A Islamabad «cede» l'assedio islamista, di Stefano Vecchia [La manifestazione che chiede anche la morte di Asia Bibi]
Riprendiamo da Avvenire del 31/3/2016 un articolo di Stefano Vecchia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Dopo la strage di Pasqua a Lahore, il Pakistan è in bilico, tra affermazione dello Stato di diritto, militarizzazione e concessioni all’estremismo religioso e alla sua militanza ideologica e terrorista. Mentre continuano le operazioni di rastrellamento nella provincia del Punjab che hanno portato al fermo di 5.000 estremisti e alla sua conferma per alcune centinaia ma anche all’uccisione di una decina di individui che si erano opposti alle forze di sicurezza, la capitale Islamabad ha vissuto anche ieri ore convulse.
Solo alla fine del quarto giorno del sit in nei pressi del Parlamento nazionale attuato da migliaia di simpatizzanti di Salman Qadri, nel 2011 killer del governatore (musulmano e progressista) della provincia del Punjab, impiccato a fine febbraio, il ministro dell’Interno Chaudhry Nisar Ali Khan ha potuto annunciare che il governo aveva ottenuto la fine della protesta. Un accordo in extremis con i leader islamisti mentre 7.000 poliziotti e paramilitari erano pronti allo sgombero. Chaudhry non ha però incassato un immediato scioglimento dell’assedio al Parlamento o il ritiro delle dieci proposte dei manifestanti che includevano il riconoscimento ufficiale del “martirio” di Qadri e l’esecuzione della cattolica Asia Bibi, in carcere dall’estate 2009 e condannata a morte per blasfemia, ora in attesa di un giudizio definitivo della Corte suprema. Slogan contro Asia Bibi sono risuonati in piazza anche ieri. I responsabili della sicurezza avevano promesso un’azione di forza senza precedenti che fosse insieme «efficace e rapida».
Ad alzare la tensione, ha contribuito ieri l’esecuzione di due esponenti del movimento Tehrek-e-Taliban Pakistan, lo stesso che aveva «arruolato» Qadri e che ha indicato pubblicamente – nella sua fazione secessionista Jamaat-ul-Ahrar – la responsabilità della strage di sabato sera, con la morte di 72 persone e il ferimento di altre 350, ma ha anche minacciato di portare il terrore a Lahore, oltre che di colpire i mass media «schiavi del potere». I due, impiccati all’alba, avevano partecipato a numerosi attentati. A firmare il decreto di esecuzione, lo stesso comandante in capo dell’esercito, generale Raheel Sharif. Un ruolo, quello delle forze armate, accresciuto nei giorni post-strage. Mentre il premier Nawaz Sharif ha incassato il «sostegno» contro il terrorismo del presidente americano Barack Obama, che gli ha telefonato. Nella provincia del Punjab sono stati mobilitate decine di migliaia di paramilitari (ranger e guardie di frontiera) ai quali sono stati dati ampi poteri. Poteri che erano pronti a essere impiegati ieri anche a Islamabad, in bilico tra la necessità di ristabilire il controllo delle autorità e di spegnere un focolaio di tensione nel cuore del paese e il timore che un’azione di forza potesse trasformare gli estremisti in martiri.
Intanto, i cristiani, circa due milioni su 190 milioni di pachistani, continuano a manifestare un crescente senso di vulnerabilità e a sollecitare il governo a agire per garantire la loro protezione, chiedendo unità e dialogo alle altre componenti religiose del Paese.
Chiaro il messaggio di padre Jamal Albert in una veglia sul luogo dell’attentato di sabato presso il parco Gulshane-Iqbal: «Indipendentemente dall’appartenenza religiosa cristiana, indù, ebraica o musulmana, tutti siete ormai insicuri. Essi (i terroristi) stanno cercando di sgretolare la nazione, distruggere il nostro senso di unità, la nostra volontà di essere tutti pachistani». Tuttavia, ha aggiunto il sacerdote, «siate sicuri che questi episodi non ci fermeranno. Questo è il nostro Paese. E in realtà – ha concluso padre Jamal Albert –, siamo più determinati che mai a proseguire».