Quello che avrei detto al concistoro. Intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio di Stefania Falasca
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Riprendiamo dal sito della rivista 30Giorni un’intervista all’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio pubblicata sul numero 11/2007 della rivista stessa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)
«Devo tornare», ripete. Non che l’aria di Roma non gli garbi. Ma quella di Buenos Aires gli manca. La sua diocesi. «Esposa» la chiama. A Roma, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, passa sempre di corsa. Ma stavolta una sciatalgia lo ha costretto ad allungare la sua permanenza nella Città eterna con qualche giorno di riposo. Per di più, umorismo delle circostanze, l’appuntamento per cui aveva attraversato l’oceano, l’incontro con il Papa e tutti i cardinali riuniti in concistoro, gli è toccato saltarlo. È una compagnia, la sua, mai lontana. Ci racconta come è andata la Conferenza di Aparecida, dove proprio lui ha presieduto il comitato di redazione del documento finale. Confida che al concistoro il suo intervento sarebbe stato su questo. E con quel suo modo di dire lieve e insieme acuto, incisivo, che spiazza e sorprende, così ne parla.
Benedetto XVI con il cardinale Jorge Mario Bergoglio
durante i lavori della quinta Conferenza generale
dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi,
presso il santuario di Nossa Senhora
da Conceição Aparecida in Brasile, il 13 maggio 2007
Eminenza, al concistoro avrebbe parlato di Aparecida. Che cosa per lei ha caratterizzato questa quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano?
JORGE MARIO BERGOGLIO: La Conferenza di Aparecida è stata un momento di grazia per la Chiesa latinoamericana.
Non sono però mancate polemiche riguardo al documento conclusivo…
BERGOGLIO: Il documento conclusivo, che è un atto del magistero della Chiesa latinoamericana, non ha subito nessuna manipolazione. Né da parte nostra né da parte della Santa Sede. Ci sono stati alcuni piccoli ritocchi di stile, di forma, e alcune cose che sono state tolte da una parte sono state rimesse dall’altra; la sostanza, quindi, è rimasta identica, non è assolutamente cambiata. Questo perché il clima che ha portato alla redazione del documento è stato un clima di autentica e fraterna collaborazione, di rispetto reciproco, che ne ha caratterizzato il lavoro, un lavoro che si è mosso dal basso verso l’alto, non viceversa. Per capire questo clima bisogna guardare a quelli che per me sono i tre punti-chiave, i tre “pilastri” di Aparecida. Il primo dei quali è proprio questo: dal basso verso l’alto. È forse la prima volta che una nostra Conferenza generale non parte da un testo base preconfezionato ma da un dialogo aperto, che era già iniziato prima tra il Celam e le Conferenze episcopali, e che è continuato poi.
Ma le direttive della Conferenza non erano già state segnate dall’intervento d’apertura di Benedetto XVI? BERGOGLIO: Il Papa ha dato indicazioni generali sui problemi dell’America Latina, e ha poi lasciato aperto: fate voi, voi fate! È stato grandissimo, questo, da parte del Papa. La Conferenza è cominciata con le esposizioni dei ventitré presidenti delle diverse Conferenze episcopali e da lì si è aperta la discussione sui temi nei differenti gruppi. Anche le fasi della redazione del documento sono rimaste aperte al contributo di tutti. Al momento di raccogliere i “modi”, per la seconda e terza redazione, ne sono pervenuti 2.240! La nostra disposizione è stata quella di ricevere tutto ciò che veniva dal basso, dal popolo di Dio, e di fare non tanto una sintesi, quanto piuttosto un’armonia.
Un lavoro impegnativo…
BERGOGLIO: “Armonia”, ho detto, questo è il termine giusto. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo «ipse harmonia est», lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo. E il documento, se si legge bene, si vede che ha un pensiero circolare, armonico. Si percepisce quell’armonia non passiva, ma creativa, che spinge alla creatività perché è dello Spirito.
E il secondo punto-chiave qual è?
BERGOGLIO: È la prima volta che una Conferenza dell’episcopato latinoamericano si riunisce in un santuario mariano. E il luogo già di per sé dice tutto il significato. Ogni mattina abbiamo recitato le lodi, abbiamo celebrato la messa insieme ai pellegrini, ai fedeli. Il sabato o la domenica ce n’erano duemila, cinquemila. Celebrare l’Eucaristia insieme al popolo è diverso che celebrarla tra noi vescovi separatamente. Questo ci ha dato vivo il senso dell’appartenenza alla nostra gente, della Chiesa che cammina come popolo di Dio, di noi vescovi come suoi servitori. I lavori della Conferenza poi si sono svolti in un ambiente situato sotto il santuario. E da lì si continuavano a sentire le preghiere, i canti dei fedeli… Nel documento finale c’è un punto che riguarda la pietà popolare. Sono pagine bellissime. E io credo, anzi, sono sicuro, che siano state ispirate proprio da questo. Dopo quelle contenute nell’Evangelii nuntiandi, sono le cose più belle scritte sulla pietà popolare in un documento della Chiesa. Anzi, oserei dire che quello di Aparecida è l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina, è come l’Evangelii nuntiandi.
L’Evangelii nuntiandi è un’esortazione apostolica sulla missionarietà.
BERGOGLIO: Appunto. Anche per questo c’è una stretta somiglianza. E qui vengo al terzo punto. Il documento di Aparecida non si esaurisce in sé stesso, non chiude, non è l’ultimo passo, perché l’apertura finale è sulla missione. L’annuncio e la testimonianza dei discepoli. Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce. Questo dice in fondo Aparecida. Che è il cuore della missione.
Fedeli brasiliani presso il santuario
di Nossa Senhora da Conceição Aparecida
Può spiegare meglio questa immagine?
BERGOGLIO: Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce, e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo: «Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate».
Questo è ciò che avrebbe detto al concistoro?
BERGOGLIO: Sì. Avrei parlato di questi tre punti-chiave.
Nient’altro?
BERGOGLIO: Nient’altro… No, avrei forse accennato a due cose delle quali in questo momento si ha bisogno, si ha più bisogno: misericordia, misericordia e coraggio apostolico.
Cosa significano per lei?
BERGOGLIO: Per me il coraggio apostolico è seminare. Seminare la Parola. Renderla a quel lui e a quella lei per i quali è data. Dare loro la bellezza del Vangelo, lo stupore dell’incontro con Gesù… e lasciare che sia lo Spirito Santo a fare il resto. È il Signore, dice il Vangelo, che fa germogliare e fruttificare il seme.
Insomma, chi fa la missione è lo Spirito Santo.
BERGOGLIO: I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di navicella a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela, per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la Sua spinta, senza la Sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero di Dio e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e dal pericolo di una Chiesa autoreferenziale, portandoci alla missione.
Ciò significa vanificare anche tutte le vostre soluzioni funzionaliste, i vostri consolidati piani e sistemi pastorali…
BERGOGLIO: Non ho detto che i sistemi pastorali siano inutili. Anzi. Di per sé tutto ciò che può condurre per i cammini di Dio è buono. Ai miei sacerdoti ho detto: «Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta». I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: «Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un po’ con quella gente, faccia un po’ di catechesi e dia pure la comunione se glielo chiedono». Un parroco mi ha detto: «Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa». «Ma perché?» gli ho chiesto: «Adesso vengono a messa?». «No», ha risposto. E allora! Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio.
Questo vale anche per i laici…
BERGOGLIO: La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati… È proprio una complicità peccatrice. E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. Quando tornarono i missionari li ritrovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la Chiesa e tutti i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solamente il battesimo e avevano vissuto anche la loro missione apostolica in virtù del solo battesimo. Non si deve aver paura di dipendere solo dalla Sua tenerezza… Conosce l’episodio biblico del profeta Giona?
Non lo ricordo. Racconti.
BERGOGLIO: Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il Suo perdono e nutrirli con la Sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis.
Una fuga davanti a una missione difficile…
BERGOGLIO: No. Quello da cui fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio l’amore senza misura di Dio per quegli uomini. Era questo che non rientrava nei suoi piani. Dio era venuto una volta… “e al resto adesso ci penso io”: così si era detto Giona. Voleva fare le cose alla sua maniera, voleva guidare tutto lui. La sua pertinacia lo chiudeva nelle sue strutturate valutazioni, nei suoi metodi prestabiliti, nelle sue opinioni corrette. Aveva recintato la sua anima col filo spinato di quelle certezze che invece di dare libertà con Dio e aprire orizzonti di maggior servizio agli altri avevano finito per assordare il cuore. Come indurisce il cuore la coscienza isolata! Giona non sapeva più come Dio conduceva il suo popolo con cuore di Padre.
In tanti ci possiamo identificare con Giona.
BERGOGLIO: Le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal chiuso mondo delle loro Tarsis si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali.
Che cosa si dovrebbe fare?
BERGOGLIO: Guardare la nostra gente non per come dovrebbe essere ma per com’è e vedere cosa è necessario. Senza previsioni e ricette ma con apertura generosa. Per le ferite e le fragilità Dio parlò. Permettere al Signore di parlare… In un mondo che non riusciamo a interessare con le parole che noi diciamo, solo la Sua presenza che ci ama e che ci salva può interessare. Il fervore apostolico si rinnova perché testimoni di Colui che ci ha amato per primo.
Per lei, quindi, qual è la cosa peggiore che può accadere nella Chiesa?
BERGOGLIO: È quella che De Lubac chiama «mondanità spirituale». È il pericolo più grande per la Chiesa, per noi, che siamo nella Chiesa. «È peggiore», dice De Lubac, «più disastrosa di quella lebbra infame che aveva sfigurato la Sposa diletta al tempo dei papi libertini». La mondanità spirituale è mettere al centro sé stessi. È quello che Gesù vede in atto tra i farisei: «… Voi che vi date gloria. Che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri».