo imperiale e Costantinopoli, come contromossa, distaccò dal pontefice le diocesi del sud della penisola integrandole pienamente nella cultura bizantina. Il 751 è l'anno in cui Ravenna cadde nelle mani dei longobardi e non ci fu, in conseguenza, più un esarca a rappresentare il potere imperiale in Italia. Nel 754 papa Stefano II si recò a piedi a Reims a chiedere l'appoggio della corte franca dopo che il re longobardo si era rifiutato di restituire le terre sottratte all'impero. Ognuna di queste date è importante, nessuna di per sé decisiva.

Come manca un preciso riferimento cronologico così non esiste un nome dell'incipiente potere temporale della Chiesa di Roma. Lidia Capo ha scritto che «un nome ufficiale è semplicemente mancato»: i termini Stato della Chiesares publica Sancti Petripatrimonium Petri sono tutti moderni.

Ciò che è invece evidente è la continuità: il pontefice in quegli anni continuò ad essere ordinato vescovo di Roma, solo all'arrivo di un documento emanato da Ravenna o Costantinopoli. Senza tale iussio non era lecito procedere dopo l'elezione alla consacrazione, poiché Roma era città imperiale e il papa suddito dell'imperatore (ciò avvenne fino alla caduta di Ravenna).

Non solo, ma Roma continuò a celebrare un cerimoniale che manifestava piena dipendenza da Costantinopoli, come appare proprio dall'erezione della Colonna di Foca e dall'accoglienza delle ciocche dei capelli degli imperatori o delle loro immagini nella chiesa di Santa Maria al Palatino, come si è appena detto.

Costante era l’invocazione di aiuto economico e militare rivolta dall'urbe all'imperatore – si pensi a quando sotto papa Giovanni VI (701-705), nel momento in cui il duca longobardo giunse fino a Sora, il Liber pontificalis afferma che nullus extitisset qui ei potuisset resistere per descrivere la lontananza del potere imperiale.

L'appartenenza di Roma all'impero è attestata soprattutto dal viaggio che l'imperatore Costante II compì per combattere i longobardi, raggiungendo infine Roma nel 663. Nell'urbe dimorò 13 giorni, precisamente nel Palazzo del Palatino, ancora custodito dai suoi ufficiali: fu l'ultima residenza di un imperatore nell'antica capitale prima del “trasferimento” dell'impero in occidente, quando Carlo Magno divenne il nuovo imperator romanorum.

L'imperatore di Costantinopoli si riteneva ancora arbitro supremo non solo delle questioni civili, ma anche di quelle religiose, pretendendo di dettare legge anche al papa di Roma. Alla metà del VII secolo Martino I e Massimo il Confessore pagarono con l'esilio la loro difesa della duplice volontà umana e divina del Cristo, perché l'imperatore era invece monotelita. Martino I venne addirittura preso prigioniero dai soldati imperiali mentre si era fatto distendere su di un lettuccio dinanzi all'altare di San Giovanni in Laterano – poiché era malato – illudendosi che questo lo avrebbe salvato.

Dopo le lotte per i canoni del Sinodo Quinisesto, si giunse alla crisi iconoclasta. Roma si trovò a difendere le immagini contro l'imperatore ed il papa Costantino dovette recarsi, costretto dai soldati bizantini, a Costantinopoli nel 710 mentre gli armati mettevano a morte il consiglio di reggenza della Chiesa di Roma. Alcuni anni più tardi il Liber pontificalis racconta che per ben cinque volte le milizie imperiali cercarono di uccidere papa Gregorio II che difendeva le icone.

Ma questi erano gli ultimi sussulti del moribondo governo imperiale di Roma. Costantinopoli doveva, infatti, fare fronte all'avanzata araba che non concedeva tregua. La città sul Bosforo venne assediata dalle armate musulmane per quattro lunghi anni, dal 674 al 678 e, successivamente, nel 717. Lì si arrestò l’ondata islamica che era sembrata fino a quel momento invincibile. La conseguenza di quegli eventi fu che le energie dell'impero dovettero essere impiegate su quel fronte, per la sopravvivenza stessa di Costantinopoli.

È ben per questo che, quando i longobardi ripresero a premere per un maggiore dominio sulla penisola, solo il pontefice, con la sua autorità morale e sempre più temporale, si levò contro di essi. Roma era ormai legata a Ravenna solo da una stretta lingua di territorio che era ancora in potere imperiale: è quella che gli storici moderni chiamano “corridoio bizantino”, percorso da un arteria che, tramite Perugia, raggiungeva Ravenna e l'Adriatico. A nord di esso era ormai saldamente insediato il regno longobardo, mentre a sud vi era il ducato di Spoleto. Con azioni successive i longobardi presero - e poi restituirono per intervento dei pontefici - Cuma, Sutri, Narni, Perugia, Sora, Cesena, Ravenna. Era evidente la finalità delle diverse azioni: il re longobardo intendeva divenire il nuovo protettore di Roma, sostituendosi all'imperatore ed unificando la penisola sotto il suo governo.

Roma intrattenne buoni rapporti con il mondo longobardo, al punto che il vescovo di Pavia ottenne il privilegio di dipendere direttamente dal vescovo di Roma e non da quello di Milano. L'influsso romano si fece sentire anche nell'elaborazione del diritto longobardo. Ma Roma rifiutò la prospettiva longobarda, difese la tradizione latino-imperale e volle conservare la memoria di un’unità ideale dell'impero che vantava un orizzonte universale e non quello più ristretto di un regno come quello longobardo. Nel vuoto di potere creatosi per la debolezza in occidente dell'impero, il pontefice si levò più volte ad ostacolare le mire espansionistiche longobarde.

Nel frattempo, cresceva il suo ruolo amministrativo e politico su Roma ed il Lazio. Il Liber pontificalis ricorda più volte che il pontefice provvedeva certamente al sostegno economico della vita della Chiesa nelle quattro parti rivolte a clero, monasteriis, diaconiae et mansionaribus – Jean Durliat ha mostrato in maniera definitiva come monasteriis e diaconiae siano da intendersi come due dativi, ai monasteri ed alla diaconia, poiché non sono mai esistiti in quel tempo dei monasteria diaconiae.

Ma il vescovo di Roma, come garante e sempre più come effettivo responsabile dell'amministrazione dell'urbe, gestiva ormai anche la vita temporale della città. A lui facevano capo il sistema fiscale e la distribuzione degli stipendi statali (come appare nel caso dell'assedio dei militari bizantini al patriarchio lateranense sotto papa Severino nell'anno 640, posto in atto per avere in maniera irregolare la paga per il servizio svolto alla città), così come la cura dell'intero apparato amministrativo (Paolo Radiciotti ha dimostrato nei suoi studi come si sia passati dalla corsiva nova tardo-imperiale alla curiale romana medioevale in un continuum mai interrotto delle forme di scrittura dell'amministrazione romana), così come la trasformazione degli edifici dell'urbe (si pensi alla trasformazione del Pantheon in chiesa cui si è fatto cenno), così come infine per il restauro degli acquedotti che venivano sabotati durante gli assedi e per il consolidamento della cinta muraria dell'urbe e delle altre città del Lazio.

Un grande passo fu compiuto dal pontefice, quando, non essendo più sufficiente opporsi alle reiterate avanzate longobarde, si rivolse infine ai franchi. Sono gli eventi che segnarono la nascita dell'Europa: il viaggio di Stefano II a Reims è un evento decisivo nella storia non solo di Roma, ma dell'Europa intera e del suo sviluppo storico e culturale.

Proprio il Liber pontificalis è la testimonianza emblematica di quell'evoluzione che portò il pontefice ad assumere una responsabilità temporale. Quel libro mai concluso, perché aggiornato “ad ogni morte di papa” - ma anche prima della morte stessa del pontefice poiché Beda il Venerabile utilizzò nel 725 una copia della biografia di Gregorio II cui mancava ancora la conclusione – divenne di biografia in biografia un documento “diplomatico”, nel senso moderno della parola. La curia romana lo aggiornava evidentemente perché fosse inviato nei diversi regni con l'intento di presentare fuori di Roma le vicende dell'urbe – interessantissime in questo senso sono le interpolazioni anti-longobarde nelle vite di Gregorio III e Zaccaria che vennero aggiunte solo durante il pontificato di Stefano II.

Di un potere temporale necessario del vescovo di Roma si tratta dunque, anche se l'aggettivo ha bisogno di precisazioni. La sua necessità non è teologica, non derivando ovviamente in maniera diretta dalla rivelazione. Fu piuttosto un potere necessario storicamente, quando la Chiesa di Roma si trovò a far fronte in un momento difficilissimo all'impossibilità bizantina di provvedere agli avvenimenti che riguardavano il centro Italia. La sede romana accrebbe in maniera graduale la sua responsabilità temporale, attenta – per utilizzare una terminologia moderna - ai “segni dei tempi”. Se fu provvidenziale la fine di quel potere temporale nel 1870, altrettanto si deve probabilmente dire del suo inizio.

La Donatio costantiniana non deve essere vista allora come un documento scritto per accreditare alla sede di Roma un potere che non le competeva – ed, infatti, la Donatio non venne mai utilizzata in questo senso mentre tale potere andava sviluppandosi – bensì piuttosto come un testimone che attesta la consapevolezza che quel potere temporale era ormai un dato di fatto.

Antologia per la riflessione personale

-cfr. il volume Il potere necessario. I vescovi di Roma e la dimensione temporale nel “Liber pontificalis” da Sabiniano a Zaccaria (604-752), di Andrea Lonardo

11/ Il cristianesimo è per tutti, tranne per chi se ne tiene fuori come Erode (dinanzi alla Curia del Senato dove Erode il Grande divenne re)

Ambientazione

Siamo dinanzi alla Curia del Senato. Qui avvenivano in età antica le discussioni e le votazioni. Ovviamente, in età imperiale, il Senato era stato quasi totalmente esautorato dal suo potere, poiché Augusto aveva di fatto avocato a sé ogni potere decisionale, anche se formalmente continuava ad esaltare il Senato ed i suoi senatori. Qui avvenne un altro episodio decisivo per la storia del Nuovo Testamento anche se i romani ignorano che proprio qui avvenne tale fatto. Al tempo in cui Ottaviano era ancora triumviro, nominò insieme ad Antonio – anche lui allora triumviro, prima che esplodesse il conflitto con Ottaviano – Erode re in Israele. Chi lo racconta è sempre Flavio Giuseppe che dice:

«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».

 

Erode, che passerà alla storia come “Erode il Grande”, dopo aver lasciato i suoi familiari assediati da Antigono nella fortezza di Masada, si imbarcò in cerca di aiuti, giungendo prima ad Alessandria d’Egitto, dove incontrò Cleopatra, poi a Roma dove giunse nel 40 a.C. La sua richiesta era che venisse fatto re il fratello di sua moglie, al posto di Antigono, ultimo sovrano della dinastia degli asmonei.

Antonio ed Ottaviano, invece, lo fecero proclamare re dinanzi al Senato riunito nella Curia, ritenendolo il più affidabile per governare in sintonia con il potere romano.

Fu proprio durante il regno di Erode il grande che nacque Gesù.

Anche la Curia del Senato, come il Pantheon, si è conservata intatta perché venne trasformata in chiesa e, pertanto, gli abitanti di Roma non la saccheggiarono nel medioevo per prelevarne pietre.

Catechesi

Proprio qui venne Erode, proprio qui venne costituito re. Lo possiamo immaginare uscire trionfante per questo successo inaspettato, insieme ad Ottaviano e Antonio. Da qui salì verso il Tempio dedicato alla Triade Capitolina per partecipare ai sacrifici animali nel massimo tempio dei romani. Anche lui mai avrebbe immaginato di essere ricordato per sempre nella storia del mondo per essere citato nei Vangeli, come il re sotto il quale nacque Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio. Strana sorte quella per cui Erode sarà ricordato per sempre, mentre tanti altri che regnarono come lui sono dimenticati da tutti. Ma certo il suo ricordo non è bello. Erode ebbe veramente paura di Gesù, mentre non la ebbero né il Sinedrio, né Pilato, come si è visto, poiché il Sinedrio condannò Gesù perché egli si faceva Figlio di Dio e Pilato, invece, lo condanno per paura del Sinedrio.

Anche Erode è stato un potente ed un violento, anzi lo è stato più di tante figure citate nel Nuovo Testamento. Il suo desiderio di potenza appare dalle sue monumentali costruzioni, molte delle quali difensive, oggi scavate dagli archeologi.

Fu lui a fortificare Masada facendone una fortezza di primo ordine – anche se essa esisteva già dal II secolo a.C. – e molti dei resti che vi si visitano sono pertinenti al suo regno. Fu lui a costruire l’Herodion in Giudea, dove è stata recentemente ritrovata la sua tomba. Fu lui a costruire Macheronte, altra grande fortezza, al di là del Giordano, vicino al Mar Morto. Fu lui a costruire il Palazzo che è agli inizi del wadi Qelt, la valle scavata dai ruscelli del deserto che Gesù percorse per salire a Gerusalemme da Gerico per la passione. Fu soprattutto lui a ricostruire il Tempio di Gerusalemme a partire dall’anno 19 a.C. Quando chiesero a Gesù un segno e lui disse che se avessero distrutto il tempio dopo tre giorni egli lo avrebbe ricostruito, i giudei esclamano: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?» (Gv 2,20). Quei quarantasei anni sono gli anni che Erode impiegò ad ingrandirlo ed abbellirlo. Ancora oggi le grandi pietre scanalate ai lati che si vedono al Muro occidentale – il muro di sostegno un tempo chiamato Muro del pianto – sono le pietre erodiane. Si possono vedere bene a Gerusalemme visitando il Temple Mount/Jerusalem Archeological Park che meglio di ogni altro luogo permette di rendersi conto della maestosità della costruzione erodiana.

Erode non era ebreo di origine, bensì idumeo – l’Idumea è la regione che aveva per
capitale Petra -, e cercò sempre di accreditare la sua dignità a governare da ebreo, facendo prima circoncidere a forza il popolo degli idumei e poi ricostruendo il Tempio.

Anche negli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, quando egli uscì definitivamente dalla Città Santa per pronunciare il discorso escatologico sul Monte degli Ulivi, ritorna il riferimento alle pietre erodiane:

«Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Egli disse loro: “Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta”. Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”» (Mt 24,1-3).

Il vangelo di Matteo dipinge Erode veramente per quello che era. La strage degli innocenti appartiene alla sua mentalità: Erode, in questa sete di difendere il proprio potere, fece uccidere almeno tre dei suoi figli: nel 7 a.C. fece uccidere Alessandro e Aristobulo e nel 4 a.C. Antipatro perché aveva paura che i figli lo spodestassero dal regno.

I magi che giunsero durante il suo regno fino al Bambino Gesù sono l’avanguardia dei pagani che “invaderanno” lo spazio per poter incontrare il Signore. Fino al loro arrivo nel “presepe” c’erano solo ebrei. Maria era ebrea, Giuseppe era ebreo, i pastori erano ebrei, il bambino Gesù era ebreo. Eppure gli evangelisti sottolineano che quel bambino non era solo ebreo: prima ancora era uomo.

Dio si era fatto uomo per tutti gli uomini. Matteo ricorda che fra gli antenati di Giuseppe, il padre adottivo che dette a Gesù la discendenza davidica, c’erano quattro donne pagane: Giuseppe non aveva solo sangue ebraico, ma anche sangue pagano. Perché quel bambino che diveniva suo figlio era venuto non solo per il popolo eletto, ma per l’umanità intera.

Giovanni evangelista, ebreo che scrisse in greco, afferma che il Verbo divino si fece uomo, si fece carne (sarx in greco) per indicare l’umanità, prima ancora che l’ebraicità di Gesù.

Ed, infatti, nel Credo non si dice che “nel grembo della Vergine Maria Gesù si fece ebreo”, bensì che “si fece uomo”, a dire che la sua ebraicità è una specificazione del suo essersi fatto uno di noi, di tutti noi, arabi ed europei compresi.

L’ebraicità di Gesù dice comunque il compimento dell’alleanza stretta da Dio con il suo popolo, alleanza mai revocata, e dice dunque l’amore che tutti dobbiamo al popolo ebraico.

Dice anche l’origine mediorientale del cristianesimo. Chi dicesse che il cristianesimo è occidentale, non avrebbe capito nulla della fede cristiana. Ricordo una ragazza iraniana che voleva battezzarsi e la madre, che pure l’amava, le diceva che voleva farsi cristiana per divenire occidentale, per dissuaderla dalla scelta. Le dissi che l’affermazione della madre non era vera. Perché in Persia il cristianesimo c’era da diversi secoli prima dell’arrivo dell’Islam. Lei poteva essere cristiana e restare orientale. Essere cristiani non vuol dire diventare occidentali, come prova, appunto, la Chiesa caldea dell’Iran, così come tutte le Chiese orientali antiche, quella ebraico-cristiana quella sira, quella assira, quella copta, quella armena, quella araba, quelle del nord-Africa (si pensi solo ad Agostino e a Cipriano), quelle arabe (la penisola arabica conserva ancora fondamenta di basiliche cristiane e sepolcreti del primo millennio, pieni di croci scolpite sulla roccia), quella ebraico-cristiana in Israele, ecc. ecc., tutte molto più antiche dell’islamizzazione della regione, anche se poi alcune di essere vennero totalmente annientate nei secoli.

Ma, ad un certo punto, arrivarono sotto Erode il grande, i magi. Qualsiasi cosa si pensi della loro origine, l’evangelista lascia intuire un'origine dal lontano oriente – il termine “magi” fa pensare alla Persia. Ma quei magi sono la concretizzazione di tutti i popoli che avrebbero accolto il Vangelo, come aveva annunziato l’antica profezia di Isaia.

Ecco che i magi assumono talvolta i volti delle tre età dell’uomo, il giovane, l’adulto, l’anziano – così ad esempio in Giorgione. Oppure assumono le sembianze di tre re provenienti dai tre continenti allora conosciuti: l’Africa (uno di loro spesso è dipinto come nero di carnagione), l’Asia, l’Europa. Quei cercatori di Dio sono i rappresentanti simbolici degli altri continenti. I magi aprono il presepe alla terra intera. In quello sperduto luogo del medio oriente, il mondo intero è convocato a gioire.

Ecco perché con grande sapienza i presepi della tradizione italiana, in particolare quello napoletano, aggiungono figure di ogni luogo e tempo: nel presepe ci sono tutti. E se ci si recasse a comprare statuine a Napoli a San Gregorio Armeno, si troverebbero statuine di presidenti, di politici, di calciatori, di cantanti, oltre a Benino che dorme.

Mi ha sempre colpito il gesto simbolico che compiamo quando poniamo i magi nel presepe. Siamo obbligati a spostare i pastori. Nel I secolo fu un momento drammatico quando i cristiani provenienti dall’ebraismo si trovarono a dover accogliere un enorme numero di cristiani provenienti dal paganesimo, di pagani che diventavano cristiani senza prima circoncidersi (cfr. Is 60,6 afferma profeticamente: «Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore»). Ma quel momento drammatico lo si rivive ogni volta che nella Chiesa giunge una nuova generazione che desidera anch’essa adorare il bambino, eppure è diversa dalla precedente che già lo adora: tutti insieme dobbiamo disporci intorno a quel bambino e vivere in comunione. Erode solo se ne tiene fuori: egli invia i magi, ma non vuole accorrere ad onorare il re.

Nel suo libro Gesù di Nazaret J. Ratzinger-Benedetto XVI ha scritto: «Si tratta veramente di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica espressa in forma di storie? Al riguardo, J. Daniélou, a ragione, osserva: “A differenza del racconto dell’Annunciazione [a Maria], l’adorazione da parte dei Magi non tocca alcun aspetto essenziale per la fede. Potrebbe essere una creazione di Matteo, ispirata da un’idea teologica; in quel caso niente crollerebbe”. Daniélou stesso, però, giunge alla convinzione che si tratti di avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato dalla comunità giudeo-cristiana e da Matteo. [Anche dinanzi al mutato clima dell’esegesi attuale,] merita di essere considerata attentamente la presa di posizione, ponderata con cura, di K. Berger: “Anche nel caso di un'unica attestazione [...] bisogna supporre - fino a prova contraria - che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici [...] Contestare per puro sospetto la storicità di questo racconto va al di là di ogni immaginabile competenza di storici”. Non posso che concordare con quest'affermazione. I due capitoli del racconto dell'infanzia in Matteo non sono una meditazione espressa in forma di storie. Al contrario: Matteo ci racconta la vera storia, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù».

Antologia per la riflessione personale

da Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 14, 385-389
«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».

da J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret III, pp. 134-138
Al termine di questo lungo capitolo si pone la domanda: come dobbiamo intendere tutto ciò? Si tratta veramente di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica espressa in forma di storie? Al riguardo, Jean Daniélou, a ragione, osserva: «A differenza del racconto dell’Annunciazione [a Maria], l’adorazione da parte dei Magi non tocca alcun aspetto essenziale per la fede. Potrebbe essere una creazione di Matteo, ispirata da un’idea teologica; in quel caso niente crollerebbe» (Les Évangiles de l’Enfance, p. 105). Daniélou stesso, però, giunge alla convinzione che si tratti di avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato dalla comunità giudeo-cristiana e da Matteo.
Per dirla in modo semplice: questa è anche la mia convinzione. Bisogna però constatare che, nel corso degli ultimi cinquant’anni, nella valutazione della storicità, si è verificato un cambiamento d’opinione, che non si fonda su nuove conoscenze storiche, ma su un atteggiamento diverso di fronte alla Sacra Scrittura e al messaggio cristiano nel suo insieme. Mentre Gerhard Delling, nel quarto volume del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament (1942), riteneva la storicità del racconto sui Magi ancora assicurata in modo convincente dalla ricerca storica (cfr. p. 362, nota 11), ormai anche esegeti di chiaro orientamento ecclesiale come Ernst Nellessen o Rudolf Pesch sono contrari alla storicità o per lo meno lasciano aperta tale questione. Di fronte a tutto ciò, merita di essere considerata attentamente la presa di posizione, ponderata con cura, di Klaus Berger nel suo commento del 2011 all'intero Nuovo Testamento: «Anche nel caso di un'unica attestazione [...] bisogna supporre - fino a prova contraria - che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici [...] Contestare per puro sospetto la storicità di questo racconto va al di là di ogni immaginabile competenza di storici» (Kommentar zum Neuen Testament, p. 20).
Non posso che concordare con quest'affermazione. I due capitoli del racconto dell'infanzia in Matteo non sono una meditazione espressa in forma di storie. Al contrario: Matteo ci racconta la vera storia, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù.

12/ L’alleanza fra il cristianesimo e la ragione (all’interno del Senato)

Ambientazione

Merita soffermarsi a ricordare un secondo episodio che riguarda la Curia del Senato, questa volta di epoca patristica: riguardò la collocazione della statua della dea Vittoria proprio in quest’aula.

Nel Senato era stata posta nell’antichità una statua della dea Vittoria alla quale i senatori offrivano sacrifici, invocando la protezione e il trionfo di Roma. Nel 357 l’imperatore Costanzo, ormai cristiano, l’aveva fatta rimuovere una prima volta e poi essa era stata definitivamente rimossa dal senato da Graziano (375-383). Nel 384 Simmaco richiese che fosse nuovamente posta in loco.

Simmaco non faceva la sua battaglia per una “libertà di coscienza” intesa alla maniera moderna, che era ovviamente impensabile a quel tempo. Il problema era che Graziano aveva rifiutato il titolo di pontifex maximus, cioè si rifiutava di fare i sacrifici come capo dello stato ed a nome dello stato. Ma se i sacrifici non erano fatti dall’imperatore e se non erano sovvenzionati dallo stato, non avrebbero avuto efficacia per placare gli dèi – spiegava Simmaco nella III Relatio. Per questo Simmaco affermava: “non si può giungere per una sola via ad un segreto tanto grande”, quello di Dio, affermazione che andava intesa non come un invito ad un pluralismo religioso e alla libertà di coscienza - che egli se avesse potuto avrebbe invece negato per ripristinare il divieto del cristianesimo - bensì come un invito all’imperatore perché, sebbene cristiano, venisse in Senato a sacrificare agli dèi rendendo così onore alla divinità sia tramite il culto cristiano, sia tramite quello pagano, in qualità di pontifex maximus. Questa qualifica che egli aveva rifiutato era esattamente il problema: l’imperatore, fino a quel momento, era stato il supremo sacerdote ed a lui spettava dirigere e guidare i sacrifici per ottenere il benessere e la vittoria dello stato. Ora, invece, egli si rifiutava di celebrarli, perché si dichiarava cristiano.

Catechesi

Benedetto XVI ha insistito molto e con intelligenza sull’alleanza che si creò fra la filosofia e la fede, mentre il conflitto culturale avvenne fra la mitologia e la fede. Così aveva scritto, ad esempio, nel discorso preparato per l’Università La Sapienza di Roma:

«L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti… Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera».

Ecco l’importanza della questione della non ricollocazione dell’altare e della statua della dea Vittoria qui in Senato. Ambrogio non rifiutava la laicità: Ambrogio rifiutava invece che una statua di una divinità inesistente venisse posta nuovamente nella Curia e che l’imperatore fosse obbligato ad offrirvi sacrifici.

Vedremo più avanti come la cultura cristiana accogliesse il meglio della tradizione laica latina (ad esempio, oltre alla filosofia, il diritto), mentre ne contestasse la violenza e la mitologia.

13/ Una spina nella carne: nella sofferenza una sorgente di fecondità (nel Carcere Mamertino)

Ambientazione

Siamo dinanzi al Carcere Mamertino – la denominazione è tardiva e deriva da Mamerte, dio della guerra osco al quale forse era dedicato un tempio nelle vicinanze.

Se ne conserva solo una parte, la più interna e segreta, detta Tullianum. L’iscrizione ricorda due consoli, C. Vibio Rufino e M. Cocceio Nerva e permette la datazione dell’attuale facciata agli anni 39-42 d.C. Il carcere era più grande ed aveva il nome corrente di Lautumiae, perché scavato in antiche cave di tufo. Nel punto più terribile del carcere, quello che appunto oggi è visitabile, si accedeva solo per un foro circolare che è tuttora al centro del pavimento. La scala per scendervi è stata scavata successivamente, quando il Tullianum divenne una chiesa che ricordava Pietro e Paolo. Il Tullianum era, ai tempi del Nuovo Testamento, il carcere cittadino per i nemici dello stato che attraverso quella botola vi venivano gettati dentro. Vi vennero imprigionati sicuramente diversi personaggi illustri: Gaio Sempronio Gracco (nel 121 a.C.), Giugurta, re della Numidia (nel 104 a.C.), Aristobulo II, re dei Giudei, 61 a.C., Lentulo e Cetego, compagni di Catilina (nel 60 a.C.), Vercingetorige, re dei Galli (nel 46 a.C.), Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio (nel 31 d.C.) e Simone di Giora, difensore di Gerusalemme (nel 71 d.C.).

I prigionieri venivano poi, al momento stabilito, estratti e strangolati pubblicamente, oppure potevano essere fatti morire di fame. Fra l’altro il Tullianum è proprio accanto al tratto finale della Via Sacra che da qui sale poi al tempio della Triade capitolina, il cui basamento è conservato all’interno dei Musei capitoli – un angolo è visibile anche dall’esterno del Palazzo. La vicinanza del carcere al tratto finale della Via Sacra non è casuale, ma rispondeva ad un preciso rituale. I prigionieri di guerra importanti sfilavano al seguito del corteo trionfale e, mentre l’imperatore saliva al Campidoglio, venivano rinchiusi del Tullianum.

Pensiamo, ad esempio, al caso di Simone bar Giora, Simone figlio di Giora che fu uno dei capi della rivolta contro i romani in Giudea a partire dal 66, quella domata dagli imperatori flavi. Possiamo immaginare che quando l’imperatore Tito percorse la Via Sacra in trionfo, avendo dietro di sé i beni depredati a Gerusalemme, nel corteo venne mostrato anche Simone, opportunamente legato, per essere irriso dalla popolazione romana. Giunto a questo luogo, mentre il corteo trionfale proseguiva la salita, venne calato nel Tullianum. Una volta ucciso venne poi esposto, come avveniva per tutti i prigionieri del Tullianum, alla sinistra del carcere stesso, dove ora sono le scale che salgono al Campidoglio, perché la popolazione si facesse ulteriormente scherno del cadavere.

Nel Tullianum la tradizione pone anche la prigionia di Pietro e Paolo. E qui pone anche l’episodio del battesimo dei carcerieri Processo e Martiniano, compiuto da Pietro con acqua che sarebbe scaturita miracolosamente dalla roccia. Non è così importante stabilire se Pietro e Paolo siano stati proprio qui incarcerati o se la loro carcerazione prima del martirio sia avvenuta in un altro luogo distante qualche centinaio di metri da qui. Certamente essa è avvenuta ed è avvenuta qui a Roma e certamente i romani di allora non erano teneri con i loro condannati a morte. Questo luogo ci aiuta ad immaginare la loro prigionia, anche se essa dovesse poi essersi verificata in un altro luogo qui vicino in città.

Bellissimo è il particolare del battesimo dei carcerieri. Come ci ricorda Tacito, parlando proprio della prima persecuzione imperiale contro i cristiani, quella del 64 nel quale morirono Pietro, Paolo e i protomartiri romani, il martirio dei cristiani suscitava pietà da parte della popolazione e faceva avvicinare al cristianesimo, creando simpatia per i credenti: «Per quanto [i supplizi della crocifissione, dell’essere sbranati da fiere o dell’essere arsi come torce fatti subire ai cristiani nel 64 d.C.] fossero contro gente colpevole e che meritava tali originali tormenti, pure si generava verso di loro un senso di pietà, perché erano sacrificati non al comune vantaggio, ma alla crudeltà di un principe» (Annali, 15, 44, 2-5). Si vede qui come Tacito ritenga colpevoli i cristiani di una religione “atea” perché negavano la divinità dell’imperatore e l’esistenza degli dèi pagani. Lo storico nota tuttavia che tanti si accostavano alla fede proprio vedendo i cristiani morire. Ecco che questo dato ci aiuta a ricordare come fu anche con la loro prigionia ed il loro martirio che Pietro e Paolo convertirono il mondo.

Il Tullianum venne profondamente trasformato tra il VI e il VII secolo, divenendo una chiesa dedicata a San Pietro almeno a partire dall’VIII-IX secolo, come testimoniano due affreschi di età medioevale. In quello più famoso che si vede all’interno, Gesù tiene la mano sulla spalla di Pietro che lo guarda intensamente e sorride.

Catechesi

Paolo visse parte del suo periodo romano in carcere. Già la sua prima abitazione era stata una custodia militaris, cioè qualcosa di simile agli arresti domiciliari o ad una libertà vigilata. Quella condizione doveva poi essersi trasformata in una vera e propria detenzione.

La tradizione conserva nei sotterranei della Chiesa di Santa Maria in via Lata (l’antico nome dell’odierna via del Corso) una colonna alla quale Paolo sarebbe stato legato; su di essa venne poi posta l’iscrizione Verbum Domini non est alligatum, «la Parola di Dio non è incatenata» (2 Tim 2,9). Più noto è il Carcere Mamertino che ci è dinanzi.

Certo è che l’esperienza della prigionia fu per Paolo non solo dolorosa, ma anche feconda. Egli ben comprese che nella propria carne proseguiva l’opera di Cristo, dalla cui croce era nata la salvezza. Le catene non erano così semplicemente da affrontare o da fuggire, ma da trasformare in occasione di grazia.

Nelle catene egli continuava a vivere la responsabilità per tutte le chiese che lo aveva sempre animato e dalla detenzione confortava i suoi fratelli. Ma, ancor più, la sua testimonianza restava viva in prigione e diveniva annuncio di fede, come l’apostolo stesso racconta:

«Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio - e dovunque - si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12-14).

Era solo per amore di Cristo che egli veniva recluso. Già a Filippi Paolo era stato miracolosamente liberato dal carcere ed il carceriere si era convertito ed era stato battezzato insieme a tutti i suoi (At 16). Dal sangue e dalle catene dei martiri, in continuità con la croce di Cristo, continuava ad erompere l’acqua del battesimo e della salvezza.

In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella carne” (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali - la sua salute - non gli permettevano di realizzarli».

Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28).

Era questa la “spina nella carne” che Paolo doveva accogliere; il Cristo lo invitava a non fuggire l’incomprensione, l’ostilità ed addirittura l’odio che incontrava, ma a trarne motivo ed occasione di annuncio e di testimonianza. Il brano fa riferimento ad esperienze che non conosciamo da altri testi: sappiamo che fu percosso, ma 2 Cor ci dice che i 39 colpi furono inferti ben 5 volte. Che per ben 3 volte fu percosso con verghe. Sappiamo che fu lapidato una volta e si salvò solo perché lo credettero già morto. Conosciamo il naufragio di Malta, ma qui si dice che Paolo naufragò 3 volte. Si ricorda che viaggiò per migliaia e migliaia di chilometri senza arrestarsi e che i pericoli gli vennero da tutti, dai connazionali ebrei, dai pagani, addirittura dai falsi fratelli cristiani (il cosiddetto “fuoco amico” è forse il più doloroso, quando ti devi guardare le spalle dagli stessi cristiani, dagli altri preti, dalle persone care).

Eppure niente di tutto questo lo scoraggiò, né lo fece diventare un persona concentrata sulle proprie lagnanze. Dinanzi alle incomprensioni che incontrò, anche noi possiamo riconciliarci con i nostri insuccessi e non stare lì sempre a lamentarci, a ripeterci che se non fosse stato per quella o quell’altra persona, per quella o quell’altra situazione, allora sì noi avremo fatto qualcosa di buono.

In una bellissima canzone il cantautore romano Niccolò Fabi così descrive l’egocentrico che sempre si lagna dei torti ricevuti:

«Io che mi sveglio la mattina presto, io
Io che lavoro sempre tutto il giorno, io
Io sono quello che “nei miei panni”
Io sono quello che ogni volta paga i danni
Io solo soffro, io solo sono stanco
Io solo cerco di calmare il tuo tormento
Io che mia madre non mi ha mai capito
Io che mio padre non l'ho mai stimato
Ma, io, io, io, io , io, io, io, io, io, io […]
Tu non capisci la mia situazione
Tu non rispetti la mia condizione
Tu non ti sforzi, non mi incoraggi
Non accompagni mai nessuno dei miei viaggi
Io non mi sento mai gratificato
Io non mi sento mai realizzato
Io sono sempre pronto a perdonare
Io sono sempre pronto a rinunciare
Ma, io, io, io, io , io, io, io, io, io, io»

Paolo dichiara invece, nella stessa seconda lettera ai Corinti, la fecondità del suo essere esposto alla morte in favore della vita di coloro che accoglievano la fede:

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2 Cor 4,7-12).

Ognuno sa che nel matrimonio troverà gesti che non gli piaceranno. Che in parrocchia ci saranno problemi, che in diocesi tante cose non andranno. Che nel posto di lavoro, qualcuno remerà contro. Questo carcere ci ricorda che in situazioni estremamente più avverse di quelle in cui viviamo, Paolo e Pietro non smisero di battezzare nuovi cristiani e di vivere la fecondità dell’annunzio. Furono tribolati da ogni parte, ma mai schiacciati; furono sconvolti, ma mai si disperarono; furono perseguitati, ma mai abbandonati; vennero colpiti, ma portarono sempre e dovunque nel corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifestasse in loro.

Ecco che dalle catene sopportate in questo carcere, ecco che dalla morte di Paolo e Pietro è giunta a noi la fede. «Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6).

Merita ricordare che anche nella vita di Paolo la stessa prigionia si rivelò feconda anche dal punto di vista letterario. Egli battezzò persone nelle carceri come Pietro, ma vi scrisse alcune delle sue lettere. Infatti in alcune di esse (Filemone, Filippesi, Colossesi), Paolo fa chiaramente riferimento ad una situazione di prigionia nella quale egli si trova. Tali lettere vengono perciò abitualmente designate come “lettere dalla prigionia”. Ma anche Efesini e Colossesi, oltre alla seconda a Timoteo, conservano memoria del carcere di Paolo. Secondo il racconto degli Atti, Paolo venne recluso sia a Gerusalemme – e successivamente a Cesarea Marittima - in occasione del suo appello a Cesare per potersi recare nell’urbe, sia a Roma stessa. Tradizionalmente le lettere paoline scritte dalla reclusione vengono ambientate nel corso della prigionia romana, ma sempre più si fa strada l’ipotesi che potrebbero essere invece state spedite da Efeso, nel corso di un ulteriore periodo di detenzione subito dall’apostolo.

Un particolare della lettera ai Filippesi è di difficile decifrazione: nella lettera si fa riferimento alla presenza di cristiani appartenenti “alla casa di Cesare”: «Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare» (Fil 4,12). Se la lettera fosse stata scritta da Roma, si tratterebbe di convertiti al cristianesimo fra i dipendenti del Palazzo imperiale, mentre, se la redazione è avvenuta in Efeso, si tratta di dipendenti dell’autorità romana nella città dell’Asia minore.

Antologia per la riflessione personale

2Cor 11,24-33
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.

2Cor 6,4-10
In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!

14/ L’origine del male (dal punto panoramico presso il Campidoglio su via di San Pietro in Carcere)

Ambientazione

Dalla terrazza di via di San Pietro in Carcere si gode una bellissima vista sui Fori Romani. Dinanzi a noi è l’Arco di Settimio Severo.

È possibile immaginare da questo punto panoramico qualsiasi personaggio dell’antichità romana che passeggia per le vie dei Fori. Prima dei personaggi di età neotestamentaria vi invito ad immaginare il più grande dei Padri della Chiesa, sant’Agostino. Egli passeggiò a lungo per le vie di Roma ed in particolare nei Fori e nei Templi del Campidoglio.

Il luogo più appropriato per immaginarlo è certamente la Curia del Senato che ben si vede anche da questa terrazza, dove Agostino, che a quel tempo era un retore in carriera, sicuramente avrà passato molto del suo tempo insieme ai senatori, alcuni dei quali lo avevano anche scelto come insegnante dei loro figli. Non conosciamo, invece, precisamente né in quale edificio egli abitò, né dove risiedevano i manichei romani che gli offrirono ospitalità e che egli dovette frequentare nel corso della sua prima residenza romana

La Roma di Agostino era, più o meno, la Roma costantiniana, non ancora sconvolta dal primo sacco dei barbari che avvenne nel 410, quando Agostino era già tornato in Africa.

Simmaco, cugino di Ambrogio vescovo di Milano – di cui abbiamo già parlato in relazione alle polemiche per l’Ara della Vittoria e di cui parleremo ancora per i Giochi gladiatori che indisse in quegli anni -, era praefectus urbis a Roma. Per un paradosso della storia provvidenzialmente guidata da Dio, fu proprio lui, che lottava contro Ambrogio per cercare di riportare i culti pagani a Roma, a sostenere la candidatura di Agostino perché divenisse a Milano professore di retorica, perché pensava forse di trovare in lui, che era ancora manicheo, un aiuto presso l'imperatore contro i cristiani! Senza Simmaco, Agostino non avrebbe mai conosciuto Ambrogio e non sarebbe divenuto cristiano.

Il confronto fra paganesimo e cristianesimo doveva essere ancora molto vivo e le Confessioni, che non ricordano la polemica sull'Ara della Vittoria, ricordano invece che Simpliciano - il prete che ebbe un ruolo decisivo nella conversione di Agostino perché lo ascoltò e lo consigliò nel momento in cui quest'ultimo stava per divenire cristiano - fu a Roma testimone della conversione del filosofo pagano Mario Vittorino.

Proprio Simpliciano raccontò ad Agostino della decisione di Vittorino di proclamare il Simbolo di fede dinanzi a tutto il popolo, in un luogo che può essere identificato con sicurezza con la basilica di San Giovanni in Laterano (Confessioni VIII,2,3-5).

Agostino era giunto a Roma da Cartagine, l'odierna Tunisi, nell'anno 383, quando aveva circa 29 anni, per fare carriera come retore. Vi restò fino all'anno successivo nel corso del quale si trasferì a Milano, quando Simmaco lo propose come professore di retorica. Agostino aveva preferito Roma a Cartagine, perché, come egli stesso scrive, gli studenti del capoluogo africano non avevano alcun rispetto della disciplina e degli insegnanti e la scuola non riusciva pertanto ad essere veramente formativa, mentre gli era stato assicurato che la situazione dell'insegnamento a Roma era molto migliore.

Nell'urbe, invece, incontrò un diverso problema scolastico: gli studenti, in prossimità della fine dell'anno, si ritiravano e passavano ad un nuovo insegnante per esimersi dal pagare i compensi del docente che li aveva accompagnati nel corso dell'anno.

Che la situazione culturale di Roma fosse scadente è testimoniato anche da uno storico, Ammiano Marcellino, giunto anch'egli a Roma dalla provincia: egli ricorda come a Roma le biblioteche sembrassero “chiuse come le tombe” e riferisce il fatto che, nei momenti di recessione economica, si preferiva licenziare “gli insegnanti delle arti liberali” e trattenere 3000 danzatrici per i propri divertimenti (Res gestae XIV 6.1) - la situazione non sembra diversa da quanto anche oggi avviene in merito ai bilanci delle TV nazionali ed, in genere, delle spese per attività culturali, dove l'intrattenimento la fa da padrone!

Le Confessioni raccontano anche della forza di seduzione che avevano ancora i giochi del circo, quando riferiscono che Alipio, l'amico che proprio Agostino aveva sottratto a Cartagine al fascino dei giochi gladiatori, arrivato a Roma poco prima del suo maestro si era lasciato nuovamente trascinare dall'ebbrezza degli spettacoli cruenti del Colosseo (Confessioni VI, 8.13). Sui giochi ed il loro fascino torneremo più avanti.

Agostino fu spinto a cercare i favori di Simmaco per farsi concedere il trasferimento a Milano, perché Roma non gli permetteva quella promozione professionale che si aspettava. Infatti, non solo Costantinopoli era ormai più importante di Roma, ma lo era anche Milano che era stata scelta dagli imperatori d'occidente come luogo della loro residenza.

Agostino tornò poi nuovamente a Roma a trentatré anni circa, nel 387, pochi mesi dopo il suo battesimo, sulla via del ritorno in Africa. Egli era ridisceso nel Lazio per imbarcarsi con i suoi amici, divenuti cristiani, per ritirarsi a vita monastica a Tagaste. Ma i porti erano bloccati dall'usurpatore Massimo che si era ribellato all'imperatore Teodosio che a Costantinopoli si stava preparando per affrontarlo e sconfiggerlo.

Nell'attesa della partenza per Cartagine, Agostino abitò così per diversi mesi ad Ostia, quando morì la madre Monica. Morta la madre, Agostino da Ostia si trasferì nell'urbe fino alla metà del 388, quando finalmente poté imbarcarsi e raggiungere di nuovo Cartagine e poi Tagaste. In questo secondo periodo romano Agostino, ormai pienamente cristiano, certamente visitò le grandi basiliche che esistevano già dai tempi di Costantino: San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme e San Pietro - ma non vi è dubbio che si sarà recato in esse già nei mesi della sua prima permanenza in Roma. Lo possiamo immaginare qui, nei Fori, allora anche come cristiano già battezzato, insieme alla madre Monica ed al figlio Adeodato battezzatosi con lui e con l’amico Alipio.

Da questa terrazza, insomma, possiamo immaginarlo passeggiare nei Fori prima in compagnia di Simmaco e dei manichei, poi con i cristiani di Roma. E lo possiamo immaginare mentre discute del problema dell’origine del male che a quel tempo lo attanagliava.

Catechesi

Il cristianesimo è vero anche perché è l’unica religione che parla in maniera seria del male! Da dove viene il male? Se provate a chiedere da dove viene il male, vi accorgerete subito che tale questione suscita un interesse enorme - e giustamente. Eppure si ha paura di parlarne. Vogliamo affrontare questa grande questione proprio in questo luogo dove possiamo immaginare Ovidio che ne parla e alcuni anni dopo san Paolo che avrà continuato a spiegare a voce ciò che aveva detto per lettera ai romani, avendo compreso che di questa cosa essi erano interessatissimi a parlare, proprio qui nei Fori. Più avanti parleremo di Agostino e della sua comprensione cristiana del male come assenza di bene.

Del male sono state date nella storia diverse interpretazioni. Per una mentalità scientista, neo-darwinista – non darwinista, perché Darwin non era ateo – il male non esiste, perché il male non è un concetto scientifico. La lotta fra gli esseri è un elemento caratterizzante la selezione naturale: l’ambiente seleziona gli esseri più adatti a sopravvivere in quel dato contesto ed elimina gli altri. Pensiamo ai dinosauri: avrebbe senso dire che è stato un male la loro scomparsa? No, essi sono scomparsi perché non più adatti all’ambiente che si modificava.

Ma se io dicessi che, in fondo, è normale che l’ambiente selezioni gli esseri umani, ad esempio nelle zone desertiche o nelle zone dove manca il cibo, direi qualcosa di sensato? Non possiamo non parlare del male quando parliamo della morte di un essere umano, a differenza di tutti gli altri esseri. Parlare del male, vuol dire entrare di petto in un ambito che non è quello scientifico, vuol dire affermare che la scienza non basta, vuol dire cercare con la filosofia e con la teologia la verità sul male. Perché giustamente noi uomini non ci rassegniamo al fatto che resistano solo gli individui adatti all’ambiente: noi sentiamo che è un dovere morale per ogni uomo combattere a favore del meno adatto all’ambiente e non accettare passivamente la sua eliminazione.

Ci accorgiamo del male non appena smettiamo di giustificarci e ci accorgiamo che qualcuno fa a noi del male. Noi sappiamo che è male, che quella persona si sta comportando ingiustamente. Abbiamo talmente dentro di noi la “legge naturale” che sentiamo quando qualcuno ci fa del male. Ma sentiamo anche che dobbiamo essere noi a compiere il bene, sentiamo che non ci basta studiare le leggi scientifiche - Kant diceva che l’uomo è consapevole del cielo stellato sopra di sé (cioè della scienza) e dell’esigenza di compiere il bene che ha nel cuore (cioè della coscienza). A tutti noi piacciono le storie epiche come Il signore degli anelli, come Le cronache di Narnia, ma anche come Harry Potter o Star Wars, perché sentiamo che dobbiamo essere come dei cavalieri che combattono per il bene e , se necessario, muoiono per esso, si sacrificano per il bene dei loro amici.

Dunque il bene ed il male esistono, dunque il male morale esiste, dunque esiste la lotta far il bene ed il male. Ma da dove viene il male?

Se gli scientisti dicono che il bene e il male sono concetti metafisici e quindi debbono essere eliminati, altri sentono che il bene e il male esistono, ma affermano che essi esistono da sempre. Qualche pensatore arriva a sostenere che solo l’esistenza del male permette di capire cosa sia il bene, giungendo a dire allora che il male è originario e necessario. Si pensi ai sistemi dualisti, come il manicheismo che Agostino affrontò, dove il male è fatto risalire ad un principio originario come il bene. Da sempre ci sarebbero in lotta un dio del bene ed un dio del male, responsabili ognuno per la sua parte nella lotta fra le creature esistenti.

Anche oggi molte persone portano al collo il simbolo del Tao te ching (o Daodejing) che cerca di mostrare come gli opposti (bianco e nero, ma anche bene e male, semplificando) siano indissociabili l’uno dall’altro. Anzi dentro ogni “bianco” ci sarebbe una punta di “nero” e dentro ogni “nero” una punta di “bianco”: non sarebbe possibile denominare il bianco se non per opposizione al nero. Anche nella mitologia induista esiste un dio della distruzione che sarebbe paradossalmente anche il dio della fecondità, perché permetterebbe dopo la distruzione la ricostruzione – lo Shiva della Trimurti.

Ebbene il cristianesimo fece piazza pulita di ogni visione dualista. Se esiste un solo Dio, un solo Creatore, non si può dire che c’è un creatore del male, perché ciò metterebbe in discussione l’unicità di Dio. Ma allora da dove viene il male, se il male c’è, contrariamente a chi lo esclude per una visione scientista del reale, e se il male non viene da Dio, contrariamente a chi ritiene che ci sia un dio del male?

Sì, perché questa è l’incredibile comprensione esistenziale che ne ebbe sant’Agostino illuminato dalla fede cristiana: c’è un solo Dio e quindi tutto ciò che è creato è buono. Tutto ciò che esiste viene da Dio, Dio è buono e quindi tutto non può che essere buono.

Ma allora da dove viene il male se tutto è buono? Più avanti vedremo come ne parla san Paolo, ma già ora conviene fornire la sintesi che del suo pensiero farà la fede cristiana, aiutata da quel grande lettore di Paolo che fu Agostino. Per Agostino il male è assenza di bene. Il male non è una cosa come il bene, non ha un’origine divina come il bene. Anzi, a voler essere precisi, per Agostino il male è il rifiuto di Dio, è il rifiuto del bene, la lotta contro il bene, piuttosto che la semplice assenza. Ogni creatura deve la propria esistenza a Dio e si rivolge verso di Lui per accogliere il bene e l’esistenza che Egli continuamente le dona. Ma se io, a motivo della mia libertà che è di per sé buona, volgo le spalle a Dio, mi rivolgo verso il nulla. Dimentico di averlo davanti, anzi mi rifiuto di averlo davanti e mi ritrovo non dinanzi a qualche cosa d’altro, ma solo dinanzi al nulla. Ecco il dramma. Se Dio è la vita ed io diffido di Lui che è la vita, se Dio è la vita ed io mi rifiuto di seguire la sua via che mi porta alla vita, anzi lo rinnego accusandolo di esser causa di infelicità, lo accuso di “non volere che io diventi come Lui” – è il peccato originale – ecco che io nel mio orgoglio mi precludo l’unica via che conduce alla vita. Togliendo la fiducia all’Unico che è affidabile, mi ritrovo nell’assenza del bene, mi ritrovo senza il bene, mi ritrovo solo nel peccato e nella morte.

Per meglio capire questa “assenza del bene”, si può pensare al maligno, al diavolo. Egli non è nato tale. Era un angelo, dice la fede della Chiesa - qualcuno aggiunge che era il più bello degli angeli creati da Dio. Era stato creato per amare, come Michele, come Raffaele, come Gabriele, come i nostri angeli custodi. Ma si rifiutò di amare e la sua esistenza, da quel momento, si è mutata in assenza di bene, in rifiuto del bene. Egli non cerca più di amare, ma di far morire e di distruggere. Ecco perché è così triste. Ma egli resta una creatura e non è Dio. Solo Dio è Dio, il diavolo è una povera creatura che ha rifiutato il bene per il quale era stata creata.

Sono illuminanti su questo le riflessioni degli allora professori W. Kasper e J. Ratzinger. Il primo scrisse: «il diavolo è una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona». Questo passaggio del teologo tedesco rimanda, a sua volta, ad una riflessione di J. Ratzinger che aveva precedentemente affermato: «quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani».

Il Maligno è, cioè, certamente un essere personale, qualcuno che liberamente cerca il male dell’uomo. Ma qual è il suo modo di essere persona? Cosa significa che egli è persona nella “forma della non-persona”? Poiché essere persone vuol dire, precisamente, avere delle relazioni, voler bene, identificarsi come amanti che si donano, il diavolo è al contrario colui che a nessuno vuole bene, colui che tutti cerca, senza amare nessuno. È persona che ha rinnegato ciò che costituisce precisamente l’essere persona: l’amore.

Dante, con un’immagine potentissima, ha descritto la condizione del Maligno attraverso il mare di ghiaccio nel quale egli è avvolto (e non si dimentichi che C.S. Lewis, ne Le cronache di Narnia, ha ripreso la stessa immagine). Più che il fuoco, per Dante è il gelo del freddo a rappresentare un cuore che non ama, che non prova alcun calore, che non cerca il bene e l’affezione. Il sommo poeta, nel XXXIV canto dell’Inferno, ha scolpito l’eterna tristezza del male, rappresentandolo con tre paia d’ali: «e quelle svolazzava, / sì che tre venti si movean da ello: / quindi Cocito tutto s’aggelava» (Inferno, XXXIV, vv. 50-52).

Il Cristo, invece, restituisce all’uomo ogni relazione, lo riporta alla pienezza della sua umanità, aprendolo alla fede ed alla carità che anima ogni relazione veramente “personale”, rivelando all’uomo, cioè, la sua natura di “persona”.

Tutto, insomma è buono e creato per essere in relazione con Dio: solo una realtà non è stata direttamente voluta e creata da Dio: il male. Il cardinale Newman disse una volta in maniera straordinaria: il peccato è «l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua».

Tutto è buono, tutto è creato da Dio, ma se si voltano le spalle a Dio, ecco che ci si ritrova senza Dio, contro di Lui, senza la vita, contro la vita.

Vale la pena vedere più in dettaglio il pensiero di Agostino che egli elaborò via via proprio qui mentre passeggiava per i Fori e vi insegnava, ancora da manicheo.

Agostino parla più volte del male nelle Confessioni. In particolare nel Libro VII esplode con la serie di questioni che meditava da manicheo: «Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potente al massimo grado e enormemente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le abbraccia e le riempie. Allora dov'è il male, da dove e per quale via è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? [...] Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da ciò da cui le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non convertì in bene? […]". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli che mi incalzavano, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità» (Confessioni VII,5.7).

Agostino era stato attratto dai manichei proprio perché erano fra i pochi che affrontavano il problema del male. Per divenire cristiano dovette rinnegare le loro posizioni, ma esse avevano per lui almeno il merito di avere posto il grande problema del male che altri nemmeno affrontavano.

I manichei affermavano che il male esisteva perché all'origine di tutto non c'era un unico Dio buono, bensì fin dall'origine coesistevano due divinità in lotta fra di loro, l'una responsabile del male e l'altra del bene. Dall'evidenza dell'esistenza del male essi traevano dunque la conclusione che non vi era solo un Dio buono.

Si capisce immediatamente come il problema del male e quello di Dio siano connessi inestricabilmente. I manichei rispondevano alla grande domanda sul perché del male sostenendo che il Dio buono non era il creatore della materia, perché essa è evidentemente incurante del bene della singola persona. Dio era responsabile solo del bene che esisteva.

Il manicheismo era un sistema dualistico, ben diverso dal monoteismo biblico. L'iniziatore di questa prospettiva filosofico-religiosa era un personaggio di origine persiana, Mani appunto, vissuto nel III secolo d.C., pochi decenni prima di Agostino. Il suo pensiero poi si era diffuso nell'impero romano, che garantiva la circolazioni di persone, mezzi e messaggi, grazie alla sicurezza delle comunicazioni.

Anche la comprensione della vita interiore dell'uomo propria dei manichei dipendeva da questa visione. Essi affermavano che c'è nell'uomo una propensione al male, così come c'è il desiderio del bene ed attribuivano la prima alla divinità del male ed il secondo al Dio vero e buono.

Proprio a partire da questa falsa analisi dell'interiorità umana iniziò il distacco di Agostino dal manicheismo. Agostino, infatti, rivendicava la responsabilità piena delle proprie azioni nella consapevolezza che non si poteva attribuire ad una divinità “cattiva” il male che l'uomo commetteva:

«Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. Quando volevo o non volevo una cosa ero certissimo di essere io, non un altro, a volere e non volere; e capivo sempre meglio che qui si annidava la causa del mio peccato […] Ma chi ha piantato e innestato in me questa piantagione d'infelicità, se io sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio?". Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell'errore dove nessuno più ti loda, se preferisce pensare che sei Tu ad essere sottoposto al male, piuttosto che crederne l'uomo capace» (Confessioni VII,3.5).

Agostino cominciò così a capire che l'uomo è realmente responsabile delle proprie azioni ed anche del male che compie. Si faceva strada in lui l'idea che il male non era necessario, non era coeterno con Dio e Dio non era costretto a subirlo; non riusciva però ancora a trovare una visione dell'origine del male che lo convisse.

Solamente la certezza che Dio è il creatore di tutto e che tutto è buono, lo aiutò a incamminarsi verso la soluzione dell'enigma:

«Mi si rivelò nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero comunque beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; se non fossero beni affatto, non avrebbero nulla in se stessi di corruttibile [...] Dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose molto buone» (Confessioni VII,11.17-12.18).

In questo importantissimo brano si vede come Agostino sia giunto finalmente ad apprezzare tutto il creato come opera di Dio: non c'è nessuna cosa creata che sia cattiva e il male non è allora qualcosa che è stato creato già maligno bensì è, piuttosto, una privazione di bene.

Solo il bene è all'origine di tutto e tutto ciò che è creato è bene, ma, a causa del peccato, è possibile perdere il beneecco allora che il male è “privazione di bene”!

Agostino elaborò così, in piena consonanza con San Paolo e con tutto il messaggio biblico, il concetto che il male è assenza di bene. Il male, cioè, non è un principio che ha una forza pari a quella di Dio. Con la fede cristiana Agostino afferma con forza che c’è un unico creatore: non esistono una divinità del bene ed una del male, come sostenevano i manichei.

Il male interviene nella creazione successivamente, tramite il peccato, perché il peccato viene commesso dalle creature. È il male a voler far credere agli uomini di essere originario come Dio, indispensabile come Dio, invincibile come Dio, mentre in realtà non lo è assolutamente.

E che cosa è precisamente il peccato, cosa è precisamente questa “privazione” del bene? Nella sua radice ultima è il rifiuto di Dio. Ogni cosa è buona perché è in relazione a Dio, perché da Dio riceve esistenza e perché da Lui è conservata in vita. Anche la creatura, che pure è un bene corruttibile, se resta in relazione a Dio incorruttibile può ricevere da lui la vita eterna, può scoprire di essere amata, pur sapendo di non essere il tutto.

Ma quando la creatura si sottrae a Dio, gli volta le spalle e si taglia fuori da Lui, ecco che, da sola, scopre di non bastare a se stessa, scopre di essere priva del bene.

Proprio questo è il “peccato originale”, il primo peccato, il peccato che porta con sé tutti gli altri. Proprio questo è il peccato originale di cui parla san paolo, come abbiamo appena visto.

Agostino esclama: «In Te [Dio] il male non esiste affatto, e non solo in Te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l'ordine che vi hai imposto»(Confessioni VII,13.19).

Il male è piuttosto distogliersi da Dio, è assenza di Lui, è, soprattutto, rifiuto di Lui che è la vita, l'essere, il bene:

«Cercai l'essenza della malvagità e trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, che si allontana dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse» (ConfessioniVII,16.22). In questo ultimo testo appare chiaramente la visione cristiana del male. Quando Agostino afferma che il male è assenza di bene, non ha in mente una semplice mancanza, ma una vera avversione, una vera “distrazione” dal bene: chi si rivolta contro Dio, chi lo esclude, chi toglie la fiducia all'Unico che è affidabile, si ritrova nel non senso, nell'inimicizia, nella morte. Chi nega la carità che nasce da Dio e la speranza che da Lui è fondata, si trova senza amore e senza prospettiva, solo con se stesso.

Ecco che ad Agostino appare allora tutto l'errore dei manichei che ritenevano invece il male una sostanza parimenti esistente come il bene: «Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto» (Confessioni III,7.12).

Come spiegherà bene G.K. Chesterton, questa visione del male non solo non è pessimistica, ma è anzi la garanzia della bellezza della vita: «Il peccato originale è una visione del mondo. È la visione del mondo non solo più illuminante, ma anche più incoraggiante [...]: abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia» (G.K. Chesterton, Perché sono cattolico (e altri scritti), Torino, Gribaudi 2007, pp.136-137).

15/ Il peccato originale (in piazza del Campidoglio)

Ambientazione

Siamo giunti in piazza del Campidoglio. Guardando verso i Fori, in età romana, avremmo avuto a destra il Tempio di Giove Ottimo Massimo al Campidoglio e a sinistra il Tempio di Giunone Moneta (ammonitrice), il primo sul Capitolium, l’altro sull’Arx, l’Arce – le due cime del Campidoglio antico.

Sulle due sommità c’erano i due grandi templi capitolini. Sul Capitolium c’era il tempio di Giove Ottimo Massimo, che è l’equivalente latino dello Zeus greco, il dio supremo del pantheon romano (da Zeus/Giove viene la nostra parola Dio, attraverso il latino Deus) venerato con le sue due donne, la moglie Giunone e la figlia Minerva che, con lui, formano la triade capitolina. Deus era la divinità paterna, divinità solare, dio del cielo, dei fulmini e del tuono, Giunone era la divinità lunare, femminile, protettrice dei parti e della fecondità, Minerva era la dea dell’intelligenza e delle arti. Nei Musei Capitolini sono visibili i resti del maestoso basamento di questo tempio che sono stati riportati alla luce nei recenti scavi, subito dietro l’esedra sistemata dall’architetto Aymonino dove è stata collocata la statua equestre di Marco Aurelio.

Sull’Arx, cioè dove ora è la chiesa dell’Aracoeli, era l’altro grande tempio, quello dedicato a Giunone Moneta, cioè a Giunone venerata come l’ammonitrice, la consigliera. Siccome vicino a questo tempio sorgeva la zecca romana ne è derivata la nostra parola moneta ad indicare il denaro, dall’attributo di Moneta dato a Giunone.

Non dimentichiamo che in età classica i luoghi di culto erano rivolti verso i Fori che erano il centro della Roma antica, mentre nel medioevo le chiese vennero rivolte in senso opposto perché i Fori erano ormai disabitati e la città abitata era tutta circoscritta nell’ansa del Tevere.

Possiamo immaginare qui, in visita ai due grandi templi dell’urbe Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-18 d.C.) che fu poeta ammirato, autore delle famose Metamorfosi. Venne poi condannato all’esilio, sembra per aver amoreggiato con Giulia II la seconda figlia di Ottaviano Augusto, creando il risentimento di Livia, seconda moglie dell’imperatore che a sua volta voleva forse il poeta per sé ed, insieme, intendeva favorire il figlio Tiberio, allontanando Giulia II che avrebbe potuto generare in futuro eredi.

Ovidio è figura interessantissima ai fini del nostro itinerario perché in lui troviamo una importante riflessione sull’impossibilità per l’uomo di vivere pienamente il bene a partire dalle proprie sole forze.

Negli Amores, Libro Secondo, scrisse: «Io non avrei il coraggio di difendere costumi disonesti e di impugnare armi ingannatrici in difesa delle mie colpe. Anzi, confesso, se confessare i peccati può in qualche modo giovare; ma ora, dopo la confessione, ricado come un insensato nelle mie colpe». Si vede in questo passaggio il suo riferimento alla possibilità di confessare i proprio peccati, ma anche all’inefficacia di questo atteggiamento – Ovidio ebbe tre moglie, contestò i costumi della tradizione romana (il mos maiorum) e scrisse la famosa Ars amatoria, aprendo la via ad uno sganciamento della sessualità da una stabile relazione affettiva.

Più famosa ancora è la sua notissima espressione: «Video meliora proboque, deteriora sequor», che si può tradurre «Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori» (Ovidio, Metamorfosi, VII, 20), versi così famosi che vennero ripresi dal Petrarca, Canzoniere CCLXIV: «E veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio», da Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato I, 1, 31 «Ch'io vedo il meglio ed al peggior m'appiglio» e dal Foscolo, Sonetti II, Di se stesso«Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio».

Proprio san Paolo, scrivendo la lettera ai Romani in preparazione al suo viaggio, scrisse parole simili, ma giungendo a diverse conclusioni, poiché giunse a presentare il peccato originale e la possibilità reale che Cristo ce ne liberi. Possiamo immaginare anche lui in questi luoghi – come abbiamo già detto egli arrivò a Roma in una data che è difficile precisare con esattezza, fra il 59 e il 61.

Paolo visse in Roma almeno 3 anni. Alcuni studiosi vogliono anche che si sia allontanato da Roma e vi sia poi tornato, concretizzando l’ipotesi di un viaggio in Spagna. In pratica, lo possiamo immaginare passeggiare in qualsiasi luogo dell’attuale centro storico, tanto lunga fu la sua presenza in Roma prima del martirio. Sicuramente passò molto tempo nei Fori e salì proprio qui, al luogo dove sorgeva il tempio della Triade capitolina. Si può facilmente dedurre la cosa, vedendo come egli si comportò in Atene, come ci è descritto in At 17,16-34. In At 17,16-19 in particolare si dice: «Paolo fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli. Frattanto, nella sinagoga, discuteva con i Giudei e con i pagani credenti in Dio e ogni giorno, sulla piazza principale, con quelli che incontrava. Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui, e alcuni dicevano: “Che cosa mai vorrà dire questo ciarlatano?”. E altri: “Sembra essere uno che annuncia divinità straniere”, poiché annunciava Gesù e la risurrezione. Lo presero allora con sé, lo condussero all’Areòpago». Quando poi prende la parola all’Areopago (il tribunale di Ares ad Atene) si riferisce ai templi che ha visitato in città, si riferisce, anche se indirettamente, al Partenone nello stesso discorso in cui parla dell’altare al Dio ignoto: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo» (At 17,22-24).

Si vede qui come Paolo faceva riferimento ai templi, nel caso di Atene sicuramente al Partenone che avrà visitato, ed alle numerose statue di divinità che si trovavano proprio nei templi pagani.

Lo stesso deve essere accaduto anche a Roma. Avrà parlato con i filosofi qui nei Fori, chissà se avrà incontrato Seneca o se qualcuno gli avrà parlato di Ovidio. Certamente sarà salito al Campidoglio a visitare il Tempio della Triade capitolina, spiegando ai suoi discepoli ed annunziando ai romani di allora che le tre divinità lì adorate erano solo idoli, fremendo per la distorsione del volto di Dio operata da chi riteneva le divinità politeiste corrispondenti alla verità ed annunziando invece che il Dio fin lì ignoto si era rivelato nell’amore del Cristo.

Catechesi

Paolo è il maestro di Agostino. Ma Gesù Cristo è il maestro di Paolo. Non è stato Paolo a cambiare il messaggio di Gesù, bensì è stato Gesù a convertire Paolo. Paolo è colui al quale Cristo rivela ciò che già aveva rivelato ai Dodici, che non si giunge a Dio con le proprie forze: il Cristo che appare a Paolo sulla via di Damasco gli mostra che l’uomo ha bisogno di essere amato per poter amare, che l’uomo ha bisogno della grazia divina rivelatasi nella croce per vincere il male.

In questo luogo vogliamo parlare del peccato originale, così come Paolo lo comprende dinanzi alla grazia sovrabbondante di Cristo che ci libera da esso e da ogni male. Per Paolo, infatti, come poi per Agostino, non si può parlare del male se non alla luce del bene, non si può parlare del peccato se non nella luce della grazia.

Paolo volle preparare la sua venuta a Roma, come già si è detto, inviando una lettera ai Romani. In essa si sofferma sul “mistero” dell’uomo, per mostrare come l’uomo abbia bisogno di Cristo e del suo amore. Dell’uomo egli vede le luci e le ombre ed invita a considerarne la dignità alla luce di Cristo, ma anche le ferite che segnano ogni cuore.

Paolo vede certamente le luci dell’uomo, perché sa che la creazione è buona. L’apostolo ritiene l’uomo capace di riconoscere la presenza di Dio nel mondo. Infatti – afferma - «dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20).

Non solo. L’uomo è anche in grado di riconoscere il bene ed il male perché anche i pagani, che pure non hanno ricevuto il Decalogo, «dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15).

In questa duplice relazione con Dio e con gli altri uomini, in questa ricerca di verità e di un retto operare sta tutta la grandezza dell’uomo. Tutto questo è immenso. Vuol dire riconoscere che ogni uomo anche prima di Cristo – e anche al di fuori di Cristo – è capace di giungere alla consapevolezza dell’esistenza di Dio con la forza della propria ragione ed è capace di conoscere il bene ed il male grazie alla voce della propria coscienza che è la voce di Dio nel nostro cuore.

Paolo ebreo ha stima, insomma, dei pagani, dei “lontani” da Dio, ha stima parla bene anche di coloro che non hanno conosciuto la legge di Mosè. Ne ha stima perché è l’uomo ad essere ad immagine di Dio. È l’uomo ad essere buono. Perché non c’è un creatore del male, perché esiste l’unico Dio e tutto ciò che Dio crea è buono.

Ma Paolo, subito, vede anche le ombre dell’uomo. Gli uomini «pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa» (Rm 1,21), giungendo ad immaginare Dio come egli non è. «Essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore» (Rm 1,25). Questo ha portato con sé – prosegue la lettera ai Romani - uno stravolgimento delle relazioni umane: poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, essi sono diventati «colmi di cupidigia, di malizia, d'invidia, di rivalità, di frodi; diffamatori, maldicenti, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, non solo continuano a fare tali cose, ma anche approvano chi le fa» (cfr. Rm 1,29-32; e l’elenco dei vizi umani è molto più lungo nella lettera!).

Ecco il mistero dell’uomo, ecco la sua realtà contraddittoria. Socrate aveva affermato che l’uomo fa il male solo perché non ne è consapevole. L’educazione filosofica consisteva precisamente, secondo la sua proposta, nel far prendere coscienza del male; egli era convinto che, attraverso questo processo, l’uomo avrebbe vinto da se stesso il male presente nel suo cuore.

Paolo è più moderno e più profondo del pensatore greco. L’apostolo afferma, infatti: «Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me» (Rm 7,18-19.21).

Quindi per Paolo, a differenza di Socrate, l’uomo sa già che determinate azioni sono cattive, eppure le compie lo stesso! L’uomo sa già che determinate azioni sono buone eppure non le compie lo stesso! Si pensi al fatto che ricadiamo sempre negli stessi peccati. Paolo è più moderno e vero di Socrate: Paolo annunzia che non basta la conoscenza del bene e del male, bensì è necessaria una passione, una grazia, un amore che mi sostiene nella fedeltà alle scelte che debbo compiere.

In un famoso passo il Concilio Vaticano II riprende questa lettura del cuore umano, presentando la divisione che esiste all’interno del nostro animo. L’uomo anela ad una armonia, ad un cuore unificato, proteso verso il bene, ma si scopre anche capace di cattiveria e di indifferenza. La Gaudium et spes afferma, infatti: «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (GS 13). Il Concilio è d’accordo con Ovidio e con Paolo!

Ed ecco la paradossale visione dell’uomo che emerge dalla fede: un uomo buono nel quale però è entrato il rifiuto di Dio, un uomo buono che deve però lottare con la diffidenza verso Dio che il peccato ha generato. Paolo lo dice con parole di una verità esistenziale incredibile: «Io non riesco a capire ciò che io faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15). L’uomo ha bisogno di Cristo per ritrovare la relazione con Dio e vincere quella lontananza da Dio in egli stesso si è posto.

Come ha affermato con grande chiarezza il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, all’apparire di Cristo l’uomo comprende finalmente cosa sia l’amore ma, al contempo, prende coscienza di non aver mai amato di quell’amore, prende coscienza di non essere capace di quell’amore.

Paolo raggiunse Roma perché conoscitore dell’ambiguità del cuore umano, perché consapevole che il cuore è bisognoso di un aiuto, di una grazia necessaria e pure imprevedibile. Nella lettera è come se dicesse che vuole condividere con i romani il Vangelo, perché senza di esso essi resterebbero nell’incapacità di vincere il male.

«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo ereditò dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorse, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo.

Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)? Perché non lo si può semplicemente seguire, tanto in esso si combattono voci diverse?

Paolo risponde: perché il peccato originale ha cambiato il nostro cuore, perché il peccato del primo uomo ha allontanato i nostri cuori dalla vita.

Si noti che nella teologia l’espressione “peccato originale” ha due significati strettamente connessi. In primo luogo il peccato originale è la condizione in cui l’uomo si trova senza Cristo, è la condizione attuale nella quale l’uomo scopre di avere un cuore diviso: “oggi”, “adesso”, a fianco della voce della coscienza, parla anche la voce della tentazione, parla anche una voce che invita a non fidarsi di Dio. È quello che i teologi chiamano il “peccato originale originato”, cioè la conseguenza in noi del peccato di origine. È ciò che abbiamo visto fin qui e che il Concilio descrive così bene: «L'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso» (GS 13).

Ma l’espressione “peccato originale” vuol dire anche una seconda realtà: il peccato originale “originato” presente in noi dipende dal peccato originale “originante” commesso dal primo uomo. L’uomo non è per essenza peccatore, bensì è stato creato buono. Il primo uomo non era stato creato per vivere la divisione del cuore che noi sperimentiamo oggi: essa è entrato nel suo cuore solo successivamente per il suo rifiuto di fidarsi di Dio e da li è stata trasmessa a tutti.

Il peccato originale “originante” è quello di Adamo, come spiega Paolo nella lettera ai Romani: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo» (Rom 5,12).

Il fatto che il peccato sia entrato successivamente nel mondo – anche se vi è entrato subito - dice che l’uomo è buono. L’uomo è stato creato come creatura buona, ma si è volto contro Dio, lo ha rifiutato, ha addirittura diffidato di Dio, ha diffidato dell’unico affidabile. Il desiderio di Dio era – ed è - che l’uomo avesse la sua stessa vita divina, la sua stessa vita eterna, la sua vita di amore, ma l’uomo ha ritenuto, invece, che Dio non volesse il suo bene, ha pensato che fosse meglio diffidare di Dio, ha pensato che Dio non volesse che noi “diventassimo come Lui”.

Il tentatore insinua nel cuore di Adamo ed Eva proprio questa tentazione: «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio» (Gen 3,5). L’uomo giunge così a pensare che Dio non lo ama, che Dio gli vuole male, che si debba diffidare di Dio, che si debba fare il contrario della volontà di Dio, quasi che Dio non volesse farci diventare come Lui, non volesse darci la sua felicità e la vita che egli possiede in pienezza.

Il peccato originale è il primo peccato, ma è anche l’archetipo di ogni peccato: è il peccato “originale”, è il primo peccato ed il peccato DOC – si potrebbe dire. Diffidare di Dio, diffidare cioè dell’Unico affidabile, e perdere così colui che ci è necessario per vivere ed essere felici: ecco il peccato originale “originante”, quello che ha causato la nostra condizione attuale.

Esiste un paragone che ci può far capire qualcosa di come quel primo peccato abbia potuto influenzarci, il paragone con la trasmissione della grazia. Noi riceviamo la grazia per l’amore di Cristo e per le opere di carità compiute dalla Madonna e dai santi. Ognuno, infatti, attinge al tesoro della Chiesa: se un uomo compie il bene, anche in segreto, ecco che quel bene giova a tutti, anche a coloro che non hanno alcuna conoscenza concreta di quella persona che ha operato il bene. Un santo porta e sostiene tutti, anche i peccatori, ognuno nella Chiesa porta tutti i fratelli con la sua vita di grazia e li aiuta, perché la grazia si diffonde dall’uno all’altro in maniera “misteriosa”.

Così è avvenuto – in forma contraria - con il male commesso dai progenitori: il loro peccato, la loro diffidenza verso Dio, hanno impedito che a noi venisse trasmesso tutto il bene che Dio voleva giungesse spiritualmente a noi tramite la loro mediazione

Ma c’è un ulteriore punto che Paolo pone al centro della lettera ai Romani. Lo pone al centro per parlare del “mistero” dell’uomo. Ed è il punto principale, il punto più importante. Paolo non parla solo della bontà originaria e mai persa dell’uomo, Paolo non parla solo del peccato che si è introdotto nel nostro cuore, del peccato che noi sperimentiamo oggi nella divisione del nostro cuore – il peccato originale originato – quel peccato che proviene a sua volta dal primo peccato di Adamo – il peccato originale originante. Paolo parla soprattutto di Cristo.

Per Paolo, il parlare ai romani del peccato originale è solamente un passaggio per aprire ancora di più i loro cuori alla gioia della vittoria donataci da Cristo, perché proprio la sua croce ci ha liberato da quella condizione che sembrava invincibile.

Se «tutti hanno peccato» a motivo di Adamo (Rm 5,12), ecco che ora in Cristo tutti sono liberi.

Paolo parla del peccato per parlare di Cristo, per parlare di Colui che lo sconfigge: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un uomo solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rm 5,15).

In quel “molto di più” sta tutta la fede cristiana. L’uomo è partecipe del peccato del primo uomo: quel peccato arreca delle conseguenze che ogni generazione deve portare, proprio perché nessun uomo esiste in una individualità a sé stante, bensì la colpa di ognuno arreca danno a tutti fratelli. Ma allo stesso modo e “molto di più” la grazia di uno solo, l’amore del Cristo stesso, viene da lui partecipata a tutti gli uomini.

Proprio questa concezione così realistica di un peccato che danneggia tutti è assente spesso nella coscienza dell’uomo. Ed è uno dei motivi per i quali il peccato sembra essere un male, in fondo, non così rilevante e decisivo. Ma allo stesso modo e “molto di più” anche la gioia e la consolazione della vita scompaiono se l’uomo si chiude in se stesso senza essere aperto alla grazia e al bene che gli vengono dalla relazione con i fratelli e dalla comunione con Dio che il Cristo è venuto a donare, per grazia e senza che nessuno la meritasse.

G.K. Chesterton ha voluto rispondere così all’irrisione che spesso veniva – e viene – gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato – cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno – ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».

Paolo scrive ai Romani, invitandoli a considerare quanto la situazione umana porti le tracce di una comunione spirituale che è stata incrinata fin dal primo gesto libero di un uomo sulla terra, ma, “molto più” riesce a far sollevare lo sguardo a quel Dio che ha voluto «usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11,32).

Per “questo” uomo, così come esiste nella sua concretezza, Cristo è venuto. Ed è questo uomo che ha bisogno di Cristo per trovare in lui la forza di amare: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,24-25).

Paolo raggiunse Roma per gli uomini concreti, per i romani di allora, nel cuore dei quali, come negli uomini di oggi, sapeva essere in corso una lotta, la lotta fra il bene e il male che si combattono in ogni cuore umano.

Merita soffermarsi un istante anche sul genere letterario della lettera ai Romani. Essa contiene 7.101 parole. Nessun’altra lettera antica regge al suo confronto, almeno quanto ad ampiezza. Già questo fatto dice, da solo, l’importanza di questo scritto.

Una caratteristica di Romani, che la differenzia da altre lettere pagane a lei contemporanee, è quella di essere inviata per essere letta da una comunità. Al di fuori delle lettere neotestamentarie si conoscono lettere inviate a singoli (lettere familiari, di amore o di affari) o anche trattati in forma di lettera (come, ad esempio, le lettere di Seneca a Lucilio) composti da lettere che non sono state realmente inviate l’una dopo l’altra al destinatario. Questi ultimi sono così piuttosto degli scritti nei quali ogni lettera corrisponde ad un capitolo scritto a tavolino e destinato al pubblico più ampio dei lettori del tempo.

Paolo scrive, invece, a un’intera comunità, sapendo che la sua lettera sarà letta in uno o più incontri che vedranno radunati i cristiani di Roma. La lettera è così, per lui, uno strumento ecclesiale. Manifesta che la fede è personale, ma, al contempo, ha una dimensione comunitaria che vede coinvolta l’intera chiesa.

La lettera ai Romani, per quanto sia un testo diretto dall’apostolo ad una specifica chiesa, si presenta sotto la forma di un’esposizione sintetica e sistematica. Paolo non è pressato da urgenze immediate, come in altre lettere. Conosce solo alcuni cristiani della chiesa di Roma, ma vuole rivolgersi a tutti gli altri che ancora non lo conoscono.

Romano Penna ha scritto, sottolineando la specificità della Lettera ai Romani: «Essa si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in giro per il mondo».

Questo scritto manifesta così ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la teologia non è puramente narrativa, ma ha bisogno anche di uno sguardo sintetico che solo una riflessione sistematica può dare (così come necessita ulteriormente degli inni e delle professioni di fede, dei proverbi e delle liriche poetiche, ecc.). La teologia non nasce dopo il Nuovo Testamento, ma è presente in esso: Paolo, in Romani, vuole mettere in luce la realtà dell’uomo e della sua condizione di peccato, così come la verità di Dio e del suo disegno di misericordia realizzatosi nel Cristo.

Un passaggio del “Direttorio generale per la catechesi”, il documento di riferimento per la catechesi elaborato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, così si esprime a riguardo della necessità di quello sguardo sintetico che l’annuncio della fede deve proporre e che l’uomo stesso esige per comprendere cosa siano la vita ed il vangelo: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede» (DGC 128).

È maestro, in questo, Paolo, che avvertì l’esigenza, per sé e per gli altri, di esplicitare quale visione dell’uomo e del male, di Dio e della sua salvezza fosse presente nella fede che il Risorto sulla via di Damasco gli aveva rivelato.

Antologia per la riflessione personale

-cfr. Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo

16/ Sant’Agostino e la grandezza dell’uomo e del suo desiderio (dal panorama presso il Campidoglio su via di Monte Tarpeo)

Ambientazione

Eccoci a contemplare i Fori Romani da una diversa terrazza: questo forse è il più bel punto panoramico sui Fori. Subito al di sotto è il Portico degli Dèi Consenti, un portico dedicato alle 12 più importanti divinità a coppie, con una divinità maschile ed una femminile affiancate, ma lo sguardo spazia alla Via Sacra ed all’intero complesso di edifici pubblici. Si vede da qui chiaramente anche il tratto finale della Via Sacra che sale al Campidoglio.

Vogliamo tornare ad immaginare ancora sant’Agostino che passeggia nei Fori per meditare sulla grandezza del desiderio umano, così come lui, da cristiano, l’ha compresa. Vogliamo parlarne perché l’importanza del cuore, il narrare la storia di un cuore umano, nasce proprio dall’annunzio di Cristo che nel cuore c’è una lotta fra il bene e il male, dall’annunzio che il Figlio è stato mandato dal Padre per venire in soccorso del cuore umano e dei suoi desideri.

Catechesi

Per conoscere la vita di Agostino non mancano le fonti. Possidio ne scrisse la vita, ma, prima di questa biografia, già lo stesso Agostino, in molti dei suoi scritti, ci ha lasciato dei riferimenti autobiografici. Sono, però, soprattutto le Confessionia fornirci il racconto della sua vita dalla nascita fino alla morte di Monicaad Ostia, nel 387.

Le Confessioni sono un libro che Sant’Agostino scrisse a cavallo del secolo, in un periodo che viene posto dagli studiosi in una data oscillante fra il 397 e il 402 - la cronologia precisa è assai discussa -, comunque mentre era già vescovo di Ippona.

In filigrana è possibile rintracciarvi gli eventi esteriori della sua vita, ma ci si accorge subito che non è questa la loro finalità. A differenza di una normale autobiografia, le Confessioni non sono interessate a farci conoscere le tappe “fisiche” della sua vita, bensì l'itinerario della sua conversione e l'evoluzione del suo cuore.

Certo si viene a sapere - con l'aiuto anche delle altre fonti – che Agostino, nato nel 354 a Tagaste, l'odierna Souk-Ahras in Algeria, non venne battezzato, ma fu iscritto al catecumenato. Suoi genitori erano Patrizio, un pagano, modesto proprietario terriero, e Monica, una fervente cristiana.

Agostino studiò in diverse città fino a raggiungere Cartagine, capitale della regione - è l'odierna Tunisi - all'età di circa diciassette anni per proseguire gli studi. L'anno successivo morì il padre e Agostino prese con sé una concubina dalla quale, nel giro di un anno - Agostino aveva quindi circa 19 anni - ebbe un figlio che venne chiamato Adeodato.

Scoprì anche l'amore per la filosofia e la verità, leggendo un'opera oggi perduta di Cicerone, l'Ortensio. All'età di 21 anni circa tornò a Tagaste per insegnare. A 22 anni, alla morte di un amico carissimo, decise di tornare a Cartagine, vivendo come insegnante di retorica. A 29 anni si imbarcò per Roma per lasciarla poi a 30 anni, quando fu nominato professore di retorica a Milano, nel 384.

Questi i dati “fisici” della sua storia. Ma le Confessioni parlano di altro. Parlano della storia del suo cuore, del trasformarsi del suo modo di vedere la vita, dei suoi sentimenti, della sua ricerca del bene e della felicità. Così già il genere stesso del libro è di una novità straordinaria: si racconta la storia del cuore umano, di un solo cuore umano. Agostino ritiene meritevole di un'opera il racconto dei cambiamenti avvenuti nel suo cuore.

Nell'antichità ci sono poche opere che possono essere considerate anche solo lontanamente simili alle Confessioni, come, ad esempio, l'opera di Marco Aurelio I pensieri a se stesso. Questo è estremamente indicativo: è proprio del cristianesimo l'aver manifestato la grande dignità ed insieme l'enorme problematicità dell’interiorità umana. È proprio con Agostino che questo appare pienamente. Nelle Confessioni, al di là dei dati storici della vicenda agostiniana, si descrive la storia interiore del cuore, dei sentimenti, degli affetti, delle paure, del peccato, della ricerca di Dio, dei desideri appunto.

Questo spiega il titolo dell'opera che si richiama ad un'espressione che vi ricorre più volte: Agostino “confessa” a Dio o “confessa” ai suoi lettori i propri sentimenti, i propri pensieri.

Nell'opera confessioha un duplice significato: implica certamente la confessione del peccato, ma soprattutto la confessione della lode di Dio. Le Confessioni sono quindi un libro nel quale Agostino loda Dio per l'opera con cui lo ha trasformato interiormente. Si vede qui immediatamente come le Confessioni si possano certamente considerare un'opera di analisi esistenziale, ma, questa analisi non è autoreferenziale: la vita umana è letta e vista in profondità alla presenza di Dio. Anzi è proprio questa presenza che permette ad Agostino di scavare nel suo intimo.

Lo si vede bene fin dalle prime parole delle Confessioni: «Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti» (Confessioni I,1.1).

Le Confessioni sono, quindi, una lode a Dio da parte di un uomo che non è, di per sé, all'altezza di lodarlo, ma viene chiamato da Dio stesso ad elevare questa lode. Ed, infatti, subito dopo Agostino si domanda se viene prima il conoscere Dio o l'invocarlo, perché si ha bisogno di Lui. Cosa nasce prima: la scoperta del proprio peccato o la consapevolezza che tutta la vita non può che essere un inno di ringraziamento a Dio per i doni di cui ci ha colmato?

Il fatto è che nella fede cristiana uno scopre insieme di essere amato e di essere peccatore e se uno dei due aspetti manca, vuol dire che non si ha ancora ben chiaro né cosa sia la grazia, né cosa sia il peccato!

Agostino, a partire da questa riflessione autobiografica sul suo cambiamento interiore che gli ha fatto scoprire il peccato e la grazia, riflette sul fatto che la vita interiore dell'uomo deve destare meraviglia, deve ricevere attenzione, ancor più dell'esistenza dell'intero creato: «Gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi» (Confessioni X,8.15).

Agostino – come si è già detto - ha una comprensione dialettica del cuore umano: ha chiarissimo dinanzi a sé che il cuore umano non è unificato. Certo in esso c'è il desiderio del bene, ma in esso c'è anche la spinta a compiere il male. Non si tratta, pertanto, semplicemente di seguire il cuore, perché esso è diviso ed ha desideri contrastanti. Ed, in effetti, il cuore umano desidera mille cose che sono in contrasto profondo tra di loro, al punto che spesso la persona stessa non sa chiarire bene nemmeno cosa vuole. L'esperienza rende consapevoli che ci si può impegnare allo spasimo per raggiungere un obiettivo e poi scoprire, una volta raggiunta quella meta, che essa non ha il potere di renderci felici e sereni.

Nel cuore c’è tutto e il contrario di tutto. Agostino scopre che nel cuore umano c’è da un lato il peccato e dall’altro una sete inesauribile per la quale il cuore è sempre inquieto, sempre in ansia. Il cuore umano non è pacificato, non è sereno, le cose belle non bastano mai e Agostino si chiese come fosse possibile guarirlo. Si noti subito che, a differenza dei manichei che pensavano che il male proveniva dalla carne, dalla materia, le Confessioni mostrano che nel cuore, e non solo nella carne, è presente il bene come il male.

Questa difficoltà di capire il proprio cuore si manifesta nella sua apparente incontentabilità, che esige una spiegazione. Come è noto le prime righe delle Confessioni contengono quell'espressione famosissima che acquista significato proprio in questa chiave di lettura: «Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Te» (Confessioni I,1.1). Queste parole non vogliono sottolineare l'irrequietezza esistenziale dell'uomo che non si da mai pace, bensì, molto più radicalmente, vogliono indicare la scoperta che l'uomo non basta a se stesso e che neppure tutto l'universo basta all'uomo, poiché l'uomo è fatto per Dio e solo l'incontro con la misericordia di Dio pacifica l'uomo e lo conduce alla beatitudine. Possiamo dire che Agostino legge la scoperta dell'insoddisfazione perenne dell'uomo come un segno del suo essere stato creato per Dio: solo Dio sazia il cuore dell'uomo e gli permette di avere un rapporto bello con le cose e con le persone, perché le pone nella loro vera prospettiva, quella di doni suoi, pur non essendo esse stesse Dio, ma solo creature.

In questo senso, l'inquietudine di Agostino è una “santa inquietudine”, perché lo conduce alla scoperta che l'uomo non è autosufficiente, ma vive dell'amore di Dio e dell'amore dei fratelli e senza queste relazioni trova tutto inevitabilmente senza significato e non riesce a raggiungere la felicità.

Agostino non è il primo a porsi il problema della felicità, del piacere, del desiderio. Questa questione è antica quanto l'uomo, perché nasce dall'amore per la vita, dall'amore per se stessi, per gli altri, per il mondo. Più volte nei suoi scritti Agostino ricorda che non esiste uomo che non cerchi la felicità.

Agostino condivide con tanti pensatori la convinzione che non si possa essere felici semplicemente approfittando dei beni che il creato ci offre. Mi piace qui citare, in maniera provocatoria, il grande Epicuro, che spesso viene etichettato semplicemente come un bieco materialista. Se noi leggiamo i suoi testi e non ci limitiamo alle leggende che si sono costruite sulla sua figura, troviamo passaggi sorprendenti come questo: «Proprio perché il piacere è il nostro bene più importante ed innato, noi non cerchiamo qualsiasi piacere; ci sono casi in cui noi rinunciamo a molti piaceri se ce ne deriva un affanno. Inoltre consideriamo i dolori preferibili ai piaceri, quando da sofferenze a lungo sopportate ci deriva un piacere più elevato. Quando diciamo che il piacere è il nostro fine ultimo, noi non intendiamo con ciò i piaceri sfrenati, e nemmeno quelli che hanno a che fare con il godimento materiale, come dicono coloro che ignorano la nostra dottrina. La saggezza è principio di tutte le altre virtù e ci insegna che non si può essere felici, senza essere saggi, onesti e giusti. Le virtù in realtà sono un’unica cosa con la vita felice e questa è inseparabile da essi» (Epicuro, Lettera a Meneceo).

Notate in questo testo straordinario come si affermi che è necessaria una fatica per raggiungere il vero piacere, la vera gioia, come il desiderio indichi vie impervie. Ed Epicuro arriva ad affermare che senza virtù, senza una vita buona, non si può veramente assaporare integralmente il piacere ed essere felici! Perché solo vivere bene, solo vivere una vita che ha un senso, che è ricca di significato, riempie il cuore.

Agostino si colloca in questa linea. Egli ha scoperto, attraverso la sua riflessione e la sua esperienza, che il piacere e la felicità appartengono non solo alla carne, ma anche al cuore e che il cuore e la carne possono - anzi debbono - andare d'accordo e non opporsi.

C'è una bellissima Colletta nella messa della XX domenica che riprende in forma liturgica la riflessione agostiniana: «O Dio che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi che superano ogni desiderio».

Io amo molto queste espressioni: amare Dio in ogni cosa, amare Dio al di sopra di ogni cosa. Per la fede cristiana non si può amare Dio e disprezzare le persone o le cose. Non potrebbe mai attecchire nella coscienza cristiana qualcosa come il terrorismo suicida, dove io, appellandomi all'amore di Dio, arrivo ad odiare altre persone e dimostro nell'odio e nel mio disprezzo per la vita proprio il mio presunto amore per Dio. Piuttosto, se io non amo te, ciò significa che io non amo nemmeno Dio. Non basta amare Dio al di sopra di ogni cosa, lo si deve - e lo si può! - amare anche in tutte le cose.

Ma, allo stesso tempo, non basta amare Dio in ogni cosa: lo si deve - e lo si può - amare anche al di sopra di tutte le cose. Agostino scoprì che solo amando Dio al di sopra di tutto era poi possibile amare pienamente ogni realtà, ogni persona. E scoprì che questo amore “di Dio” non era primariamente l'amore che lui portava per Dio, ma che il nostro amore era preceduto dall'amore che da Dio abbiamo ricevuto, a cui ci siamo abbandonati con fiducia.

Questo amore di Dio in ogni cosa e al di sopra di ogni cosa è il tesoro più prezioso, è il cuore del desiderio e della pienezza della vita. In una densissima espressione Agostino scrisse: «Desiderium sinus cordis est» (Trattati su Giovanni, 40.10), è il desiderio di Dio il “seno” del cuore, il cuore del cuore umano: cioè è solo il desiderio di Dio che rende profondo il cuore, che scava il cuore, perché Dio è al fondo del cuore umano.

Agostino era convinto che il cristianesimo non era la mortificazione del desiderio, ma anzi l'unica via per raggiungerlo ed approfondirlo. Innanzitutto, si gode delle cose, perché esse ci guidano alla relazione con gli altri, perché le utilizziamo nell'amore, ma poi la scoperta della possibilità di essere in relazione con Dio ci fa scoprire che le cose e, ancor più, le persone escono dalle sue mani come doniE noi le amiamo in Lui che ce le ha donate e amiamo Lui che ce le dona.

E possiamo rinunciarvi se questo è utile per amare più liberamente le persone e il Signore stesso, perché questo amore è il vero godimento.

Agostino vuole dire che non è sbagliato godere, ad esempio, del cibo quando si ha fame. Anzi sarebbe follia trascurare il proprio nutrimento. Ma il vero godimento sta nel nutrirsi rendendo grazie a Dio delle meraviglie del creato che sono così buone da assaporare, godendo insieme della compagnia delle persone che divengono a noi sempre più care man mano che condividiamo insieme la mensa. Se si pensasse, invece, che la vera gioia, il vero piacere, consista nell'ingozzarsi di tutto ciò che si può mangiare ecco che questo impedirebbe, invece, di giungere alla pienezza della felicità.

Nei bellissimi Trattati sul vangelo di Giovanni, Agostino spiega che esiste un piacere dello spirito che è infinitamente più grande di quello semplicemente corporale e che è così grande che anche il corpo partecipa della dolcezza che prova lo spirito:

«"Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre" (Gv 6,44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l’anima è attirata anche dall’amore. Né dobbiamo temere di essere criticati per queste parole evangeliche della Sacra Scrittura da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le cose divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Nessuna meraviglia che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una forza di attrazione.
Che significa essere attratti dal piacere?
"Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore" (Sal 36,4). Esiste dunque una certa delizia del cuore, per cui esso gode di quel pane celeste. Il poeta Virgilio poté affermare: Ciascuno è attratto dal proprio piacere. Non dunque dalla necessità, ma dal piacere, non dalla costrizione, ma dal diletto. Tanto più noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l’uomo che trova la sua delizia nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, dal momento che proprio Cristo è tutto questo. Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli?[...] Dammi uno che ami, e capirà quello che sto dicendo. […] Tu mostri ad una pecora un ramoscello verde e te la tiri dietro. Mostri ad un fanciullo delle noci, ed egli viene attratto e là corre dove si sente attratto: è attirato dall'amore, è attirato senza subire costrizione fisica; è attirato dal vincolo che lega il cuore. Se, dunque, queste delizie e piaceri terreni, presentati ai loro amatori, esercitano su di loro una forte attrattiva - perché rimane sempre vero che ciascuno è attratto dal proprio piacere - come non sarà capace di attrarci Cristo, che ci viene rivelato dal Padre?»
(Trattati su Giovanni, 26,4-6).

Questo testo è straordinario. Agostino vuole far capire che la fede non è una nostra invenzione, bensì è un dono. È Cristo che ci attrae a sé, non siamo noi ad inventarcelo. Ma siamo veramente liberi dinanzi a lui, perché egli ci attrae con la sua bellezza, con la sua bontà, con la sua verità.

Agostino non ha paura di utilizzare qui il termine “piacere”. Vai dietro ad un cibo, perché ti piace, proprio come ha affermato Virgilio: «Ciascuno è attratto dal proprio piacere». E subito Agostino aggiunge: «Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli?». Vedete come il discorso agostiniano non è assolutamente anti-edonistico, come alcuni vorrebbero, anzi è un discorso che mira alla verità del piacere. Egli contesta con forza chi nega che l'anima provi piacere, chi pensa che l'amore non sia un piacere.

Agostino vuole insistere proprio sul fatto che seguire Dio è veramente il più grande piacere dell'uomo, anche se questo dovesse costare fatica. Anzi, tutta la tradizione cristiana insiste sul fatto che non è vera sequela quella di chi, nel suo intimo, si lagna di dover essere discepolo. Insegna, ad esempio, San Tommaso d'Aquino che la virtù consiste nel fare il bene essendo contenti di farlo, nella piena convinzione che merita farlo, senza per questo arrivare all'eccesso di pretendere da noi stessi di non sentirne più la fatica. Certo il vangelo è faticoso, ma lo si vive perché è una grazia viverlo, perché non potremmo farne a meno, tanto ci attira.

In un altro passaggio, Agostino afferma che tutta la vita è un esercitarsi nel desiderio. Si noti bene ancora che si tratta, quindi, non di spegnerlo, come pretenderebbero alcune impostazioni morali pseudocristiane, bensì di esaltarlo fino alla sua pienezza:

«La nostra vita è una ginnastica del desiderio. Il santo desiderio sarà tanto più efficace quanto più strapperemo le radici della vanità ai nostri desideri. Già abbiamo detto altre volte che per essere riempiti bisogna prima svuotarsi. Tu devi essere riempito dal bene, e quindi devi liberarti dal male. Supponi che Dio voglia riempirti di miele? Bisogna liberare il vaso da quello che conteneva, anzi occorre pulirlo. Bisogna pulirlo magari con fatica e impegno, se occorre, perché sia idoneo a ricevere qualche cosa» (Trattati sulla prima lettera di Giovanni, 4,6).

Anche qui tutto ruota intorno al desiderio, perché esso è il cuore della vita, anzi è la vita stessa. Il problema è che a volte il desiderio non è “esercitato”, come era quello di Agostino prima della conversione, e si attaccava alla gloria, al successo, alla sensualità, senza mai appagarsi, perché non giungeva all'amore di Dio e dei fratelli.

Proprio questo è il grande problema del nostro tempo: la catechesi, l’educazione, la scuola aiutano ad educare i piaceri del cuore? Cosa vuol dire provare piacere nel cuore? Un teologo contemporaneo, don Pierangelo Sequeri, insiste da tempo sul fatto che dobbiamo tornare ad insegnare i sensi spirituali, i gusti del cuore, il discernimento dei “sentimenti”, in un tempo che non sa più orientarsi a comprendere cosa sia la felicità, il piacere e il desiderio.

Voglio, infine, ricordare che Agostino ritorna sulla tematica del desiderio anche quando si tratta di educare alla preghiera. Esiste un testo agostiniano giustamente famoso su questo: la Lettera a Proba. Proba era una vedova che aveva manifestato ad Agostino il desiderio di imparare a pregare. Voleva essere consigliata sulla preghiera: cos'è le preghiera, come si fa a pregare, cosa è giusto chiedere nella preghiera?

Agostino spiega nella lettera a Proba che pregare vuol dire desiderare, desiderare rivolgendosi a Dio. E che bisognava approfondire cosa sia il desiderio, cosa sia bello desiderare dinanzi a Dio.

Nella sua risposta alla vedova, Agostino spiega che non è sbagliato rivolgersi al Signore per esigenze come il cibo, il lavoro, la salute. Ma, nella nostra “dotta ignoranza” – è il termine che Agostino usa per dire che noi sappiamo che le cose non ci danno al felicità, ma non sappiamo dove attingere la felicità piena - , noi sappiamo che non è in questo che consiste la vera vita. Infatti queste realtà da sole non ci bastano e possono addirittura trasformarsi in maledizione.

Infatti, «gli uomini non diventano buoni per mezzo di tali beni, ma coloro che lo sono diventati con altri mezzi fanno si che quei beni siano buoni usandone bene. Il vero conforto non è dunque in tali beni, ma piuttosto là dov'è la vera vita […] Nel caso che sovrabbondassero le ricchezze […] ma convivessero con noi individui perversi fra i quali non ci fosse nessuno di cui fidarci e dei quali avessimo continuamente paura e timore di dover subire inganni, frodi, ire, discordie, insidie, non è forse vero che tutti questi beni diventerebbero amari e insopportabili e che nessuna gioia o dolcezza proveremmo in essi? Così in tutte le cose umane nulla è caro all'uomo senza un amico» (Lettera a Proba 2,3-4).

«Nulla è caro all'uomo senza un amico»: che espressione straordinaria! Agostino insegna così alla vedova che la vera “vita” si ha solo nell'amore, solo nella carità, solo nel gusto del rapporto con le altre persone.

Ma proprio l'amore per gli altri ci apre poi alla necessità della speranza per loro, al desiderio che anche la loro vita sia vera “vita”: chi ama vuole la felicità e l'immortalità delle persone che ama, ne desidera l'incolumità e la salvezza. Vuole che anche le persone amate a loro volta scelgano il bene e la vera “vita”. Ma questo si trova solo in Dio! Ed è anche per amore di coloro che si ama, che Proba deve rivolgersi a Dio, chiedendo che ognuno viva nella volontà di Dio.

Agostino insegna così a Proba che, se essa guarda nel proprio cuore, si accorge che c’è questo desiderio della vera “vita”, che c'è un desiderio che dà senso a tutti i desideri, quello di abitare tutti i giorni nella casa di Dio. E chi abiterà nella casa di Dio, troverà un significato alla gioia come al dolore, alla sofferenza come al piacere, all'amore che chiede una “vita” vera. Lo stare nella casa di Dio è quella condizione che permette all'uomo di amare ogni frammento di vita, sapendo che tutto è destinato alla salvezza che il Signore ha promesso e che esiste una promessa più grande di quella assicurata dalle sole forze dell'uomo.

Ed è per questo - afferma ancora Agostino - che se tutti cercano la felicità, non tutti la trovano, perché essa si trova solo quando si trova la “vita” vera: «prega per ottenere la vita beata. La desiderano tutti; anche coloro che conducono una vita sregolata e pessima, non vivrebbero affatto così, se non fossero convinti di essere o di poter divenire beati in quel modo.Che altro dunque conviene chiedere nelle preghiere se non quel bene che desiderano tanto i cattivi che i buoni, ma al quale arrivano solo i buoni? Forse a questo punto potresti domandarmi in che consista precisamente la vita beata. In questo problema molti filosofi hanno consumato il loro ingegno e il loro tempo, e tuttavia tanto meno sono riusciti a risolverlo, quanto meno hanno avuto in onore la vera sorgente della vita e le hanno reso grazie» (Lettera a Proba, 4,9-5,10).

17/ Il vangelo di Marco (nella basilica di San Marco al Campidoglio)

Ambientazione

Siamo ora nella chiesa di San Marco Evangelista al Campidoglio. Lo scendere al livello originario della basilica ci riporta al tempo della Roma imperiale e neotestamentaria, quando il livello della città era più in basso dell’attuale. Qui venne edificata negli anni 336-337 dal successore di papa Silvestro, papa Marco, la primitiva chiesa di San Marco negli ultimi anni dell’impero di Costantino (che morì nel 337). Papa Marco è sepolto sotto l’altare e si vede il sarcofago con le sue reliquie sotto l’altare – il suo corpo è stato qui traslato dalla basilica circiforme che egli stesso aveva fatto costruire sulla via Ardeatina e che è stata recentemente ritrovata nella zona delle catacombe di San Callisto.

Come hanno dimostrato gli scavi degli anni ’40, la chiesa primitiva fu poi ricostruita una seconda volta, sempre sui resti degli edifici precedenti. Secondo il Liber Pontificalis fu Adriano I nel 792 a restaurare questa chiesa. Nel IX secolo, probabilmente nell’833, papa Gregorio IV (828-844) ristrutturò la chiesa rialzandola e cambiando orientamento perché era sopraggiunto un allagamento per una piena del Tevere.

Fu lui a commissionare il mosaico che ancora oggi si vede. Gregorio IV è con l’aureola quadrata (perché ancora vivente): a sinistra del Cristo sono raffigurati San Marco evangelista (è quello che tiene una mano sulla spalla del papa) e San Felicissimo (un diacono). Alla destra del Cristo sono raffigurati San Marco papa, Sant’Agapito (un altro diacono) e Sant’Agnese. Possiamo immaginare che la dedicazione di questa chiesa all’evangelista sia nata proprio a motivi del fatto che l’avesse edificata un papa con tale nome.

Nell’arco trionfale sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti: il famoso tetramorfo.
Il tetramorfo ha sempre Cristo al centro
. Nel tetramorfo non sono tanto importanti i simboli singoli di ognuno dei 4 Vangeli, bensì il fatto che i vangeli siano 4 e corrispondano così ai 4 angoli della terra, perché quel Cristo è venuto per tutti.

Similmente i 4 animali di Ezechiele appartengono al carro che porta la gloria di Dio ovunque (ed anche in esilio). Nell'Apocalisse, similmente, i 4 esseri viventi indicano l'adorazione a Dio da parte dell'universo intero.

È sbagliato insistere allora sul perché un certo animale corrisponda ad un certo vangelo, non è questo l'intento iconografico del simbolo.

L'intento iconografico è sul 4 come segno dell'universalità, come segno che quell’unico Cristo è destinato al mondo intero e al mondo intero deve essere portato. Per questo ha senso, invece, che il tetramorfo sia posto su amboni e lezionari. Dio ha mandato il suo Figlio per tutti.

Gli apocrifi verranno scritti almeno 50 anni dopo i 4 vangeli per contraffarli e il loro auto-dichiararsi apocrifi (nascosti) e il loro essere rivolti solo a pochi e non a tutti, tradiscono già l'intento differente della loro pubblicazione. La chiesa non li ha mai nascosti. Sono essi ad autodefinirsi "apocrifi", cioè tenuti apparentemente nascosti dagli stessi autori che li scrissero, per offrire una falsa motivazione a chi si domandava come mai non fossero mai stati messi in circolazione prima: dicendo che erano stati tenuti nascosti da lungo tempo gli autori che li avevano scritti volevano nascondere che erano elaborazioni successive ai 4 vangeli del Nuovo Testamento.

È importante che i 4 animali siano vivi, che si muovano (il carro di Ezechiele aveva ruote), che viaggino in tutto il mondo, che abbiano ali per spostarsi e volare. Questo è importante nel tetramorfo: che l'unico vivo Vangelo, cioè il Cristo, sia portato in maniera viva ai 4 angoli della terra e sia adorato da tutti e 4 gli angoli della terra.

Gli affreschi furono, invece, realizzati durante il periodo della guerra di Candia, la guerra che opporrà la Repubblica di Venezia all’Impero ottomano per il possesso dell’isola di Creta (Candia) e che durerà dal 1645 al 1669, e si concluderà con la conquista turca dell’isola. Ai due lati dell’abside si vedono due grandi affreschi di Guglielmo di Courtois (il Borgognone) che raffigurano la cattura e il martirio di san Marco evangelista: san Marco sta celebrando la messa ad Alessandria d’Egitto e viene catturato dai pagani, strappato dall’altare, legato al carro del governatore di Alessandria e trascinato al suolo fino alla morte.

L’affresco al centro è, invece, opera seicentesca del Romanelli, discepolo di Pietro da Cortona, e rappresenta San Marco evangelista (e con lui la repubblica di Venezia) che, a destra, sconfigge il paganesimo ed, a sinistra, esalta la vera fede, sotto la quale si intravede la città lagunare.

Ma ci interessa soprattutto che qui la tradizione vuole che tre secoli prima della primitiva chiesa eretta da papa Marco vi abbia abitato l’evangelista Marco e vi abbia scritto il suo vangelo, il più antico dei quattro.

Come sempre non staremo a discutere su quanto sia fondata questa tradizione, né ci scandalizzeremo del fatto che questa notizia tradizionale è incerta, perché a noi non interessa tanto individuare i luoghi precisi, quanto piuttosto, se questo non è possibile, renderci conto che i personaggi del Nuovo Testamento debbono essere passati comunque per le strade e le case di Roma.

Se è vera la notizia più importante che collega il vangelo di Marco alla città di Roma, confermata dai latinismi del suo vangelo che ci rimandano ad un ambiente legato alla cultura romana, l’autore del vangelo più antico deve comunque aver abitato in una casa romana, se non precisamente qui almeno in qualche altro luogo della città. E, abitando a Roma, avrà comunque passeggiato e parlato del vangelo nelle vie di questa città, forse proprio qui vicino.

Catechesi

In questo luogo così evocativo, dove possiamo immaginare la presenza dell’evangelista, vogliamo conoscere meglio il Vangelo di Marco.

Solo nel diritto ellenistico e romano erano previsti casi in cui era la donna a poter divorziare dal marito. Tale situazione non era prevista, invece, dal diritto rabbinico. Il vangelo di Marco è l’unico vangelo ad estendere alla donna le parole pronunciate da Gesù sul divorzio. Infatti, solo in Marco si aggiunge: «A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”» (Mc 10,10-12).

Gli esegeti pensano che queste parole Gesù non le abbia pronunciate letteralmente, ma l’evangelista abbia voluto mostrare che ciò che Gesù aveva detto dell’uomo valeva anche per la donna. È come se Marco si sia fatto eco, giustamente e ispirato dallo Spirito Santo, della volontà di Dio: anche se Gesù non aveva letteralmente pronunciato parole sulla donna, questa sarebbe stata la sua intenzione se si fosse trovato dinanzi ad una donna cui fosse concesso di divorziare come avveniva al di fuori del diritto ebraico.

Anche i latinismi invitano a vedere in Marco un vangelo fortemente legato ad un ambiente ellenistico di lingua latina: se alcuni di questi sono comuni agli altri vangeli (denarion, modios, kensos, krabbatos, legion, phragelloun), altri sono presenti esclusivamente nel primo vangelo, in particolare xestes, boccale (7,4), spekoulator, guardia (6,27), kodrantes, quadrante o spicciolo (12,42), hikanon poiein, dare soddisfazione (15,15), kentyrion, centurione (15,39.44-45), praitorion, pretorio (15,16).

L’analisi interna del testo concorda in qualche modo con le parole di un frammento di Papia, vescovo di Gerapoli in Asia Minore, del 130 d.C., in cui si dice: «Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza un ordine, ma con esattezza, ciò che ricordava delle cose dette e fatte da Gesù. Egli non aveva udito il Signore, né l’aveva seguito; più tardi seguì Pietro».

La cosa decisiva da ricordare subito sul Vangelo di Marco – ne abbiamo già parlato - è che l’evangelista è stato il primo a scrivere un Vangelo, ha inventato, per così dire, il genere letterario “vangelo”. Questo nuovo tipo di libro - il vangelo - dipende, a sua volta, dalla novità della fede cristiana: la fede cristiana non è un’idea, una lettura, un’obbedienza a un libro, bensì un incontro. La fede è l’incontro con una Persona, Gesù, e con il suo amore che si rivela essere quello stesso di Dio. La vita esce così trasformata dall’incontro con il Cristo al punto che quell’amore diviene il criterio stesso di un’esistenza nuova.

Il farsi uomo di Dio per rendere possibile questo incontro e la sua misericordia sono due aspetti della stessa realtà. Una profezia, un oracolo, un libro od un’idea non potrebbero amarci, perché non sono persone: Gesù Cristo, invece, è l’amore stesso di Dio venuto nel mondo.

Ecco perché Marco, se dedica tanto spazio alla passione ed alla resurrezione di Cristo, nondimeno vuole raccontare tutto ciò che gli è possibile del resto della sua vita, perché incontrare quella vita vuol dire incontrare l’amore di Dio. Lo abbiamo già visto, come abbiamo già visto il significato del primo versetto del Vangelo di Marco: «Inizio del vangelo che è Gesù, Cristo, Figlio di Dio».

Di Gesù non basta raccogliere le parole, come si fa con un filosofo, di Gesù non basta scrivere sommariamente una biografia come si fa con un uomo politico. Del Cristo invece bisogna raccogliere ogni sospiro, ogni sguardo, ogni abbraccio, ogni amicizia, ogni goccia di sangue, perché è Lui il Vangelo, perché Lui è la misericordia di Dio in persona, fatta carne. Per l’evangelista Marco non bastavano i detti di Gesù che già circolavano: bisognava raccontare la sua vita, la sua passione, la sua resurrezione.

Marco è molto attento a raccontarci minuscoli - ma estremamente significativi - particolari della vita di Gesù. Vale la pena soffermarsi anche solo su alcuni di essi per vederne la ricchezza.

In Mc 4,38, nell’episodio della tempesta sedata, si dice che Gesù «se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva». Il cuscino è un particolare ricordato solo da Marco. Quando qualcuno dorme non sta perdendo tempo, ma sta facendo ciò che ha fatto il Figlio di Dio! Marco insegna così che Gesù ha dormito e che, quindi, anche il dormire può essere pieno di Dio. Gesù dormiva con il suo cuscino mentre infuriava la tempesta, mentre c’era confusione ed agitazione ed addirittura la paura di morire. E Gesù dormiva. Come illumina questo fatto tante situazioni nelle quali viviamo problemi, drammi, cose da affrontare e ci si sente a torto sempre in colpa se non si riesce a fare tutto. Gesù tranquillamente, durante la tempesta, dormiva e dormiva con la testa su un cuscino.

Marco sottolinea che Gesù era tekton, cioè carpentiere (Mc 6,3 «Non è costui il carpentiere»). È l’unico vangelo ad affermare esplicitamente che Gesù ha lavorato con le proprie mani. Mentre gli altri evangelisti ci dicono che Giuseppe era tekton e che Gesù era “il figlio del carpentiere”, dal vangelo di Marco apprendiamo che Gesù stesso ha adoperato le mani per costruire delle cose. Propriamente, secondo l’evangelista, Gesù non era falegname, ma carpentiere - utilizzava cioè il legno, ma anche altri materiali, per costruzioni edili, nelle quali allora il legno era materiale indispensabile. Ritroviamo ancora oggi il termine greco nella parola “architetto”, da archi-tekton, cioè “capo-carpentiere”, “capo dei carpentieri”.

Di nuovo si vede qui la peculiarità del genere letterario “vangelo”: si tratta del racconto della storia di Gesù, fino ad alcuni particolari che sono anch’essi salvifici. Lavorare con le mani non è indegno di Dio, se Gesù lo ha fatto. Gesù ha vissuto realmente il lavoro, ha lavorato probabilmente per lunghi anni. Così il lavoro diviene ancora più nobile e il rifuggire da esso porta ad essere spiritualoidi. Qualche tempo fa ero in Puglia e una signora anziana mi raccontò una bellissima espressione popolare: “Il lavoro è il monte dell’adorazione di Dio”, cioè “Chi lavora con le sue mani sta adorando il Signore”.

Marco, ancora, racconta dei sospiri di Gesù, dei suoi sbuffi. In Mc 8,12 si dice: «Ma egli sospirò profondamente e disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun segno”». Gesù in questo brano è seccato, non riesce a capire perché le persone che lo ascoltano non credono; è colpito dalla loro incredulità che lo stupisce.

“Sospirò profondamente” cioè manifestò il proprio disappunto, la propria tristezza, non con odio, ma certo mostrando il suo sgomento, perché le persone percepissero il suo giudizio, il suo desiderio che la smettessero, che cambiassero atteggiamento, che si decidessero a dare una svolta. Gesù, proprio lui che è il Figlio di Dio e il Messia, è al contempo talmente uomo da esprimere la sua parola di giudizio e di salvezza, traendo profondi sospiri, sbuffando.

Marco ricorda ancora - unico fra gli evangelisti - non solo le parole dette da Gesù ad un tale che se andò triste per non aver voluto lasciare tutto per seguirlo, ma anche il suo sguardo. In Mc 10,21 leggiamo, infatti: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò». Solo Marco ricorda che il dialogo tra Gesù e quest’uomo è passato tramite lo sguardo. Gesù lo guardò negli occhi, lo fissò, mise i suoi occhi in quelli dell’altro, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Si pensi all’importanza dello sguardo quando un padre parla con un figlio, una donna con il fidanzato, quando due si guardano negli occhi. Pensate a questo dire delle cose non solo attraverso le parole, ma anche attraverso degli sguardi che si incontrano.

Ma Gesù è interessante proprio perché è l’Infinito che si è incarnato. Quei minuscoli frammenti sono importantissimi, perché in essi ormai abita qualcosa di più grande dell’uomo stesso. Non è solo il vangelo di Giovanni a dichiararlo fin dal principio, ma tutti e quattro i vangeli, in maniera complementare.

Se Giovanni si apre con il Prologo nel quale si proclama l’annunzio che il Dio che nessuno ha mai visto si è reso visibile nel Logos fatto carne, Matteo inizia con la genealogia - Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, nella quale Gesù è presentato come il Messia ed il discendente davidico - e subito prosegue presentando Gesù come l’Emmanuele, il Dio con noi. Luca, dal canto suo, inizia con il cosiddetto “vangelo dell’Infanzia” - dove la nascita di Giovanni Battista, pur miracolosa, è vista come qualitativamente diversa da quella di Gesù, “che sarà chiamato Figlio di Dio”, che è invece opera dello Spirito Santo.

Anche Marco non solo si apre con il titolo programmatico - Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio - ma ad esso subito segue la proclamazione della figliolanza divina da parte di Dio Padre nel Battesimo di Gesù: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11).

Insomma, tutti e quattro i vangeli, prima di ripercorrere la vicenda terrena di Gesù, si aprono innanzitutto fornendone uno sguardo sintetico. Nessuno di loro inizia con la predicazione del regno o con le parabole o con i miracoli o con gli insegnamenti o con la morte e resurrezione di Gesù. Perché la proclamazione del regno e le parabole e i miracoli e gli insegnamenti e la morte e la resurrezione hanno significato proprio perché appartengono a Gesù il Cristo, il Figlio di Dio.

Questa è la verità più interessante. Perché la questione che avvince il cuore e la mente dell’uomo è precisamente chi è Gesù. La questione che appassiona l’uomo è se Dio è venuto a visitare la nostra vita in Gesù.

Gesù in Marco si rivela profondamente uomo, ma, insieme, è colui che viene da Dio. È realmente il Cristo, il Figlio. Per la prima volta nella storia dell’uomo Dio e l’uomo stanno insieme.

Con continue domande ed osservazioni di tutti coloro che vengono in contatto con lui, Marco fa crescere l'interesse verso la persona di Gesù che esce da ogni schema fin lì conosciuto e crea suspence intorno alla domanda “Chi è Gesù?”, mentre, dall'altro lato, già ha dato la risposta.

Basti vedere Mc 4,41 dove sorge la domanda, dopo la tempesta sedata: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». O anche Mc 6,2 dove la domanda è sulla bocca di tutti: «Molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?”». Ma si legga la reazione che interroga su chi sia Gesù anche in Mc 1,22, in Mc 1,23-24, in Mc 1,37, in Mc 2,7, in Mc 2,12, in Mc 2,16, in Mc 2,18, in Mc 2,24, in Mc 5,7, in Mc 6,14, in Mc 7, 37.

Finalmente, in Mc 8,27 la domanda cresciuta e passata di bocca in bocca, diviene la grande questione che Gesù stesso pone. Innanzitutto: “Chi dice la gente che io sia?”, ma poi più direttamente: “E voi chi dite che io sia?” Non a caso, allora, era stata posta sin qui la domanda sull'identità del Cristo, ma tutto questo interrogarsi era il preludio, sorretto e voluto dalla divina provvidenza, finché Gesù stesso mostrasse che quella questione era l'unica necessaria!

Da tempo il pensiero umano aveva compreso che la capacità di lasciarsi interrogare è la fonte che fa nascere la filosofia, la vera maturazione del pensiero - Aristotele aveva detto che “la meraviglia è l'origine di ogni filosofia”, poiché il pensiero non si chiarifica in un'autoreferenziale interrogazione continua, ma nel rapporto alla res, alla realtà, che, per prima pone questione e interroga.

Ma qui la res è l'incarnazione stessa del Figlio. Non c'è mai stato stupore più grande che quello di trovarsi dinanzi all'opera compiuta di Dio e qui, infine, dinanzi alla pienezza dell'opera di Dio: il dono di Gesù al mondo.

Potremmo dividere il vangelo di Marco in tre grandi blocchi e, per orientarci, indicare tre grandi questioni che le tre parti affrontano. Il primo blocco affronta la domanda: “Chi è Gesù?”. Il secondo si chiede: “Come si fa a seguirlo?”. Il terzo ci porta a questo grande problema: “È impossibile in realtà seguire Cristo con le sole forze umane? O solamente la morte e la resurrezione di Gesù ci aprono la strada?”. In questa catechesi ci soffermeremo, per ragioni di tempo, solo sulla prima parte che va dall’inizio fino a Mc 8,27-30. In tutto sono otto capitoli nei quali, come abbiamo visto, qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa Gesù dica, si giunge sempre ad una domanda fatta dai differenti interlocutori - i diavoli, gli uomini, gli apostoli - finché è Gesù stesso a porla: “Chi è costui?”

I primi otto capitoli ci fanno capire che questa è la grande domanda: “Chi è costui, chi è Gesù?”. Capiamo subito che qui è in gioco un primo aspetto fondamentale della fede, quello che potremmo chiamare il contenuto della fede - in latino, a partire dal medioevo, si utilizza l’espressione fides quae creditur, cioè la fede che io credo.

La fede cioè non consiste semplicemente nel dire che si crede, ma piuttosto nel dire che cosa si crede. Non è qui sufficiente dire “Io credo”, ma è necessario dire “Io credo che Gesù è il Signore”. Dopo la parola “credo”, devo mettere qualcos’altro, altrimenti non so a chi credo, sono un uomo che, pur dicendo di credere, vaga nelle tenebre perché non sa chi è colui a cui crede, sono cioè un cieco che guida altri ciechi.

Per avere la luce bisogna sapere chi si sta seguendo.

Un’immagine che mi piace utilizzare per mostrarvi cosa questo vuol dire la possiamo trarre dall’esperienza dell’amore. Quando una ragazza dice: “Io mi fido di questo ragazzo, perché lo amo”, ma questo ragazzo è inaffidabile, sbaglia a fidarsi di lui! Ci sono donne che amano solo uomini inaffidabili. Più sono traditori, meno hanno voglia di lavorare e più piacciono. Poi, deluse, concludono che “tutti gli uomini sono mentitori e scansafatiche”. In realtà il problema è loro. Prima di fidarsi di qualcuno lo si deve conoscere, non ci si può sposare con qualcuno che è inaffidabile. Mettere la propria vita nelle mani dell’altro dipende necessariamente dal fatto che quell’uomo sia affidabile. Io mi fido, ti conosco, so chi sei, per questo dico che ti amo e mi metto nelle tue braccia.

Questo è ancora più vero per Dio. Io non posso dire: “Io credo, sia fatta la sua volontà”, se io non so che Dio è affidabile. Per questo noi dobbiamo sapere chi è Dio per fidarci di Lui. Come l’amore, la fede sarebbe altrimenti cieca, pazza, sarebbe follia. L’amore di Dio passa dal fatto che Dio si è rivelato, ci ha amato.

Ma, dinanzi a Gesù, non si è dinanzi ad una verità fredda o teoretica o astratta: si è dinanzi ad una persona. Non si crede più in qualcosa, bensì in qualcuno, poiché lo si è conosciuto nella sua affidabilità, nel suo amore. Perché si è incontrato in Lui l’amore stesso di Dio.

Per questo, in realtà, la fede in Gesù non può essere separata da quell’altro aspetto che i medioevali chiamavano la fides qua creditur, cioè la fede con la quale si crede: la fede è un abbandono alla volontà del Signore perché lo si ama, perché ci si fida di Lui, non è un’enunciazione astratta di verità. Credere è, allora, anche seguirlo e camminare con Lui.

Quando è Gesù stesso a porre la domanda emergono tre risposte enormi, che racchiudono la risposta di Gesù e del Vangelo alla domanda sulla sua identità.

La prima risposta alla domanda chi sia Gesù è questa: “Tu sei il Cristo”. Viene pronunciata da Pietro in Mc 8,27-30 - ma già l’abbiamo vista nel primo versetto del vangelo. Cosa vuol dire “il Cristo”? Gesù Cristo non sono nome e cognome di questa persona, ma Cristo - dal greco χριστ?ς, christòs, che significa letteralmente "unto" - è la traduzione greca della parola ebraica mashìach, messia. Pietro riconosce che quel Gesù, quell’uomo che gli sta dinanzi, è realmente l’“atteso” di Israele. Israele ha atteso un Salvatore e ora costui è presente, è finalmente giunto.

In Israele ci sono delle comunità ebraiche cristiane nelle quali si celebra la messa in ebraico. Sono composte da ebrei che hanno riconosciuto che in Gesù è arrivato il Messia di Israele, si sono battezzati e sono divenuti cattolici. Quando ho abitato in Israele per studi, ogni tanto celebravo la messa per loro ed in ogni liturgia mi colpiva quell’espressione a noi così abituale ed invece così parlante in quel contesto: “Te lo chiediamo per mezzo di Gesù Cristo”. Nella messa in ebraico questa espressione suona precisamente “derek yeshuah hammashiach”, cioè “per mezzo di Gesù che è il Messia”. Pensate cosa vuol dire per un ebreo che attende da secoli il Messia - da secoli lo hanno atteso suo padre, i suoi nonni, i suoi bisnonni e così via - arrivare a dire: “È lui, è arrivato!”

Ma la fede ci fa capire che questa attesa non è stata solo l’attesa di Israele, è stata anche l’attesa del mondo. Gesù è veramente Colui che l’umanità attende. Dire che Gesù è il Messia è proprio dire la scoperta che questa attesa, che fin lì si era sempre arrestata come di fronte ad un muro senza spiragli, si è ora conclusa. Noi sappiamo che l’uomo attende sempre qualcosa, poiché niente di ciò che esiste lo soddisfa pienamente, fino a quando arriva a comprendere che è il Cristo quello che cerca, è Lui lo sposo che manca, è Lui l’atteso, il Messia, colui che manca al suo cuore. E questo atteso è Gesù. Questa è la professione di fede di Pietro.

Se io sono sempre in ansia, se non ho speranza, non ho pace, sono depresso, quello che mi manca è Lui. Mi manca il senso della vita. Io non sono depresso perché mi hanno criticato, perché mi è andato male il lavoro - certo queste cose mi fanno male e sono problemi che devo affrontare - ma quello che radicalmente mi manca è il senso di quello che faccio, il perché della mia fatica, della mia vita. Marco ci ricorda che quel senso della vita si trova in quella persona. Pietro, dicendo “Tu sei il Cristo”, afferma questo.

La seconda grande risposta del vangelo di Marco alla domanda chi sia Gesù viene solo un versetto dopo, in Mc 8, 31. Questa volta è Gesù stesso a pronunciarla ed a dire di sé che è “il Figlio dell’Uomo”. Questa è l’espressione che Gesù userà continuamente nel vangelo, spesso alla terza persona singolare: “Il Figlio dell’uomo dovrà soffrire”, “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà”, ecc. Il Figlio dell’Uomo è Lui stesso.

Questa espressione Gesù la riprende dal profeta Daniele. Tutti i moderni studi storici riconoscono, fra l’altro, come indubitabile che qui si sia dinanzi ad una espressione che Gesù sicuramente ha utilizzato, uno di quei punti certi del modo con cui Gesù amava auto-definirsi. Daniele aveva raccontato che sarebbe venuto dall’Antico di giorni, cioè da Dio stesso, un Figlio dell’Uomo, che sarebbe disceso sulle nubi del cielo (Dn 7,13). Gesù comincia allora a dire che colui che viene dal cielo, da Dio, da queste nubi, dalla presenza stessa di Dio, dovrà soffrire e morire e offrirà la sua vita per il perdono dei peccati. La seconda grande realtà che il vangelo di Marco annunzia è che veramente Gesù è colui che viene da Dio, proprio come aveva profetizzato Daniele. Gesù si riconosce in quelle parole, afferma che la sua venuta è il compimento di quell’annunzio. Ma vi inserisce subito una grandissima novità. Mentre in Daniele questo Figlio dell’Uomo sarebbe disceso da Dio come trionfatore, Gesù comincia subito a spiegare che egli viene da Dio per perdere se stesso, per morire sulla croce. È il mistero del crocifisso. Colui che viene da Dio, colui che realmente viene da queste nubi, colui che realmente è il Signore glorioso, è anche colui che paga soffrendo per tutti gli uomini sulla croce. E gli apostoli, da subito, cominciano ad aver paura di questo. Gesù parla di se stesso come di colui che realizza la profezia di Daniele ed, insieme, quelle dei canti del servo sofferente del profeta Isaia.

Marius Reiser ha scritto che quei canti erano “senza padrone”, cioè non si sapeva nell’antico Israele a chi andassero riferiti. La stessa esegesi storico-critica, lasciata a se stessa, non sapeva cosa dire di quei testi, poiché non potevano essere riferiti completamente né all’intero popolo di Israele, né ad un personaggio del tempo in cui quegli oracoli vennero scritti. Ora Gesù si rivela il “padrone” di quei testi, cioè la figura alla quale si adattano a pennello. Egli è il Figlio dell’uomo, ma un Figlio dell’uomo che dovrà soffrire come il servo di YHWH.

Pochi versetti dopo troviamo la terza risposta alla domanda sull’identità di Gesù. Questa volta è il Padre stesso a pronunciarla, nel contesto della Trasfigurazione: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Gesù è il Figlio: questa è la terza grande affermazione del vangelo, già presente in Mc 1,1 ed anche nell’episodio del battesimo.

Non è, però, solo il Padre ad indicarlo come Figlio. È Gesù stesso che continuamente parla di se stesso come colui che conosce il Padre e che nel nome del Padre opera e parla e compie tutto ciò che viene raccontato nel vangelo.

In Marco tante volte emerge il rapporto peculiare fra il Padre e il Figlio. Vale la pena ricordarne uno, chiarissimo, nel contesto della predicazione di Gesù a Gerusalemme, quando Gesù, entrato nel Tempio, racconta la parabola degli inviati della vigna (Mc 12,1-12). Parla della vigna amata da Dio, che è Israele, che è il suo popolo. Dio aveva affidata tutto ai vignaioli, perché fosse una vigna carica di buoni frutti. Dio desidera che la vigna fruttifichi, perché non l’ha voluta per se stessa, ma perché da essa tutti potessero ricavare il vino, potessero gioirne, potessero trovarvi la vita. Gesù racconta che tante volte Dio mandò operai a chiedere tali frutti, ma uno venne bastonato, un altro picchiato, altri uccisi. Nella parabola Gesù allora annunzia una svolta (Mc 12,6-8): «Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”. Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna».

È evidente che Gesù non sta raccontando una storiella. Gli ascoltatori ascoltano dalla sua bocca che quel “padrone” aveva ancora un’ultima possibilità, aveva ancora un “unico” che gli era rimasto, aveva ancora il suo figlio prediletto. Egli è l’ultimo inviato per convincere il cuore di quelli che abitavano nella vigna: mandò allora il figlio. Non è una fiaba che inizia con “C’era una volta”! Gesù sta dicendo che questo figlio è lui, che lui è veramente l’ultimo l’inviato di Dio, che è il figlio del padrone della vigna, che è veramente il figlio prediletto.
Nella Bibbia l’espressione “il figlio prediletto” viene usata anche per Isacco: il figlio prediletto è quel figlio che Abramo ha ricevuto dopo averlo atteso per infiniti giorni e che gli viene chiesto di sacrificare. Dio gli dice: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22,2).

Gesù è questo figlio, è l’unico figlio di Dio, il figlio che Dio ama, il figlio prediletto. Non è uno dei tanti servi, dei tanti profeti, che Dio ha inviato. Egli è di una qualità diversa. E Gesù nel vangelo di Marco è chiaramente “il Figlio”, colui che è stato mandato dal Padre, che dice le parole del Padre, che porta il perdono del Padre al mondo.

Quando Pietro e gli altri apostoli avranno riconosciuto che Gesù è il Cristo, il Figlio dell’uomo mandato dal padre per soffrire per i peccati del mondo, il Figlio di Dio amato dal Padre come il suo unico prediletto, allora, nella seconda parte del Vangelo, Gesù comincerà a spiegare qual è la sua sequela e le condizioni del portare la croce con lui e, nella terza, mostrerà che solo la sua grazia e la sua resurrezione possono rendere i discepoli capaci di fare ciò, poiché tutti fuggiranno, dagli apostoli fino al giovinetto che lasciò nel Getsemani anche il lenzuolo di cui era coperto.

In conclusione, vorrei dire una parola sull’origine dei vangeli. La Chiesa quando afferma la sua convinzione sull’affidabilità storica dei vangeli, si serve di una espressione semplicissima, che è stata indicata dal Concilio Vaticano II: “l’origine apostolica dei vangeli”. Cosa si vuol dire con questa espressione? Affermando l’origine apostolica dei vangeli non si vuole dire che i singoli autori dei vangeli sono gli apostoli e, quindi, che Matteo e Giovanni sono necessariamente due degli apostoli e così via. Le domande sulla paternità degli scritti neotestamentari, infatti, restano aperte, come ci insegna la critica storica sui vangeli. Noi non possiamo dire con certezza chi ha scritto i quattro vangeli e le singole parti di essi. La finale di Marco l’ha scritta lui o un discepolo? E chi è questo discepolo? Il vangelo di Giovanni da chi è stato veramente scritto? Chi è l’autore dell’ultima redazione e quali sono i passaggi che hanno portato a questa? Ci sono posizioni diverse tra gli studiosi e ognuno è libero di aderire alla versione che gli sembra più credibile.

La Chiesa chiede però di credere che i vangeli hanno origine dagli apostoli. Forse Marco è scritto poco prima del 70, quando Pietro era già morto. Ma quello che Marco ha scritto è veramente quello che gli apostoli hanno detto ed il suo vangelo è comunque stato scritto quando la comunità cristiana, che si ricordava quello che gli apostoli avevano detto, avrebbe subito corretto un racconto dissonante dal Gesù predicato dagli apostoli. La Chiesa ha subito riconosciuto che le parole scritte nel vangelo erano in piena consonanza con quelle che gli apostoli avevano pronunciato oralmente e che la sostanza del racconto marciano, così come del racconto degli altri evangelisti, coincideva con ciò che da sempre avevano conosciuto della storia di Gesù, tramite la predicazione apostolica.

I vangeli, insomma, derivavano da quella predicazione in maniera fedele e questo è estremamente significativo prima di discutere chi sia precisamente l’autore di un particolare racconto sulla vita di Gesù.

I vangeli sono affidabili perché la loro origine è nella predicazione apostolica.

Certamente la Dei Verbum racconta dei tre stadi della formazione dei vangeli: prima Cristo, poi gli apostoli ed infine la redazione dei vangeli ad opera degli apostoli o dei discepoli o di uomini della loro cerchia. Qui il Concilio accetta tutta la riflessione storica che vede questi passaggi fra Gesù ed i testi evangelici. Ma è importantissimo notare che, anche qui, il Concilio non vede questo triplice passaggio come una possibile ombra sulla affidabilità storica dei vangeli.

Fu Paolo VI in persona a volere, attraverso una lettera che scrisse il 17 ottobre 1965, l’inserimento di una frase che affermasse esplicitamente la fiducia che la Chiesa ha nella serietà storica dei vangeli. I Padri conciliari accolsero la sua richiesta e si giunse alla formulazione di Dei Verbum 19 dove si dice che la Chiesa «ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)».

Di modo che il Concilio Vaticano II, all’unanimità, afferma che il triplice passaggio attraversato dai Vangeli nella loro formazione non ci fa perdere, nella sostanza, la realtà certa degli eventi e delle parole fondamentali della vita di Gesù.

18/ La fondazione della laicità (dinanzi al tempio di Marte Ultore)

Ambientazione

Gesù nacque negli anni in cui veniva edificato in Roma nei Fori il Tempio di Marte Ultore, del quale abbiamo già parlato. In questo tempio Ponzio Pilato giurò fedeltà all’imperatore prima di partire per la sua missione in Giudea. Passeggiando per via dei Fori imperiali lo si distingue chiaramente, fra i Mercati Traianei ed i resti del Foro di Nerva con le famose Colonnacce. Del Tempio di Marte Ultore è rimasto l’alto podio con la sua scalinata in marmo ed alcune colonne sul fianco di destra, per chi guarda. Il suo stato di relativa conservazione dipende dal fatto che venne trasformato in chiesa, la Santissima Annunziata, che venne poi demolita in età fascista per realizzare gli scavi dei Fori. Quando avvenne il giuramento di Pilato era ormai imperatore Tiberio che vi aveva eretto gli archi di Druso e Germanico.

Gesù stesso fu almeno una volta interrogato sulle malefatte del suo futuro giudice, quando «si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”» (Lc 13,1-3).

Il governatore romano balza però prepotentemente sulla scena della vicenda evangelica in occasione del processo di Gesù. Matteo ricorda che egli «prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla» (Mt 27,24), e certamente quel gesto esprime bene la sua arrendevolezza colpevole dinanzi al sinedrio che vuole la morte di Gesù, poiché il Cristo si è fatto «simile a Dio». Pilato comprende bene che Gesù non è assolutamente pericoloso, né lo sono i suoi discepoli: ne decide però la crocifissione per paura che i sommi sacerdoti inneschino una rivolta contro il potere romano se egli non avesse decretato la soppressione del “bestemmiatore” Gesù.

Gli Atti degli Apostoli vedono in questo evento non solo un fatto storico, ma anche la realizzazione della profezia del Salmo 2 che preannunciava una misteriosa alleanza del popolo d’Israele e delle nazioni pagane contro il Signore ed il suo Messia: «davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato» (At 4,27). Nell’ottica lucana questo testo indica già che il Cristo è venuto per tutti e che insieme ebrei e pagani si stringono intorno a lui, per decretarne la morte, ma anche perché da quella morte tutti ricevano la vita.

L’ingresso dei pagani nella storia del cristianesimo ha qui Pilato come capofila. Non un greco, ma un romano. A compimento delle Scritture. A compimento di quel disegno di salvezza che Dio aveva nel suo desiderio fin dall’eternità. Per questo Pilato già scivola sullo sfondo nel ruolo di comparsa, per lasciar posto a colui che è il vero protagonista. Come dirà l’autore della prima Lettera a Timoteo, a Gesù Cristo, colui «che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato» (1 Tim 6,13). Ecco Pilato, un romano di cui si parla per raccontare di un altro, del Cristo Signore.

Ma al di sopra Pilato stava Tiberio. Cosicché quando Gesù fu interrogato sul tributo da dare o non dare a Cesare, le monete che gli vennero mostrate portavano l’immagine di Tiberio.

Catechesi

«Sotto Ponzio Pilato». Il nome di un alto ufficiale romano è entrato nel Credo. Già questo solo nome proprio testimonia della realtà storica delle fede cristiana. Non si trova alcun riferimento storico nei culti mitraici o nei miti gnostici. Le storie lì raccontate non sono reali, ma mitiche: si ripetono eternamente, sono cicliche, come i ritmi della natura. Non avrebbe senso, dinanzi ad esse, porsi la domanda: «quando sono avvenute?». Questa domanda, invece, caratterizza il cristianesimo.

«Patì sotto Ponzio Pilato», «fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato». Così recitano il Simbolo degli Apostoli ed il Credo niceno-costantinopolitano. E non finisce di stupire che uno dei tanti funzionari romani dell’imperatore Tiberio sia entrato in uno dei testi più importanti della storia del mondo, il Credo della chiesa. Certamente Cristo è morto «per noi» - ricordo sempre la straordinaria espressione di un giovane che ripeteva: «se credi che Gesù è morto per te, allora sei salvo»! Ma è morto per noi, proprio sub Pontio Pilato. Né prima, né dopo. Proprio in quell’anno. In quel giorno. Proprio mentre la Giudea era governata da Ponzio Pilato.

E proprio durante il mandato di Pilato in Giudea avvenne un dialogo fra Gesù ed alcuni giudei che cambiò il corso della storia del mondo, dando origine alla laicità. Così raccontano i vangeli: «Mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”» (Mc 12,13-14).

Gli uomini di potere sanno che, da sempre, la politica è un terreno scivoloso. Scelgono questo tema per cercare di cogliere in fallo Gesù. Ed, ancora una volta, la situazione più difficile diventa per il Signore non una realtà da rifiutare e da fuggire, bensì un’occasione per amare e per testimoniare la verità del Padre e dell’uomo. L’affermazione «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12,17) - una dichiarazione che cambierà il volto della storia tutta dell’umanità e che fonderà per sempre la laicità vera del potere - viene espressa in un momento di esplicita persecuzione nei confronti del Cristo, mentre cioè si sta tramando la sua morte. Anche qui nessun istante della vita del Signore va perduto. Egli è “la Parola”!

La domanda sembra senza possibilità di scampo: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Se Gesù rispondesse che è lecito, ecco che sarebbe facile accusarlo di essere un uomo compromesso con il potere romano, uno che non prende le distanze dal nemico che toglie la piena libertà al paese, uno che è connivente con una situazione di ingiustizia nella quale tanti sono costretti.

Ma se rispondesse che non è bene pagare le tasse, ecco che egli potrebbe essere facilmente fatto passare per uno dei tanti rivoluzionari ostili all’autorità dei quali pullulava allora la Giudea, uno di quelli dai quali è bene guardarsi perché non si sa dove possono condurre gli animi eccitati del popolo, uno di quelli che di fatto porteranno Gerusalemme alla rovina attraverso le due guerre giudaiche.

Solo uno sguardo superficiale potrebbe etichettare la risposta di Gesù come furba, come prudente, come un escamotage per sfuggire al dilemma. In realtà essa scava nel profondo, segnando il passo di ogni futura discussione su Dio e sull’uomo.

Gesù, domandando che gli sia mostrata la moneta del tributo, obbliga, innanzitutto, i suoi ascoltatori ad ammettere che essi fanno uso del denaro, che essi utilizzano proprio quelle monete con le quali vorrebbero incastrarlo.

È una straordinaria lezione di realismo. L’uomo, ovunque si trovi, intrattiene relazioni con altri uomini tramite costituzioni, leggi, pesi e misure, quantificazioni economiche, equilibri di potere: è un “animale sociale” ed ha bisogno della società per vivere.

A partire dall’insegnamento del Signore il cristianesimo ha imparato a rigettare l’anarchia e l’utopia di abolire le istituzioni, perché lo Stato è necessario nel tempo transitorio della storia. L’uomo che è debole, a motivo del peccato e del peccato originale, non saprebbe governare se stesso senza una strutturazione istituzionale della società. Paolo trarrà le giuste conseguenze da questo rifiuto dell’anarchia dichiarando nella lettera ai Romani che l’autorità è da Dio, non nel senso che i governanti sono scelti di volta in volta dall’Onnipotente e nemmeno nel senso che le loro decisioni esprimono il volere divino, ma, molto più essenzialmente, nel senso che Dio vuole che esistano strutture politiche, in quanto necessarie all’ordinata convivenza degli uomini.

In questo modo Gesù annuncia che il regno di Dio non è realizzabile in pienezza in terra e che un tentativo di schierarsi dalla parte dell’utopia equivarrebbe alla più grande delle ingiustizie e delle prevaricazioni, come la storia dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo passato ha dimostrato. La politica è il luogo delle mediazioni possibili, ma necessarie. I farisei e gli erodiani interrogano Gesù sul tributo, ma non mettono minimamente in questione l’utilizzo di quelle monete che proprio l’imperatore ha coniato, con la propria iscrizione ed immagine, e senza le quali non sarebbe loro possibile alcuno scambio economico. Su quelle monete figurava l’immagine di Tiberio e quelle monete erano garantite dall’autorità di Ponzio Pilato.

Ma è la finale della risposta a creare la sorpresa più significativa: «E rendetelo quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12, 17). Ancora una volta Gesù senza il Padre sarebbe incomprensibile. Sempre a Lui egli riconduce i suoi ascoltatori. Essi, con grande disinvoltura - ed, in fondo, a ragione - fanno uso delle monete di Cesare, riconoscendo di fatto che senza qualcuno che governi non si può vivere. E, di fatto, essi danno a Cesare ciò che è suo. Avviene lo stesso con Dio? Essi lo riconoscono come uno che deve essere preso in considerazione, come colui che è Signore delle cose sue?

I farisei e gli erodiani hanno dinanzi a sé non solo le monete con le immagini dell’imperatore, ma hanno soprattutto davanti il Figlio che porta l’immagine del Padre. Cosa faranno di lui? Cosa faranno di Colui che appartiene come cosa propria a Dio stesso? Una esigenza diversa da quella politica si manifesta qui: quella di riconoscere Dio ed il suo inviato come tali. Dio è Signore ben più importante di Cesare, eppure di Cesare accettano la presenza, di Dio essi rifiutano il Figlio!

Non solo il Cristo stesso, ma anche l’uomo è segnato dall’immagine divina, come già Israele aveva da sempre saputo. Quell’immagine impressa che segna la differenza fra l’uomo e l’animale, quell’icona visibile dell’invisibile che esprime la possibilità che solo l’uomo ha di essere in relazione libera, e quindi amorevole, con i suoi simili e con Dio stesso: «A immagine di Dio lo creò» (Gen 1,27).

Ecco il limite della politica ed ecco anche il suo fine. Essa non fonda i diritti dell’uomo, ma deve ad essi inchinarsi e servirli. Il compito dell’agire politico è quello di riconoscere la dignità dell’uomo e servirla. Perché i diritti umani hanno origine dalla dignità dell’uomo stesso che gli deriva dalla sua origine divina.

È in vista di questo servizio che il potere ha la sua necessità ed il suo senso nella storia umana. Di quell’immagine non si può fare “negozio”, perché non può essere comprata o venduta, perché non appartiene al novero delle cose materiali ed economiche: essa è, invece, senza prezzo, è di un valore inestimabile, è cosa di Dio stesso. È la dignità inalienabile dell’uomo che Gesù fa apparire.

La politica è così accolta, ma insieme demitizzata. Il dialogo con i farisei e gli erodiani indica da quel momento e per sempre la laicità della politica, la sua bontà e necessità, ma anche fornisce gli strumenti per opporsi al potere politico ogni volta che questo chiederà l’obbedienza assoluta, mettendosi al posto di Dio e negando la dignità dell’uomo.

19/ L’origine della libertà religiosa (dinanzi all’Arco di Costantino)

Ambientazione

Costantino si rifiutò di salire al Campidoglio per venerare le divinità pagane di Roma, dopo la sua vittoria su Massenzio. È un fatto che viene di rado sottolineato, ma che è storicamente molto importante: egli andò direttamente, al Palatino, salendo al Palazzo di cui abbiamo da poco visitato i resti. Sebbene non fosse ancora diventato cristiano, questo fatto segna un cambiamento decisivo nella storia dell’impero romano.

Tre anni dopo la vittoria di Ponte Milvio – che era avvenuta il 28 ottobre 312 – e precisamente nell’anno 315 venne terminato l’Arco che porta il suo nome. Un elemento ci riporta a questo cambiamento epocale. L’iscrizione dedicatoria recita:

IMPERATORI CAESARI FLAVIO COSTANTINO MAXIMO PIO FELICI AUGUSTO SENATUS POPULUSQUE ROMANUS QUOD INSTINCTU DIVINITATIS MENTIS MAGNITUDINE CUM EXERCITU SUO TAM DE TYRANNO QUAM DE OMNI EIUS FACTIONE UNO TEMPORE IUSTIS REM PUBLICAM ULTUS EST ARMIS ARCUM TRIUNPHIS INSIGNEM DICAVIT,

che tradotto significa: «All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato sul tiranno [Massenzio] e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi».

Importantissima è l’espressione che si reca alla terza riga: instinctu divinitatis, cioè “per ispirazione della divinità”. L’Arco, cioè, non parla di Cristo, ma nemmeno delle divinità del politeismo latino. Ormai Costantino afferma di avere un’unica divinità e che per ispirazione di una sola divinità egli ha condotto a buon compimento l’opera di unificazione dell’impero. Ovviamente l’intento è pubblicitario, ma nondimeno questo doveva essere l’atteggiamento di fondo dell’imperatore – e nella catechesi ne vedremo meglio il significato.

Prima di approfondire questo vale la pena sottolineare che l’Arco è costituito con opere prelevate da diverse opere pre-esistenti, fra cui anche archi oggi scomparsi, in particolare da quello che era stato dedicato da Commodo al padre Marco Aurelio, mentre altre opere sono riferibili all’età di Adriano.

Scolpiti ex-novo sono, invece, i 6 bassorilievi che raccontano la vittoria di Costantino. Iniziando dal lato corto che è rivolto alla Via Sacra che sale verso l’Arco di Tito e continuando poi in senso anti-orario, si vedono:   

I fregio: Costantino esce da Milano. In alto tondo costantiniano con Diana/Luna su biga
II fregio costantiniano: assedio di Verona.
III fregio costantiniano: battaglia di Ponte Milvio.
IV fregio costantiniano: Costantino entra in Roma. In alto tondo con Apollo/Sole che esce dal mare
V fregio costantiniano: Costantino parla dai rostra.
VI fregio costantiniano: distribuzione di donativi.

All’interno del fornice i bassorilievi sono di Traiano, riutilizzati per celebrare Costantino inneggiando al fondatore della pace (fundatori quietis: si rappresenta l’imperatore che entra in Roma) e al liberatore dell’urbe (liberatori urbis: si rappresenta l’imperatore dopo una sua vittoria in battaglia).

Di fronte al Colosseo si può vedere il Tempio di Venere e Roma eretto da Adriano, l’imperatore che combatté la II guerra giudaica, distruggendo definitivamente il Tempio di Gerusalemme e ricostruendo la città con il nome di Aelia Capitolina. Il Tempio duplice celebra Roma e l’imperatore come eterni ed, insieme, Venere, divina genitrice di Enea e con lui degli Iulii e della stirpe imperiale. Dall’altura del Tempio di Venere e Roma il papa conclude la via crucis il Venerdì Santo di ogni anno.

Catechesi

Abbiamo già visto come la Donazione di Costantino non sia una prova per legittimare il potere temporale del papa, bensì sia, invece, il segno di una autocoscienza acquisita da Roma nell’VIII secolo: il pontefice era ormai consapevole di non poter più contare sull’aiuto dell’imperatore nella lotta contro i longobardi per l’indipendenza di Roma e la conservazione della trasmissione della cultura latina, bensì doveva cavarsela da solo, perché l’imperatore era ormai impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro gli arabi musulmani che cercavano di conquistare l’impero bizantino e di cingere d’assedio Costantinopoli.

Ma quale fu, allora, il reale rapporto di Costantino con la Chiesa? In primo luogo vale la pena soffermarsi su quell’incontro personale con la fede cristiana che la dedicazione dell’arco ci pone sotto gli occhi. Costantino agì instinctu divinitatis, “per sollecitazione della divinità” e non “per sollecitazione delle divinità romane”.

Quando Costantino, che, alla morte del padre che era Augusto d’occidente, sconfisse prima Massimiano a Marsiglia nel 310 e scese poi verso Roma per combattere l’usurpatore Massenzio si accampò sulla via Flaminia prima della famosa battaglia di Ponte Milvio – sul luogo si erge ancora un antico arco che è detto Arco di Costantino a Malborghetto.

Massenzio commise l’errore di uscire dall’urbe, di attraversare Ponte Milvio e di attaccare battaglia in campo aperto. I suoi soldati furono respinti indietro come in un imbuto, nella rotta per riattraversare il Tevere e rientrare nelle mura. Nella ritirata, Massenzio annegò nel fiume, ma il suo corpo venne ritrovato e Costantino, nel corso del corteo trionfale con il quale attraversò la città da vincitore, lo fece esporre con la testa tagliata, perché i romani con lazzi e offese disonorassero il tiranno di Roma che era stato sconfitto.

Se questi fatti sono storicamente certi, dibattuta è la famosa visione che l’imperatore ebbe nel suo accampamento con la quale le fonti vogliono che gli venisse rivelata la certezza della vittoria “nel nome della croce”.

Gli studi moderni hanno, da un lato, provato che il racconto di quell’episodio è stato via via colorito ed accresciuto di particolari - la battaglia si svolse il 29 ottobre 312 - ma, d’altra parte, hanno confermato che in quella campagna Costantino dovette prendere decisioni che saranno decisive nello svolgimento degli eventi e che egli attribuì ad una ispirazione divina.

Lattanzio, che fu a Treviri precettore del figlio di Costantino, Crispo, scrive negli anni 318-321 che Costantino fu avvertito in sogno di incidere sugli scudi il segno delle lettere greche chi e rho (le prime due lettere della parola Christòs) che da allora fu chiamato “monogramma costantiniano” – monogramma che certamente Costantino poi utilizzò come simbolo, ad esempio nella monetazione. Lattanzio lo chiama il caeleste signum Dei.

Prima di lui, Eusebio, nella Storia ecclesiastica (composta negli anni 312-317, anche se poi ritoccata nel 323/324), aveva invece riferito più semplicemente di una preghiera fatta da Costantino, prima della battaglia, “a Dio ed al suo Verbo, che è Gesù Cristo, il Salvatore di tutti”.

Nelle opere di Eusebio il riferimento alla croce era poi divenuto sempre più evidente. Nel Panegirico per Costantino del 335 aveva affermato che mentre i nemici di Costatino combattevano “confidando nella moltitudine dei loro dèi” e portando “davanti a loro gli idoli, in simulacri senz’anima, quali cadaveri in vita”, l’imperatore aveva loro contrapposto “il segno che dà la salvezza e la vita”.

Nella Vita di Costantino, poi, pubblicata postuma poco dopo la morte di Eusebio avvenuta tra il 337 ed il 340, il racconto della visione di Costantino aveva assunto la forma definitiva che conosciamo: in una prima visione, al tramonto del sole, apparve a Costantino una croce con la famosa iscrizione “in hoc signo vinces” (naturalmente in greco), successivamente, nella notte, l’imperatore aveva visto Cristo stesso che gli era apparso, chiedendogli di erigere un labaro con l’insegna che aveva visto nella precedente visione.

Nei testi fin qui analizzati è evidente il crescere leggendario della conversione di Costantino, ma anche la costanza del riferimento a Cristo come figura importante nella vita dell’imperatore. La presenza di questo riferimento è confermata dalle fonti pagane, pur differenti da questi racconti, che sottolineano che un cambiamento era avvenuto nell’imperatore che, fino a quel momento, aveva venerato il dio solare, secondo la fede che era stata già di suo padre Costanzo Cloro.

Infatti, nel Panegirico per Costantino, scritto a Treviri da un anonimo panegirista pagano (scritto quindi alcuni anni prima dei testi di Lattanzio ed Eusebio) si legge così (dal Panegirico di anonimo per Costantino, figlio di Costanzo, Treviri, 313 d.C.; da Panegirici latini, D. Lassandro – G. Micunco, a cura di, UTET, Torino, 2000, pp. 288-293; 313-315; 323-325):

«Quale dio mai, quale divina potenza a te tanto vicina ti mosse, sicché, mentre quasi tutti i tuoi compagni e generali non solo borbottavano sotto voce, ma anche apertamente mostravano timore, mentre i consigli degli uomini ti erano contro, e ti erano contro i moniti degli aruspici, tu solo invece, da te stesso, sentivi che era venuto il tempo di liberare Roma? Tu hai, certo, o Costantino, qualche misterioso rapporto con quella mente divina che delega a divinità minori il compito di prendersi cura di noi, e a te solo si degna di mostrarsi direttamente. D'altra parte, o fortissimo imperatore, anche così, dopo che, cioè, hai vinto, ci devi una spiegazione... Chi ti ha dato consiglio se non la potenza di un dio? […] Per quanto quello [Massenzio] potesse mettere innanzi a sé truppe senza numero, tu avevi, però, dalla tua la Giustizia».

Nella lode sperticata e chiaramente espressa in chiave pubblicitaria che il panegirista pagano fa dell’imperatore egli viene messo in rapporto ad una divinità superiore che lo portò alla vittoria.

Un secondo elemento è ricordato in ambito pagano: Costantino viene criticato per non essere salito al Campidoglio per venerare, secondo la tradizione, gli dèi di Roma, la triade capitolina, il cui Tempio si ergeva appunto sul Campidoglio. Egli si ritirò, invece, rapidamente, dopo il trionfo, nel palazzo imperiale del Palatino.

La rapidità del corteo è attestata dal Panegirista del 313 che afferma: «Alcuni ebbero l'ardire di chiederti di fermarti ancora e di lamentarsi che così rapidamente tu fossi giunto al palazzo e, una volta entrato, di seguirti non solo con gli occhi, ma di fare quasi irruzione oltre la sacra soglia».

Infine un ulteriore elemento viene da una fonte pagana a confermare come i contemporanei di Costantino avessero colto in lui un mutamento di orientamento religioso. Lo storico Zosimo, che scrive alla metà del IV secolo al tempo di Giuliano l’Apostata, sposta successivamente, senza però contestare le fonti precedenti, la “conversione” di Costantino, e precisamente dopo il 326, dopo che l’imperatore aveva fatto uccidere la moglie Fausta ed il figlio Crispo, accusandoli di preparare una rivolta contro di lui e di una relazione amorosa. Precedentemente, per Zosimo, Costantino «seguiva ancora i riti patri, non per ossequio ma per convenienza» (Zosimo, Storia nuova II,29). Zosimo è uno storico pagano e, sulla scia di Giuliano, scrive contro Costantino e contro la sua politica di favore verso i cristiani.

Insomma, come ha scritto Marilena Amerise, grande storica dell’imperatore, «sia la versione cristiana sia quella pagana confutano alcune ipotesi moderne secondo cui la conversione non sarebbe rinvenibile nelle fonti; in secondo luogo dimostrano che, in positivo e in negativo, era stato avvertito nella società dell'epoca un cambiamento nell'orientamento religioso dell'imperatore». I contemporanei, insomma, e non solo i cristiani, avvertirono un forte mutamento nella vita dell’imperatore e, di conseguenza, nel tenore della sua politica.

Gli studi moderni, ormai pienamente consapevoli di questo, si orientano a vedere l’adesione dell’imperatore al cristianesimo come un evento graduale. Costantino dovette divenire progressivamente consapevole che la nuova fede era in continuità con ciò che già aveva professato ed, anzi, portava a compimento le aspirazioni religiose nelle quali era cresciuto.

L’adesione piena di Costantino alla fede cristiana avvenne solamente in punto di morte, quando egli ricevette il battesimo da Eusebio di Nicomedia, nel 337. Nel periodo precedente, se egli sostenne apertamente la chiesa ed i cristiani, come subito vedremo, non si schierò mai, però, apertamente contro il paganesimo. Sappiamo, ad esempio, che a Costantinopoli fece erigere anche due templi pagani, che a Spello fece erigere un Tempio alla gens Flavia, cioè alla propria famiglia divinizzata, come risulta da un’iscrizione, che volle sempre tenere in onore i senatori che erano in massima parte ancora di tendenze paganeggianti. Insomma l’iscrizione dell’Arco ci dice di un avvicinamento progressivo al cristianesimo convinto, ma prudente.

Questo progredire delle sue convinzioni in campo religioso appare evidente dalle concrete scelte che fece in materia religiosa a livello legislativo. Il documento più importante in materia che si è conservato è il cosiddetto Editto di Milano, firmato congiuntamente da Costantino e Licinio nel 313 (Licinio era, in quel momento, l’Augusto d’oriente). Ne è rimasta la versione inviata al governatore della Bitinia, nell’odierna Turchia che recita così:

«Essendo felicemente convenuti a Milano noi, Costantino e Licinio Augusti, e trattando tutto ciò che riguarda il bene e la sicurezza dello Stato, tra le cose che pensavamo avrebbero giovato alla maggioranza degli uomini, abbiamo deciso di stabilire prima di tutto quelle che riguardano la religione, in modo di dare ai cristiani e a tutti la libera facoltà di seguire la religione preferita, affinché la Divinità che risiede nei cieli – qualunque essa sia – possa concedere pace e prosperità a Noi e a tutti i nostri sudditi. Abbiamo pensato che con giusto e ragionevolissimo principio si dovesse decidere di non negare a nessuno, che segua la religione cristiana o un’altra per lui migliore, tale libertà, così che la Suprema Divinità, che liberamente veneriamo, in tutto possa accordarci il Suo consueto favore e benevolenza. Conviene dunque che la tua Eccellenza sappia che abbiamo deciso di abolire ogni restrizione, che ti sia stata affidata per iscritto sui cristiani, ed ogni provvedimento ostile e contrario alla Nostra clemenza e che d’ora in poi tutti quelli che vogliono osservare la medesima religione cristiana possano farlo con perfetta tranquillità e serenità» (dalla Lettera degli imperatori Costantino e Licinio al governatore della Bitinia, in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, X,5,4-14 e in Lattanzio, Sulla morte dei persecutori, XLVIII,2-12).

Si noti subito che il testo non si limita a dichiarare la libertà dei cristiani, ma afferma la libertà di coscienza nel seguire la religione che si crede. Anche da questo punto di vista il documento rappresenta una novità assoluta nella storia dell’impero romano e nella storia della civiltà più in generale.

Si deve notare anche che i cristiani sono nominati per primi. Tutti sono liberi di seguire le divinità che preferiscono, ma i cristiani vengono posti al primo posto e sono gli unici dei quali appare esplicitamente il nome. A differenza di quello che comunemente si afferma, Costantino non perseguitò assolutamente i pagani né fece del cristianesimo la religione di stato. L’unica legge emanata da Costantino nei confronti di altri culti fu il divieto di praticare l’aruspicina e la magia.

Si può immaginare la gioia che dovettero provare i cristiani, che uscivano dalla terribile persecuzione di Diocleziano. L’Editto di Milano continua affermando: «Abbiamo deciso di abolire ogni restrizione… Ordiniamo ancora che chi ha acquistato tempo addietro dal fisco o da qualche privato i luoghi medesimi, nei quali i cristiani usavano adunarsi – per i quali si diede specifica procedura in precedenti documenti -, li restituisca ai cristiani senza indugio e senza equivoco… e poiché si sa che i cristiani non possedevano soltanto i luoghi di convegno, ma anche altri spettanti alle autorità, non proprietà privata, ma delle chiese, tutto ciò comprendiamo sia ridato».

Si noti qui che si parla della restituzione di luoghi di culto confiscati. Vuol dire che già i cristiani possedevano luoghi di culto. In realtà già l’editto di Gallieno del 262, detto “editto di restituzione”, prevedeva la stessa cosa al termine delle persecuzioni di Decio e Valeriano.

Questo è importante perché mostra che la costruzione di edifici cristiani non è una concessione del potere, ma un’esigenza interna della Chiesa che aveva bisogno di luoghi di riunione, di preghiera e di servizio per i poveri e li edificò ben prima della svolta costantiniana. Sappiamo che le catacombe di Callisto erano di proprietà della comunità di Roma già nell’anno 200, che all’avvento al potere di Costantino in Roma si era già passati dalla preghiera nelle case private - le cosiddette domus ecclesiae - alla preghiera in vere e proprie chiese: Ottato di Milevi afferma che ne esistevano già 40 prima di Costantino. In Africa le chiese erano già chiamate basiliche, come ricordano gli atti dei martiri di Africa. Di tali edifici così antichi, oltre alla catacombe con l’iconografia già sviluppata nei sarcofagi decorati prima della pace costantiniana, è stato ritrovato un esemplare superstite, la famosa chiesa di Dura Europos, oggi in Siria, edificata e affrescata prima dell’anno 256 quando la città venne abbandonata all’arrivo dei persiani, con la presenza a fianco dell’aula di una sala battesimale con affreschi di tema neotestamentario.

Insomma, il cristianesimo aveva la necessità di esprimersi con edifici e con opere d’arte, con sculture ed affreschi non per concessione del potere imperale, bensì perché aveva qualcosa da dire: la sua capacità espressiva è innata, è coessenziale all’esigenza dell’annunzio del vangelo, e si manifestò pertanto anche quando la chiesa era ancora perseguitata. Con Costantino si ebbe solo una maggiore libertà nel farlo ed, anzi, fu l’imperatore stesso a finanziare la costruzione non solo della basilica di San Giovanni in Laterano e del suo battistero, ma anche di altre 8 basiliche in Roma, fra le quali Santa Croce in Gerusalemme (anche se il completamento di alcune di esse dovette avvenire con i suoi successori), e di chiese in diverse luoghi dell’impero, in particolare a Gerusalemme – basti qui ricordare l’Anastasis - e a Costantinopoli.

Gli studi moderni hanno dimostrato che la decisione con la quale Costantino dette la libertà ai cristiani e il sostegno con cui li appoggiò anche tramite la promozione degli edifici liturgici non fu per niente, a quel tempo, una scelta ovvia.

Il cristianesimo, infatti, a differenza di quello che comunemente si pensa, non era ancora maggioranza in tutto l’impero. Probabilmente il cristianesimo era già maggioritario in Siria ed Egitto (così afferma il Mazzarino), probabilmente anche in Africa, ma non lo era certamente in occidente ed, in particolare, a Roma. Il senato, in particolare, era saldamente ancorato alle antiche tradizioni romane che erano chiaramente di stampo pagano.

Qualcuno arriva ad ipotizzare che i cristiani fossero, al tempo della svolta costantiniana, il 40% circa del totale della popolazione dell’impero. Questa enorme crescita numerica era avvenuta in maniera assolutamente pacifica, solo per la testimonianza e la predicazione. L’aumento numerico dei cristiani era stato costante, nonostante le persecuzioni.

Come ha affermato Benedetto XVI il diffondersi del messaggio cristiano si era basato solo sul Logos e sull’Agape che lo caratterizzava:

«La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione».

Tanti cittadini dell’impero di allora erano stati attratti dalla serietà intellettuale della fede cristiana e dall’amore che la contraddistingueva. Nella mente e nel cuore di tanti, la fede aveva fatto breccia. La testimonianza dei martiri aveva portato tanti frutti.

Ma l’avvicinarsi dell’imperatore al cristianesimo e poi la sua piena adesione ad esso ebbero delle grandi conseguenze non solo perché permisero la nuova libertà dei cristiani, ma anche perché li obbligarono a nuovi vincoli – è un altro aspetto che viene abitualmente dimenticato nella presentazione di Costantino, che, come stiamo vedendo, è di solito molto imprecisa.

Questo appare immediatamente evidente se si considera il ruolo che l’imperatore volle subito giocare nella crisi ariana, così come, precedentemente, nella questione donatista.

La crisi ariana prende il nome da un prete di Alessandria d’Egitto (l’odierna al-Iskandariyya in Egitto sul delta del Nilo) che si chiamava Ario, nato intorno al 260. Intorno al 320, egli cominciò ad affermare che Cristo era una creatura e non era coeterno con Dio Padre. Egli interpretava l’espressione “figlio di Dio”, riferita a Gesù, nel senso che il Cristo era certamente la più grande delle creature, ma era pur sempre semplicemente una creatura; solo il Padre era perciò Dio. Probabilmente la teologia di Ario voleva salvaguardare l’unicità assoluta di Dio e, per raggiungere questo risultato, gli sembrava necessario sminuire il posto del Figlio di Dio che egli doveva vedere come una minaccia al monoteismo. Ario riprendeva la terminologia origeniana delle tre “ipostasi” (in latino “ipostasi” sarà poi tradotto con “persona”), ma affermava a differenza di Origene, che il Figlio, pur creato prima dei tempi e prima della creazione del mondo, era lo stesso creatura (ktisma e poiema). Il Figlio era, per Ario, l’unica creatura creata direttamente dal Padre, mentre tutto il resto era poi stato creato con la mediazione del Figlio; il Figlio era, comunque, “cronologicamente” posteriore al Padre.

Ario affermava: «Conosciamo un solo Dio, un solo ingenerato, un solo eterno, un solo senza principio, un solo vero, un solo che possiede l’immortalità, un solo sapiente, un solo buono, un solo potente» (Ario, Epistole 2,1.3;1,5; frag.2; cfr. M. Simonetti, La crisi ariana, p. 46).

Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto, la stessa città di Ario, gli si oppose. Atanasio spiegò che se Gesù non era coeterno con il Padre, neppure il Padre era Padre dall’eternità:

«Essi [gli ariani dopo Nicea] tengono lo stesso linguaggio temerario dei loro maestri e dicono: “Non da sempre vi è un Padre e non da sempre vi è un Figlio; infatti prima di essere generato, il Figlio non esisteva, ma è stato creato anch’egli dal nulla. Perciò Dio non da sempre è stato Padre del Figlio; ma quando il Figlio fu fatto e creato, allora anche Dio fu chiamato Padre suo» (da Atanasio, Il Credo di Nicea, 6, 1, p. 67 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

Atanasio difese la novità della fede cristiana, la verità della rivelazione neotestamentaria che afferma che, nel Figlio, Dio si è finalmente rivelato. Se Gesù fosse stato solo una creatura, Dio non si sarebbe ancora rivelato all’uomo e l’uomo non avrebbe potuto vedere il vero volto di Dio, perché Dio non avrebbe abitato in mezzo a noi. Tutto il Prologo di Giovanni non avrebbe alcun senso, ma non avrebbe alcun senso tutta la fede cristiana, che afferma che Dio si è infine rivelato e che nell’amore del Figlio ci ha amato personalmente.

Costantino, preoccupato della divisione che serpeggiava nell’impero, decise di convocare un concilio nel 325 a Nicea (oggi ?znik in Turchia) per dirimere la questione. I padri conciliari si espressero con una Professione di fede, il Credo niceno appunto, che affermava che il Figlio era omoousios, cioè “della stessa sostanza del Padre” (“ousia”, in greco, vuol dire “sostanza”), cioè coeterno con il Padre e Dio come il Padre stesso.

Quella parola omoousisos serviva a custodire la novità evangelica di Gesù Figlio di Dio. Gesù era Figlio di Dio non secondo quell’idea di figliolanza adottiva che era stata utilizzata dagli imperatori o dai faraoni – che avevano affermato di essere stati scelti come figli adottivi di Dio per il governo della terra – e nemmeno nel senso che ha l’espressione “siamo tutti figli di Dio” e nemmeno se si connota la figliolanza come espressione di una santità speciale che rende individui di un’altissima moralità particolarmente vari e vicini a Dio.

Gesù era l’unico Figlio del Padre, perché in Dio c’è l’amore del Padre e del Figlio e se non c’è l’uno non c’è neanche l’altro. La figliolanza del Figlio non ha paragoni che possano sussistere.

In un meraviglioso testo moderno, il grande scrittore inglese G.K. Chesterton, così presenta il vero nucleo della questione ariana (da L’uomo eterno, Rubbettino 2008, pp. 281-282):

«Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? […] La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici».

In questo divampare di discussioni, proprio Costantino non riuscì però a capire perché per i cristiani la teologia fosse così importante. Infatti, dopo aver appoggiato il Credi di Nicea, pretese poi che i vescovi non facessero distinzione con chi manteneva le tesi di Ario. È famosa una sua lettera che dice:

«Dico queste cose non per costringervi ad essere completamente d’accordo su una questione fin troppo sciocca, quale che possa essere. Infatti voi potete conservare integra la dignità dell’assemblea e mantenere l’accordo fra tutti, anche se fra voi c’è disaccordo su questioni di minimo conto: infatti non vogliamo tutti le stesse cose né abbiamo una sola indole e una sola idea» (da una Lettera di Costantino, in Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, LXXI, 6).

Nella stessa lettera, Costantino ripete più volte espressioni simili: «il pretesto da cui sono scaturiti [i conflitti] mi è apparso assai insignificante e niente affatto degno di una simile contesa» (LXVIII, 2) ed invita a valutare «se sia opportuno che una contesa verbale banale e di poca importanza spinga i fratelli a opporsi ai fratelli e che a causa di un’empia discordia si divida la preziosa unità del sinodo, per colpa nostra che litighiamo tra noi su questioni trascurabili e niente affatto necessarie» (LXXI, 3).

A lui interessava solo che ci fosse pace nell’impero, mentre una discordia lo avrebbe indebolito. L’imperatore affermava di comprendere una divisione che poteva nascere dall’interpretazione delle “leggi” religiose, ma non una che avesse a che fare con il dogma. Invitava, pertanto, a tacere le discordie dogmatiche ed a tenerle per sé, senza turbare gli animi: «la vostra contesa non entra nei meriti dei principali precetti della Legge» (LXX) e ciascuno, dinanzi a queste questioni dogmatiche è invitato «a tenerle chiuse nella [...] mente e a non esternarle temerariamente nelle riunioni ufficiali, né ad affidarle sconsideratamente alle orecchie del popolo» (LXIX, 2).

Costantino ragionava insomma come gli imperatori suoi predecessori: nel paganesimo non c’era questione di “verità”, di una adesione interiore che andava definita e precisata. Contava piuttosto l’ossequio esteriore, l’osservanza del culto e dei precetti. Per questo Costantino trattava il cristianesimo come i suoi predecessori trattavano le altre religioni antiche: “Che ognuno compia gli atti di culto ed obbedisca alle leggi religiose e si tenga per sé le convinzioni personali sulla verità”. Costantino, insomma, non capì che non poteva essere così nel cristianesimo: se, infatti, Gesù non è Figlio di Dio, tutto cambia! Se Gesù non ha rivelato Dio all’uomo, allora il cristianesimo non ha alcun senso.

Costantino scelse, insomma, il cristianesimo, ma non ne capì fino in fondo l’originalità e si comportò come se si trovasse ancora dinanzi a sacerdoti pagani, invitando i cristiani a soprassedere su questioni che non riguardassero il comportamento, la morale o le leggi.

Ha scritto in maniera splendida sulla questione il prof. Simonetti: «Se infatti Costantino, quando si autoelesse capo della chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico privo di complicazioni, quale era la funzione di pontefice massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che specificava la chiesa cristiana nei confronti delle religioni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla giorno per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'interno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare. Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e forma s'identificassero, perciò senza distinzione tra adesione esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso».

Anche oggi chi contesta il ruolo del dogma nella chiesa, non si rende conto che la questione della verità è decisiva nella fede cristiana. In fondo, non capisce affatto cosa sia il cristianesimo!

Questa sua incomprensione della vera natura della fede cristiana portò Costantino ad essere, in qualche modo, il primo rappresentante di un nuovo rapporto fra potere e religione che sarà chiamata cesaropapismo, cioè una visione del mondo dove Cesare cercherà di utilizzare al religione a suo uso e consumo. Questo tentativo del potere di controllare la fede cristiana avrà grandi conseguenze nei secoli successivi, basti pensare, ad esempio, alla crisi iconoclasta.

Eppure, proprio la decisione di spostare la capitale dell’impero da Roma a Costantinopoli fu una scelta che, nel tempo, si rivelò contraria alle intenzioni “cesaropapiste” che sempre più cresceranno nell’impero. Infatti, la lontananza dell’imperatore dal papa, la lontananza di Costantinopoli da Roma, genererà alla fine, l’indipendenza del potere spirituale, non più succube del potere statale.

Costantino, infatti, prese la decisione di edificare una nuova capitale cui dette il proprio nome: Costantinopoli. L’inaugurazione della nuova capitale avvenne l’11 maggio 330. Costantino volle che lì sorgesse un nuovo palazzo imperiale, che vi fosse un Senato, che tutta la popolazione ricevesse gratis dall’annona il grano, che vi sorgesse un circo per le corse con le stesse squadre del Circo Massimo di Roma, ecc. Insomma, la volle come una nuova Roma, dotata di tutti i privilegi della prima Roma.

Da quel momento in poi l’imperatore cessò di risiedere a Roma, per abitare sul Bosforo. I secoli successivi dettero ragione alla scelta di Costantino, che probabilmente aveva intuito che il futuro dell’impero si giocava in oriente e che i popoli barbari avrebbero prima o poi fatto irruzione all’interno dei confini dello stato, soprattutto in occidente.

Come è noto il nome odierno della città è ?stanbul che viene dal greco “eis ten polin”, cioè “verso la città”, proprio perché Costantinopoli divenne la “città” per eccellenza, l’urbe nuova appunto.

Da quella scelta di abitare lontano nacque il potere temporale del vescovo di Roma, ma soprattutto divenne più evidente la libertà del papa.

Antologia per la riflessione personale

- Cfr. Il Museo Pio Cristiano (Musei Vaticani): l'iconografia paleocristiana, di Andrea Lonardo

- La bellezza salverà la catechesi? Alcuni presupposti della via pulchritudinis nell'annunzio del Vangelo, di Andrea Lonardo

20/ La vergogna di Roma, i giochi gladiatori (dinanzi al Colosseo)

Ambientazione

Al primo piano del Colosseo, dove vengono presentati diversi reperti introduttori alla sua storia, è collocato un grande blocco di marmo grigio, che venne trovato nel 1813 sull’arena del monumento. Potrebbe essere appartenuto all’architrave della porta interna posteriore del Colosseo.

Sul lato frontale è un’iscrizione appartenente al V secolo d.C. che si riferisce a un restauro dell’anfiteatro avvenuto per cura del senatore Rufius Coecina Felix Lampadius, prefetto di Roma durante il regno degli imperatori Teodosio II e Valentiniano III, probabilmente negli anni 443-444.

La lastra conserva i fori che vi erano stati praticati per apporvi le lettere in bronzo di un’iscrizione antecedente, che venne poi distrutta.

Grazie alla distribuzione dei fori (che dovevano venir occupati dalle lettere in modo adeguato), alla conoscenza del formulario dei testi di questo genere e alla testimonianza letteraria e archeologica sulla storia del monumento è stato possibile ricostruire l’antica iscrizione con lettere bronzee.

Il testo, secondo la versione proposta da Géza Alföldy, «sarebbe stato redatto nel modo seguente (nelle parentesi quadre sono indicate le lettere i cui fori di fissaggio sono andati perduti, in quelle rotonde è presentato lo scioglimento delle abbreviazioni): I[mp(erator)] Caes(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)] / amphitheatru[m novum?] / [ex] manubis [fieri iussit (?)]; tradotto, significa: “L’imperatore Cesare Vespasiano Augusto fece erigere il nuovo anfiteatro con il provento del bottino”.
Grazie a un’analisi più attenta si può invece osservare che nella prima riga, mediante l’addizione di nuovi fori, le lettere CAE furono addensate tra loro e che prima di queste venne inserita una lettera aggiuntiva. La nuova versione risulta essere: I[mp(erator)] / T(itus) Cæs(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)]; e cioè: “L’imperatore Tito Vespasiano Cesare Augusto”.
Si tratta di Tito, il figlio di Vespasiano. I fori di fissaggio della versione originaria non più utilizzati furono coperti quasi perfettamente dalle nuove lettere. Tutto ciò concorda con ciò che è ben noto della storia del Colosseo. Come dice Svetonio, fu Vespasiano a far erigere il Colosseo e, in base a una fonte d’epoca posteriore, fu già questo imperatore ad aprire al pubblico il nuovo anfiteatro, pur se i lavori di costruzione non erano ancora stati terminati.
Si sa, però, da altre fonti, che fu Tito a inaugurare nell’anno 80 l’edificio con grandiose manifestazioni; per questo motivo, Tito veniva considerato come l’edificatore del Colosseo. Le due versioni dell’iscrizione si spiegano con chiarezza: la versione originaria fu redatta poco prima della morte di Vespasiano, avvenuta il 23 giugno del 79; quella modificata fu creata in occasione della solenne inaugurazione nell’anno 80, al fine di glorificare l’imperatore al potere e, cioè, Tito.
L’iscrizione presenta, però, una grande novità: il finanziamento dei lavori veniva fornito
ex manubis. La costruzione di edifici pubblici, grazie ai proventi del bottino, rispettava la tradizione della repubblica romana.
Qui si tratta dell’immenso bottino fatto da Tito nella guerra contro gli ebrei. Flavio Giuseppe riferisce del tesoro del Tempio di Gerusalemme e, in particolare, dell’arredamento aureo dell’edificio sacro, che fu depredato dai romani
. In questo modo si può affermare che non soltanto l’arco di Tito con i suoi rilievi, raffiguranti l’arrivo a Roma dei vincitori carichi del bottino fatto nella Guerra Giudaica, ma che anche il Colosseo sia un monumento alla vittoria dei romani e, al contempo, alla tragedia delle sue vittime».

L’iscrizione fornisce così un particolare estremamente interessante che lo collega alla storia neotestamentaria ed alla Guerra Giudaica.

L’edificio ha una storia che merita ricostruire a grandi linee[1]. Dopo l’incendio che nel 64 d.C. distrusse gran parte degli edifici posti nella valle tra le alture del Palatino, Fagutale, Celio, Oppio e Velia, l’imperatore Nerone intraprese sulle rovine la costruzione di una reggia di dimensioni grandiose, la Domus Aurea. Tra i portici della villa era stato progettato un lago artificiale. Alla morte di Nerone però, il suo successore Vespasiano decise di donare al popolo romano delle opere pubbliche che prendessero il posto della Domus Aurea.

Al posto del lago venne così costruito l’Anfiteatro Flavio. I lavori iniziarono nel 72 d.C. L’inaugurazione ufficiale, avvenuta come si è già detto nell’anno 80, durò 100 giorni, durante i quali, secondo la narrazione di Dione Cassio, morirono 2.000 gladiatori e circa 9.000 animali. Il Circo venne completato solamente sotto Domiziano. Tutti e tre gli imperatori appartenevano alla dinastia dei Flavi, da cui il nome. Il nome Colosseo compare per la prima volta intorno all’anno 1000 e si riferisce all’enorme statua raffigurante Nerone (alta circa 36 metri) e poi trasformata con la sostituzione della testa nel Dio Sole, ispirata al Colosso di Rodi che fu fatta spostare da Adriano vicino all’Anfiteatro, dopo essere stata tolta dalla sua originaria collocazione nell’atrio della Domus Aurea. Tale statua fu posta su un piedistallo che le faceva raggiungere la stessa altezza del Colosseo.

L’Anfiteatro Flavio ha una pianta ellittica di 187,77 x 165,64 metri e un’altezza di 49 metri, l' arena misura 77 x 46,50 metri. È costituito da tre piani composti ciascuno da 80 arcate ornate con colonne in stile rispettivamente dorico, ionico e corinzio e da un quarto piano con finestre rettangolari e mensole alle quali erano fissati dei pali di legno necessari per distendere con un complicato e ingegnoso sistema di funi e carrucole il velarium, una tenda che copriva completamente l’anfiteatro per proteggere gli spettatori dal sole e dalla pioggia. La manutenzione del velarium era affidata a marinai, esperti nel manovrare le vele, che provenivano dalla flotta di Miseno ed alloggiavano in una caserma vicina.

Nell’Anfiteatro Flavio si tenevano diversi tipi di spettacoli, che si susseguivano in base ai diversi orari della giornata e quindi alla maggiore o minore affluenza di pubblico.

La mattina si svolgevano le venationes, rappresentazioni di caccia alle belve, incorniciate da scenografie molto curate. Da elevatori meccanici distribuiti lungo il perimetro dell’arena comparivano improvvisamente boschetti, ruscelli e animali di ogni specie provenienti dai territori imperiali dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente.

Si eseguivano nel Colosseo anche condanne a morte di persone che venivano portate inermi nell’arena e giustiziate da uomini armati o sbranate da animali feroci.

Nel pomeriggio si svolgevano le lotte tra gladiatori (da gladio, il nome della spada che alcuni di loro portavano), i munera, lo spettacolo più popolare e più apprezzato in assoluto dai romani, nato anticamente in occasione di funerali di persone importanti, ma via via sempre più praticato e diffuso a fini spettacolari. I gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra o uomini senza mezzi economici che speravano di guadagnare fama e denaro seppure con una professione estremamente crudele e rischiosa. Non esistono prove precise del fatto che i cristiani abbiano subito il martirio nell’anfiteatro Flavio, ma è probabile che molti dei condannati giustiziati durante i crudeli spettacoli che lì si tenevano appartenessero alla nuova religione.

Nel Colosseo si sono tenute, almeno nei primi tempi, anche delle naumachie o battaglie navali, per le quali si poteva in breve tempo riempire d’acqua l’arena, regolandone poi il deflusso grazie a due canali anulari sotterranei. La capienza dell’anfiteatro era di circa 50.000 persone che accedevano alle gradinate tramite i vomitoria (gli ingressi), tutti numerati, poiché numerosi spettatori erano in possesso di una tessera, e si sistemavano nei vari ordini di posti in base al loro ceto sociale. I palchi collocati alle estremità dell’asse minore erano i “pulvinari”, quello a sud-ovest riservato agli imperatori (in marmo), quello di fronte ai dignitari e alle Vestali. I posti meno prestigiosi erano gli ultimi in alto, costituiti da panche di legno e destinati alle donne della plebe.

L’arena aveva il pavimento di legno ricoperto di sabbia e l’area sottostante era occupata dai sotterranei, nei quali si trovavano le celle per gli animali e tutti i materiali necessari per gli spettacoli. Il materiale impiegato per il rivestimento del Colosseo era in larga parte il travertino, si calcola che ne siano stati usati 100.000 metri cubi, che avrebbero richiesto almeno cinquantamila carri per il trasporto dalle cave di Tivoli durante gli anni necessari per il completamento dell’edificio. I massi venivano tenuti insieme da perni di metallo (l’asportazione di questi perni metallici è la causa dei fori visibili oggi).

Nel 442 e nel 508 due terremoti di grande intensità danneggiarono il Colosseo. Nel periodo delle invasioni barbariche Roma conobbe un periodo di forte decremento demografico (secondo gli studi più accreditati si passo dal milione di abitanti dei tempi di Augusto ai centomila del tempo di Gregorio Magno) e via via gran parte dei quartieri e dei monumenti restarono abbandonati. Il Colosseo venne così utilizzato dalla popolazione come cava di pietre e come luogo di produzione di calce. Nei fornici vennero costruite abitazioni private. In alcune zone addirittura gli archeologi hanno rinvenuto tombe.

Infine fu papa Benedetto XIV a consacrare l’arena ai martiri, salvando così l’edificio dalla totale distruzione. Pio VII nel 1805 e Pio IX nel 1852 fecero costruire degli speroni per consolidare l’anello esterno delle mura.

Nell’800, il Colosseo, completamente abbandonato, era invaso da piante e fiori. Esiste uno studio di Deakin, “Flora of the Coliseum”, del 1855, che enumera ben 420 specie di piante presenti. La difesa del monumento dall’aggressione della popolazione proseguì dopo l’unità d’Italia quando l’archeologo P. Rosa, per procedere a dei lavori di restauro e a degli scavi nell’area, fece ripulire completamente l’arena.

Catechesi

Il Colosseo è un luogo demoniaco. Inorridisco quando lo vedo esaltare come un simbolo di Roma. Del Colosseo i romani si debbono vergognare come di uno dei punti più bassi che siano mai stati raggiunti nella storia della città. Non ho difficoltà a dire che il Colosseo è un luogo che ci deve fare schifo. Ne parliamo per dirne tutto il male possibile, per comprendere l’abisso di orrore che vi si è consumato.

Certo i giochi giunsero a Roma alla metà del II secolo a.C. con origini tuttora discusse – forse etrusche o campane. Ma è a Roma che ebbero il massimo sviluppo. Divenne famosa l’espressione panem et circenses. Il potere politico, per tenere sotto controllo la popolazione, offriva gratuitamente il pane – a Roma i cittadini avevano diritto alla distribuzione gratuita del grano – e i giochi circensi. Bastava offrire, oltre al grano, lo svago del c irco per essere sicuri che la popolazione non si sarebbe ribellata, presa come era dai suoi “divertimenti”. Agostino, nei suoi scritti, si pone la domanda serissima: perché i giochi erano più amati di Cristo? Perché i gladiatori interessavano più del Vangelo? Si noti che tale domanda serissima era aggravata dal fatto che allora tali “divertimenti” comprendevano la morte fisica e cruenta di tante persone, ma una domanda simile deve essere posta anche dinanzi ai moderni divertimenti che prolungano il Circo. Si pensi alla corrida spagnola – ultimo resto dei giochi gladiatori, dove l’uomo non lotta con altri uomini e bestie, ma solo con una bestia particolare, il toro – ma anche al calcio, dove uomini lottano fra di loro, senza doversi più uccidere per vincere. Perché il popolo ama più il calcio del Vangelo? Perché osanna più i calciatori di Cristo?

Certo è che gli imperatori sapevano bene che il pane non era sufficiente per tenere quieta la popolazione: alla popolazione non basta il pane, anche i pagani sapevano che “non di solo pane vive l’uomo”. Ciò che essi offrivano oltre al pane era il “divertimento”, il tifo nella lotta per la sopravvivenza del gladiatore amato.

Ebbene non ci fu una vera opposizione ai giochi gladiatori fino all’avvento del cristianesimo che per primo li criticò. Si trova qualche voce critica, ma mai in maniera radicale.

Cicerone, ad esempio, apprezzava il coraggio di persone per lui abiette come i gladiatori perché esso poteva insegnare ai virtuosi a non avere paura: per lui, però, i giochi erano uno spettacolo infimo. Seneca affermava di ritornare peggiore dopo essere stato in mezzo agli spettatori dei giochi, ma anche per lui il rifiuto non era morale: la sua critica si appuntava essenzialmente sull’essere i giochi un fenomeno di massa e quindi, non adatto a personalità più intellettualmente elevate.

I cristiani, invece, furono contrari fin dall’inizio. Non solo perché, come ricorda Clemente Alessandrino, la tribuna dell’arena inselvatichisce, ma soprattutto per l’assurdità di accettare l’uccisione di essere umani, spettacolarizzandola. Non fu solo il ricordo dei martiri cristiani a determinare l’opposizione più netta, ma una critica radicale tout court. I cristiani criticarono anche i giochi come falso mezzo per una ascesa sociale (quando il popolo o l’imperatore concedevano la vita ad un gladiatore). Eppure ci vollero secoli perché la critica dei cristiani venisse accettata.

Cominciò nel 325 Costantino, di cui è nota una direttiva a Massimo governatore di una parte delle province in Oriente: lo invitava a punire non tramite i giochi, bensì con lavori forzati nelle miniere. Eppure lui stesso previde nel 328, giochi ad Antiochia. Sappiamo dal calendario di Filocalo che nel 354 ci furono 10 giorni riservati ai giochi gladiatori. Nel 367 Valentiniano I proibì la condanna dei cristiani all’arena, ma la conservò ancora per i non cristiani. Nel 393 Simmaco – il senatore di cui si è già parlato per il conflitto con Ambrogio vescovo - fece organizzare solenni giochi gladiatori. Nel 399 Onorio, figlio di Teodosio, proibì le scuole di gladiatori. Nel 402 Onorio proibì del tutto i giochi, ma Valentiniano II li riprese e poi nel 439 li sospende di nuovo. Una leggenda vuole che Onorio li avesse vietati dopo che il monaco Telemaco, venuto dall’Oriente a protestare contro i giochi, era stato linciato dalla folla nel Colosseo. In realtà la scomparsa è graduale e forse con Onorio si ebbero provvedimenti temporanei legati soprattutto a Roma. Sembra che, comunque, nel primo quarto del V secolo gli spettacoli comprendessero ormai solo venationes.

Nel 440 il vescovo Salviano si scagliò contro la caccia agli animali selvaggi, contro il teatro e contro le corse dei carri. Nel 519 il re dei Goti permise ancora al genero Cillica di organizzare caccie agli animali feroci fatti venire dall’Africa - lo racconta Cassiodoro, suo ministro.

Nel 523 si ha notizia di nuovi spettacoli sotto Teodorico, che però li avrebbe biasimati. Infine, nel 536, sotto Giustiniano si hanno le ultime notizie di spettacoli venatori.

Il tempo che ci volle per giungere alla definiva cessazione dei giochi – e contribuirono anche le mutate condizioni politiche con l’urbe sempre più povera – fanno ben capire quanto era radicata l’usanza dei giochi e quanto le proteste cristiane cozzarono contro il muro delle autorità civili.

Il rapporto con i Giochi gladiatori ci permette di chiarire una questione interessantissima e con conseguenze enormi per il futuro della storia della Chiesa. Qual è l’atteggiamento della Chiesa dinanzi alle culture che incontra? Le anatematizza e le distrugge? Oppure le accoglie? Riprendiamo qui una questione che già abbiamo visto trattando dell’altare al Dio ignoto.

Potremmo rispondere in prima battuta che l’atteggiamento della Chiesa non è né quello dell’accoglienza, né quello del rifiuto, bensì quello del discernimento, secondo l’insegnamento neotestamentario: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (1 Tes 5,21-22). Ce lo mostra proprio l’atteggiamento dei cristiani dei primi secoli con la cultura romano-pagana. Essi vagliarono la cultura degli uomini con cui vivevano e si resero conto che la filosofia, la ricerca scientifica e il diritto erano cosa molto buona. Tennero queste cose che erano molto buone. Si pensi alla nascita della teologia, alla terminologia tratta anche dai filosofi che venne accettata perché buona. Si pensi al diritto romano che si è conservato grazie alle compilazioni che ne fece fare l’imperatore Giustiniano. Il cristianesimo disse: Non dobbiamo fare a meno del diritto romano, anzi esso è globalmente saggio. Un filosofo della Sorbona, Rémi Brague, ha scritto che il cristianesimo si caratterizza per lo spirito “di secondarietà”: esso cioè accetta di essere “secondo”, di venire dopo altre esperienze culturali che sono buone e belle e, quindi, non intende distruggerle, bensì le studia e le valorizza.

Ma, insieme, in questo discernimento emerge anche il male di una cultura e il cristianesimo lo denuncia e lo combatte. Ad esempio, se il cristianesimo apprezzò la filosofia greca e romana, non avvenne lo stesso della mitologia: il politeismo pagano, per i primi cristiani, era giustamente idolatra. Per questo i padri, prolungando la critica veterotestamentaria agli idoli, mostrarono che la vera rivelazione di Dio era ben diversa dai miti relativi agli dèi che andavano abbandonati. Gli dèi lottavano fra loro, avevano sentimenti di gelosia, di lussuria o di rivalità: tutto questo era una mistificazione del vero volto di Dio che andava smascherata. Ma la critica feroce riguardò anche aspetti morali, come la disumanità dei giochi gladiatori. Questo aspetto della cultura latina venne rifiutato. I cristiani fuggirono con orrore da questa specie di male. Combatterono perché i Giochi venissero vietati.

È già evidente, così, il peculiare atteggiamento dei cristiani: né rifiuto, né accondiscendenza, bensì saper vedere l’opera dello Spirito in una cultura e saper cogliere altresì l’opera del male. Discernere, insomma. Si pensi come questo illumina l’atteggiamento attuale dei cristiani quando incontrano le nuove culture. Incontrando le diverse culture africane, i missionari diranno sì al senso della famiglia, al gusto per la danza e la festa, al rispetto per gli anziani, alla solidarietà che si instaura in una tribù, ma diranno no alla poligamia o al tribalismo, con il suo preferire gli appartenenti al gruppo e il mettere da parte chi appartiene ad un altro gruppo tribale: anche qui il discernimento. La denuncia del male può essere anche durissima, come avvenne con i Giochi, fino alla completa eliminazione di quella pratica.

Ma c’è un terzo elemento che bisogna considerare per comprendere tutta la ricchezza dell’atteggiamento cristiano dinanzi alle culture. La fede cristiana sa che se una cultura è viva è anche aperta: ecco dove si può inserire la fede cristiana come qualcosa che è atteso. Ogni cultura attende qualcosa che non ha e che solo il cristianesimo, che porta a compimento l’umano, può darle. I romani sapevano interiormente, in qualche modo, che il paganesimo non rispondeva alle attese del cuore e che i Giochi erano un abominio e quando il cristianesimo annunciò tutto questo, tanti ne furono conquistati. Sentivano che tutto il bene della loro cultura era in cammino ed aveva bisogno di Cristo per fiorire in pienezza.

Ecco i tre elementi che vediamo in gioco qui, così come nell’incontro fra il cristianesimo ed ogni cultura: apprezzamento del bene già esistente, rifiuto del male esistente, compimento delle attese presenti che emergono proprio a contatto con l’annunzio del Vangelo. Solo per dare un ulteriore esempio di questa dinamica del “compimento” si pensi alla valorizzazione di alcuni simboli pagani che i primi cristiani operarono. Il mondo pagano era interessatissimo, a ragione, alla figura di Apollo, alla bellezza che egli rappresentava – non si può vivere senza bellezza. Il cristianesimo affermò che il vero Apollo era Cristo, che in Gesù la bellezza si realizzava pienamente, una bellezza non più solo estetica e “platonica”, bensì una bellezza che accettava di essere sfigurata sulla croce per manifestarsi come la bellezza suprema del dono divino di amore.

La testimonianza dei martiri fu decisiva nel processo che portò al rigetto dei Giochi Gladiatori. Fra i tanti che vennero uccisi nell’arena, infatti, colpirono l’immaginazione degli spettatori proprio le morti di persone totalmente innocenti che offrivano la loro vita pregando per i loro assassini e rifiutandosi di combattere per salvare la propria vita. Fra questi una delle figure certamente più importanti è sant’Ignazio di Antiochia, un vescovo della Siria-Palestina di allora – vescovo di Antiochia di Siria, appunto, oggi in Turchia – che scrisse lettere alle comunità di diverse città, mentre veniva condotto prigioniero a Roma per il martirio. Il suo viaggio a Roma ed il suo martirio vengono datati intorno all’anno 110/111. Fra gli altri, si rivolse ai Romani. In questa lettera egli chiede ai cristiani di Roma – alcuni di essi erano già probabilmente vicini alla casa imperiale -, di non difenderlo, di non salvarlo dalla condanna a morte, di lasciarlo morire perché possa dare l’estrema testimonianza a Cristo:

«Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla» (IV,1-3).

Ignazio - è evidente - si aspetta di morire sbranato dalle belve, probabilmente al Colosseo.

Un aspetto interessantissimo della lettera ai Romani scritta da Ignazio in vista del martirio è l’attestazione chiara del ruolo particolare che Roma aveva già nel cristianesimo delle origini:

«Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico figlio, alla Chiesa amata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il nome del Padre» (I,1ss.).

Di questo indirizzo della lettera ai Romani, l’espressione più caratteristica è - ovviamente nell’originale greco che era la lingua che si utilizzava allora anche a Roma - προκαθημηνη της αγαπης, che traduciamo in italiano con “chiesa che presiede nella carità”. Si noti bene che qui ‘carità’ non indica l’atteggiamento caritatevole del cuore, ma è l’espressione tecnica con la quale si designa la ‘comunione dei cristiani’. La chiesa intera è chiamata ‘agape’, ‘carità’; i cristiani sono l’agape e la chiesa di Roma presiede a tutta la chiesa cattolica sparsa nel mondo, designata come carità. Questa ‘agape’, questo amore che unisce i cristiani nella comunione, ha una chiesa che presiede: la Chiesa di Roma ha un ruolo paterno particolare di presidenza nei confronti di tutti. Ignazio, che viene da Antiochia a morire a Roma, nel Colosseo, scrive mentre è in viaggio verso l’urbe, salutando la Chiesa di Roma con questo titolo.

Antologia per la riflessione personale

1 Tes 5,21-22 Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.

Note al testo

[1] Da qui in poi il testo sul Colosseo è stato redatto da Giulia Balzerani.

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:42 pm | | Default

«Corriamo velocemente durante il bombardamento per raggiungere i nostri poveri che ci attendono sereni. Sono molto anziani, alcuni non vedenti, altri con disabilità fisiche o mentali. Utilizziamo gli ultimi sacchi di farina e le ultime bottiglie d'olio proprio come la storia del Profeta Elia e della vedova. Dio non può mai essere da meno in generosità fino a quando rimaniamo con lui e i suoi poveri». L'ultima lettera delle suore di madre Teresa uccise in Yemen

Riprendiamo da Avvenire del 12/3/2016 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

"Insieme viviamo, insieme moriamo con Gesù, Maria e la nostra Madre". Così scrivevano le quattro suore Missionarie della Carità - la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta - uccise nello Yemen da un commando di fanatici islamisti, nell'ultima lettera inviata a giugno 2015 alle consorelle di Roma. Il contenuto della lettera è stato rivelato da suor Serena, in un'intervista di Pina Cataldo per il Tg2000, il telegiornale di Tv2000. "Per quell'amore e cuore di madre che avevano - ha spiegato suor Serena - non potevano abbandonare i loro ospiti che amavano e nei quali si identificavano. Volevano condividere le loro gioie e sofferenze e rimanere con loro fino alla fine".

"Abbiamo ritrovato in questi giorni - ha proseguito suor Serena - una loro lettera e rileggendola abbiamo compreso ora un significato molto più profondo e diverso alla luce di questi ultimi fatti". Nella missiva, riferisce la religiosa "le suore ci hanno scritto così: 'Ogni volta che i bombardamenti si fanno pesanti noi ci inginocchiamo davanti al Santissimo esposto, implorando Gesù misericordioso di proteggere noi e i nostri poveri e di concedere pace a questa nazione. Non ci stanchiamo di bussare al cuore di Dio confidando che ci sarà una fine a tutto questo. Mentre la guerra continua ci troviamo a calcolare quanto cibo potrà essere sufficiente. I bombardamenti continuano, le sparatorie sono da ogni parte e abbiamo farina solo per oggi'".

"Come faremo a sfamare domani i nostri poveri? Con fiducia amorevole - scrivevano le suore - e abbandono totale, noi cinque corriamo verso la nostra casa d'accoglienza, anche quando il bombardamento è pesante. Ci rifugiamo a volte sotto gli alberi pensando che questa è la mano di Dio che ci protegge. E poi corriamo di nuovo velocemente per raggiungere i nostri poveri che ci attendono sereni. Sono molto anziani, alcuni non vedenti, altri con disabilità fisiche o mentali. Subito iniziamo il nostro lavoro pulendo, lavando, cucinando utilizzando gli ultimi sacchi di farina e le ultime bottiglie d'olio proprio come la storia del Profeta Elia e della vedova. Dio non può mai essere da meno in generosità fino a quando rimaniamo con lui e i suoi poveri. Quando i bombardamenti sono pesanti ci nascondiamo sotto le scale, tutte e cinque sempre unite. Insieme viviamo, insieme moriamo con Gesù, Maria e la nostra Madre".

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:41 pm | | Default
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Raccontare sempre, senza sapere cosa. Tutto deve essere narrato, la ricerca di storie non ha più confini: mestieri, affetti, vite. Ma alla fine sono solo frammenti di istanti sommati privi di senso, di Roberto Cotroneo

Riprendiamo da Sette, supplemento de Il Corriere della sera, del 26/2/2016 un articolo scritto da Roberto Cotroneo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e media nella sezione Catechesi, scuola e famiglia

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Sembra che sia vero: quando si insiste in modo ossessivo su un concetto, su una pratica, su un sapere, significa che quel sapere o quel concetto è in crisi. Significa che ci sta scappando di mano. Gli ultimi anni sono ormai ossessivamente concentrati sull'idea di narrazione. Tutto deve essere narrazione. È narrazione qualsiasi lavoro, qualsiasi esperienza, è narrazione la vita quotidiana, è narrazione l'amore, la passione, l'emozione. Raccontare e raccontarsi è il punto di partenza di qualsiasi felicità, è il motore di ogni successo. Non avere narrazioni vuol dire essere poveri di tutto. Anche coloro che fanno mestieri per nulla narrativi come gli economisti, come i matematici, come i musicisti, subordinano tutto al racconto, alla narrazione. Le vite sono format, racconti, palinsesti, programmi. Ogni cosa che accade può essere raccontata, spiegata, resa efficace dall'arte del racconto.

Ma non è mai stato così poco vero come in questi anni. Le narrazioni si sono sbriciolate, frantumate in polvere di vetro. La mente multimediale, se ancora significa qualcosa questo termine, non è più in grado di pensare in termini narrativi continui e coerenti. Nei giorni scorsi i giornali e siti italiani riportavano quanto accadeva sul palco dell'Ariston di Sanremo. Scambiando il festival della canzone per una serie televisiva di poche puntate. Dando una lettura continua a qualcosa che non ha alcuna coerenza.

I programmi televisivi sono continuamente interrotti da altri strumenti narrativi che intervengono e si intrecciano tra loro. La gente guarda la televisione e passa da un programma all'altro. Sta cinque minuti su una partita di calcio, torna all'Ariston, e nel frattempo controlla quello che si dice di quanto sta vedendo sui social network. Prova a commentare perché il commento oggi è un modo per rendere coerente quello che coerente non è. Si commenta quello che si vede provando a mettere dei fili narrativi laddove non si riescono a trovare. Lo fanno primi fra tutti i critici televisivi, lo fanno gli spettatori che non hanno uno spettacolo ma flussi di immagini e parole che non obbediscono a regole precise.

LE MANOPOLE CHE FACEVANO CLIC

L'ossessione per la narrazione, per le storie, è figlia di questo smarrimento. Di questo universo frantumato. Agli albori della televisione c'erano i programmi e c'erano i canali. Un programma era qualcosa di coerente, ed era molto meglio vederlo dall'inizio per capire cosa stesse accadendo. Cominciare a guardarlo da metà non era una buona cosa. Cambiare canale era cambiare universo. Erano mondi che non si toccavano. Le manopole analogiche facevano click per passare dal primo al secondo, ed era un'altra storia. Poi il telecomando permise lo zapping, termine degli Anni 80 che significava modernità.

Poi è arrivato il web che ripete, ripropone quel che si è visto, e permette di parlarne su livelli diversi. Le serie hanno permesso di entrare nel tempo narrativo da qualsiasi momento lo si voglia.

E lo spacchettamento dei programmi, ritrovabili su YouTube quasi in tempo reale hanno consentito a tutti di scegliere in che punto essere spettatori e in quale altro non esserlo più.

Non c'è più tempo per storie coerenti. Come non c'è più tempo per le narrazioni. Le immagini non raccontano, semmai suggestionano, i programmi non sono più programmi, sono deprogrammati.

La soglia di attenzione è breve. II web fa il resto. Si possono persino fermare i programmi per riavviarli pochi minuti dopo essere tornati dalla cucina a bere un bicchiere d'acqua. E persino fermare l'informazione mentre accade.

I veri palinsesti non esistono più. Le storie valgono niente. E le narrazioni sono soltanto un tic nevrotico di un mondo di istanti sommati. Ma domandarsi ancora cosa sia un programma televisivo, se sia andato bene, se l'audience era soddisfacente è un vecchio romanzo d'appendice ormai illeggibile. Come si sarebbe detto un tempo: non c'è più niente da raccontare e la televisione è morta, e proprio per questo non si è parlato mai così tanto di televisione e di narrazioni come in questi anni.

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:38 pm | | Default

1/ Quale islam?, di Zouhir Louassini 2/ Passi avanti a Marrakech, di Zouhir Louassini

1/ Quale islam?, di Zouhir Louassini

Riprendiamo dal sito Eastonline  http://www.eastonline.eu/it/eastwest-64/quale-islam un articolo pubblicato il 23/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Dei quattro califfi che succedettero al profeta Maometto, tre furono uccisi. La lotta per il potere che l’Islam conobbe ai suoi inizi è molto lontana dall’immagine idilliaca che alcuni musulmani, soprattutto i più ortodossi, conservano della loro religione. L’ideologia jihadista per esempio, si fonda sulla possibilità di tornare indietro nel tempo, fermandolo all'“epoca dorata” che comprende la vita del profeta e dei suoi compagni.

L’idealizzazione del passato è la dottrina principale di una visione del mondo incapace di assimilare, rifiutandoli, i cambiamenti della realtà moderna nelle società islamiche. È la sintesi, in un certo modo, della frustrazione vissuta da un mondo arabo incapace di stare al passo con le trasformazioni globali, rimanendo quindi al margine della storia. Quello che la stampa occidentale, soprattutto quella italiana, considera un pericolo, non è altro che un problema, serio certamente, che bisogna affrontare con lucidità.

Il jihadismo e la sua violenza spesso ci impediscono di riconoscere i veri pericoli di cui bisognerebbe, invece, essere coscienti. Per focalizzare il pericolo reale, probabilmente, occorre con urgenza mettere tutta l’ideologia jihadista, che non è altro che un’estensione dell’islam politico, all’interno del suo contesto storico e sociale.

Tutto inizia con i Fratelli musulmani che nascono come associazione segreta nel 1928, in Egitto, pochi anni dopo la caduta dell’impero Ottomano. Gli inglesi occupavano il Paese e la presenza occidentale era vissuta come l’imposizione di valori stranieri che miravano alla distruzione dell’islam.

In campo internazionale: siamo nel periodo storico in cui il fascismo e il nazismo iniziano ad avere seguaci ovunque. La concezione nazionalista di questi due movimenti ha influenzato certamente la visione ideologica dei Fratelli; ma con una differenza molto rilevante: il nazionalismo, per loro, non è solo una proiezione territoriale: è soprattutto un’appartenenza religiosa.

Finalmente, il conflitto arabo-israeliano. Nel 1935 i Fratelli entrano in contatto con Amin al-Husseini, il Gran Mufti di Gerusalemme, e partecipano alla rivolta araba in Palestina nel 1936. Nel 1945, Said Ramadan crea un braccio armato del movimento che ha l'obiettivo di combattere il movimento sionista. I Fratelli Musulmani, non a caso, partecipano attivamente alla guerra arabo-israeliana del 1948.

L’organizzazione, considerata da molti osservatori un movimento populista, non ha mai smesso di usare il suo motto, che sintetizza tutta la sua ideologia: "Dio è il nostro obiettivo, il Profeta è il nostro capo, il Corano è la nostra legge, il jihad è la nostra via, morire nella via di Dio è la nostra suprema speranza".

Più chiaro di così...

Anche se questo movimento islamista fu fondato da Hassan al-Banna (1906-1949), si può affermare che l’ideologo per eccellenza dei Fratelli sia Sayyid Qutb (1906-1966). La sua opera è, in generale, un vero “manifesto” dell’islam politico. Qutb sostiene che l’Islam sia in crisi. I milioni di persone che si dicono musulmani di fatto non capiscono bene la loro religione. Semplicemente: non sono dei veri musulmani. Bisogna, allora, ritornare ai valori originari, quelli veri. Tale ritorno necessita, per guidare le masse, di una élite che giochi lo stesso ruolo dei compagni del Profeta agli albori dell'islam. Questa élite è stata chiamata da Qutb, in più di un libro, annawâte assalba (letteralmente: "nocciolo duro"). Quindi l'obiettivo è quello di ri-islamizzare la società perché l’islam è la soluzione per affrontare tutti i problemi politici, economici e sociali. Un discorso semplice e chiaro che va dritto al cuore di una società che si sente vittima “di un complotto internazionale sionista”. La logica del complotto è, infatti, parte integrante della visione ideologica di Qutb.

I commenti che fa al Corano e soprattutto l’interpretazione della sura 57 (al-Hadid) e 112 (al-Iklhas), fanno sì che Sayyid Qutb sia considerato il padre dell’apostasia (al-Takfir). Qutb giustifica così l'uso della violenza e del terrorismo contro i non-musulmani e gli apostati, nel tentativo di portare il regno di Dio. Non è casuale allora trovare nomi come Osama Bin Laden, Ayman Al-Zawahiri e Abdullah Azzam, tra coloro che hanno messo in pratica questi princìpi, con la creazione di organizzazioni terroristiche orientate a un piano d'azione globale.

Il jihadismo, come lo conosciamo oggi, non è altro che il frutto di un pensiero totalitario che usa la religione per nascondere i propri obiettivi politici e la lotta per la conquista del potere. Un pensiero che considera la modernità - tutta la modernità - come un pericolo. Perché è vista esclusivamente come frutto dell'evoluzione della cultura occidentale, concepita come antagonista alla religione islamica. Un pensiero che trova un amplissimo supporto ideologico nella letteratura della “fratellanza musulmana”.

Questa ideologia trova terreno fertile nella realtà dei paesi islamici, anche perché l’Occidente non riesce a trovare un “rimedio” diverso da quello militare. La cultura dominante nei paesi musulmani vuole che religione e governo siano tutt’uno.  Un fatto che “semplifica la vita” a chi vuole usare la fede per arrivare al potere. Trasformare le rivolte della “primavera araba” in rivoluzioni islamiche, per esempio, è stato agevolato anche dall’ambiguità delle forze politiche laiche, chiamate a proporre un progetto politico scevro da qualsiasi connotazione religiosa. Non potevano né possono farlo senza essere visti come la quinta colonna dell’Occidente nemico.

Quando “Le Monde” in un editoriale (11-07-2013) afferma che “l’islamismo non è un progetto di governo” dimentica che nella zona ci sono due paesi, che anche se con grandi differenze, sono governati da questa ideologia: Iran e Turchia.

Da un lato la Turchia, paese costituzionalmente democratico e laico, che fa parte della maggioranza sunnita; dall'altro l’Iran, paladino dello sciismo e stato teocratico per eccellenza. Due paesi così diversi, con divergenze politiche mai nascoste, avrebbero lo stesso riferimento ideologico?  

Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi), al governo di Ankara dal 2002, nato nel solco della tradizione dell'Islam politico, l'ha moderata per volgersi verso una “democrazia conservatrice”. Per questo non mancano quelli che affermano che l'AKP avrebbe un'agenda “nascosta”, coincidente con quella, dichiarata, dei Fratelli Musulmani.

Il fondatore del partito e attuale presidente dello Stato, Tayyeb Rejeb Erdogan, fu imprigionato nel 1998 dopo essere stato giudicato colpevole di incitamento all'odio religioso per aver declamato pubblicamente i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati...”. Da quando è arrivato al potere, dopo aver smussato alcune asprezze del suo discorso, non avrebbe fatto altro, secondo alcuni, che cercare di minare la laicità dello stato.

Nel caso dell’Iran sembra difficile a prima vista qualsiasi tipo di relazione tra i Fratelli Musulmani e la Repubblica Islamica Iraniana. In effetti, la Fratellanza trova la sua fonte teologica nel radicalismo sunnita, mentre l'Iran è il paese sciita per eccellenza. Invece la connessione c’è e la troviamo proprio nella rivoluzione Khomeiniana.

Michael Prazan, autore del documentario “Fratelli Musulmani: ultima ideologia totalitaria”, spiega che nonostante le differenze teologiche e religiose bisogna essere consapevoli del fatto che, da un punto di vista ideologico, ci sono pochissime differenze tra la rivoluzione islamica iraniana e la fraternità.

Nel 1954 il famoso dottore di religione Navaf Safavi (1924-1955) si recò al Cairo su invito di Sayyid Qutb. Safavi aveva letto tutti i suoi libri e ne condivideva le idee, anche quella di reislamizzare la società. Alla fine del viaggio Safavi decise di cambiare il nome del suo movimento da Fedayeen dell'Iran a al-Muslimeen Ikhuan (i Fratelli Musulmani). Safavi è stato quello che introdusse al pensiero della fratellanza il leader della rivoluzione iraniana, Ayatollah Khomeini. Quest’ultimo citava spesso Sayyid Qutb nei suoi discorsi.

Un dato indicativo potrebbe essere la traduzione di due dei volumi più importanti di Qutb in persiano dall'attuale leader supremo della rivoluzione iraniana, Ayatollah Khamenei. Questi due volumi sono stati ampiamente diffusi in Iran e considerati fino a oggi tra i libri islamici più letti. Non è casuale dunque che le idee di Sayyid Qutb si trovino nei principi fondamentali della Repubblica Islamica Iraniana.

Il viso pragmatico e, se vogliamo “moderato”, dell’islam politico, non può nascondere che il jihadismo moderno nasce dallo stesso embrione. Al-Qaeda, l’Isis, Boko Haram e tutti i movimenti violenti che fanno riferimento alla religione islamica non sono altro che una sfumatura di un’ideologia che guadagna terreno ogni giorno. Se non c’è una visione globale per capire la radice del problema, tutti gli sforzi militari - se non sono accompagnati da un progetto culturalmente valido che evidenzi la complessità della situazione mediorientale, le difficoltà e i conflitti reali - non saranno sufficienti per combattere un cancro che sta divorando per il momento gran parte del mondo arabo islamico. Per il momento.

2/ Passi avanti a Marrakech, di Zouhir Louassini 

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 29/1/2016 un articolo scritto da Zouhir Louassini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Non si può che incoraggiare chi ha deciso di organizzare la conferenza di Marrakech sulle minoranze religiose. Le parole chiare pronunciate dagli ulema sul terrorismo — definito «una patologia dell’islam» — sarebbero da incorniciare per coraggio e lucidità. La lucidità di chi ha capito e il coraggio di chi asserisce, finalmente coram populo, che nessuna religione può mai giustificare l’uccisione di innocenti.

Era diventato urgente che si sentissero alte le voci di chi, dall’interno dell’islam, condanna fortemente tutti i fomentatori dell’odio. A Marrakech quelle voci si sono udite, chiarissime. L’incontro — due giorni di lavoro — si è chiuso con un documento pieno di buone intenzioni: un accorato appello al dialogo e al rispetto reciproco.

La dichiarazione finale contiene riferimenti espliciti e continui ai principi universali e ai valori «sostenuti dai testi fondanti dell’islam»: il rispetto della dignità umana, il rispetto della libertà religiosa, il principio di giustizia e di non discriminazione. Un documento da sostenere compiendo ogni sforzo, perché arriva in un momento davvero buio nella storia del mondo arabo-islamico.

Qualche commento alla conferenza di Marrakech, comparso sulla stampa araba, mi ha riempito di gioia e — non esagero — di ottimismo. Poche volte ho sentito parole altrettanto chiare. Esplicita l’ammissione di Mohammed Habash, professore di teologia islamica ad Abu Dhabi, che ha scritto: «Le minoranze religiose, che vivono tra di noi, soffrono». E molti altri hanno sottolineato quanto un cambiamento sia ormai divenuto urgente.

Non solo. I trecento ulema presenti alla conferenza hanno anche ascoltato le parole del Patriarca caldeo che ha descritto e spiegato la situazione difficile dei cristiani iracheni. Parole chiare che illustravano, esemplificandolo, lo stato insopportabile in cui si trova il cristianesimo in Medio oriente. Gli ulema hanno potuto ascoltare con le proprie orecchie che l’interpretazione dell’islam, proposta (e imposta) da alcuni, non è così “tollerante” come immaginavano. E questo, in sé, è già molto positivo.

L’aspetto più importante dell’appello che viene da Marrakech è, senza alcun dubbio, l’invito a rivedere i libri scolastici per orientarli a un discorso diverso, rispettoso verso le minoranze religiose. Un passo molto coraggioso, per non dire rivoluzionario. Era ora. Anche se adesso serve tradurre questa indicazione in una pratica concreta, politica.

Con questa conferenza il “clero” musulmano ha fornito, seppur in linea generale, risposte molto serie su temi di grande attualità. Tuttavia ha omesso di rispondere alla domanda più urgente: ebrei e cristiani devono essere salvaguardati in quanto cittadini nel quadro dello stato di diritto oppure come minoranze religiose protette da parte della maggioranza musulmana?

La dichiarazione di Marrakech accenna all’argomento quando parla del significato della cittadinanza, ma non offre alcuna risposta chiara.

Così come è mancata una posizione definita sullo spinoso tema della libertà del credo: i musulmani possono scegliere altre religioni? Sono liberi di convertirsi a un’altra fede?

Non c’è dubbio: siamo di fronte, con la conferenza di Marrakech, a un importantissimo passo in avanti. Si dovrebbe essere però ancora più coraggiosi, giungendo finalmente ad affrontare problematiche che risultano dannose per lo stesso islam. Mettere in pratica i punti della dichiarazione, legittimata dalla presenza degli ulema più importanti del mondo islamico, è la vera sfida che confermerà se qualcosa sta cambiando davvero.

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:36 pm | | Default
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Smartphone sempre acceso, risposte immediate alle email, cena davanti al pc: ecco i forzati dell’efficienza. Lo psichiatra Mencacci: «Vivere con il telefono in mano costringe ad uno stato d’allerta permanente», di Michela Proietti

Riprendiamo dal Corriere della sera del 5/3/2016 un articolo scritto da Michela Proietti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e media nella sezione Catechesi, scuola e famiglia

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Nel film-documentario «Dior and I» diretto da Frédéric Tcheng, lo stilista Raf Simons, arrivato alla corte di Lvmh, inizia bello-fresco e finisce con una crisi isterica. La pellicola è una discesa negli inferi della carriera: l’occasione di una vita - ovvero lavorare per un mostro sacro della moda - si rivela un tunnel di pressioni, turni straordinari, e-mail e messaggi subliminali a metà strada tra l’incoraggiamento e la pretesa del successo. La pellicola si chiude con Simons, dietro le quinte della sfilata, che piange, singhiozzando come un bambino: gioia incontenibile per una collezione applaudita o nervi saltati? Per come sono andate le cose, prende quota la seconda ipotesi: Simons, lo scorso 22 ottobre, ha annunciato le dimissioni «per motivi personali». Lo stilista ha spiegato di voler dedicarsi ad altre «passioni». Un lusso molto più grande del lusso che avrebbe dovuto rappresentare con i suoi abiti. Pochi giorni dopo, anche Alber Elbaz, il designer che ha rivoluzionato Lanvin, ha «svuotato» la sua scrivania, senza apparenti alternative. Due casi clamorosi che hanno mostrato quanto il re sia nudo: l’efficientismo portato alle estreme conseguenze, genera un corto circuito. 

La ricerca

Al tema dedica la copertina l’«Harvard Business Review» che parla di sovraccarico collaborativo. «I vostri dipendenti migliori rischiano l’esaurimento nervoso», scrive il foglio da sempre ritenuto la Bibbia delle aziende in ottima salute. La ricerca punta il dito contro la cattiva distribuzione del lavoro e l’eccesso di telefonate e di riunioni. Il toyotismo da ufficio - l’idea cioè di utilizzare le (poche) risorse disponibili nel modo più produttivo possibile - avanza e trasforma anche gli ex-beati-zaloniani del posto fisso in soldatini in ansia da performance, schiacciati da progetti, meeting e conference call. Proprio per questo i manager di Dropbox hanno cancellato per due settimane tutte le riunioni ricorrenti. «Ciò ha costretto i dipendenti a considerarne l’effettiva necessità», osserva l’Harvard Business Review. Ma il gigantismo delle riunioni, è solo un aspetto del problema. La rinascita dei Gordon Gekko, con le luci dell’ufficio accese 24h, le camicie e le mutande di ricambio accanto alla scrivania e la cena consumata a lume di pc, rinnova il dibattito sull’etica del lavoro. 

La reperibilità

La reperibilità, parola chiave degli efficientisti, è stata da poco messa in discussione in Francia, dove un accordo sindacale consente al personale informatico delle società di scollegarsi e non ricevere chiamate o messaggi di lavoro dopo la fine del proprio turno. Alasdhair Willis, fondatore della rivista Wallpaper*, stilista e padre di quattro figli avuti da Stella McCartney, sintetizza così il segreto della sua pienezza esistenziale: «A tavola con mia moglie non parlo di lavoro e mantengo i weekend work-free. Non bisogna rispondere alle mail di sabato e domenica, l’azienda non fallirà». Per un capo illuminato, ce ne sono però altri che «esercitano il delirio di onnipotenza torturando i sottoposti con messaggi anche in camera da letto», spiega il sociologo del lavoro Domenico De Masi, autore del libro-cult «Ozio Creativo». Il timore di essere sorpassati da colleghi giovani e performanti, e ora persino dalle intelligenze artificiali, rende fragile la base della piramide lavorativa. «Lo spettro dei tagli è un’arma nelle mani dei capi, che mina la nostra dignità», spiega De Masi, fresco di un divertente esperimento. «Ho invitato quattro partecipanti di un mio corso, muniti di telefonino di reperibilità, a mettere il vivavoce: le informazioni scambiate erano inutilissime, ma facevano sentire il capo un Golem e il dipendente un “prescelto”». 

Lo stato di preallerta permanente

Gli yes-men degli anni Novanta hanno gemmato tanti nipotini «ontici»: la loro qualità principale è esserci. «Gli uffici dopo le 18 diventano dei gay-pride, pieni di uomini che fanno compagnia al capo, che a sua volta è lì mentre forse la moglie lo tradisce con un altro. Gli efficienti, non scordiamolo, sono anche i più cornuti», sintetizza efficientemente De Masi. Anders Ericsson, psicologo della University of Florida che studia i top-performers ha scoperto che i migliori del mondo, dai sollevatori di pesi ai pianisti, lavorano sotto sforzo solo per 4-5 ore al giorno: il riposo fa parte dell’allenamento. «Senza riposo il nostro cervello si svuota - scrive Daniel Goleman nel volume «Piccolo manuale di intelligenza emotiva» - .Gli indicatori sono distrazione, irritabilità e la tendenza ad andare su Facebook». Il superlavoro, dunque, non solo nuoce a chi lo subisce, ma anche a chi lo impone: ad un certo punto non ci si alza dalla sedia perché si lavora, ma perché nessuno dei nostri colleghi lo ha ancora fatto. «Vivere con lo smartphone in mano significa costringersi ad uno stato d’allerta permanente - spiega lo psichiatra Claudio Mencacci -, che porta a modificazioni di carattere cognitivo: diminuisce la concentrazione, cresce la paura di sbagliare fino ad arrivare al burn-out, lo stato anestetico- emozionale che fa coincidere il lavoro con una seccatura». Tra gli effetti c’è l’«asimmetria da contatto»: ogni chiamata, viene anticipatamente vissuta come un altro carico. «Il corpo sotto continuo stimolo vive scompensi cardiocircolatori: sale la pressione e aumentano le infiammazioni croniche». La soluzione c’è, ed è dire no. «Difronte agli esami che non finiscono mai, dobbiamo soffocare la parte storta di noi che, solo dicendo sempre sì, permette all’autostima di crescere». 

© Corriere della sera RIPRODUZIONE RISERVATA

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:33 pm | | Default
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Suor Rita Giaretta: osare la speranza trasforma persino i rifiuti, di Lorenzo Alvaro

Riprendiamo dal sito Vita.it un articolo scritto da Lorenzo Alvaro e pubblicato l’8/1/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

La fondatrice della Comunità Rut di Caserta, Suor Rita Giaretta, vive il sud da 18 anni. In particolare il mondo della tratta e dello sfruttamento della prostituzione. Proprio nel cuore di quella che oggi è tristemente nota come la Terra dei fuochi. Quel tratto di Campania in cui a farla da padroni sono i rifiuti non le persone. In occasione dell'uscita del suo nuovo libro, “Osare la Speranza” scritto a quattro mani con Sergio Tanzarella ecco il racconto che suor Rita fa del suo meridione, tra amore, speranza e rivoluzione.

Lei è vicentina di origine, ex infermiera è sindacalista Cisl. Poi cos'è successo. Cosa l'ha portata a Caserta da suora?

Facendo l'infermiera e la sindacalista, nel percorso per capire un progetto di vita per me, mi sono sempre impegnata per la condizione della donna. Sentivo infatti che i diritti non erano mai acquisiti. Poi ho incontrato le suore orsoline e ho visto che erano impegnate in questo ambito. Mi sono sentita bene. Ho capito che era il mio posto e la mia strada. Così ho lasciato il ragazzo e il lavoro e son partita. Così è iniziato il mio percorso. Da 18 anni, mandata dalla Congregazione, mi trovo qui a Caserta.

Si può “Osare la speranza”, che è anche il titolo del suo ultimo libro, in un territorio che vive difficoltà enormi come la Campania?

È la nostra parola d'ordine. non è solo uno slogan. È pratica. Perché la speranza va praticata. E testimoniata. Non pensavamo, arrivando dal nord, che questi territori fossero così piegati, così in ginocchio. “Osare” vuol dire continuare nel quotidiano a vivere la speranza. Stare dentro al territorio giorno per giorno e amare la gente. Cercando insieme di tirare fuori il meglio. Non servono i grandi discorsi. Si rischia il disinteresse e la rassegnazione. Bisogna invece credere che a partire da noi, non aspettiamo infatti più nulla dalle istituzioni, sia possibile cambiare. Altrimenti continuerà la logica del favore che spalanca la porta allo stile camorristico e uccide il bene comune.

Il sottotitolo del libro dice che “la liberazione viene dal Sud”. Liberazione da che cosa e perché viene dal sud?

Perché a partire dai giovani e dalle donne che incontro qui, se trovano punti di riferimento, c'è la possibilità di far nascere un riscatto. Sento che è possibile. Basta guardare nel nostro piccolo cosa siamo riusciti a fare. Abbiamo raccolte donne-rifiuto abbandonate per strada e le abbiamo fatte diventare giovani imprenditrici sociali. Parlo di questa liberazione: delle donne, dei giovani e dai rifiuti. Parlo di umanità liberate. Il sud è anche simbolico non solo geografico. Il sud è la strada, il lavoro che perdi. La liberazione non può partire da chi sta in alto e non ha problemi. Ma proprio partendo da quello che è sotto il segno del fallimento che può partire un vero cambiamento. Solo dai tanti sud che abbiamo intorno, dagli ultimi.

Lei ha fondato a Caserta la Comunità Rut che si occupa di donne sole o con figli in situazione di difficoltà e vittime della tratta. Perché?

Sapevamo di dover camminare al fianco di donne in difficoltà. Ma non è nato come un progetto fatto a tavolino. Non siamo partite dal nord con un progetto in tasca. È nato tutto dal basso. Girando, incontrando le persone e vivendo il territorio. E quello che succedeva ha fatto crescere la comunità. Abbiamo deciso di lasciarci condurre dalla storia. E la storia ci ha portato sulla strada delle vittime della tratta. E così, un 8 marzo di tanti anni fa, ci fu la prima ragazza che ci chiese aiuto e salì in macchina con noi. Ci rendemmo disponibili all'accoglienza. L'abbiamo portata a casa e abbiamo aperto la comunità. 350 ragazze sono passate da allora. 350 cammini di liberazione. È la grande famiglia di Casa Rut.

Possiamo dire che come per queste donne si tratta di sfruttamento del corpo allo stesso modo in quelle terre avviene lo sfruttamento del corpo del territorio?

Certo. È lo stesso.

C'è chi, come Don Maurizio Patriciello, ha fatto della sensibilizzazione sul tema dei rifiuti la sua missione. Cosa pensa delle manifestazioni che si susseguono sulla Terra dei fuochi?

È molto positivo. Perché si sapeva di questa realtà. Si è sempre saputo. Il processo che si è avviato è molto importante. Per fortuna che questo movimento è cresciuto. Ma bisogna stare attenti perché anche le nostre istituzioni sono inquinate. Il rischio è che cavalchino l'esigenza di bonifiche per fare altri soldi. Come le notizia del decreto legge di Letta di prima di Natale sull'intervento in queste zone. Non basta manifestare ma bisogna essere vigili e non scendere mai a compromessi. Da cittadina posso chiedere solo che si smetta di parlare di bonifiche. È difficile che sia possibile bonificare, i siti sono enormi e non ci sono le risorse. Quindi che comincino a parlare almeno di messa in sicurezza. Che vengano messi in moto processi e percorsi perché questo territorio sia sicuro. Noi amiamo questa terra.

Ci sono solo limiti in questa terra?

Certo che ce ne sono. Non si può amare solo i limiti. Ci sono tante belle persone. Forse scoordinate e etichettate con pesantezza. Ma deve tornare l'orgoglio del sud. Persone che se aiutate possono fare molto. Rifiuti che diventano risorsa. Il sud non è scarto. Al nord riusciamo a valorizzare anche una pietra. Qui veramente hanno capolavori, terre fantastiche. L'unico regola è che non bisogno venderla. Bisogna amarla come diceva Bregantini, da sposi non da amanti usa e getta. Bisogna seguirla, coccolarla. Non stuprarla. Quante lacrime ho raccolto di giovani che vorrebbero impegnarsi qui ma non gli è permesso. Quante risorse sprecate.

Può raccontarci uno degli episodi che più l'hanno colpita?

Ogni storia diventa cara. Quelle che più mi hanno colpito sono quelle delle ragazzine minorenni. Di 15 o 16 anni. Queste piccole creature buttate sulla strada. Una addirittura incinta. Quando ce l'hanno portata il bimbo era finito nel mercato nero dei bambini. All'inizio non ce l'ha detto perché si vergognava. L'ho capito io per caso, fermandomi lì alla sera con lei sul ciglio del letto. E vedevo come cullava il suo peluche. E le era sfuggita la parola "mio figlio”. Quando le ho chiesto se aveva un figlio è scoppiata a piangere. E così è saltata fuori tutta la storia. Alla fine siamo riusciti a ritrovare il bambino che, guarda caso, quando ho accompagnato la mamma le è andato subito in braccio come sentisse il legame. Un'emozione unica. Alla fine siamo anche riusciti ad avere la tutela. Oggi questa ragazza ha 24 anni, è sposato, ha un altro figlio e lavora. Una storia che dimostra come non bisogna mai abbandonare la speranza. È come il respiro

Papa Francesco parla di una Chiesa che deve farsi abbraccio e lenire le sofferenze. E dei religiosi dice che devono essere pastori con addosso l'odore del gregge. Deve essere importante per una come lei un Pontefice così...

Più che novità mi sento di respirare. Ci spinge ancor di più nell'impegno. Sono i temi che mi sono cari. I gesti che fa mi trovano in sintonia. È bellissimo. È il Vangelo. Prima soffrivo perché sentivo una Chiesa che non riusciva a dare entusiasmo, affetto e tenerezza a questo Vangelo e mi arrabbiavo. Non è una novità, sta solo praticando il Vangelo. E io sono contenta. Dovremmo essere tutti così. Sono felice che ci sia lui, sono incoraggiata. Sentiamo che qualcuno ci ha preso per mano. L'ho incontrato il 20 di settembre a Santa Marta, gli abbiamo raccontato di noi. Ci ha incoraggiato ad andare avanti. Sono con voi. L'amore deve vincere. 

Di lei parlano come della suora che combatte Camorra e racket. Ha paura?

Non ho tempo di pensarci. Non mi passa neanche per la testa. Troppo forte la spinta nel dare vita. Non la vivo. Ogni tanto sento rabbia indignazione e frustrazione. Paura mai. Chi vive e porta il Vangelo non può averne.

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:31 pm | | Default
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"Mangiare carne ci ha resi quello che siamo oggi": una ricerca su "Nature" rivela il ruolo centrale nell'evoluzione dell'uomo, di Ilaria Betti

Riprendiamo da L’Huffington Post dell’11/3/2016 un articolo scritto da Ilaria Betti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

N.B. de Gli scritti Ricordo un bambino che, con grande intelligenza, alla domanda “Cosa differenzia un uomo da un animale?” mi rispose: “L’uomo cucina il cibo”. Anche questo, insieme alla memoria dei morti e alla capacità simbolica e artistica, dice la differenza dell’uomo.

"Mangiare carne ci ha resi quello che siamo oggi": una ricerca su "Nature" rivela il ruolo centrale nell'evoluzione dell'uomo, di Ilaria Betti

Mangiare la carne ci ha resi quelli che siamo oggi: esseri umani evoluti, intelligenti, capaci di utilizzare un linguaggio verbale. "Ci dispiace, vegani": così il Time titola l'articolo che riprende una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista "Nature". Secondo lo studio, smettere di mangiare soltanto frutta e verdura e aggiungere alla dieta alimenti ricchi di proteine animali avrebbe permesso all'uomo di evolversi, trasformandolo sia a livello anatomico (con volti e denti di dimensioni ridotte) sia a livello intellettivo (sviluppando la sua capacità di parlare).

Circa tre milioni di anni fa, vivere di sola frutta e verdura non era un grosso problema per i nostri antenati: cibo di questo tipo se ne trovava in abbondanza. Ma l'apporto di calorie non era soddisfacente, così ad essere consumati erano anche patate, barbabietole, carote o radici, con un valore nutrizionale più alto, ma difficili da masticare. È stato così che è entrata in gioco la carne, in grado di garantire un pasto più completo e con meno sforzi nella masticazione. Ovviamente richiedeva una grande preparazione: un animale doveva essere ucciso, la sua carne lavorata e poi cotta.

L'abitudine di cuocere i cibi è nata 500mila anni fa e molti ricercatori fanno risalire a questo momento la svolta della nostra evoluzione. Secondo la ricerca pubblicata su "Nature", il solo fatto di aver imparato a cucinare potrebbe, però, non spiegare tanti cambiamenti: "Cucinare è un fattore importante, ma non è l'unico da prendere in considerazione - ha spiegato Daniel Lieberman dell'Harvard University, autore dello studio - Anche il cibo lavorato, tagliato o fatto a pezzi, ha avuto effetti profondi su di noi".

Ancor prima di imparare a cucinare, dunque, aggiungere la carne alla dieta e imparare a tagliarla e a lavorarla, riuscendo così a masticarla in poco tempo, ha dato la possibilità agli esseri umani di assumere una maggiore quantità di calorie con uno sforzo minore. Senza il bisogno di strappare via il cibo dalle carcasse degli animali, i denti sono diventati via via più piccoli. Anche le ossa del collo e del cranio si sono modificate, favorendo lo sviluppo di un cervello più grande e una capacità dialettica più avanzata.

"Questi cambiamenti - scrivono i ricercatori - non sarebbero forse stati possibili senza il consumo di carne insieme all'acquisizione di tecniche per lavorarla e cucinarla". Se è vero che prediligere questo tipo di cibo è stato importante per la nostra evoluzione, non è detto che sia necessario continuare a farlo: la libera scelta appartiene ad ogni individuo. Ciò che gli studiosi hanno ribadito, contro alcune critiche mosse dai seguaci del veganismo, è che mangiare carne è del tutto naturale per l'uomo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 2:30 pm | | Default

Quello che avrei detto al concistoro. Intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio di Stefania Falasca

Riprendiamo dal sito della rivista 30Giorni un’intervista all’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio pubblicata sul numero 11/2007 della rivista stessa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

«Devo tornare», ripete. Non che l’aria di Roma non gli garbi. Ma quella di Buenos Aires gli manca. La sua diocesi. «Esposa» la chiama. A Roma, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, passa sempre di corsa. Ma stavolta una sciatalgia lo ha costretto ad allungare la sua permanenza nella Città eterna con qualche giorno di riposo. Per di più, umorismo delle circostanze, l’appuntamento per cui aveva attraversato l’oceano, l’incontro con il Papa e tutti i cardinali riuniti in concistoro, gli è toccato saltarlo. È una compagnia, la sua, mai lontana. Ci racconta come è andata la Conferenza di Aparecida, dove proprio lui ha presieduto il comitato di redazione del documento finale. Confida che al concistoro il suo intervento sarebbe stato su questo. E con quel suo modo di dire lieve e insieme acuto, incisivo, che spiazza e sorprende, così ne parla.

Benedetto XVI con il cardinale Jorge Mario Bergoglio 
durante i lavori della quinta Conferenza generale
dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi,
presso il santuario di Nossa Senhora
da Conceição Aparecida in Brasile, il 13 maggio 2007

Eminenza, al concistoro avrebbe parlato di Aparecida. Che cosa per lei ha caratterizzato questa quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano?
JORGE MARIO BERGOGLIO: La Conferenza di Aparecida è stata un momento di grazia per la Chiesa latinoamericana.

Non sono però mancate polemiche riguardo al documento conclusivo…
BERGOGLIO: Il documento conclusivo, che è un atto del magistero della Chiesa latinoamericana, non ha subito nessuna manipolazione. Né da parte nostra né da parte della Santa Sede. Ci sono stati alcuni piccoli ritocchi di stile, di forma, e alcune cose che sono state tolte da una parte sono state rimesse dall’altra; la sostanza, quindi, è rimasta identica, non è assolutamente cambiata. Questo perché il clima che ha portato alla redazione del documento è stato un clima di autentica e fraterna collaborazione, di rispetto reciproco, che ne ha caratterizzato il lavoro, un lavoro che si è mosso dal basso verso l’alto, non viceversa. Per capire questo clima bisogna guardare a quelli che per me sono i tre punti-chiave, i tre “pilastri” di Aparecida. Il primo dei quali è proprio questo: dal basso verso l’alto. È forse la prima volta che una nostra Conferenza generale non parte da un testo base preconfezionato ma da un dialogo aperto, che era già iniziato prima tra il Celam e le Conferenze episcopali, e che è continuato poi.

Ma le direttive della Conferenza non erano già state segnate dall’intervento d’apertura di Benedetto XVI? BERGOGLIO: Il Papa ha dato indicazioni generali sui problemi dell’America Latina, e ha poi lasciato aperto: fate voi, voi fate! È stato grandissimo, questo, da parte del Papa. La Conferenza è cominciata con le esposizioni dei ventitré presidenti delle diverse Conferenze episcopali e da lì si è aperta la discussione sui temi nei differenti gruppi. Anche le fasi della redazione del documento sono rimaste aperte al contributo di tutti. Al momento di raccogliere i “modi”, per la seconda e terza redazione, ne sono pervenuti 2.240! La nostra disposizione è stata quella di ricevere tutto ciò che veniva dal basso, dal popolo di Dio, e di fare non tanto una sintesi, quanto piuttosto un’armonia.

Un lavoro impegnativo…
BERGOGLIO: “Armonia”, ho detto, questo è il termine giusto. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo «ipse harmonia est», lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo. E il documento, se si legge bene, si vede che ha un pensiero circolare, armonico. Si percepisce quell’armonia non passiva, ma creativa, che spinge alla creatività perché è dello Spirito.

E il secondo punto-chiave qual è?
BERGOGLIO: È la prima volta che una Conferenza dell’episcopato latinoamericano si riunisce in un santuario mariano. E il luogo già di per sé dice tutto il significato. Ogni mattina abbiamo recitato le lodi, abbiamo celebrato la messa insieme ai pellegrini, ai fedeli. Il sabato o la domenica ce n’erano duemila, cinquemila. Celebrare l’Eucaristia insieme al popolo è diverso che celebrarla tra noi vescovi separatamente. Questo ci ha dato vivo il senso dell’appartenenza alla nostra gente, della Chiesa che cammina come popolo di Dio, di noi vescovi come suoi servitori. I lavori della Conferenza poi si sono svolti in un ambiente situato sotto il santuario. E da lì si continuavano a sentire le preghiere, i canti dei fedeli… Nel documento finale c’è un punto che riguarda la pietà popolare. Sono pagine bellissime. E io credo, anzi, sono sicuro, che siano state ispirate proprio da questo. Dopo quelle contenute nell’Evangelii nuntiandi, sono le cose più belle scritte sulla pietà popolare in un documento della Chiesa. Anzi, oserei dire che quello di Aparecida è l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina, è come l’Evangelii nuntiandi.

L’Evangelii nuntiandi è un’esortazione apostolica sulla missionarietà.
BERGOGLIO: Appunto. Anche per questo c’è una stretta somiglianza. E qui vengo al terzo punto. Il documento di Aparecida non si esaurisce in sé stesso, non chiude, non è l’ultimo passo, perché l’apertura finale è sulla missione. L’annuncio e la testimonianza dei discepoli. Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce. Questo dice in fondo Aparecida. Che è il cuore della missione.

Fedeli brasiliani presso il santuario 
di Nossa Senhora da Conceição Aparecida

Può spiegare meglio questa immagine?
BERGOGLIO: Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce, e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo: «Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate».

Questo è ciò che avrebbe detto al concistoro?
BERGOGLIO: Sì. Avrei parlato di questi tre punti-chiave.

Nient’altro?
BERGOGLIO: Nient’altro… No, avrei forse accennato a due cose delle quali in questo momento si ha bisogno, si ha più bisogno: misericordia, misericordia e coraggio apostolico.

Cosa significano per lei?
BERGOGLIO: Per me il coraggio apostolico è seminare. Seminare la Parola. Renderla a quel lui e a quella lei per i quali è data. Dare loro la bellezza del Vangelo, lo stupore dell’incontro con Gesù… e lasciare che sia lo Spirito Santo a fare il resto. È il Signore, dice il Vangelo, che fa germogliare e fruttificare il seme.

Insomma, chi fa la missione è lo Spirito Santo.
BERGOGLIO: I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di navicella a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela, per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la Sua spinta, senza la Sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero di Dio e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e dal pericolo di una Chiesa autoreferenziale, portandoci alla missione.

Ciò significa vanificare anche tutte le vostre soluzioni funzionaliste, i vostri consolidati piani e sistemi pastorali…
BERGOGLIO: Non ho detto che i sistemi pastorali siano inutili. Anzi. Di per sé tutto ciò che può condurre per i cammini di Dio è buono. Ai miei sacerdoti ho detto: «Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta». I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: «Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un po’ con quella gente, faccia un po’ di catechesi e dia pure la comunione se glielo chiedono». Un parroco mi ha detto: «Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa». «Ma perché?» gli ho chiesto: «Adesso vengono a messa?». «No», ha risposto. E allora! Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio.

Questo vale anche per i laici…
BERGOGLIO: La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati… È proprio una complicità peccatrice. E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. Quando tornarono i missionari li ritrovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la Chiesa e tutti i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solamente il battesimo e avevano vissuto anche la loro missione apostolica in virtù del solo battesimo. Non si deve aver paura di dipendere solo dalla Sua tenerezza… Conosce l’episodio biblico del profeta Giona?

Non lo ricordo. Racconti.
BERGOGLIO: Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il Suo perdono e nutrirli con la Sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis.

Una fuga davanti a una missione difficile…
BERGOGLIO: No. Quello da cui fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio l’amore senza misura di Dio per quegli uomini. Era questo che non rientrava nei suoi piani. Dio era venuto una volta… “e al resto adesso ci penso io”: così si era detto Giona. Voleva fare le cose alla sua maniera, voleva guidare tutto lui. La sua pertinacia lo chiudeva nelle sue strutturate valutazioni, nei suoi metodi prestabiliti, nelle sue opinioni corrette. Aveva recintato la sua anima col filo spinato di quelle certezze che invece di dare libertà con Dio e aprire orizzonti di maggior servizio agli altri avevano finito per assordare il cuore. Come indurisce il cuore la coscienza isolata! Giona non sapeva più come Dio conduceva il suo popolo con cuore di Padre.

In tanti ci possiamo identificare con Giona.
BERGOGLIO: Le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal chiuso mondo delle loro Tarsis si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali.

Che cosa si dovrebbe fare?
BERGOGLIO: Guardare la nostra gente non per come dovrebbe essere ma per com’è e vedere cosa è necessario. Senza previsioni e ricette ma con apertura generosa. Per le ferite e le fragilità Dio parlò. Permettere al Signore di parlare… In un mondo che non riusciamo a interessare con le parole che noi diciamo, solo la Sua presenza che ci ama e che ci salva può interessare. Il fervore apostolico si rinnova perché testimoni di Colui che ci ha amato per primo.

Per lei, quindi, qual è la cosa peggiore che può accadere nella Chiesa?
BERGOGLIO: È quella che De Lubac chiama «mondanità spirituale». È il pericolo più grande per la Chiesa, per noi, che siamo nella Chiesa. «È peggiore», dice De Lubac, «più disastrosa di quella lebbra infame che aveva sfigurato la Sposa diletta al tempo dei papi libertini». La mondanità spirituale è mettere al centro sé stessi. È quello che Gesù vede in atto tra i farisei: «… Voi che vi date gloria. Che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri».

Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 10:35 am | | Default

Un'omelia di don Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito il file audio di un'omelia di don Andrea Lonardo tenuta nel 2014. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

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Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 10:16 am | | Default

Evangelii gaudium di papa Francesco: una prima presentazione. File audio di una catechesi tenuta da Andrea Lonardo (19/3/2014)

Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una catechesi di don Andrea Lonardo tenuta il 19/3/2014. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

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Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 10:01 am | | Default

Evangelii gaudium di papa Francesco: una prima presentazione. File audio di una catechesi tenuta da Andrea Lonardo presso la parrocchia di San Timoteo

Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una catechesi di don Andrea Lonardo tenuta nel maggio 2014. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Registrazione audio

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Redazione de Gliscritti | Domenica 13 Marzo 2016 - 10:00 am | | Default

La Cappella Cerasi, la Madonna dei Pellegrini, la Deposizione, la Morte della Vergine, la Madonna dei Parafrenieri del Caravaggio. “Dentro la fede cattolica: il significato iconografico e teologico delle opere sacre del Merisi nelle chiese romane”. Video da Youtube di una lezione di Andrea Lonardo per il ciclo Caravaggio a Roma tra pubblico e privato

Riprendiamo sul nostro sito il video di una lezione di Andrea Lonardo per il ciclo Caravaggio a Roma tra pubblico e privato a cura di Sara Magister presso la Galleria Umberto Prencipe di Roma. La lezione è stata tenuta il 17/2/2016. Per approfondimenti cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il centro culturale Gli scritti (7/3/2016)

Redazione de Gliscritti | Martedì 08 Marzo 2016 - 12:00 am | | Default

1/ “Star Wars”: ma il robot non può essere un eroe, di Fabrice Hadjadj 2/ E se la comunicazione ci togliesse la parola?, di Fabrice Hadjadj

1/ “Star Wars”: ma il robot non può essere un eroe, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 21/2/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

È evidente per chi sa guardare al di là della panoplia carnevalesca: Star Wars non è un film di fantascienza. È una specie di tragedia antica in costume futurista (e neanche tanto! Molti personaggi indossano tonache degne di monasteri antichissimi). Le questioni dell'automatizzazione o dell'intelligenza artificiale non sono mai prese in considerazione. I robot sono rappresentati sempre come una via di mezzo tra un cane fedele e un bravo maggiordomo.

La navicella spaziale è una caravella che viaggia negli spazi intergalattici come fossero mari, circola tra i pianeti come tra isole, e mai ci si interroga sullo stato di quella umanità senza terra né agricoltura, che sopravvive non si sa come nel deserto. La sciabola è laser, probabilmente, ma la si maneggia come una cara vecchia spada della guerra dei cent'anni: e per quanto gli apparecchi possano sembrare sofisticati, sono malgrado tutto degli strumenti che si tengono in mano.

Quanto agli uomini, lungi dall'esser stati fabbricati in incubatrici, provengono ancora da un padre e da una madre, e il loro dramma si iscrive sempre in una filiazione: Luke e Vader, Kylo Ren e Han Solo… cosicché la conclusione rinvia ancora agli ultimi versetti dell'Antico Testamento secondo il canone cattolico: «Egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, perché io, v