Delle vacanze e della versione estiva dell’egocentrismo, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Tempo libero.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

1/ Estate, possibilità contro l’egocentrismo

In estate le questioni dell’egocentrismo e, invece, della felicità si pongono in maniera diversa che nel resto dell’anno. Ma si pongono comunque.

Per alcuni l’estate è l’occasione per dare sfoggio alla propria “volontà di potenza”: mostrare la propria fichitudine – al maschile o al femminile – la propria potenza dionisiaca, la propria leadership, agire ininterrottamente fino a notte inoltrata, agitando corpo, ormoni e emozioni alterate.

È evidente il rischio di un egocentrismo attivo che mette al centro se stessi e la propria presunta potenza.

All’opposto l’estate, spezzando il ritmo frenetico dell’anno, può essere l’ingresso nella lode. Rallentare tempi ed emozioni, per accorgersi che è il creato che ci dona la vita, dal cibo all’acqua e alle bevande. È il mondo che ci dona i nostri amici e la ragazza o il ragazzo che amiamo. Che non siamo noi a creare il mondo, bensì è il mondo a sostenere noi.

Il silenzio è elemento indispensabile per ridurre l’egocentrismo sempre in agguato. L’estate si può allora vivere nella lode dei doni immeritati.

«La misura di ogni felicità è la riconoscenza» - scrisse con parole indimenticabili Chesterton. Siamo felici nella misura in cui cresce la nostra gratitudine.

Ecco l’alternativa estiva: l’egocentrismo attivo o la lode.

2/ Schiocchi e presuntuosi o capaci di indicare

Un corollario all’estate egocentrica.

Ogni estate concepita all’insegna della “volontà di potenza” si risolverà nella messa in luce dell’essere “sciocchi” e “presuntuosi”.

Chi, alla fine dei conti, anche durante l’estate non facesse che additare sé stesso al mondo e non il mondo a se stessi e agli altrianche se non si fosse credenti e non si giungesse ad “indicare Dio – mostrerà semplicemente il suo lato sciocco e presuntuoso.

Si sostituirebbe a quella medicina che è l’estate e che invita gli amici a levare il capo, per indicare, invece, sé stessi, il proprio corpo, le proprie “dimensioni”, le proprie emozioni artefatte e i propri deliri.

“Sciocco” è parola che indica il vuoto mentale, l’incapacità di ammirare il mondo e stupirsene, l’esser preso dalla propria fatuità, incapaci di accedere alla realtà.

«Ci sono più cose in cielo e in terra di quante possa concepirne la tua filosofia» - dice Amleto in Shakespeare: cioè il mondo è più interessante di te e delle tue idee.

Essere vivi d’estate vuol dire saper “indicare” la grandezza e la novità del mondo, sottraendosi allo sguardo, perché l’altro veda la luna e non il dito.

Il giudizio sull’estate frenetica da attività sportiva o da rimorchio in discoteca non è morale, ma pre-morale. Non si tratta di fuggire i peccati, ma di scoprire la realtà che è più grande, interessante e pacificante.

Il dramma di un’estate “agitata” non è questione semplicemente di Bacco e Venere, ma di teste vuote che non sanno più vedere le stelle. Si tratta, al contrario, di accorgersi che il mondo esiste e ci consola.

3/ L’estate, un antidoto contro il narcisismo ecclesiale

Anche per il cristiano l’estate è un buon vaccino contro l’egocentrismo ecclesiologico. Dinanzi a tante opere d’arte, dinanzi ai luoghi dei santi, dinanzi alle comunità vive che ti donano l’eucarestia quando sei in vacanza, hai un motivo in più per accorgerti che non esiste solo il tuo gruppo o la tua parrocchia. Anzi ti accorgi che c’è stato, c’è e ci sarà di molto meglio!

Rasserena accorgersi di essere solo un frammento di una lunga storia che esisteva prima di noi e che proseguirà anche quando saremo morti e saremo con i santi delle generazioni che ci hanno preceduto e in attesa dei figli dei figli che ancora lotteranno in terra per giungere in Paradiso.

L’egocentrismo ecclesiologico fa credere che esista di vivo e vivace solo la nostra comunità: la vacanza è un potente farmaco che fa scoprire quando grande sia la chiesa. Che ha certo bisogno anche del nostro contributo, ma che non è il nostro modesto contributo, per fortuna!

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:48 pm | | Default

1/ Il caso della celebrazione in mare. Sì, la Messa con Gesù vale il vestito della festa, di Pierangelo Sequeri 2/ Chiedo scusa. Lettera all’Arcivescovo, ai Vicari episcopali, ai miei confratelli e a tutti i fratelli e sorelle nella Fede, di don Mattia Bernasconi

1/ Il caso della celebrazione in mare. Sì, la Messa con Gesù vale il vestito della festa, di Pierangelo Sequeri

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Pierangelo Sequeri pubblicato il 28/7/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Liturgia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

L’elegante e impeccabile nota della Diocesi di Crotone, ripresa da Milano, lascia spazio alla buona fede e alle scuse sincere (che sono subito arrivate). Una leggerezza, certo, questa Messa galleggiante. E tuttavia, una leggerezza che appare generata dal peso che vuole essere accordato alla celebrazione: perché è questo che le ha fatto perdere l’equilibrio.

L’incidente si può certamente chiudere. L’occasione per riflettere, invece, potrebbe essere pacatamente frequentata con qualche vantaggio. Quanto teniamo alla Messa, nel momento in cui non abbiamo tutte le comodità a disposizione? Nel periodo forte della pandemia, il problema si è presentato con una normalità del tutto inattesa. Non si trattava della circostanza del tutto occasionale in cui mancava il luogo adatto. Il luogo c’era, ma la sua normale frequentazione costituiva una condizione permanente di rischio, che la comunità non poteva sottovalutare. Possiamo discutere sui dettagli (allora tutti, però, erano costretti a improvvisare sull’incerto, a fronte di certezze obiettivamente drammatiche). Ma l’obbligo della prudenza era giustificato.

Molti preti sono rimasti comprensibilmente paralizzati. Qualcuno ha cercato una linea di resistenza nella concelebrazione fra sacerdoti, o per pochi intimi. E qualcuno si è pure inventato delle estrosità assai più imbarazzanti (come la lavanda dei piedi delle sedie).

Devo dirvi la verità: a distanza di tempo, anche alcune trovate che al momento mi avevano precipitato nello sconforto, ora le ricordo persino con una punta di tenerezza. Tutti abbiamo visto filmati e fotografie di chiese dove il sacerdote aveva appoggiato sulle sedie le foto dei parrocchiani che non poteva ospitare fisicamente. Bene, oggi mi dico che probabilmente (senza colpa di nessuno, parlo anche per me) quei parrocchiani, dal vivo, non avevano ricevuto in così gran numero l’attenzione e l’affezione individuale che, in quel frangente, riceveva la loro immagine.

La liturgia 'ci tiene' a noi. Non semplicemente perché le riempiamo le chiese, comunque sia: ma perché ha piacere di renderci presentabili al Signore, di presentarci e di essere riconosciuti da Lui. Nel Vangelo, ogni volta che accade, qualcuno guarisce. Fosse anche uno solo, diceva Gesù, lui (o lei) vale la festa di tutti.

Nell’Eucaristia, il Signore ci incontra nel suo corpo proprio: non semplicemente attraverso il corpo d’altri. E noi sappiamo, dal Vangelo, che cosa significa essere interpellati, toccati, nutriti dal corpo del Signore. (La presenza eucaristica si chiama 'presenza reale', per antonomasia, per questa ragione, non perché la sua presenza nel mio fratello e sorella sia finta).

Bisogna che accada, dunque. Non semplicemente perché debba misurarsi di volta in volta sul nostro desiderio, sul nostro sentimento, sulla nostra emozione, sul nostro bisogno. Bisogna che accada, in viva memoria di Lui, fino a che Egli venga. Semplicemente.

L’epoca della Messa sottocasa, programmata per riempire tutti gli orari e tutti gli spazi della chiesa, sta per congedarsi. Non sarà da sostituire con il servizio in camera (per noi lo era già diventato). Il megaraduno dell’assemblea che riempie la chiesa o lo stadio diventerà più raro (e sperabilmente più genuino).

La Messa diventerà certamente più preziosa. Il suo luogo sarà più prezioso; il suo tempo sarà più prezioso. Ci saranno più ospiti che fedeli, però: come del resto ai tempi di Gesù. E sarà bellissimo. Molti abbonati che ora fanno i difficili forse troveranno la cosa troppo scomoda, e perderanno la strada.

Molti che non pensavano di avere un posto saranno stupiti ed emozionati di non essere più 'quelli di fuori', con Gesù che passa fra i tavoli: con tanto di foto. Certo, dovranno avere la delicatezza di indossare almeno il vestito della festa, visto che tutto il resto è gratis.

2/ Chiedo scusa. Lettera all’Arcivescovo, ai Vicari episcopali, ai miei confratelli e a tutti i fratelli e sorelle nella Fede, di don Mattia Bernasconi

Riprendiamo sul nostro sito la lettera con cui il sacerdote che ha celebrato in acqua domanda perdono (la lettera è stata pubblicata il 27/7/2022 sul sito della parrocchia di San Luigi Gonzaga in diocesi di Milano, nella quale don Mattia è vice-parroco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Liturgia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

Carissimo Arcivescovo Mario,
carissimi vicari episcopali,
carissimi confratelli,
carissimi fratelli e sorelle nella Fede,

vi scrivo poche ma sentite righe per chiedere scusa per la celebrazione di domenica 24 mattina nelle acque del mare di Capo Colonna.

Mi trovavo lì con un gruppo di ragazzi dell’oratorio con i quali abbiamo condiviso una bellissima esperienza di lavoro presso i beni confiscati alla mafia e gestiti da Libera. Domenica, ultimo giorno di campo, avevamo in programma di celebrare la Messa e poi di vivere una giornata di mare prima del rientro a Milano.

Quando siamo arrivati presso la pineta dove era prevista la celebrazione, nei pressi della spiaggia, non ci è stato possibile entrare per via di una manifestazione organizzata da un’altra associazione che aveva riservato l’intera area alle proprie attività. Gli organizzatori del campo ci hanno quindi portati in un’altra spiaggia, dove però non erano presenti zone d’ombra e la sabbia era già rovente. Abbiamo cercato altre zone idonee alla celebrazione, ma non avendone trovate mi è sembrato significativo, nel contesto del campo appena vissuto, celebrare in acqua, immersi nella “terra” che ci ha accolto per lavorare e riflettere nei giorni che avevamo appena trascorsi. Quando una famiglia che si trovava nei paraggi ci ha sentiti ci ha offerto il suo materassino come altare e io ho deciso di accettare.

Non era assolutamente mia intenzione banalizzare l’Eucarestia né utilizzarla per altri messaggi di qualunque tipo, si trattava semplicemente della Messa a conclusione di una settimana di lavoro con i ragazzi che hanno partecipato al Campo e il contesto del gruppo (ragazzi che per una settimana hanno celebrato e lavorato con me) mi è sembrato sufficientemente preparato per custodire la sacralità del Sacramento anche nella semplicità e nella povertà dei mezzi.

Ma i simboli sono forti, è vero, e parlano, a volte anche in maniera diversa da come vorremmo. É stato ingenuo da parte mia non dare loro il giusto peso.

Vi assicuro che non sono mancate l’attenzione e la custodia alla Parola e all’Eucarestia, ma fuori contesto la forma è più eloquente della sostanza e un momento di preghiera vissuto con intensità e significato dai ragazzi lì presenti ha urtato la Fede di molti: ne sono profondamente amareggiato.

Leggendo il bellissimo comunicato della Diocesi di Crotone e Santa Severina, rilanciato anche dalla nostra (Riscoprire la bellezza dei simboli liturgici), riconosco di aver mancato nell’attenzione necessaria alla valorizzazione di un Mistero così grande e così indegnamente affidato alle nostre umili mani. Ho sempre vissuto la celebrazione eucaristica con profonda consapevolezza dell’immenso Mistero di amore che esso cela e veicola e in otto anni di ordinazione quella è stata la prima volta che non ho indossato almeno camice e stola. Ma mi rendo conto che anche solo una volta è di troppo.

Chiedo umilmente scusa dal profondo del cuore anche per la confusione generata dalla diffusione mediatica della notizia e delle immagini: non era assolutamente mia intenzione che avesse tale risalto, tanto che per la celebrazione avevamo scelto un luogo inizialmente isolato e lontano dagli ombrelloni (anche se poi qualche persona, avendoci visti da lontano, si è aggiunta alla celebrazione).

Nella Messa che lunedì pomeriggio ho celebrato in chiesa in parrocchia a San Luigi ho chiesto perdono al Signore per la mia superficialità che ha fatto soffrire tanti.

Spero che possiate comprendere le mie buone intenzioni, macchiate da troppa ingenuità, e accettare la mia sincera richiesta di perdono.

Con una preghiera per la nostra Chiesa e per tutti noi,

don Mattia

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:36 pm | | Default

La distruzione di Ronciglione da parte dei rivoluzionari francesi nel 1799, scesi in Italia per assalire lo Stato pontificio

Riprendiamo un brano da S. Quilici (a cura di), con testi di S. Quilici e V. Berneschi, Ronciglione e il lago di Vico itinerari turistici, Roma, Palombi Editori, 2011, p. 54, rimandando anche agli studi del Centro Ricerche e Studi di Ronciglione. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Rivoluzione francese.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

Nel corso del 1799 i moti antifrancesi della prima Repubblica Romana sconvolsero la quotidiana tranquillità di Ronciglione. Con atto tanto incosciente quanto eroico, infatti, i suoi cittadini insorsero contro l’esercito francese che in quegli anni stava per conquistare la maggior parte d’Europa.

Dopo aver deliberato l’occupazione dello Stato Pontificio, il Direttorio di Parigi inviò a Roma un’armata, parte della quale il 16 febbraio 1798 passò per Ronciglione, dove piantò l’albero della libertà nell’allora piazza della Nave. Poco dopo, deportato Papa Pio VI e proclamata a Roma la Repubblica Tiberina, si insediò a Ronciglione una amministrazione repubblicana che accese, in un primo momento, gli entusiasmi di parte della popolazione.

Ma ben presto i ronciglionesi si accorsero che la Repubblica non manteneva le promesse fatte e abbatterono l’albero della libertà. Qualcuno osò addirittura sparare contro una colonna dell’esercito francese comandata dal Generale Kelleman.

Questi non tardò a scatenare la rappresaglia con un saccheggio della città che ebbe come solo risultato quello di scatenare un sentimento antifrancese nella popolazione e che aprì la strada alla resistenza ronciglionese contro l’esercito francese, di nuovo di passaggio a Ronciglione il 27 luglio 1799.

La rappresaglia straniera per l’affronto subito, che fu guidata da due famiglie locali rivali che colsero l’occasione per tentare di assumere il predominio sulla città, ebbe esiti disastrosi. L’incendio appiccato dalle truppe francesi comandate dal Generale Valterre, che divampò dal 28 al 30 luglio 1799,fu violentissimo: provocò 82 morti, tra cui quattro canonici e due sacerdoti, distrusse 174 edifici, comprese le case dei più facoltosi cittadini, e mandò in fumo l’altare Maggiore e il Tabernacolo Eucaristico del Duomo e l’intero Palazzo Camerale a Montecavallo, che non fu più ricostruito.

Durante l’incendio furono depredate inoltre le suppellettili delle principali chiese e confraternite, date alle fiamme le carte dell’Archivio Capitolare e di quelli Comunale e dello Stato di Ronciglione.

Partiti i francesi, tre giorni dopo arrivarono in città numerosi briganti che svaligiarono qualche magazzino e, non trovando molto da depredare, atterrarono l’albero della libertà che era stato di nuovo innalzato dai francesi.

Il colpo assestato a Ronciglione con l’incendio da parte dei giacobini francesi fu così forte ed ebbe ripercussioni talmente gravi in tutti i settori amministrativi ed economici, che da allora iniziò un profondo declino dal quale la città nel corso dell’Ottocento, nonostante l’imponente opera di ricostruzione, non si è più pienamente ripresa

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:33 pm | | Default

1/ La famiglia secondo l’Istat 2022: single, coppie senza figli e trentenni ancora “in casa”, di Erika Riggi 2/ Il libro nero dell'Istat. Italia sempre più povera, un lavoratore su tre incassa meno di mille euro lordi, di Carmine Di Niro

1/ La famiglia secondo l’Istat 2022: single, coppie senza figli e trentenni ancora “in casa”, di Erika Riggi

Riprendiamo da Io Donna dell’8/7/2022 (https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2022/07/08/la-famiglia-italiana-secondo-listat-single-coppie-senza-figli-e-trentenni-ancora-in-casa/) alcuni brani di un articolo di Erika Riggi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

[…]

Coppie non coniugate, nuclei ricostituiti, single e monogenitori (anche con figlio trentenne in casa) sono tutte tipologie in crescita. È la fotografia della famiglia italiana del Rapporto Istat 2022, giunto alla trentesima edizione.

L’Italia, il Paese dei single

Aumentano, dunque, le famiglie composte da una sola persona che passano da 24 a 33,2% (8,5 milioni di persone). E anche quelle con un solo genitore e figli (quasi una su dieci). Se nel Nord-est le persone sole e le coppie con figli già si equivalgono (ciascuna il 30% del totale), nel Centro e nel Nord-ovest prevalgono le famiglie unipersonali (36% contro 28% circa delle coppie con figli) mentre nel Mezzogiorno risultano ancora preponderanti le coppie con figli (circa 36% contro circa 30% delle persone sole).

Proseguendo queste tendenze, nel 2040 quasi 4 famiglie su 10 potrebbero essere costituite da persone sole, soprattutto anziani. E le coppie senza figli potrebbero numericamente sorpassare quelle con figli entro il successivo quinquennio.

Vita da soli, figli, lavoro: si fa tutto più tardi

Tutte le tappe cruciali della vita slittano in avanti. Così la stragrande maggioranza dei giovani, 67,6%, non esce di casa fino a tarda età (oltre 7 milioni di 18-34enni vivono ancora coi genitori, mentre la media Ue è di uno su due).

[…]

2/ Il libro nero dell'Istat. Italia sempre più povera, un lavoratore su tre incassa meno di mille euro lordi, di Carmine Di Niro 

Riprendiamo da Il Riformista dell’8/7/2022 alcuni brani di un articolo di Carmine Di Niro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

È un quadro a tinte fosche quello che emerge dal rapporto annuale dell’Istat sullo stato dell’Italia. Il problema più sentito è quello economico, ovviamente: i poveri crescono mentre gli stipendi sono inchiodati al palo, col Parlamento e i partiti che dibattono ormai da mesi su taglio del cuneo fiscale, bonus vari, salario minimo e riforma del Reddito di cittadinanza.

Ovviamente a fare impressione sono i numeri snocciolati nel rapporto Istat. Uno più di tutti: rispetto al 2005, ben 17 anni fa, le persone che vivono in condizione di povertà assoluta sono tre volte di più, passando da 1,9 milioni a 5,6 milioni del 2021.

[…]

Ma l’altro fronte che emerge chiaramente dai dati pubblicati dall’istituto nazionale di statistica è quello del cosiddetto “lavoro povero” nel settore privato. Escludendo i lavoratori nell’agricoltura e quelli domestici, dai numeri viene fuori che quasi un lavoratore su tre (il 29,5%) ha una retribuzione lorda l’anno inferiore a 12mila euro, mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti (il 9,4%) la retribuzione oraria è inferiore a 8,41 euro l’ora.

[…]

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:32 pm | | Default

Aborto, Vittorio Feltri racconta tutto: "Quella volta che io...", drammatica confessione

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Vittorio Feltri pubblicato su Libero (https://www.liberoquotidiano.it/news/commenti-e-opinioni/32175698/aborto-vittorio-feltri-racconta-tutto-quella-volta-che-io-confessione.html) il 26/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

Se avesse portato a termine la gravidanza, con il quarto pargolo, non avrebbe più potuto continuare la sua attività importante presso un ente pubblico, l'Amministrazione provinciale. Sorse in me e anche in lei l'idea dell'aborto il quale però non era ancora stato reso lecito.

Che fare? Possiamo andare in Svizzera, pensammo. Presi contatto con una struttura elvetica e mi accordai anche sulla data dell'intervento. Avvicinandosi la quale io e la mia consorte cominciammo ad avere titubanze che crebbero quotidianamente.

SCELTA GIUSTA? Non discutevamo d'altro in casa mia mentre la pancia di Enoe (mia moglie) non faceva che crescere.

Una sera ero un po' nervoso, anzi turbato, lei mi interrogò, la solita domanda imbarazzante: ma sei sicuro che la nostra scelta sia quella giusta?

Risposi: certamente amore, sono sicuro che stiamo facendo una incredibile puttanata. Enoe annuì e si mise a singhiozzare. Non riusciva a digerire la situazione che si andava profilando.

Le presi la mano e gliela accarezzai, poi le sussurrai mentre il mio cuore sobbalzava: senti amore mio, a me i bambini hanno sempre portato fortuna, ho un lavoro importante e ben retribuito, rinunceremo al tuo stipendio, io mi adopererò per non far mancare nulla alla mia famiglia. Teniamoci anche questo quarto rompicoglioni e che sia finita ogni tribolazione.

Ci abbracciammo come due sposini, poi disdissi l'appuntamento svizzero e provai un sollievo liberatorio. Basta col tormento che mi procurava l'ipotesi di stroncare una creaturina che non era neanche in grado di opporsi e di protestare.

L'abbiamo concepita ed è nostro dovere farla nascere nel migliore dei modi e provvedere a lei come abbiamo fatto con gli altri tre bambini a cui ci dedichiamo con tutto il nostro impegno. La gestazione filò liscia fino all'ultimo giorno quando Enoe ebbe le doglie. Senza tentennare la caricai in macchina e la condussi di fretta all'ospedale. La ricoverarono immediatamente mentre io mi intrattenni negli uffici amministrativi per il disbrigo delle pratiche burocratiche.

IL MIRACOLO Quando risalii nel reparto mi venne incontro una giovane infermiera che teneva tra le braccia un fagottino: con entusiasmo mi disse, ecco è nata la sua bambina. Guardai la piccola come si osserva un gioiello. Mi sembrava un miracolo. E pensare che aveva rischiato di finire in un bidone della spazzatura.

La presi in braccio un attimo con titubanza, avevo paura di rovinarla, invece lei mi sorrise, anche se nessuno crede, ogni volta che racconto questo dettaglio, che una neonata sia già allegra.

Oggi mia figlia ha 50 anni, due lauree, gestisce una farmacia, ha un figlio grande, e quando spesso viene a trovarmi la rivedo come il giorno che era appena uscita dal grembo materno. Lei non sa che sono stato sul punto di ucciderla.

Allorché leggo sui giornali che la gente si lamenta perché in Italia le culle sono vuote, penso che l'aborto abbia contribuito a svuotarle.

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:31 pm | | Default

Lorenzo Valla, canonico lateranense, le sue ricerche sulla Donazione di Costantino e la sua tomba in Laterano, di Federico Corrubolo

Riprendiamo sul nostro sito, per gentile concessione, un testo di  Federico Corrubolo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Storia e Filosofia. Cfr., in particolare, A. Lonardo, Lorenzo Valla e la dimostrazione della falsità della Donazione di Costantino: brevi note storiche in forma di recensione ad un volume di Giovanni Maria Vian.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

S. Giovanni in Laterano, lapide 
tombale di Lorenzo Valla (Chiostro)

Ecco come riassume la vita di Lorenzo Valla Gian Maria Vian nel suo volume La Donazione di Costantino (Bologna, 2004):

«la vita e opere dell'intellettuale romano trovarono nella critica enfatizzata e spesso violentemente polemica il loro denominatore comune: un «attaccabrighe» (homo rixosus) lo definirà senza mezzi termini un secolo dopo il riformatore Filippo Melantone. Lasciata nel 1431 Roma per l’impossibilità di assumere un incarico curiale a causa dell’ostilità di altri umanisti - con i quali naturalmente era entrato in contrasto - Valla si trasferì a Piacenza e poi all’università di Pavia, […] passò a Milano, poi a Genova e a Firenze, approdando finalmente nel 1435 alla corte napoletana di Alfonso V di Aragona, al servizio del sovrano, che proprio allora avviò una politica di contrapposizione al papa […]. Al Concilio di Basilea già Niccolò Cusano (1401-1464) aveva presentato nel 1433 un’opera, il De concordantia catholica, che fin dal titolo esprimeva la sua intenzione volta a superare i laceranti contrasti nel mondo cristiano e a ricercare al suo interno una conciliazione armonica tra il papa e l’imperatore, […] era perciò indispensabile riallacciarsi alle tradizioni ecclesiastiche più autorevoli e di sbarazzarsi invece di quelle meno antiche e insostenibili, tra le quali... la donazione costantiniana. […] Niccolò Cusano si limita a sottolineare che il racconto della donazione dipende dalla storia di San Silvestro, cioè da un testo anonimo e certo non autorevole, che è inconciliabile con le notizie attestate da fonti antiche ben più attendibili, come il Chronicon di san Girolamo, con il suo giudizio fortemente negativo del primo imperatore cristiano» (Vian, 2004, 118-119).

Valla scrisse nel 1440 con tutt’altro spirito Il De falso credita et ementita Constantini donatione, […] che esordisce con l'esibizione, insistita in prima persona, dei suoi intenti (e meriti) critici, vera e propria chiave di lettura dell'opera: «Molti, anzi moltissimi sono i libri da me scritti in quasi tutti i campi del sapere dove io dissento da quanto hanno affermato alcuni autori, grandi e ormai da lungo tempo apprezzati».

Valla inizia sottolineando l'inverosimiglianza della donazione: quale sovrano, al posto di Costantino, l’avrebbe fatta, rinunciando a Roma e a tutto l’Occidente? […] per chi la sostiene spiegandola come segno di riconoscenza per la guarigione dalla lebbra la risposta è ancora più netta (e filologicamente sottile): questa è una favola derivata dalla storia biblica di Naaman, risanato da Eliseo, proprio come quella del drago, a sua volta ricalcata sulla leggenda del drago fatto morire dal profeta Daniele...

Enumera quindi nei più minuti dettagli varie incongruenze. Tra queste la concessione alla sede romana del primato, ricevuto da Cristo, da parte di un Costantino appena convertito, l’inclusione di Costantinopoli tra le sedi patriarcali prima della fondazione della città e la menzione delle basiliche romane dedicate a Pietro e a Paolo prima ancora che venissero edificate...

Valla rientrò a Roma nel 1448 e sotto i due successori di Eugenio IV, entrambi a lui favorevoli – l’umanista Niccolò V e Callisto III, Alfonso Borgia, già suo collega a Napoli, divenne canonico di san Giovanni e poté dedicarsi con più tranquillità all’insegnamento universitario e ai suoi studi, fino alla morte avvenuta nel 1457.

La tomba di Lorenzo Valla era in realtà nel peribolo intorno all’abside, accanto alla tavola di bronzo fatta da Cola di Rienzo nel 1346 con la lex de imperio Vespasiani e finita in basilica alla caduta del suo governo.

Una stampa di Tobias Fendt del 1574 raffigura la tomba di Valla quando era ancora al suo posto in Basilica

Peribolo dell’abside (disegno di M. Van Heemskerk 1535; 
Berlino, Kupferstichkabinett) e pianta della Basilica
nel 1646 (Vienna, Bibl. Albertina. AZ Rom 373a)
Tobias Fendt, Tomba di Lorenzo Valla a San Giovanni in Laterano, 
in Monumenta sepulcrorum cum epigraphis ingenio
et doctrina excellentium virorum, Breslau, 1574, XXVI.

Nella prima edizione a stampa del De falso credita, apparsa il 15 marzo 1506 a Strasburgo si legge un commento emblematico: “Valla ha detto il vero dimostrando falsa la donazione di Costantino, ma ha inveito contro il romano pontefice in modo troppo protervo, troppo arrogante e, a dire la verità, troppo bestiale (nimium bestialiter). Se si fosse espresso con più moderazione, questo libretto potrebbe essere approvato dal diritto della legge”. (Vian 2004, 119-121).

Nel 1520, l'opera di Valla fu ristampata a Basilea come parte del De donatione Constantini quid veri habeat di Ulrich von Hutten, umanista tedesco schierato con Roma ma molto polemico nei confronti della Chiesa.

Di lì iniziò la sua fortuna in campo protestante. Nel 1547, Agostino Steuco pubblicò una smentita alle tesi di Valla (Contra Laurentium Vallam de falsa donatione Constantini libri duo). La Donazione non poteva essere un falso tardivo, perché ne esistevano versioni greche che secondo Steuco potevano risalire al IV secolo d.C., l’epoca di Costantino. Anche se il greco si tornava a leggere, mancava però una conoscenza approfondita della stilistica. Il testo greco della donazione risale in realtà al sec. IX-X.

Nel 1564 Valla finì nell'Index auctorum et librorum prohibitorum. Nel 1583 Gregorio XIII poi riaffermò l’autenticità della Donazione di Costantino facendone affrescare varie scene nella sala delle carte geografiche in Vaticano.

Nel 1576 Gregorio XIII fece spostare la tavola bronzea di Cola di Rienzo dal peribolo di San Giovanni al Campidoglio, dopo avervi trasferito il governo civile di Roma. Quasi certamente la tomba di Valla fu rimossa in quella circostanza e la lapide fu spostata nel Chiostro. Parte della lapide venne impiegata come materiale di rinforzo per i lavori del Palazzo del Laterano. Rimase nel chiostro solo la parte superiore.

Nel 1588 Erno van Buchel, un seminarista olandese cerca invano in Basilica la tomba di Valla ed apprende che è stata rimossa a motivo della sua opera sulla donazione di Costantino. Si trattava dunque di una damnatio memoriae. Le sue opere erano state considerate vantaggiose per i protestanti, fornendo argomenti a sostegno delle loro critiche alla Chiesa in generale e al papato in particolare. Il problema teologico ed ecclesiologico era il fondamento del potere temporale del Papato: conferito da Cristo a Pietro e ratificato da Costantino con la consegna dell’Impero oppure del tutto indipendente dal potere dell’Impero?

Nella Controriforma prevalse la prima ipotesi: tutto il potere, anche quello civile, era stato dato al Papa. La dimostrazione della fragilità storica intrinseca della Donazione aveva convinto i più grandi intellettuali della Chiesa di quel tempo, Cesare Baronio e Roberto Bellarmino a non aderire alla linea ufficiale del papato che presto fu abbandonata.

Se Sisto V (1585-1590) nel Palazzo del Laterano ritrae ancora Costantino che consegna il documento sulla tomba di Pietro, già nel transetto di Clemente VIII (1592-1605) il documento non appare più, e Costantino consegna solo doni votivi.

Soltanto durante la Restaurazione si pensò di riabilitare la memoria di Lorenzo Valla, rileggendone la figura e l’opera. Francesco Cancellieri era un dotto studioso di storia (1751-1826), una classica figura di erudito impegnato nello studio e nella classificazione delle antichità romane, in una prospettiva di esaltazione della potestà papale e del governo pontificio come prosecutore e conservatore della vocazione universalistica della città.

Emblematica è la sua opera che descrive le cerimonie pontificie e cardinalizie, uscita nel 1796. Come tutti gli uomini della sua generazione vide l’attacco rivoluzionario allo Stato della Chiesa sia nel 1798 che nel 1809-1814.

Nominato canonico di san Giovanni nel 1801, accompagnò Pio VII all’incoronazione di Napoleone nel 1804. Nella Restaurazione, affermatosi a partire dallo “stile impero” napoleonico il gusto neoclassico, la sua erudizione antiquaria e “romanistica” cadde in discredito.

Fu allora che probabilmente Lorenzo Valla gli apparve, oltrechè come suo predecessore nel canonicato lateranense, come colui che aveva dimostrato l’indipendenza della Chiesa dal potere civile; questa fu forse la molla che spinse ad onorarne la memoria, in un tempo in cui il potere civile aveva minacciato di annientare la Chiesa stessa.

Lesse l’opera di Onofrio Panvinio che nel 1570 aveva visto tomba e lapide di Valla: Panvinio diceva che Valla era stato sepolto a terra, la sua pietra tombale lo ritraeva a figura intera con un’iscrizione che Panvinio aveva ricopiato.

Cancellieri aveva letto pure la descrizione di San Giovanni scritta da Giovanni Mario Crescimbeni, il quale nel 1723 sosteneva che Valla era stato sepolto nel transetto; ma Crescimbeni equivocò Panvinio che invece indicava il peribolo circolare alle spalle dell’abside nell’antica basilica come luogo della sepoltura: e Cancellieri lo seguì nell’errore.

Quando trovò nel chiostro una pietra tombale di una sepoltura a terra, che ritraeva un uomo vestito a figura intera con un abito quattrocentesco, si convinse di aver ritrovato la lapide di Valla. Fece rifare la tomba nel “luogo originario”, mettendo su una lapide l’iscrizione copiata da Panvinio (Diario di Roma del 29 ottobre 1825, no. 86, pp. 19–21).

A LORENZO VALLA, FIGLIO DI LUCA, NATO A ROMA, MA ORIGINARIO DI PIACENZA, SCRIBA APOSTOLICO DI NICOLA V, SEGRETARIO DI CALLISTO III, E UFFICIALMENTE PROCLAMATO CANONICO DELLA BASILICA LATERANENSE, CHE VISSE CIRCA 51 ANNI [E] MORÌ IL 1 ° AGOSTO 1457. PER CONSERVARE LA MEMORIA DI QUEST'UOMO ERUDITISSIMO, FU ERETTA [UNA TOMBA] DA CATARINA SCRIBANI DI PIACENZA, SUA MADRE, NEL TERRENO FUORI DALLA CAPPELLA DEL PRESEPE, E DAL 1600 FU CONSERVATA NEL CHIOSTRO. FRANCESCO CANCELLIERI, DA ROMA, NELL'ANNO SANTO 1825, CURÒ DI PORLA CON ONORE ALL'INTERNO DELLA STESSA CAPPELLA, ESSENDO DECANO ARCIPRETE L'EMINENTISSIMO CARDINALE GIULIO MARIA DELLA SOMAGLIA [E] FRANCESCO MARAZZANO VISCONTI, PREFETTO DEI SACRI PALAZZI EMINENTI PERSONALITÀ PIACENTINE

Cancellieri morì nel 1826. I primi dubbi sul suo lavoro cominciarono alla fine dell’Ottocento. Il suo intento di ricordare Valla come demolitore dell’influsso del potere civile sulla Chiesa era fallito. Lorenzo Valla era stato ripescato dalla cultura anticlericale europea nella seconda metà del secolo così come lo era stato nell’età protestante.

Così ricorda Gian Maria Vian: Nel 1861 Johann Friedrich Schröder aveva pubblicato un libello polemico sulla storia dei papi con lo pseudonimo «Lorenzo Valla II», nel 1877 John Addington Symonds aveva definito l'umanista un Davide opposto «al Golia della Chiesa» che per primo ne aveva assalito la «tradizione tirannica nel mondo moderno» e nel 1879 Alcide Bonneau - editore di testi rari ed erotici - tradusse in francese lo scritto di Valla, premettendogli uno studio aspramente polemico. In Italia fu l'anticlericalismo risorgimentale ad alimentare dopo la presa di Roma gli studi su Valla, da quello di Alessandro Paoli nel 1872 ai contributi biografici di Luciano Barozzi e di Girolamo Mancini, pubblicati entrambi nel 1891, sino alla traduzione di Giovanni Vincenti del 1895, seguita mezzo secolo più tardi da quella edita con prefazione di Gabriele Pepe, ultimo discendente di questo indirizzo storiografico militante. «Se l'Italia attuando il disegno del Valla avesse infranto allora il duplice giogo papale, quanti dolori non avrebbe evitato!», esclamava Barozzi, consolato però dagli eventi recenti: «Noi d'altra parte vedemmo gli ultimi avanzi di questa vecchia istituzione cader sotto i colpi dell'umano incivilimento. Ecco perché il vecchio umanista sorge ora dall'oblio in tutto il suo splendore». E anche Mancini si diceva convinto che il potere temporale «riuscì sempre a scindere la morale dalla fede, la civiltà dalla religione» e sicuro che «le aspirazioni del Valla divennero realtà dopo 430 anni, il 20 settembre 1870». (Vian, 2004, 205-206).

Nel 1891 Girolamo Mancini nella sua biografia di Lorenzo Valla fece notare che lo scultore della pietra tombale era “mediocre” e raccogliendo notizie sulla statura di Valla notò una certa differenza fra la lunghezza della tomba e quella della statura di altri suoi presunti ritratti. Nel 1910, Gerald S. Davies, nel suo monumentale studio delle tombe scolpite del XV secolo a Roma affermò senza esitazione che la statua rappresentasse Valla. Era un po' perplesso, però, dall'abbigliamento della figura. Se il defunto era uno studioso, si chiedeva, perché indossava una berretta e un colletto con tagli, come appare sull'abito dei primi “senatori” di Roma nel secolo XIV – XV? Solo nel 1911 lo studioso Philippe Lauer scoprì la stampa di Fendt che nel 1574 aveva visto per ultimo la tomba intera. A quel punto fu chiaro che il moncone marmoreo rimasto nel chiostro dopo i lavori della fine del ‘500 era tutto ciò che rimaneva della vera tomba di Lorenzo Valla.

In conclusione, il canonico di San Giovanni che scoprì la falsità della donazione di Costantino fu onorato dopo circa quattro secoli con una tomba falsa… Che è anch’essa una fonte storica!

Bibliografia

- Jan L. de Jong, De Sepulcro Laurentii Vallae quid veri habeat. Tracing the Tomb Monument of Lorenzo Valla in St. John Lateran, Rome in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 94 (2014), 94-128. https://perspectivia.net/receive/ploneimport4_mods_00001210

- A. Lonardo, Lorenzo Valla e la dimostrazione della falsità della Donazione di Costantino: brevi note storiche in forma di recensione ad un volume di Giovanni Maria Vian, Roma, 2005. https://www.gliscritti.it/approf/2007/saggi/lvalla/lvalla.htm#sdfootnote9sym

- A. Petrucci, voce Cancellieri Francesco in Dizionario biografico degli italiani, https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-cancellieri_(Dizionario-Biografico)/

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:30 pm | | Default

Pier Paolo Pasolini: «Una domanda a cui non so rispondere». Nostalgia del cristianesimo. Passione e morte. Come se, con le lucciole che scompaiono davanti al cemento delle città, possa morire anche quell’antica tradizione, legata al «paese di temporali e primule», alla civiltà contadina. Alcuni brani di Pier Paolo Pasolini, lo scrittore scomparso nel 1999, di Fabio Pierangeli

Riprendiamo un articolo da 30Giorni (n. 11/2000). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, cfr. su questo stesso sito la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2022)

«Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, / dalle chiese, / dalle pale d’altare, / dai borghi [...] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»[1] (Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa).

Non poco dell’opera di Pier Paolo Pasolini (nato a Bologna nel 1922, ma dove visse alcuni anni fino al 1950) attinge a queste immagini:

«Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, / mai fui così volgare come in questa ansia, / questo “non avere Cristo” – una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine» (Poesia in forma di rosa).

Lontanissima eco di quel paese religioso, Pasolini la riconosce, fino alla metà degli anni Sessanta, nelle strade violente della borgata romana. Era arrivato nella capitale nel 1950, in misere condizioni economiche. Aveva dapprima abitato nel ghetto ebraico, a piazza Costaguti, poi nelle borgate accanto all’Aniene e in seguito, una volta risolti i problemi economici, a Monteverde.

«Stella, stella guidaci nel cammino», dice Accattone, nel film omonimo, incontrando per la prima volta la ragazza (attrice friulana) che porta quel nome. Il suo sguardo, rivolto alla bionda Stella, smagato, furbetto, rassegnato, malizioso conserva per il regista una qualche autenticità creaturale, estranea alla grande omologazione. Non a caso Pasolini prova a più riprese ad ambientare tra quelle baracche, specie al Mandrione, nella Mortaccia e poi nella Divina mimesis, un poema, sulle tracce della Divina Commedia, omaggio all’amatissimo Dante. Non ci riuscirà.

Al di fuori di questo mondo del sottoproletariato, l’orribile e «volgare» mancanza si avverte a tutti i livelli, creando abnormi situazioni di noia e crudeltà. Come nelle sei tragedie, culmine, sia pur artisticamente debole, della violenta critica al mondo borghese, alla società del capitale e dell’interesse.

L’uomo è solo con se stesso, onnipotente, macabro, orgoglioso. Squallidamente annoiato dalle sue trasgressioni, come in Orgia. La ragione diventa follia, fissazione su un particolare, magari del passato, che non ritorna come si vorrebbe, non avendo più alcuna apertura alla realtà delle cose, come nel rapporto tra padre e figlio in Affabulazione. Niente accade di nuovo: è il segno del «vuoto volgare» che nei più intelligenti personaggi di Pasolini diviene appunto nostalgia di un avvenimento presente di novità.

Già riassuntivi i versi del poemetto Pietro II, del 1963, poi raccolti in Poesia in forma di rosa:
«Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca, / la ceralacca polvere, la polvere omissis. / Non una parola, o un accenno, o uno sguardo, / ah, uno sguardo, sono cristiani, per chi / ha l’abitudine, poco civile, certo, e un po’ angosciosa, / di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda. / Ah, dolce religione, del resto tante volte tradita, / nell’uomo in cui ti sei inaridita, nasce la pazzia [...] L’io soffre / un’inestetica erezione: ha per sé un amore infelice [...] Dove il Cristianesimo / non rinasce, marcisce. E, contraddizione / mille volte, mille volte allusa / dal mio Cristo irriducibile, / finisce difeso da qualche Erodiano impazzito / macabramente privo di senso del ridicolo».

Del 1968 è Teorema, film e romanzo, ambientato a Milano. Pasolini pretende di inventare lui un dio carnale, l’Ospite. Anche artisticamente è fuori strada. La figura rimane irrisolta, la favola illusoria. Meglio riuscita la seconda parte, dove i personaggi, abbandonati dal dio che li aveva posseduti carnalmente, recitano diversamente la loro malinconia, fino a capire di abitare il deserto, pieni di una domanda, di un urlo straziante:

«IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. / [...] È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo».
Invocare l’attenzione di qualcuno che non si conosce e di cui si avverte il desiderio e la nostalgia. Dei movimenti e delle situazioni del romanzo l’urlo qui richiamato è ciò che resta più impresso.
Nel film Teorema le immagini rendono ancor più plasticamente la potenza dell’urlo finale. Sono fotogrammi che richiamano un altro finale quello del Vangelo secondo Matteo, racconto fedele di un fatto storico.

Nei finali dei due film citati la cinepresa sorprende il correre di uomini; la corsa solitaria e disperata di Paolo, protagonista di Teorema, nella cui pelle traspare la sabbia del deserto e il riflesso della luce, cielo e sudore, e la cui voce consegna al vento l’urlo disperato, anche oltre la parola fine. E la corsa stupita degli apostoli verso Gesù Cristo risorto che pronuncia una frase affascinante e commovente che abbraccia e dà respiro, completamente sorprendendola, alla genialità poetica dell’uomo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Quello che interessa è solo il presente.
«Caro Dio, / liberaci dal pensiero del domani [...] Caro Dio, / l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani [...] Caro Dio, / facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi» (Preghiera su commissione, in Trasumanar e organizzar).

«Dà angoscia il vivere di un consumato amore» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci), o di una rappresentazione, di una favola, di un sublime racconto (di fronte a cui è più sincera la ragione goliardica dei film picareschi, fino alla boccaccesca Trilogia della vita). Pasolini è come se volesse rivivere gli incontri evangelici in prima persona, chiamando amici e scrittori intorno a sé a recitare quell’evento. Perfino la madre dello scrittore interpreta la Madonna nel Vangelo secondo Matteo.

In una lettera del 27 dicembre 1964 a don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi, visitando la quale trovò spunto per il Vangelo secondo Matteo[2], Pasolini scrive:

«Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere».

La Grazia: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Anche oggi, in un mondo in cui la grande omologazione, venticinque anni dopo quella notte tra il 1º e il 2 novembre all’idroscalo tra Ostia e Fiumicino in cui Pasolini fu ucciso, è trionfante.
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore»: profonda e poetica saggezza umana. Attesa. Lo ha scritto Patrizio Barbaro. In Pier Paolo Pasolini

Biografia per immagini:
«“La vita finisce dove comincia”, ha scritto Pasolini. È una speranza. La vita comincia quando vi irrompe una novità bella e felice, una cosa imprevedibile e inaspettata. Allora la vita comincia nuova e tutto quello che c’era prima diventa subito irrimediabilmente vecchio, passato, nostalgia. Finisce. Ecco perché la vita finisce dove comincia. È un augurio. Che la vita cominci. Che accada un inizio» (p. 192).

Credo che Patrizio (scomparso nel ’99, il 29 settembre, come papa Luciani) ci guardi dal Paradiso.
Amava (ama) la realtà, il presente. E quindi Pasolini e i poeti. Non viceversa. Grato di quel dono semplice di aver intravisto nello sguardo di un amico l’accenno di una luce e di una speranza, anche dentro il tempo della malattia.

Poco prima di morire, sapendo di morire, ha scritto queste altre parole, sullo sguardo («ah, uno sguardo»), tema caro al cinema di Pasolini:

«L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La visione può essere simmetrica lineare o parallela in perfetto affiancamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c’è dubbio [...]. Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio».

Note al testo

[1] La poesia è letta da Orson Welles nella Ricotta di fronte ad un giornalista.

[2] Si veda a questo proposito la testimonianza di Lucio Caruso su 30Giorni del novembre 1994.

Redazione de Gliscritti | Domenica 31 Luglio 2022 - 9:29 pm | | Default

Animula vagula blandula, piccola anima che andrai vagando languida. L’ode dei diminutivi in morte di Adriano, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Storia romana.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

L’imperatore Adriano pronunciò in punto di morte la famosa ode

Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos
(Historia Augusta, Vita di Adriano, XXV, 9)

rivolgendosi alla propria anima e dandole come il proprio congedo[1].

Si deve innanzitutto notare che tale componimento poetico è composto da diminutivi. Già questa scelta è estremamente indicativa: resterà una “piccola anima” dopo la morte, ma appunto tale anima sarà “piccola”, “diminuita”, rispetto alla vita, essa invece grande e piena.

È la visione dell’aldilà tipica del mondo classico, con accenti però tipicamente ellenistici.

Adriano si domanda sull’eternità e la vede in diminuendo, rispetto allo splendore della vita. Anche egli, l’imperatore, deve affrontare la morte come tutti e la morte è un destino languido per l’anima che diviene piccola, che esce dalla morte immiserita.

Come ha ben scritto Andreoni Fontecedro, gli aggettivi che seguono vanno interpretati nella stessa direzione: “vagula”, cioè che “andrà vagando”, che sarà ormai “errante”, “blandula”, cioè “languida”, “senza più quel colore”, quel colore che solo la vita terrena permetteva.

Secondo la latinista e traduttrice si può ben pensare che il terzo verso vada interpretato con l’apposizione di un interrogativo finale (come è noto i testi antichi non avevano punteggiatura ed essa è sempre da ricostruire): “Dove ora te ne andrai piccola anima?”

È la dimensione dell’incertezza, dell’ignoto, che caratterizza il componimento. L’anima sarà ancora viva di una vita indebolita e dove sarà da quel momento in poi? Se prima era “ospite e compagna del corpo”, ora non è dato più sapere dove sarà.

Andreoni Fontecedro[2] sottolinea ancora come la terminologia utilizzata sottende la filosofia di Plutarco che aveva scritto di una tripartizione dell’uomo «che subisce una prima morte quando lascia il suo corpo alla terra, la seconda quando abbandona la sua anima, fonte delle emozioni, sulla Luna, e infine la terza morte quando il suo Nus (o mens, il principio intellettivo) si confonde nel Sole».

Ma certo, è tutto un degradare e non un giungere a pienezza.

E, infatti, i nuovi diminutivi lo confermano: “pallidula”, perché manca ormai la luce, cioè svuotata del colore che dava la vita nella carne, “rigida”, da interpretare secondo Andreoni Fontecedro come “intirizzita”, “fredda”, ormai “senza calore”, “nudula”, cioè “denudata”, “spogliata”, certo nel senso che solo ora senza il corpo si vedono fino in fondo il male e il bene compiuti per il giudizio che si compie alla fine della vita, ma anche “nuda” nel senso di “povera”.

La chiusa conferma tale “diminuendo”: “né, come eri solita fare, darai più giocosità, darai più gioia”.

Se si legge, dunque, con attenzione l’“ultima” ode di Adriano, ci si accorge che vale fino ad un certo punto e in un senso preciso la famosa espressione che la Yourcenar cita dall’epistolario di Flaubert e dichiara essere chiave di lettura del suo Memorie di Adriano: «Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo»[3].

L’ode mostra come Adriano credesse all’eternità dell’anima e, quindi, anche alla presenza delle divinità, ma questo destino era per lui ormai impenetrabile e incapace di riscaldare il cuore. Esisteva sì una continuità di vita, ma lontana, povera rispetto alla vita terrena.

Viene in mente un’iscrizione greca rinvenuta a Roma e risalente al III-IV sec. d.C. scritta per il sepolcro di un fanciullo che i suoi genitori avevano già fatto “sacerdote” di tutti gli dèi: «In loro onore – dice di sé il defunto nell’epigrafe – sempre ho celebrato solennemente i misteri. Ma ora ho lasciato l’augusta e dolce luce del sole; perciò voi, iniziati o compagni d’ogni sorta di vita, dimenticate i sacri misteri, uno dopo l’altro; poiché nessuno può spezzare la trama del destino. E io, l’augusto Antonio, vissi (soltanto) sette anni e dodici giorni»[4].

O ancora l’altare cu fa riferimento Paolo negli Atti degli Apostoli dedicato ad un Dio ignoto, di cui esistono attestazioni in diversi sepolcri e are di età ellenistica, così come a Roma nel famoso altare di Caio Cestio[5].

Non si tratta, insomma, di un “uomo solo”, come aveva scritto Flaubert, bensì di chi si domanda del destino dell’anima dopo la morte, anima di cui l’autore crede l’immortalità, ma la crede “irrigidita”, in mano a divinità con poca vita.

Si comprende bene come, dinanzi a tale incertezza, già prima di Adriano e presso i suoi contemporanei, molti si rivolgessero ai culti misterici o al cristianesimo, per la languidezza del politeismo classico.

Se Adriano era un potente – e tale si riteneva e amava essere considerato, si pensi solo all’enorme mausoleo che pensò per sé  e per i suoi discendenti, perché il suo nome permanesse nei secoli – d’altro canto egli avvertiva al contempo che la morte avrebbe toccato lui, come già Antinoo. Il culto che gli decretò indica anch’esso una fede nelle divinità, ma al contempo la fuggevolezza di ogni affetto terreno: non il nulla attendeva gli uomini, ma un “denudamento” misterioso e inconoscibile.

La morte era anche per Adriano il grande problema su cui meditare e su cui poetare.

Note al testo

[1] Come è noto l’ode venne posta da M. Yourcenar in epigrafe al suo Memorie di Adriano.

[2] Si veda E. Andreoni Fontecedro, Animula vagula blandula: Adriano debitore di Plutarco, in “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, New Series, Vol. 55, No. 1 (1997), pp. 59-69, che annunciava anche ulteriori approfondimenti filologici in Atti del Colloquium Didacticum Classicum XV Salmaticense e in “Aufidus” 26, 1995. Cfr. anche E. Andreoni Fontecedro, Animula. I lettori moderni degli antichi, Roma, Kepos, 2008. Il rimando della studiosa è a Plutarco, De facie in orbe lunae.

[3] Nei Taccuini di appunti che seguono le Memorie di Adriano (in Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1988, p. 281), la prima intuizione dell’opera viene legata alla lettura nel 1927 di questo testo di Flaubert.

[4] Il testo è in Sergio Ribichini, Il rito segreto. Antichi culti misterici (disponibile on-line al link La crisi della religione pagane e di quella misterica nel tardo impero (da Sergio Ribichini)).

[5] Cfr. su questo L’altare “al dio ignoto” nel Museo Palatino di Roma.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:35 pm | | Default

Qualcosa che viene prima. «L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove», di don Luigi Giussani

Riprendiamo sul nostro sito un testo di don Luigi Giussani tratto dall’intervento da lui tenuto all’Assemblea responsabili, nel gennaio 1993 e ripubblicato l’1/11/2008 sul sito CLonline (https://it.clonline.org/tracce/pagina-uno/qualcosa-che-viene-prima). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Teologia pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

Vorrei brevemente accennare ora ai fattori determinanti e costitutivi di un “movimento”. Il primo fattore costitutivo di un movimento è l’imbattersi della persona in una diversità umana, in una realtà umana diversa.

Il movimento è il dilatarsi di un avvenimento, dell’avvenimento di Cristo. Ma come si dilata tale avvenimento? Qual è, cioè, il fenomeno iniziale, originale, per cui della gente rimane colpita e attratta e si coagula? È una catechesi - quello che noi chiamiamo “Scuola di comunità” -? No, ogni catechesi viene dopo, è strumento di sviluppo di qualcosa che viene prima.

La modalità con cui il movimento - l’avvenimento cristiano - diventa presente è l’imbattersi in una diversità umana, in una realtà umana diversa, che ci colpisce e ci attrae perché - sotterraneamente, confusamente, oppure chiaramente - corrisponde a un’attesa costitutiva del nostro essere, alle esigenze originali del cuore umano.

L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita, qualcosa che aumenta la sua possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità nel vivere e lo muove a seguire.

Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela, diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di una umanità diversa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove. La diversità umana in cui Cristo diventa presente sta propriamente nella maggior corrispondenza, nell’impensabile e impensata maggiore corrispondenza di questa umanità in cui ci imbattiamo alle esigenze del cuore - alle esigenze della ragione -.

Quest’imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare, che viene prima di tutto, di ogni catechesi, riflessione e sviluppo: è qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto, intercettato, che suscita uno stupore, desta una emozione, costituisce un richiamo, muove a seguire, in forza della sua corrispondenza all’attesa strutturale del cuore. «Poiché in realtà - come dice il cardinal Ratzinger - noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza» (Il Sabato, 30.1.93).

È nella corrispondenza il criterio del vero. L’imbattersi in una presenza di umanità diversa viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio: un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale - l’impatto con una diversità umana, lo stupore che ne nasce - è destinato a essere il fenomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo.

Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo. O si rinnova, oppure nulla procede, e subito si teorizza l’avvenimento accaduto, e si brancica alla ricerca di appoggi sostitutivi di Ciò che è veramente all’origine della diversità.

Il fattore originante è, permanentemente, l’impatto con una realtà umana diversa. Se dunque non riaccade e si rinnova quello che è avvenuto in principio, non si realizza vera continuità: se uno non vive ora l’impatto con una realtà umana nuova, non capisce ciò che gli è accaduto allora. Solo se l’avvenimento riaccade ora, si illumina e si approfondisce l’avvenimento iniziale e si stabilisce così una continuità, uno sviluppo.

Questo primo fattore accenna al fatto che «tutto è grazia». L’imbattersi in una realtà umana nuova è una grazia, è sempre una grazia - altrimenti diventa la scoperta tentata dei propri pensieri o l’affermarsi presuntuoso delle proprie capacità critiche -. La diversità che si nota, l’origine della diversità umana in cui ci si imbatte, è gratuità assoluta.

L’avvenimento iniziale prosegue solo se continuamente si parte dall’imbattersi in una realtà umana nuova: «Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi», diceva l’invito contenuto in uno dei documenti della cristianità primitiva, la Didaché. La continuità con quello che è avvenuto al principio si avvera perciò solo attraverso la grazia di un impatto sempre nuovo e stupito come se fosse la prima volta.

Altrimenti, in luogo di tale stupore, dominano i pensieri che la propria evoluzione culturale rende capaci di organizzare, le critiche che la propria sensibilità formula a quello che si è vissuto e che si vede vivere, l’alternativa che si pretenderebbe imporre, eccetera.

L’impatto con una diversità umana è fondamentale anche eticamente. La registrazione di questo impatto esige l’atteggiamento originale con cui il Creatore ci fa, vale a dire l’atteggiamento del bambino che si abbandona e segue: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Salmo 131). Per poter ammettere quel fenomeno di diversità umana occorre lo sguardo del bambino: una umiltà, una disponibilità, una semplicità di cuore, una povertà di spirito, che degli adulti, cui pure è già accaduto il primo impatto, possono aver smarrito.

E allora l’avvenimento originale, che ha iniziato (in loro) la memoria, diventa un fatto del passato, rimane solo come un “devoto ricordo”. Mentre, con questa semplicità o disponibilità, un uomo può anche aver sbagliato per anni, ma riprende meglio di chi sia stato impavido e non abbia avuto di che essere rimproverato.

In questa “povertà di spirito” e “semplicità di cuore” è il gioco dell’umana libertà. Come è detto in Tracce d’esperienza cristiana: «Anche nell’esperienza cristiana, anzi massimamente in essa, appare chiaro come in un’autentica esperienza sia impegnata l’autocoscienza e la capacità critica (la capacità di verifica!) dell’uomo, e come un’autentica esperienza sia ben lontana dall’identificarsi con una impressione avuta o dal ridursi a una ripercussione sentimentale. È in questa “verifica” che nell’esperienza cristiana il mistero dell’iniziativa divina valorizza esistenzialmente la “ragione” dell’uomo. Ed è in questa “verifica” che si dimostra l’umana “libertà”: perché la registrazione e il riconoscimento della corrispondenza esaltante tra il mistero presente e il proprio dinamismo d’uomo non possono avvenire se non nella misura in cui è presente e viva quella accettazione della propria fondamentale dipendenza, del proprio essenziale “essere fatti”, nella quale consiste la semplicità, la “purità di cuore”, la “povertà di spirito”. Tutto il dramma della libertà è in questa “povertà di spirito”: ed è dramma tanto profondo da accadere solitamente quasi senza che l’uomo se ne accorga» (il testo si trova oggi pubblicato in L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006; ndr).

Chi perciò, colpito da una diversità, partisse per il suo destino a cercare di “fare” lui, perderebbe tutto: deve seguire. Quella presenza umana diversa in cui si è imbattuto è qualcosa d’altro, cui obbedire. Attraverso un impatto sempre nuovo, nella sequela e nell’obbedienza si stabilisce una continuità con il primo incontro.

Vorrei fare un esempio in proposito. Formuliamo l’ipotesi che si riuniscano oggi alcuni che abbiano già vissuto l’esperienza di cui abbiamo parlato e avendo il ricordo impressionante di un avvenimento da cui sono stati colpiti - che ha fatto loro del bene, che ha addirittura qualificato la loro vita -, vogliono riprenderlo, colmando una “discontinuità” che si è venuta a creare nel corso degli anni.

Ciò per cui essi ancora si sentono amici è un’esperienza passata, un fatto accaduto, che nel presente è diventato però - come dicevamo - un “devoto ricordo”. Ora, come è possibile per loro riprendere una continuità con l’avvenimento iniziale che li ha investiti? Se per esempio dicessero: «Mettiamoci insieme a fare un gruppo di catechesi, oppure a sviluppare una nuova iniziativa politica, o, ancora, a sostenere una attività caritativa, a creare un’opera, eccetera», nessuna di queste risposte sarebbe adeguata a coprire la discontinuità.

Occorre “qualcosa che viene prima”, di cui tutto questo non è che strumento di sviluppo. Occorre che riaccada cioè quello che è accaduto loro in principio: non “come” è accaduto in principio, ma “quello che” è accaduto in principio: l’impatto con una diversità umana in cui lo stesso avvenimento che li ha mossi all’origine si rinnova.

Lì ci si coagula e, seguendo qualcuno, ci si raccorda con quello che è avvenuto all’inizio. E tutti i fattori principali dell’esperienza passata riemergono più maturi e più chiari. Nel rinnovarsi del primo impatto - e perciò della sorpresa della corrispondenza tra una presenza umana diversa e le esigenze strutturali del cuore - si sente il riverbero dello stesso avvenimento capitato dieci o vent’anni prima, fra i banchi di scuola o nel gruppo della propria università.

Senza la presenza di questa esperienza - l’incontro con una realtà umana diversa - qualsiasi “aggancio” con cui si tentasse di riprendere ciò che è stato interrotto, non ricostituirebbe una continuità. La continuità con “l’allora” si ristabilisce solo per il riaccadere dello stesso avvenimento, dello stesso impatto ora. Dieci o vent’ anni dopo, la stessa esperienza prosegue se uno parte dall’imbattersi in una realtà nuova e, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre», si abbandona, segue, obbedisce. Perché quella diversità non sorge dalla sua fantasia o dal suo pensiero, dalla sua abilità dialettica od ostinazione, da tutto ciò che, insomma, lo ha tenuto lontano per anni: è qualcosa d’altro, di irriducibilmente nuovo - un avvenimento - cui obbedire.

Possiamo a questo punto delineare il secondo fattore.

Come, nell’impatto che sempre si rinnova con una presenza di umanità diversa, la sorpresa, la speranza e il presentimento che ne nascono e muovono a seguire, possono essere educati, “tratti fuori”?

Lo strumento principale di questa educazione è ciò che noi chiamiamo “Scuola di comunità”; ed è principale perché sistematico e coerente, e perciò esplicativo e unificante. La “Scuola di comunità” è lo strumento di sviluppo - come coscienza, come affezione e come istigazione mobilitante nell’uso dei rapporti - di quel “qualcosa che viene prima”, dell’esperienza di incontro con una realtà umana diversa.

Nello svolgimento del lavoro implicato dalla “Scuola di comunità”, l’aspetto essenziale è allora il rendersi “ragione” delle parole che si usano. E “ragione” significa: esperienza della corrispondenza tra la realtà in cui ci si impatta e le esigenze strutturali del cuore.

Ma allora l’aspetto innanzitutto importante della “Scuola di comunità” è qualcuno che “insegni”: qualcuno - o alcuni - in cui l’impatto iniziale si rinnovi e si dilati, offrendosi come spunto per il ripetersi in altri della prima sorpresa. Occorre che chi guida la “Scuola di comunità” comunichi una esperienza nella quale si rinnovi lo stupore iniziale e non invece svolga un ruolo o un “compito”. Non può essere comunicazione di un’esperienza quella che parte da una coscienza di se stessi come ruolo, che muove da una visione di sé come padronanza e superiorità, con la pretesa di insegnare. Perché chi insegna è soltanto lo Spirito di Dio: è lo Spirito che dà il primo sussulto e che lo rinnova.

Chi, guidando la “Scuola di comunità”, comunica un’esperienza nella quale riaccade la sorpresa iniziale, svolge questa comunicazione dando ragione delle parole che vengono usate. Dar ragione delle parole che si usano vuol dire infatti comunicare l’esperienza della corrispondenza tra l’avvenimento di una Presenza e quello che il cuore originalmente attende, con la luce e il calore che quelle parole proiettano e offrono. Così la ragione data di ogni parola fa, come dice san Paolo, «passare di luce in luce», introduce alla scoperta sempre più chiara del vero, perché ogni parola usata chiarisce una risposta a un bisogno del cuore che è alla ricerca del proprio destino.

La povertà di spirito implicata dal primo fattore ritorna qui nuovamente. Senza povertà di spirito non si ascolta infatti ciò che viene comunicato: prevale l’obiezione dei pensieri soliti, quello cui si è più attaccati o che si pretende. Perciò dicevano al cieco nato: «Ma che cosa vuoi imparare da un ignorante che non ha studiato la legge!» - che non ha studiato psicologia, filosofia e teologia, diremmo oggi -. Chi invece segue e obbedisce si sviluppa, e quanto più segue tanto più desidera seguire.

Vi è un corollario a questo secondo fattore.

La posizione migliore per poter capire quello che ci viene detto è, paradossalmente, la passione di comunicarlo agli altri - la passione di comunicare ad altri quello che ci è dato di sperimentare -.

Lo documenta in modo semplice e bello una lettera scritta da un nostro amico del Canada. Vi si racconta che nella piccola comunità del movimento di Montreal lo scorso anno è entrato un giovane medico, di nome Mark, una persona intensa e drammatica, piena di interrogativi e di dubbi.

Dopo un anno travagliato di convivenza «era come se non avesse mai aderito» - scrive John, l’autore della lettera -. Alla fine dell’anno giunge a Mark l’invito dell’Università di Buffalo per un importante stage di due anni. «Io non vado», è stata la risposta immediata di Mark. «Perché non vai?», gli chiede John. «Se accettassi dovrei abbandonarvi. E io non posso abbandonarvi». Ma a questo punto John gli suggerisce: «Accetta! Va a Buffalo, e cerca di comunicare agli altri quello in cui ti sei imbattuto qui». Ha accettato, e dopo pochi mesi si è ritrovato attorno più gente di quella che aveva lasciato.

Ma non è tutto. Due mesi dopo la sua partenza una ragazza del gruppo di Montreal - un’infermiera - entra nell’ospedale in cui Mark aveva lavorato fino a due mesi prima. Dopo appena qualche giorno la capo-infermiera dell’ospedale le va incontro, punta il dito verso di lei e le dice: «Mark Basik!». E lei domanda stupita: «Che cosa intende dire? Certo, conosco Mark Basik, è uno dei miei più cari amici...». «Lo immaginavo», riprende la capo-infermiera. «Tu e Mark fate le cose nello stesso modo». Quella donna si è imbattuta in un fenomeno di umanità diversa, è avvenuto cioè per lei il primo impatto.

Ho inteso citare l’episodio soprattutto con riguardo alla prima parte, perché lì appare chiaro come, in una tensione missionaria, quello che era stato comunicato a quel giovane medico non ha più trovato in lui il pullulare di “ma”, di “se”, di “però”, in cui prima si sarebbe impigliato.

Veniamo ora al terzo fattore, ma solo con un accenno.

Il terzo fattore è, come dire, “tutto il resto”. Vale a dire: è impossibile che dall’esperienza descritta sin qui non nasca un soggetto nuovo, un protagonismo nuovo nel mondo, una compagnia impegnata nella realtà in modo diverso - cioè più umano, più corrispondente all’attesa del cuore -; è impossibile che non nascano tentativi di condivisione del bisogno emergente - gesti e iniziative di carità -, che non sorga un gruppo che voglia rinnovare veramente l’unità dei cattolici in politica con tutta la pazienza necessaria, che non si creino attività nuove per chi non ha lavoro, eccetera.

L’avvenimento che la “Scuola di comunità” illumina nel suo nesso profondo col cuore diventa inevitabilmente soggetto che agisce sul mondo. Da qui nasce l’opera - l’opus Dei - perché l’opera non è nient’altro che un io in rapporto con l’Ideale, che nel suo rapporto con l’Ideale cerca di mobilitare la realtà secondo quell’Ideale, in qualunque situazione si trovi: costruendo una famiglia o aderendo alla vocazione alla verginità, lavorando o visitando i vecchi all’ospizio del proprio quartiere.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:32 pm | | Default

L'identità europea: gli archetipi condivisi e il contributo di mille vite vissute, di E. Andreoni Fontecedro

Riprendiamo dal sito della rivista Logos (http://www.logos-rivista.it/index.php?option=com_content&view=article&id=624&Itemid=526) un articolo pubblicato il 21/12/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Europa.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

Thomas Stearns Eliot nel secolo scorso individuò e riassunse “l’identità europea” nei termini congiunti di eredità della cultura greca e romana e di cristianesimo. Eliot era americano ma volle sentirsi europeo naturalizzandosi come cittadino della Gran Bretagna. Noto studioso di Dante e celebre poeta ed anche premio Nobel per la letteratura nel 1948, è forse conosciuto dal grande pubblico come l’autore del testo poetico da cui è stata tratta la trama di Cats, splendido spettacolo di Broadway con altrettante celebri canzoni.

Oggi parliamo di DNA quando vogliamo significare la costituzione intrinseca ed ereditaria di un soggetto. Questo messaggio molecolare di ogni cellula, di ogni fibra di un individuo lo distingue dagli altri. Quando, ampliando, attribuiamo il concetto ad un insieme di uomini, la cui progenie è comune, il suo codice genetico culturale che lo distingue è strutturalmente fissato dalla lingua, dalla storia, da quella cultura che le generazioni hanno svolto nello stesso alveo del tempo e dello spazio. Gli occidentali, diciamo più proficuamente, gli Europei hanno in comune la provenienza delle loro lingue dal ceppo comune dell’indoeuropeo (su questa indicazione d’Oriente torneremo), hanno rimescolato radicali e lemmi nelle reciproche guerre e dominazioni, hanno già demoni e dei, miti, leggende, riti comuni prima ancora del Cristianesimo. Poi è il Cristianesimo che unisce sconfitti ed invasori sul continente, e una volta dilagato e recepito in tutte le terre dà luogo nelle varie contrade a quelle celebri abbazie, quei celebri scriptoria dove appassionatamente si cercava la madre antica comune: la cultura, le parole degli autori latini e greci, la memoria che a tutti appartiene. Con il proprio passato ogni presente instaura uno scambio dialettico ed è questo il magma da cui esce il futuro.

Torniamo indietro finché ci è possibile su queste terre dove, prima ancora che arrivassero dalle steppe gli Indoeuropei (= il popolo ricostruito sulla base della comunanza delle lingue) a più ondate nel corso del V millennio a.C., già fioriva il culto della Grande Dea Madre, la dea cui il maschio può essere solo paredro, poiché la fertilità è femminile, e la dea è come la terra che genera, e la dea - come svelano i vari simboli archeologici che ci restano - dà la vita, determina la morte, fa risorgere, rinascere, perché la vita è un continuum o, come suggerisce Platone, un incessante scambio di fiaccole nella staffetta che corre di padre in figlio. La dea che si rispecchia nelle fasi della luna, quella luna i cui raggi filtrano notturni la terra e la fanno germogliare, la luna che è anche nera, come saranno nere le madonne, cui sacre sono le sorgenti, le acque che sono miracolo, la madre che allatta il figlio (così la cosiddetta Madonna di Gradac, in valle Morava, 5000 a.C.). Gli Indoeuropei apparsi sul cavallo, animale sconosciuto sulle rive del Mediterraneo fecero formulare agli uomini del mare il mito dei centauri (il cavallo tutt’uno con l’uomo), mentre rimanevano essi stessi stupiti di fronte a quei fiori che lì le rive producevano, sicché ne rimase intatto, non conquistato dalla loro lingua, il nome mediterraneo che entrò in tutte le lingue indoeuropee derivate: la rosa (rose, rhodon), la viola (ìon, violet, violette, Veilchen), il giglio (leirion, lily, lis, Lilie). Su queste gocce ancestrali che ci scorrono dentro tante altre vennero in soccorso: una pioggia incessante di singole vite, emozioni, speranze, parole.

Come è lontano e vicino lo schema della doppia elica che ereditiamo! E con gli Indoeuropei - ad Oriente segno della comune madre rimase l’aspetto benefico di Durga, e del lato oscuro, il segno negativo della scomparsa che è della luna, come della vita dei singoli, fu ed è Kālī – venne il pantheon degli dei maschi. Il padrone del Cielo luminoso, Iu (p) – piter (Iu come Zeus ( Dieus) o dius, dies ,il giorno, il dì), il dio del mare Poseidon, come pòsis, il Signore padrone, lo sposo della Dea Terra (il discusso radicale del corrispondente Nettuno forse indica proprio l’elemento umido, l’acqua), Ades, ovvero l‘Invisibile dio degli Inferi. Il principio femminile si distinse nell’aspetto della sposa Era (l’etimo è incerto mentre il nome latino Iuno richiama il senso di uno spirito innato e custode esterno che è della donna, come il Genius è dell’uomo ), della vergine Artemide (anche qui l’etimo è incerto mentre il nome latino della dea corrispondente Diana appartiene al radicale che dice la luminosità, ed è infatti nome altro della Luna) della bellezza sensuale che suscita amore: Afrodite (forse da afròs schiuma del mare che allude anche al mito della nascita della dea, mentre Venere conserva nel radicale il senso del ‘desiderio’ che sopravvive nelle parole europee Wishes e Wünschen).

Il politeismo sbriciolò il principio del divino in mille volti, diede vita e nome alle acque, alle piante, la natura brulicò di anime, la notte di voci, i sogni fantasticarono di un’altra vita, dacché nei sogni i morti tornano a vivere e gli dei appaiono. Queste affermazioni vanno discusse, ampliate, vanno trascritte nel passaggio dal mito al logos della filosofia (che significa amore della conoscenza) perché scendono nei labirinti dell’elica. Gli dei: voglio riemergere per non dimenticarmi di dire che gli Europei ripetono ancora il nome degli dei antichi (già attribuiti ai pianeti) quando quotidianamente dicono i giorni della settimana: non solo le popolazioni neolatine che ricordano Marte, Mercurio, Giove, Venere, ma anche gli Anglosassoni, che configurano gli stessi caratteri di ciascuna divinità greco-latina dentro altri radicali indoeuropei: caratteri che riassumiamo, ricordando solo Thorn il dio del tuono come lo è Giove: Thursday, Donnerstag = giovedì o anche Montag (Mond-tag), Monday (Moon–day), che noi diciamo ‘lune-dì, dove il radicale ‘me’ - vivo nel greco mén , luna, e nel latino mensis rammenta che la Luna ‘misurava’ (il verbo dalla stessa radice è me- tior) stabiliva il ‘mese’ con il suo ciclo. Naturalmente il sincretismo appare anche qui, poiché il nome di domenica (dimanche, domingo) significa dominica dies, cioè il giorno preciso dedicato al Signore .

E così è per il nome d alcuni mesi che portano nomi di dei ma di cui voglio solo sottolineare il nome di Agosto (August, Aoȗt) che continua il ricordo di Cesare Ottaviano Augusto, o anche di Luglio (July, Juli, Juillet) quello di Giulio Cesare. Siamo entrati troppo velocemente dentro la memoria Romana dell’Europa. Prima l’Ellade scrisse le pagine immortali, linfa di ogni cultura, da Omero a Saffo, dai tragici ai sommi filosofi: Platone, Aristotele, Epicuro che dovevano invadere i secoli con Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Seneca, Agostino e determinarne il pensiero e l’immaginario con cui sempre, anche se non ne siamo consapevoli, ci troviamo a metterci in gioco. Quando Goethe – uno degli infiniti esempi- aggiunse , ricavandolo da saghe del Nord, il suo Faust ad Achille, Ulisse, Enea (eroi simbolo di un Continente), inglobò, lungo la tensione del suo rapporto con i miti classici, il mito dell’amore coniugale di Filemone e Bauci e degli dei che scendono tra gli uomini, e lo strapazzò per significare meglio lo stravolgimento dei valori nel suo tempo. Il campo vastissimo degli studi dell’eredità classica è affascinante perché ogni volta si scopre il dialogo a distanza, ricezione e rifiuto, il tempo ‘aggiunto’ che si integra con tutti i rivoli che provengono da tanti contatti , dal contributo di mille vite vissute. Lo scrigno della storia fa comprendere e ci regala la presenza insieme di tutti i tempi, di tutte le genti lungo i secoli, in cui ci immerge, con emozione di eterno.

Proprio Eliot ci dà un più limpido esempio di questa intelligenza o comprensione delle cose attraverso il filtro della cultura ricca di archetipi comuni a tutti gli Europei quando scrive i versi della sua Animula. Con questo titolo il poeta allude alla celebre odicina dell’imperatore Adriano che dà un addio alla sua ‘anima’, alla sua vita con il celebre verso tutto giocato sui diminutivi: Animula vagula blandula (piccola anima che vai vagando languida). Nel ritmo leggero del dimetro giambico l’imperatore sottende la filosofia di Plutarco sulla compagine tripartita dell’uomo che subisce una prima morte quando lascia il suo corpo alla terra, la seconda quando abbandona la sua anima, fonte delle emozioni, sulla Luna, e infine la terza morte quando il suo Nus (o mens, il principio intellettivo) si confonde nel Sole. Questo spessore culturale fa da sottofondo alla ripresa insieme dell’anima semplicetta di Dante (esce di mano a Lui che la vagheggia/prima che sia…. issues from the hand of God, the simple soul) che permette l’ingresso nella fede cristiana. Dopo aver avvertito l’anima nel pulviscolo del raggio che entra in una camera scura (così aveva detto anche Pitagora, contestato poi da Lucrezio che i grani di pulviscolo riduceva solo a atomi di materia), il canto di Eliot si chiude nella speranza, nella fede cristiana: pray for us now and at the hour of our birth. Il giorno della morte, per chi ha fede, è il giorno della vera nascita.

Ma quanto partecipata sia la nostra identità di Europei non lo rivela solo l’intertestualità letteraria, la scrittura musicale che risuona senza confini, i periodi insieme creati e condivisi dalle arti, ma essa vive in ogni contrada. Quando ad esempio ripetiamo ai nostri figli la storia di ‘fate’ (fata = fée, fairy, hada, feja): volti del ‘fato’ o destino, che partecipano e distraggono la vita, rammentiamo insieme le Moire greche, le Parche latine, le Norne del Nord, o quando cantileniamo gli stessi proverbi (il comune sentire di un popolo, la sua medesima riflessione ): “una rondine non fa primavera“, lo annotava anche Aristotele, e ancora tra i mille: “l’amore è cieco”, l’amour a un bandeau sur les yeux, Aficiòn ciega razòn, love is blind (anche Shakespeare lo ripete), Liebe macht blind. O festeggiamo le cadenze dei riti, ormai sincreticamente fusi alla religione del dio che risorge: dall’ortus Solis (la nascita del Sole) al nostro Natale non più reso solo come azione drammatica dalla costruzione anche dei brevi presepi in casa (ricordo con nostalgia quando aiutavo mio nonno nella disposizione dei pastori!), ma affiancata dall’abete nordico (ancestrale culto degli alberi) punteggiato di fiammelle, alle feste di Primavera, la Natura che risorge, fusa con la Pasqua ebraica o la resurrezione di Cristo. L’Europa ha un solo popolo, distinto in regioni, in ‘dialetti’ ma con gli stessi referenti culturali e religiosi, una comunità legata da passaggi anche sotterranei ma di cui siamo in grado di vederne sempre le tracce.

Alla nostra identità contribuirono anche gli arabi dell’Andalus e della Settimania, e lo ricordo non perché nel nostro continente sono rimaste splendide costruzioni monumentali, segno di conquista armata che impone i suoi canoni, ma perché, segno pacifico, influenzarono la sensibilità dell’amore come desiderio che la poetica trobadorica sviluppò, che la Scuola Siciliana trasmise. Il contatto con il diverso può essere fruttuoso, quando avviene in pace.

Ma oggi non si tratta di avere a che fare con Averroè o Ibn Rushd che nato a Cordova, teologo, giurista, matematico, medico, commenta Aristotele conosciuto attraverso le traduzioni in arabo di cristiani siriaci (ma non dimentichiamo che l’estremismo islamico lo esiliò e perseguitò, come sottolineato dal film dell’egiziano Ysuf Shahin del 1997 ‘ll destino’) né con Avicenna o Ibn Sīnā il grande medico persiano ma anche filosofo, matematico, studioso di Aristotele e di Platone che già Al Kindi e Al Farabi avevano per la loro parte diffuso in arabo (consiglio per conoscere Avicenna l’ affascinante biografia che ha il sapore di sabbie del deserto, di amori, di ricerche e scoperte della medicina, di magia dell’anima scritta nel 2002 da quell’ incantevole scrittore franco-egiziano che è Gilbert Sinoué: Avicenne, ou la route d’Ispahan. È anche tradotto in italiano). I grandi che nutriti anche di cultura greca influenzarono il mondo occidentale quando li tradusse in latino. Ma abbiamo a che fare con la Notte della cultura, dell’incomprensione, del fanatismo. Mi sto riferendo alle bande del fondamentalismo, certo. Con cui non è possibile discorso perché ce lo impediscono, perché comprendono selvaggiamente solo il rapporto di forza.

Dobbiamo invece guardare con animo diverso dentro questa invasione dal mare. Sappiamo – è vero- che gli Islamici arrivano con un bagaglio teologico–religioso molto diverso dal nostro, che nella teocrazia sommerge ogni altro spazio, che a questo aggrappano le necessità teoriche identitarie, che sentono il dovere di trasmettere per un comando divino. L’appartenenza per loro ha significato integrale. Sono semmai gli Italiani, gli Europei che abdicano (=rinunciano volontariamente) da molto tempo, da decine di anni, ai loro ricordi, agli archetipi della loro cultura, alla folla dei Grandi che ci hanno plasmato su, su nei secoli fino o lambire questo oggi. Non dico affatto che il nostro ‘credo’ nei nostri valori, laici, religiosi, nella nostra cultura debba essere interpretato come una crociata contro un altro vessillo: sarebbe idiota. Si tratta di riaffermare, di trattenerci la millenaria memoria che ci ha formato, i nostri referenti, i nostri riti che ci confortano nel ritmo dei ritorni, che alimentano lo spirito sulla materia.

L’incontro con l’Altro, invece di essere fruttuoso, può rischiare la sottomissione e l’annullamento se si è abbandonata la consapevolezza della propria identità. Gli Islamici già ci superano, perché per loro stessi lo sanno. Si tratta ora da parte nostra di leggere dentro i nostri millenni per ravvisare ancor meglio la possibilità dell’incontro. Noi siamo sempre disposti ad ascoltare - e lo siamo sempre stati, perché sono vivi per noi gli echi positivi culturali che abbiamo recepito - ma è nostro diritto, sul nostro suolo, pretendere che gli altri si aprano all’ascolto, senza timore di tradimenti.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:29 pm | | Default

Non isolare il Giubileo: esso appartiene all’identità peculiare di Roma [Le trasformazioni di Roma in occasione dei Giubilei], di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo pubblicato in V. Lemmo (a cura di), Roma, città del Giubileo. Trasformazioni ed evoluzioni di una città negli Anni Santi, Roma, Gangemi, 2022, pp. 13-17. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

Non si può capire cosa sia il Giubileo se non proiettandolo nella storia di cui fa parte. Non solo perché esso nacque in un periodo in cui grandi figure invocavano il dono della perdonanza e dell’indulgenza, come fecero prima san Francesco d’Assisi per la Porziuncola[1] e poi papa Celestino V all’Aquila[2].

Ma ancor più per la storia peculiare di Roma, trasformata dal martirio di Pietro e Paolo. Si potrebbe dire, senza paura di sbagliare, che l’urbe ha quattro fondatori: Romolo e Remo, da un lato, e Pietro e Paolo, dall’altro. Essa non sarebbe ciò che è se non avesse raccolto il patrimonio della cultura classica rappresentato dai suoi fondatori leggendari e non avesse accolto la presenza dei due apostoli. Chi cercasse di vivere a Roma o anche solo di capirla, ignorando questa duplice origine caratterizzante, non potrebbe diventare “romano” appieno o conoscerne il passato e progettarne il futuro[3].

La laicità è nata a Roma, nel millenario incontro, talvolta conflittuale, fra queste due radici. L’Europa è nata a Roma forgiandosi su di una cultura fondata su questo duplice pilastro.

Il diritto romano è a ragione alle radici della moderna visione dei diritti e della giustizia, così come lo è il nuovo sguardo di misericordia sull’uomo che nasce dal Vangelo.

E, ovviamente, alla radice di questo incontro, sta il fatto che proprio a Roma Pietro sia stato martirizzato. Il Giubileo è solo uno degli infiniti aspetti, e certamente non il più importante, di questa centralità di Roma e del suo vescovo nella storia.

Le due chiavi, una lucente, l’altra più scura - che da sempre caratterizzano l’iconografia petrina e che a Roma sono ovunque - ricordano il legame storico di quell’uomo con Gesù che gli disse di “aprire e chiudere”: confermare cioè nella fede, mostrando ciò che è conforme o è difforme dal Vangelo, e donare il perdono dei peccati.

Il Giubileo è solo un episodio, per quanto ricorrente[4], di questo costante rivolgersi al successore di Pietro per essere confermati nella fede e per ricevere il perdono dei peccati: mentre il pellegrinaggio abituale porta i pellegrini a Roma di loro iniziativa, nel Giubileo un invito specifico viene rivolto al mondo.

Per questo non è pienamente corretto isolare gli interventi urbanistici o artistici realizzati per i diversi Giubilei, quasi che sia esistita un’“arte” giubilare. Qualsiasi intervento su Roma, anche in anni lontani dai Giubilei, è anche in vista di essi e, d’altro lato, qualsiasi costruzione realizzata in vista di un determinato Giubileo ha una prospettiva molto più lunga, perché è in vista del costante pellegrinaggio a Roma che non muta la meta negli anni.

Decisiva è ovviamente la precisa collocazione dei luoghi e la conseguente necessitò di avere accesso ad essi. Come in Terra Santa si dice “hic”, “qui” Gesù è nato, “hic”, “qui” Gesù è morto e risorto, così è sotto la croce del Cupolone che si dice “hic”, “qui” Pietro è stato sepolto.

Romano ha così scritto in merito: «Gli edifici sacri di Roma sono pilastri della memoria storica e religiosa della città […]; non possono spostarsi dai siti cui sono incardinati, il loro numero e la loro ubicazione sembrano fissati una volta per tutte nei primi tempi del cristianesimo, […] il loro destino è di essere continuamente ritoccati e rifatti […] È inevitabile leggerli come palinsesto e spiarne le successive redazioni»[5].

Inoltre bisogna essere attenti a non confondere la logica moderna dell’“evento” che sfrutta finanziamenti disponibili in vista di una determinata ricorrenza con le prospettive dei secoli passati spesso più portati ad investire in progetti di ben più lunga e duratura portata.

Se si guarda, allora, con questa prospettiva alla storia dei Giubilei ci si accorge subito che nella celebrazione dei primi di essi non venne messa in cantiere la realizzazione di alcuna opera. Il primo, addirittura, quello del 1300, nacque da un movimento di popolo che invocava una grande e piena perdonanza e non da una decisione presa da Bonifacio VIII: il pontefice lo indisse dopo che già da più di un mese la gente si riversava spontaneamente nelle basiliche di San Pietro e di San Paolo[6].

Interessantissimo è il caso del successivo, quello del 1350, che fu richiesto dai romani - e da Cola di Rienzo in primis - al papa che allora risiedeva in Francia, ad Avignone. Per quell’occasione venne realizzata per la prima volta una nuova struttura permanente, la scalinata dell’Ara Coeli, mentre molte delle elemosine dei pellegrini vennero utilizzate per il restauro di chiese ed edifici gravemente dameggiati dal terremoto che aveva colpito la città l’anno prima, nel 1349.

Il fatto che tutta la città “partecipasse” del Giubileo è noto dalla Cronaca trecentesca di Matteo Villani che racconta che a Roma “tutti erano fatti albergatori”, di modo che ogni casa era diventata albergo e osteria, monito per i romani troppo abituati a “sputare nel piatto dove mangiano”! Dalla Cronaca del Villani appare evidente come fin dagli inizi sia stata la città intera a godere del Giubileo e a trasformarsi, perché l’afflusso dei pellegrini ha sempre creato per tutti occasioni di lavoro e di guadagno, di lucro oltre che di problemi.

Con il 1390 iniziano i Giubilei straordinari. Alla volontà di Gregorio XI che aveva inserito Santa Maria Maggiore fra le basiliche giubilari[7], a motivo del fatto che era stata Maria a dare al mondo il Salvatore, si aggiunse il desiderio di Urbano VI di avere Giubilei più ravvicinati, sia per ricordare la redenzione operata da Cristo nel 33esimo anno, sia per permettere anche a chi avrebbe avuto una vita breve di partecipare ad un Giubileo. Quell’Anno Santo venne celebrato dal suo successore, poiché egli morì subito prima. La città era, allora, in piena crisi, per l’assenza da lunghi decenni del pontefice che viveva ad Avignone.

Anche nel Giubileo del 1400 non si ricordano opere urbanistiche particolari: lo indisse in ritardo papa Bonifacio IX e fu l’anno in cui moltissimi penitenti, detti “bianchi”, giungevano spontaneamente in città in atteggiamento penitenziale con abiti di sacco. Il papa era tornato da poco a risiedere nella sua diocesi, dopo che tanti, e soprattutto le due grandi donne Caterina da Siena e Brigida di Svezia, avevano invocato il suo ritorno 

Se già prima del trecento Roma era stata all’avanguardia nel rinnovamento umanistico portato avanti dalle arti nel medioevo, al punto che ferve il dibattito odierno sul ruolo determinante che ebbero i maestri romani nella cultura figurativa di Giotto e sul cantiere della basilica di Assisi[8], è ancor più nel XV secolo che l’umanesimo fiorì a Roma.

Nel 1423 fu Martino V che celebrò il primo Giubileo allo scadere dei 33 anni contati a partire dal 1390 – è il papa che è sepolto dinanzi all’altare della basilica del Laterano. A lui si deve il primo rituale dell’apertura della Porta Santa al Laterano, segno che, mentre il centro religioso di Roma si spostava via via in Vaticano, si voleva sottolineare che San Giovanni era la cattedrale del papa. 

Niccolò V, che può essere considerato il primo papa del Rinascimento, indisse il Giubileo del 1450[9] e progettò un ammodernamento urbanistico della città, soprattutto nelle zone di Borgo e del Campidoglio, anche se tali interventi non vennero realizzati se non in minima parte. Ma soprattutto stabilì in maniera definitiva la residenza del papa in Vaticano, dando impulso a tutti gli sviluppi successivi e lì fondò la Biblioteca Vaticana.

Nel 1475 fu poi Sisto IV, attento all’umanesimo di origine cristiana che caratterizzava la cultura del tempo, ad indire il Giubileo. Il papa fondò i Musei Capitolini nel 1471, donando al popolo romano la statua della lupa, e fece costruire, proprio nel 1475, ponte Sisto per facilitare il passaggio all’altra riva e a San Pietro.

Nelle opere cui dettero inizio Niccolò V e Sisto IV appare chiaramente come la visione papale non fosse ristretta al Giubileo, bensì l’intera vita di Roma e del mondo fosse presente al loro animo e, d’altro canto, come il patrimonio classico e le nuove idee fossero incluse in tale prospettiva.

Nel Giubileo del 1500, indetto da Alessandro VI, divengono più importanti i lavori di ristrutturazione urbanistica per facilitare la circolazione nell’urbe: con sbancamenti e demolizioni il papa fece realizzare la via Recta o Alessandrina - poi distrutta per l’apertura di via della Conciliazione nel ‘900 - per raggiungere San Pietro da Castel Sant’Angelo. In quel Giubileo venne per la prima volta inaugurato il rito dell’apertura della Porta Santa in San Pietro.

Era stato già Niccolò V a progettare la costruzione della nuova San Pietro, affidando i lavori di ristrutturazione del presbiterio al Rossellino[10], l’architetto di Pienza, che alzò murature per sette metri. Ma fu solo con Giulio II che iniziarono i lavori della nuova crociera, con la posa della prima pietra nel 1506.

Ma né Giulio II, né taluni artisti di altissima levatura da lui coinvolti come Raffaello, giunsero al compimento del venticinquesimo anno giubilare: il destino ha voluto che non esistano opere direttamente giubilari a loro attribuibili - qui si comprende nuovamente come scorporare la storia dei Giubilei da quella dell’urbe e del suo vescovo sia penalizzante.

Anche Clemente VII, dopo lunghe esitazioni, decise di indire il Giubileo per il 1525. La situazione internazionale era estremamente tesa e, difatti, precipitò due anni dopo con il Sacco di Roma, con l’uccisione di circa ottomila civili romani inermi e le devastazioni compiute dai lanzichenecchi giunti dalle terre luterane. Il Giubileo del 1525, che ebbe scarsa partecipazione di popolo, vide comunque la sistemazione della Confessione in San Pietro, mentre gli arconi di Bramante erano ancora a cielo aperto. Si ebbero anche lavori ad ospedali come quello di San Giacomo, come sempre avveniva in preparazione ai Giubilei, e, al contempo, venne completato il tridente di piazza del Popolo.

In vista del 1550, invece, Paolo III potè preparare con grande cura il Giubileo, anche se morì poi l’anno prima. Diverse strade di Roma vennero create per l’occasione come via Trinitatis con lo sfondo di Trinità dei Monti e via dei Baullari, che portava al nuovo Palazzo Farnese.

Il Giubileo del 1575 vide la costruzione progressiva delle grandi chiese dei nuovi ordini religiosi: i preti dell’Oratorio di San Filippo Neri edificheranno la Chiesa Nuova, i gesuiti il Gesù e i diversi altri ordini le loro rispettive chese.

Roma guardava con coraggio al mondo intero, dopo le scoperte delle nuove terre alla fine del ‘400 e, al contempo, molti giovani di quegli stessi ordini erano pronti a partire per le Indie, mentre altri si radicavano nella città e la amavano. Si pensi solo al servizio che rese il Collegio Romano fondato dai gesuiti o alla Confraternita della SS. Trinità dei Pellegrini tramite la quale Filippo Neri insegnò a generazioni di romani ad accogliere nella fraternità chiunque giungesse a Roma in pellegrinaggio.

Non si deve dimenticare che il pellegrinaggio delle sette Chiese, che è di origine altomedioevale, venne vissuto da Filippo prima come laico e poi proposto all’intera città, perché i romani per primi comprendessero la bellezza della storia della propria città. Cesare Baronio, primo successore di Filippo, si dedicò allo studio della storia della Chiesa, per scriverne e raccontarla, perché nessuno ne fosse scandalizzato.

Nel Giubileo del 1600[11] Clemente VIII proseguì l’opera di ristrutturazione urbanistica di Roma che aveva visto negli anni precedenti i lavori di Sisto V: questi, in cinque anni, aveva completato molte delle opere intraprese dai suoi predecessori, come la chiusura della Cupola di San Pietro, ed aveva al contempo eretto gli obelischi egizi nelle loro nuove sedi. Di quel Giubileo si dimentica spesso che proprio per esso Caravaggio[12] dipinse le sue prime opere “pubbliche”, e cioè le due tele laterali della Contarelli. La basilica di San Pietro aveva ancora in piedi, nella sua parte anteriore, le navate costantiniane che vennero demolite a partire dal 1605: tali lavori finirono per coinvolgere anche la Madonna dei Parafrenieri, perché la loro confraternita non ebbe più una cappella nella nuova San Pietro.

In età barocca i geni di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona si contesero le committenze. In previsione del Giubileo del 1625 venne realizzato dal Bernini – fu il suo primo grande lavoro pubblico – il Baldacchino di San Pietro: sebbene immenso, di ben 28 metri di altezza, ricevette dal grande maestro una leggerezza incredibile, quasi “un elemento trasportabile e mobile” – scrisse Calvesi – pronto ad essere riposto al termine della liturgia.

Il colonnato del Bernini non venne realizzato in vista di scadenze giubilari, ma è lì, anche per essi, come due braccia che «accolgono i cattolici per confermarli nella fede, gli eretici per riunirli alla Chiesa, gli infedeli per illuminarli», come ne scrisse Alessandro VII.

Per il Giubileo del 1650 Borromini ristrutturò l’interno di San Giovanni in Laterano - e il fatto smentisce chi afferma che all’architetto non siano mai giunte importanti committenze papali! Nel Giubileo del 1675, invece, minori furono gli interventi decisi da Clemente X.

Nel ‘700 proseguirono in occasione dei Giubilei sia lavori di continuo ammodernamento dell’urbe, sia interventi volta a monumentalizzarla, si pensi alla scalinata di Trinità dei Monti che venne inaugurata per il Giubileo del 1725 e alla sistemazione delle 14 stazioni della Via Crucis, con la croce innalzata al centro dell’arena del Colosseo, per il Giubileo del 1750. Quest’ultimo intervento intendeva certamente cristianizzare quel luogo, esagerando il numero dei cristiani lì martirizzati, ma ebbe anche il ruolo di riscattare quel luogo, perché non fossero ricordate unicamente le violenze indicibili che lì si compirono e riguardarono ogni genere di persone. Il Colosseo era stato la vergogna di una civiltà altissima, ed era testimone di bassezza e di vergogna: ora la storia della Roma imperiale veniva come “redenta” dal nuovo utilizzo.

Venne poi la stagione illuminista e l’occupazione di Roma da parte delle truppe francesi rivoluzionarie, con il divieto di celebrare il Giubileo del 1800[13]. Incredibile è come gli stessi artisti dell’epoca abbiano lavorato prima per Pio VI, poi per i francesi che lo condussero a morte, e poi di nuovo per Pio VII, si pensi solo al caso di Canova o alle vicende di piazza del Popolo.

Ben 100 opere d’arte, quelle ritenute più significative, vennero derubate dalle chiese di Roma, insieme alle statue classiche del Laocoonte e dell’Apollo, e fu poi Canova a recarsi a Parigi per riportarle indietro.

Lo stesso Napoleone amò in principio raffigurarsi come Bruto che uccide i tiranni, mentre poi si assimilò iconograficamente ad Augusto e anche a Costantino[14], finendo per morire, come ricorda Manzoni, in una fede riscoperta.

Anche la stagione risorgimentale vide alti e bassi come già nel periodo della Roma francese: per il Giubileo del 1825 venne completata la risistemazione di piazza del Popolo, la prima piazza che si scopriva al visitatore che giungeva da nord, ma Pio IX non potè celebrare interamente nessun Giubileo. Continuarono invece senza interruzione i pellegrinaggi verso San Pietro, numerosissimi in particolare quelli del 1854, anno di proclamazione del Dogma dell’Immacolata.

Anche i soldati piemontesi, nei giorni successivi alla breccia di Porta Pia, si recarono a venerare la statua di san Pietro famosa per suo piede consumato dai baci, come scrisse De Amicis allora giornalista[15]. Il 21 settembre 1870 fu il papa a chiedere al re che le truppe che dovevano arrestarsi a Castel Sant’Angelo avanzassero fino al Colonnato, perché altrimenti non ci sarebbe stato alcuno a difendere il pontefice e il Palazzo apostolico e così venne fatto, anticipando quelli che saranno i futuri confini dello Stato della Città del Vaticano[16].

Non erano maturi i tempi perché la Chiesa riconoscesse l’Unità d’Italia e nemmeno perché il Regno d’Italia riconoscesse l’indipendenza del papa con un suo Stato, sia pur territorialmente minimo[17].

Passarono così i Giubilei del 1900, al quale Umberto I avrebbe voluto partecipare, e quello del 1925. In questa seconda occasione fu riposizionata la croce al Colosseo ed allestita nei Giardini Vaticani una grande mostra missionaria che darà il via al futuro Museo Etnografico ora in Vaticano.

Terminata la guerra, il Giubileo del 1950 vide, sotto Pio XII, il completamento di via della Conciliazione, altamente simbolica, mentre il pontefice annunciò il ritrovamento archeologico della tomba di Pietro.

I pontefici di età contemporanea stanno continuando la viva tradizione del Giubileo e, mentre esso viene indetto ancora, vale la pena ricordare l’evento più importante ospitato da Roma negli ultimi secoli: il Concilio Vaticano II. In quegli anni il mondo fu presente a Roma, con i vescovi di ogni angolo della terra che dibatterono dal 1962 al 1965: quell’assise riunita in Roma rinnovò il mondo e non c’è nazione che non abbia beneficiato del lavoro di quegli anni.

Anche al termine del Concilio, Paolo VI indisse un Giubileo straordinario per l’anno 1966 per celebrare ovunque nel mondo lo straordinario evento del Vaticano II.

Note al testo

[1] Cfr. su questo J. Ratzinger, Porziuncola. Che cosa significa indulgenza, in J. Ratzinger, Immagini di speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1999, pp. 71-79.

[2] Cfr. su questo E. Pasztor (a cura di), Communio sanctorum e perdonanza. Atti del Convegno (L'Aquila, 27-28 agosto 2005), L’Aquila, Colacchi, 2006.

[3] Sull’identità peculiare di Roma e la sua origine, cfr. il nostro video QUINDI ARRIVAMMO A ROMA. La seconda nascita della Città Eterna https://www.youtube.com/watch?v=fP6pvR1kqB0.

[4] Si tenga anche presente che, oltre ai Giubilei a ricorrenza stabile, la cui datazione si è via via abbassata dai 100 ai 50 ai 25 anni, sono stati celebrati nella storia giubilei straordinari in numero molto maggiore, indetti a partire da motivi determinati, come ad esempio quello “straordinario” della Misericordia, voluto da papa Francesco per il 2016.

[5] S. Romano, Riforma e tradizione (La pittura medievale a Roma. Corpus. Vol. IV), Milano, Jaca Book, 2006, p. 12.

[6] Per un primo orientamento sui Giubilei dal 1300 al 1423, cfr. AA. VV., La storia dei Giubilei, Vol. I, 1300-1423, Prato, BNL Edizioni, 1997.

[7] Per la storia, l’architettura e le opere d’arte delle basiliche nei diversi Giubilei, cfr., per un primo orientamento. A. Lonardo ( a cura di), I luoghi giubilari a Roma. Storia, spiritualità, arte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000 e A. Lonardo, La Roma del Giubileo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2015.

[8] Dopo gli studi pioneristici di A.M. Romanini si veda ora, nella sterminata bibliografia in merito, S. Romano, Apogeo e fine del medioevo, Milano, Jaca Book, 2017.

[9] Per un primo orientamento sui Giubilei dal 1450 al 1575, cfr. AA. VV., La storia dei Giubilei, Vol. II, 1450-1575, Prato, BNL Edizioni, 1998.

[10] Cfr., per un primo orientamento sulla nuova San Pietro, H. Bredekamp, La fabbrica di San Pietro. Il principio della distruzione produttiva, Torino, Einaudi, 2005.

[11] Per un primo orientamento sui Giubilei dal 1600 al 1775, cfr. AA. VV., La storia dei Giubilei, Vol. III, 1600-1775, Prato, BNL Edizioni, 1999.

[12] Per una corretta lettura di Caravaggio, cfr. la serie di documentari curata da A. Lonardo sul canale Youtube ROMARTECULTURA.

[13] Per un primo orientamento sui Giubilei dal 1800 al 2000, cfr. AA. VV., La storia dei Giubilei, Vol. IV, 1800-2000, Prato, BNL Edizioni, 2000.

[14] Cfr. su questo C. Parisi Presicce – N. Bernacchio – M. Munzi (a cura di), Napoleone e il mito di Roma, Roma, Gangemi, 2021. On-line. Cfr. il nostro Napoleone e Roma: storia di un sogno https://www.youtube.com/watch?v=mDY73lhebME

[15] Cfr. su questo De Amicis, l’autore del libro Cuore, inviato a Roma per la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870: «I ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e robusti come ciclopi: baciano il piede alla statua di San Pietro. Un pretino par che dica: - Sono cristiani queste bestie feroci! Meno male! Una lunga fila di soldati è inginocchiata intorno all'altar maggiore». Appunti di Andrea Lonardo.

[16] Cfr. su questo La breccia di Porta Pia e l’amicizia non solo “inimica”. Non ci fu solo il 20 settembre 1870, ma anche il 21 settembre che rivela un incredibile dialogo fra la nuova Italia e Pio IX. Appunti di Andrea Lonardo sulla documentazione immediatamente successiva alla Presa di Porta Pia.

[17] Cfr. su questo Risorgimento, Unità d’Italia, Chiesa cattolica, di Carlo Cardia.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:26 pm | | Default

19enni in guerra in Ucraina, 19 gradi al massimo il riscaldamento nelle case in inverno, popoli che migrano: la realtà ci chiede di esser adulti e non di giocare con la Marijuana come il leader delle Sardine, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educare.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

Mentre tanti si gingillano ancora a 30 anni, in Ucraina russi e ucraini di 19 anni sono al fronte a combattere e a morire.

Mentre i politici si baloccano con le loro poltrone, nella paura delle nuove elezioni, la posizione internazionale dell’Italia avrà come conseguenza la diminuzione delle risorse di gas e l’abbassamento della temperatura massima nelle case in inverno. La crisi economica per tanti è alle porte a motivo dei governi precedenti e in vista delle elezioni il tema è accuratamente evitato dalle campagne elettorali.

Mentre i grandi paesi inquinanti, come la Cina, l’India e il Brasile, rimandano decisioni sull’ecologia, ecco che la crisi energetica obbligherà a drastiche diminuzioni produttive.

Mentre l’intellighenzia ironizza sulla fede cristiana, il numero dei martiri cristiani sulla terra è altissimo, popoli interi mostrano come per loro credere sia irrinunciabile e i ¾ della terra soffrono per la libertà religiosa che gli è negata (nei paesi a maggioranza comunista come la ina, induista come l’India e in tutto il mondo musulmano).

Mentre fervono la movida e i concertoni estivi, popoli attraversano nel pericolo estremo confini per cercare un lavoro, mentre i politici non si preoccupano di accrescere i posti di lavoro e decretano la mendicanza per i migranti.

Emblema di tale situazione è la figura del leader delle sardine che non ha altro da dire se non che è “determinato” nel farsi le canne.

È la realtà, invece, che come sempre ci domanda di diventare adulti. È ora di smettere di fare i ragazzini e di porsi qualche domanda seria sulla vita.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:23 pm | | Default

Il tristissimo episodio della morte di Willy Monteiro Duarte mostra come i processi giudiziari e il carcere debbano continuare ad esistere, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Carcere e pena di morte.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

I giornali raccontano di imprecazioni dei due fratelli Bianchi al momento della lettura della condanna, così come avevano raccontato delle reciproche accuse fra Gabriele Bianchi e Bellegia che da componenti della stessa banda si sono ritrovati a scaricarsi addosso le responsabilità, pur di avere pene minori. Allo stesso modo la stampa si è soffermata sulle molestie del Pincarelli ad una ragazza, l’evento che ha portato poi all’aggressione che ha causato la morte di Willy Monteiro Duarte nella notte tra il 5 e il 6 settembre del 2020 a Colleferro.

Altri opinionisti si sono espressi contro gli ergastoli, mentre altri ancora hanno sottolineato come l’opinione pubblica funzioni come una gogna collettiva che si accanisce su singoli casi, dimenticando quanto male compiano le bande in tanti luoghi del paese.

Quello che a noi, invece, interessa sottolineare è che il male esiste e si è manifestato in maniera gravissima in quella notte e nei modi che quei ragazzi, come tanti altri, hanno di vivere: quel male che ha proseguito la sua opera quando i giovani della banda si sono accusati reciprocamente, mentre in quella notte avevano agito congiuntamente.

Per questo debbono esistere anche la polizia, la magistratura e la prigione, con tutto il servizio di luoghi di detenzione e di personale addetto: perché il male esiste.

Se anche si giungesse, per la buona condotta, a revocare nei decenni che verranno l’ergastolo, ciò non toglie che oggi lo Stato debba svolgere il suo ruolo di giudice e di giudice che assegna delle pene gravi al fine di rieducare.

Troppo spesso la corruzione di taluni agenti o la terribile situazione di alcune carceri fa illudere che di essi si possa fare a meno e fa ritenere a torto che le carceri non debbano esistere.

Assolutamente no. È l’esperienza a mostrare che ragazzi capaci di usare la violenza in maniera così assurda contro il povero Willy Monteiro Duarte debbono essere processati e giudicati. Così come deve essere processato e giudicato chiunque compie reati.

Certamente il sistema giudiziario e carcerario deve crescere e sanare storture, ma questo non significa che il giudizio e la pena per la redenzione di persone che hanno commesso colpe gravi debbano essere cancellati.

Il carcere è qualcosa di terribile, ma è anche necessario: esso deve la sua esistenza alla libertà dell’uomo che è capace di compiere gesti così terribili.

Tutto dovrà essere fatto per rendere rieducativa la detenzione della banda che ha ucciso Willy Monteiro Duarte, senza però cancellare il fatto che essa sia necessaria e giusta.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:20 pm | | Default

Il testo inedito. Joseph Ratzinger: «Henri de Lubac e la Chiesa del “noi”». Il testo dell’allora cardinale fu scritto nel 1996 per i 100 anni della nascita del teologo francese: «Cominciare a credere significa uscire dall’isolamento ed entrare nel noi dei figli di Dio», dell’allora cardinale Joseph Ratzinger

Riprendiamo da Avvenire un testo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger pubblicato sul quotidiano il 7/7/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cristianesimo e Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)

Pubblichiamo ampie sezioni di un inedito dell'allora cardinale Joseph Ratzinger scritto nel 1996 in occasione del centenario della nascita del teologo francese Henri de Lubac. Il testo integrale è ora contenuto nel volume del filosofo Antonio Russo Antiche e moderne vie della solidarietà. Da Maurice Blondel a Papa Francesco, Unicopli.​​​

Parlare di de Lubac a cent’anni dalla nascita è impresa alquanto ardua. Egli, spinto da un impressionante fervore e una instancabile ricerca, ci ha lasciato una produzione immensa. Ci ha dato dei contributi di storia della teologia di gran rilievo; ci ha spinto in maniera decisiva a rinnovare gli studi patristici con la grandiosa collana “Sources chrétiennes”; ha pubblicato opere fondamentali e innovative come Catholicisme (1938), Surnaturel (1946) o Corpus Mysticum (1944); infine, la sua produzione ha segnato in maniera duratura la teologia cattolica contemporanea, facendolo quasi assurgere a figura emblematica del travaglio che ha portato al Vaticano II [...].

Vorrei soffermarmi soprattutto su due ambiti tematici che dovrebbero bastare ad attestare la presenza diretta o indiretta, ma tutt’altro che rapsodica della riflessione di de Lubac nella mia opera. Nel 1936, prendendo posizione contro le tendenze individualistiche, e quindi egoistiche, del proprio tempo, de Lubac giungeva all’affermazione che «le catholicisme est essentiellement social. Social, non pas seulement par ses applications dans le domaine des institutions naturelles, mais d’abord en lui-même, dans l’essence de sa dogmatique. Social, à tel point que l’expression “Catholicisme” social aurait toujours dû paraître un pur pléonasme».

Continuava, poi, il proprio discorso, sempre in chiave antindividualistica affermando che l’unità del corpo mistico di Cristo, «unité surnaturelle, suppose une première unité naturelle, l’unité du genre humaine». Da questo punto di vista ogni infedeltà «à l’Image divine que l’homme porte en lui, toute rupture avec Dieu, est de même coup un déchirement de l’unité humain» [...].

Come ho avuto modo di rilevare in varie mie opere, ad esempio Introduzione al cristianesimo, ma anche in un testo più recente, qui egli metteva fortemente in risalto, e con piena coscienza, «una legge fondamentale che risale fino alle radici più profonde del cristianesimo, una legge che in sempre nuovi modi si manifesta... ai vari livelli di realizzazione cristiana.. il “noi” con le sue strutture conseguenti appartiene per principio alla religione cristiana. Il credente come tale non è mai solo: cominciare a credere significa uscire dall’isolamento ed entrare nel noi dei figli di Dio; l’atto di adesione al Dio rivelato nel Cristo è anche sempre unione con coloro che sono stati già chiamati. L’atto teologico è come tale sempre anche un atto ecclesiale, che ha come sua una struttura sociale».

Poco più oltre, nel tirare alcune conseguenze dallo stesso e identico discorso affermavo che «la base più profonda di questo “noi” cristiano è che Dio stesso è un “noi”. Il Dio professato dal Credo cristiano non è un solitario autopensiero di pensiero, non è un Io assoluto e impartecipe chiuso in se stesso, ma è unità nella relazione trinitaria dell’io-tu-noi, così come l’essere-noi quale divina struttura dell’essere, anticipa oggi noi nel mondo, e una somiglianza con Dio si trova in linea di principio sempre riferita a questo divino “noi”» [...].

Questi ultimi testi mi danno modo di accennare a un altro ambito tematico, lungamente trattato e a più riprese da de Lubac. In particolare, nel considerare negli scritti del 1936, con rigorosa consequenzialità logica, gli aspetti sociali del dogma egli giunge, e non può non giungere, a rigettare ogni dottrina individualistica di evasione, di fuga dal mondo e dalla società.

Per questo egli dice che il cristianesimo «affirme à la fois, indissolublement, pour l’homme une destinée transcendante, et pour l’humanité une destinée commune. De cette destinée toute l’histoire du monde est la préparation».

Di conseguenza, in stretto legame con l’aspetto sociale della realtà cristiana, vi è anche e non meno importante un ulteriore carattere che è quello storico. Il tempo allora non è più un divenire desostanzializzato e i fatti storici non sono più dei puri e semplici fenomeni, ma degli avvenimenti, perché la volontà divina è operante in essi per condurre l’umanità verso la meta finale.

Dio stesso, quindi, agisce nella storia e si rivela per mezzo di essa. E perciò «les réalités historiques ont donc une profondeur, elles sont à comprendre spirituellement, et en revanche, les réalités spirituelles sont en devenir, elles sont à comprendre historiquement. L’histoire tout entière devient, entre Dieu et chacun de nous, le truchement obligé».

E questo principio, come avverte lo stesso de Lubac, «commande toute l’exégèse des Pères de l’Église», perché essi ammettono che vi è una «force spirituelle de l’histoire». E la realtà di cui si parla sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, proprio perché si è incarnata, è sia spirituale che storica; essa è non soltanto eterna, ma anche storica.

Si tratta, qui, più precisamente del senso spirituale della Scrittura. Ad esso de Lubac ha dedicato considerevoli sforzi, addirittura vari ponderosi tomi, e aveva in mente di continuare l’opera; eppure oggi sembra il più caduco tra quelli da lui approfonditi.

Ma, a ben guardare, le cose non stanno proprio così. E credo di averlo adeguatamente messo in risalto in un mio recente saggio su L’interpretazione biblica in conflitto (problemi del fondamento e orientamento dell’esegesi contemporanea). In esso, e proprio nel trarre le conclusioni del discorso, affermavo testualmente: «negli ultimi cent’anni l’esegesi ha realizzato grandi cose, ma ha anche commesso grandi errori; e questi errori sono divenuti quasi dei dogmi accademici. Attaccarli è considerato da molti studiosi addirittura un sacrilegio». E invitavo di conseguenza a una nuova riflessione di fondo sul metodo esegetico e sui suoi presupposti filosofici.

Nel farlo, formulavo dei desiderata ben precisi. In particolare, scrivevo che non ci si può limitare al dominio della pura e bruta fatticità, ossia al principio dell’evidenza scientifica della metodologia delle scienze naturali, che tra l’altro è affatto necessariamente fondato sulla struttura della realtà, ma anzi al contrario se lo si assume in filosofia e in teologia ne vien fuori una insulsaggine e un controsenso.

Occorre, invece, non considerare «l’esegesi in modo unilaterale, sincronico, come si fa per le scoperte delle scienze naturali... L’esegesi deve riconoscere di essere una disciplina storica. La sua storia fa parte di ciò che essa è, le posizioni che ha raggiunto deve sempre integrarle in maniera critica nella totalità della sua storia; così sarà in grado, da un lato, di riconoscere il carattere relativo dei propri giudizi; e d’altro canto sarà meglio in grado di penetrare in una comprensione reale, benché sempre incompleta, della parola biblica». E, concludevo il discorso, affermando che questa autocritica deve portare anche a «un esame delle alternative filosofiche essenziali del pensiero umano. A questo riguardo appare insufficiente considerare solo gli ultimi centocinquant’anni. Ancora, occorre introdurre nella discussione le grandi proposte del pensiero patristico e medioevale».

Anzi, rilevavo che «il primo presupposto di ogni esegesi è accettare la Bibbia come un unico libro», per vederne l’intima coesione interna «che non risulta da un approccio solamente letterario». Altrimenti la Bibbia resta un libro sigillato. È necessario, allora, «comprendere... in modo nuovo che la fede è veramente quello spirito in cui è nata la Scrittura, e che è dunque anche l’unica porta per penetrare nel suo interno» [...].

De Lubac mise l’accento sulle proposte del pensiero patristico e medioevale sul terreno dell’esegesi e questo sin dai suoi primissimi scritti, soprattutto per influsso del Blondel [...]. Tra l’altro, fu proprio de Lubac che, oltre a riproporre ampiamente e con forza il senso spirituale della Scrittura [...].

Per lui la convinzione della portata obiettiva, e metafisica in fondo, del metodo scientifico è un errore che bisogna combattere. Le scienze, egli dice, vengono viste come fondate sulla struttura della realtà in quanto tale, ma si tratta di una malattia, di un «culte d’idole».

Esse si limitano solo ad argomenti estrinseci, a stabilire un legame del tutto estrinseco tra le cose, sulla base del caso o della necessità, «sans faire acunement pénétrer à l’intérieur de son objet».

Si è preteso costruire servendosi di esse un «système de la foi naturelle» o «foi scientifique», e di conseguenza anche una teologia e una esegesi scientifica incontrovertibile, ma il risultato egli diceva è una «manque de sens historique... philosophie rudimentarire», che ha dato luogo solamente a una «théologie mesquine».

Redazione de Gliscritti | Lunedì 25 Luglio 2022 - 3:18 pm | | Default

Castel del Monte e Federico II: il vero “mistero” di un imperatore medioevale, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito alcuni “appunti di viaggio” di Andrea Lonardo: con tale espressione – relativa alla serie di testi così contrassegnata su Gli scritti - si intende dire che tali appunti non sono stati annotati con riferimenti ai grandi storici dell’arte e autori, come negli articoli più scientifici di questo sito, ma sono stati messi per iscritto come un primo abbozzo in vista di una loro pubblicazione più espressamente accademica in futuro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Appunti per visite guidate in Italia.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

1/ Castel del Monte, simbolo del potere federiciano

Castel del Monte è certamente il simbolo architettonico di Federico II.

Ma come interpretarlo, cosa dedurne? È bene innanzitutto rendersi conto di quante assurdità si dicono di quella costruzione meravigliosa.

Ad esempio, nella guida del Touring Club del 2000 si parte da una interpretazione cristiana: siccome otto sono i lati del castello, se ne deduce che questo numero indicherebbe l’ottavo giorno, il primo giorno dopo il sabato, e, quindi, la resurrezione. Ma poi, nello stesso testo, si passa a dire che il numero otto e l’intera architettura nasconderebbero simboli esoterici, poi ancora astronomici e così via.

Si vede come tali interpretazioni siano esagerate, sia quelle cristiane, sia quelle anti-cristiane, e vengono insinuate nel lettore – che oggi è felice di sentirsi raccontare di “misteri” e “segreti” che tali non sono -, senza che ci sia una sola argomentazione seria e scientifica in merito.

Ma allora, cosa si deve dire di Castel del Monte?

Innanzitutto che è la residenza estiva di Andria, la città che Federico II amava e per la quale coniò quell’espressione famosissima: “Legata indissolubilmente alle mie viscere”. L’iscrizione campeggia ora sulla porta di Andria detta di Sant’Andrea: Andria fidelis nostris affixa medullisAndria fedele, affissa alle nostra midolla, cioè vicinissima al nostro cuore, amata con tutto il cuore con un attaccamento indissolubile.

Federico II era un imperatore germanico, nordico, ma come figlio di Costanza di Altavilla amava queste terre. Una cosa particolarissima, un imperatore tedesco che si sente meridionale, un imperatore “terrone”, si potrebbe dire scherzando.

Ebbene Castel del Monte è la residenza estiva legata all’abitazione imperiale ordinaria che era ad Andria: ci sono solo 20 chilometri dall’una all’altro e da Andria si vede Castel del Monte.

È evidente, allora, che Castel del Monte non era innanzitutto un castello per la caccia, bensì rappresentava innanzitutto il potere imperale – nelle forme lo si potrebbe assomigliare a una “corona” potente, ben visibile da Andria – e certamente un potere elegante, degno, nobile. Non un segno cristiano o esoterico, bensì un simbolo di potere.

Chi infatti saliva da Andria - i re, gli ambasciatori, i vescovi - doveva immaginare il potere dell’Imperatore e vederlo rappresentato in quell’edificio, luogo del suo potere come sono tutti i Castelli – e Federico II ne aveva molti e ne costruì molti di castelli.

Sebbene Castel dl Monte non abbia una simbologia cristiana – così come non ha senso dire che esso avrebbe una simbologia esoterica, anzi è una castroneria colossale una tale affermazione! – lo stesso Federico II è stato ed ha preteso di essere un imperatore cristiano e cattolico.

2/ Federico II, imperatore cattolico

È da sfatare la leggenda infondata che si trova in diversi autori dozzinali che Federico II fosse lontano dalla fede cristiana e dalla fede.

Innanzitutto perché venne consacrato a Roma, in San Pietro – ciò avvenne nel 1220, ma si era già fermato in Roma e al Laterano quando era in viaggio per recarsi a ricevere la Corona imperiale in Germania.

In punto di morte l’arcivescovo di Palermo Berardo di Castagna lo confessò e gli dette gli ultimi sacramenti. Ma è ancora più importante che per tutta la vita Federico si ritenne l’advocatus ecclesiae (era la tipica concezione dell’Imperatore medioevale, che si riteneva investito del compito di difendere la Chiesa e del compito di predicare il Vangelo).

Le due scomuniche da lui ricevute mostrano chiaramente come egli appartenesse al mondo cattolico: esse non furono di certo a lui gradite. Nella sua vicenda l’imperatore non poteva ridicolizzarle, bensì cercò di farle revocare e più ancora cercò di assoggettare a sé il pontefice (non di eliminarlo dal giro di orizzonte).

3/ Il difficile rapporto con l'Islam di Federico II

L’altra leggenda che si ripete acriticamente su di lui è che egli fosse indifferente alle religioni e che fosse tollerante. A riguardo si cita l’evento della Crociata: Federico II riuscì ad ottenere per 10 anni il possesso pacifico di Gerusalemme.

Ma questo non fu dovuto ad un suo particolare atteggiamento benevolente nei confronti dell’Islam: semplicemente fu estremamente fortunato a governare in un momento in cui i musulmani d’Egitto erano in conflitto con i musulmani di Palestina ed egli riuscì a sfruttare tale tensione per proporre il suo accordo pacificatore.

In altri casi, invece, combatté con le armi contro i musulmani come nel 1223, quando conquistò Gerba perché era un avversario pericoloso e da lì partivano le armi che attaccavano le coste mediterranee, oppure nel 1249 quando aiutò con le armi Luigi IX partito per la Crociata.

Ma tale atteggiamento appare in maniera ancora più chiara dai fatti di Sicilia.

Federico II combatté contro gli arabi musulmani stanziati in Sicilia dai tempi dell’invasione per ben due decenni dal 1223 al 1225 e dal 1240 fino alla loro definitiva deportazione (cfr. su questo Federico II: la “reconquista” della Sicilia, di Ferdinando Maurici).

In quegli anni, mentre gli arabi erano già stati allontanati dalle coste sicule, ne erano rimasti nelle zone montuose dell’interno dell’isola e da lì compivano assalti e tentativi di rendersi indipendenti.

Federico II si rese conto che non riusciva ad integrarli nell’impero, li sconfisse con battaglie e assedi, finché deportò i superstiti in Puglia, a Lucera (fu una vera e propria deportazione che portò alla fine della presenza araba in Sicilia; cfr. su questo Lucera [e la deportazione dei musulmani di Sicilia in Puglia da parte di Federico II], di Raffaele Licinio. Saraceni di Sicilia, di Annliese Nef-Henri Bresc).

Federico II era un vero politico e, quando comprese che essi erano inaffidabili per la pace nel suo regno, si decise per l’unica soluzione che gli sembrò potesse assicurare il controllo dell’interno della Sicilia: non solo la loro sconfitta, ma anche la loro deportazione.

Lo storico arabo Ibn Khaldun scrisse, riferendosi a Federico II: “Questo tiranno s’insignorì della Sicilia e delle isole adiacenti e vi cancellò la legge dell’islam sostituendole quella della sua empietà”». Bisogna leggere le fonti islamiche per vedere come esse non siano assolutamente tenere con Federico II e come lo ritengono un tiranno, perché cancellò l’Islam dalla Sicilia, cacciandone gli ultimi musulmani.

Ma si pensi anche alla questione delle Costituzioni di Melfi del 1231 (vedi G. Barone, Federico II e gli ordini mendicanti, in “Mélanges de l'école française de Rome” (1978)  90-2,  pp. 607-626), quando l’imperatore chiese l’intervento dei domenicani contro gli “angeli pessimi”, cioè gli eretici che venivano dalla Lombardia: come sovrano cattolico egli sentiva il bisogno di predicatori che combattessero l’eresia (anche se poi ebbe a distanziarsi da francescani e domenicani a motivo del pontefice).

4/ L'apertura intellettuale di Federico II, caratteristica dell'uomo medioevale

Ma se nei fatti fu proprio Federico II a dare termine, con la deportazione, alla presenza musulmana in Sicilia e se egli fu a tutti gli effetti un sovrano cattolico, che cosa è questa apertura culturale ai sapienti islamici e questa suo orizzonte vasto di prospettive che è anch’esso reale, come il suo potere che egli pensava come “assoluto”?

Federico II è un vero sovrano medioevale e, proprio essendo tale, conserva e amplifica questa apertura al mondo islamico che era proprio del mondo medioevale nella sua interezza (forse i normanni furono ancora più aperti di lui).

Sappiamo che Federico II ebbe arcieri mussulmani nel suo esercito perché allora si assoldavano truppe straniere (così come i longobardi avevano assoldato degli arabi e come gli arabi, a loro volta, poteva combattere avendo con sé unità cristiane).

Ma pensiamo ancor più alla cultura. La cultura importava al medioevo da qualunque parte venisse: il Medioevo fu un periodo fragile, debole, dove la vita non era sicura, eppure fu interessatissimo alla cultura.

Michele Scoto, cristiano, fu il grande traduttore delle opere arabe in latino: egli veniva dalla Spagna e, prima di lavorare per Federico II, li tradusse soprattutto a Toledo, nel periodo della Reconquista, quando si andava via via riformando nuovamente l’antica Hispania nella nuova corona spagnola.

I re di Spagna vollero prima di Federico Michele Scoto che traduceva per loro i testi arabi, che a loro volta erano testi greci tradotti in arabo i per mano di scribi cristiani di Baghdad o della Siria (cfr. Quando i califfi appoggiavano i cristiani del Medio Oriente, di Samir Khalil Samir e I due grandi periodi di Rinascimento islamico dovuti ai cristiani di Siria, di Samir Khalil Samir).

Scoto poi passò a Bologna dove servì il Papa per la traduzione di testi dall’arabo al latino o dal greco al latino. Erano questi grandi intellettuali cristiani che padroneggiavano sia il greco, sia l’arabo e il latino (cfr. Al-Andalus e la questione del rapporto fra ragione e rivelazione (e, quindi, della legittimità o meno della violenza o della libertà religiosa) e Le traduzioni in arabo, latino, ebraico). Interessante che fossero cristiani questi autori. Michele Scoto passò infine con Federico II perché a Federico interessavano molto le questioni di filosofia, le questioni mediche, così come interessavano ai re di Spagna e al pontefice. Anzi i Normanni furono probabilmente più avanzati di Federico II nel loro amore a tali ambiti culturali.

Federico, insomma, è realmente un sovrano medioevale e per questo è cattolico e per questo è anche interessato a questioni di cultura islamica o scientifica.

5/ Imperatore e pontefice: due autorità che si riconoscevano a vicenda, ma che talvolta ambivano a troppo

Anche nello stemma dell'Università di Napoli 
Federico II compaiono i simboli del potere
"romano" e della croce cattolica di Federico II

Federico II volle farsi garante della fede al posto del pontefice, così come il pontefice del tempo strabordava dall’ambito della sua autorità: entrambi volevano troppo.

Qual è allora la tentazione non scientifica delle varie letture moderne di Federico II? È che lo si vuole separare del suo tempo per farne in qualche modo un laico o addirittura un laicista ante litteram come si fa un po’ con Francesco d’Assisi o con Caravaggio. Si stravolgono le loro figure, siccome sono figure grandi: dinanzi a tali figure si dovrebbe dire che siccome Federico II e Francesco d’Assisi sono grandi, allora il medioevo è interessantissimo, così come se Caravaggio è un grande, allora è interessantissima la Controriforma. E siccome questo non si può dire, secondo il politicamente corretto, allora questi personaggi vengono separati dal loro tempo, come se fossero delle eccezioni, come se fossero degli estranei rispetto al loro tempo.

Federico II è stato una persona che ha vissuto il suo tempo, conscio dell’utilitas; ha dovuto fare i suoi calcoli per governare, ha amato la sapienza, ha vissuto avendo intellettuali con sé, al suo fianco, ha voluto simboli di potere come quello di Castel del Monte. È stato insomma un medioevale aperto, intelligente, colto, grazie a tanti altri uomini medioevali che lo hanno supportato. Talmente medioevale da giungere ad equiparare i cavalieri teutonici ai templari.

Lo possiamo immaginare entrare e uscire dalle porte di Castel del Monte per andare a caccia o per passeggiare.

Ma è stato anche un uomo che ha usato e abusato del suo potere, è stato l’imperatore che, pur avendo accolto i sapienti musulmani, ha cacciato tutti i musulmani della Sicilia, deportandoli in Puglia – ed è incredibile come si nasconda questo da parte di grandi autori.

Illuminante è anche la questione delle scomuniche, del conflitto così forte che vide tutti perdenti alla fine, papato e impero. Qual è la vera questione di questo “imperatore medioevale”, come lo ha definito Abulafia, uno degli ultimi storici che lo ha studiato approfonditamente (D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medioevale, Torino, Einaudi, 1990)?

La vera questione qui fu quella del potere: è necessario capire la lotta per il potere in quel tempo per capire le opposte responsabilità nelle scomuniche.

Da un lato Federico II pretendeva di essere il nuovo Augusto, voleva comandare veramente tutti. Anche Cielo d’Alcamo prende in giro questo potere. Nel Contrasto (Fresca rosa aulentissima) in cui in duetto un uomo vuole una donna e lei si concede solo dopo che lui le avrà promesso di amarla “per sempre”, si citano anche le monete di Federico II per dire del suo potere: «Se i tuoi parenti mi trovano, cosa mi possono fare? Ci metto una difesa di duemila augustali [moneta del regno di Federico II]: tuo padre non mi toccherà per quante ricchezze ha a Bari. Viva l'imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quello che ti dico?» (il testo è qui in versione italianizzata).

Federico II voleva un cesaropapismo, tentazione che in quei tempi era ancora viva: cioè pretendeva che la sua legge valesse ovunque, anche sul pontefice.

Voleva addirittura giungere a designare il Papa, quando un pontefice non la pensava come lui – si pensi a Federico I Barbarossa che designò un antipapa. Federico II voleva designare i vescovi, non eliminarli.

D’altro canto c’era l’autorità delle realtà locali - oggi diremo della “sussidiarietà” – c’erano, cioè, i comuni. Di fatto è proprio dinanzi ad essi che Federico II fallì, vincendoli prima e poi venendo sconfitto come il Barbarossa. La sua fine fu decretata dalla sconfitta dei comuni. Federico II che intendeva avere il dominio totale su tutta l’Italia settentrionale venne sconfitto mentre assediava Parma, da una località detta Vittoria – ironia della sorte.

Monete coniate da Federico II con i simboli del potere imperiale 
augusteo e la croce cattolica: multiplo di tarì, grosso da 20 denari,
augustale e moneta coniata in vista della battaglia di Parma
che si tramutò invece in sconfitta: vittorino per la battaglia di Parma

Per i comuni il potere imperiale era legittimo, ma, al contempo, essi chiedevano che fosse riconosciuta la loro autonomia e che restassero liberi.

Il sistema medioevale era un sistema plurale: non c’era solo un’unica legge - questo gli statalisti fanno fatica a capire - ma co-esistevano realtà diverse negli stessi territori con autorità dell’imperatore, del papato e dei vescovi, dei singoli comuni, delle singole corporazioni o università che si suddividevano gli ambiti di autorità.

Il Papato, dal canto suo, desiderava - e sbagliava a pretenderlo - che il Regno di Puglia e di Sicilia fosse una cosa diversa dall’Impero: voleva cioè che Federico II facesse l’imperatore e lasciasse ad un altro re Sicilia e Puglia, perché sarebbe stato altrimenti troppo potente.

L’imperatore, invece, intendeva eliminare qualsivoglia altro potere diverso da sé, nel settentrione e nel meridione, comandando anche sui Comuni e pretendendo di decidere delle nomine episcopali.

Ma tutti erano cattolici e nessuno contestava la fede cattolica degli altri.

Non era ancora risolta la questione della duplice “spada”, cioè come dovessero relazionarsi in autonomia il potere politico e quello religioso. Entrambe le autorità pretesero tutto, ora l’una ora l’altra. Invece, nei periodi migliori, era chiaro che l’esistenza della “spada spirituale” non significava che il papa comandasse sull’imperatore, ma piuttosto che anche il potere politico doveva considerarsi sottomesso alle esigenze morali, così come era evidente che non dovevano essere il pontefice e i vescovi a dettare la linea politica, ma ciò spettava all’impero che doveva rispettare le autonomie comunali e particolari.

C’era talvolta, come ai tempi di Federico II, il conflitto tra due autorità che pretendevano un ossequio totale – l’imperatore e il papa – e in mezzo le realtà sussidiarie che cercavano il loro legittimo spazio (i comuni e le varie realtà locali, i vari regni).

Il mondo moderno deve a quei tempi la nostra concezione della vita per cui è divenuto evidente che il Papa deve essere veramente libero, così come anche i vescovi: non può essere lo Stato a nominarli e i vescovi devono essere liberi di parlare. Ma, d’altro canto, né essi, né il pontefice, ma nemmeno l’imperatore possono pretendere obbedienza dal mondo intero.

La storia di quegli anni ci ha portato a diffidare del potere unico, anzi a volere la pluralità dei poteri e la loro indipendenza.

Noi cerchiamo di capire questo periodo e facendolo, cerchiamo di capire i dilemmi del Medioevo, un periodo nel quale non mancava il desiderio comune di cercare il bene, di riferirsi al Vangelo, di permettere a tutti di prosperare e di credere in Cristo, ma poi, nelle diverse scelte concrete, i poteri si fronteggiavano gli uni contro gli altri e la realtà viva del Vangelo veniva come imprigionato dagli schemi ora degli uni e degli altri.

6/ Le donne di Federico

Da Castel del Monte è bello discendere ad Andria, la città che Federico II amò, l’Andria fidelis. Lo ripetiamo: è particolare che un imperatore tedesco amasse una città del sud Italia più della Germania. Evidentemente la madre Costanza d’ Altavilla era stata molto importante nella sua formazione rispetto al padre, l’imperatore di Germania.

Nella cattedrale di Andria possiamo immaginare Federico II mentre seppellisce la sua seconda e terza moglie: Jolanda di Brienne e Isabella di Inghilterra. Le analisi al carbonio C14 hanno permesso di ritrovare i due corpi, ma non abbiamo più la possibilità di distinguere i resti delle due donne. Federico II ebbe 4 mogli: la prima fu Costanza di Aragona da cui ebbe come figlio l’Imperatore Enrico VII, la seconda Jolanda di Brienne da cui ebbe come figlio Corrado IV, sposò poi Isabella d’Inghilterra e poi Bianca Lancia detta anche Bianca d’Agliano.

Oltre a queste ebbe almeno 8 amanti di cui riconobbe i figli (su questo, cfr. la voce Federico II, figli, in Federiciana della Treccani, disponibile on-line): di alcuni di essi si conoscono i nomi, di altri non si conosce chi fossero le madri. Evidentemente si trattava di una persona libera dal punto di vista affettivo e si vede come la donna contasse meno al tempo (lui era l’amante, lui il grande imperatore).

7/ Il destino di Federico II

Federico II, insomma, non è come lo dipingono i clericali né come lo dipingono gli anticlericali; non è né un diavolo né un angelo. È un medioevale che cercò di vivere al meglio il suo tempo, con grande apertura, ma anche con grande desiderio di potere assoluto su tutti.

Nell’ultima visita a Castel del Monte vi trovai, proprio dinanzi, dei performers, degli spinner, con cyclette per compiere le loro prestazioni di benessere: peggio ancora che le riletture esoteriche del povero Federico II! Forse la vita – anche quella di luoghi così importanti della storia italiana e mondiale - avrebbe bisogno di un’altra dignità, di una maggiore ampiezza di orizzonti rispetto a queste versioni ultra moderne di abuso dell’antico.

Federico II si fece seppellire con l’abito di oblato cistercense (cfr. su questo Federico II, imperatore cristiano, in un breve scritto di Franco Cardini).

Qui il video da cui è tratto (con correzioni e aggiunte) questo testo:

https://www.youtube.com/watch?v=pI5cQpRxFM0

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 3:20 pm | | Default

La Croce Lateranense o Costantiniana, capolavoro del Museo della basilica di San Giovanni in Laterano, e la tipologia delle Scritture con scene dalla Genesi, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

La Croce Lateranense o Costantiniana è una croce processionale, realizzata cioè per aprire le processioni avendo a fianco i portatori di candele, e, dato il luogo per cui venne pensato, per aprire le processioni del vescovo di Roma, il papa, nel medioevo. È ancora oggi utilizzata nelle vive liturgie delle grandi feste della Basilica di San Giovanni in Laterano[1].

Mentre in origine gli studiosi ne avevano fissato la data nell’avanzato XII secolo[2], oggi gli studi di Andaloro ne hanno sposato più in avanti la datazione alla fine del XIII secolo o addirittura agli inizi del XIV[3].

Radaeglia[4] ha sintetizzato gli studi su tale meravigliosa croce stazionale – altro termine utilizzato per sottolineare questa volta il suo utilizzo nelle stationes, cioè le chiese indicate dalla tradizione per le celebrazioni pontificie di determinate feste liturgiche – mostrando come essa avesse una disposizione almeno parzialmente diversa delle placche nel 1699, quando il Ciampini la disegnò[5], e suggerendo ipotesi convincenti di una sistemazione delle scene ancora diversa, anteriormente a tale data[6].

Risulta, infatti, evidente che la disposizione attuale non può essere quella antica, tanto alcune scene, ad esempio quella del Sogno del patriarca Giuseppe, sono lontane dalle altre relative alla stessa figura biblica[7].

1/ La crocifissione e il peccato originale nella Croce Lateranense

L’incertezza sulla posizione originaria di alcune scene non impedisce, comunque, di coglierne l’impianto, così come venne pensato dall’argentiere e dai committenti.

Innanzitutto è evidente che la croce ha due scene maggiori, l’una anteriormente e l’altra posteriormente, che sono la Crocifissione e il Peccato originale: l’evento della morte salvatrice del Cristo e il peccato che causa la morte sono posti in relazione di reciprocità.

Già questa giustapposizione dice come l’esegesi cristiana del tempo – e l’esegesi di sempre – insegni che non avrebbe senso la venuta di Cristo se il mondo non fosse uscito dalle mani di Dio e se l’uomo non avesse bisogno di essere salvato dal peccato che tutti ha portato alla rovina. È necessario che Cristo muoia per i peccati. Insomma, fra Genesi e il Vangelo c’è una reciprocità asimmetrica: il Vangelo è infinitamente più importante, ma senza Genesi non avrebbe senso.

Questo è evidente anche iconograficamente. Nella scena della Crocifissione sta al centro il Cristo, mentre nella scena del Peccato sta al centro il serpente demoniaco e sotto entrambi stanno un uomo e una donna, Adamo ed Eva, Maria e Giovanni: i primi perdono la salvezza, i secondi la ricevono nuovamente in dono.

Nel rapporto tipologico si evidenzia il ruolo di Maria, nuova Eva, a rappresentare la Chiesa che viene salvata – per tipologia, si intende che ogni evento dell’Antico testamento è visto come un “tipo”, una prefigurazione, un’anticipazione, un’ombra del Nuovo.

Nel tondo della Crocifissione si vedono in alto il sole e la luna, segno che la croce di Cristo è un evento cosmico e non riguarda solo qualcuno: il cosmo intero compartecipa all’evento della salvezza, attraverso un’eclissi.

A fianco di Gesù stanno, come sempre, la Madonna e San Giovanni Evangelista. Sotto si vedono fiori, perché dalla croce germoglia ormai la vita. La Madonna/Chiesa raccoglie il sangue di Cristo che le dà vita.

2/ I “tipi” di Cristo nelle storie della Genesi della Croce Lateranense

Le storie e i tondi che sono ai quattro bracci della croce dal lato della Crocifissione sono chiaramente scelti perché i personaggi delle storie in essi narrati sono visti come “tipi” di Cristo nell’Antico Testamento: quelle quattro storie sono scelte perché in esse la Chiesa ha letto con forza una prefigurazioni di ciò che in Gesù è divenuto realtà piena[8].

a/ In alto si vede, nel tondo, il sacrificio di Isacco. Qui la figura che anticipa il Cristo non è Abramo, ma Isacco. Il figlio di Abramo viene preparato per il sacrificio, ma poi esso non avverrà non solo perché Dio lo impedirà come racconta il testo stesso della Genesi, ma ancor più perché sarà il Cristo che deve ancora venire ad essere il vero Figlio che sarà sacrificato. Ecco la tipologia: l’episodio del sacrificio di Isacco non si limita al contesto antico, ma viene riletta a partire dalla croce, il vero sacrificio che sostituisce tutti i precedenti.

Nel tondo si vedono solo Abramo e Isacco, ma il riferimento è alla croce di Cristo che è nel tondo centrale, vero sacrificio che fa cessare tutti i sacrifici umani, sempre imperfetti e, in fondo, inutili.

b/ Nel braccio orizzontale, invece. è la storia di Giuseppe. All’estrema destra si vede Giuseppe che va incontro ai suoi fratelli, ma essi decidono di ucciderlo e, infatti, nel tondo di destra, egli viene gettato nel pozzo per essere poi venduto alla carovana di ismaeliti che si vede a sinistra del pozzo.

Nella parte sinistra del braccio orizzontale, lo si vede invece in Egitto, nel tondo, mentre gli si presentano davanti i suoi fratelli che in un primo momento non lo riconoscono, ma vengono da lui salvati.

Qui è Giuseppe ad essere “tipo” di Cristo: egli è il fratello amato dal Padre – lo si vede a destra arrivare dai suoi fratelli con il suo bel vestito, tutto felice -, che viene rigettato dai suoi fratelli che lo vogliono morto, ma la provvidenza di Dio fa sì che questo loro rifiuto divenga invece salvezza, perché egli dall’Egitto li salverà dalla carestia.

Nuovamente quel pozzo di morte che genera invece salvezza non è un episodio che la Croce stazionale considera chiuso in se stesso bensì lo vede come annuncio della morte in croce che genererà la salvezza per tutti i fratelli.

c/ In basso è il tondo con il sacrificio di Caino e Abele e subito sotto è l’uccisione di Abele da parte di Caino. Dio gradisce il sacrificio di Abele, ma subito il fratello che è invidioso di lui e della sua benedizione, lo uccide – l’uccisione è sopra il tondo, più vicina alla crocifissione e si vede anche Dio che dal cielo chiede conto a Caino della morte del fratello. Qui è Abele ad essere “tipo” di Cristo: come Abele, così Cristo è bene accetto a Dio e, nonostante questo, deve subire un’ingiusta morte.

d/ Le scene che sono alle estremità dei bracci probabilmente avevano in origine una diversa sistemazione – almeno alcune di loro, come ipotizza Radaeglia anche a partire dal disegno del Ciampini.

Le descriviamo così come esse ci appaiono ora: in atto, sopra il sacrificio di Isacco, sta il sogno di Giuseppe che nei covoni e nelle stelle vede e profetizza la prosperità futura cui la provvidenza condurrà la storia.

Sotto il sacrificio di Isacco sta una scena di non univoca interpretazione che potrebbe essere la partenza di Giuseppe che si distacca dal padre per raggiungere i suoi fratelli.

All’estremità sinistra del braccio orizzontale sta, invece, una scena relativa a Giacobbe che è anch’egli “tipo” del Cristo. Qui lo si vede nella sua lotta con Dio, per ricevere la sua benedizione e conoscerne il nome.

Le due scene in basso, nel braccio verticale, trattano nuovamente di Giacobbe. In quella disposta in lunghezza è Giacobbe che si accorge che una scala sale al cielo e gli angeli salgono e scendono su di essa, segno che Dio è presente proprio dove lui è e che il cielo è aperto. Gesù mostrerà con le sue stesse parole che quell’episodio è prefigurazione della sua vita, annunciando che i credenti vedranno il cielo aperto e gli angeli salire e scendere su di lui.

La scena più in basso, invece, può essere interpretata come Giacobbe che unge la pietra per il sacrificio, segno anticipatore del tempio che diverrà poi la carne del Cristo, oppure ancora Giacobbe al pozzo, segno della vera acqua che zampilla per la vita eterna: sempre, comunque, l’autore ha in mente il rapporto Giacobbe/Cristo.

In sintesi, nell’iconografia della Croce lateranense, se la croce è il cuore di tutto, rivelazione dell’amore del Padre che si offre totalmente nel Figlio, chiarissime sono le quattro prefigurazioni di quella croce, quella di Abele, quella di Isacco, quella di Giacobbe e quella di Giuseppe.

Più spazio è data a quest’ultima, con ben due tondi, mentre quella di Giacobbe, pur molto presente, non ha un tondo che la ponga in evidenza.

3/ Il racconto della creazione e il peccato originale che deve essere redento dalla croce

Sull’altro lato della croce sta la storia della creazione[9]. È meraviglioso come il medioevo proiettasse sempre la salvezza dinanzi al cosmo. Senza la croce tutto il creato sarebbe destinato a perire e l’uomo si perderebbe nell’immensità del fluire delle cose. Ma, d’atro canto, è solo perché Dio ha creato il mondo e l’uomo che infine si preoccupa della loro salvezza.

L’una parte della Croce lateranense non avrebbe senso senza l’altra. L’una è l’altra faccia dell’altra.

Ebbene al cento sta il peccato originale.

Ma, prima di arrivare ad esso, vale la pena seguire l’andamento iconografico di questo lato.

In alto sta la raffigurazione del Padre: tutto da lui ha origine e in lui ha vita e salvezza. È lui ad inviare lo Spirito che si vede discendere ed è lo Spirito a dare vita a tutto.

Sotto di lui sono raffigurate, in forma antropologica, la luce e le tenebre, il giorno e la notte.

Non solo lo scorrere del tempo, ma l’esistenza stessa della luce che rende intelligibile e bello tutto e si staglia nelle tenebre, tutto discende da Dio.

Subito sotto, nel tondo, a dare rilievo sta la creazione della donna dalla costola dell’uomo. Costola – lo sapevano bene anche i medievali – era simbolo della parità: la prima donna non nasce dai piedi dell’uomo perché egli la domini, ma nemmeno dal suo capo perché sua la donna a dominare: dalla costola perché siano compagni, l’uno di fianco all’altra (cfr. su questo Pietro Lombardo che riprende le antiche prospettive di esegesi rabbinica: “Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna”, in Sentenze 3, 18, 3).

La creazione dell’uomo è posta al di sotto alla creazione della donna, con l’immagine di Dio che “parla” all’uomo, che si rivolge a lui, perché è l’unica creatura che gli possa stare dinanzi, mentre gli animali non sono in grado di fare questo.

Probabilmente viene data maggior enfasi alla creazione della donna perché in chiave tipologica Eva rappresenta l’intera chiesa che viene generata dal costato di Cristo.

Si giunge così alla raffigurazione centrale, il tondo con il peccato originale. Il serpente è rappresentato con il pomo in bocca, mentre lo offre alla donna. Sua è la cattiveria di indurre in tentazione, di gettare discredito su Dio, quasi che allontanandosi da lui si possa trovare gioia e libertà e non invece tristezza e schiavitù.

Nel braccio orizzontale, a sinistra, si vede Dio nel tondo che si rivolge ad Adamo ed Eva che si sono nascosti dietro un albero e altre fronde: hanno perso dimestichezza con Dio, si vergognano, fuggono, sanno di aver sbagliato.

Ancora più a sinistra si vede Dio che dialoga con i due e li interroga, poiché essi possono rispondergli e rendergli conto della vita. L’uomo sta già accusando Eva – è la nascita della misoginia -, cercando di discolparsi, piuttosto che ammettere la sua corresponsabilità. Non sono più compagni, alleati, ma sono nemici l’uno dell’altra.

Nel braccio orizzontale a destra si vede l’allontanamento di Adamo ed Eva dalla condizione di felicità – non una condanna, ma la scoperta che non c’è felicità senza lo stare con il Creatore – e dopo il tondo si vede l’angelo fiammeggiante che indica che la strada è ormai preclusa (sarà la croce a riaprirla, con il perdono).

Infine all’estrema destra si vedono Adamo ed Eva al lavoro: l’uomo medioevale sapeva che questa condizione non era semplicemente una punizione, ma l’offerta di una via di redenzione. L’uomo e la donna lavorando, ritrovano la giusta strada del servizio reciproco e alla società e scoprono la bontà del costruire la città secondo il cuore di Dio. L’uomo, lavorando, impara nuovamente a fidarsi dei fratelli e a fidarsi di Dio: il lavoro è veramente un mezzo per ritrovare la via, secondo la visione medioevale.

Nella parte inferiore si vede in basso, innanzitutto, l’arca di Noè che è segno, nell’iconografia medioevale, dell’amore di Dio che permane nonostante il peccato, motivo per cui Dio salva l’uomo e l’intero cosmo, con tutti gli animali, nonostante il peccato, in vista della salvezza che giungerà. L’arcobaleno, che qui non è rappresentato, è il simbolo biblico che indica l’amore di Dio che permane nonostante il peccato degli uomini.

Subito sopra è un duplice episodio che, a nostro avviso, ha ragione Redaeglia a leggere come l’incontro di Abramo con Dio[10], rappresentato prima tramite un angelo e poi tramite tre segni in alto: il Dio trino ed unico si rivela già a Mamre, secondo l’esegesi tipologica del tempo.

Sotto il tondo del peccato originale stano invece il tondo con Giacobbe che riceve, con l’aiuto della madre Rebecca che è al suo fianco, con un inganno, la benedizione della primogenitura dal padre Isacco sottraendola al fratello gemello Esaù, che si vede in alto tornare, dopo essersi allontanato, con la selvaggina. Anche qui la storia richiama il perdurare della benedizione nonostante i sotterfugi degli uomini.

Note al testo

[1] È custodita nel Museo della basilica di San Giovanni in Laterano a cui si accede a destra del presbiterio.

[2] Così C. Cecchelli, Il tesoro di S. Giovanni in Laterano, in “Dedalo” (1926-1927), VII, p. 250 e C. Cecchelli, La vita di Roma nel Medioevo, Roma, Fratelli Palombi, 1951-1952, pp. 42-43; 715, seguito dal Garrison e dal Waetzoldt.

[3] Così M. Andaloro (a cura di), Tesori di arte sacra di Roma e del Lazio dal Medioevo all'Ottocento, Roma, Comune di Roma, 1975, pp. 68-70 e tavole LXXVII-LXXIX, proseguendo un’intuizione che era già stata di P. Toesca, Il Medioevo, vol. II, Torino, UTET, 1927, p. 1148. Così D. Radeglia, Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di S. Giovanni in Laterano, in A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del Duecento italiano, vol. II, Galatina, Congedo editore, 1980, pp. 153-158.

[4] D. Radeglia, Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di S. Giovanni in Laterano, in A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del Duecento italiano, vol. II, Galatina, Congedo editore, 1980, pp. 153-158 (con immagini e ricostruzione dell’ordine delle storie al termine del volume).

[5] D. Radeglia, Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di S. Giovanni in Laterano, in A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del Duecento italiano, vol. II, Galatina, Congedo editore, 1980, p. 155 (al termine del volume sono pubblicati i disegni del Ciampini).

[6] Radeglia, fra l’altro, mostra come almeno un punzone sia settecentesco, segno di un restauro del manufatto (D. Radeglia, Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di S. Giovanni in Laterano, in A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del Duecento italiano, vol. II, Galatina, Congedo editore, 1980, p. 155), e sottolinea come il Sogno di Giuseppe mostri l’esistenza di un aggiunta, segno che dovette essere adattato per essere ricollocato (D. Radeglia, Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di S. Giovanni in Laterano, in A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del Duecento italiano, vol. II, Galatina, Congedo editore, 1980, p. 156). Non esistono però né immagini, né testi antecedenti ai disegni del Ciampini che indichino la disposizione originaria, che deve perciò essere dedotta dallo stato attuale.

[7] C. Valenziano, Le iconi, in Ufficio celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice (a cura di), Magnum Iubilaeum. Trinitati Canticum, Città del Vaticano, LEV, 2007, pp. 695-721 sembra ignorare che la disposizione attuale non sia quella originaria.

[8] Sulla lettura tipologica, cfr. La lettura cristologica e tipologica dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento (da Manlio Simonetti) e Abramo vide il mio giorno e fu pieno di gioia, di Andrea Lonardo. Cfr. anche A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I "misteri" della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2019 (insieme a L. Mugavero).

[9] Per approfondimenti sull’esegesi di Genesi, cfr. A. Lonardo, La bellezza originaria. I racconti di creazione nella Genesi, Castel Bolognese, Itaca, 2017.

[10] D. Radeglia, Osservazioni sulla primitiva disposizione delle scene veterotestamentarie della croce stazionale di S. Giovanni in Laterano, in A.M. Romanini (a cura di), Federico II e l'arte del Duecento italiano, vol. II, Galatina, Congedo editore, 1980, p. 158 (con immagini e ricostruzione dell’ordine delle storie al termine del volume).

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 3:10 pm | | Default

La rivoluzione delle rivoluzioni: le rivoluzioni sono così poco vere che mutano sempre di obiettivo e i temi delle precedenti vengono presto dimenticati. Breve nota di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Diritti umani.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

1/

Le rivoluzioni ebbero un tempo per obiettivo salari più alti per gli operai: i borghesi e gli intellettuali dovevano avere stipendi non troppo dissimili da chiunque altro lavorasse.

Coloro che protestavano per avere salari più alti, oggi non protestano più, anche se un terzo degli italiani ha ormai uno stipendio inferiore ai 1000 euro al mese.

E soprattutto non protestano più gli intellettuali per questo, la protesta si è spostata su altri temi, la droga o il sesso liberi.

È incredibile come quel grido di eguaglianza sia quasi dimenticato, spento, morto, finito: è raro trovare chi invochi salari più equi per tutti.

La storia sta dimostrando che spesso cambia il motivo per cui lottare e ciò che sembrava decisivo in una determinata epoca non sembra poi più decisivo in quelle successive.

Ovviamente questo dipende da chi è al potere, per cui se vanno al potere politico ed economico coloro che avevano lottato per l’uguaglianza economica e salariale, costoro si dimenticano di incitare poi ad una rivoluzione che sia contro i loro stessi stipendi, a favore di chi ora è meno abbiente.

È il fenomeno della “rivoluzione delle rivoluzioni”: essere sempre rivoluzionari in nuovi campi, dimenticando quelli precedenti. Rivoluzionare sempre, ma con la necessità di rivoluzionare le tematiche delle rivoluzioni stesse, di modo che i precedenti motivi rivoluzionari siano messi in soffitta.

Permane l’essere rivoluzionari, ma cambiano le finalità. Permane l’essere progressisti, ma combattere per giusti salari non è più all’ordine del giorno.

2/

La rivoluzione ebbe per tema poi la libertà di espressione, attribuendo a Voltaire un detto mai da lui pronunciato: “Non sono d’accordo con te, ma sono pronto a morire perché tu possa esprimere il tuo punto di vista”.

Oggi un atteggiamento “rivoluzionario” prevede che si invochi un controllo censorio su chi scrive sui social se qualcuno prende posizioni che l’establishment che, prima invocava la libertà, ora condanna.

Debbono essere vietate parole e prese di posizione su temi scottanti. Non si deve essere liberi di pronunciarsi, ad esempio, a sfavore del gender.

Alcuni pensieri sono ritenuti pericolosi per il benessere sociale e, dunque, si invocano social che censurino determinate modalità di pensiero e, ancor più, si desidera che la scuola e i media censurino determinati autori.

Prima si era progressisti invocando la libertà di pensiero, ora si è progressisti negandola. Anche questo principio è stato rivoluzionato: i progressisti invocano il controllo del pensiero su determinati punti sensibili

3/

L’accoglienza incondizionata dei migranti sembrava essere un’ulteriore parola d’ordine, una parola progressista e rivoluzionaria. Ora che il centro-sinistra è al potere a Bruxelles non è più centrale che gli stati dell’Unione si aprano all’accoglienza: solo gli stati ai confine vengono caricati di tale responsabilità. Ma i grandi stati europei sono invece progressisti, anche se se ne disinteressano, perché ciò che conta è essere europeisti.

Non è importante più quale politica faccia l’Europa per i migranti, basta dire che si è europeisti e non nazionalisti.

Ancora una volta resta l’atteggiamento “rivoluzionario”, pur roteando vorticosamente i motivi di esso.

4/

Lo stesso si deve dire del commercio e della produzione di armi. Prima l’atteggiamento rivoluzionario e progressista era tout court contro la produzione di armi, non importava se esse venivano vendute a popolazioni perseguitate o se venivano utilizzate per la difesa nazionale: le armi dovevano essere bandite, il commercio interrotto e la produzione arrestata,

Oggi, l’atteggiamento progressista sembra aver modificato tale prospettiva ed è rivoluzionario e moderno solo chi è favorevole all’invio di armi in Ucraina, perché quel popolo ha subito un’ingiusta evasione.

Improvvisamente molti degli anti-militaristi si sono riscoperti favorevoli alla produzione di armi.

5/

Oggi l’atteggiamento progressista-rivoluzionario ha sposato la causa della libertà sessuale. Questa è la punta di diamante della lotta contro il capitalismo.

Non contano gli stipendi, non conta la libertà di espressione, non conta l’accoglienza dei migranti, non conta il rifiuto delle armi e la non violenza. Ciò che conta è che i ragazzi, fin da giovanissimi, quasi da bambini, possano avere libertà sessuale. E che possano consumare droga e alcoolici a piacimento.

Ma non sarà che queste pseudo libertà servono solo a far illudere i rivoluzionari-progressisti che hanno cambiato più volte i loro obiettivi rivoluzionari, di essere ancora progressisti e giovani? Ma non sarà che tutto questo è una copertura per non ammettere la miseria del cambiamento continuo delle rivoluzioni da perseguire, con l’accantonamento delle precedenti per la scelta di un sempre nuovo motivo di rivoluzione che sostituisca il fallimento del precedente?

Per nascondere che chi si dichiara contro il sistema oggi “è” il sistema e ha il potere in mano. Eppure quei pesi non li tocca nemmeno con un dito.

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 3:03 pm | | Default

Vedere, o no [Dinanzi ad un’ecografia perché si gioisce, se è un niente?], di Marina Corradi

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Marina Corradi pubblicato il 30/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

Una giovane coppia sull'ascensore di una maternità milanese. Sorridono, parlano eccitati guardando qualcosa sullo smartphone. «Ha già la bocca! E che naso!», dice lei, e ride. E chiama la madre, «Ciao mamma, sì, dieci settimane, sta benissimo, si vedono le manine, i piedi…».

Della madre non sento la risposta, ma già deve parlare di corredini, «Sì, certo mamma, andiamo insieme…», risponde la ragazza. I due escono abbracciati, ancora riguardando il video. Il più emozionante dei video: tuo figlio appena spuntato da quel buio, che lo avvolge come una notte. E sì, ha il naso, la bocca, le mani. È una cosa straordinaria. È lungo pochi millimetri. Ma sarà un uomo, sarà una donna.

Quando vedo questa naturale gioia davanti a un'ecografia, un pensiero però mi sbalordisce: quella stessa creatura, se non fosse desiderata da sua madre, non sarebbe niente, sarebbe qualcuno di eliminabile, anzi qualcuno che per qualcun altro è un “diritto” eliminare. E guai a obiettare, a provare a discuterne: pare un sacrilegio.

Fatico a capire questo sguardo strabico. Se lo si vuole è un bambino, sennó, non è niente. Certo, quel figlio vive nel corpo di una donna. Ma la tua libertà può cancellare una vita, sia pure dipendente da te? Ed è un dogma, questo diritto, e perché?

Se quel video fosse mostrato a delle ragazzine delle medie, senza parole. Un bambino? Un niente? A 13 anni forse si vede ancora la realtà. Poi, l'ideologia ti rieduca.

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 3:00 pm | | Default

“Se cadesse dal suo ego si ammazzerebbe”, ma anche “Averne piene di parlare di salute!”. Dialogando con un amico, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

Per parlare del narcisismo un amico mi cita un detto spagnolo: “Se cadesse dal suo ego si ammazzerebbe”, tanto è alto. Magnifica espressione!

Mi dice poi: “Ne ho le ball… piene di parlare di salute, voglio parlare di salvezza”. Meraviglioso.

E poi prosegue: “Non ne posso più del Ministero della sanità, mi interessa solo il ministero della santità”. C’è qualcosa di più interessante da dire oggi?

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 2:56 pm | | Default

Sacra Scrittura e psicoanalisi. Recalcati e la Bibbia: una lettura capace di generare. L’Antico Testamento come strumento «per comprendere meglio la psicoanalisi», di Luigino Bruni

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Luigino Bruni  pubblicato il 23/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Psicoanalisi e psicologia.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

Il lavoro di Massimo Recalcati sui testi biblici è molto importante. È tra le innovazioni culturali più significative del panorama culturale contemporaneo, non solo italiano e non solo negli studi di psicoanalisi.

La Bibbia ha sempre ispirato l’arte, la letteratura, la poesia e la filosofia; nella modernità ha influenzato anche le scienze umane e sociali. Anche Freud, ebreo, anche Lacan, il maestro di Recalcati, hanno attinto dal mondo biblico. Nell’opera di Freud un posto centrale lo occupano i suoi studi su "Mosè e il monoteismo", anche se, lo sappiamo, Freud e la sua scuola hanno fatto ricorso soprattutto alla mitologia greca.

La Legge della parola (Einaudi. Pagine XIV - 386. Euro 21,00), che in parte raccoglie, sintetizzati, lavori precedenti (quelli su Caino e Giobbe li ho recensiti nel 2021 su queste colonne), è un’opera molto ambiziosa, un esercizio arduo.

Il tema centrale del libro è il ruolo della Legge e della Parola nella Bibbia e nella psicoanalisi. Il sottotitolo del libro è suggestivo ma in parte fuorviante. Le radici bibliche della psicoanalisi farebbe infatti pensare a un lavoro di messa alla luce di radici di una disciplina che erano già lì, nascoste e al buio, sottoterra, come suggerisce la metafora vegetale.

Ma il libro parla d’altro, e ce lo dice lo stesso autore: “Si tratta di leggere le Scritture per comprendere meglio la psicoanalisi… annodare i fili di due discorsi (quello della Torah e quello della psicoanalisi) considerati eterogenei e radicalmente alternativi” (p. vii).

Quindi il suo non è un lavoro sulle radici ma un intrecciamento di due fili - e, poi, gli studi di Freud e Lacan ci dicono che i due discorsi non erano, dall’inizio, così "eterogenei e alternativi".

In realtà, Recalcati fa davvero un lavoro di fondazione della sua psicoanalisi a partire dai miti biblici, ma il suo è un lavoro sulle radici della sua propria versione della psicoanalisi, che ormai è diventato negli anni qualcosa di più di una applicazione e sviluppo della teoria di Lacan.

Recalcati, forse, è arrivato alla Bibbia, alla parola biblica, partendo dallo studio del linguaggio nella teoria di Lacan, dove occupa un posto centrale, probabilmente il primo posto. La centralità del linguaggio porta Lacan a dire che “ciò che distingue in modo particolare il Dio degli ebrei è … che è un Dio che parla.” (p. 4).

Nel primo capitolo della Genesi, infatti, Dio crea dicendo, parlando, pronunciando parole: “E Dio disse …”. La parola creatrice opera quello che Recalcati chiama Il primo taglio: Dio creando si ritira dalla creazione, si separa da esso, "taglia" la creazione da Se stesso. Hoelderlin aveva espresso, poeticamente, questo taglio con uno dei suoi versi più belli: “Dio ha creato l’uomo come il mare crea i continenti: ritirandosi”.

Quindi il mondo resterebbe “senza Dio” (p. 13), perché “l’atto della Creazione è l’atto di un taglio che allontana e separa la creatura dal suo Creatore… Il Dio biblico compie un passo indietro rispetto a se stesso separandosi da ciò che ha generato” (p. 12).

Una chiave di lettura che piace molto a Recalcati (e a Lacan), che ha costruito la sua teoria della paternità-figliolanza attorno al tema della necessaria separazione, la sola che garantisce il non-incesto.

Quando però arriva a scrivere che “Dio non può determinare il corso della storia perché la storia è fatta dagli uomini e non da Dio. È, a rigore, la morte definitiva di ogni teodicea” (pp. 14-15), facciamo più fatica a seguirlo.

Il rapporto tra Dio e la creazione non termina nel capitolo due della Genesi; continua con l’Adam, Caino, Noè e poi Abramo. L’idea biblica centrale di Alleanza dice il contrario: Elohim sceglie un popolo per portare la storia umana verso un compimento, per trasformarla.

Il Dio biblico non è assente nella storia, ma opera tramite gli uomini e le donne che sono dentro un rapporto di alleanza. Per non parlare dei profeti, nei quali Dio manda parole agli uomini per cambiare il mondo, per non parlare dell’apocalittica e di Dio come ‘giudice del mondo’ (Dan 7), di Cristo e del Paraclito.

Recalcati continua con un secondo taglio, che rintraccia ancora nei primi capitoli della Genesi, un taglio che “interviene a separare la creatura dal miraggio della sua totalizzazione” (p. 16). Qui in gioco c’è un’altra categoria chiave nel sistema di Recalcati-Lacan: la gestione del desiderio.

Nel capitolo due della Genesi, l’Adam (l’umano, il terrestre) diventa Adamo, il maschio, e dopo di lui arriva la donna, Eva, da una costola di Adamo. Qui Recalcati scrive alcune delle pagine più belle del libro: “Il mito della costola perduta è il mito d’origine del desiderio umano: ricercare nell’altro la parte più fondamentale di me stesso” (p. 20).

Anche Lacan aveva discusso il mito di Adamo e la sua costola, e “questa parte perduta che causa il nostro desiderio è chiamata da Lacan l’oggetto piccolo (a)” (p. 20). Una Eva plasmata con una parte del corpo di Adamo piace molto a Recalcati, e ci costruisce un discorso affascinante: “La perdita di una parte del proprio essere - la costola - introduce una mancanza nel soggetto che attiva il suo desiderio verso l’altro il quale, essendo attraversato dalla stessa mancanza, non può che, a sua volta, dirigersi verso l’altro ma senza che ci sia alcuna possibilità per entrambi di colmare in modo definitivo la mancanza che ciascuno porta con sé” (p. 21). Da qui la sua tesi principale sul rapporto sessuale: “L’impossibilità di vivere la relazione con l’altro come una semplice unificazione, un rispecchiamento tra eguali, una simmetria senza differenza” (p. 21).

L’esperienza della mancanza è allora costitutiva dell’eros e della relazione uomo-donna. Il desiderio dell’altro è inappagabile, perché la costola non torna più ad Adamo, è una mancanza incolmabile. Mentre per Platone: “l’eros è la ricerca dell’intero”, per Recalcati-Lacan il desiderio dell’altro è inappagabile, resta una ferita, una indigenza: “Il desiderio umano ricerca la propria parte perduta nell’Altro senza però poterla mai trovare. Eva, come indice dell’alterità dell’Altro, pur sorgendo dalla costola di Adamo, non potrà mai essere recuperata nel suo essere eteros dal desiderio di Adamo”. Per Platone l’eros è il ritorno all’uno e all’intero, per Recalcati “è proprio questa differenza a definire l’essere dell’umano in quanto tale ordinando il suo desiderio attorno a un punto di assenza, a una mancanza d’essere fondamentale” (p. 22-23).

Un discorso affascinante e convincente. Il problema riguarda il rapporto tra questa teoria psicoanalitica e il testo biblico. È difficile fondare questa idea di Recalcati sul mito di Adamo ed Eva, come è difficile tenere assieme "i due tagli", che si riferiscono a due tradizioni diverse presenti nel testo della Genesi. I versi 1.1-2.3 (quelli del "primo taglio") appartengono alla cosiddetta tradizione sacerdotale, più recente e nata dopo l’esilio babilonese, mentre i versi 2.4-3.24 (quelli del "secondo taglio") furono scritti da un autore/autori con altri simboli, con un’altra antropologia, con un’altra idea del rapporto uomo-donna.

Il messaggio del capitolo secondo della Genesi riguarda, essenzialmente, la reciprocità e l’uguaglianza sostanziale tra Adamo ed Eva. La "creazione" di Eva nasce dal seguente "desiderio" di Dio: “Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (2,18). L’espressione ebraica che noi traduciamo "qualcuno che gli corrisponda" o "che gli sia pari" è ezer kenegdò che significa letteralmente: "qualcuno con cui incrociare gli occhi alla stessa altezza". All’uomo non bastava lo sguardo verso il basso (animali) né quello verso l’alto (Dio): c’era bisogno di uno sguardo orizzontale tra pari. La gioia di Adamo dopo il risveglio sta nell’aver trovato qualcuno che gli è finalmente pari perché “questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (2,23).

Ciò che sta a cuore sottolineare al testo è proprio la parità e l’uguaglianza, ed è veramente difficile ritrovare nella costola il segno della mancanza e del desiderio inappagabile, perché tutto dice il contrario: con Eva, Adamo ha finalmente appagato quel desiderio di uguaglianza che prima restava inappagato. Questa reciprocità non è solo la nota dominante del Cantico dei cantici (p. 307), è anche la nota della Genesi, sia nel primo capitolo ("maschio e femmina lo creò": Gn 1,27), sia nel mito di Adamo ed Eva.

Non voglio dire che la visione di Recalcati sia meno interessante di quella dell’autore biblico, di quella di Platone o di Freud; dico soltanto che è problematico fondarla sul testo biblico. Resta invece possibile offrire una lettura nuova di quegli antichi miti, un’operazione legittima e, in questo caso, generativa (suscita molte idee). Spesso gli autori originali e creativi, come Recalcati, che approdano al testo biblico (o a un altro testo classico) con una teoria già formata, difficilmente riescono a resistere alla tentazione di usare il testo biblico come "appiccapanni" (come usava dire Luigi Einaudi) del proprio bel vestito.

Un’altra tentazione simile la incontriamo quando Recalcati discute il significato della parola ebraica hevel in Qoelet: lui la traduce "soffio" per eliminare la “dimensione moralista” della parola latina "vanità", dimenticando che vanitas non ha nulla di moralistico: proviene dal sanscrito vahana, cioè vento e soffio (p. 261).

Molto suggestiva è anche la lettura del cosiddetto "peccato originale" o trasgressione di Adamo ed Eva (e poi quella di Caino), nel capitolo tre della Genesi. Riprendendo una tesi di san Paolo, Recalcati scrive che “il paradosso è che è proprio la nascita della Legge - l’interdizione di Dio - a determinare la nascita del desiderio umano di trasgredire la Legge” (p. 23). Quindi “la Legge separa la vita umana dalla sua immediatezza animale” (p. 25), dominata dall’istinto.

La Legge, ponendo la proibizione di mangiare da tutti gli alberi tranne uno, opera una sorta di "terzo taglio" (anche se Recalcati non lo chiama così), quello dal tutto; infatti, “la possibilità generativa del desiderio dipende dal riconoscimento dell’impossibilità di essere o di fare Uno. L’umano non è padrone del suo fondamento, non può costituirsi come un ‘tutto’” (p. viii). Perché - e questo è una delle intuizioni più belle del libro - “la vera perversione del desiderio umano non è la spinta a trasgredire la Legge, ma quella che si regge sull’anelito dell’uomo ad assimilarsi a Dio, sulla spinta alla deificazione dell’umano, al porre la propria legge al di là della Legge” (p. 26). Infatti, la creazione di un limite non nega “la possibilità del godimento ma la delimita”, interdice soltanto l’accesso a “un godimento totale, assoluto, senza mancanza, non per privare la vita del godimento ma per consentirle l’accesso a un godimento 'non tutto’” (pp. 28-29). Perché il godimento umano non può godere di tutto, o, con una bella espressione ripresa da Beauchamp: “può godere di tutto, tranne tutto” (p. 29).

Il desiderio di godere di tutto è quello che Freud chiamava desiderio incestuoso, che se assecondato condurrebbe alla distruzione delle società. La Legge dice che ci sono desideri che non vanno soddisfatti, che esiste la categoria dell’impossibile. Solo Dio non conosce l’impossibile, e allora ogni tentativo di negare l’impossibile significa voler "diventare come Dio" (il logos del serpente). Non riconoscere il limite dell’impossibile, e quindi entrare nel registro relazionale incestuoso, significa cedere al godimento mortale, assecondare la pulsione di morte: “è solo preservando l’esperienza dell’impossibile - ‘non mangiatene’ - che diviene possibile l’accesso ad un godimento non mortale ma vitale” (p. 32).

La Legge dice che “non è possibile sapere tutto, godere di tutto, avere tutto” (p. 33), e che “farsi simile a Dio è la follia più grande”. Trasgredire la Legge nella Genesi non è la ricerca di un godimento nevrotico, ma significa negare la propria finitudine, il limite, “cancellare l’impossibile dall’esperienza umana” (p. 38) - qui si aprirebbe un discorso sul transumanesimo, ma non lo facciamo

La parte del libro che ho più apprezzato è comunque la lettura che Recalcati fa della storia di Noè, soprattutto dell’ultima parte, quando Noè, terminato il suo compito di salvezza, pianta una vigna, beve il suo vino, si ubriaca, e si denuda nella sua tenda (Gn 9,21). Recalcati sottolinea che il vino di Noè “è anche oggetto di godimento”. L’elemento cruciale è la paternità di Noè. Noè “è anche uomo e, come tale, un essere pulsionale”. Da qui la domanda decisiva: “Un padre, un uomo ‘giusto’, ‘irreprensibile’, non ha forse il diritto a godere?… Non ha forse il padre diritto di coltivare un proprio godimento?” (p. 106).

Già Freud vedeva il padre come soggetto della funzione normativa e come icona della Legge ma anche soggetto di godimento. Per Lacan, poi, “il godimento del padre non è affatto in contrasto con la sua funzione normativa, ma è, al contrario, proprio ciò che rende credibile, che rende il padre stesso davvero degno di testimonianza” (p. 106).

E quindi “è necessaria una versione paterna del godimento (père-version) affinché il volto della Legge sia reso umano e associato a quello del desiderio”. E poi aggiunge un elemento decisivo: “Se invece il padre si limitasse a rappresentare solo la dimensione normativa della Legge, la forza della trasmissione del desiderio da una generazione ad un’altra si rivelerebbe insufficiente. Questo significa che ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge”.

La coincidenza Padre-Legge dipende decisamente dal fatto che al padre non si permette di avere un godimento. Cam è il solo che tra i figli di Noè che non accetta il godimento e il limite del Padre: entrò nella tenda, “vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori” (Gn 9,22). Cam si scandalizza di un padre ubriaco e fragile, e Noè lo maledice (9,25). Recalcati commenta: “Il carattere umano e non divino del padre può suscitare scherno e disprezzo solamente in quei figli che vorrebbero preservare la sua immagine pura e idealizzata rigettando la sua esistenza reale” (p. 109).

La trasmissione della Legge e dell’eredità dai padri ai figli funziona solo quando i figli accettano che il padre possa restare immagine della Legge pur mostrando la sua umanità fragile e imperfetta; quando invece l’etica del padre coincide con la Legge che annuncia, nessuna trasmissione di eredità funziona perché nessun figlio può essere all’altezza di un padre-Legge: “coloro che rifiutano di assumere il non-essere Dio del padre, il suo non essere un padre ideale, ostacolano la trasmissione dell’eredità paterna nelle generazioni” (p. 110). All’origine di eredità collettive di comunità e movimenti spirituali che non sono riusciti a passare dal padre ai figli, ci sono dei ‘Cam’ che hanno idealizzato il padre, non hanno accettato il suo limite e la sua umanità intera, e così hanno impedito che la sua eredità diventasse patrimonio (munus/dono dei padri) nelle generazioni successive.

Il limite della paternità che Recalcati vede in Noè in realtà è comune a tutti i padri dell’Antico Testamento, dai patriarchi a Davide e Salomone, che sono stati capaci di trasmettere la Legge e la Promessa non ‘nonostante’ la loro imperfezione ma ‘grazie’ ad essa. E qui si apre un ultimo discorso.

Nella prima pagina del suo libro, Recalcati pone una nota editoriale dove dice che questa ricerca sulle ‘radici della psicoanalisi’ continuerà con i Vangeli. Mi auguro solo che prima di lasciare l’Antico Testamento Recalcati continui a lavorarvi, perché il suo lavoro fondativo resta parziale e incompleto. Sono due i grandi assenti: i profeti e le donne.

La Legge senza i profeti non è la Legge biblica: “La Legge e i profeti”, amava dire Gesù per indicare l’eredità d’Israele. La Legge senza profezia è troppo poco, e dà una visione incompleta della stessa legge e dell’antropologia e dell’umanesimo biblico. L’assenza dei profeti si nota troppo. Manca Ezechiele e la sua diversa versione del ‘peccato originale’, (Ez 25), manca Osea, un profeta essenziale per capire una dimensione essenziale del rapporto uomo-donna. In Osea Recalcati avrebbe poi trovato un’altra versione della lotta di Giacobbe con l’angelo (di cui si occupa nel capitolo 5), risalente a una tradizione (forse) più antica di quella della Genesi, dove a vincere il combattimento non è Giacobbe ma l’angelo di Dio, e Giacobbe, fragile e sconfitto, piange e implora.

I profeti hanno un’altra idea della Legge, e la cambiano. Il secondo Isaia, profeta dell’esilio, violando la legge di Mosè che vietava agli eunuchi l’accesso nel tempio, aveva osato scrivere questi versi splendidi: “Così dice il Signore: riguardo gli eunuchi ... io concederò loro nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome, migliore di quelli dei figli e delle figlie. Gli stranieri ... li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera” (Is 56,4-7). Eliseo, poi, moltiplica l’orcio d’olio della donna schiava, e le dice: “Va’, vendi l’olio e paga il tuo debito” (2 Re 4,7). Per la Legge gli schiavi dovevano aspettare sette anni per tornare liberi; per i profeti, invece, gli schiavi devono essere liberati qui ed ora. La Legge di Mosè sui debitori, diversa e più umana, non sarebbe nata senza la profezia. La profezia non è mai soddisfatta della Legge, perché nessuna legge può essere all’altezza della terra promessa. La legge del Regno dei cieli è la legge di Mosè e dei profeti, insieme.

Mancano poi le donne, spesso donne nascoste tra le righe, che sono co-essenziali per capire l’umanesimo e l’antropologia della Bibbia. Manca il rapporto stupendo tra Rut e Noemi, Abigail e la sua diversa intelligenza relazionale, la pietas di Rispa che vegliò per mesi i corpi dei suoi figli impiccati, le regine Gezabele e Atalia e il loro rapporto perverso con il potere, non c’è la ‘strega di Endor’, che con il suo vitello grasso offerto ad un Saul depresso e disperato diventa il ‘padre misericordioso’ dell’Antico Testamento. Mancano Ester e Giuditta, manca Tamar, la sorella principessa violentata, la figlia di Jefte sacrificata dal padre per una assurda fedeltà ad un voto, la concubina violentata dai beniaminiti che divenne una lettera di carne.

È vero che Recalcati dedica un bel capitolo (VIII) al Cantico e quindi a quella relazione uomo-donna, ma è troppo poco per una fondazione psicoanalitica della relazione sessuale nella Bibbia. La Bibbia è piena di donne, che, se prese tutte assieme ci rivelano una dimensione co-essenziale dell’umanesimo e dell’antropologia biblica. Senza queste molte donne diverse e stupende, la donna nella Bibbia è troppo piccola: non bastano Eva e la ragazza bruna del Cantico. In ogni buon libro manca qualcosa, che è buono anche perché incompleto. Ai recensori evidenziare la parte mancante, è il loro lavoro, altrimenti sarebbero tristi compilatori di schede bibliografiche o una inutile schiera di ruffiani.

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 2:53 pm | | Default

Marmolada. Il rovinoso tradimento del Gigante (Quanto siamo piccoli e folli, noi), di Marina Corradi

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Marina Corradi pubblicato il 4/7/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Il mistero del male.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2022)

Il cratere sulla Marmolada - Ansa

Domenica sulle Dolomiti il cielo era di un blu estremo, come accade in genere nel culmine dell’estate. Quando si sale qui dalla pianura torrida, si attende l’istante in cui scendi dall’auto, e un alito di aria fresca ti ravviva. Ma domenica, niente: in Val Badia, alle diciassette, trenta gradi. Il solito albergo, ma non sorride, il padrone: «Sulla Marmolada è venuta giù una montagna di ghiaccio».

Un grosso buco azzurro, come una cannonata sulla pelle rugosa, ora bianca ora grigia, del pachiderma che è il ghiacciaio. Una scossa sismica al cuore.

La Marmolada, la più alta, la Regina. Fin da bambina la grande gita dell’estate era il Viel dal Pan, un sentiero che sale dal passo Pordoi e poi, dolcemente ondeggiando fra i pascoli, scorre, basso, di fronte al ghiacciaio. È un sentiero che possono fare i bambini, e sembra davvero l’Eden. Viola, indaco, genziana, giallo ardente i fiori, e tu pensi: incredibile, come per mesi i semi covati dalla neve esplodano in questo arcobaleno.

Ma, se alzi gli occhi, la maestà della Marmolada ti zittisce.

«Lì il ghiaccio non si scioglie mai – mi spiegava mia madre – e anzi, sotto il manto, è antichissimo, vecchio di secoli». Dunque c’era la pioggia di secoli fa rappresa lassù, prigioniera? mi chiedevo. E la Marmolada mi intimoriva, come un luogo in cui il tempo si ferma.

Ma, cresciuta, che gioia è stata portare i bambini sul Viel dal Pan, uno che già camminava, uno sulle spalle del padre, la piccola con me. Quante foto abbiamo con loro con, dietro, lei, la Marmolada. Era il culmine dell’estate, la gita al Viel dal Pan. E ora quel dinosauro di roccia e ghiaccio non mi faceva più paura. Ero contenta, anzi, che le montagne rimanessero uguali per sempre, mentre il nostro tempo è così breve. Ero felice che quell’Eden fosse intatto, che qualcosa almeno non cambiasse mai.

Solo anni dopo cominciai a sentire dire dell’impoverimento del ghiacciaio. Ma il panorama dal Viel dal Pan, a luglio, mi pareva uguale.

Mi turbò molto invece, nel 2004, il crollo di una delle Cinque Torri, sopra Cortina. Una notte di giugno la Trephor, alta 35 metri, una principessa, incredibilmente si spezzò, e precipitò verso valle. Non c’era nessuno, nessuno morì, e la cosa non fece tanto scalpore. In me sì, però.

E oggi, sotto a un cielo blu zafiro, quel cratere nella pelle della Marmolada, come un cancro covato in silenzio. Sette morti, e forse venti altri, che gli elicotteri gialli che ronzano sul ghiacciaio come api non riescono a individuare. Acqua e detriti precipitati a valle a 300 all’ora, che ne è di quegli alpinisti che salivano nel sole? 

C’è sul web la foto di Filippo. Pochi minuti prima del distacco ride felice: è in cima alla Regina, è in cima al mondo, ha 27 anni, e, a casa, un bambino appena nato. Non lo trovano. E, gli altri, i passeggeri delle sedici macchine al parcheggio, che domenica sera nessuno ha ritirato?

Questo crollo per me è un altro confine ceduto. L’epidemia prima, poi la guerra, incredibile, in Europa. E ora, anche la Regina ha tradito. Il riscaldamento climatico, certo, lo vediamo. Mi chiedo però se simili fluttuazioni non siano già avvenute, in milioni di anni, quando non c’era nessuno a testimoniarle. Ci avvertono che dipendono dalla dissennatezza dell’uomo, ma io mi domando se non siamo, piccoli, dentro un universo di tanto più immenso di noi.

Poi, certo, è giusto e oggi più che mai necessario: amiamola e rispettiamola questa Terra di cui ci siamo creduti padroni, e che ci era invece stata affidata. Questa Terra e le sue creature, che abbiamo trattato come cose da nulla. Il rombo cupo di quel ghiaccio che, magari dopo mille anni, si è staccato dal suo nido buio, porta in sé questo eco. Troppi diversi confini ci stanno cadendo attorno.

Questo crollo non è in fondo un altro tremito nelle nostre serene certezze? Noi, cresciuti quando sembrava che la pace in Occidente fosse garantita, che la salute fosse un diritto assoluto. E che le montagne lassù, petrose antenate, benigne e identiche ci avrebbero, per sempre, guardato passare.

Redazione de Gliscritti | Domenica 10 Luglio 2022 - 2:50 pm | | Default

Che cos’è la cazzimma?, a cura di Antonio Vinciguerra (con una brevissima nota de Gli scritti)

Riprendiamo sul nostro sito un testo a cura di Antonio Vinciguerra, della Redazione Consulenza Linguistica
dell’Accademia della Crusca pubblicato il 17/12/2012 sul sito dell’Accademia della Crusca al link https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/che-cos%C3%A8-la-cazzimma/751. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione
Educazione e oratorio.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Breve nota de Gli scritti

Cazzimma è termine che dice la “furbizia” di chi si aggiusta le cose, ma è anche il carattere in positivo che ha una persona che non è moscia e, capendo la posta in gioco, sa impegnarsi con grinta e determinazione. In questo senso abbiamo adoperato questo termine nel GREST 2022 di San Tommaso Moro e tutti i gruppi hanno capito chi aveva o meno cazzimma quando si cantava l’inno della proprio squadra o quando si doveva superare una prova.

Dal sito dell’Accademia della Crusca

Che cos’è la cazzimma?

Rispondiamo a Gianluca Orlandi che ci scrive da Roma chiedendoci una esatta definizione del napoletanismo cazzimma.

Risposta

Che cos’è la cazzimma?

Cazzimma è un’espressione napoletana, diffusa soprattutto nel lessico giovanile campano e utilizzata, secondo il Dizionario storico dei gerghi italiani (Milano, Mondadori, 1991, p. 89) di Ernesto Ferrero, per indicare un insieme e un intreccio di atteggiamenti negativi: "autorità, malvagità, avarizia, pignoleria, grettezza". Una tale definizione è certamente troppo generica, tuttavia il dizionario di Ferrero ha il merito di fornire una rara testimonianza lessicografica della voce cazzimma che, invece, non è registrata dai maggiori dizionari dialettali napoletani, i quali potrebbero averla tabuizzata perché sentita come volgare.

Una definizione più precisa di cazzimma ci è data però dal noto cantautore partenopeo Pino Daniele, cui dobbiamo, tra l’altro, una delle prime attestazioni di questa parola nella sua canzone manifesto A me me piace ’o blues (contenuta in un album del 1980), dove dichiara in modo provocatorio: «tengo a cazzimma e faccio tutto quello che mi va». A chi gli chiede che cosa sia la cazzimma, Pino Daniele risponde così:

Già, “’a cazzimma”. Chi non è napoletano e non ha mai avuto modo di sentire questo termine, si chiederà giustamente di che si tratti. Ebbe’, “cazzimma” è un neologismo dialettale molto in voga negli ultimi tempi. Designa la furbizia accentuata, la pratica costante di attingere acqua per il proprio mulino, in qualunque momento e situazione, magari anche sfruttando i propri amici più intimi, i propri parenti [...]. È l’attitudine a cercare e trovare, d’istinto, sempre e comunque, il proprio tornaconto, dai grandi affari o business fino alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè (P. Daniele, Storie e poesie di un mascalzone latino, Napoli, Pironti, 1994, pp. 52-53).

In effetti la cazzimma è innanzitutto la 'furbizia opportunistica', e colui che tiene la cazzimma è propriamente un individuo furbo, scaltro, sicuro di sé, è il dritto che sa cavarsela, anche se ciò comporta scavalcare gli altri.

Ma il termine copre uno spettro di significati o, per meglio dire, di atteggiamenti ben più ampio. La cazzimma può infatti indicare anche semplicemente la 'cattiveria gratuita', come spiega, in un suo sketch, il comico napoletano Alessandro Siani, il quale, a un ipotetico milanese che gli chiede: "Cos’è la cazzimma?", risponde così: "Nun t’o bboglio ricere, chest’è ’a cazzimma!", cioè "non te lo voglio dire, questa è la cazzimma!".

Inoltre, i blog della rete ci forniscono alcuni esempi dell’uso di cazzimma con una connotazione quasi positiva per indicare una sorta di 'atteggiamento grintoso, risoluto'. In un blog per calciofili, ad esempio, un tifoso pretende che i giocatori della sua squadra del cuore tirino fuori la cazzimma: "Quella cazzimma ignorante, da gente vera, che non ha paura di nulla e di nessuno, che affronta la sfida con determinazione".

Circa l’origine del termine, va notato che esso non sembra essere un neologismo degli anni ’80, come vuole il cantante Pino Daniele, e, secondo Renato De Falco, sarebbe nato nel linguaggio studentesco-adolescenziale napoletano alla fine degli anni ’50 (R. De Falco, Alfabeto napoletano, Napoli, Colonnese, 1994, pp. 34-35). Ma se le accezioni di cazzimma fin qui segnalate sono senz’altro della seconda metà del Novecento, è probabile che la parola esistesse già prima nel dialetto partenopeo, seppur con un altro significato. Il lessico giovanile napoletano, infatti, è spesso ripreso dal dialetto, anche se le voci dialettali nel passaggio al gergo conoscono notevoli mutamenti semantici. Tra i giovani campani sono molto diffuse, ad esempio, parole come pariare 'divertirsi' o chiattillo 'figlio di papà', che, tuttavia, in queste accezioni sono neologismi novecenteschi, poiché i significati dialettali originari di pariare e chiattillo sono rispettivamente quello di 'digerire' e di 'piattola, parassita'.

Per quanto riguarda l’etimologia di cazzimma, essa risulta abbastanza evidente, va cioè collegata al nome dell’organo sessuale maschile + il suffisso napoletano -imma. Tale suffisso proviene, come il corrispettivo italiano -ime, dal latino -īmen, originariamente legato ai verbi in -ire (munimenfulcimen), ma che nel momento in cui si è legato ai nomi ha iniziato a esprimere un’idea collettiva piuttosto che un concetto astratto. Ma se il toscano -ime si riscontra in un numero limitato di sostantivi maschili deverbali e denominali relativi soprattutto alla terminologia agricola (come concime, mangime, lettime, guaime), il napoletano -imma risulta tuttora molto produttivo e, inoltre, ha assunto accanto a una connotazione collettiva anche una dispregiativa, dando origine a vari termini di genere femminile; qualche esempio: rattimma 'eccessiva libidine espressa attraverso parole o gesti', scazzimma 'secrezione cisposa', sfaccimma 'liquido seminale', sodimma 'sudore copioso', zuzzimma 'sporcizia'.

In ogni caso resta opaco il senso letterale di cazzimma che, forse, in origine indicava una 'secrezione fisiologica' come l’affine scazzimma 'secrezione cisposa'. Per il passaggio semantico si veda il caso di sfaccimma che da 'liquido seminale' è passato ad indicare 'la feccia, il peggio' e nel corso del Novecento anche una 'persona furba e intraprendente'. D’altra parte dalla stessa base etimologica di cazzimma hanno avuto luogo, in italiano come nei dialetti, tante forme e vari significati figurati, come, ad esempio, l’italiano cazzuto 'furbo' ma anche 'grintoso, aggressivo', il napoletano (che è poi entrato in italiano) cazziare 'rimproverare', o ancora il milanese cazzoeur 'persona di malaffare' (adoperato dal Porta).

In conclusione: cazzimma è un termine dialettale napoletano che, da un probabile precedente significato letterale di ambito fisiologico, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso è passato ad indicare, per traslato, un atteggiamento opportunistico o prevaricante, sempre e comunque mirato a danneggiare, a coartare o a sopraffare gli altri. Il successo e la diffusione di questo dialettismo (e dei suoi derivati, come cazzimmeria e cazzimmuso) nell’italiano regionale della Campania (e forse di qualche regione vicina), anche in opere di carattere artistico e letterario, è stato senz’altro favorito dal fatto che in italiano non esiste un sinonimo esatto e univoco di cazzimma.

Ma se la parola resta senza dubbio un regionalismo, il significato che trasmette è, come fa notare ancora Pino Daniele, fin troppo comune "in una società come la nostra, dove certe volte il diritto diventa un optional e anche se non sai fare niente, puoi andare avanti con la cazzimma".

Per approfondimenti: 

M. Cortelazzo, C. Marcato, N. De Blasi, G. P. Clivio (a cura di), I dialetti italiani. Storia struttura uso, Torino, UTET, 2002, p. 648.

A. Ledgeway, Grammatica diacronica del napoletano, Tübingen, M. Niemeyer Verlag, 2009, p. 154.

M. Pfister-W. Schweickard, LEI - Lessico Etimologico Italiano, Wiesbaden, Reichert, fasc. 111 (v. XIII), 2012, cc. 37-44, 51-60.

G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, v. III, Sintassi e formazione delle parole, Torino, Einaudi, 1969, § 1088.

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:08 pm | | Default

Lasciarsi formare dalla liturgia: La Lettera apostolica Desiderio Desideravi di papa Francesco, testo integrale. «Il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli Si tratta di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare. La preghiera di benedizione dell’acqua battesimale ci rivela che Dio ha creato l’acqua proprio in vista del battesimo. Vuol dire che mentre Dio creava l’acqua pensava al battesimo di ciascuno di noi. L’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito. Solo così sarà libera da soggettivismi, che sono il frutto del prevalere di sensibilità individuali»

Riprendiamo sul nostro sito la Lettera apostolica Desiderio Desideravi di papa Francesco del 29/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Liturgia.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Lettera apostolica Desiderio Desideravi di papa Francesco ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici sulla formazione liturgica del popolo di Dio

Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).

1. Carissimi fratelli e sorelle,

con questa lettera desidero raggiungere tutti – dopo aver già scritto ai soli vescovi in seguito alla pubblicazione del Motu Proprio Traditionis custodes – per condividere con voi alcune riflessioni sulla Liturgia, dimensione fondamentale per la vita della Chiesa. Il tema è molto vasto e merita un’attenta considerazione in ogni suo aspetto: tuttavia, con questo scritto non intendo trattare la questione in modo esaustivo. Voglio semplicemente offrire alcuni spunti di riflessione per contemplare la bellezza e la verità del celebrare cristiano.

La Liturgia: “oggi” della storia della salvezza

2. “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15). Le parole di Gesù con le quali si apre il racconto dell’ultima Cena sono lo spiraglio attraverso il quale ci viene data la sorprendente possibilità di intuire la profondità dell’amore delle Persone della Santissima Trinità verso di noi.

3. Pietro e Giovanni erano stati mandati a preparare per poter mangiare la Pasqua, ma, a ben vedere, tutta la creazione, tutta la storia – che finalmente stava per rivelarsi come storia di salvezza – è una grande preparazione di quella Cena. Pietro e gli altri stanno a quella mensa, inconsapevoli eppure necessari: ogni dono per essere tale deve avere qualcuno disposto a riceverlo. In questo caso la sproporzione tra l’immensità del dono e la piccolezza di chi lo riceve, è infinita e non può non sorprenderci. Ciò nonostante – per misericordia del Signore – il dono viene affidato agli Apostoli perché venga portato ad ogni uomo.

4. A quella Cena nessuno si è guadagnato un posto, tutti sono stati invitati, o, meglio, attratti dal desiderio ardente che Gesù ha di mangiare quella Pasqua con loro: Lui sa di essere l’Agnello di quella Pasqua, sa di essere la Pasqua. Questa è l’assoluta novità di quella Cena, la sola vera novità della storia, che rende quella Cena unica e per questo “ultima”, irripetibile. Tuttavia, il suo infinito desiderio di ristabilire quella comunione con noi, che era e che rimane il progetto originario, non si potrà saziare finché ogni uomo, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5,9) non avrà mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue: per questo quella stessa Cena sarà resa presente, fino al suo ritorno, nella celebrazione dell’Eucaristia.

5. Il mondo ancora non lo sa, ma tutti sono invitati al banchetto di nozze dell’Agnello (Ap 19,9). Per accedervi occorre solo l’abito nuziale della fede che viene dall’ascolto della sua Parola (cfr. Rm 10,17): la Chiesa lo confeziona su misura con il candore di un tessuto lavato nel Sangue dell’Agnello (cfr. Ap 7,14). Non dovremmo avere nemmeno un attimo di riposo sapendo che ancora non tutti hanno ricevuto l’invito alla Cena o che altri lo hanno dimenticato o smarrito nei sentieri contorti della vita degli uomini. Per questo ho detto che “sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (Evangelii gaudium, n. 27): perché tutti possano sedersi alla Cena del sacrificio dell’Agnello e vivere di Lui.

6. Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c’è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi. Da parte nostra, la risposta possibile, l’ascesi più esigente, è, come sempre, quella dell’arrendersi al suo amore, del volersi lasciare attrarre da lui. Per certo ogni nostra comunione al Corpo e al Sangue di Cristo è stata da Lui desiderata nell’ultima Cena.

7. Il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù, il suo sacrificio in obbedienza d’amore al Padre. Se non avessimo avuto l’ultima Cena, vale a dire l’anticipazione rituale della sua morte, non avremmo potuto comprendere come l’esecuzione della sua condanna a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’unico vero atto di culto. Poche ore dopo, gli Apostoli avrebbero potuto vedere nella croce di Gesù, se ne avessero sostenuto il peso, che cosa voleva dire “corpo offerto”, “sangue versato”: ed è ciò di cui facciamo memoria in ogni Eucaristia. Quando torna risorto dai morti per spezzare il pane per i discepoli di Emmaus e per i suoi tornati a pescare pesce – e non uomini – sul lago di Galilea, quel gesto apre i loro occhi, li guarisce dalla cecità inferta dall’orrore della croce, rendendoli capaci di “vedere” il Risorto, di credere alla Risurrezione.

8. Se fossimo giunti a Gerusalemme dopo la Pentecoste e avessimo sentito il desiderio non solo di avere informazioni su Gesù di Nazareth, ma di poterlo ancora incontrare, non avremmo avuto altra possibilità se non quella di cercare i suoi per ascoltare le sue parole e vedere i suoi gesti, più vivi che mai. Non avremmo avuto altra possibilità di un incontro vero con Lui se non quella della comunità che celebra. Per questo la Chiesa ha sempre custodito come il suo più prezioso tesoro il mandato del Signore: “fate questo in memoria di me”.

9. Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di “mettere in scena” – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti[1].

La Liturgia: luogo dell’incontro con Cristo

10. Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un’idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è.

11. La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti. Io sono Nicodemo e la Samaritana, l’indemoniato di Cafarnao e il paralitico in casa di Pietro, la peccatrice perdonata e l’emorroissa, la figlia di Giairo e il cieco di Gerico, Zaccheo e Lazzaro, il ladrone e Pietro perdonati. Il Signore Gesù che immolato sulla croce, più non muore, e con i segni della passione vive immortale[2] continua a perdonarci, a guarirci, a salvarci con la potenza dei sacramenti. È il modo concreto, per via di incarnazione, con il quale ci ama; è il modo con il quale sazia quella sete di noi che ha dichiarato sulla croce (Gv 19,28).

12. Il nostro primo incontro con la sua Pasqua è l’evento che segna la vita di tutti noi credenti in Cristo: il nostro battesimo. Non è un’adesione mentale al suo pensiero o la sottoscrizione di un codice di comportamento da Lui imposto: è l’immergersi nella sua passione, morte, risurrezione e ascensione. Non un gesto magico: la magia è l’opposto della logica dei sacramenti perché pretende di avere un potere su Dio e per questa ragione viene dal tentatore. In perfetta continuità con l’incarnazione, ci viene data la possibilità, in forza della presenza e dell’azione dello Spirito, di morire e risorgere in Cristo.

13. Il modo in cui accade è commovente. La preghiera di benedizione dell’acqua battesimale[3] ci rivela che Dio ha creato l’acqua proprio in vista del battesimo. Vuol dire che mentre Dio creava l’acqua pensava al battesimo di ciascuno di noi e questo pensiero lo ha accompagnato nel suo agire lungo la storia della salvezza ogni volta che, con preciso disegno, ha voluto servirsi dell’acqua. È come se, dopo averla creata, avesse voluto perfezionarla per arrivare ad essere l’acqua del battesimo. E così l’ha voluta riempire del movimento del suo Spirito che vi aleggiava sopra (cfr. Gen 1,2) perché contenesse in germe la forza di santificare; l’ha usata per rigenerare l’umanità nel diluvio (cfr. Gen 6,1-9,29); l’ha dominata separandola per aprire una strada di liberazione nel Mar Rosso (cfr. Es 14); l’ha consacrata nel Giordano immergendovi la carne del Verbo intrisa di Spirito (cfr. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22). Infine, l’ha mescolata con il sangue del suo Figlio, dono dello Spirito inseparabilmente unito al dono della vita e della morte dell’Agnello immolato per noi, e dal costato trafitto l’ha effusa su di noi (Gv 19,34). È in quest’acqua che siamo stati immersi perché per la sua potenza potessimo essere innestati nel Corpo di Cristo e con Lui risorgere alla vita immortale (cfr. Rm 6,1-11).

La Chiesa: sacramento del Corpo di Cristo

14. Come il Concilio Vaticano II ci ha ricordato (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 5) citando la Scrittura, i Padri e la Liturgia – le colonne della vera Tradizione – dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa[4]Il parallelo tra il primo e il nuovo Adamo è sorprendente: come dal costato del primo Adamo, dopo aver fatto scendere su di Lui un torpore, Dio trasse Eva, così dal costato del nuovo Adamo, addormentato nel sonno della morte, nasce la nuova Eva, la Chiesa. Lo stupore è per le parole che possiamo pensare che il nuovo Adamo faccia sue guardando la Chiesa: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (Gen 2,23). Per aver creduto alla Parola ed essere scesi nell’acqua del battesimo, noi siamo diventati osso dalle sue ossa, carne dalla sua carne.

15. Senza questa incorporazione non vi è alcuna possibilità di vivere la pienezza del culto a Dio. Infatti, uno solo è l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’obbedienza del Figlio la cui misura è la sua morte in croce. L’unica possibilità per poter partecipare alla sua offerta è quella di diventare figli nel Figlio. È questo il dono che abbiamo ricevuto. Il soggetto che agisce nella Liturgia è sempre e solo Cristo-Chiesa, il Corpo mistico di Cristo.

Il senso teologico della Liturgia

16. Dobbiamo al Concilio – e al movimento liturgico che l’ha preceduto – la riscoperta della comprensione teologica della Liturgia e della sua importanza nella vita della Chiesa: i principi generali enunciati dalla Sacrosanctum Concilium così come sono stati fondamentali per l’intervento di riforma, continuano ad esserlo per la promozione di quella partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa alla celebrazione (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 11. 14), “prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano” (Sacrosanctum Concilium, n. 14). Con questa lettera vorrei semplicemente invitare tutta la Chiesa a riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana. Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa, non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia. La preghiera sacerdotale di Gesù nell’ultima Cena perché tutti siano una cosa sola (Gv 17,21), giudica ogni nostra divisione attorno al Pane spezzato, sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità[5].

La Liturgia: antidoto al veleno della mondanità spirituale

17. Ho più volte messo in guardia rispetto ad una pericolosa tentazione per la vita della Chiesa che è la “mondanità spirituale”: ne ho parlato diffusamente nell’Esortazione Evangelii gaudium (nn. 93-97), individuando nello gnosticismo e nel neo-pelagianesimo i due modi tra loro connessi che la alimentano.

Il primo riduce la fede cristiana in un soggettivismo che chiude l’individuo “nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti” (Evangelii gaudium, n. 94).

Il secondo annulla il valore della grazia per confidare solo sulle proprie forze, dando luogo “ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare” (Evangelii gaudium, n. 94).

Queste forme distorte del cristianesimo possono avere conseguenze disastrose per la vita della Chiesa.

18. Da quanto ho voluto sopra ricordare risulta evidente che la Liturgia è, per la sua stessa natura, l’antidoto più efficace contro questi veleni. Ovviamente parlo della Liturgia nel suo senso teologico e non certo – già Pio XII lo affermava – come cerimoniale decorativo o mera somma di leggi e di precetti che regolano il culto[6].

19. Se lo gnosticismo ci intossica con il veleno del soggettivismo, la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autoreferenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo. La Liturgia non dice “io” ma “noi” e ogni limitazione all’ampiezza di questo “noi” è sempre demoniaca. La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo.

20. Se il neo-pelagianesimo ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze, la celebrazione liturgica ci purifica proclamando la gratuità del dono della salvezza accolta nella fede. Partecipare al sacrificio eucaristico non è una nostra conquista come se di questo potessimo vantarci davanti a Dio e ai fratelli. L’inizio di ogni celebrazione mi ricorda chi sono chiedendomi di confessare il mio peccato e invitandomi a supplicare la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e tutti i fratelli e le sorelle, di pregare per me il Signore: non siamo certo degni di entrare nella sua casa, abbiamo bisogno di una sua parola per essere salvati (cfr. Mt 8,8). Non abbiamo altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. Gal 6,14). La Liturgia non ha nulla a che vedere con un moralismo ascetico: è il dono della Pasqua del Signore che, accolto con docilità, fa nuova la nostra vita. Non si entra nel Cenacolo se non che per la forza di attrazione del suo desiderio di mangiare la Pasqua con noi: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).

Riscoprire ogni giorno la bellezza della verità della celebrazione cristiana

21. Dobbiamo però fare attenzione: perché l’antidoto della Liturgia sia efficace ci viene chiesto di riscoprire ogni giorno la bellezza della verità della celebrazione cristiana. Mi riferisco ancora una volta al suo senso teologico, come il n. 7 della Sacrosanctum Concilium ha mirabilmente descritto: la Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo.

22. La continua riscoperta della bellezza della Liturgia non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale. Ovviamente questa affermazione non vuole in nessun modo approvare l’atteggiamento opposto che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico.

23. Intendiamoci: ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, …) e ogni rubrica deve essere osservata: basterebbe questa attenzione per evitare di derubare l’assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce. Ma anche se la qualità e la norma dell’azione celebrativa fossero garantite, ciò non sarebbe sufficiente per rendere piena la nostra partecipazione.

Lo stupore per il mistero pasquale: parte essenziale dell’atto liturgico

24. Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione. Non sono sufficienti i pur lodevoli sforzi a favore di una migliore qualità della celebrazione e nemmeno un richiamo all’interiorità: anche quest’ultima corre il rischio di ridursi ad una vuota soggettività se non accoglie la rivelazione del mistero cristiano. L’incontro con Dio non è frutto di una individuale ricerca interiore di Lui ma è un evento donato: possiamo incontrare Dio per il fatto nuovo dell’incarnazione che nell’ultima Cena arriva fino all’estremo di desiderare di essere mangiato da noi. Come ci può accadere la sventura di sottrarci al fascino della bellezza di questo dono?

25. Dicendo stupore per il mistero pasquale non intendo in nessun modo ciò che a volte mi pare si voglia esprimere con la fumosa espressione “senso del mistero”: a volte tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica vi è anche quello di averlo – si dice – eliminato dalla celebrazione. Lo stupore di cui parlo non è una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è, al contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù (cfr. Ef 1,3-14) la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti. Resta pur vero che la pienezza della rivelazione ha, rispetto alla nostra finitezza umana, una eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà. Se lo stupore è vero non vi è alcun rischio che non si percepisca, pur nella vicinanza che l’incarnazione ha voluto, l’alterità della presenza di Dio. Se la riforma avesse eliminato quel “senso del mistero” più che un capo di accusa sarebbe una nota di merito. La bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all’adorazione.

26. Lo stupore è parte essenziale dell’atto liturgico perché è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa.

La necessità di una seria e vitale formazione liturgica

27. La questione fondamentale è, dunque, questa: come recuperare la capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? La riforma del Concilio ha questo come obiettivo. La sfida è molto impegnativa perché l’uomo moderno – non in tutte le culture allo stesso modo – ha perso la capacità di confrontarsi con l’agire simbolico che è tratto essenziale dell’atto liturgico.

28. La post-modernità – nella quale l’uomo si sente ancor più smarrito, senza riferimenti di nessun tipo, privo di valori perché divenuti indifferenti, orfano di tutto, in una frammentazione nella quale sembra impossibile un orizzonte di senso – è ancora gravata dalla pesante eredità che l’epoca precedente ci ha lasciato, fatta di individualismo e soggettivismo (che ancora una volta richiamano pelagianesimo e gnosticismo) come pure di uno spiritualismo astratto che contraddice la natura stessa dell’uomo, spirito incarnato e, quindi, in se stesso capace di azione e di comprensione simbolica.

29. È con la realtà della modernità che la Chiesa riunita in Concilio ha voluto confrontarsi, riaffermando la consapevolezza di essere sacramento di Cristo, luce delle genti (Lumen gentium), mettendosi in religioso ascolto della parola di Dio (Dei Verbum) e riconoscendo come proprie le gioie e le speranze (Gaudium et spes) degli uomini d’oggi. Le grandi Costituzioni conciliari non sono separabili e non è un caso che quest’unica grande riflessione del Concilio Ecumenico – la più alta espressione della sinodalità della Chiesa della cui ricchezza io sono chiamato ad essere, con tutti voi, custode – abbia preso l’avvio dalla Liturgia (Sacrosanctum Concilium).

30. Chiudendo la seconda sessione del Concilio (4 dicembre 1963) san Paolo VI così si esprimeva:

«Del resto, questa discussione appassionata e complessa non è stata affatto senza un frutto copioso: infatti quel tema che è stato prima di tutto affrontato, e che in un certo senso nella Chiesa è preminente, tanto per sua natura che per dignità – vogliamo dire la sacra Liturgia – è arrivato a felice conclusione, e viene oggi da Noi con solenne rito promulgato. Per questo motivo il Nostro animo esulta di sincera gioia. In questo fatto ravvisiamo infatti che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi dev’essere fatto al popolo cristiano, unito a noi nella fede e nell’assiduità alla preghiera; infine, il primo invito all’umanità a sciogliere la sua lingua muta in preghiere sante e sincere ed a sentire quell’ineffabile forza rigeneratrice dell’animo che è insita nel cantare con noi le lodi di Dio e nella speranza degli uomini, per Gesù Cristo e nello Spirito Santo»[7].

31. Non posso in questa lettera intrattenermi sulla ricchezza delle singole espressioni che lascio alla vostra meditazione. Se la Liturgia è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (Sacrosanctum Concilium, n. 10), comprendiamo bene che cosa è in gioco nella questione liturgica. Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium. Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1).

La non accoglienza della riforma, come pure una sua superficiale comprensione, ci distoglie dall’impegno di trovare le risposte alla domanda che torno a ripetere: come crescere nella capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? Come continuare a stupirci di ciò che nella celebrazione accade sotto i nostri occhi? Abbiamo bisogno di una seria e vitale formazione liturgica.

32. Torniamo ancora nel Cenacolo a Gerusalemme: il mattino di Pentecoste nasce la Chiesa, cellula iniziale dell’umanità nuova. Solo la comunità di uomini e donne riconciliati perché perdonati, vivi perché Lui è vivo, veri perché abitati dallo Spirito di verità, può aprire lo spazio angusto dell’individualismo spirituale.

33. È la comunità della Pentecoste che può spezzare il Pane nella certezza che il Signore è vivo, risorto dai morti, presente con la sua parola, con i suoi gesti, con l’offerta del suo Corpo e del suo Sangue. Da quel momento la celebrazione diventa il luogo privilegiato, non l’unico, dell’incontro con Lui. Noi sappiamo che solo grazie a questo incontro l’uomo diventa pienamente uomo. Solo la Chiesa della Pentecoste può concepire l’uomo come persona, aperto ad una relazione piena con Dio, con il creato e con i fratelli.

34. Qui si pone la questione decisiva della formazione liturgica. Dice Guardini: «Così è delineato anche il primo compito pratico: sostenuti da questa trasformazione interiore del nostro tempo, dobbiamo nuovamente imparare a porci di fronte al rapporto religioso come uomini in senso pieno»[8]. È questo che la Liturgia rende possibile, a questo dobbiamo formarci. Lo stesso Guardini non esita ad affermare che senza formazione liturgica, “le riforme nel rito e nel testo non aiutano molto”[9]. Non intendo ora trattare in modo esaustivo il ricchissimo tema della formazione liturgica: vorrei solo offrire alcuni spunti di riflessione. Penso che possiamo distinguere due aspetti: la formazione alla Liturgia e la formazione dalla Liturgia. Il primo è funzionale al secondo che è essenziale.

35. È necessario trovare i canali per una formazione come studio della liturgia: a partire dal movimento liturgico molto in tal senso è stato fatto, con contributi preziosi di molti studiosi ed istituzioni accademiche. Occorre tuttavia diffondere queste conoscenze al di fuori dell’ambito accademico, in modo accessibile, perché ogni fedele cresca in una conoscenza del senso teologico della Liturgia – è la questione decisiva e fondante ogni conoscenza e ogni pratica liturgica – come pure dello sviluppo del celebrare cristiano, acquisendo la capacità di comprendere i testi eucologici, i dinamismi rituali e la loro valenza antropologica.

36. Penso alla normalità delle nostre assemblee che si radunano per celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, domenica dopo domenica, Pasqua dopo Pasqua, in momenti particolari della vita dei singoli e delle comunità, nelle diverse età della vita: i ministri ordinati svolgono un’azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua. Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote. La conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo per poter entrare nel mistero celebrato. È evidente che per poter condurre i fratelli e le sorelle, i ministri che presiedono l’assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di una esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera, di certo non solo come impegno da assolvere. Nel giorno dell’ordinazione ogni presbitero si sente dire dal vescovo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore»[10].

37. Anche l’impostazione dello studio della Liturgia nei seminari deve dare conto della straordinaria capacità che la celebrazione ha in se stessa di offrire una visione organica del sapere teologico. Ogni disciplina della teologia, ciascuna secondo la sua prospettiva, deve mostrare la propria intima connessione con la Liturgia, in forza della quale si rivela e si realizza l’unità della formazione sacerdotale (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 16). Una impostazione liturgico-sapienziale della formazione teologica nei seminari avrebbe certamente anche effetti positivi nell’azione pastorale. Non c’è aspetto della vita ecclesiale che non trovi in essa il suo culmine e la sua fonte. La pastorale d’insieme, organica, integrata, più che essere il risultato di elaborati programmi è la conseguenza del porre al centro della vita della comunità la celebrazione eucaristica domenicale, fondamento della comunione. La comprensione teologica della Liturgia non permette in nessun modo di intendere queste parole come se tutto si riducesse all’aspetto cultuale. Una celebrazione che non evangelizza non è autentica, come non lo è un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita (cfr. 1Cor 13,1).

38. Per i ministri e per tutti i battezzati, la formazione liturgica in questo suo primo significato, non è qualcosa che si possa pensare di conquistare una volta per sempre: poiché il dono del mistero celebrato supera la nostra capacità di conoscenza, questo impegno dovrà per certo accompagnare la formazione permanente di ciascuno, con l’umiltà dei piccoli, atteggiamento che apre allo stupore.

39. Un’ultima osservazione sui seminari: oltre allo studio devono anche offrire la possibilità di sperimentare una celebrazione non solo esemplare dal punto di vista rituale, ma autentica, vitale, che permetta di vivere quella vera comunione con Dio alla quale anche il sapere teologico deve tendere. Solo l’azione dello Spirito può perfezionare la nostra conoscenza del mistero di Dio, che non è questione di comprensione mentale ma di relazione che tocca la vita. Tale esperienza è fondamentale perché una volta divenuti ministri ordinati, possano accompagnare le comunità nello stesso percorso di conoscenza del mistero di Dio, che è mistero d’amore.

40. Quest’ultima considerazione ci porta a riflettere sul secondo significato con il quale possiamo intendere l’espressione “formazione liturgica”. Mi riferisco all’essere formati, ciascuno secondo la sua vocazione, dalla partecipazione alla celebrazione liturgica. Anche la conoscenza di studio di cui ho appena detto, perché non diventi razionalismo, deve essere funzionale al realizzarsi dell’azione formatrice della Liturgia in ogni credente in Cristo.

41. Da quanto abbiamo detto sulla natura della Liturgia risulta evidente che la conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di una idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. In tal senso la Liturgia non riguarda la “conoscenza” e il suo scopo non è primariamente pedagogico (pur avendo un grande valore pedagogico: cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 33) ma è la lode, il rendimento di grazie per la Pasqua del Figlio la cui forza di salvezza raggiunge la nostra vita. La celebrazione riguarda la realtà del nostro essere docili all’azione dello Spirito che in essa opera, finché non sia formato Cristo in noi (cfr. Gal 4,19). La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui. Questo è lo scopo per il quale è stato donato lo Spirito la cui azione è sempre e solo quella di fare il Corpo di Cristo. È così con il pane eucaristico, è così per ogni battezzato chiamato a diventare sempre più ciò che ha ricevuto in dono nel battesimo, vale a dire l’essere membro del Corpo di Cristo. Scrive Leone Magno: «La nostra partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo»[11].

42. Questo coinvolgimento esistenziale accade – in continuità e coerenza con il metodo dell’incarnazione – per via sacramentale. La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce. Tutta la creazione è manifestazione dell’amore di Dio: da quando lo stesso amore si è manifestato in pienezza nella croce di Gesù tutta la creazione ne è attratta. È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre. Così come canta la preghiera sull’acqua per il fonte battesimale, ma anche quella sull’olio per il sacro crisma e le parole della presentazione del pane e del vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo.

43. La liturgia dà gloria a Dio non perché noi possiamo aggiungere qualcosa alla bellezza della luce inaccessibile nella quale Egli abita (cfr. 1Tm 6,16) o alla perfezione del canto angelico che risuona eternamente nelle sedi celesti. La Liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua: noi, che da morti che eravamo per le colpe, per grazia, siamo stati fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5), siamo la gloria di Dio. Ireneo, doctor unitatis, ce lo ricorda: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre attraverso il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio!»[12].

44. Scrive Guardini: «Con ciò si delinea il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli»[13]. Questo impegno riguarda tutti, ministri ordinati e fedeli. Il compito non è facile perché l’uomo moderno è diventato analfabeta, non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade anche con il simbolo del nostro corpo. È simbolo perché intima unione di anima e corpo, visibilità dell’anima spirituale nell’ordine del corporeo e in questo consiste l’unicità umana, la specificità della persona irriducibile a qualsiasi altra forma di essere vivente. La nostra apertura al trascendente, a Dio, è costitutiva: non riconoscerla ci porta inevitabilmente ad una non conoscenza oltre che di Dio, anche di noi stessi. Basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato il corpo, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto ad una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante.

Non abbiamo più lo sguardo di san Francesco che guardava il sole – che chiamava fratello perché così lo sentiva – lo vedeva bellu e radiante cum grande splendore, e, pieno di stupore, cantava: de te Altissimu, porta significatione[14]. L’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della Liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno. Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione, come ho appena detto, è costitutiva e, nonostante i mali del materialismo e dello spiritualismo – entrambi negazione dell’unità corpo e anima – è sempre pronta a riemergere, come ogni verità.

45. La domanda che ci poniamo è, dunque, come tornare ad essere capaci di simboli? Come tornare a saperli leggere per poterli vivere? Sappiamo bene che la celebrazione dei sacramenti è – per grazia di Dio – efficace in se stessa (ex opere operato) ma questo non garantisce un pieno coinvolgimento delle persone senza un adeguato modo di porsi di fronte al linguaggio della celebrazione. La lettura simbolica non è un fatto di conoscenza mentale, di acquisizione di concetti ma è esperienza vitale.

46. Anzitutto dobbiamo riacquistare fiducia nei confronti della creazione. Intendo dire che le cose – con le quali i sacramenti “sono fatti” – vengono da Dio, a Lui sono orientate e da Lui sono state assunte, in modo particolare con l’incarnazione, perché diventassero strumenti di salvezza, veicoli dello Spirito, canali di grazia. Qui si avverte tutta la distanza sia dalla visione materialista sia da quella spiritualista. Se le cose create sono parte irrinunciabile dell’agire sacramentale che opera la nostra salvezza, dobbiamo predisporci nei loro confronti con uno sguardo nuovo non superficiale, rispettoso, grato. Fin dall’origine esse contengono il germe della grazia santificante dei sacramenti.

47. Altra questione decisiva – sempre riflettendo su come la Liturgia ci forma – è l’educazione necessaria per poter acquisire l’atteggiamento interiore che ci permette di porre e di comprendere i simboli liturgici. Lo esprimo in modo semplice. Penso ai genitori e, ancor più, ai nonni, ma anche ai nostri parroci e catechisti. Molti di noi hanno appreso la potenza dei gesti della liturgia – come ad esempio il segno della croce, lo stare in ginocchio, le formule della nostra fede – proprio da loro. Forse non ne abbiamo il ricordo vivo, ma facilmente possiamo immaginare il gesto di una mano più grande che prende la piccola mano di un bambino e la accompagna lentamente nel tracciare per la prima volta il segno della nostra salvezza. Al movimento si accompagnano le parole, anch’esse lente, quasi a voler prendere possesso di ogni istante di quel gesto, di tutto il corpo: «Nel nome del Padre … e del Figlio … e dello Spirito Santo … Amen». Per poi lasciare la mano del bambino e guardarlo ripetere da solo, pronti a venire in suo aiuto, quel gesto ormai consegnato, come un abito che crescerà con Lui, vestendolo nel modo che solo lo Spirito conosce. Da quel momento quel gesto, la sua forza simbolica, ci appartiene o, sarebbe meglio dire, noi apparteniamo a quel gesto, ci dà forma, siamo da esso formati. Non servono troppi discorsi, non è necessario aver compreso tutto di quel gesto: occorre essere piccoli sia nel consegnarlo sia nel riceverlo. Il resto è opera dello Spirito. Così siamo stati iniziati al linguaggio simbolico. Di questa ricchezza non possiamo farci derubare. Crescendo potremo avere più mezzi per poter comprendere, ma sempre a condizione di rimanere piccoli.

Ars celebrandi

48. Un modo per custodire e per crescere nella comprensione vitale dei simboli della Liturgia è certamente quello di curare l’arte del celebrare. Anche questa espressione è oggetto di diverse interpretazioni. Essa si chiarisce se viene compresa avendo come riferimento il senso teologico della Liturgia descritto in Sacrosanctum Concilium al n. 7 e che abbiamo più volte richiamato. L’ars celebrandi non può essere ridotta alla sola osservanza di un apparato rubricale e non può nemmeno essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole. Il rito è per se stesso norma e la norma non è mai fine a se stessa, ma sempre a servizio della realtà più alta che vuole custodire.

49. Come ogni arte, richiede diverse conoscenze.

Anzitutto la comprensione del dinamismo che descrive la Liturgia. Il momento dell’azione celebrativa è il luogo nel quale attraverso il memoriale si fa presente il mistero pasquale perché i battezzati, in forza della loro partecipazione, possano farne esperienza nella loro vita: senza questa comprensione facilmente si cade nell’esteriorismo (più o meno raffinato) e nel rubricismo (più o meno rigido).

Occorre, poi, conoscere come lo Spirito Santo agisce in ogni celebrazione: l’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito. Solo così sarà libera da soggettivismi, che sono il frutto del prevalere di sensibilità individuali, e da culturalismi, che sono acquisizioni acritiche di elementi culturali che non hanno nulla a che vedere da un corretto processo di inculturazione.

È necessario, infine, conoscere le dinamiche del linguaggio simbolico, la sua peculiarità, la sua efficacia.

50. Da questi brevi cenni, risulta evidente che l’arte del celebrare non si può improvvisare. Come ogni arte richiede applicazione assidua. Ad un artigiano basta la tecnica; ad un artista, oltre alle conoscenze tecniche, non può mancare l’ispirazione che è una forma positiva di possessione: l’artista, quello vero, non possiede un’arte, ne è posseduto. Non si impara l’arte del celebrare perché si frequenta un corso di public speaking o di tecniche di comunicazione persuasiva (non giudico le intenzioni, vedo gli effetti). Ogni strumento può essere utile ma deve sempre essere sottomesso alla natura della Liturgia e all’azione dello Spirito. Occorre una diligente dedizione alla celebrazione lasciando che sia la celebrazione stessa a trasmetterci la sua arte. Scrive Guardini: «Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande della preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mète è la disciplina, la rinuncia ad una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso»[15]. È così che si impara l’arte del celebrare.

51. Parlando di questo tema siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere. Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all’assemblea: il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo (Ne 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme ad una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea. È una uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa i singoli fedeli a scoprire l’unicità autentica della propria personalità non in atteggiamenti individualistici ma nella consapevolezza di essere un solo corpo. Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti. Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo.

52. Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Più volte è espressamente prescritto nelle rubriche: tutta la celebrazione eucaristica è immersa nel silenzio che precede il suo inizio e segna ogni istante del suo svolgersi rituale. Infatti è presente nell’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera; nella liturgia della Parola (prima delle letture, tra le letture e dopo l’omelia); nella preghiera eucaristica; dopo la comunione[16]Non si tratta di un rifugio nel quale nascondersi per un isolamento intimistico, quasi patendo la ritualità come se fosse una distrazione: un tale silenzio sarebbe in contraddizione con l’essenza stessa della celebrazione. Il silenzio liturgico è molto di più: è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale. Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione. Così, ripercorrendo i momenti che ho sopra ricordato, il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma.

53. Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita. Mi spiego con un solo semplice esempio. Ci inginocchiamo per chiedere perdono; per piegare il nostro orgoglio; per consegnare a Dio il nostro pianto; per supplicare un suo intervento; per ringraziarlo di un dono ricevuto: è sempre lo stesso gesto che dice essenzialmente il nostro essere piccoli dinanzi a Dio. Tuttavia, compiuto in momenti diversi del nostro vivere, plasma la nostra interiorità profonda per poi manifestarsi all’esterno nella nostra relazione con Dio e con i fratelli. Anche l’inginocchiarsi va fatto con arte, vale a dire con una piena consapevolezza del suo senso simbolico e della necessità che noi abbiamo di esprimere con questo gesto il nostro modo di stare alla presenza del Signore. Se tutto questo è vero per questo semplice gesto, quanto più lo sarà per la celebrazione della Parola? Quale arte siamo chiamati ad apprendere nel proclamare la Parola, nell’ascoltarla, nel farla ispirazione della nostra preghiera, nel farla diventare vita? Tutto questo merita la massima cura, non formale, esteriore, ma vitale, interiore, perché ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità.

54. Se è vero che l’ars celebrandi riguarda tutta l’assemblea che celebra, è altrettanto vero che i ministri ordinati devono avere per essa una particolare cura. Nel visitare le comunità cristiane ho spesso notato che il loro modo di vivere la celebrazione è condizionato – nel bene e, purtroppo, anche nel male – da come il loro parroco presiede l’assemblea. Potremmo dire che vi sono diversi “modelli” di presidenza. Ecco un possibile elenco di atteggiamenti che, pur essendo tra loro opposti, caratterizzano la presidenza in modo certamente inadeguato: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. Pur nell’ampiezza di questa gamma, penso che l’inadeguatezza di questi modelli abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo. Spesso ciò acquista maggior evidenza quando le nostre celebrazioni vengono trasmesse in rete, cosa non sempre opportuna e sulla quale dovremmo riflettere. Intendiamoci, non sono questi gli atteggiamenti più diffusi, ma non di rado le assemblee subiscono questi “maltrattamenti”.

55. Molto si potrebbe dire sull’importanza e sulla delicatezza del presiedere. In più occasioni mi sono soffermato sul compito impegnativo del tenere l’omelia[17]. Mi limito ora ad alcune considerazioni più ampie, sempre volendo riflettere con voi su come veniamo formati dalla Liturgia. Penso alla normalità delle Messe domenicali nelle nostre comunità: mi riferisco, quindi, ai presbiteri ma implicitamente a tutti i ministri ordinati.

56. Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza. Come tutti gli uffici che è chiamato a svolgere, non si tratta primariamente di un compito assegnato dalla comunità, quanto, piuttosto, della conseguenza dell’effusione dello Spirito Santo ricevuta nell’ordinazione che lo abilita a tale compito. Anche il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra.

57. Perché questo servizio venga fatto bene – con arte, appunto – è di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto. Il ministro ordinato è egli stesso una delle modalità di presenza del Signore che rendono l’assemblea cristiana unica, diversa da ogni altra (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo fatto dà spessore “sacramentale” – in senso ampio – a tutti i gesti e le parole di chi presiede. L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è, dunque, il protagonista, non lo sono di sicuro le nostre immaturità che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere. Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele, l’oggetto del suo amore. Presiedere l’Eucaristia è stare immersi nella fornace dell’amore di Dio. Quando ci viene dato di comprendere, o anche solo di intuire, questa realtà, non abbiamo di certo più bisogno di un direttorio che ci imponga un comportamento adeguato. Se di questo abbiamo bisogno è per la durezza del nostro cuore. La norma più alta, e, quindi, più impegnativa, è la realtà stessa della celebrazione eucaristica che seleziona parole, gesti, sentimenti, facendoci comprendere se sono o meno adeguati al compito che devono svolgere. È evidente che anche questo non si improvvisa: è un’arte, chiede al presbitero applicazione, vale a dire una frequentazione assidua del fuoco di amore che il Signore è venuto a portare sulla terra (cfr. Lc 12,49).

58. Quando la prima comunità spezza il pane in obbedienza al comando del Signore, lo fa sotto sguardo di Maria che accompagna i primi passi della Chiesa: “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù” (At 1,14). La Vergine Madre “sorveglia” i gesti del suo Figlio affidati agli Apostoli. Come ha custodito nel suo grembo, dopo aver accolto le parole dell’angelo Gabriele, il Verbo fatto carne, la Vergine custodisce ancora una volta nel grembo della Chiesa quei gesti che fanno il corpo del Figlio suo. Il presbitero, che in forza del dono ricevuto con il sacramento dell’Ordine ripete quei gesti, è custodito nel grembo della Vergine. Serve una norma per dirci come ci si deve comportare?

59. Divenuti strumenti per far divampare il fuoco del suo amore sulla terra, custoditi nel grembo di Maria, Vergine fatta Chiesa (come cantava san Francesco), i presbiteri si lasciano lavorare dallo Spirito che vuole portare a compimento l’opera che ha iniziato nella loro ordinazione. L’azione dello Spirito offre a loro la possibilità di esercitare la presidenza dell’assemblea eucaristica con il timore di Pietro, consapevole del suo essere peccatore (cfr. Lc 5,1-11), con l’umiltà forte del servo sofferente (cfr. Is 42 ss), con il desiderio di “farsi mangiare” dal popolo a loro affidato nell’esercizio quotidiano del ministero.

60. È la celebrazione stessa che educa a questa qualità di presidenza, non è, lo ripetiamo, un’adesione mentale, anche se tutta la nostra mente, come pure la nostra sensibilità, viene in essa coinvolta. Il presbitero è, dunque, formato alla presidenza dalle parole e dai gesti che la liturgia mette sulle sue labbra e nelle sue mani.

Non siede su di un trono[18] perché il Signore regna con l’umiltà di chi serve.

Non ruba la centralità all’altare, segno di Cristo dal cui fianco squarciato scaturirono l’acqua e il sangue fonte dei sacramenti della Chiesa, e centro della nostra lode e del comune rendimento di grazie[19].

Accostandosi all’altare per l’offerta il presbitero è educato all’umiltà e al pentimento dalle parole: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te»[20].

Non può presumere di se stesso per il ministero a Lui affidato perché la Liturgia lo invita a chiedere di essere purificato, nel segno dell’acqua: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro»[21].

Le parole che la liturgia mette sulle sue labbra hanno contenuti, diversi che chiedono specifiche tonalità: per l’importanza di queste parole al presbitero è chiesta una vera ars dicendi. Esse danno forma ai suoi sentimenti interiori, ora nella supplica al Padre a nome dell’assemblea, ora nell’esortazione rivolta all’assemblea, ora nell’acclamazione ad una sola voce con tutta l’assemblea.

Con la preghiera eucaristica – nella quale anche tutti i battezzati partecipano ascoltando con riverenza e silenzio e intervenendo con le acclamazioni[22] – chi presiede ha la forza, a nome di tutto il popolo santo, di ricordare al Padre l’offerta del Figlio suo nell’ultima Cena, perché quel dono immenso si renda nuovamente presente sull’altare. A quell’offerta partecipa con l’offerta di se stesso. Il presbitero non può narrare al Padre l’ultima Cena senza esserne partecipe. Non può dire: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il popolo a lui affidato. È ciò che avviene nell’esercizio del suo ministero.

Da tutto questo, e da molto altro, il presbitero viene continuamente formato nell’azione celebrativa.

* * *

61. Ho voluto semplicemente offrire alcune riflessioni che certamente non esauriscono l’immenso tesoro della celebrazione dei santi misteri. Chiedo a tutti i vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai formatori dei seminari, agli insegnanti delle facoltà teologiche e delle scuole di teologia, a tutti i catechisti e le catechiste, di aiutare il popolo santo di Dio ad attingere a quella che da sempre è la fonte prima della spiritualità cristiana. Siamo chiamati continuamente riscoprire la ricchezza dei principi generali esposti nei primi numeri della Sacrosanctum Concilium comprendendo l’intimo legame tra la prima delle Costituzioni conciliari e tutte le altre. Per questo motivo non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio. Per questo motivo ho scritto Traditionis Custodes, perché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità[23]Questa unità, come già ho scritto, intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.

62. Vorrei che questa lettera ci aiutasse a ravvivare lo stupore per la bellezza della verità del celebrare cristiano, a ricordare la necessità di una formazione liturgica autentica e a riconoscere l’importanza di un’arte della celebrazione che sia a servizio della verità del mistero pasquale e della partecipazione di tutti i battezzati, ciascuno con la specificità della sua vocazione.

Tutta questa ricchezza non è lontana da noi: è nelle nostre chiese, nelle nostre feste cristiane, nella centralità della domenica, nella forza dei sacramenti che celebriamo. La vita cristiana è un continuo cammino di crescita: siamo chiamati a lasciarci formare con gioia e nella comunione.

63. Per questo desidero lasciarvi ancora una indicazione per proseguire nel nostro cammino. Vi invito a riscoprire il senso dell’anno liturgico e del giorno del Signore: anche questa è una consegna del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 102-111).

64. Alla luce di quanto abbiamo sopra ricordato, comprendiamo che l’anno liturgico è per noi la possibilità di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo, immergendo la nostra vita nel mistero della sua Pasqua, in attesa del suo ritorno. È questa una vera formazione continua. La nostra vita non è un susseguirsi casuale e caotico di eventi ma un percorso che, di Pasqua in Pasqua, ci conforma a Lui nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo[24].

65. Nello scorrere del tempo fatto nuovo dalla Pasqua, ogni otto giorni la Chiesa celebra nella domenica l’evento della salvezza. La domenica, prima di essere un precetto, è un dono che Dio fa al suo popolo (per questo motivo la Chiesa lo custodisce con un precetto). La celebrazione domenicale offre alla comunità cristiana la possibilità di essere formata dall’Eucaristia. Di domenica in domenica, la Parola del Risorto illumina la nostra esistenza volendo operare in noi ciò per cui è stata mandata (cfr. Is 55,10-11). Di domenica in domenica, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo vuole fare anche della nostra vita un sacrificio gradito al Padre, nella comunione fraterna che si fa condivisione, accoglienza, servizio. Di domenica in domenica, la forza del Pane spezzato ci sostiene nell’annuncio del Vangelo nel quale si manifesta l’autenticità della nostra celebrazione.

Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi. Sotto lo sguardo di Maria, Madre della Chiesa.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 29 giugno, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 2022, decimo del mio pontificato.

FRANCESCO

__________________________________________________

Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti,
quando sull’altare, nella mano del sacerdote,
è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo.
O ammirabile altezza e stupenda degnazione!
O umiltà sublime! O sublimità umile,
che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio,
si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza,
sotto poca apparenza di pane!

Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio,
e aprite davanti a Lui i vostri cuori;
umiliatevi anche voi, perché siate da Lui esaltati.
Nulla, dunque, di voi trattenete per voi,
affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre
.

San Francesco d’Assisi
Lettera a tutto l’Ordine II, 26-29

Note al testo

[1] Cfr. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II,1: «quod [...] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».

[2] Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) p. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».

[3] Cfr. Missale Romanum (2008) p. 532.

[4] Cfr. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia paschalis, Missale Romanum (2008) p. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B) , Missale Romanum (2008) p. 1076.

[5] Cfr. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.

[6] Cfr. Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.

[7] AAS 56 (1964) 34.

[8] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 69.

[9] R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14; trad. it. L’atto di culto e il compito attuale della formazione liturgica. Una lettera (1964) in Formazione liturgica (Brescia 2022) p. 33.

[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».

[11] Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III,7.

[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.

[13] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 60.

[14] Cantico delle Creature, Fonti Francescane, n. 263.

[15] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 139.

[16] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.

[17] Vedi Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 135-144.

[18] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, n. 310.

[19] Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.

[20] Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».

[21] Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».

[22] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 78-79.

[23] Cfr. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.

[24] Missale Romanum (2008) p. 598: « … exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:07 pm | | Default

Infiammazione: spesso non c’è altra soluzione che lasciare che il tempo passi. Così per le emozioni: è il tempo il grande amico che guarisce. Questo bisogna insegnare ai ragazzi, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Quando hai il Covid, la gola e le tonsille bruciano. L’infiammazione, nelle varianti 4 e 5, prende le alte vie respiratorie, mentre tutto è una spossatezza e i brividi prendono il corpo.

Puoi prendere tutte le medicine che vuoi – e le devi prendere – ma, se non passa il tempo, non si guarisce.

Pian piano le vie respiratorie si debbono “disinfiammare”. Solo il tempo riduce via via l’infiammazione. Finché il dolore passa.

Così è anche delle questioni della vita. Certo non per tutte, ma per molte sì.

Finché l’anima è infiammata, qualcosa duole, qualcos’altro fa male, tutto si trascina stancamente. Ma il tempo, grande amico, pian piano guarisce, finché tutto torna normale.

Questo bisogna insegnare ai ragazzi. Bisogna saper aspettare e pian piano il tempo sistema cose che non si saprebbe mai come sistemare da soli.

È il grande amico il tempo. Ad alcuni ragazzi talune situazioni sembrano irrisolvibili, talune montagne sembrano impossibili da scalare, certi dolori o torti impossibili da vivere nella pace: invece il tempo scorre e dopo mesi o anni, tutto è diverso.

Mai guardare solo l’istante, importante è aiutare le nuove generazioni a vedere la vita come sarà anni e anni dopo. E saper aspettare e sperare.

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:06 pm | | Default

Perché le opposte parole sull’aborto, “diritto” ed “olocausto”, sono entrambe false e rendono impossibile ogni vera vicinanza a chi deve scegliere, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Ancora una volta la polemica ideologica delle opposte fazioni finge di non vedere che non esiste alcun diritto all’aborto: questo è chiarissimo nella legge italiana, dove nel primo articolo della legge 194 si dice: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio» e tutto il dispositivo di legge invita ad esperire ogni possibilità per salvare la vita del bambino.

Le parole dell’opposta fazione dimenticano invece ciò che dice chiaramente il Catechismo della Chiesa Cattolica: affermando che l’aborto è una colpa grave, «la Chiesa non intende in tal modo restringere il campo della misericordia» (CCC 2272). 

Le due parti in polemica dimenticano congiuntamente che ogni donna sa che nel suo grembo c’è un figlio e che non si tratta di enunciare polemicamente cosa esso sia, poiché ognuno lo sa in cuor suo, mentre si tratta di riscoprire ragioni per dar esito a ciò che si sa bene.

Le due parti in polemica dimenticano congiuntamente la parte maschile: essa è altrettanto responsabile e uno dei drammi contemporanei è che la donna è lasciata ancor più sola, senza l’amore del proprio ragazzo, dinanzi ad una scelta difficilissima. Tragicamente anni di lotte femministe hanno portato al risultato opposto di quanto desiderato: i maschi se ne fregano ancora meno di un tempo ed è la donna sempre più sola a portare la responsabilità e poi tragicamente a sentirsi in colpa.

La 194 non postula un diritto ad abortire, bensì invita, in ogni circostanza, a far sì che la comunità civile provveda ad aiutare la donna in ogni modo a far nascere il bambino e solo come ultima istanza ad abortire.

La parte propositiva della legge italiana è totalmente disattesa, per cui la donna – spessissimo sono oggi le donne migranti che vorrebbero tenere il bambino, come mostra il film Mediterraneo, a non riceve alcun aiuto – incontra solo una breve pratica burocratica, ma nessun sostegno e nessun aiuto al discernimento.

È anche questo che spinge molti medici, anche non credenti, a fare obiezione di coscienza, tanto è divenuto indiscriminato il ricorso all’aborto.

In un momento in cui uno dei principali problemi dell’Europa è la denatalità, sarebbe importante innanzitutto creare una mentalità nuova e far scoprire che è proprio un figlio che rende felice la vita.

Se non rendesse felice la vita del padre e della madre che lo hanno concepito, renderebbe felice la vita di una coppia che potrebbe adottarlo immediatamente al momento della nascita.

Certo è che per quella vita cambierebbe tutto e sua sarebbe la felicità di vivere.

D’altro canto, esperite tutte le possibilità e commesso l’aborto, mentre per chi non è credente talvolta non resta che il senso di colpa, ai credenti è chiesto invece di testimoniare la misericordia e di assicurare a chi porta dentro di sé il dolore per la scelta commessa, che quella creatura è felice in cielo, perché l’opera di Dio è più grande di quella degli uomini.

I gruppi protestanti americano soffiano sul fuoco, utilizzando prospettive sbagliate, mentre i laicisti non hanno il coraggio di dichiarare che sarebbe meglio che il bambino vivesse e che c’è bisogno che la società si impegni per questo, anche se si deve talvolta accettare la scelta opposta.

L’aborto è uno dei traumi più grandi che una donna possa vivere ed è profondamente sbagliato che lo si amplifichi ulteriormente con il riferimento al terrore.

Servono proposte e ipotesi sensate per venire incontro alle donne e ai padri dei nuovi bambini, mentre la polemica, da destra e a sinistra, è male impostata e mistifica la situazione e ciò che la donna e l’uomo sanno bene.

Per approfondimenti, cfr. in video e in testo un intervento più discorsivo in cui abbiamo impostato tale prospettiva a partire dall’esperienza personale vissuta

- video Aborto e RU486: cercare parole di speranza nel dramma

- Aborto e RU486: cercando parole di speranza in un dramma, di Andrea Lonardo

2/ Legge del 22 maggio 1978, n. 194

Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza

1. Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.

2. I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405 (2), fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:

a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi socialisanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;
b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;
c) attuando direttamente o proponendo all’ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a);
d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza.

I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariatoche possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascitaLa somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori.

3. Anche per l'adempimento dei compiti ulteriori assegnati dalla presente legge ai consultori familiari, il fondo di cui all'articolo 5 della legge 29 luglio 1975, n. 405 (2), è aumentato con uno stanziamento di L. 50.000.000.000 annui, da ripartirsi fra le regioni in base agli stessi criteri stabiliti dal suddetto articolo.

Alla copertura dell'onere di lire 50 miliardi relativo all'esercizio finanziario 1978 si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto nel capitolo 9001 dello stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro per il medesimo esercizio. Il Ministro del tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le necessarie variazioni di bilancio.

4. Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405 (2), o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia (2/cost).

5. Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.

Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell'esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l'interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie.

Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l'esistenza di condizioni tali da rendere urgente l'interventorilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l'urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza. Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell'incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all'articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate (2/cost).

6. L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

7. I processi patologici che configurino i casi previsti dall'articolo precedente vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente.

Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma precedente e al di fuori delle sedi di cui all'articolo 8. In questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

8. L'interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell'articolo 20 della legge 12 febbraio 1968, numero 132 (3), il quale verifica anche l'inesistenza di controindicazioni sanitarie. Gli interventi possono essere altresì praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui all'articolo 1, penultimo comma, della legge 12 febbraio 1968, n. 132 (3), e le istituzioni di cui alla legge 26 novembre 1973, numero 817 (3), ed al decreto del Presidente della Repubblica 18 giugno 1958, n. 754, sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta.

Nei primi novanta giorni l'interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici. Il Ministro della sanità con suo decreto limiterà la facoltà delle case di cura autorizzate, a praticare gli interventi di interruzione della gravidanza, stabilendo:

1) la percentuale degli interventi di interruzione della gravidanza che potranno avere luogo, in rapporto al totale degli interventi operatori eseguiti nell'anno precedente presso la stessa casa di cura;
2) la percentuale dei giorni di degenza consentiti per gli interventi di interruzione della gravidanza, rispetto al totale dei giorni di degenza che nell'anno precedente si sono avuti in relazione alle convenzioni con la regione. Le percentuali di cui ai punti 1) e 2) dovranno essere non inferiori al 20 per cento e uguali per tutte le case di cura. (4).

Le case di cura potranno scegliere il criterio al quale attenersi, fra i due sopra fissati. Nei primi novanta giorni gli interventi di interruzione della gravidanza dovranno altresì poter essere effettuati, dopo la costituzione delle unità socio-sanitarie locali, presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati, funzionalmente collegati agli ospedali ed autorizzati dalla regione.

 Il certificato rilasciato ai sensi del terzo comma dell'articolo 5 e, alla scadenza dei sette giorni, il documento consegnato alla donna ai sensi del quarto comma dello stesso articolo costituiscono titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento e, se necessario, il ricovero.

9. Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell'obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dello ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall'entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall'assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l'esecuzione di tali prestazioni. L'obiezione può sempre essere revocata o venire proposta anche al di fuori dei termini di cui al precedente comma, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale.

L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale.

L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. L'obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto, immediato, se chi l'ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l'interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente.

10. L'accertamento, l'intervento, la cura e la eventuale degenza relativi alla interruzione della gravidanza nelle circostanze previste dagli articoli 4 e 6, ed attuati nelle istituzioni sanitarie di cui all'articolo 8, rientrano fra le prestazioni ospedaliere trasferite alle regioni dalla legge 17 agosto 1974, n. 386 (3/a). Sono a carico della regione tutte le spese per eventuali accertamenti, cure o degenze necessarie per il compimento della gravidanza nonché per il parto, riguardanti le donne che non hanno diritto all'assistenza mutualistica.

Le prestazioni sanitarie e farmaceutiche non previste dai precedenti commi e gli accertamenti effettuati secondo quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 5 e dal primo comma dell'articolo 7 da medici dipendenti pubblici, o che esercitino la loro attività nell'ambito di strutture pubbliche o convenzionate con la regione, sono a carico degli enti mutualistici, sino a che non sarà istituito il servizio sanitario nazionale.

11. L'ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali l'intervento è stato effettuato sono tenuti ad inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione con la quale il medico che lo ha eseguito dà notizia dell'intervento stesso e della documentazione sulla base della quale è avvenuto, senza fare menzione dell'identità della donna. Le lettere b) e f) dell'articolo 103 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con il regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (4), sono abrogate.

12. La richiesta di interruzione della gravidanza secondo le procedure della presente legge è fatta personalmente dalla donna. Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l'interruzione della gravidanza è richiesto l'assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. Tuttavia, nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all'articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza.

Qualora il medico accerti l'urgenza dell'intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di diciotto anni, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l'esistenza delle condizioni che giustificano l'interruzione della gravidanza. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento e, se necessario, il ricovero. Ai fini dell'interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, si applicano anche alla minore di diciotto anni le procedure di cui all'articolo 7, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela (2/cost).

13. Se la donna è interdetta per infermità di mente, la richiesta di cui agli articoli 4 e 6 può essere presentata, oltre che da lei personalmente, anche dal tutore o dal marito non tutore, che non sia legalmente separato. Nel caso di richiesta presentata dall'interdetta o dal marito, deve essere sentito il parere del tutore. La richiesta presentata dal tutore o dal marito deve essere confermata dalla donna.

Il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, trasmette al giudice tutelare, entro il termine di sette giorni dalla presentazione della richiesta, una relazione contenente ragguagli sulla domanda e sulla sua provenienza, sull'atteggiamento comunque assunto dalla donna e sulla gravidanza e specie dell'infermità mentale di essa nonché il parere del tutore, se espresso. Il giudice tutelare, sentiti se lo ritiene opportuno gli interessati, decide entro cinque giorni dal ricevimento della relazione, con atto non soggetto a reclamo. Il provvedimento del giudice tutelare ha gli effetti di cui all'ultimo comma dell'articolo 8.

14. Il medico che esegue l'interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna. In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l'interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi.

15. Le regioni, d'intesa con le università e con gli enti ospedalieri, promuovono l'aggiornamento del personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sui problemi della procreazione cosciente e responsabile, sui metodi anticoncezionali, sul decorso della gravidanza, sul parto e sull'uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza.

Le regioni promuovono inoltre corsi ed incontri ai quali possono partecipare sia il personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sia le persone interessate ad approfondire le questioni relative all'educazione sessuale, al decorso della gravidanza, al parto, ai metodi anticoncezionali e alle tecniche per l'interruzione della gravidanza. Al fine di garantire quanto disposto dagli articoli 2 e 5, le regioni redigono un programma annuale d'aggiornamento e di informazione sulla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali esistenti nel territorio regionale.

16. Entro il mese di febbraio, a partire dall'anno successivo a quello dell'entrata in vigore della Presente legge, il Ministro della sanità presenta al Parlamento una relazione sull'attuazione della legge stessa e sui suoi effetti, anche in riferimento al problema della prevenzione. Le regioni sono tenute a fornire le informazioni necessarie entro il mese di gennaio di ciascun anno, sulla base di questionari predisposti dal Ministro. Analoga relazione presenta il Ministro di grazia e giustizia per quanto riguarda le questioni di specifica competenza del suo Dicastero.

17. Chiunque cagiona ad una donna per colpa l'interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni. Chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro è punito con la pena prevista dal comma precedente, diminuita fino alla metà. Nei casi previsti dai commi precedenti, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro la pena è aumentata.

18. Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l'inganno. La stessa pena si applica a chiunque provochi l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l'acceleramento del parto.

Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita. Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto.

19. Chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire centomila. Se l'interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l'accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell'articolo 6 o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi. Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. 

La donna non è punibile: se dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita. Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma.

20. Le pene previste dagli articoli 18 e 19 per chi procura l'interruzione della gravidanza sono aumentate quando il reato è commesso da chi ha sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell'articolo 9.

21. Chiunque, fuori dei casi previsti dall'articolo 326 del codice penale, essendone venuto a conoscenza per ragioni di professione o di ufficio, rivela l'identità - o comunque divulga notizie idonee a rivelarla - di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell'articolo 622 del codice penale.

22. Il titolo X del libro II del codice penale è abrogato. Sono altresì abrogati il n. 3) del primo comma e il n. 5) del secondo comma dell'articolo 583 del codice penale. Salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli articoli 4 e 6.

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:03 pm | | Default

Del principio di non contraddizione dei due dogmi del pensiero unico: il gender e la bontà di ogni religione non cristiana. Breve nota di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Laicità e diritti.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Il principio di non contraddizione è uno dei cardini filosofici: non possono essere vere due tesi opposte. Se due postulati sono in contraddizione solo uno dei due è vero e solo esso deve essere sostenuto.

Contro tale principio si scontra l’ideologia dell’intellighenzia contemporanea: ideologica proprio perché rifiuta di fare i conti con la realtà.

Da un lato, l’ideologia dei “comunicatori” sostiene ad ogni piè sospinto ogni parola o atto di qualsivoglia esponente del gender e amplifica a dismisura qualsiasi parola o atto che vi si opponga, demonizzandolo.

Dall’altro la stessa ideologia dell’intellighenzia sostiene qualsivoglia parola o atto di credenti di religioni diverse da quella cristiana e si oppone veementemente a qualsiasi critica contro tali religioni.

Il principio di non contraddizione entra però in crisi dinanzi a queste due opposte tesi quando sono esponenti di altre religioni, in specie dell’islam, ad assumere durissime posizioni anti-gender.

Il 25 giugno 2022 in Norvegia, la sera prima del Gay Pride, un esponente islamista, Zaniar Matapour, cittadino norvegese di 42 anni di origine curdo-iraniana, ha ucciso due uomini (di 50 e 60 anni, clienti di un locale gay-friendly, il "London Pub") e ferito altre 21 persone: le manifestazioni del giorno dopo sono state annullate su indicazioni della polizia che temeva ulteriori atti di violenza.

Ebbene di tale gravissimo atto non si è quasi avuta menzione nei quotidiani italiani. Se, invece, l’attacco fosse stato portato avanti da gruppi di destra l’eco sarebbe stata enorme.

Insomma, quando i due dogmi entrano in contraddizione si sceglie il silenzio, si preferisce tacere dell’odio anti gender, pur di non intaccare l’altro dogma, senza nemmeno dare spazio ad un minimo dubbio sul fatto che i due dogmi possano sussistere insieme.

Il pensiero ideologico dichiara in maniera ossessiva che il cristianesimo avrebbe una visione anti-gender, mentre non si pone minimamente la questione se altre religioni abbiano una visione molto più marcatamente anti-gender, perché l’ammissione di tale verità minerebbe l’impianto ideologico costruito a prescindere dalla realtà.

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:02 pm | | Default

1/ Nicaragua, il pugno di ferro di Ortega. Sacerdoti ostili trattati come «golpisti». Il Parlamento, controllato dal governo, ha «invitato la giustizia» a processare preti e vescovi critici. «Hanno fomentato le proteste del 2018». Tagliati i fondi all'Università Uca dei gesuiti, di Lucia Capuzzi 2/ Managua. Espulse dal Nicaragua le suore di Madre Teresa: «Violano leggi antiterrorismo», della Redazione Internet di Avvenire 3/ Nicaragua. Fuga a nuoto dalla dittatura di Ortega: ecco i corsi gratis per i migranti. Trecento persone ogni anno muoiono annegate nel Rio Grande per scampare alla repressione del regime ed emigrare negli Usa, di A. Per.

1/ Nicaragua, il pugno di ferro di Ortega. Sacerdoti ostili trattati come «golpisti». Il Parlamento, controllato dal governo, ha «invitato la giustizia» a processare preti e vescovi critici. «Hanno fomentato le proteste del 2018». Tagliati i fondi all'Università Uca dei gesuiti, di Lucia Capuzzi 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Lucia Capuzzi pubblicato il 7/5/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Giustizia e politica internazionale.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Ortega 

«Sobillatori» che, nei loro sermoni, diffondono «l’odio e la rabbia» nei confronti del governo. «Complici del colpo di stato»: per questo «meritano di essere processati» mentre «le loro comunità e associazioni dovrebbero essere oggetto di indagini approfondite». L’oggetto del violento j’accuse del Parlamento nicaraguense – sotto il controllo del presidente Daniel Ortega – sono i sacerdoti, i vescovi e l’intera Chiesa cattolica.

In un testo, appena approvato, l’Assemblea nazionale ha “invitato” la giustizia a mettere sotto inchiesta il clero per aver dato protezione ai manifestanti pacifici durante la repressione delle proteste del 2018. La cosiddetta “rivolta d’aprile” fu stroncata nel giro di qualche mese dal pugno di ferro orteguista.

Nel sangue. La Commissione interamericana per i diritti umani parla di almeno 350 vittime. A partire da allora, centinaia di persone sono state arrestate in cicliche retate e condannate a lunghe pene. Tuttora, in carcere ci sono 170 prigionieri per ragioni politiche.

Tra loro, i sette aspiranti candidati alle presidenziali dello scorso novembre, vinte senza reale opposizione da Ortega per la quarta volta, di cui la terza consecutiva. Di tutto questo, però, il rapporto del Parlamento non fa menzione.

Al contrario, l’esecutivo viene presentato come bersaglio di un intento di destabilizzazione feroce, in cui rimasero uccisi numerosi sostenitori. I familiari di questi ultimi «hanno chiesto pene più severe nei confronti degli ecclesiastici e direttori di organizzazioni per i diritti umani che si sono lanciati nell’avventura golpista».

I deputati, pertanto, sono già all’opera per modificare il codice penale. Il testo dell’Assemblea è l’ultimo di una serie di attacchi di Ortega – che, come la moglie e vicepresidente Rosario Murillo si dichiara cattolico praticante – verso la Chiesa, l’unico spazio di libertà rimasto in un contesto sempre più restrittivo.

Più volte la coppia ha pronunciato incendiarie dichiarazioni contro preti e vescovi «golpisti». A marzo c’è stata l’espulsione del nunzio, Waldemar Stanislaw Sommertag, protagonista di due intenti di dialogo tra il governo e l’opposizione. Poi c’è stato il taglio dei fondi all’Università centroamericana di Managua (Uca) dei gesuiti.

Con la recente riforma della legge per l’educazione, l’ateneo viene classificato come «privato» e pertanto escluso dai contributi pubblici che consentivano di elargire centinaia di borse di studio. Poco dopo, lo stesso presidente ha minacciato di rendere illegale il suo Istituto di storia della Uca.

Il giro di vite potrebbe, però, rientrare in un complesso “gioco al rialzo” con la comunità internazionale. In particolare con gli Usa. È evidente che la crisi ucraina e la “nuova Guerra fredda” tra Washington e Mosca sta rimescolando le “carte politiche” in America Latina.

Un nuovo giro di valzer delle alleanze, come dimostra la vicenda del venezuelano Nicolás Maduro – nonché fedele amico di Managua – che lo stop al petrolio russo starebbe riportando nelle grazie di Joe Biden.

Anche Ortega è ansioso di approfittare dell’ansia di Washington di isolare la Russia e di spezzare le reti da questa costruite con Cuba, Nicaragua e Venezuela. Secondo quanto riferito dal New York Times, il figlio Laureano – consulente dell’esecutivo e potente uomo d’affari – avrebbe cercato un «avvicinamento discreto» con l’Amministrazione democratica negli ultimi tempi. Il principale obiettivo è ottenere l’alleggerimento delle sanzioni decise dal dipartimento di Stato nei confronti dei vertici del regime. Finora gli Usa non sembrano disposti a desistere dalla “linea rossa” del rilascio dei prigionieri politici. Washington, però, è abituata a muoversi a geometria variabile sull’asse amico-nemico. La partita è aperta.

2/ Managua. Espulse dal Nicaragua le suore di Madre Teresa: «Violano leggi antiterrorismo», della Redazione Internet di Avvenire

Riprendiamo da Avvenire un articolo della Redazione Internet di Avvenire pubblicato il 30/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Giustizia e politica internazionale.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Continua l'attacco del regime di Daniel Ortega in Nicaragua contro la Chiesa cattolica. Dopo l'espulsione del Nunzio apostolico lo scorso marzo, e dopo le minacce a vescovi e sacerdoti, ora sono state mandate via dal Paese anche le suore di Madre Teresa.

Lo fa sapere monsignor Silvio José Baez, vescovo ausiliare di Managua: "Mi rattrista molto che la dittatura abbia costretto le suore Missionarie della Carità di Teresa di Calcutta a lasciare il Paese. Nulla giustifica il privare i poveri della cura della carità. Sono una testimonianza del servizio amorevole che le sorelle hanno reso. Dio vi benedica".

Colpite dall'ordine di espulsione sono state 101 organizzazioni civiche e caritatevoli, tra cui appunto le Missionarie della Carità. Il pretesto è che questi gruppi non rispettano gli obblighi previsti dalla legislazione nazionale. Già lo scorso aprile il Parlamento aveva bandito 25 ong, molte delle quali avevano criticato apertamente l'operato del governo.

Le Missionarie della Carità operavano in Nicaragua dal 1986, da quando cioè madre Teresa di Calcutta aveva visitato il Paese e il presidente era, anche all'epoca, Daniel Ortega. A Granada hanno gestito fino ad oggi un centro di accoglienza per adolescenti abbandonati o abusati.

Per il governo del Nicaragua, guidato da Daniel Ortega e la moglie Rosario Murillo, le Missionarie della Carità devono lasciare il Paese perché non hanno rispettato le leggi sul "finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa". È questa la giustificazione fornita dalla Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro del ministero degli Interni; la stessa motivazione con cui sono state messe al bando molte ong.

Il ministero degli Interni, nel caso delle suore di Madre Teresa di Calcutta, aggiunge che la congregazione religiosa porta avanti attività per le quali non ha avuto autorizzazioni da parte dei ministeri per la Famiglia, della Pubblica Istruzione e della Sanità.

La decisione del governo Ortega dovrebbe essere ratificata dal Parlamento.

3/ Nicaragua. Fuga a nuoto dalla dittatura di Ortega: ecco i corsi gratis per i migranti. Trecento persone ogni anno muoiono annegate nel Rio Grande per scampare alla repressione del regime ed emigrare negli Usa, di A. Per. 

Riprendiamo da Avvenire un articolo a firma A. Per. pubblicato il 12/4/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Giustizia e politica internazionale.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

"Nicaragua, el gulag centroamericano". Il titolo del Pais di un anno fa spiega in modo sintetico il Paese centroamericano. "Quelli che prima sostenevano l'ex dittatore Anastasio Somoza, poi sono diventati ribelli Contra negli anni '80, infine oggi sono gli scagnozzi di Daniel Ortega", dicono gli oppositori del regime. Ma la storia del Nicaragua si comprende meglio con un grandangolo sugli oppressi: 100mila persone hanno lasciato il Paese negli ultimi anni per scappare dalla violenta repressione del regime di Ortega. E, tra quelle, 300 persone ogni anno non ce la fanno a fuggire e muoiono annegati nel Rio Grande, e con loro anche la speranza di raggiungere gli Stati Uniti.

Dopo la violenta repressione dei moti di piazza dell'aprile del 2018, con oltre 400 morti tra le barricate di Managua, ora la repressione sta diventando chirurgica; si cercano i nemici casa per casa, si censura qualsiasi voce critica. Il governo di Ortega è arrivato a togliere carta e inchiostro ai giornali. Il tutto sullo sfondo di una crisi economica aggravata da una pandemia che Ortega ha negato fino all'ultimo. Il matrimonio tra neoliberismo e populismo, il mix di sussidi e deregolamentazione dei diritti dei lavoratori, che aveva sostenuto tra il 2008 e il 2016 una crescita del Pil superiore al 5%, si è arrestata. La situazione economica è sempre più preoccupante e la scure della repressione non risparmia neanche gli imprenditori, che pure avevano beneficiato del "laissez faire" del governo.

Oggi dal Nicaragua si vuole fuggire, in ogni modo. E il protocollo è quasi sempre lo stesso. I migranti nicaraguensi escono dal Paese in bus e raggiungono il Guatemala dove incontrano i 'coyote', i trafficanti che aiutano i migranti a nascondersi all'interno delle auto alla volta del Messico.

Qui però c'è l'ostacolo più arduo da superare: il Rio Grande. Il fiume lungo più di duemila chilometri rappresenta la frontiera naturale tra Messico e Stati Uniti, ed è noto per le sue forti e pericolose correnti nei giorni di piena. Ultima barriera prima della richiesta di asilo politico negli Stati Uniti e quindi della salvezza, il fiume che nasce nelle Montagne Rocciose del Colorado diventa troppo spesso un cimitero per centinaia di nicaraguensi.

Il perché lo spiega un rapporto dell'ufficio dogane degli Stati Uniti: "I trafficanti promettono ai migranti un aiuto per navigare il fiume in barca, chiedendo in cambio somme molto elevate, ma spesso non rispettano gli impegni presi e i migranti si trovano costretti a traversare il fiume a nuoto". I testimoni parlano di circa cinquemila dollari versati a gruppi criminali che trasportano i migranti insieme alla droga. Anzi, peggio. Si tratta di "narcos" che non si fanno scrupoli ad attirare l'attenzione delle autorità americane sui migranti per contrabbandare droga pochi metri più in là.

Nonostante questo però solo tra gennaio 2020 e febbraio 2022 sono stati intercettati 111mila nicaraguensi in fuga. Le torture e gli stupri dentro le carceri del Paese, le violenze delle autorità e gli arresti arbitrari, denunciano gli attivisti per i diritti umani, spesso fanno più paura della morte per annegamento. Eppure, c'è chi non si rassegna all'idea che occorre scegliere tra vivere senza libertà e morire ricercandola.

Dopo che lo scorso mese altre quattro donne sono morte annegate, la città di Esteli, 150 chilometri a nord di Managua, ha deciso di organizzare corsi di nuoto e sopravvivenza. I social e le radio li pubblicizzano e molte donne sole, disoccupate o con un reddito appena sufficiente a comprare cibo per i figli stanno decidendo di iscriversi. Perché questi corsi sono gratuiti e non è poco. Chi fugge dalla dittatura di Ortega spende una somma che varia dai 5mila ai 14mila dollari e non ci sono abbastanza risorse per dei corsi di nuoto. Mario Venerio, un bagnino con trent'anni di esperienza, ha deciso di mettere i suoi talenti a servizio di queste persone in fuga. "Oltre al nuoto insegno le tecniche di sopravvivenza e i primi soccorsi", dice Venerio.

Non è la prima volta che il nuoto serve la causa delle migrazioni. Nel 2015 la nuotatrice siriana Yusra Mardini riuscì a salvare da un naufragio 18 persone. È il 2015, la guerra devasta la Siria e Yusra decide di mettersi in viaggio. Si imbarca insieme ad altre 18 persone su un gommone che ne può contenere al massimo nove. Nel bel mezzo del viaggio verso la Grecia un temporale si abbatte sull'imbarcazione. Il barcone sta lentamente affondando, quando Yusra si tuffa in acqua e con altri due uomini la tiene a galla, trascinando la barca per tre ore e mezzo fino all'approdo sull'isola di Lesbo. "Scappavo dalle bombe", disse allora Yusra.

Oggi invece i nicaraguensi fuggono dalla repressione. La Commissione interamericana sui diritti umani (IACHR) nel suo report pubblicato lo scorso 14 marzo conferma che nelle carceri nicaraguensi "ci sono maltrattamenti, restrizioni alimentari, assenza di cure e mancato rispetto dei protocolli contro il covid nonché minacce e molestie alle famiglie in visita". Molti studenti e giornalisti denunciano anche oggi l'utilizzo da parte delle forze dell'ordine di "waterbording e scosse elettriche". Le persone fuggono dal Nicaragua con una frequenza media di 4mila persone al mese.

Persino un ex fedelissimo del presidente come McFields Yescas, ex giornalista di Canal 12, sostiene: "Nel mio Paese c'è la dittatura, impossibile difenderla". Centinaia di donne e uomini stanno imparando a nuotare per fuggire da questo "gulag centroamericano".

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:01 pm | | Default

Il fatto che si parli sempre più dell’ingresso di altri paesi nella NATO è la prova di ciò che era chiaro fin dagli inizi della guerra: il Donbass sarebbe stato perso, con molti morti inutili sia da parte ucraina che da parte russa, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Per la pace contro la guerra: mitezza e violenza.

Il Centro culturale Gli scritti (3/7/2022)

Il fatto che si parli sempre più dell’ingresso di altri paesi nella NATO - al di là del grave pedaggio che comporterà contro i curdi - è innanzitutto la prova di ciò che avevamo intravisto, insieme agli osservatori più attenti e imparziali. Il Donbass sarebbe stato perso, con molti più morti inutili, sai da parte ucraina che da parte russa ed ora bisogna dare alla stampa l’immagine di una guerra utile in cui l’occidente sarebbe stato profetico, mentre è assurdo ciò che la NATO ha fatto, come ha ricordato anche il papa.

Il che non toglie che i russi abbiano avuto torto marcio ad invadere, ma, come insegna la saggia dottrina della Chiesa, molto più saggia delle visioni dottrinali della destra e della sinistra, le guerre si “possono” fare solo se c’è non solo un ingiusto attacco, ma anche una seria probabilità di vittoria.

 Nel frattempo l’Europa ha continuato a fare l’unica cosa che avrebbe dovuto interrompere e cioè acquistare gas e petrolio russo. Anche se ora si sbandiera il fatto che l’ingresso di tale materie dalla Russia diminuirà, è evidente che l’Europa ha dato armi ai russi, mentre pagavamo loro il petrolio e davamo loro soldi, senza mai affermare chiaramente che, dinanzi a grandi tensioni, bisogna fare sacrifici e non inviare armi!

Il capitalismo pensa sempre che tutto si possa risolvere con i dollari e il denaro, mentre ciò che serve è il sacrificio, anche delle materie prime.

Redazione de Gliscritti | Domenica 03 Luglio 2022 - 11:00 pm | | Default