Con «L’anima del corpo» femminismo e nuovi diritti. Utero in affitto, il desiderio «prepotente», di Luisa Muraro
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Riprendiamo da Avvenire del 31/3/2016 un testo di Luisa Muraro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Famiglia e gender nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Esce in questi giorni nelle librerie «L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto» (La Scuola, 88 pagine, 8 euro e 50), libro piccolo quanto denso che Luisa Muraro – filosofa e femminista, punto di riferimento per chi vuole vedere il "femminile" fuori dai canoni consumistici e dalla retorica mediatica – consegna nel bel mezzo del dibattito in Italia e in molti altri Paesi sulla maternità surrogata. Il brano che pubblichiamo in questa pagina si inserisce tra l’analisi semantica ed antropologica di un fenomeno affiorante e riflessioni mai scontate su maternità, libertà, diritti e origini.
«L’utero è mio e lo gestisce un’agenzia d’intermediazioni», ha commentato pungente una giovane donna. La prepotenza del mercato è tale che l’uomo più potente degli Usa non riesce a fermare un micidiale mercato interno di armi da guerra.
Ma, prima delle conseguenze, anche per riuscire a immaginare quelle meno prevedibili, c’è da guardare alla cosa di cui discutiamo così come si presenta. Infatti prevedere può essere difficile o impossibile, ma capire la posta in gioco possiamo, e quella della surrogazione è grande. Bisogna fare quella cosa che si chiama leggere la realtà che cambia.
Riprendo la domanda che ho fatto prima: in una cultura che trova odiosa la compravendita di bambine/i, come può essere accettabile commissionare la loro confezione da parte di donne pagate allo scopo?
La risposta è arrivata quasi da sola. Persone di buon senso hanno obiettato alle coppie sterili che difendono il ricorso alla surrogata: perché non ricorrete all’adozione? Il ripetersi di questa domanda polemica ha provocato una vivace risposta, e cioè che l’obiezione è insensata perché si tratta di cose che non possono essere messe a confronto e tanto meno equiparate nel desiderio di chi ricorre o vuole poter ricorrere alla surrogazione.
Tutto fa pensare che sia proprio così. Noi, da fuori, vediamo che c’è una differenza tra adottare dei già nati e commissionarne di nuovi, ma non ci sembrano cose incommensurabili. Invece per il desiderio di avere un figlio sì che lo sono.
Il desiderio è una grande potenza, come i soldi, ma più misteriosa e meno razionale. Si spinge e ci spinge avanti con tutti i mezzi a disposizione, sempre più avanti. Finché è vivo, s’intende, e dobbiamo augurarci che lo sia, perché senza non c’è vita. Il punto di vista di chi ha un vivo desiderio non può essere ignorato. Ci sono desideri molto forti, questo può diventare fortissimo. Ricordo una giovane donna che moriva dal desiderio di diventare madre e ne è morta davvero.
Con la surrogata la realizzazione del desiderio genitoriale fa un salto di qualità. Non potendo generare una propria creatura, gli aspiranti genitori lo realizzano facendo propria una creatura che viene al mondo per soddisfarlo, unicamente. Soddisfarlo è la sua ragione di essere.
In ciò consiste l’incommensurabilità. Il bambino o la bambina che si adotta era già al mondo, per una strada disegnata da altri, e passa da una porta che altri decidono di aprire; con la surrogazione la creatura arriva in forza del desiderio degli aspiranti genitori, per mezzo dei loro soldi. Vero è che arriva avendo fatto una deviazione attraverso un corpo femminile altrui, alla fine però ci sono comunque loro due, i portatori del desiderio, così come c’erano all’inizio della faccenda.
Ho parlato della facilitazione offerta dalle tecniche della procreazione, sorvolando sul fatto che, per le donne, l’operazione non è affatto facile. Ma posso io farne una questione se loro ci stanno?
Quello che la tecnologia offre alla coppia parentale non si riduce a tecnica. Infatti, la gravidanza ottenuta con materiale biologico in parte o tutto proveniente dalla coppia degli aspiranti genitori li aiuta a sentirsi veri e unici genitori dal primo momento. Oltre che un supporto materiale all’immaginazione di essere la coppia generatrice di quella creatura, questo apporto è anche un mezzo per sostituire, per quanto possibile, il legame carnale fra la donna e la sua creatura con il legame del materiale biologico che alla donna viene innestato. Operazione, quest’ultima, che si fa sempre più spesso, ho letto, anche per togliere a lei il diritto di considerarsi e, in caso, rivendicarsi madre. Traspare l’aspetto meno accettabile di questa pratica, quello di oltrepassare la necessità medica e diventare così un attacco demolitore della relazione materna. Non si dica che la legge può intervenire a porre un limite: non si può creare un piano inclinato e pretendere che le cose non scendano da quella parte.
Notiamo, per inciso, che da sempre l’uomo ha dato alla procreazione questo tipo di contributo materiale, solo biologico; la paternità tradizionale, infatti, consiste più nel fatto simbolico (il nome) che nell’esperienza vissuta. Non così la donna che alla procreazione dedica anima e corpo per mesi e anni, ricavandone gioie e dolori che ricorderà tutta la vita. E che per farlo corre rischi per la salute e la vita stessa, come sappiamo anche dalla cronaca recente.
Perciò non è arbitrario dire che la coppia genitoriale che si avvale della Gpa (gestazione per altri, ndr) ha un’impronta più maschile che femminile. Il che, in pratica, potrebbe far comodo a colei che aspira ad avere un figlio o una figlia. Ma questo, a parte altre considerazioni, sarebbe un pessimo ragionamento da parte femminile, perché la prevalenza simbolica della parte maschile appartiene a una cultura che alle donne fa pagare il biglietto d’ingresso.
Comunque giudichiamo lo sbilanciamento verso il maschile, il rinforzo simbolico va alla coppia stessa e non raggiunge la creatura in fieri nel grembo altrui. La creatura, voluta in partenza e attesa all’arrivo, nutrita e custodita dalla portatrice, madre reale simbolicamente rinunciataria, deve fare il suo viaggio in una strana solitudine, accompagnata forse da sogni e fantasie non autorizzate della portatrice.
In certi Paesi, dove portare avanti la gravidanza per conto di altri costituisce una risorsa economica per famiglie povere, il contributo genetico dei futuri genitori è richiesto per legge se sono stranieri. Si fa, così ho letto, per accrescere le probabilità che la creatura, destinata a lasciare il Paese con la coppia che l’ha voluta, venga amata, e ridurre così i rischi di maltrattamento e abbandono: risulta infatti che quando c’è un contributo di materiale genetico degli aspiranti genitori il legame sia più forte. Se così fosse, io lo trovo naturale: che altro si può dire?
Ho usato una parola «è naturale», dal significato molto chiaro, comunemente usata nella lingua italiana e tante altre. Ma, appena si entra in questi argomenti, sembra sospetta.
Sono d’accordo con chi critica il concetto di legge naturale; dal tempo in cui questa espressione si usava correntemente e sensatamente, sono cambiate molte cose e l’espressione era diventata ambigua, per l’uso che ne facevano le centrali del potere costituito onde mantenere il loro ordine. Il pensiero critico ci ha avvertito di ciò e dobbiamo tenerne conto. Tuttavia, parlare della natura si può, anzi si deve, ce lo insegna l’ecologia. Gli esseri umani sono il frutto di un’evoluzione che continua nella cultura grazie alla parola e alla libertà, ma che non può perdere le sue radici naturali, pena l’autodistruzione.