1/ Si costruisce più civiltà intorno alla tavola che con un tablet, di Fabrice Hadjadj 2/ Sospesi tra il pane quotidiano e il pancarré industriale, di Fabrice Hadjadj
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1/ Si costruisce più civiltà intorno alla tavola che con un tablet, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire dell’11/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, oltre a cliccare sul tag fabrice_hadjadj, cfr. la sotto-sezione Filosofia contemporanea nella sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)
Le discussioni a riguardo del Sinodo sulla famiglia si sono molto focalizzate sull’ammissione dei «divorziati risposati» alla Tavola eucaristica – come se la prospettiva non fosse cambiata da ventuno secoli a questa parte (perché, lo ricordo, questo problema si è posto fin dai primi tempi della Chiesa)… A dire il vero non siamo più a quel punto. Siamo in un’epoca in cui la questione è molto più rudimentale: come fare affinché la famiglia si ritrovi intorno a una tavola, molto semplicemente?
Abbiamo dimenticato ciò che i nostri padri sapevano: la tavola è un oggetto ultratecnologico, al punto che accanto ad essa le sofisticherie moderne appaiono come cose grossolane. Un rapido sguardo al materiale già lo prova: passare da una tavola in ciliegio massiccio a una fatta con gli ultimi ritrovati in materia di superconduttori sarebbe uno scadimento evidente (un po’ come sostituire il minestrone della nonna con un beverone sintetico).
Ma questo non è che un indizio. Il grande vantaggio della tavola su tutti i nostri apparecchi futuristi si manifesta soprattutto nel campo del multimediale. Là dove la tecnologia riesce a favorire solamente la comunicazione virtuale, la tavola tende a organizzare la comunione vivente.
Ecco dei commensali realmente presenti, che scaturiscono come busti siamesi da uno stesso centauro immobile, riuniti e aperti come i rami fioriti di un unico albero mistico, e che si mostrano nella loro specificità umana, vale a dire animale e al tempo stesso razionale, con le bocche che a volte parlano e a volte mangiano, le mani che levano i calici e si passano i piatti in modo da rinnovare una sostanza personale che nessun download potrà mai fornire.
E mentre i siti dove ci conduce la navigazione numerica sono legati alla nostra età e ai nostri interessi, il pasto ci avvicina agli altri innanzitutto perché essi hanno fame come noi; ecco perché la tavola è l’incomparabile medium dell’incontro con altre generazioni – dai nonni ai nipoti –, con persone che non condividono le nostre idee ma che volentieri condividono la nostra bistecca, e persino con altre specie – giacché il cagnolino sotto la tavola recupera le molliche…
Si può capire, allora, che la civiltà si costruisce in questo luogo, nella difficile attenzione per imparare a comportarsi a tavola, affinché i nostri gomiti non disturbino quelli che ci siedono accanto, per chiedere dicendo «per favore» e ricevere dicendo «grazie».
Ma ci siamo sottomessi al progresso tecno-economico e abbiamo rinunciato alla civiltà. Tablet
e smartphone si sono impossessati della parola «conviviale», ridefinita da Steve Jobs, e il tempo si è destrutturato sotto il flusso delle news e del divertimento sempre disponibili e sotto la pressione di un lavoro che non segue più i ritmi del corpo e delle stagioni ma la cadenza infaticabile delle macchine.
Ormai la famiglia è scoppiata sotto lo stesso tetto. Ciascuno ha il suo orario capriccioso, ciascuno sta davanti al suo schermo tattile, e non gli resta altro da fare che mangiare in fretta, per conto proprio, cibo già pronto nell’anta del frigorifero, seguendo i consigli dietetici di Mypersonaltrainer.com.
Già negli anni cinquanta Günther Anders diceva che la televisione aveva distrutto la tavola familiare e che da allora il focolare domestico non aveva più nessun punto di convergenza. Con tutto ciò che ci attrezza individualmente all’informazione continua, l’esplosione è completa. Il divorzio dai propri cari e dunque da sé stessi è spesso la conseguenza dell’alta fedeltà a questo apparato tecnico: il tessuto familiare non si tesse più; il suo telaio – la tavola – è stato messo nei rifiuti. Ecco perché la nostra prima rivendicazione sociale dovrebbe unirsi al grido della mamma di quando eravamo bambini: «A tavola!».
2/ Sospesi tra il pane quotidiano e il pancarré industriale, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 18/10/2015 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, oltre a cliccare sul tag fabrice_hadjadj, cfr. la sotto-sezione Filosofia contemporanea nella sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)
Non parlerò del Pane del Cielo ma del pane comune, non consacrato, sul quale si può pronunciare una benedizione senza troppa reticenza. Anche se, al momento di benedire il pasto, sono talvolta colto da un’esitazione. È opportuno proferire quelle antiche parole su una fetta di pancarrè industriale? Devo rendere grazie anche per i pesticidi, i fitofarmaci, gli additivi chimici, il glutine manipolato che conferisce alla nostra tartina la sua "inimitabile morbidezza" degna di un materasso permaflex?
Posso cantare: «Benedetto sia Dio per il pirimfos-metile e il piperonil-butossido»? Non dovrei aggiungere alla mia preghiera anche un’intercessione per i mugnai ammalati a causa degli insetticidi per lo stoccaggio? Ma, in fin dei conti, sono proprio sicuro di avere un’idea abbastanza chiara della catena di produzione e di distribuzione che ha permesso a questo prodotto di arrivare sulla mia tavola?
È vero che nella nostra cara Europa la carestia non c’è più. Il pane sembra diventato disponibile per tutti e in abbondanza. Perciò mi si potrebbe ribattere, e non a torto, che le mie osservazioni sono quelle di un bambino viziato e ingrato. Ma questo non farebbe che confermare l’esistenza del problema: un bambino viziato è già un po’ sciupato anche se non allo stesso modo di un bambino affamato…
Il nostro pane quotidiano obbedisce ormai allo stesso rapporto che c’è tra il software e l’hardware - il filosofo americano Albert Borgmann lo chiama «il paradigma del dispositivo (tecnologico)». Un tale dispositivo unisce sempre, come le due facce di una stessa medaglia, la disponibilità di un prodotto all'opacità della sua produzione, o ancora una commodity e un meccanismo. Il glamour del pane offerto sotto i riflettori della pubblicità nasconde un apparato oscuro da cui dipende la mia comodità.
Scrive Borgmann: «Nell’universo moderno dell’abbondanza e della disponibilità, il nostro contatto col mondo è ridotto a consumo senza sforzo e visione senza profondità. La fetta di pane che ho preso al supermercato non mi fa più pensare a un campo di grano, una mietitura, un mugnaio, un forno, né a una mano che benedice e spezza il pane. Il mio sguardo si ferma alla superficie, al suo colore, la sua struttura. Posso immaginare che dietro la sua brillante opacità ci sia una certa infrastruttura tecnica, probabilmente un business agroalimentare e una panificazione automatizzata situati chissà dove. Ma la mia comprensione del meccanismo è vaga quanto la mia coscienza della sua esistenza. Alla fine, in questo ambiente naturale di comodità superficiali, tendo a diventare superficiale io stesso».
Il problema del nostro pane quotidiano non è innanzitutto dietetico o ecologico. È fenomenologico, legato alla percezione delle cose che abbiamo al giorno d’oggi. Ieri, col Padre Nostro, il pane sembrava provenire dal Dio invisibile, ma attraverso di esso si vedevano «la terra e il lavoro degli uomini», le spighe, il contadino, il mietitore, il mulino, il panettiere… Erano persone conosciute in paese, con cui forse ci si dava del tu.
Oggi, il pane appare provenire da un’invisibile agro-tecno-industria, e tutto quello che vediamo è questa fetta bella e liscia come un MacBook. Se vogliamo saperne un po’ di più facciamo ricorso ad altri apparecchi opachi e alla competenza degli esperti. E il nostro immaginario resta sempre più vuoto con un campo di grano ridotto a un’etichetta e a delle equazioni chimiche che governano il reale. Si può capire allora che al momento di benedire il pane la mano resti per un attimo sospesa, prima di acconsentire, malgrado tutto, a fare il segno della croce comprendendo che una redenzione è a maggior ragione necessaria.