Il dramma rimosso dei greci del Ponto, di Roberto Festorazzi
Riprendiamo da Avvenire del 17/5/2016 un articolo di Roberto Festorazzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2016)
La vulgata storica ha sempre dipinto la Turchia contemporanea come uno Stato moderno, fondato su principi di laicità, lontano quindi da ogni residua tentazione di restaurazioni teocratiche. La repubblica kemalista, in realtà, oltre ad avere trescato a lungo con i modelli delle tirannidi fasciste (le nuove statolatrie pagane), ebbe tra i suoi atti fondativi veri e propri genocidi etnici a lungo rimossi. Prima lo sterminio degli armeni, su cui soltanto negli ultimi anni si è osato sollevare il velo, poi quello dei cristiani greci del Ponto, sulle coste del Mar Nero: episodio poco noto, quest’ultimo, e riguardo al quale ancora oggi la Turchia rifiuta di riconoscere le proprie storiche responsabilità.
Una giornalista italiana di origini greche, Maria Tatsos, racconta il martirio del popolo del Ponto vittima, oltre che della violenza cieca, anche del silenzio. Tutto ciò in un libro in uscita in questi giorni: La ragazza del Mar Nero (Paoline, pagine 224, euro 15,00). Tatsos soltanto negli ultimi anni, ha scoperto di discendere, per parte del ramo paterno della sua famiglia, da un ceppo di greci di religione ortodossa del Ponto, scacciati dalla loro terra natale, e approdati nel 1923 come profughi in Macedonia, a Giannitsa. Questo dramma, sepolto come il trauma di una ferita dell’anima nell’intimo di chi lo aveva vissuto, è così rimasto nascosto e a lungo precluso allo sguardo indagatore di Maria. La quale così spiega: «Solo una volta, quando avevo sette anni, la nonna si era lasciata sfuggire che Ordu, in Turchia, era la sua “patria”, e non Giannitsa. “Lì, bambina mia, avevamo una casa bellissima, vicina alla chiesa e a pochi metri dal mare. Andavo a nuotare tutti i giorni, era meraviglioso. È quella la nostra terra, e non qui, ricordatelo”».
La bambina di allora non ebbe mai a dimenticare quella confidenza della nonna, Eratò Espielidis, figura che è diventata il filo conduttore della sua narrazione di oggi. Un cammino a ritroso che assume i toni di un viaggio apocalittico nell’orrore di una delle prime pulizie etniche del Novecento. I nonni di Maria Tatsos abitavano poco lontano dalla città di Trebisonda, sul Mar Nero, dove nel febbraio del 2006 il sacerdote italiano don Andrea Santoro venne assassinato da un musulmano fanatico. Dopo il massacro degli armeni, nel giro di pochi anni, tra il 1916 e il 1923, anche la nobile comunità greca del Mar Nero fu cancellata per sempre dalla storia. Dei settecentomila cristiani ortodossi del Ponto che vivevano all’inizio della persecuzione, ne sopravvissero meno della metà, costretti a raggiungere la Grecia per non finire macellati.
Una parte sconfinò in Russia, dove a tragedia si aggiunse tragedia: in piena epoca del terrore staliniano, nel 1937, i maschi greci furono arrestati e deportati in Siberia, Kazakistan e Uzbekistan, ove sopravvissero in pochi. Ma la Turchia fece, se possibile, ancora di peggio: sottopose la popolazione greca, donne, vecchi e bambini compresi, a spaventose marce forzate invernali. Racconta infatti Tatsos: «I deportati venivano condotti in un bagno turco, con la scusa di ripulire i loro corpi e i loro vestiti per motivi d’igiene. In realtà, dopo un bagno bollente, i malcapitati venivano costretti a restare all’aperto svestiti ed esposti alle temperature invernali, che nel Ponto potevano giungere fino a meno venti gradi. Dovevano attendere per ore, seminudi, di essere rasati e vaccinati contro il tifo, operazione che avveniva usando lo stesso ago per tutti, agevolando così la trasmissione di malattie.
I sopravvissuti dovevano rivestirsi con i loro abiti umidi e rimettersi a marciare per dodici ore in mezzo alla neve. Inutile dirlo, la decimazione funzionava a meraviglia. Ovviamente simili misure limitavano la diffusione di epidemie fra i deportati, perché questi morivano di freddo ben prima di svilupparle».
Per i poveri profughi ammassatisi nelle accoglienti terre della Macedonia, si trattò di cominciare un’esistenza completamente nuova, dopo aver perduto tutto: casa, proprietà, campi, affetti.
Tatsos conclude il suo racconto con una pagina sorprendente. È il 1989. Nonna Eratò sta per morire, a 93 anni. È ormai completamente cieca. Ha un ultimo desiderio, quasi un sussulto di nostalgia: rivedere la perduta terra. Il figlio Pigmalion l’accompagna nell’immaginario viaggio di congedo: «Lui la prese sottobraccio e la portò sulla balconata della sua abitazione, dove era vissuta per sessant’anni sentendosi sempre, nel fondo del cuore, una profuga scacciata dalla sua terra. “Ecco, mamma, sei a Ordu, a casa. Lo vedi, il mare?”, disse lo zio, cercando di rivolgersi agli occhi della sua memoria. “Sì, lo vedo”, rispose la nonna, in lacrime. Sono certa che Eratò l’abbia visto davvero, il suo mare. La sua casa, i noccioleti, l’orto. La chiesa di Ypapantis. La montagna di Boz Tepe e la scuola Psomiadis, le cui finestre guardavano il Mar Nero».
Il libro di Maria Tatsos è toccante anche per le premesse da cui parte, che costituiscono un monito a voler coltivare, sempre e comunque, propositi di pace, nella verità: «La storia di mia nonna Eratò è una goccia nel mare di un’immane tragedia. Questo libro vuole essere un tributo alla memoria, per non dimenticare e per capire quanto siano simili le stragi di ieri a quelle di oggi. Ma è anche un inno alla speranza, perché una società che sa essere accogliente può diventare più ricca. Perché anche i nostri nonni o bisnonni sono stati profughi, immigrati, stranieri e, se hanno fatto fortuna in terre lontane, è perché qualcuno ha offerto loro un’opportunità. E perché l’ospitalità, praticata come facevano i miei antenati, è un dovere sacro, come esseri umani e come cristiani, per non lasciare vincere l’odio, mai».