Il matrimonio è misericordia, non dottrina. Breve nota di Andrea Lonardo
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Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Famiglia, affettività, sessualità, nella sezione Giustizia, carità e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (16/10/2015)
Jan van Eyck, I coniugi Arnolfini, 1434,
National Gallery, Londra. Nello specchio
al centro del quadro i coniugi Arnolfini sono
riflessi di spalle e nella cornice dello specchio
sono 10 scene della passione di Cristo
Nello sguardo misericordioso di Gesù il matrimonio non è “dottrina” o “dogma”, bensì “misericordia”. Gesù risponde agli scribi che gli chiedono perché Mosè aveva concesso il permesso del ripudio: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma» (Mc 10,5). La durezza del cuore è esattamente il contrario della misericordia: l’amore si spezza quando muore la misericordia.
Ai tempi di Gesù il divorzio era “ normale” sia in ambiente ebraico che pagano. Gesù, che è il volto della misericordia, muta lo sguardo su tutto ciò che fin lì era stata la “norma”: egli vive e propone l’amore verso lo straniero, l’amore verso il peccatore, l’amore verso i pubblicani e le prostitute, l’amore verso il povero, l’amore verso il nemico, l’amore verso l’adultera. Tutti questi “amori” sono espressioni della medesima carità.
Come canta l’inno alla carità: «La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13,4-8).
Solo chi è misericordioso può riprendere con sé e continuare ad amare il coniuge che lo ha tradito.
Gesù da origine ed, insieme, porta a compimento. È il matrimonio stesso in sé, prima ancora che quello religioso, che già tende ad un amore che non finisce per il peccato o per il cambiamento dell’altro. È lo stesso matrimonio ebraico che già tende alla misericordia.
Isaia aveva annunziato, infatti: «Come una donna abbandonata
e con l’animo afflitto, ti ha richiamata il Signore.
Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù?
– dice il tuo Dio.
Per un breve istante ti ho abbandonata,
ma ti raccoglierò con immenso amore.
In un impeto di collera
ti ho nascosto per un poco il mio volto;
ma con affetto perenne
ho avuto pietà di te,
dice il tuo redentore, il Signore» (Is 54,6-8).
Osea si era fatto, nella sua stessa esistenza personale, immagine di un Dio che ama la sposa che non lo merita.
Nella tradizione rabbinica del tempo di Gesù si discuteva quando il divorzio ed un nuovo matrimonio fossero possibili:
«La scuola di Shammai insegna che il marito non deve divorziare dalla propria moglie a meno che abbia trovato in lei qualcosa di immorale, conformemente al testo che dice: “Avendo trovato in lei qualcosa di vergognoso” (Dt 24,1). La scuola di Hillel opina invece: Anche se essa ha bruciato il suo cibo. Rabbi Aqiba dice: Anche se trova un’altra più bella di lei, conformemente al testo che dice “che accada anche se essa non trovi grazia ai suoi occhi” (Dt 24,1)» (Mishnah, Ghittin VIII,9-10).
Per Shammai, rabbino più rigorista, il divorzio era possibile solo se l’uomo scopriva l’adulterio della moglie (“qualcosa di immorale”), mentre Hillel, più lassista, permetteva il divorzio anche se la donna non sapeva cucinare. Ovviamente non era previsto che fosse la moglie a poter divorziare, ma era solo il maschio a poter ottenere di separarsi dalla donna che aveva sposato. Rabbi Aqiba, il rabbino che aiutò Bar Kokhba nella rivolta contro i romani riconoscendolo come inviato da Dio e che morì per questo martire, famoso anche per la sua storia di amore con la moglie Rachel che lo sostenne per tutta la vita, aveva invece secondo la Mishnah una posizione ancora più duttile, ritenendo possibile il divorzio anche se una donna non trovava più grazia agli occhi del marito.
Anche il mondo greco e romano conosceva l’istituto del divorzio. L’antichità ha conservato contratti di separazione come quello di Zois ed Antipatro che dichiarano di essersi accordati
«di essere separati l’uno dall’altro, rompendo l’unione formatasi per contratto davanti allo stesso tribunale nel corrente anno XVII di Cesare Augusto, e Zois riconosce di aver ricevuto da Antipatro di mano dalla casa di lui ciò che egli ebbe in dote: abiti per il valore di 120 dracme d’argento e un paio di orecchini d’oro. Perciò d’ora in poi è nullo il contratto di matrimonio, e né Zois né un altro per lei potrà procedere contro Antipatro per richiedere la restituzione della dote, né alcuna delle due parti contro l’altra per quanto riguarda la coabitazione o altra materia fino al presente giorno, a partire dal quale è lecito a Zois sposare un altro uomo e ad Antipatro un’altra donna, senza che nessuno dei due sia perseguibile».
Tutto questo appare ormai sorpassato all’arrivo di Gesù. Con lui ormai è iniziato il nuovo regime della misericordia: il matrimonio appartiene alla novità cristiana.
Ci si accorge di questa novità, quando non si guarda al matrimonio dal proprio punto di vista, ma da quello del possibile peccato dell'altro. Se non sono io a voler lasciare qualcuno, ma è l'altro ad abbandonarmi, perché sono invecchiata o malato o perché l'altro si è innamorato di un altra dopo decenni di matrimonio, se sono io a rimanere senza quella persona a cui tengo e che mi ha promesso amore e insieme alla quale abbiamo educato i nostri figli, ecco che la misericordia non è più cosa ovvia: perché io soffro, perché io provo rancore. Gesù non solo ha voluto essere misura dell'amore, ma ancor più grazia che lo sostiene, perché tutto in me mi spingerebbe alla rabbia - e, difatti, quanta rabbia noi vediamo nelle separazioni. Solo la misericordia e non un cuore duro può far dire a chi è stato abbandonato - siano futili o serissimi i motivi del suo gesto, siano le responabilità di entrambi o solo di chi si allontana - : «Non smetterò di amare». Tutto cambia se io non chiedo misericordia per me, ma riesco a concederla a chi in un dato momento o anche per anni sembra non amarmi più.
Ricordo la storia di una donna che fu lasciata dal marito per una donna più giovane. Il marito aveva riscoperto emozioni che non provava più e con la freschezza della nuova compagna sembrava rinato, mentre la più anziana si disperava: cercò anche lei una compagnia, ma poi si rassegnò, accorgendosi che era inutile.
Lui, improvvisamente, scoprì di avere un tumore e pian piano la malattia si aggravò. La più giovane, ad un certo punto, lo lasciò, perché non voleva farsi carico della malattia del suo compagno.
La moglie si riavvicinò al marito lentamente, a motivo del dolore subito. La donna ebbe misericordia. Fu donna di misericordia. Tornò da me alla morte del marito, dicendo che lui aveva lasciato questa vita, mentre si tenevano per mano. Era morto piangendo insieme a lei, perché aveva riscoperto di star morendo come marito amato da sua moglie, nonostante i tanti anni vissuti lontano. Ecco una storia di misericordia.
Non solo una storia di misericordia, ma ancor più una storia bella. perché la misericordia è bella, perché tutti noi vorremmo che l'altro avesse un cuore che continua ad amare anche quando noi pecchiamo, anche quando il nostro carattere ci porta a richiuderci su noi stessi, anche quando siamo petulanti per la nostra paura di non essere amati, anche quando invecchiamo, anche quando la malattia ci rende meno interessanti di un tempo.
Con queste brevi riflessioni non si vuole entrare nel merito delle questioni canoniche e disciplinari che vanno anch'esse affrontate con misericordia e alle quali solo i vescovi con il papa possono dare un orientamento, ma solo proporre che il Sinodo torni a far risplendere la misericordia che è annunziata da Gesù come cuore del matrimonio, senza svilirla come “dottrina” o “dogma”, termini in sé altissimi, ma che nel linguaggio corrente sono purtroppo percepiti come antitetici alla misericordia: la nuova visione del matrimonio proposta da Gesù è misericordia.