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- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /03 /2016 - 14:36 pm | Permalink | Homepage
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1/ Quale islam?, di Zouhir Louassini

Riprendiamo dal sito Eastonline  http://www.eastonline.eu/it/eastwest-64/quale-islam un articolo pubblicato il 23/2/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Dei quattro califfi che succedettero al profeta Maometto, tre furono uccisi. La lotta per il potere che l’Islam conobbe ai suoi inizi è molto lontana dall’immagine idilliaca che alcuni musulmani, soprattutto i più ortodossi, conservano della loro religione. L’ideologia jihadista per esempio, si fonda sulla possibilità di tornare indietro nel tempo, fermandolo all'“epoca dorata” che comprende la vita del profeta e dei suoi compagni.

L’idealizzazione del passato è la dottrina principale di una visione del mondo incapace di assimilare, rifiutandoli, i cambiamenti della realtà moderna nelle società islamiche. È la sintesi, in un certo modo, della frustrazione vissuta da un mondo arabo incapace di stare al passo con le trasformazioni globali, rimanendo quindi al margine della storia. Quello che la stampa occidentale, soprattutto quella italiana, considera un pericolo, non è altro che un problema, serio certamente, che bisogna affrontare con lucidità.

Il jihadismo e la sua violenza spesso ci impediscono di riconoscere i veri pericoli di cui bisognerebbe, invece, essere coscienti. Per focalizzare il pericolo reale, probabilmente, occorre con urgenza mettere tutta l’ideologia jihadista, che non è altro che un’estensione dell’islam politico, all’interno del suo contesto storico e sociale.

Tutto inizia con i Fratelli musulmani che nascono come associazione segreta nel 1928, in Egitto, pochi anni dopo la caduta dell’impero Ottomano. Gli inglesi occupavano il Paese e la presenza occidentale era vissuta come l’imposizione di valori stranieri che miravano alla distruzione dell’islam.

In campo internazionale: siamo nel periodo storico in cui il fascismo e il nazismo iniziano ad avere seguaci ovunque. La concezione nazionalista di questi due movimenti ha influenzato certamente la visione ideologica dei Fratelli; ma con una differenza molto rilevante: il nazionalismo, per loro, non è solo una proiezione territoriale: è soprattutto un’appartenenza religiosa.

Finalmente, il conflitto arabo-israeliano. Nel 1935 i Fratelli entrano in contatto con Amin al-Husseini, il Gran Mufti di Gerusalemme, e partecipano alla rivolta araba in Palestina nel 1936. Nel 1945, Said Ramadan crea un braccio armato del movimento che ha l'obiettivo di combattere il movimento sionista. I Fratelli Musulmani, non a caso, partecipano attivamente alla guerra arabo-israeliana del 1948.

L’organizzazione, considerata da molti osservatori un movimento populista, non ha mai smesso di usare il suo motto, che sintetizza tutta la sua ideologia: "Dio è il nostro obiettivo, il Profeta è il nostro capo, il Corano è la nostra legge, il jihad è la nostra via, morire nella via di Dio è la nostra suprema speranza".

Più chiaro di così...

Anche se questo movimento islamista fu fondato da Hassan al-Banna (1906-1949), si può affermare che l’ideologo per eccellenza dei Fratelli sia Sayyid Qutb (1906-1966). La sua opera è, in generale, un vero “manifesto” dell’islam politico. Qutb sostiene che l’Islam sia in crisi. I milioni di persone che si dicono musulmani di fatto non capiscono bene la loro religione. Semplicemente: non sono dei veri musulmani. Bisogna, allora, ritornare ai valori originari, quelli veri. Tale ritorno necessita, per guidare le masse, di una élite che giochi lo stesso ruolo dei compagni del Profeta agli albori dell'islam. Questa élite è stata chiamata da Qutb, in più di un libro, annawâte assalba (letteralmente: "nocciolo duro"). Quindi l'obiettivo è quello di ri-islamizzare la società perché l’islam è la soluzione per affrontare tutti i problemi politici, economici e sociali. Un discorso semplice e chiaro che va dritto al cuore di una società che si sente vittima “di un complotto internazionale sionista”. La logica del complotto è, infatti, parte integrante della visione ideologica di Qutb.

I commenti che fa al Corano e soprattutto l’interpretazione della sura 57 (al-Hadid) e 112 (al-Iklhas), fanno sì che Sayyid Qutb sia considerato il padre dell’apostasia (al-Takfir). Qutb giustifica così l'uso della violenza e del terrorismo contro i non-musulmani e gli apostati, nel tentativo di portare il regno di Dio. Non è casuale allora trovare nomi come Osama Bin Laden, Ayman Al-Zawahiri e Abdullah Azzam, tra coloro che hanno messo in pratica questi princìpi, con la creazione di organizzazioni terroristiche orientate a un piano d'azione globale.

Il jihadismo, come lo conosciamo oggi, non è altro che il frutto di un pensiero totalitario che usa la religione per nascondere i propri obiettivi politici e la lotta per la conquista del potere. Un pensiero che considera la modernità - tutta la modernità - come un pericolo. Perché è vista esclusivamente come frutto dell'evoluzione della cultura occidentale, concepita come antagonista alla religione islamica. Un pensiero che trova un amplissimo supporto ideologico nella letteratura della “fratellanza musulmana”.

Questa ideologia trova terreno fertile nella realtà dei paesi islamici, anche perché l’Occidente non riesce a trovare un “rimedio” diverso da quello militare. La cultura dominante nei paesi musulmani vuole che religione e governo siano tutt’uno.  Un fatto che “semplifica la vita” a chi vuole usare la fede per arrivare al potere. Trasformare le rivolte della “primavera araba” in rivoluzioni islamiche, per esempio, è stato agevolato anche dall’ambiguità delle forze politiche laiche, chiamate a proporre un progetto politico scevro da qualsiasi connotazione religiosa. Non potevano né possono farlo senza essere visti come la quinta colonna dell’Occidente nemico.

Quando “Le Monde” in un editoriale (11-07-2013) afferma che “l’islamismo non è un progetto di governo” dimentica che nella zona ci sono due paesi, che anche se con grandi differenze, sono governati da questa ideologia: Iran e Turchia.

Da un lato la Turchia, paese costituzionalmente democratico e laico, che fa parte della maggioranza sunnita; dall'altro l’Iran, paladino dello sciismo e stato teocratico per eccellenza. Due paesi così diversi, con divergenze politiche mai nascoste, avrebbero lo stesso riferimento ideologico?  

Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi), al governo di Ankara dal 2002, nato nel solco della tradizione dell'Islam politico, l'ha moderata per volgersi verso una “democrazia conservatrice”. Per questo non mancano quelli che affermano che l'AKP avrebbe un'agenda “nascosta”, coincidente con quella, dichiarata, dei Fratelli Musulmani.

Il fondatore del partito e attuale presidente dello Stato, Tayyeb Rejeb Erdogan, fu imprigionato nel 1998 dopo essere stato giudicato colpevole di incitamento all'odio religioso per aver declamato pubblicamente i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati...”. Da quando è arrivato al potere, dopo aver smussato alcune asprezze del suo discorso, non avrebbe fatto altro, secondo alcuni, che cercare di minare la laicità dello stato.

Nel caso dell’Iran sembra difficile a prima vista qualsiasi tipo di relazione tra i Fratelli Musulmani e la Repubblica Islamica Iraniana. In effetti, la Fratellanza trova la sua fonte teologica nel radicalismo sunnita, mentre l'Iran è il paese sciita per eccellenza. Invece la connessione c’è e la troviamo proprio nella rivoluzione Khomeiniana.

Michael Prazan, autore del documentario “Fratelli Musulmani: ultima ideologia totalitaria”, spiega che nonostante le differenze teologiche e religiose bisogna essere consapevoli del fatto che, da un punto di vista ideologico, ci sono pochissime differenze tra la rivoluzione islamica iraniana e la fraternità.

Nel 1954 il famoso dottore di religione Navaf Safavi (1924-1955) si recò al Cairo su invito di Sayyid Qutb. Safavi aveva letto tutti i suoi libri e ne condivideva le idee, anche quella di reislamizzare la società. Alla fine del viaggio Safavi decise di cambiare il nome del suo movimento da Fedayeen dell'Iran a al-Muslimeen Ikhuan (i Fratelli Musulmani). Safavi è stato quello che introdusse al pensiero della fratellanza il leader della rivoluzione iraniana, Ayatollah Khomeini. Quest’ultimo citava spesso Sayyid Qutb nei suoi discorsi.

Un dato indicativo potrebbe essere la traduzione di due dei volumi più importanti di Qutb in persiano dall'attuale leader supremo della rivoluzione iraniana, Ayatollah Khamenei. Questi due volumi sono stati ampiamente diffusi in Iran e considerati fino a oggi tra i libri islamici più letti. Non è casuale dunque che le idee di Sayyid Qutb si trovino nei principi fondamentali della Repubblica Islamica Iraniana.

Il viso pragmatico e, se vogliamo “moderato”, dell’islam politico, non può nascondere che il jihadismo moderno nasce dallo stesso embrione. Al-Qaeda, l’Isis, Boko Haram e tutti i movimenti violenti che fanno riferimento alla religione islamica non sono altro che una sfumatura di un’ideologia che guadagna terreno ogni giorno. Se non c’è una visione globale per capire la radice del problema, tutti gli sforzi militari - se non sono accompagnati da un progetto culturalmente valido che evidenzi la complessità della situazione mediorientale, le difficoltà e i conflitti reali - non saranno sufficienti per combattere un cancro che sta divorando per il momento gran parte del mondo arabo islamico. Per il momento.

2/ Passi avanti a Marrakech, di Zouhir Louassini 

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 29/1/2016 un articolo scritto da Zouhir Louassini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

Non si può che incoraggiare chi ha deciso di organizzare la conferenza di Marrakech sulle minoranze religiose. Le parole chiare pronunciate dagli ulema sul terrorismo — definito «una patologia dell’islam» — sarebbero da incorniciare per coraggio e lucidità. La lucidità di chi ha capito e il coraggio di chi asserisce, finalmente coram populo, che nessuna religione può mai giustificare l’uccisione di innocenti.

Era diventato urgente che si sentissero alte le voci di chi, dall’interno dell’islam, condanna fortemente tutti i fomentatori dell’odio. A Marrakech quelle voci si sono udite, chiarissime. L’incontro — due giorni di lavoro — si è chiuso con un documento pieno di buone intenzioni: un accorato appello al dialogo e al rispetto reciproco.

La dichiarazione finale contiene riferimenti espliciti e continui ai principi universali e ai valori «sostenuti dai testi fondanti dell’islam»: il rispetto della dignità umana, il rispetto della libertà religiosa, il principio di giustizia e di non discriminazione. Un documento da sostenere compiendo ogni sforzo, perché arriva in un momento davvero buio nella storia del mondo arabo-islamico.

Qualche commento alla conferenza di Marrakech, comparso sulla stampa araba, mi ha riempito di gioia e — non esagero — di ottimismo. Poche volte ho sentito parole altrettanto chiare. Esplicita l’ammissione di Mohammed Habash, professore di teologia islamica ad Abu Dhabi, che ha scritto: «Le minoranze religiose, che vivono tra di noi, soffrono». E molti altri hanno sottolineato quanto un cambiamento sia ormai divenuto urgente.

Non solo. I trecento ulema presenti alla conferenza hanno anche ascoltato le parole del Patriarca caldeo che ha descritto e spiegato la situazione difficile dei cristiani iracheni. Parole chiare che illustravano, esemplificandolo, lo stato insopportabile in cui si trova il cristianesimo in Medio oriente. Gli ulema hanno potuto ascoltare con le proprie orecchie che l’interpretazione dell’islam, proposta (e imposta) da alcuni, non è così “tollerante” come immaginavano. E questo, in sé, è già molto positivo.

L’aspetto più importante dell’appello che viene da Marrakech è, senza alcun dubbio, l’invito a rivedere i libri scolastici per orientarli a un discorso diverso, rispettoso verso le minoranze religiose. Un passo molto coraggioso, per non dire rivoluzionario. Era ora. Anche se adesso serve tradurre questa indicazione in una pratica concreta, politica.

Con questa conferenza il “clero” musulmano ha fornito, seppur in linea generale, risposte molto serie su temi di grande attualità. Tuttavia ha omesso di rispondere alla domanda più urgente: ebrei e cristiani devono essere salvaguardati in quanto cittadini nel quadro dello stato di diritto oppure come minoranze religiose protette da parte della maggioranza musulmana?

La dichiarazione di Marrakech accenna all’argomento quando parla del significato della cittadinanza, ma non offre alcuna risposta chiara.

Così come è mancata una posizione definita sullo spinoso tema della libertà del credo: i musulmani possono scegliere altre religioni? Sono liberi di convertirsi a un’altra fede?

Non c’è dubbio: siamo di fronte, con la conferenza di Marrakech, a un importantissimo passo in avanti. Si dovrebbe essere però ancora più coraggiosi, giungendo finalmente ad affrontare problematiche che risultano dannose per lo stesso islam. Mettere in pratica i punti della dichiarazione, legittimata dalla presenza degli ulema più importanti del mondo islamico, è la vera sfida che confermerà se qualcosa sta cambiando davvero.