Unioni civili, il dovere di tutelare chi nasce, di Carlo Cardia
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Riprendiamo da Avvenire del 28/2/2016 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio. In particolare, cfr. Il ddl Cirinnà. Considerazioni giuridiche e non solo sulle unioni civili, di Andrea Lonardo e Dal ddl Cirinnà al Cirinnà bis. Dissimulare la questione delle adozioni è peggio: dall’articolo 14 al nuovo articolo 5, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)
Dopo i tanti commenti politici seguiti all’approvazione in Senato del ddl sulle unioni civili, può essere utile tornare in modo nuovo su un punto cruciale. E cioè sul ruolo che ha avuto la coscienza di ciascuno di noi – cittadini o parlamentari, impegnati socialmente in tanti modi – nel determinare un sommovimento non previsto, che ha fatto saltare in poche ore strategie, alleanze, prassi regolamentari, e che a un certo punto ha fatto sì che nessun gruppo politico fosse sicuro della propria tenuta, della fedeltà alle indicazioni dei dirigenti.
Se ci si chiede perché sia avvenuto un fenomeno così imponente, credo che la risposta possa iniziare da una constatazione ineludibile. Siamo di fronte a un argomento che tocca, più di tanti altri, la coscienza di chiunque, perché ciascuno di noi ha esperienza di famiglia, genitori, figli, bambini, e tutti sentiamo – è uno dei tratti più belli della nostra tradizione – come dolce e solenne il dovere di tutelare chi nasce, dall’inizio della sua vita. È un valore che fa parte del nostro DNA, di quello Statuto che unisce un Paese, un ordinamento, prima d’ogni diversità. Sappiamo che all’atto della nascita il bambino non ha nulla di suo, se non la mamma e il papà, che gli danno tutto: contatto fisico, amore, cibo, affetto, in un amalgama che non si può spezzare, delegare, rallentare, se non si vuole ferire l’essere più indifeso della terra.
Questo lo sappiamo d’istinto, lo sperimentiamo in ogni nascita, quando si fa festa ai genitori, si vede in loro l’unica garanzia per il futuro. Questa verità è nella nostra intimità, non esistono sofismi o torsioni politiche capaci di spezzare un grumo di umanità che ci appartiene da sempre. Forse è qui la ragione per cui in ogni partito o gruppo – di destra, sinistra, o altra collocazione – nei giorni scorsi è giunto il momento in cui ciascuno s’è chiesto: cosa sto facendo, è giusto togliere il bambino alla mamma e darlo in affidamento o adozione a due padri? È giusto, non è terribile, che appena nasce, il bambino venga subito defraudato di uno dei suoi diritti fondamentali, quello di conoscere i genitori e avere un padre e una madre?
Una domanda del genere è quanto di più pre-politico esista, ci si è resi conto che certe scelte spezzano la filiera delle generazioni, impediscono a un bambino di fruire dei suoi diritti nativi. A tutti si stringe il cuore pensando che quel bambino non sentirà mai il calore del corpo della mamma (che pure esisterà, perché la natura lo richiede), e prima o poi chiederà conto di ciò che gli è stato tolto. Ecco, quando si stringe il cuore così crollano miti, obbedienze, fedeltà, della politica, ciascuno è solo con sé stesso, chiamato a fare la scelta giusta.
Quando Papa Francesco e il Patriarca Kirill si sono incontrati a Cuba hanno inviato un messaggio a tutti gli uomini per sottolineare la centralità della famiglia, esprimere sofferenza perché «il concetto di paternità e maternità come vocazione particolare dell’uomo e della donna nel matrimonio, viene estromesso dalla coscienza pubblica». Un allarme rivolto al mondo intero.
Qualcosa di analogo è avvenuto per la maternità surrogata. Tutti hanno avvertito, dopo un minimo di riflessione, che, legittimando comunque questa pratica si rompe un incanto, si brucia un grande valore, lo si consegna nelle mani del mercato, di chi ormai (basta scorrere internet) sfrutta i desideri degli uni e le povertà degli altri, prepara contratti aventi a oggetto un bambino, organizza viaggi e strutture per realizzare maternità delegate.
E se la letteratura, l’arte, la cultura, di tutti i secoli, hanno cantato ed esaltato l’universalità della maternità e paternità, la loro bellezza e funzione, le difficoltà, le ansie che comportano, c’è da chiedersi chi mai esalterà la maternità surrogata, fonte di sofferenza e umiliazione: chi scriverà mai un romanzo per cantare l’egoismo di una coppia ricca degli Usa, dell’Italia o della Norvegia, che parte per acquistare un figlio fatto da una donna povera dell’India, Indonesia, o di un Paese dell’Africa? L’universalità di un valore affascina e si diffonde, riempie la nostra vita, la sofferenza si piange, si cerca di compensarla, superarla.
A Parigi, con Silvyane Agacinskij, a Roma con donne e uomini d’ogni fede e pensiero, negli Usa con filosofi e intellettuali d’ogni provenienza, una parte della sinistra ha lanciato un forte grido d’allarme, perché la maternità surrogata legittima nuove forme di sfruttamento, anche corporeo, delle donne, tradisce i valori più profondi di un umanesimo che ha prodotto storia e cultura, ha arricchito la modernità. Messi da parte quei valori, l’umanità s’impoverisce. Se queste considerazioni sono vere, vuol dire che la politica dovrà continuare a confrontarsi con la coscienza di ciascuno, con la coscienza di un Paese che in questa occasione ha saputo evitare almeno il peggio di ciò che alcuni volevano fare.
E la coscienza continuerà a ribellarsi, a dire che non è giusto ciò che alcuni insistono nel voler reintrodurre, magari per vie traverse. Non è giusto che si rubino i diritti dei bambini, che nascano persone private della doppia genitorialità, delle proprie origini, alle quali si sostituisce un’identità fredda, burocratica, non vera, e che un giorno magari chiederanno dov’è la propria madre o il proprio padre, e perché per loro essi non sono mai esistiti. La coscienza si sta rivelando una grande forza, che non rispetta confini politici e partitici, perché parla un linguaggio universale, chiede di rispettare quel nucleo di verità conosciuto da uomini e popoli d’ogni etnia, religione, cultura, tradizione. Bisogna rispettarla, e ascoltarla.