Nell’anniversario della morte di C.S. Lewis ecco un romanzo da riscoprire: “Quell’orribile forza”, di Roberto Persico
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Roberto Persico ripubblicato il 22/11/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Chesterton, Lewis, Tolkien nella sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)
In un college di Oxford, una cerchia di illuminati progetta di manipolare la vita per ridisegnarne il destino. Ma si scontra con un’insolita compagnia di amici che ama il mondo così com’è. In occasione dell’anniversario della morte del grande scrittore Clive Staples Lewis (1898 – 1963), ripubblichiamo un articolo uscito nel luglio 2006. Si tratta della recensione di uno dei libri più belli, sebbene poco conosciuti, dell’autore: Quell’orribile forza.
Non è un libro nuovo. Neanche appena ristampato. Non c’è nemmeno qualche centenario a suggerirne la riscoperta. È solo una rappresentazione genialmente profetica dei tempi nostri.
L’attacco è piano, quotidiano, quasi banale. Una coppia normale che come tante dopo sei mesi di matrimonio si domanda già cosa si è sposata a fare. Lui, Mark, è professore in un prestigioso college di Oxford. Lei, Jane, lavora al suo dottorato in inglese. Anche la novità destinata a sconvolgere le loro vite entra in punta di piedi.
Mark è membro di uno dei tanti consigli di amministrazione del college. Quel giorno, all’ultimo punto dell’ordine del giorno, figura la «vendita di terreni del College». Compare quasi ogni volta, nessuno ci fa caso. Stavolta però è diverso. Si tratta infatti di alienare il bosco di Bragdon, dov’è collocata l’antichissima “fonte di Merlino”, una sorgente circondata da una pavimentazione che risale ai tempi dei Romani.
È il cuore del College; ma «la Componente Progressista aveva gestito molto bene tutta la faccenda» (le antenne del lettore attento cominciano a vibrare): per tutta l’assemblea gli interventi dei suoi membri non fanno che magnificare le prospettive, culturali e finanziarie, del rapporto fra il college e l’”Istituto Nazionale per il Coordinamento degli Esperimenti”, l’Ince, il nuovo, prestigioso istituto di ricerca finanziato dallo Stato e gestito privatamente (altro fremito di antenne) su cui si appuntano tante speranze. Così, quando viene il momento di approvare la cessione della storica fonte all’Istituto la minoranza che si oppone viene facilmente liquidata come nemica del progresso e dell’università.
Nel discorso di saluto ai laureati del King’s College di Londra nel 1944, Clive Staples Lewis aveva messo in guardia gli alunni contro un tarlo sottile che può rovinare la vita. In ogni gruppo umano, spiegava, esistono “cerchie esclusive”, il “giro giusto” di quelli che sembrano saperne sempre una di più, che appaiono in grado di decidere davvero quello a cui gli altri poi inconsapevolmente obbediranno. La smania di entrare nella “cerchia esclusiva”, ammoniva Lewis, può fare di un galantuomo un mascalzone, può avvelenargli il gusto del proprio lavoro, piegando ogni sua attività all’inseguimento di un potere che si rivelerà inevitabilmente un fantasma. Mark evidentemente non aveva ascoltato il discorso di Lewis, perché è perfettamente in preda alla sindrome. E quando uno della “cerchia” gli si avvicina e gli lascia intendere che potrebbe essere anche lui iniziato, abbocca lusingato. Viene così messo a parte degli scopi dell’Ince.
«”Al momento, è la questione più importante: da quale parte si sta, dalla parte dell’oscurantismo o da quella dell’ordine. Sembra proprio che noi come specie avremo finalmente il potere di costruirci un futuro sbalorditivo, di controllare il nostro destino. Se veramente le si darà mano libera, la scienza potrà impadronirsi della razza umana e rimetterla in funzione rendendo l’uomo un animale veramente efficiente. Altrimenti. be’, sarà la nostra fine”. “Prosegua. Questo mi interessa moltissimo”. “L’uomo deve farsi carico dell’uomo, il che significa, tenga bene a mente, che certi uomini devono farsi carico di tutti gli altri – il che è un ulteriore motivo per trarne tutto il vantaggio possibile, appena si può. Lei e io vogliamo essere quelli che si fanno carico, non quelli di cui ci si fa carico, questo è chiaro”.
“A cosa si riferisce in particolare?”. “Cose semplici e ovvie, tanto per cominciare. la sterilizzazione dei disabili, l’eliminazione delle razze arretrate (non vogliamo pesi morti), la riproduzione selettiva. Poi l’educazione vera, compresa l’educazione prenatale. La vera educazione infallibilmente trasforma chi la subisce in ciò che essa si prefigge, senza che il soggetto in questione o i suoi genitori possano farci nulla (le antenne di ogni lettore con figli a questo punto sono al massimo, ndr). Naturalmente si tratterà all’inizio di un influsso soprattutto psicologico, ma alla fine arriveremo al condizionamento biochimico e alla diretta manipolazione del cervello”».
A Mark viene spiegato quel che l’organizzazione si attende da lui: che presenti i suoi scopi mettendoli nella giusta luce.
«”Non mi dirà che vuole che io scriva cose del genere?”. “No. Vogliamo che lei le addolcisca, che le mimetizzi. Solo per ora naturalmente. Per esempio, se solo si sussurrasse che l’Ince vuole avere la possibilità di usare i criminali per i propri esperimenti, salterebbero su subito tutte le donnette di entrambi i sessi a protestare e ad abbaiare in nome dell’umanità; se invece si parla di recupero dei disadattati, tutti si metteranno a sbavare di gioia perché finalmente è terminata l’era brutale della punizione retributiva. È curioso che la parola ‘esperimento’ sia mal accetta, ma non la parola ‘sperimentale’. Non si devono fare esperimenti sui bambini; ma se ai cari ragazzini si offre istruzione gratuita in una scuola sperimentale collegata all’Ince, tutto andrà benissimo!”».
«È l’inizio di un potere assoluto»
Mark incomincia così la sua collaborazione con l’Ince. Poco a poco, comincia a scoprire cose che non gli piacciono affatto. Vorrebbe, tanto per cominciare, che fosse precisato il suo lavoro; ma riceve solo risposte evasive. Quando insiste, gli viene fatto capire che non si sta mettendo in buona luce, non sono graditi quelli che non si fidano ciecamente del Comitato. A un certo punto, vorrebbe addirittura lasciare l’Istituto. Scopre che non è così facile. Anzi, è addirittura impossibile. Uno che ci ha provato davvero è stato ritrovato cadavere. Uno spiacevole incidente, naturalmente. Non c’è via d’uscita, non si può tornare indietro, si può solo andare avanti, diventare sempre più complici del Progetto.
«“Questo Istituto servirà a sconfiggere la morte o a sconfiggere la vita organica, se preferisce. È la stessa cosa. Servirà a trarre fuori dal bozzolo della vita organica che ha protetto l’infanzia della mente l’Uomo Nuovo, l’uomo che non morirà. L’uomo artificiale, indipendente dalla Natura. Le offriamo di diventare uno di noi. È l’inizio di un potere assoluto; vivrà per sempre”. “È l’inizio dell’Uomo Immortale e dell’Uomo Ubiquo” disse Strik “L’Uomo sul trono dell’universo: è questo il vero significato di tutte le profezie”».
Per essere definitivamente ammesso al vertiginoso disegno a Mark manca una cosa: deve consegnare all’Istituto sua moglie. Jane, nel frattempo, non è rimasta inattiva. Meglio, è stata anche lei coinvolta in un’altra congrega. Dalle caratteristiche diametralmente opposte. Un gruppetto di gente ordinaria, semplice, sulle prime perfino quasi antipatica per la sua mediocrità. Ma stranamente lieta. Tanto quelli vogliono rifare il mondo, tanto questi lo amano così com’è.
«”Perché non venite a pranzo da me?” disse Jane. “Non è certo una giornata da picnic”. “Sarebbe solo un disturbo per lei” disse Camilla. “E poi” continuò “non le piace una giornata nebbiosa nel bosco in autunno? Vedrà che, seduti in macchina, non avremo affatto freddo”. Jane rispose di non avere mai sentito prima di allora che a qualcuno piacesse la nebbia. “Il motivo per cui Camilla e io ci siamo sposati” disse Denniston mentre partivano “è che tutti e due amiamo qualsiasi tempo, non questo o quello in particolare, ma il tempo così com’è; a chi vive in Inghilterra è molto utile avere di questi gusti”. “Come siete riusciti ad arrivare a tanto, Mr. Denniston?” replicò Jane “Non credo che sarò mai capace di amare la pioggia o la neve”. “È tutto il contrario” disse Arthur “Da bambini amiamo il tempo. Si impara l’arte di detestarlo quando si cresce. Ha mai notato cosa succede quando nevica? Gli adulti vanno in giro con la faccia lunga, ma guardi i bambini. E i cani! Loro sanno a cosa serve la neve”. “Io so che da bambina odiavo le giornate piovose” osservò Jane. “Solo perché gli adulti la tenevano chiusa in casa” intervenne Camilla. “E un bambino ama la pioggia se può andare a sguazzare nelle pozzanghere”».
Quella strana piccola comunità
Jane si trova così coinvolta nella piccola banda («la nostra piccola comunità, o compagnia, o associazione, o come preferisce chiamarla») che sta combattendo per salvare il mondo, così com’è, dal diabolico progetto del Nemico. Una banda di cui fa parte anche mister MacPhee, un vero scienziato (la polemica di Lewis, va da sé, non è contro la scienza, che è nella sua natura impresa cristiana, ma contro la tentazione luciferina di usarla per “essere come Dio”). Una banda in cui non si entra per costrizione, ma per il rischio della libertà.
«”È come sposarsi, entrare in Marina da ragazzo, farsi monaco o provare un cibo nuovo. Non si può sapere com’è finché non ci si è buttati”. “È difficile, allora, capire perché mai uno dovrebbe buttarsi”. “Ammetto, in tutta franchezza” disse Arthur “che si tratterebbe di fidarsi. Immagino che in realtà dipenda tutto dall’impressione che le hanno fatto Grace, i Dimble e che le abbiamo fatto noi; e naturalmente da quella che le farà il capo, quando lo conoscerà”».
Una banda con le sue regole, dettate da un bonario, ironico realismo.
«“Cosa significa ‘è il giorno delle donne oggi in cucina’?” chiese Jane a Mamma Dimble. “Qui non ci sono persone di servizio” rispose la signora “quindi lavoriamo tutti. Un giorno le donne e un giorno gli uomini. Cosa? No, è un accordo molto ragionevole. L’idea del Direttore è che gli uomini e le donne non possano sbrigare insieme le faccende domestiche senza litigare. Penso che abbia ragione. Naturalmente non bisogna ispezionare le tazze troppo per il sottile quando è il turno degli uomini, ma nel complesso andiamo avanti benissimo”. “Ma perché dovrebbero litigare?” chiese Jane. “Metodi diversi, mia cara. Gli uomini non sono capaci di aiutare quando si fa qualcosa, sai. Si può indurli a fare un certo lavoro, ma non ad aiutare chi lo fa. È una cosa che come minimo li irrita”. “La difficoltà basilare” intervenne MacPhee “nella collaborazione tra i sessi è che le donne parlano un linguaggio senza sostantivi. Se due uomini fanno un lavoretto insieme, l’uno dice all’altro: ‘Metti questa ciotola dentro quella più grande che sta sul ripiano in alto dell’armadio verde’. Il corrispettivo femminile è: ‘Mettila nell’altra là dentro’. Se poi uno chiede: ‘Dentro dove?’, le donne dicono: ‘Là dentro, naturalmente’. Ne deriva quindi una capacità di comunicare ridotta all’osso”».
Il lettore non ha bisogno d’altro. Ha già capito tutto. Tra i due schieramenti si combatterà la battaglia decisiva; una battaglia che a che fare, si scoprirà, con qualcosa che va al di là del destino della Terra. Lewis è un genio. È riuscito a costruire un vero, piacevole, accattivante romanzo (dopo le prime decine di pagine si rimane avvinti dalla brama di vedere “come va a finire”, che è insieme una lucida profezia dei tempi che stiamo attraversando. Come si vede dai pochi esempi, non c’è passaggio che non faccia esclamare “ma è davvero così!”. Quell’orribile forza (Adelphi) pone in luce la vera, grande alternativa: tra una ragione infinitamente grande, aperta a tutti i risvolti del reale; e una asfittica, che cerca di far rientrare l’infinita ricchezza del mondo negli schemi che riesce a dominare.