100 giorni alla Maturità: ma quale?, di Alessandro D’Avenia
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Riprendiamo da La stampa del 14/3/2016 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori articoli, cfr. il tag alessandro_d_avenia. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (15/3/2016)
Se l’adolescenza è l’età chiamata a scoprire per cosa valga la pena morire e quindi vivere, e si può protrarre per questo indefinitamente, la maturità è l’età chiamata alla fedeltà a quanto intuito. Se la prima è diapason sensibilissimo verso ciò che ha valore in termini di bellezza, verità, bontà, e le loro gradazioni, la seconda è esercizio per ampliare nello spazio e nel tempo quei valori liberamente assunti come portanti.
Se l’adolescente si innamora con un vigore che lo rende folle è perché scopre che il valore primo dell’esistenza è amare, ma poco a poco l’incanto dell’innamoramento narcisistico scema e quella ricerca di sé è chiamata a diventare vera apertura all’altro: o l’io uccide l’amore o l’amore uccide l’io. Non finisce l’amore, come molti adolescenti credono, ma l’amore comincia: quello maturo, che richiede affermazione del valore intuito in origine, a costo della mia carne per farlo essere. Solo così l’amore diventa più interessante dell’innamoramento e lo supera, perché va a incidere sulla fibra della vita ad un livello più profondo, da cui sgorga la pienezza di sé e dal quale diventiamo capaci di dire: sono felice. Altrimenti l’amore, soltanto inaugurato, viene scartato e si cerca un nuovo innamoramento, non gustando mai la solidità della maturità, ma accontentandosi dei movimenti caotici, frenetici, spesso regressivi, delle emozioni.
La maturità è la trasformazione dell’incanto iniziale in canto della vita, passando per l’inevitabile disincanto che tutte le cose umane, con il loro fardello di imperfezione, si portano dentro. Maturità è il canto della vita, modulato da chi ne comincia a conoscere le asperità, dopo essersi reso conto che la realtà non è a disposizione dei propri desideri, ma resiste, e resiste non in modo “cattivo”, anzi, fornisce il materiale per l’avverarsi (diventare vero) di quel valore intuito e che si vuole realizzare. La realtà è come il legno di una foresta, che servirà come “materia” (parola che in latino significava appunto il legno fornito da un bosco vivo, come wood in inglese è sia il legno sia il bosco) per il lavoro ispirato e paziente dell’artigiano, che vi scava e leviga con sudore e fatica un bellissimo tavolo attorno al quale molti potranno riunirsi per banchettare e parlare.
L’adolescente non sopporta la resistenza, perché si deve ancora affrancare dal pensiero magico dell’infante che tutto vuole e tutto pretende, ma proprio quella resistenza, accolta e trasformata, diventa pienezza di vita, che cambia se stessi e il mondo attorno a sé, attraverso l’incarnarsi di un nuovo inizio. Così la filosofa ebrea Hannah Arendt definiva quest’avventura esistenziale: “Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può aspettare l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza”.
Di questa maturità, nutrita di fede e speranza, oggi abbiamo bisogno tutti, i ragazzi ne sperimentano solo una rituale tappa simbolica fra 100 giorni, il principio di massima resistenza “scolastico”, necessario a misurarsi con il nuovo da realizzare, prima di un cammino fatto finalmente di scelte più libere e consapevoli. Maturità è fedeltà all’unicità della propria vita, che si svincola dal principio di piacere o d’obbligo, e si lascia guidare dal principio di ispirazione, che più si realizza, cioè diventa reale, più si rafforza, al contrario del piacere, che brucia rapidamente e cerca altro piacere dopo averne distrutto la materia stessa che lo ha provocato, e dell’obbligo, che costringe ad una realizzazione senza libertà, e quindi fonte di stanchezza e tensione.
Maturità, se dovessi oggi definirla, lo farei con quelle parole che Leopardi scrisse nello Zibaldone ormai trentenne, considerando la sua fedeltà alla vocazione di poeta, nonostante gli scarsi riscontri dei suoi contemporanei: “e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui”.
Aver fatto una cosa bella al mondo, con o senza applausi, questa è la maturità che ci aspetta tutti. I ragazzi, con la loro “scolasticissima” maturità, non fanno altro che ricordarcelo.
NB. L’immagine è un quadro della mia collega di Storia dell’Arte, Valentina Grilli