Condanne a morte. Il silenzio italiano sui sauditi, di Paolo Mieli
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 30/9/2015 un articolo scritto da Paolo Mieli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Carcere e pena di morte nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2015)
Non ha mandato soltanto i caccia Rafale a bombardare le basi dell’Isis in Siria, il presidente francese François Hollande si è anche solennemente pronunciato perché sia salvata la vita di Mohammed al Nimr. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, non ha fatto né una cosa, né l’altra. E se possiamo capire le ragioni di prudenza che hanno determinato la scelta di non correre il rischio di provocare un secondo «caso Gheddafi» (cioè l’abbattimento di una tirannide senza calcolare gli effetti di questa nobile impresa), non riusciamo a comprendere i motivi del mancato pronunciamento sul caso che riguarda l’Arabia Saudita. Tanto più che il giornale del Pd, L’Unità, si è meritoriamente impegnato, per la penna di Umberto De Giovannangeli, in questa battaglia civile. Scriviamo «meritoriamente» perché in generale la pena di morte fa notizia - soprattutto sulla stampa di sinistra - solo quando è inflitta negli Stati Uniti. Se invece è eseguita in un Paese arabo che è o potrebbe essere nostro alleato o partner commerciale, allora ci si distrae. Pessima usanza che non giova alle campagne internazionali contro la pena di morte.
Ali Mohammed al Nimr, nipote di un assai famoso oppositore sciita al regime dell’Arabia Saudita, aveva 17 anni quando, nel febbraio 2012, venne arrestato per aver preso parte a una manifestazione nella provincia di Qatif, ed è stato condannato a morte il 27 maggio scorso. Tra il 1985 e il 2013 oltre duemila persone sono morte in Arabia Saudita sotto la scure del boia. Da agosto 2014 a giugno 2015 le decapitazioni sono state, secondo Amnesty International, 175, una ogni due giorni. Degli uccisi, circa la metà erano stranieri che, non disponendo di un adeguato servizio di interpreti, mediante tortura venivano indotti a firmare confessioni per loro incomprensibili. Il ritmo delle esecuzioni si è intensificato al punto che nel maggio scorso è stato pubblicato un bando per il reclutamento di otto nuovi «funzionari religiosi» da adibire al taglio delle teste. Lo scrittore Tahar Ben Jelloun ha minuziosamente descritto cosa accadrà ad Ali al Nimr il giorno dell’esecuzione: «sarà decapitato, poi crocifisso, e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione». Come accadde, scrive Ben Jelloun, al grande poeta sufi del decimo secolo, Al Halla: il suo corpo fu evirato, crocifisso e lasciato marcire al sole. Un’abitudine non nuova, dunque.
E non c’è solo al Nimr. Il blogger Raif Badawi è incarcerato a Gedda dove deve scontare una pena a dieci anni di prigione. Il tutto su una base d’accusa di apostasia per aver cliccato «mi piace» su una pagina Facebook di arabi cristiani e per aver, su un suo blog Saudi Free Liberals Forum, mosso qualche critica (che nella sentenza viene definita «insulto») ad alcune personalità politiche e religiose. Gli viene rimproverato anche di «aver riportato alcune citazioni dai libri di Albert Camus». E per aver menzionato Camus, alla galera si accompagna, da quest’anno, una pena aggiuntiva: un migliaio di colpi di verga (Mille frustate per la libertà è il titolo del libro scritto da sua moglie Ensaf Haidar, rifugiata in Canada, dove si parla di questo ulteriore «dettaglio»). Dall’inizio del 2015 Raif riceve con regolarità una quantità terribile di colpi di sferza: cinquanta ogni «santo venerdì dell’Islam». E il supplizio continuerà finché, appunto, le frustate non saranno state mille. In una lettera al settimanale tedesco Der Spiegel, pubblicata a marzo, Raif ha raccontato di aver ricevuto la prima dose di scudisciate al cospetto di una folla plaudente di fronte alla moschea di Gedda e di non spiegarsi come è riuscito a essere sopravvissuto ai cinquanta colpi di un «bastone di legno bianco» con cui è stato battuto in ogni parte del corpo. E qui va fatta un’osservazione: l’11 gennaio scorso, due giorni dopo che Raif aveva ricevuto la sua prima razione di frustate, l’ambasciatore saudita a Parigi partecipava contrito alla manifestazione di solidarietà per gli uccisi della redazione di Charlie Hebdo . Grande e pressoché unanime fu il plauso mondiale per l’iniziativa di pubblico cordoglio senza che nessuno rilevasse quell’impropria presenza.
In giugno poi, meno di un mese dopo la condanna a morte di Ali al Nimr, il saudita Faisal bin Hassan Trad è stato nominato presidente del gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. E sono stati pochissimi a sollevare obiezioni. Ma le contraddizioni non si fermano qui. La scrittrice egiziana Nawal El Saadawi si è unita alla campagna dell’Unità a favore di Ali al Nimr: «Di fronte a vicende come la sua», ha scritto, «non è possibile accettare un’indignazione a corrente alternata: giustamente l’Occidente ha condannato con la massima durezza, almeno a parole, i tagliagole dell’Isis, inorridendo di fronte alle decapitazioni filmate. Ma anche il giovane saudita, se la comunità internazionale non agirà su Riad, sarà decapitato e crocifisso su una pubblica piazza. Forse non ci sarà un video che immortalerà questa barbarie, ma la sostanza non cambia».
Infine, su sollecitazione dei radicali torinesi il sindaco della città Piero Fassino, il presidente della Regione Sergio Chiamparino e l’assessore alla Cultura Antonella Parigi hanno chiesto al Salone del libro di rigettare l’ipotesi «scellerata» (così l’ha definita il partito di Marco Pannella) che l’Arabia Saudita sia «ospite d’onore 2016» del Salone stesso. La decisione definitiva sarà presa il 6 ottobre. Speriamo bene.