1/ I giovani under 30 e il rapporto con la religione: «Un Dio a modo mio». La grande indagine dell’Istituto Toniolo sui giovani e la religione: il cristianesimo per gli under trenta è più un’etica, un «volersi bene» che una religione tradizionale, di Paolo Foschini 2/ Dio a modo mio, la fede fragile dei giovani italiani, di Antonio Sanfrancesco 3/ Dio a modo mio. Conclusioni, di Paola Bignardi 4/ L’analfabetismo religioso dei giovani delle parrocchie, di Samuele Cecotti. Con una nota introduttiva de Gli scritti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /04 /2016 - 16:31 pm | Permalink | Homepage
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0/ Nota introduttoria de Gli scritti

Per approfondimenti. cfr. la sotto-sezione Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

(6/4/2016)

La ricerca Dio a modo mio chiede una revisione dei modi di leggere la vita delle nostre parrocchie e l’iniziazione cristiana. Vi proponiamo qualche notazione assolutamente incompleta su questioni evidenziate o trascurate nei commenti che seguono.

a/ I giovani interrogati non sono più giovani educati da catechisti formati secondo un modello istituzionale e contenutistico di catechesi, bensì sono figli di catechisti cresciuti dopo il ‘68. Un catechista che aveva 60 anni quando i giovani intervistati (poniamo oggi ventenni) si preparavano alla prima comunione 10 anni fa (ipotizziamo dunque il 2006), ne aveva 22 nel 1968. Un catechista che aveva 50 anni quando i giovani intervistati (poniamo oggi ventenni) si preparavano alla prima comunione 10 anni fa (ipotizziamo dunque il 2006) ne aveva 12 nel 1968.

Insomma i catechisti dei giovani intervistati non hanno mai conosciuto la catechesi istituzionale e contenutistica, ammesso che così essa fosse, degli anni ’50. Non ci sembra cogliere nel segno Paola Bignardi  quando scrive più sotto: «I giovani di oggi, dal punto di vista religioso, sono al confine tra due generazioni: quella di un passato che non c’è più e di un futuro che non c’è ancora. Sono una generazione peculiare, che segna una discontinuità forte rispetto al passato. Sono una “generazione di mezzo”, potremmo anche definirla “interstiziale”, collocati storicamente tra un modello culturale tipico del passato, tradizionale-istituzionale, a cui sono stati, dolenti o nolenti, socializzati nella maggioranza dei casi, e un modello culturale presente, emergente e de-istituzionalizzato, che si sta diffondendo proprio in questi anni».

I giovani di oggi, così come i catechisti che li hanno educati da bambini, sono totalmente dentro “un modello culturale de-istituzionalizzato” - per stare alle parole della ricercatrice - e tale modello non “si sta diffondendo proprio in questi anni”, ma è in voga da decenni.

La novità è piuttosto che, come la ricerca pone in luce, questo modello de-istituzionalizzato dominante da decenni, tutto basato su attività, disegni, dinamiche di gruppo, giochi, ecc., comincia ad essere messo in discussione a più livelli: tutta la pedagogia comincia a riconsiderare in maniera molto più critica che in passato le idee che i diversi maître à penser e pedagogisti, soprattutto in ambito scolastico e successivamente in ambito catechistico, hanno messo in campo a partire dal ’68.

b/ La ricerca pone in evidenza che la catechesi dell’Iniziazione cristiana è una realtà ritenuta importante dagli adulti genitori – si potrebbe dire una delle poche realtà che gli adulti genitori sentono vicina alle loro esigenze. Utilizziamo questo termine adulti genitori perché sosteniamo da tempo che una persona diviene adulta solo quando diventa genitore, anche se ciò dovesse avvenire in senso spirituale e non materiale. Diviene adulto, cioè, chi ha una nuova generazione di cui prendersi cura, mentre un adulto che non ha preoccupazione per i piccoli è in realtà ancora un “adolescente” dal punto di vista esistenziale – la cosa ha fra l’altro il non piccolo vantaggio di mostrare che la discussione sul preteso primato della catechesi degli adulti su quella dei piccoli o viceversa è un falso problema.

La ricerca ci ricorda che non è negli anni immediatamente seguenti l’Iniziazione cristiana (Comunione e Cresima) che si deve verificare se l’itinerario abbia portato frutto e quale, ma è piuttosto nel momento in cui i giovani, superata la crisi adolescenziale, si affacciano al mondo adulto. Il dato forse più interessante dell’indagine è che i giovani sembrano riscoprire la fede intorno ai 25 anni.

Interessantissime in proposito sono le osservazioni relative al fatto che quei giovani che intorno ai 25 anni riscoprono la questione della fede lo fanno facendo ricorso alla “grammatica della fede” conosciuta nel corso dell’Iniziazione cristiana. I commentatori nei testi seguenti enunciano la necessità che i giovani sembrano avere, una volta cresciuti, di essere aiutati ad elaborare una “sintassi” a partire dalla “grammatica” conosciuta da bambini.

c/ Dalla ricerca appare evidente che l’Iniziazione cristiana di bambini e ragazzi ha una sua grande rilevanza nella formazione, pur dovendo essere comunque ridisegnata, mentre ciò che manca radicalmente nella Chiesa italiana è una proposta significativa di accompagnamento dei giovani. I giovani non si allontanano dalle comunità cristiane a motivo di una deficienza dell’Iniziazione cristiana, bensì a motivo della crisi adolescenziale che attraversano e a motivo della pochezza di proposte relative alla loro età. Ciò che continua a mancare è, fra l’altro, un rapporto fra l’annunzio della fede e la vita dei giovani, poiché la loro esistenza si svolge ormai prevalentemente nel contesto delle provocazioni e della ricchezza della scuola prima e dell’università poi e non più in seno alla famiglia. E dinanzi alla scuola e all’università la catechesi dei giovani e dei ragazzi, fino ad ora, non è in grado di offrire un contributo e tragicamente tace.

d/ La ricerca è comunque cieca dinanzi al fatto evidente che i ragazzi si allontanano dalle parrocchie in molte città italiane prima di fare la cresima e non dopo averla fatta. Ed è cieca dinanzi al fatto che, comunque, la loro lontananza dall’eucarestia non inizia, come si ripete a torto, dopo la celebrazione come se “la prima comunione o la cresima fossero le feste del ‘ultima comunione’”, bensì l’assenza dei bambini e dei loro genitori dall’eucarestia domenicale inizia il 1° giugno del primo anno delle comunioni e prosegue fino al 1° ottobre seguente, regolata dal ritmo scuola-vacanze, tranne nelle parrocchie dove l’oratorio estivo ed i campi estivi pongono al centro l’eucarestia domenicale liberando finalmente l’Iniziazione cristiana, attraverso l’inclusione dell’estate, dal suo parallelismo con la scuola.

e/ La ricerca sottolinea l’esigenza manifestata dai giovani di figure di preti e di educatori significative e non scialbe, capaci di rapporti personali liberi e cariche di passione per la grandezza della fede. Anche questo appare in contro-tendenza rispetto ad analisi similari che hanno sottolineato prevalentemente  la questione del laicato e della formazione degli animatori dei giovani. La ricerca sembra dire che i giovani sono interessati non ad animatori, ma all’incontro-scontro con una figura paterna.  

f/ La ricerca - anche se taluni commenti sembrano non accorgersene - evidenzia che la catechesi odierna è lontana ormai da qualsiasi approfondimento e chiarificazione intellettuale, al punto cheanni e anni di  catechesi e di Insegnamento della religione cattolica nelle scuole non chiariscono nemmeno le idee fondamentali, l’ABC del cristianesimo. Il distacco dalla fede, in uno dei percorsi tipici individuati, viene definito proprio “di tipo intellettuale”. Dalla ricerca emerge chiaramente che uno dei grandi problemi odierni dell’Iniziazione cristiana è la sua incapacità a proporre una sintesi su cosa sia la fede e la vita cristiana. Infatti sia i ragazzi che si riavvicinano poi alla fede sia quelli che ne restano lontani nonostante i 4 anni spesi per l’Iniziazione cristiana ed i 13 per l’Insegnamento della religione cattolica nelle scuole, a dire degli intervistatori, hanno del cristianesimo solo la percezione che esso consista in un “volersi bene”.

g/ La ricerca sottolinea che i giovani italiani non appaiono lontani dalla fede, come altre ricerche recenti pretendevano di aver evidenziato, ma hanno nella mente e nel cuore la fede  ed un generico riferimento a Dio, anche se basato solo su “valori”, su “valori di bontà”, di “attenzione all’altro”, sull’importanza del “volersi bene” gli uni gli altri, su di una generica “speranza” per il futuro.

h/ La ricerca evidenzia con grande intelligenza quanto grande sia la richiesta giovanile di “chiesa”, richiesta che appare evidente anche dalla critica aspra alla Chiesa tutta, quando questa sembra non rispondere alle attese. È una Chiesa della quale non si decreta la scomparsa, non si esige che scompaia nell’ombra, ma anzi è una Chiesa dalla quale si pretende molto. Ci si aspetta, ad esempio, che la figura del sacerdote sia significativa, quella figura che si sa essere a disposizione per eccellenza. Non per niente – aggiungiamo noi – la tipica terminologia utilizzata quando i giovani, divenuti genitori, si ripresentano in chiesa è: “Mi sono riavvicinato alla Chiesa”.

1/ I giovani under 30 e il rapporto con la religione: «Un Dio a modo mio». La grande indagine dell’Istituto Toniolo sui giovani e la religione: il cristianesimo per gli under trenta è più un’etica, un «volersi bene» che una religione tradizionale, di Paolo Foschini

Riprendiamo dal Corriere della sera del 14/2/2016 un articolo di Paolo Foschini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2016)

MILANO «Ci credo perché spero che ci sia». «E che alla fine metterà tutto a posto». «Ci credo perché Dio è la risposta». «Io ci credevo, poi non ci ho più creduto, ma ora forse ci credo di nuovo». Naturalmente non è facile, se vuoi farlo sul serio, riassumere la ricerca di un senso della vita in una ricerca sociologica. Figurarsi in un sondaggio. Eppure eccoli, i credenti under 30. Quelli per i quali il «cristianesimo» è più un volersi bene che una religione, ma proprio per questo piace. Gli stessi per cui il «cattolicesimo» invece è un’istituzione e stop, pure un po’ noiosa, mentre «cattolico» è sinonimo di chi non salta una messa e buonanotte: alla larga, dicono. Ma poi dicono anche un’altra cosa. E cioè che però, nonostante tutto, anche loro, come miliardi di esseri umani da sempre, alla fine «ci credono». In Dio, in una speranza, in qualcosa. Fosse anche solo (solo?) un «Dio a modo mio». Appunto.

L’indagine

È questo il titolo del volume che a cura di Rita Bighi e Paola Bignardi raccoglie i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Toniolo, quello che fondò e tuttora governa l’Università Cattolica, su Giovani e fede in Italia: che poi è anche il sottotitolo del lavoro. La pubblicazione (editrice Vita e pensiero) viene presentata oggi a Milano e costituisce un approfondimento del più vasto «Rapporto giovani» sostenuto da Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, partito nel 2013 con novemila interviste sulle aspettative dei 18-30enni e via via proseguito con altre analisi su cose tipo il lavoro, le istituzioni, la felicità. Questa volta l’indagine è basata su colloqui anche piuttosto lunghi. Con 23 intervistatori per 150 intervistati, tutti battezzati, presi tanto in paesini minuscoli quanto in grandi città da un capo all’altro d’Italia e divisi in due categorie di età, 19-21 e 27-29 anni.

La fede su misura

Ne è venuto fuori un ritratto fatto di storie più che di numeri, ma con alcune costanti. L’avvicinamento alla religione per tradizione familiare, il catechismo vissuto soprattutto come un elenco di comandamenti, la prima comunione fatta perché si doveva e poi la fuga dopo la cresima («non ne potevo più»), a dispetto del «bel ricordo» dell’oratorio. Finché più avanti, sui 25 anni, a volte ritornano. Magari perché capita un fatto doloroso, o l’incontro con un prete giusto. Così come un prete sbagliato poteva averli fatti allontanare.

Quel che è cambiato, rispetto agli anni del catechismo, è che oggi Dio per loro è un’altra cosa: «Credo nel mio Dio ma non nel loro», dicono. Anche quando a messa ci vanno. Perché vivono la faccenda non come religione ma come sistema di valori. Un’etica. Fatta di «amore, rispetto, eguaglianza». Altra cosa dalla istituzione «Chiesa», che associano a «clero corrotto», «esteriorità», «regole». Per questo, al contrario, son praticamente zero quelli a cui non piace papa Francesco. E se potrebbe apparire facile liquidare come «comoda» l’idea di questo che una definizione ormai non recente qualifica come un Dio-fai-da-te, la ricerca sottolinea invece l’importanza che sia proprio la Chiesa, oggi, a dover rinnovare il suo linguaggio: che «non passa per un più abile uso dei media — scrivono le curatrici — ma per una maggiore coerenza tra dire e fare».

La risposta

Forse la cosa più bella — quella che se bastasse dirla per crederci convertirebbe il mondo intero — è la risposta di uno degli intervistati alla domanda su cosa ci trova nel credere in Dio: «Ci trovo che Lui ti fa sentire amato, speciale, nonostante magari tu non sia il meglio o creda di non esserlo. Ci trovo che Lui non fa cose nuove, diciamo, ma fa nuove tutte le cose». Sarà anche Dio a modo mio, ma qualche teologo ha qualcosa da dire su un Tizio del genere?

Corriere della sera © RIPRODUZIONE RISERVATA

2/ Dio a modo mio, la fede fragile dei giovani italiani. «Non si tratta di una generazione incredula e senza Dio», spiega la curatrice Rita Bichi, «ma in ricerca, con scarsa conoscenza della dottrina, una pratica precaria e la fiducia in papa Francesco come una personalità in grado di rinnovare il messaggio e risollevare la Chiesa dagli scandali», di Antonio Sanfrancesco

Riprendiamo da Famiglia cristiana del 29/10/2015 un articolo di Antonio Sanfrancesco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2016)

All’inizio è decisiva la famiglia che orienta il percorso di fede attraverso la tradizionale iniziazione cristiana (Battesimo, Prima Comunione e Cresima). Tra i 14 e i 16 anni, subito dopo la Cresima, c’è un distacco che è quasi fisiologico e riguarda la stragrande maggioranza. Intorno ai 25 c’è un possibile ripensamento. L’idea di Dio? Personalizzata, fai da te, di proprietà del singolo. La fede deve incidere sulla vita concreta e sui rapporti con il prossimo altrimenti non ha senso. Inoltre, non si conosce bene la dottrina come, ad esempio, la differenza tra “Cristianesimo” e “Cattolicesimo”. Il primo è considerato sinonimo di bontà, vicinanza agli altri, amore per il prossimo e assume una valenza sociale, mentre il secondo è percepito come sinonimo di “istituzione”. I cattolici invece sono percepiti come “bacchettoni”Papa Francesco, infine, è considerato decisivo per rinnovare il messaggio e visto come una sorta di “salvatore” della religiosità e della Chiesa dopo gli scandali recenti. 

Ecco, in sintesi, la fede dei giovani italiani, i cosiddetti Millennials, che secondo gli ultimi studi del Censis hanno fra i 18 e i 34 anni, lavorano e vivono per conto proprio ma arrivano a fine mese solo grazie all'aiuto regolare dei genitori. La fotografia è stata scattata da un’indagine accurata condotta dall’Istituto Giuseppe Toniolo, ente dell’Università Cattolica, che ha intervistato in due fasi centocinquanta giovani, ragazze e ragazzi tra i diciannove e i ventinove anni, tutti battezzati, residenti in piccole e grandi città del Nord, Centro e Sud Italia, con diverso titolo di studio. Cinquanta tra coloro che si sono dichiarati credenti nella prima fase sono stati di nuovo intervistati e hanno raccontato la loro esperienza di fede e il loro vissuto religioso. Ne è uscito uno spaccato interessante raccolto nel volume Dio a modo mio – Giovani e fede in Italia (pp. 224), Vita e Pensiero.

I PERCORSI DI FEDE DEI GIOVANI: DA QUELLO STANDARD AI CATTOLICI CONVINTI

La ricerca, curata da Rita Bichi, professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Paola Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica, mette in evidenza l’esistenza di un percorso di fede largamente maggioritario e che viene definito standard. I giovani che appartengono a questo segmento si definiscono cattolici in ricerca. Poi sono emersi altri quattro profili che si discostano da quello standard. Il primo riguarda “atei e non credenti” («che non sono molti e sono divisi tra loro», precisa Bichi) ed è caratterizzato da un distacco traumatico e da un riavvicinamento impossibile. Il secondo riguarda i cosiddetti “critici in ricerca e agnostici” dove la pratica è assente, il distacco è stato di tipo intellettuale, il riavvicinamento possibile. Il terzo ancora su “atei e non credenti” dove il riavvicinamento non è ricercato. Al quarto profilo appartengono i “cattolici convinti” dove i distacchi sono assenti e irrilevanti, i riavvicinamenti già compiuti e non problematici. Come nota la ricercatrice Cristina Pasqualini «i cattolici convinti sono ormai una minoranza, rappresentano lo standard del passato e non più quello del presente».

NON È UNA GENERAZIONE INCREDULA

La ricerca smentisce diversi luoghi comuni sui giovani che ormai sono entrati a far parte della narrazione corrente. Anzitutto, dimostra che non è affatto possibile parlare di una generazione incredula o, peggio, senza Dio e senza valori: «La metafora della liquidità ha preso il sopravvento e tutto viene giudicato sotto questa lente spesso fuorviante», spiega Bichi. «La ricerca di Dio e della dimensione religiosa c’è anche oggi dentro i giovani anche se in forme diverse dal passato». 

Smentito anche il vecchio cliché “Gesù Cristo sì, Chiesa no”. «In realtà la situazione è più complessa», dice Bichi, «le questioni dottrinali non solo non riescono ad arrivare ai giovani come messaggio ma non fanno  emergere in primo piano neppure la figura di Gesù. Il linguaggio di chi comunica con loro dovrebbe cambiare  o avvicinarsi di più al mondo giovanile e questo a volte la Chiesa non riesce a farlo». 

Il ruolo della famiglia, infine, è fondamentale all’inizio e poi scompare almeno nel racconti dei ragazzi. «Essa è importante come agenzia che socializza la religione come tradizione: chiesa, messa, catechismo», dice Bichi. «Anche se al suo interno ci sono alcune figure come la madre e la nonna che sono particolarmente rilevanti nella prima formazione della fede dei giovani. Bisogna chiedersi chi socializzerà la religione nelle generazioni future». E questo meriterebbe una ricerca a parte. 

Che fede emerge da quest’indagine, dunque? «Una fede che c’è ma che ha bisogno di crescere», afferma la professore Bichi, «o meglio: che sarebbe necessario far crescere. Come un germoglio che fa fatica a fiorire»    

3/ Dio a modo mio. Conclusioni, di Paola Bignardi

Riprendiamo da Famiglia cristiana del 29/10/2015 le Conclusioni di Paola Bignardi al volume R. Bichi- P. Bignardi (a cura di), Dio a modo mio – Giovani e fede in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 2015, pp. 173-185. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2016)

Al termine di questo percorso, appare chiaro che il rapporto dei giovani con il mondo religioso e in particolare con quello del cattolicesimo istituzionale è problematico e non scontato. Ancor prima delle interviste raccolte in questa fase dell’indagine, la ricerca quantitativa condotta nel 2013 da parte dell’Istituto Toniolo ha registrato che i giovani che si dichiarano credenti nella religione cattolica sono il 55,9%. Si dichiara invece ateo il 15,2% della popolazione giovanile, agnostico il 7,8%, credente in un’entità superiore, ma senza fare riferimento a una divinità specifica, il 10%. Solo il 15,4% dei giovani dice di partecipare a un rito religioso ogni settimana. Non solo: anche tra coloro che si dichiarano cattolici, solo il 24,1% è un praticante settimanale. Ancora più inquietante questo dato se lo si confronta con l’indagine effettuata l’anno successivo. Alla stessa domanda: “Lei crede a qualche tipo di religione o credo filosofico?” la percentuale dei sì è scesa al 52,2%. Dunque, nel corso di un anno, il numero di coloro che si dicono cattolici si è ridotto di 3,7 punti[1]. Anche l’atteggiamento nei confronti della Chiesa è piuttosto critico. È stato chiesto ai giovani di dare un voto da 1 a 10 al loro grado di fiducia; il voto medio ottenuto è del 4,0 (4,2 per gli uomini, 3,8 per le donne)[2].

1. Una generazione al confine tra due epoche

I giovani di oggi, dal punto di vista religioso, sono al confine tra due generazioni: quella di un passato che non c’è più e di un futuro che non c’è ancora. Sono una generazione peculiare, che segna una discontinuità forte rispetto al passato. Sono una “generazione di mezzo”, potremmo anche definirla “interstiziale”, collocati storicamente tra un modello culturale tipico del passato, tradizionale-istituzionale, a cui sono stati, dolenti o nolenti, socializzati nella maggioranza dei casi, e un modello culturale presente, emergente e de-istituzionalizzato, che si sta diffondendo proprio in questi anni. Quest’ultimo, concedendo maggiore libertà all’individuo e rifiutando di esercitare la normatività tipica del modello tradizionale, apre la strada tra i giovani a nuove modalità di vivere la fede, più personali, meno “convenzionali”, seppur “autentiche e consapevoli”[3]. Il loro è il travaglio di chi soffre il venir meno di un modello percepito come inadeguato e insoddisfacente e per questo respinto, e vorrebbe trovare un modo nuovo di vivere il rapporto con Dio, la ricerca di un’autenticità di vita, la strada verso la speranza e la felicità. Conoscono le forme della religiosità del passato, istituzionali, tradizionali, definite: le hanno ricevute dal catechismo, dall’oratorio, in famiglia, dai nonni. Ma non sanno come quelle possano rispondere alle domande che essi portano dentro di sé, esigenti e inedite; le tracce di un modo diverso di vivere la fede si fanno strada dentro di loro a fatica. Percorso difficile e rischioso, anche perché spesso vissuto in solitudine, talvolta in compagnia di adulti che vorrebbero continuare ad essere i maestri per un tempo che non c’è più. Così molti di loro hanno imparato a compiere una selezione tra gli elementi appresi, come fa notare Bressan nel suo contributo. La modalità di abitazione dell’esperienza cristiana, la forma della fede individuale, viene disegnata in modo del tutto singolare: i contenuti come pure le pratiche, i valori come pure le regole, tutto viene deciso dal singolo, che pesca dalla tradizione come da un serbatoio, prendendo ciò che gli è utile, lasciando ciò che gli appare inutile, lontano o addirittura estraneo[4] . Il legame con la comunità è troppo debole per inserirli e radicarli in maniera viva nella tradizione. Nascono anche da qui smarrimenti, distanze, e persino sensi di colpa: quelli di chi, convinto che la fede coincida con il modello da cui ha preso le distanze, finisce per scambiare il proprio travaglio e la propria ricerca con l’incredulità.

2. Quando il cielo si rannuvola

Il cielo si rannuvola, paradossalmente, al termine dell’iniziazione cristiana, che coincide con la crisi adolescenziale.  Gli intervistati raccontano la loro storia religiosa a partire da quella che essi percepiscono come l’origine della propria formazione: il catechismo in parrocchia, gli insegnamenti dei genitori e la richiesta di partecipare alla Messa domenicale o al catechismo. E ricordano:

Ovviamente quando ero piccola e mi portavano a Messa non ero felicissima... insomma di andare a Messa... però piano piano da un lato è una cosa che ho interiorizzato... anche quelle volte che magari dico... mi succedono magari delle cose che ti fanno un po’ cadere così che sembra che in quel momento Dio non c’è... Dio non ti sta pensando... poi però sono quelle cose passeggere che ti fanno tornare la forza, insomma, più forte di prima a riniziare come se fosse... come se nulla fosse successo... quindi è una cosa che è partita da piccola dalla famiglia. (51 F 19-21 CGC)

Così si è formata in questi giovani l’idea che essi hanno dell’essere cristiani. Dice un giovane: “Essere cristiano è credere in Dio, rispettare alcune regole culturali” (52 F 19-21 CGC). E un altro:

Essere cristiano vuol dire avere un certo tipo di valori, cioè amare il prossimo come te stesso, non fare agli altri ciò che non vorresti facessero a te e altri tipi di valori, quindi cristiano è una persona di questo stampo ma anche aperta a tutti. A tutto il tipo di comunicazione verso gli altri e verso altre culture ecc.; quindi alla fine il cristiano secondo me è una persona autentica che è piena di questi valori. (53 F 19-21 CGC)

Fa notare Montanari che questi giovani esprimono

Concetti non solo riduttivi, ma talvolta anche distorti di fede. Alcuni infatti confondono la fede con l’etica che il cristianesimo propone: “La prima cosa che fa la religione è darti un’etica. Io forse non sono cristiano ma ho un’etica tendenzialmente cristiana” (80 M 27-29 NGC). E l’etica cristiana viene frettolosamente identificata con i dieci Comandamenti. Chi invece è più addentro all’esperienza ecclesiale preferisce parlare di valori: “Ciascun cristiano è chiamato a vivere una vita coerente con i valori cristiani, quindi, a cercare il più possibile di essere una persona che crea unità e non discordia per esempio” (114 F 27-29 NGC)[5].

Pochi giovani hanno del periodo della loro iniziazione cristiana un ricordo gioioso e gradevole, salvo quelli che in quel percorso hanno incontrato figure significative di educatori. La formazione ricevuta da bambini ha generato in loro un’idea di vita cristiana piena di obblighi e divieti, di impegni che hanno poco a vedere con la voglia di vivere e con le domande tipiche della loro età.

Eppure i loro pensieri spesso sono ricchi di riferimenti a Dio, del senso della sua presenza e della necessità di vivere in una dimensione di amore. Questi giovani hanno acquisito un’idea piuttosto esteriore di vita cristiana, con poca anima e soprattutto priva della percezione che l’essere cristiani ha a che fare con Gesù Cristo e con il Vangelo: alla domanda su “Che cosa significa per te essere cristiano?”, pochi li citano; ne parlano solo se esplicitamente sollecitati in tal senso. Una sola giovane dice che tra le immagini presentate dall’intervistatrice manca la Croce.

Anche la conoscenza dei contenuti della fede è, oltre che povera, sproporzionata rispetto al tempo passato al catechismo e agli anni di formazione; anche coloro che dichiarano di aver frequentato la scuola cattolica mostrano di possedere conoscenze e informazioni approssimative del credere. Così, il cielo comincia a rannuvolarsi quando ci si convince di non essere più credenti, perché il proprio modo di credere si discosta da quello istituzionale imparato al catechismo, quando si percepisce il linguaggio della Chiesa come obsoleto ed estraneo, quando le risposte che si ricevono alle proprie domande non sono convincenti. Forse nessun educatore ha insegnato a questi giovani che Dio non è a portata di mano; l’incontro con Lui, l’apertura alla Sua azione, l’accostarsi al Suo mistero è un’esperienza complessa, che mette in gioco tutta l’esistenza di una persona.

L’atteggiamento dei giovani verso Dio non è in genere ostile o negativo, ma rispecchia semplicemente la naturale fatica della ricerca di Lui. Forse nessuno ha detto loro che Dio non è un’evidenza, che – come a Mosè – Dio si rivela solo di spalle e che il rapporto con Lui è dentro gli alti e bassi della vita. I giovani hanno una visione della vita cristiana rigida, definitiva e senza tempo, dentro la quale non trovano posto le domande personali o la sensibilità che soggettivamente vorrebbe reinterpretare il senso della fede. Da questo modo di credere essi prendono le distanze, abitando lo spazio dell’esperienza cristiana in modo soggettivo e individualistico.

3. Il bello della fede

La quasi totalità dei giovani intervistati mostra un atteggiamento positivo nei confronti dell’esperienza di fede. Anche chi dichiara di non essere credente, afferma che credere dà speranza, consolazione, aiuto, amore. Credere permette di vivere riconciliati con sé e con tutto. Dunque, se sotto la coltre di superficialità e di indifferenza si riesce a scavare, emerge una sensibilità umana aperta alla trascendenza, in ricerca di Dio. Una ricerca non esplicita, ma nascosta nelle domande di senso, di pienezza, di intensa umanità.

Una Chiesa che vuole educare alla fede deve avere uno sguardo profondo per scrutare l’animo giovanile dietro un’apparenza che nasconde tesori di interiorità e un’inedita attesa di Dio. Ma per questo occorre convertirsi ad un atteggiamento capace di fiducia nelle nuove generazioni, e ad un modello pastorale in cui l’ascolto e l’attenzione all’interlocutore hanno un posto significativo. Le domande nella coscienza dei giovani sono presenti, sono numerose e a volte inquietanti; occorre saperle far emergere, essere disposti a partire da esse, a interagire sulle questioni che pongono.

Ad un modello pastorale tutto orientato a comunicare una visione della vita o a proporre una serie di impegni andrebbe oggi sostituito un modello impostato sul dialogo: un dialogo vero, che è scambio, ascolto profondo, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento a collocare le ragioni della fede dentro percorsi personali, originali e irripetibili. Del resto questa è la strategia usata da Gesù: i Vangeli ci narrano di incontri intensamente umani in cui l’annuncio del Regno sa andare al ritmo del cuore, dei suoi interrogativi, e anche delle sue resistenze: “Se vuoi, puoi guarirmi”; “Tu chiedi da bere a me?, “Che cosa devo fare…?”. Le domande che covano dentro sono portate alla luce da parole che aprono nuovi orizzonti – “beati…” –, interrogano il mistero del Regno, che si svela a poco a poco. Niente di simile a una trasmissione impersonale, spesso fatta di parole astratte, datate, avulse dalla vita, uguali per tutti.

Quella dei linguaggi, nella comunicazione della fede, non è una questione di “traduzione”, ma di relazione, di empatia, di umanità autentica. Vi è una nostalgia di divino nelle espressioni che i giovani usano per dire il bello del credere che assume toni commoventi, nell’intuizione della realtà di un Dio che non lascia mai soli. Bastino queste due testimonianze:

Nel credere in Dio c’è di bello che tu sai che c’è sempre Lui e ci sarà sempre. Cioè il fatto che il credere implica una certezza e la certezza è che alla fine, vada come vada, in qualunque cosa c’è sempre, quindi alla fine credere in Dio è la certezza di non essere mai soli. (35 M 19-21 SPC)

Quando io penso sempre a quella suor X [n.d.a. si riferisce ad una suora francescana incontrata ad Assisi], lei si vede proprio, cioè ho visto che è una persona diversa, cioè è una persona diversa da me, cioè la guardi in volto la guardi in faccia e già vedi gioia, e quando parla del Signore gli si illuminano gli occhi è una persona diversa dentro e diversa fuori, quindi c’è di bello il fatto che… trasmetti. Vedi Madre Teresa di Calcutta: ti trasmette. Quindi il bello è il fatto che tu sei coinvolto, vivo e rendi vivi gli altri e questa è una cosa bella […]. (55 F 19-21 CGC)

Dio è una presenza, non abbandona mai, non lascia nella solitudine (quante volte i giovani lasciano intravvedere la loro solitudine!). Per evangelizzare questa generazione occorre diventare segni di una presenza accogliente, misericordiosa e fedele, immagine del Dio che i giovani cercano e che in Gesù ha rivelato il suo volto di Padre buono. Le situazioni limite in cui essi hanno sperimentato il dolore, soprattutto la malattia o la perdita di una persona cara, sono porte strette che aprono anch’esse sull’infinito.

4. Dove passa il futuro della fede cristiana?

Siamo abituati a dire che i giovani sono il nostro futuro, ed è in parte vero; ma mai, come nel caso della fede, il futuro dipende dal passato e dal presente, cioè dal modo con cui gli adulti vivono la loro esperienza cristiana e da come le comunità interpretano il loro compito di evangelizzazione. Educare i giovani alla fede significa consegnare loro la fede così come noi adulti l’abbiamo vissuta? O piuttosto mettere nel loro cuore l’essenziale, insieme ad una passione che dia il desiderio e la volontà di reinterpretarlo per il loro tempo, nel loro tempo?

Nel momento di aprire il Concilio, Papa Roncalli fece un discorso le cui indicazioni non sono invecchiate (e nemmeno pienamente realizzate!) e su cui sarebbe utile tornare a riflettere. Ebbe a dire Papa Giovanni che:

Lo scopo principale di questo Concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei padri e dei teologi antichi e moderni quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito. Per questo non occorreva un Concilio. [...] È necessario che questa dottrina certa e immutabile [...] sia approfondita e presentata in modo che essa risponda alle esigenze del nostro tempo[6].

I giovani, espressione emblematica di un tempo che cambia, provocano la comunità cristiana a meditare le espressioni profetiche di Giovanni XXIII e dicono che quella indicata dal Papa del Concilio è l’unica strada per la Chiesa di intercettare la loro sensibilità religiosa. I loro percorsi di fede, tortuosi, distratti, non lineari, ma aperti ad una ricerca di autenticità possono costituire un laboratorio per la Chiesa tutta e per il suo compito evangelizzatore. Vi è un intreccio molto stretto tra le generazioni: i più giovani imparano dalla testimonianza degli adulti che cosa significhi credere; ma il loro apprendimento non è passivo. Mai come oggi esso è critico, attento a discernere, ad accogliere ma anche a rifiutare. In questo i giovani, mostrandoci le inautenticità dei nostri percorsi, ci costringono ad aprirci alla novità e al futuro. Resistere a questa esigenza avrà come esito non solo lo smarrimento delle nuove generazioni, ma l’inaridimento della generazione adulta. Che resterà pateticamente superata, gente di altri tempi, testimoni di un cristianesimo che non sa cercare e intuire i segni del tempo e pertanto non riesce a stare dentro la vita.

4.1. Ritrovare la grammatica dell’evangelizzazione

L’educazione alla fede dei giovani ha bisogno più che mai di evangelizzazione, di cui sarà bene ritrovare la grammatica; un’evangelizzazione che non sta agli inizi del percorso, ma che lo ispira tutto, in maniera permanente. Alla comunità cristiana si chiede di riscoprire lo stile evangelizzatore del Signore Gesù[7] , che ha aperto con ciascuna delle persone che ha incontrato e chiamato dialoghi diversi, originali, personali: la donna di Samaria, Nicodemo, i malati, i ciechi, il centurione e tanti altri… ciascuno ha incontrato il Signore a modo proprio, non è stato costretto a conformarsi a un cliché predefinito: ha incominciato a seguire il Signore attratto dalla sua persona e nell’esperienza dello stare con Lui ha compreso (forse) in tempi diversi il mistero del Regno.

Anzi, i più non lo hanno compreso, nemmeno alla fine, nemmeno ai piedi della Croce; eppure sono rimasti discepoli! Il Risorto li ha cercati uno ad uno, per rivelare loro che continuavano ad esserlo, e che i rinnegamenti e le lontananze non avevano interrotto la corrente dell’amore che li aveva legati a Lui. La prima esigenza di cui gli educatori dovrebbero tenere conto è quella delle domande dei giovani, da ascoltare, accogliere, intuire, far emergere, in esperienze di dialogo di cui il Vangelo è “manuale” insuperato. Così, di domanda in domanda, di dialogo in dialogo, i rapporti che l’evangelizzazione instaura permettono di individuare la strada che conduce all’Incontro fondamentale, strada che non ha imitazioni né duplicati, ma solo tracciati originali, personalissimi, inediti. Dunque il futuro della fede passa dalla conversione delle comunità cristiane, dalla loro capacità di tenere lo sguardo fisso sull’essenziale, cioè il Signore Gesù e la sua Pasqua, e al tempo stesso vivere con libertà in una relazione vera con le nuove generazioni.

4.2. Un’educazione generatrice di futuro

Se ascolta ciò che i giovani hanno detto in questi loro racconti di vita, la Pastorale delle comunità cristiane dovrebbe interrogarsi e rivedere molte cose, in primo luogo l’iniziazione cristiana, perché i suoi percorsi aprano al futuro della fede: radicati in una tradizione che non teme di rinnovarsi di continuo nell’incontro con le domande perenni del cuore umano, ma al tempo stesso capace di rigenerarsi nelle forme che tali domande assumono. La prima reazione, dopo la lettura delle interviste, potrebbe essere quella di dichiarare fallimentare uno sforzo su cui la comunità cristiana ha investito energie così numerose e qualificate. Ma sarebbe troppo sbrigativo.

Come fa notare nel suo contributo Luca Bressan,

Per tutti gli intervistati quel momento è un dato di fatto, un punto di partenza senza il quale mancherebbe un tassello fondamentale della loro identità. Non importa tanto il giudizio che di quel momento viene dato (sovente negativo; sarebbe tuttavia da confrontare con il giudizio che viene dato di altre esperienze vissute in quella fase della vita); piuttosto è interessante notare che tutti si rifanno a quel momento per ricercare i contenuti che permettono loro di costruire la loro idea attuale di fede. Quel momento è l’avvio di una grammatica religiosa senza la quale oggi non riuscirebbero ad articolare il loro discorso di fede, fosse pure negativo[8].

Ma la grammatica da sola non è sufficiente e il suo apprendimento non può ritenersi la conclusione di un cammino. Essa costituisce lo strumento di base con cui ciascuno può costruire il suo “discorso”, solo che, in un’età più matura e più adeguata, gli venga data la possibilità di apprendere anche la sintassi che connette soprattutto la regola con il suo significato e insegna quel lessico personale che può dar vita ad un discorso articolato, ricco, personale. Il ripensamento dell’iniziazione cristiana coinvolge la globalità dell’impostazione pastorale della comunità, oltre a toccare altri elementi imprescindibili, quali la dimensione educativa della proposta, la qualità dei legami con la comunità, l’ispirazione evangelizzatrice del percorso. I giovani oggi hanno grande bisogno di aderire a ciò in cui credono e che scelgono. L’istanza della personalizzazione della fede, che si può ritenere semplicisticamente una forma di relativismo, in effetti può costituire una grande risorsa educativa, se consente alle persone di ricondurre a sé e alla propria coscienza le ragioni del proprio credere e di elaborarle in maniera personale. Si tratta di percorsi che conoscono anche dei rischi, ma sono quelli legati alla libertà: una fede come discepolato non può che essere incontro personale e percorso originale, che la tradizione della Chiesa aiuta certo a trovare, a riconoscere, a configurare, ma senza preordinare ciò che può solo inscriversi dentro una logica di relazione e di amore. L’educazione cristiana dovrebbe avere tra i suoi obiettivi – da difendere gelosamente e da perseguire con determinazione – quello di sostenere percorsi che si svolgano nella libertà dello Spirito e non nella omologazione di stili, parole, comportamenti, per generare cristiani creativi, giovani di oggi, testimoni convinti. Il futuro del cristianesimo passa anche da una fede capace di interpretare l’esistenza. Vi è bisogno di educatori che sappiano mostrare come la fede, intrecciandosi con la vita quotidiana, dia compimento ai desideri più profondi della vita, le apra orizzonti dai significati impensati, sia alleata della domanda di felicità, di pienezza, di senso che vi è nella profondità di ciascuno. Fede e gioia di vivere si intrecciano in un legame che dà risalto alle dimensioni più vere dell’umanità. Eppure ancora oggi anche i giovani sono educati a pensare la vita cristiana secondo le categorie dell’impegno, della rinuncia e del sacrificio, senza essere condotti a scoprire che questi hanno senso solo se sono non un fine ma una strada di vita!

4.3. Comunità capaci di relazioni e di appartenenza

Colpisce la distanza dei giovani intervistati dalla Chiesa. La loro posizione non è in genere di opposizione, ma di distacco. Non sono i sostenitori dell’alternativa Cristo sì, Chiesa no, come i loro coetanei di quaranta-cinquanta anni fa; semplicemente la Chiesa per loro è un’estranea ed essi le sono estranei. A parte alcuni intervistati, – una minoranza –, che conservano una relazione con la Chiesa attraverso la liturgia domenicale o qualche iniziativa pastorale, la maggioranza non si sente coinvolta nella vita ecclesiale perché non avverte nessun legame con la comunità cristiana. L’assenza di relazioni la rende anonima e poco attraente. Racconta una ragazza di aver incontrato durante un soggiorno di studio all’estero una comunità protestante, da cui è rimasta colpita:

Ci sono andata una volta e, dico la verità, mi è sembrato un ambiente molto accogliente […]. Nella Messa c’era una specie di stop, ci sono dieci minuti di conversazione in cui ognuno può stringere la mano e salutare quello che ha a fianco, […] noi diciamo le preghiere dopo l’omelia, diciamo quelle preghiere che dovrebbero venire dall’assemblea, che in realtà però sono scritte sul foglietto e sì, sono quelle generali, però alla fine non rimangono dentro. Invece la cosa bella che ho notato è che c’era questo pastore che chiedeva alle persone e diceva: “Per chi vogliamo pregare?”. E allora c’era magari una mamma che si alzava piangendo e diceva: “Mio figlio ha sbagliato e adesso è in prigione, pregate, per favore preghiamo per lui perché lui ha bisogno di qualcuno che lo illumini”. Quindi anche un fatto di gente che veramente si apriva. La commozione magari di un nonnetto che diceva: “Io prego per mia nipote che ha appena finito la scuola” quindi nella semplicità, anche le richieste che venivano dalla vita quotidiana, che magari nella Chiesa italiana noi ci vergogniamo a dirle queste cose […], la mia preghiera, anche se insomma diversa dalla loro, nel momento di riflessione, di silenzio, la mia preghiera è stata abbastanza intensa, non me lo aspettavo però, insomma, è stata una sorpresa anche per me. […] Tornata in Italia, un po’ perché d’estate fa caldo, un po’ perché non mi sentivo motivata, proprio perché non volevo tornare in quell’ambiente, dico la verità, non ho praticato più… perché proprio non sentivo questo bisogno di andare tra gente in cui non mi riconoscevo. (54 F 19-21 CGC)

L’estraneità sembra passare dall’assenza di relazioni, per diventare spirituale, culturale, esistenziale. È anche così che si finisce con il credere a modo proprio, caricatura di una fede personale. Una volta persi i contatti umani ed esistenziali con la comunità cristiana, si perde anche quell’affinità ideale, quella familiarità di linguaggio, che mantiene le persone in dialogo con una comunità. La Chiesa, se non vuole perdere i giovani, deve riscoprire il valore delle relazioni che fanno sentire importanti, che generano interesse per le esperienze perché passano attraverso le persone, i legami, la valorizzazione di ciascuno. La comunità che accoglie ciascuno per ciò che è, a poco a poco genera appartenenza, e l’appartenenza sostiene l’impegno di capire, genera identità, motiva al coinvolgimento.

Nel contesto di oggi, difficilmente può avere efficacia una prassi che chiede prima l’adesione della mente[9], e poi – caso mai – quella del cuore e della responsabilità. È straordinario il compito della Chiesa, se vuole veramente evangelizzare le nuove generazioni: la “buona notizia” va offerta ai giovani non solo con le parole, ma con uno stile di vita che ne sia specchio, nella misericordia e nell’accoglienza, dentro un’esperienza comunitaria reale, fatta di relazioni vere. Comunità senza relazioni non possono generare alla fede né possono alimentare quella di quanti hanno aderito ad essa. Dunque il rinnovamento umano e relazionale delle comunità cristiane pare costituire una delle chiavi per una ripresa di dialogo tra la Chiesa e le nuove generazioni.

4.4. Quali luoghi per la formazione cristiana?

I giovani intervistati danno l’impressione di non aver avuto veri compagni di viaggio per la loro formazione cristiana; le guide del percorso di iniziazione sono ricordate come presenze anonime, quando sono ricordate. Chi ha lasciato un segno è l’educatore che ha sviluppato una presenza viva, dentro un dialogo personale, la cui vicinanza e partecipazione alla vita quotidiana si sono intrecciate al percorso della fede. Nella scelta più difficile e impegnativa della vita i giovani sono sostanzialmente soli, tanto più che, quando la fede diventa esperienza personale, con i suoi interrogativi e le sue scelte, la quasi totalità di loro non ha più nessun contatto con gli ambienti formativi della comunità cristiana. Solo educatori appassionati, presenti nei luoghi della vita, potranno sostenere una vera ricerca e far scoprire la bellezza e la logica del discepolato. Si tratta allora, per le comunità cristiane, di allargare gli orizzonti: al di là dei propri confini, al di là delle abitudini e dei percorsi istituzionalizzati.

Occorre una grande chiamata alla responsabilità educativa e all’accompagnamento a vivere la dimensione religiosa della vita: insegnanti, catechisti, genitori, suore, semplici laici e sacerdoti. Dopo la stagione dei catechisti, questa potrebbe essere la stagione degli educatori dentro la vita ordinaria. I giovani in genere hanno ricevuto la loro prima formazione cristiana in famiglia: non che la famiglia abbia sempre trasmesso gli elementi del credere, ma ha indirizzato al catechismo, ha chiesto ai figli di frequentare la Messa domenicale, li ha avviati in qualche caso a vivere esperienze di formazione in contesti associativi o di gruppo parrocchiale. Quando l’esempio della pratica di vita cristiana dei genitori è stato presente, la formazione ne è stata rafforzata.

In prospettiva, non sarà facile che la funzione di trasmissione della fede attraverso la famiglia possa continuare: i genitori di oggi sono meno sensibili di quelli dei giovani intervistati i quali, a loro volta, avranno meno motivazione e meno ragioni per indirizzare i figli verso la fede. Allora? Forse è tempo di pensare con decisione che vi possa e debba essere un’educazione cristiana che avviene in età e luoghi diversi dagli attuali. Se i percorsi di fede dovranno sempre più tener conto delle domande della vita, se i punti di partenza dovranno diventare sempre più articolati, flessibili, numerosi, allora occorrerà pensare alla possibile funzione di educazione spirituale, interiore, anche in senso cristiano, che possa prendere le mosse dai contesti della formazione umana, culturale e professionale dei giovani, a cominciare magari dalla scuola e dall’università.

Non che la scuola e l’università debbano rinunciare alla laicità della loro proposta; ma se laicità è umanità, nella scuola e nell’università potranno aprirsi percorsi di ricerca esistenziale, di dialoghi possibili, di legami con figure di laici cristiani disposti a diventare quelle figure di riferimento che i giovani cercano, oggi con scarso successo. Vi sono dialoghi avviati tra docenti e studenti sui banchi di scuola che hanno avuto lungo seguito, nella vita comune. Si tratta di un’educazione che la comunità cristiana deve saper attivare, nella sua flessibilità e multiformità, attraverso percorsi propedeutici ad altri più strutturati, successivi ad una evangelizzazione da cui oggi non si può prescindere.

Anche per questa strada ritorna (irrisolta) la questione dei laici cristiani. Il laicato della prima metà del Novecento ha inventato strade nuove di testimonianza sui problemi e sulle urgenze del tempo, con intelligenza e iniziativa. La stessa iniziativa serve oggi, a fronte delle grandi questioni di questo tempo. Non sarà la comunità cristiana con la sua struttura pastorale ad affrontare il problema dell’educazione della fede dei giovani. Potrà esserlo solo la creatività e l’iniziativa dei laici cristiani e delle loro organizzazioni, ad assumersi responsabilità, a rinunciare ad attendere direttive, a esplorare strade nuove per lasciarsi coinvolgere in nuove passioni. Alla fede cristiana la responsabilità di non pretendere che tutto rientri dentro i suoi schemi organizzativi, ma l’intelligenza di assecondare tentativi ispirati dall’amore del Vangelo.

5. In ascolto dei giovani

Queste riflessioni ci hanno permesso di affacciarci sul mondo interiore dei giovani, mossi dal desiderio di ascoltare e di capire. È proprio vero che quella dei giovani di oggi è una generazione incredula[10]? È proprio vero che è una generazione uscita dal recinto[11]? O non è piuttosto una generazione che si trova fuori casa, perché della casa-comunità cristiana non ha sentito il profumo, non ha sperimentato il calore delle relazioni, la responsabilità di un coinvolgimento vero, l’attenzione di un ascolto interessato?. Di fronte ad una generazione giovanile indifferente alla Chiesa e alle sue proposte ma non alla fede e alla ricerca di Dio, occorre che la Chiesa dia un segnale forte di attenzione e di interesse; occorre che muova un passo significativo verso di essa. Non basta la Giornata Mondiale della Gioventù, che pure viene citata da diversi giovani come un momento importante di incontro con una proposta forte e coinvolgente, dentro un contesto di universalità cui essi aspirano. Occorre qualche altro segnale, più vicino alla generalità del mondo giovanile, più vicino a “casa”; un segnale che permetta ai giovani di incontrare una Chiesa che si fa maestra di umanità, per testimoniare che è capace di ascoltare. Ascoltare è sempre anche essere disposti a lasciarsi modificare: da una parola, una domanda, un’istanza che si accoglie dentro di sé. Ascoltare non per mostrare di avere subito la risposta pronta, ma per mettersi insieme in ricerca di una verità che nessuno ha a portata di mano e che deve vedere tutti insieme, umili, in ricerca. E allora: perché la Chiesa italiana non dà seguito al convegno ecclesiale di Firenze con un analogo convegno ecclesiale di giovani? Per mettersi in ascolto, per lasciar parlare i giovani, per lasciarsi provocare da loro, e – perché no? – per lasciarsi rinnovare dalla loro giovinezza. E che il vento forte dello Spirito soffi via le nubi che offuscano il cielo e che, coprendo il sole, rischiano di far credere che esso non esista!

4/ L’analfabetismo religioso dei giovani delle parrocchie, di Samuele Cecotti

Riprendiamo dal sito http://www.vitanuovatrieste.it/lanalfabetismo-religioso-dei-giovani-delle-parrocchie/ un articolo di Samuele Cecotti pubblicato il 15/3/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2016)

Novemila under 30, scelti secondo rigorosi criteri statistici, sono stati intervistati in un progetto curato dalle ricercatrici Rita Bichi e Paola Bignardi. I risultati sono poi confluiti nel volume “Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia” (Vita e Pensiero). Emerge un quadro che dire desolante è poco anche se non insospettato da chi abbia minimamente il polso della situazione.

Ciò che più impressiona è il semianalfabetismo religioso dei giovani cattolici universitari o già laureati, che hanno frequentato sei e più anni di catechismo e magari tuttora partecipano alla vita di realtà almeno nominalmente ecclesiali. Insomma il dato di questa ricerca che ci deve veramente interrogare è quello che riguarda i “nostri” giovani e li fotografa in uno stato che, spesso, si fatica persino a dire di cristianesimo, figuriamoci se si possa chiamare di sana e robusta fede cattolica.

Emerge dominante tra i giovani “cattolici” un’idea vaga e confusa di religione, un sincretismo inconsapevole, una ignoranza crassa dell’abc del Cristianesimo, una pratica alla vita sacramentale optional. Un guazzabuglio new age dove la Risurrezione si confonde con la reincarnazione, Gesù è una specie di Buddha palestinese, W il Papa ma se mi parla di morale allora quasi quasi meglio il Dalai Lama, che Dio esista anche ci credo ma della Santissima Trinità non mi sfiora neppure il pensiero e così continuando.
E sono i “nostri” giovani, quelli che hanno frequentato il catechismo, battezzati-comunicati-cresimati, che per tredici anni di scuola hanno seguito un’ora alla settimana di religione cattolica. Questo studio certifica, ce ne fosse ancora bisogno, il drammatico fallimento della catechesi e della pastorale degli ultimi trent’anni, se non quaranta.

Le chiese sono sempre più vuote e così le aule di catechismo ma non riusciamo a formare decentemente neppure quella piccola percentuale di giovani che passano ancora per le nostre cure educative. Ovviamente le felici eccezioni non mancano, eroici parroci, splendidi catechisti, insegnanti di religione per vocazione, ragazzi dottrinalmente preparati e motivati ma … la media statistica dice altro ed è da piangere!

Piangiamo pure ma chiediamoci il perché di tanto e tale disastro. Il cardinale Robert Sarah, lo scorso maggio, osservava, intervenendo al Pontificio istituto Giovanni Paolo II, il fallimento formativo del catechismo dei fanciulli così come impostato negli ultimi decenni nella più parte delle parrocchie italiane: “I bambini fanno solo disegni e non imparano niente”, così il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino.

E come dargli torto se poi i frutti sono quelli rilevati dallo studio di Bichi e Bignardi. Il buon vecchio catechismo di san Pio X che ha formato generazioni e, immagino, lo stesso cardinal Sarah bambino, dava ben più generosi frutti. Le nostre nonne, magari analfabete, sapevano benissimo che Gesù è vero uomo e vero Dio, che la Madonna è sempre vergine, che Iddio è Uno e Trino, quali sono i novissimi, le tre virtù teologali, le quattro cardinali, i dieci comandamenti, i sette sacramenti e le opere di misericordia corporale e spirituale. Poi sono arrivati i nuovi metodi pedagogici, i grandi modelli pastorali, buttato via il nozionismo e con esso anche le nozioni, tutto è dialogo, socializzazione, scambio e interazione … e abbiamo gli universitari “cattolici” che scambiano Buddha con Gesù!

Certo la società non aiuta, la crisi della famiglia nemmeno ma ciò spiega in parte, non giustifica il fallimento generalizzato e plateale dell’istruzione religiosa degli ultimi decenni. Forse per comprendere la crisi del catechismo si deve allargare un po’ l’orizzonte d’indagine e guardare alla realtà delle parrocchie e degli altri poli educativi ecclesiali e chiedersi: sono realtà animate dalla profonda consapevolezza di avere un tesoro divino da partecipare? C’è chiara la coscienza della Verità eterna ricevuta, l’unica Verità dalla cui luce ogni uomo deve essere illuminato? Insomma, chi insegna è previamente lui convinto che la Divina Rivelazione custodita e trasmessa dalla Chiesa è l’unica luce capace di illuminare e dar senso all’enigma umano?

Quando si ha la fortuna d’incontrare un prete, un catechista, un insegnante di religione con simile consapevolezza, coscienza, convinzione allora il Vangelo affascina, brilla di splendida luce, Cristo si mostra per quello che è: il più bello tra i figli dell’uomo e il Logos eterno, la Bellezza e la Verità sussistenti. E c’è il rischio di innamorarsene e di voler donare tutta la propria vita a Lui.

Ma quanto è difficile incontrare simili maestri nella fede, quanto difficile! Ricordo la noia infinita provata durante le ore di catechismo e la delusione negli anni del primo sbocciare della ragione speculativa in me per il vuoto culturale sperimentato negli ambienti “di Chiesa”, per un cristianesimo che mi appariva sempre più insipido, incapace di rispondere ai grandi interrogativi dell’anima umana. Ricordo che mille domande si affacciavano alla mia mente: domande su me, il cosmo, Dio, la storia e la Chiesa, l’escatologia, il senso delle cose, talmente tante che ora più neppure le ricordo tutte. Risposte in parrocchia? Buoni sentimenti a piene mani, qualche richiamo al sociale, gite e pizzate, prima delle Palme disegnare Gesù su qualche cartellone in groppa all’asinello e prima di Natale in fasce nella greppia. E così anch’io fui uno di quelli che appena terminato il catechismo non misi più piede in parrocchia.

E se la Provvidenza non mi avesse fatto incontrare un ottuagenario Monsignore d’altri tempi (lo definirei un colto e santo prete anni ’50) e quel miracolo intellettuale che è il tomismo chi lo sa dove sarei finito, in quale miraggio avrei cercato d’estinguere la mia sete di Verità. Di certo non in chiesa! Forse sarei finito a parlar di archetipi con Jung o sarei con Severino a dir che tutto è eterno o più probabilmente, deluso dai vari tentativi, mi cullerei in una gnosi pessimista e tragica alla scuola di Cioran e Ceronetti. Ma così avrei perso Cristo e allora povero me se non avessi conosciuto del Cristianesimo che la versione sciocca che lasciai.

Che compassione, che stringimento di cuore mi fanno allora i giovani che, avendo sperimentato solo il Cristianesimo da pizzata e cartellone, cercano altrove un senso alla vita o semplicemente si adagiano a vivere senza più neppure pretendere che la vita abbia un senso. Oggettivamente sbagliano, lo so bene, perché solo Cristo è Via, Verità e Vita e Cristo lo si incontra nella Chiesa ma come li capisco, come li sento vicini e come mi fa rabbia pensare a così tante anime smarrite semplicemente perché non hanno trovato ciò che era loro sacrosanto diritto ricevere da noi pastori: la Verità tutta intera e nulla di meno!

Note al testo

[1] P. Triani, In che cosa credere? A chi dare fiducia, in Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori (a cura di), La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014, il Mulino, Bologna 2014, pp. 99-121.

[2] Cfr. Ibi, p. 110.

[3] Pasqualini, supra, pp. 15-16.

[4] Bressan, supra, p. 4.

[5] Montanari, supra, p. 44.

[6] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962, n. 4.

[7] Si veda, in questo senso, il contributo di Stercal, supra, in particolare alle pp. 38-39.

[8] Bressan, supra, p. 5.

[9] Diversi contributi nel presente volume evidenziano il carattere intellettualistico dell’educazione alla fede che i giovani hanno ricevuto. Cfr. in particolare Montanari, supra, pp. 47-48.

[10] Cfr. A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010; Id., La fuga delle quarantenni, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012.

[11] Cfr. A. Castegnaro - G. Dal Piaz - E. Biemmi, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Àncora, Milano 2013.