Quale cristianesimo per l’Europa. Papa Francesco intervistato da «la Croix»
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Riprendiamo sul nostro sito l’intervista rilasciata da papa Francesco ai giornalisti Guillaume Goubert e Sébastien Maillard e pubblicata sul numero de la Croix del 17/5/2016. La traduzione è tratta dal sito www.finesettimana.org. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)
«Bisogna integrare i migranti»
Nei suoi discorsi sull'Europa, lei parla delle “radici” del continente senza però mai definirle cristiane. Definisce piuttosto l'identità europea “dinamica e multiculturale”. Secondo lei, l'espressione “radici cristiane” non è appropriata per l'Europa?
Bisogna parlare di radici al plurale, perché ce ne sono molte. In questo senso, quando sento parlare di radici cristiane dell'Europa, ne temo talvolta il tono, che può essere trionfalistico o vendicativo. E allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L'Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di “irrorarle”, ma in uno spirito di servizio, come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l'Europa, è il servizio. Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, ce lo insegna: l'apporto del cristianesimo ad una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, cioè il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista.
Lei ha fatto un gesto forte, portando con sé dei rifugiati da Lesbo a Roma il 16 aprile scorso. Ma l'Europa può accogliere così tanti migranti?
È una domanda giusta e responsabile, perché non si possono spalancare le porte in maniera irrazionale. Ma la domanda di fondo da porsi è perché ci sono così tanti migranti oggi. Quando sono andato a Lampedusa, tre anni fa, quel fenomeno cominciava già. Il problema all'origine, sono le guerre in Medio Oriente e in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se ci sono guerre, è perché ci sono fabbricanti di armi – cosa al limite giustificata per la difesa – e soprattutto ci sono trafficanti di armi. Se c'è tanta disoccupazione, è a causa della mancanza di investimenti che possono procurare lavoro, di cui ha tanto bisogno l'Africa. Questo solleva più in generale il problema di un sistema economico mondiale caduto nell'idolatria del denaro. Più dell'80% delle ricchezze dell'umanità sono nelle mani di circa il 16% della popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. Il mercato in sé è una buona cosa, ma ci deve essere un terzo, lo Stato, per controllarlo ed equilibrarlo. È ciò che si chiama economia sociale di mercato. Torniamo ai migranti. L'accoglienza peggiore è quella di ghettizzarli, al contrario occorre integrarli. A Bruxelles, i terroristi erano belgi, figli di migranti, ma venivano da un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco ha prestato giuramento in una cattedrale e sarà sicuramente ricevuto dalla regina. Questo dimostra quanto sia importante per l'Europa la capacità di integrare. Penso a Gregorio Magno, che ha negoziato con quelli che venivano chiamati barbari e che si sono poi integrati. Tale integrazione è tanto più importante oggi perché l'Europa conosce un grave problema di denatalità, a causa di una ricerca egoistica di benessere. C'è un vuoto demografico. In Francia, tuttavia, questa tendenza è meno forte, grazie alla politica familiare.
Il timore di accogliere dei migranti si alimenta in parte con la paura dell'islam. Secondo lei, la paura che suscita questa religione in Europa è giustificata?
Non credo che ci sia oggi una paura dell'islam in quanto tale, ma di Daesh e della sua guerra di conquista, in parte tratta dall'islam. L'idea di conquista è inerente all'anima dell'islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare con la stessa idea di conquista la fine del Vangelo di Matteo, in cui Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni. Davanti all'attuale terrorismo islamista, sarebbe opportuno interrogarsi sul modo in cui è stato esportato un modello di democrazia, troppo occidentale, in paesi in cui c'era un potere forte, come in Iraq. O in Libia, che ha una struttura tribale. Come diceva un libico, qualche tempo fa: “Un tempo avevamo Gheddafi, adesso ne abbiamo 50!”. In linea di principio, la coesistenza tra cristiani e musulmani è possibile. Vengo da un paese in cui coabitano in buona familiarità. I musulmani vi venerano la Vergine Maria e san Giorgio. In un paese africano, mi hanno detto, per il Giubileo della misericordia i musulmani fanno a lungo la coda alla cattedrale per passare la porta santa e pregare la Vergine Maria. In Centrafrica, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e devono reimparare a farlo oggi. Anche il Libano dimostra che è possibile.
«Uno Stato deve essere laico»
Il peso che ha oggi l'islam in Francia, così come il legame storico del paese al cristianesimo sollevano problemi ricorrenti sul posto delle religioni nello spazio pubblico. Qual è, secondo lei, una buona laicità?
Uno Stato deve essere laico. Gli Stati confessionali finiscono male. È una cosa contro la storia. Credo che una laicità basata su una solida legge che garantisce la libertà religiosa offra un quadro per proseguire. Siamo tutti uguali, come figli di Dio o con la nostra dignità di persona. Ma ognuno deve avere la libertà di esteriorizzare la sua fede. Se una donna musulmana vuole portare il velo, deve poterlo fare. Lo stesso se un cattolico vuole portare una croce. Si deve poter professare la propria fede, non accanto, ma all'interno della cultura. La piccola critica che rivolgerei alla Francia a questo riguardo è di esagerare la laicità. È una cosa che deriva dal considerare le religioni come una sottocultura e non come una cultura a tutti gli effetti. Temo che questo approccio, che si comprende come eredità dell'Illuminismo, sia ancora presente. La Francia dovrebbe fare un passo avanti a questo riguardo per accettare che l'apertura alla trascendenza è un diritto per tutti.
In un quadro laico, come dovrebbero porsi i cattolici per difendere le loro posizioni su temi etici, come l'eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?
È nel Parlamento che occorre discutere, argomentare, spiegare, ragionare. In questo modo cresce una società. Una volta che la legge è votata, lo Stato deve rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica, deve esserci l'obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Anche per un impiegato statale, che è una persona umana. Lo Stato deve anche rispettare le critiche. Questa è una vera laicità. Non si può non tener conto degli argomenti dei cattolici, dicendo loro: “Lei parla come un prete”. No, si basano sul pensiero cristiano, che la Francia ha sviluppato in maniera notevole.
Che cosa rappresenta per lei la Francia?
La fille aînée de l'Église... mais pas la plus fidèle! [la figlia maggiore della Chiesa... ma non la più fedele!] (ride). Negli anni 50 del secolo scorso, si diceva anche “Francia, terra di missione”. In questo senso, è una periferia da evangelizzare. Ma bisogna essere giusti con la Francia. La Chiesa lì ha una capacità creativa. La Francia è anche una terra di grandi santi, di grandi pensatori: Jean Guitton, Maurice Blondel, Emmanuel Levinas – che non era cattolico -, Jacques Maritain. Penso anche alla profondità della sua letteratura. Apprezzo anche come la cultura francese abbia impregnato la spiritualità gesuita rispetto alla corrente spagnola, più ascetica. La corrente francese, che è iniziata con Pierre Favre, pur insistendo sempre sul discernimento dello spirito, dà un altro sapore. Con i grandi spirituali francesi: Louis Lallemand, Jean-Pierre de Caussade. E con i grandi teologi francesi, che hanno tanto aiutato la Compagnia di Gesù: Henri de Lubac e Michel de Certeau. Gli ultimi due mi piacciono molto: due gesuiti che sono creativi. Insomma, ecco ciò che mi affascina della Francia. Da un lato, la laicità esagerata, l'eredità della Rivoluzione francese e, dall'altro, così tanti grandi santi.
Qual è quello o quella che lei preferisce?
Santa Teresa di Lisieux.
Lei ha promesso di venire in Francia. Quando immagina di poter fare questo viaggio?
Ho ricevuto da poco una lettera di invito del presidente François Hollande. Anche la Conferenza episcopale mi ha invitato. Non so quando avverrà questo viaggio, perché l'anno prossimo è elettorale in Francia e, in generale, la pratica della Santa Sede è di non fare un viaggio in tale periodo. L'anno scorso si era cominciato a fare delle ipotesi in vista di quel viaggio, che potrebbe comprendere un passaggio a Parigi e nella sua periferia, a Lourdes e in una città in cui nessun papa si è recato, Marsiglia, ad esempio, che rappresenta una porta aperta sul mondo.
La Chiesa in Francia vive una grave crisi di vocazioni sacerdotali. Come fare oggi con così pochi preti?
La Corea offre un esempio storico. Quel paese è stato evangelizzato da missionari venuti dalla Cina e poi tornati in Cina. In seguito, per due secoli, la Corea è stata evangelizzata da laici. È una terra di santi e di martiri che oggi ha una Chiesa forte. Per evangelizzare, non c'è bisogno necessariamente di preti. Il battesimo dà la forza di evangelizzare. E lo Spirito Santo, ricevuto al battesimo, spinge ad uscire, a portare il messaggio cristiano, con coraggio e pazienza. È lo Spirito Santo il protagonista di ciò che fa la Chiesa, il suo motore. Troppi cristiani lo ignorano. Al contrario, un pericolo per la Chiesa è il clericalismo. È un peccato che si commette in due, come il tango! I preti vogliono clericalizzare i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati, per facilità. A Buenos Aires ho conosciuto tanti buoni parroci che, vedendo un laico capace, esclamavano subito: “Facciamone un diacono!”. No, bisogna lasciarlo laico. Il clericalismo è particolarmente importante in America Latina. Se la devozione popolare vi è forte, è proprio perché è l'unica iniziativa dei laici che non è clericale. E resta incompresa dal clero.
La Chiesa in Francia, in particolare a Lione, è attualmente colpita da scandali di pedofilia risalenti al passato. Che cosa deve fare in questa situazione?
È vero che non è facile giudicare su determinati fatti dopo decenni, in un contesto diverso. La realtà non è sempre chiara. Ma per la Chiesa, in questo ambito, non ci può essere prescrizione. Per quegli abusi, un prete che ha vocazione di condurre verso Dio un bambino, lo distrugge. Semina il male, il risentimento, il dolore. Come aveva detto Benedetto XVI, la tolleranza deve essere zero. In base agli elementi di cui dispongo, credo che a Lione il cardinal Barbarin abbia preso i provvedimenti necessari, che abbia preso le cose in mano. È un coraggioso, un creativo, un missionario. Adesso dobbiamo attendere la prosecuzione della procedura davanti alla giustizia civile.
Quindi il cardinal Barbarin non deve dimettersi?
No, sarebbe un controsenso, un'imprudenza. Si vedrà dopo la conclusione del processo. Ma adesso, sarebbe come dichiararsi colpevole.
«Siamo tutti usciti differenti dal Sinodo»
Il 1° aprile scorso, lei ha ricevuto Mons. Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X. È di nuovo in previsione il reintegro dei lefebvriani nella Chiesa?
A Buenos Aires, ho sempre parlato con loro. Mi salutavano, mi chiedevano una benedizione in ginocchio. Amano la Chiesa. Mons. Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così con altri elementi un po' strani, come Mons. Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso, come avevo già detto in Argentina, che siano dei cattolici in cammino verso la piena comunione. Durante un Anno della misericordia, mi è sembrato di dover autorizzare i loro confessori a perdonare il peccato d'aborto. Mi hanno ringraziato per quel gesto. Prima, Benedetto XVI, che rispettano molto, aveva liberalizzato la messa secondo il rito tridentino. Si dialoga bene, si fa un buon lavoro.
Sarebbe disposto a concedere loro uno statuto di prelatura personale?
Sarebbe una soluzione possibile ma, prima, bisogna stabilire un accordo di fondo con loro. Il Concilio Vaticano II ha il suo valore. Si procede lentamente, con pazienza.
Lei ha convocato due sinodi sulla famiglia. Quel lungo processo, secondo lei, ha cambiato la Chiesa?
È un processo iniziato con il concistoro introdotto dal cardinal Kasper, prima di un Sinodo straordinario nell'ottobre dello stesso anno, seguito da un anno di riflessione e da un Sinodo ordinario. Credo che siamo tutti usciti da questo processo differenti da come ci siamo entrati. Anch'io. Nell'esortazione post-sinodale ho cercato di rispettare al massimo il Sinodo. Non vi troverete delle precisazioni canoniche su ciò che si può o si deve fare o non fare. È una riflessione serena, pacifica, sulla bellezza dell'amore, su come educare i figli, come prepararsi al matrimonio... Valorizza delle responsabilità che potrebbero essere accompagnate dal Pontificio Consiglio per i laici, sotto forma di orientamenti di fondo. Al di là di questo processo, dobbiamo pensare alla vera sinodalità, almeno a ciò che significa la sinodalità cattolica. I vescovi sono cum Petro, sub Petro. Questo differisce dalla sinodalità ortodossa e da quella delle Chiese greco-cattoliche, dove il patriarca conta per un solo voto. Il Concilio Vaticano II dà un ideale di comunione sinodale ed episcopale. Bisogna ancora farlo crescere, anche a livello parrocchiale tenuto conto di ciò che è prescritto. Ci sono parrocchie non dotate né di un consiglio pastorale, né di un consiglio degli affari economici, mentre il codice di diritto canonico lo richiede espressamente. La sinodalità si gioca anche a questo livello.