L’otto per mille e le «spese di culto»: il rischio di mettere i poveri contro Dio, di Marco Tarquinio
Riprendiamo da Avvenire del 7/5/2016 una lettera al direttore Marco Tarquinio con la sua risposta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Solidarietà e sussidiarietà.
Il Centro culturale Gli scritti (18/5/2016)
Caro direttore,
in questi giorni di dichiarazioni dei redditi e di pubblicità per avere l’otto per mille e il cinque per mille, mi hanno colpito gli spot che vengono mandanti in onda. Mi hanno colpito quelli della Chiesa Cattolica, e, soprattutto, quello della Chiesa Valdese. Risulta evidente il tentativo di coinvolgere e dare emozioni allo spettatore contribuente mostrando immagini di povertà e deprivazione della persona, verso la quale sarebbero convogliati i proventi della scelta di destinazione. Scelta giusta e, da parte mia, condivisibile. Però, le istituzioni religiose da sempre si sono occupate anche del culto a Dio, oltre che del soccorso all’uomo che soffre. Personalmente provo un certo disagio nel constatare che ormai l’unica modalità pubblica e politicamente corretta di essere cristiani sia devolvere una parte del proprio denaro e tempo al pronto soccorso delle persone indigenti, quasi fosse una vergogna impegnarsi a tutti i livelli nelle liturgie e nelle devozioni tradizionali popolari. Il vertice, a mio parere, è raggiunto dallo spot della Chiesa Valdese, che specifica inequivocabilmente che «Non un solo euro sarà usato per il culto». Cordiali saluti.
Renato Ceres, Reggio Emilia
Per la verità, caro signor Ceres, sono tra quanti apprezzano gli spot che in pochi attimi consegnano il senso della vasta e articolata opera di bene che grazie all’otto per mille (e, su un piano diverso e con diverse modalità, grazie al cinque per mille) di tutti noi contribuenti viene realizzata in Italia e nel mondo. E sono orgoglioso - lo so che non ce lo diciamo spesso… - di essere cittadino di un Paese che si è dato e ci ha dato questi strumenti per indirizzare risorse al servizio di un «bene comune» che non è solo materiale e che, comunque, non coincide con l’azione esclusiva dello Stato.
Detto questo, con il massimo rispetto per scelte e sensibilità altrui, ammetto di fare fatica anche io, proprio come lei, a capire la "garanzia" contenuta nella frase «Non un solo euro sarà usato per il culto». Come se le «spese per il culto» fossero un lusso, un impiego insensato e antireligioso di fondi che lo Stato saggiamente destina alle Chiese e alle confessioni religiose che "abitano" il nostro Paese e concordano sui valori fondanti - e infatti scolpiti nella Costituzione - della convivenza civile.
Ma c’è anche un risvolto per così dire pratico delle «spese di culto» che è stato efficacemente sottolineato, pochi giorni fa, dal vescovo Nunzio Galantino. «Vorrei ricordare - ha detto il segretario generale della Cei in un’intervista a Radio Vaticana - che nelle "spese di culto" vanno contemplati i tanti cantieri di edilizia di culto, e di restauro dei beni culturali. Sa quanti sono i cantieri aperti oggi? 920! Migliaia di persone mantengono la loro famiglia, lavorando in questi 920 cantieri. Vengono conservati, custoditi e resi fruibili veri e propri tesori di arte e di cultura altrimenti destinati ad andare in malora. Vengono, poi, costruiti luoghi di aggregazione. Se si spiegasse bene che "spese di culto" sono anche queste, forse la gente capirebbe meglio quanto pretestuose siano certe prese di posizione di chi identifica il culto con l’incenso e le candele...». Anche per questo quella frase – «Non un solo euro sarà usato per il culto» – non mi suona proprio.
Tra l’altro, anche se non penso che fosse questa l’intenzione di chi ha costruito l’espressione, essa finisce per mettere in competizione l’amore per Dio con l’amore per i fratelli e soprattutto per i poveri, mentre per tanti credenti, e in particolar modo per i cristiani, quei due amori sono uno stesso amore. In ogni caso "culto" non è una parolaccia, non evoca atti disdicevoli. Culto, direi, è il gesto di amore, di devozione e di fedeltà che il credente offre a Dio. Da un punto di vista cristiano è la Memoria che aiuta a sperimentare la contemporaneità con Gesù e che insegna riconoscerlo nel volto di ogni uomo e di ogni donna e, appunto, a servirlo nei poveri, nei piccoli, nei deboli. «La Chiesa non è una Ong», ci ha avvertito spesso papa Francesco, che pure ci invita incessantemente a dare concretezza e solare continuità alla scelta preferenziale per i poveri, «carne di Cristo». E anch’io, che come tanti altri sono stato educato a considerare ogni gesto di carità una preghiera vissuta e non solo detta, continuo a intendere questo insegnamento del Papa come un appello a non "disanimare" l’impegno con gli altri e per gli altri, schiacciandolo su una terra senza più cielo e riducendolo a pura meccanica del soccorso e della restituzione sociale. Compiere atti di giustizia e di bontà è però indubbiamente un modo per «rendere culto a Dio», sul piano della testimonianza pubblica è forse "il" modo. San Giovanni Paolo II ci ha ricordato, e dimostrato, quanto sia vero che alla Chiesa intera e a ognuno di noi che si dice credente «gli uomini del nostro tempo chiedono non solo di parlare di Cristo, ma di farlo loro vedere».