1/ Giacomo Poretti: Dio, cosa vuoi da noi? Anticipazione di «Al paradiso è meglio credere», il nuovo romanzo del comico che fa trio con Aldo e Giovanni, di Giacomo Poretti 2/ Il nuovo libro di Giacomo Poretti «Al Paradiso è meglio credere». Antonio, un finto prete sulle tracce dell'aldilà, di Fulvio Panzeri
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1/ Giacomo Poretti: Dio, cosa vuoi da noi? Anticipazione di «Al paradiso è meglio credere», il nuovo romanzo del comico che fa trio con Aldo e Giovanni, di Giacomo Poretti
Riprendiamo da Avvenire del 18/10/2015 un testo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)
Salivamo in silenzio, avevo la strana impressione che don Angelo sapesse tutto, e che mi avesse portato lì, lontani dal mondo, solo io e lui, per darmi la possibilità di liberarmi del mio peso.
Invece a un certo punto disse: «Quest’anno, a ottobre, saranno 48 anni di sacerdozio. Ho sempre cercato di servire il mio datore di lavoro là in alto come meglio ho potuto, ma non ho mai rinunciato alla mia passeggiata solitaria o con un amico, come sto facendo oggi con lei. Se un povero, anziano parroco si può permettere di darle un consiglio: ecco, non abbia paura di prendersi un pomeriggio per sé. Sono arrivato perfino a dire delle bugie, a inventarmi degli impegni, ma non ho mai rinunciato alla mia passeggiata del mercoledì o giovedì pomeriggio tra queste vette incantevoli: mi fermo, ringrazio il Signore della vita che mi ha dato, Gli chiedo perdono dei miei difetti, dei miei limiti anche come parroco, perché anche noi parroci siamo difettosi – disse ridendo – e poi Gli chiedo perdono perché sono un bugiardo, ma lo faccio per te, Signore, per stare solo con te un paio d’ore. Questi pomeriggi sono il mio weekend, sono il mio pub, sono la mia playstation, mi ricaricano, e così vado avanti».
Ci fu un attimo di silenzio, e poi trovai il coraggio di fare quella domanda. «Don Angelo… perché ci ha fatti?». Mi sorrise come si fa con un bambino che ha commesso una marachella e poi iniziò a parlare. «Una volta un uomo si presentò da un rabbino e gli rivolse la stessa domanda che mi ha fatto lei. Il rabbino prese un bastone e cominciò a picchiare quell’uomo sulla schiena, e alla fine lo scacciò urlando che quella era l’unica domanda che non bisognava fare a Dio. Io non ho la sapienza del rabbino e, stia tranquillo, non le spaccherò il mio bastone in testa, ma anch’io penso che dobbiamo accettare il mistero dei disegni del nostro architetto».
Intuendo probabilmente che ero un po’ deluso dalla sua risposta, aggiunse: «Nel suo caso credo che l’abbia creata per mostrare la pista giusta agli sciatori», poi scoppiò in una fragorosa risata. Mi unii alla risata, ma dentro sentivo che la mia domanda, quella che mi teneva sveglio la notte, non solo non aveva risposta, ma nemmeno gli interlocutori giusti ai quali rivolgerla. Di Dio, poi, non ne parliamo: in quel momento pensai che fosse solo una mia tragica necessità, nulla più. Proprio su quel sentiero, un giorno, avevo pensato che fingendomi prete sarei arrivato più vicino alle risposte: nei libri letti sull’altare avrei trovato la risposta ai miei dubbi, la consuetudine alla preghiera mi avrebbe accostato alla verità. In quella frase di quattro secondi, «Io sono un prete», si è condensata improvvisamente tutta la mia vita – tutto il mio groviglio inestricabile, il mio disordine, la mia mancanza di metodo, le mie angosce, i miei aneliti, la mia voglia di felicità, la mia disperazione – e non sapendo che forma prendere, che strada percorrere, nell’attesa di un ordine da parte della mia volontà, di un cenno di qualcosa che appartenesse al mio io, che facesse per così dire le funzioni del padrone di casa, insomma in assenza di tutto questo, quel magma inconscio decise da sé: parlò per me, senza che io sapessi che cosa aveva in mente. Forse quella parte che prese la parola voleva la mia salvezza più del mio io cosciente.
Scendemmo verso Staffal in silenzio, le gambe mi facevano più male che a salire, ma le cose più dolenti erano i pensieri. «Che bisogno avevi di crearci? Non Te ne stavi forse immerso nella Tua incalcolabile potenza, non eri così perfetto in ogni attributo che non mancavi di nulla? Che cosa Ti ha spinto, cosa ha mosso la Tua perfetta immobilità? Di cosa hai avuto bisogno ancora, che già non possedevi? Non eri felice in Te stesso? Non sei Tu il padrone, il signore di tutto? Ogni Tuo spazio, anche il più recondito, ogni secondo, ogni ora, anche la più remota, non l’hai pensata Tu, non l’hai creata Tu? Non esiste uno spazio e un tempo che Tu non abbia riempito, vero? Tu sei Colui che sei? Chi Ti minaccia? Sei così forte da aver creato, con l’uomo, il Tuo possibile nemico? Se l’uomo è davvero libero, può non riconoscere il Tuo disegno. E se davvero siamo liberi e non marionette, Tu puoi perire per colpa nostra? Puoi scomparire nel nulla, e noi con Te? Non hai truccato le carte, vero? Stai accettando questa sfida e umilmente Ti metti in gioco alla pari?».
«Perché accetti questo, perché? Cosa Ti spinge? Cosa si è incrinato nella Tua perfezione? Ti sei separato da Te stesso? Hai diviso Te stesso che sei l’Uno, che sei l’Essere, in miliardi di brandelli? Che cos’hai fatto, che la mia mente non riesce a pensare? Hai bisogno di noi, di me, Dio? Provo a chiederTi cosa Ti ha spinto, nel momento che Ti sei deciso, alla nostra creazione? Ti sei sentito solo? Mi schiaccia, mi opprime e mi assale la nausea a provare a pensare alla Tua presenza eterna, all’essere che è sempre stato e sempre sarà: questo pensiero è di una potenza insuperabile! Ma dall’alto della Tua perfezione assoluta, che nessun occhio può contemplare, ci hai fatti uguali a Te? Immagine di Te? Davvero accetti questa uguaglianza? Che cosa vuoi da noi?».
2/ Il nuovo libro di Giacomo Poretti «Al Paradiso è meglio credere». Antonio, un finto prete sulle tracce dell'aldilà, di Fulvio Panzeri
Riprendiamo da Avvenire del 18/10/2015 una recensione di Fulvio Panzeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)
In una dimensione dove il surreale si alterna alla riflessione più profonda, Giacomo Poretti approda al romanzo, con una storia che riflette sul tema del Paradiso e dell’Aldilà, in un modo anticonvenzionale. Infatti quello che ci racconta è un Paradiso immaginato, seguendo le domande dell’uomo contemporaneo, sempre più confuso sia sulla dimensione della fede, sia su quella dell’entità dell’eterno.
Di fronte alla domanda sul perché Dio abbia creato la vita e alla constatazione che «suscitando la vita con la libertà che ci ha accordato», creando «la possibilità del dolore immenso e terribile: lo spavento metafisico, la sorpresa che sgomenta e atterrisce», Poretti indaga tutta una serie di interrogativi che nascono, non tanto in relazione a chi lo incontra nella fede, risolvendo l’enigma
e quindi pacificandosi nella speranza del Paradiso, ma che riguardano chi non riesce ad arrivare a questo dono, perché troppo debole o fragile, e si chiede se il suo destino è quello di rimanere per sempre «dentro al dolore cieco e soverchiante».
Nel romanzo Al Paradiso è meglio credere, in uscita martedì per Mondadori (pp.120, euro 17,50), Giacomo Poretti affronta questi temi alti con un tocco brioso, attraverso una storia che si svolge in un futuro prossimo, nel 2053, quando Antonio Martignoni, vittima di un incidente stradale, si ritrova in Paradiso, dove lo segue una signora affascinante e dove un burocrate celeste, che ha i tratti nientemeno di Jean-Paul Sartre, gli pone numerose domande. A lui sarà affidato un compito particolare, quello di mettere per iscritto su un file, in un tempo dove l’uso della scrittura manuale è proibito, la storia della sua vita; un racconto, il suo, destinato agli uomini rimasti su una Terra arrivata ai limiti della desolazione.
Infatti il testo è destinato a diventare uno dei tanti 'messaggi in bottiglia' lanciati dal Cielo per gli uomini che sono rimasti nella condizione di dolore e di impossibilità a risolvere l’enigma dell’esistenza. Il file viene ritrovato, nascosto in un vecchio computer, e la sua lettura ci rivelerà il vero volto del Martignoni, un uomo che dopo i trent’anni, stanco della vita, dopo un’ultima passeggiata in montagna, testimone di un tragico incidente, viene colto da una profonda nostalgia della fede, dal desiderio di «spiare Dio da vicino».
Non ha dubbi perciò quando sceglie di assumere la nuova identità del sacerdozio pur nella consapevolezza di essere un finto prete, colto da tanti sensi di colpa, prima come parroco in un paesino ai piedi del Monte Rosa e poi in una Milano tormentata, misteriosa, dove improvvisamente iniziano a scomparire le persone anziane.
Non raccontiamo di più: lasciamo al lettore la possibilità di scoprire il sorprendente finale di una storia che sembra guardare, in un’ottica tutta italiana, agli esempi del Lewis delle Lettere di Berlicche, ma anche con echi che vanno nella direzione dell’ultimo Evelyn Waugh, dove un certo sarcasmo viene risolto con benevola leggerezza.