«L’hai fatta fuori dal vasetto» o «Stai pisciando fuori dal vasetto». Del problema civile e pastorale dell’esagerazione, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Teologia pastorale e Carità e giustizia.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

A Roma si dice di uno che sta esagerando, di uno che non rispetta i limiti che la realtà gli dà: «L’hai fatta fuori dal vasetto».

Il gergo romanesco ha questo di bello, che rimette le cose al loro posto con ironia: «Stai pisciando fuori dal vasetto».

Non puoi “pisciare” ovunque, è quello lo spazio nel quale puoi farlo, non eccedere, non uscire dall’argine, non straripare, non debordare, non esondare.

In ambito civile e politico, ma anche pastorale, esiste il troppo, l’esagerato. E “il troppo stroppia” – sono i proverbi a dirlo!

Insomma esistono cose che sono anche giuste di per sé, questioni anche vere di per sé, ma che non possono essere perseguite come le uniche, che non possono pretendere tutte le attenzioni e tutte le energie.

Ci sono modalità di intervento, modalità di lavoro di gruppo, che sono giuste, ma che non possono essere assolutizzate.

Dove questa assolutizzazione si presenta, è la realtà stessa che si preoccupa di rispondere, opponendosi a noi, è la realtà stessa che si preoccupa di rimetterci al nostro posto.

L’esagerazione distorce ciò che è giusto e rende fastidioso chi è esagerato, unidirezionale. L’esagerazione genera opposizione. L’esagerazione fa passare dalla ragione al torto.

In campo personale, civile e pastorale serve equilibrio, serve una ponderazione dell’importanza delle diverse questioni, serve dare valore a polarità opposte (vedi Romano Guardini e il concetto di opposizione polare), per cui chi assolutizza un aspetto della realtà, della società, della fede, viene giustamente percepito come “impallinato” – altro termine romano che dice l’assurgere di una questione a “pallino”, cioè a fissazione personale, al punto da far perdere, in chi è “fissato”, il senso dell’insieme.

È importante stare attenti, perché l’esagerazione produce l’effetto contrario. Chi esagera, rischia di far poi dimenticare anche le ragioni della propria provocazione.

E - per proseguire con la saggezza popolare - “chi è causa del suo mal pianga sé stesso”.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 9:16 pm | | Default

La verità definitiva sui segreti di Stonehenge, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Preistoria e Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

Stonehenge è una delle tante testimonianze storico-scientifiche che ricordano come l’uomo abbia da sempre ha cercato Dio.

Probabilmente a Stonehenge, le cui origini vengono datate al 3000 a.C., si compivano sacrifici animali alle divinità: la presenza di numerose sepolture di epoche diverse attesta che vicino a questo luogo ritenuto sacro si seppellivano persone per affidarle alla vita eterna.

Insieme agli altri siti megalitici della Gran Bretagna, Marden Henge, dieci volte più grande di Stonehenge, Avebury ed ai siti delle isole Orcadi (Brodgar o Brogar, Stenness, Maeshowe o Maes Howe,  Skara Brae), ci ricorda il senso religioso dell’uomo che ha sempre cercato di comunicare con il “cielo”.

Più di questo è difficile dire a livello scientifico - ma quanto detto è molto – ed è divertente la leggenda che si è creata, invece, su Stonehenge.

Tali speculazioni post-moderne vogliono nascondono un fatto incontestabile: le pietre del sito non sono oggi nella posizione originaria, perché quando esso venne risistemato per le visite, non ci si attenne ad una ricostruzione archeologica corretta, per cui ogni ricostruzione di un preciso orientamento è ormai impossibile, come ben spiega sul nostro sito l’articolo Stonehenge, falsa leggenda. "È stato tutto ricostruito". Uno studente riporta alla luce i documenti: la disposizione delle pietre è opera dei restauri di un secolo fa, di Antonio Polito con le foto accluse.

Nel 2022 uno studio dei professori Giulio Magli del Politecnico di Milano e Juan Antonio Belmonte dell’Instituto de Astrofísica de Canarias e Universidad de La Laguna di Tenerife pubblicato su Antiquity, autorevole rivista di archeologia, ha aggiunto argomenti contro le illazioni leggendarie che vengono proiettate sul sito.

I due ricercatori giungono a tre conclusioni:

«Magli e Belmonte analizzano in primo luogo l’elemento astronomico: mostrano che il lento movimento del sole all’orizzonte nei giorni prossimi ai solstizi rende impossibile controllare il corretto funzionamento del presunto calendario, poiché il dispositivo, composto da enormi pietre, dovrebbe essere in grado di distinguere posizioni molto precise, meno di 1/10 di grado.

In secondo luogo, la numerologia. Attribuire significati ai “numeri” in un monumento è una procedura sempre rischiosa: per esempio, in questo caso, un “numero chiave” del presunto calendario, 12, non è riconoscibile in nessun elemento di Stonehenge.

Infine, i modelli culturali. Una prima elaborazione del calendario di 365 giorni più 1 è documentata in Egitto solo due millenni dopo Stonehenge (ed è entrata in uso secoli dopo). Un trasferimento e un’elaborazione di nozioni con l’Egitto avvenuto intorno al 2600 a.C. non ha basi archeologiche».

Il sito attesterebbe, invece, esattamente come già proposto autorevolmente da Gli scritti la fiducia in una vita ultraterrena, in una «connessione tra vita ultraterrena e solstizio d’inverno, presente nelle società neolitiche»[1].

Un luogo che dice, insomma, del desiderio della vita eterna e della fede in divinità che la garantiscano, perché operanti nel governo degli astri, ma che non dice niente, invece, di presunte conoscenze astronomiche degli uomini preistorici.

Note al testo

[1] Uno studio del Politecnico svela uno dei misteri di Stonehenge, pubblicato il 9/9/2022.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 9:15 pm | | Default

Le minoranze religiose perseguitate dall’Isis. Un'intervista a Vittorio Berti di Daniele Mont D’Arpizio

Riprendiamo sul nostro sito un’intervista a Vittorio Berti, pubblicata su Il BO live Università di Padova (https://ilbolive.unipd.it/it/content/le-minoranze-religiose-dell%E2%80%99isis) il 23/10/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Chiese ortodosse, L’Islam e la questione della libertà religiosa e Cristianesimo.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

Sono i più antichi abitanti della regione, ma adesso scappano. Si tratta delle comunità cristiane siriache, presenti in Mesopotamia fin dalla fine del primo secolo dopo Cristo e ora perseguitate dall’Isis (o Daesh), l’autoproclamato stato islamico i cui miliziani vanno a caccia di infedeli di casa in casa.

Un’ostilità che viene da lontano e che ha conosciuto un drammatico peggioramento soprattutto con l’invasione dell’Iraq nel 2003 da parte dell’alleanza guidata dagli Stati Uniti. Da allora la storia di quest’antichissima comunità è stata un’ininterrotta striscia di sangue, costellata da continui attacchi dinamitardi alle chiese e dalle stragi degli squadroni della morte degli integralisti islamici: come nel 2008, quando venne rapito e ucciso l'arcivescovo caldeo di Mossul Paulos Faraj Rahho, oppure il 31 ottobre 2010, quando un gruppo di terroristi fece irruzione nella chiesa siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad, facendo strage di fedeli.

Una violenza continua che negli ultimi anni è culminata in una vera e propria campagna di persecuzione, tanto che dei circa 600.000 cristiani residenti in Iraq prima della guerra – la maggior parte siriaci – oggi sono sempre più quelli che cercano rifugio nelle comunità della diaspora, in primo luogo nel Nord Europa e negli Usa, dove da tempo risiede anche Mar Dinkha IV, attuale Catholicos della Chiesa assira d'oriente.

Una situazione che accomuna i cristiani ad altre minoranze religiose presenti in Iraq, come i mandei e in soprattutto gli yazidi, contro i quali, secondo l’Onu, potrebbe essere in atto in questi giorni un vero e proprio genocidio.

Qual è però l’origine e soprattutto quali sono le prospettive di queste antiche comunità nel paese tra i due grandi fiumi, e in generale in Medio Oriente? Lo chiediamo a Vittorio Berti, storico del cristianesimo e assegnista di ricerca presso l’Università Roma 3, che proprio alla conoscenza della cultura siriaca, e in particolare alla traduzione dei suoi antichi testi, ha dedicato i suoi studi.

Chi sono i cristiani siriaci che sono oggi perseguitati in Iraq? Qual è la loro storia?

I cristiani mesopotamici o siro-mesopotamici sono una comunità molto composita e differenziata, sia dal punto di vista etnico sia da quello religioso, visto che sono divisi in diverse confessioni: dalla Chiesa ortodossa siriaca, che confessa una cristologia miafista– ovvero dell’una natura divina del Verbo incarnato – alla Chiesa Caldea e a quella Maronita, che invece rientrano a pieno titolo nel cattolicesimo, a quella assira, tradizionalmente definita “nestoriana”, fondamentalmente difisita (due distinte nature in Cristo). Il loro tratto comune è l’utilizzo del siriaco, una lingua semitica appartenente al gruppo dell'aramaico orientale, come lingua liturgica e a lungo anche come lingua letteraria.

Qual è l’importanza storica e culturale di queste comunità oggi in pericolo?

Si tratta di una civiltà che ha prodotto una vastissima letteratura e spiritualità (bastino i nomi di Efrem il Siro e di Isacco di Ninive), e che ha funzionato da camera di trasmissione e traduzione tra Europa e Asia – i manoscritti più antichi delle opere di alcuni padri della Chiesa greca, come ad esempio Gregorio di Nazianzo, sono quelli siriaci, e risalgono anche a prima del VII secolo; o ancora, si pensi al ruolo di mediatori della cultura classica a quella islamica, che incentivò presso i conquistatori lo studio della filosofia e della medicina greca. Fondamentale fu anche l’opera missionaria di queste chiese, che si spinse fino in India e in Cina oltre mezzo millennio prima di Marco Polo, che infatti nel Milione registra con stupore l’esistenza di comunità cristiane nate da questa predicazione.

Quale è stato l’impatto della conquista musulmana sulle comunità siriache?

All’inizio l’Islam percepisce sé stesso come una realtà politica ancora prima che religiosa; i sottoposti sono in qualche modo chiamati, ma non costretti alla conversione, anche se è comunque esagerato parlare di tolleranza. Gli arabi all’inizio portano la loro nuova fede e l’abilità militare, ma manca loro uno strumento fondamentale: l’organizzazione statale. Per questo nei primi decenni i conquistatori usano ampiamente le élites cristiane per rifornirsi di funzionari, segretari, medici, finanche gioiellieri. 

I cristiani siriaci rimangono a lungo la maggioranza...

Fino al IX secolo si attestano intorno al 30-40% della popolazione, contro un 20-25% di musulmani (dati comunque molto opinabili). Intanto però con il califfato si completa il processo di sedentarizzazione, e di lì lo sviluppo di un ceto di intellettuali e funzionari musulmani, oltre a una cultura urbana islamica; i cristiani diventano sempre più marginali e iniziano a scrivere e ad esprimersi in arabo. Dal IX secolo in poi la letteratura siriaca è sempre meno vivace e diffusa, fino all’ultimo grande autore, Gregorio Bar Ebreo, che vive nel XIII secolo. 

Dopo cosa succede?

A seguito dell’invasione dei mongoli e soprattutto con Tamerlano la Mesopotamia entra in una spirale di progressiva decadenza. Le comunità cristiane siriache si spingono e si concentrano a nord, in particolare nella piana di Ninive e nelle vicine valli del Kurdistan. Progressivamente in età moderna dal siriaco si sviluppano alcuni dialetti, oggi parlati correntemente da poche migliaia di persone, e una letteratura volgare; a fianco vediamo per tutta quest’area la realtà di un cristianesimo per lo più arabizzato, in cui il grande lascito della cultura siriaca sopravvive soprattutto nelle antiche liturgie, nelle immense collezioni di manoscritti e nella memoria culturale.

Poi c’è la prima guerra mondiale...

Qui le comunità assire, secondo una dinamica parallela e analoga a quella subita dagli armeni, si trovano coinvolte nei piani di pulizia etnica promossa da segmenti dell’élite ottomana. Questo sterminio, che viene chiamato Sayfo (la spada), si snoda in una serie di eventi tra il 1890 e il 1925, e secondo le stime ha provocato tra i 250.000 e i 400.000 morti. Come tutte le comunità cristiane del vicino oriente anche quelle siriache di lì in poi hanno difficoltà a trovare un proprio posto negli stati nati dalla disgregazione dell’impero ottomano.

Arriviamo ad oggi, con le case dei cristiani segnate con la “N” (da nazareno=cristiano) scritta con la vernice dai miliziani del “nuovo califfato”.

Purtroppo i cristiani iracheni, così come la comunità degli yazidi – una setta che abbraccia un credo sincretistico di impostazione gnostica – sono soggetti deboli stritolati in meccanismi più grandi di loro, in particolare lo scontro tra sunniti e sciiti, giocato a un livello geopolitico più esteso. Con Saddam Hussein l’Iraq era sostanzialmente governato da una minoranza sunnita “laica”, in parte appoggiata anche dai cristiani caldei, rappresentati dal vice del “rais”, Tarek Aziz. Con il secondo intervento americano, gli sciiti sono andati alla guida del paese, generando il risentimento di una parte dei vecchi dominatori, a cui si sono aggiunti gruppi fondamentalisti di matrice wahabita. La cosa paradossale è che oggi i cristiani sono perseguitati da una parte dei loro vecchi “alleati” (se si può dire così), mentre sono protetti dai curdi, con cui in passato avevano avuto scontri.

Quali sono le prospettive di questa popolazione e della loro cultura?

Onestamente non molte. È davvero un dramma che in questo momento l’unica scelta possibile sia l’abbandono delle terre natie. Si tratta di una sconfitta per tutti, perché in qualche modo queste minoranze sono le prime e più antiche esperte della convivenza tra cristianesimo e Islam. Di diverso segno è la condizione della preservazione, almeno scientifica, della cultura siriaca: occorre registrare infatti lo sviluppo poderoso che gli studi siriaci hanno avuto negli ultimi cinquant’anni nelle accademie occidentali.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 9:10 pm | | Default

Ma Dante è vicino alla gente più di quanto si pensi. Spesso ci si chiede come far giungere alle persone la grandezza del Poeta, in realtà è già vivo nei temi della vita, di Davide Rondoni

Riprendiamo da Avvenire un articolo scritto da Davide Rondoni e pubblicato il 2/6/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e, in particolare, Dante Alighieri.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

Dante in esilio, 1854

Togliete a Dante la maschera. La maschera, funebre, la maschera scolastica e quella patriottica. Dante è un poeta, una specie di sciamano, di lucidissimo folle, fedele d'amore. Un viandante esule e visionario.

Appena gli fai il monumento, ecco non c'è più, se ne va. I poeti sono diversi da presidenti, imperatori, primi ministri, eroi di ogni specie. Non sopportano i monumenti. Da qualche tempo, avvicinandosi al settimo centenario dantesco, si susseguono interventi su cosa fare, come trattare, cosa inventare intorno alla figura del poeta. Ci sono edizioni in corso. E poi chi vuole onorarlo con esposizioni delle ossa. E chi invece progetta festival o chi film. Finalmente la Rai ha detto sì al progetto di Avati. Un sommovimento salutare.

Qualcuno, anche su queste colonne, si è posto l'interrogativo su come avvicinare Dante alle folle, menzionando alcune cose meritorie già in circolazione, anche se andrebbe aggiunta la grande diffusione della bellezza di Dante grazie a Roberto Benigni e ai suoi show. Fu non a caso T. S. Eliot, grande lettore e figlio poetico di Dante nel '900, a immaginare quel che Roberto ha poi compiuto: per fare un teatro (e televisione) di cultura vera, ma anche popolare la cosa migliore sarà l’attore comico.

E non bisogna dimenticare la scuola.  È lì, infatti, si può compiere il primo servizio a Dante o fargli il primo sgambetto. Il primo modo per avvicinare un genio e tradurlo - trasmetterlo - al futuro sia dare ascolto e retta al genio invece che alle proprie elucubrazioni o invenzioni "metodologiche".

In molte scuole sono rimasto colpito dal fatto che ogni volta che chiedo ai ragazzi perché Dante abbia scritto la Commedia e come mai si ritrovasse in quella famosa selva mi ritrovo a sentire rispostine rachitiche e preconfezionate, libresche, robe morte da libri di testo sbagliati.

Come se nessuno avesse ascoltato lui, il poeta. Che lo dice chiaramente e magnificamente. Come se la morte di Beatrice non fosse l'elemento scatenante, la grande misteriosa benzina, oscura e lucente, del poema.

Come se non fosse quella scandalosa morte la ferita e la potenza movimentante del viaggio fino in faccia al mistero dell'esistente. Non compie Dante forse il viaggio che ciascuno di noi vorrebbe fare quando veniamo profondamente segnati dalla perdita di una persona amata? Non vorremmo andare fino in faccia a Dio, se ha una faccia o tre cerchi o cosa, e guardare dentro per capire, vedere, fosse solo pure per un attimo, come accade a Dante stesso, se questa vita è solo un teatro di ombre, una presa in giro, una cloaca di dolore, oppure no?

Forse non occorre "portare" Dante più vicino alla gente, occorre non portarlo lontano da dove è. Lui, poeta e veggente, è già lì vicino alle questioni di tutti.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 9:03 pm | | Default

Il genio di Canova per il bello. Lo scultore seppe fondere lo splendore dell'idea con il calore della carne, di Antonio Paolucci

Riprendiamo da Luoghi dell’Infinito un articolo scritto da Antonio Paolucci e pubblicato sul numero 240, giugno 2019, pp. 64-69. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte: Settecento e Ottocento.

 Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

Antonio Canova, Venere Italica

Nel 1802 papa Pio VII Chiaramonti nomina Antonio Canova Soprintendente Generale del patrimonio archeologico e artistico dello Stato Vaticano e direttore dei Musei.

Lo fa ancorando l'iperbole laudativa a una comparazione storica che proclama - potremmo dire ex cathedra - l'equivalenza fra lo scultore di Possagno e il "divino" Raffaello.

«La Santità di N.S. ha dichiarato che volendo contestarle la sua speciale ammirazione, non ha saputo manifestargliela che seguendo le tracce medesime di Leone X verso l’incomparabile Raffaello d’Urbino, collocandola nel più sublime grado di tutti gli artisti».

Così Papa Chiaramonti e non si poteva dire meglio. La deliberazione di Pio VII è il consapevole calco del celebre "breve" del 1515 con il quale Leone X nominava Raffaello Soprintendente alle Antichità di Roma [N.B. de Gli scritti. Per una precisazione di tale affermazione, cfr. Raffaello Sanzio. Santità, non ruiniamo Roma! Al grande pittore si deve l’appassionata difesa delle rovine e l’ardente desiderio di conservarle, misurarle, trasmetterle alle generazioni future, di Salvatore Settis e La Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassarre Castiglione nell’analisi di Salvatore Settis. “Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana”. Una presentazione di Andrea Lonardo]. Come papa Medici aveva riconosciuto, con un atto ufficiale, il primato di Raffaello così, tre secoli dopo, brillando alto nel ciclo d'Europa l’astro di Napoleone, papa Chiaramonti tributava ad Antonio Canova un analogo omaggio di eccezionalità e di eccellenza.

La fortuna dello scultore è ultimamente cresciuta e ai tempi nostri si è rafforzata. Non è servita ad offuscarla la memorabile stroncatura di Roberto Longhi che, nel 1946, nel Viatico di cinque secoli di pittura veneziana giudicava Canova un artista «nato morto il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all'Accademia e il resto non so dove». Nonostante questo, per uno di quei moti pendolari non infrequenti nella critica, il nostro secolo ha visto il recupero impetuoso, smagliante dell’immagine di Antonio Canova. Oggi egli è tornato a essere, dopo Michelangelo, lo scultore più ammirato e apprezzato a livello internazionale. L'ultima mostra napoletana a lui dedicata ne è la felice conferma. Oggi la nostra opinione su di lui non è diversa da quella espressa, due secoli fa, da papa Chiaramonti.

Ma in cosa consiste, oggi, il fascino di Canova? Il "miracolo" di Antonio Canova sta nell'essersi egli saputo mantenere in mirabile equilibrio, allo spartiacque di due secoli, fra "idea" e "natura", fra il classicismo di Winckelmann e la nascente sensibilità romantica di Foscolo, di Byron, di Keats.

Da una parte i modelli, dall'altra i sentimenti (l'amore, gli affetti, la malinconia, la mestizia) che inteneriscono i modelli e li rendono nuovi e moderni.

Questo, in sintesi, nei tempi drammatici e calamitosi che videro la fine dell'Antico Regime, la Rivoluzione, l'Impero, la Restaurazione, fu il sogno artistico di Antonio Canova, il suo carisma e il suo destino. La sua idea di un'arte accarezzata dai sentimenti e intiepidita dalla vita, affascinò l'Europa divisa dalla politica, dalle ideologie e dalle guerre e ancora, dopo due secoli, ci rasserena e ci scalda il cuore.

Di fronte ai marmi fidiaci di lord Elgin tratti dal Partenone di Atene, Canova scrive:

«Tutto spira vita con una evidenza, con un artifizio squisito [...]. I nudi sono vera bellissima carne».

Affascinato dalle sculture di Canova, Stendhal affidava la sua ammirazione a un giudizio rimasto proverbiale:

«Canova ha avuto il coraggio di non copiare i greci e di inventare una bellezza come avevano fatto i greci» (1816).

«Sempre sono stati gli uomini composti di carne flessibile e non di bronzo».

Questo diceva Canova e questo dimostrava nelle sue sculture costantemente accarezzate dalla "bella natura".

Bella natura è lo splendore di un giovane corpo femminile, è la sensazione di immortalità che la giovinezza ci regala per un attimo; bella natura sono i sentimenti di amore, di tenerezza, di mestizia che attraversano i pensieri e le azioni degli uomini.

Ed ecco le opere celebri dello scultore, la glorificazione dell’Amore declinato nelle varianti del Mito (Eros e Psyche, Adone incoronato da Venere), consegnato alla dolce contemplazione di giovani nudi femminili (la Venere italica, le Grazie, Ebe, Paolina Borghese).

La pura forma classica obbliga i corpi al luminoso dominio dell’idea ma, sotto quel levigato splendore, noi avvertiamo il tepore della carne. Tutto questo lo aveva capito molto bene Ugo Foscolo il quale, di fronte alla Venere italica di Canova chiamata a sostituire agli Uffizi la Venere dei Medici portata via da Napoleone, scrive:

«Canova abbellì la sua nuova dea di tutte quelle grazie che ispirano un non so che di tenero ma che muovono più facilmente il cuore [...]. Insomma se la Venere dei Medici è bellissima dea, questa che io guardo è bellissima donna; l’una mi faceva sperare il Paradiso fuori di questo mondo e questa mi lusinga del Paradiso in questa valle di lacrime».

A Napoli marmi e gessi da tutto il mondo per indagare il rapporto di Antonio Canova con la grande tradizione dell'antico, di Luigi Marsiglia

La biografia di Antonio Canova viene delineata con tratti vigorosi da Rudolf Wittkower nelle sue lezioni sulla scultura pubblicate postume nel 1977. Canova era nato nel 1757 a Possagno, Treviso, ma già a diciassette anni possedeva un proprio studio a Venezia. Nel 1781 si stabilì a Roma e vi rimase fino alla morte nel 1822. «I suoi inizi risentono ancora della tradizione tardo-barocca - afferma Wittkower -, ed è divertente che uno dei suoi bozzetti per lungo tempo sia stato attribuito a Bernini. Ancor prima di stabilirsi a Roma, si convertì alla pratica del Neoclassicismo». Ed è il letterato e pittore tedesco Karl Ludwig Fernow a descriverci lo studio romano dello scultore, simile ai «laboratori degli antichi, ove vennero forgiate le immagini degli dei e degli eroi dei Greci». […]

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 8:59 pm | | Default

L'impronta forte di Matilde. Donna di potere e di fede, la "Gran Contessa" ha segnato la storia e il territorio di una larga parte dell'Italia, di Stefano Zuffi

Riprendiamo da Luoghi dell’Infinito un articolo scritto da Stefano Zuffi e pubblicato sul numero 238, aprile 2019, pp. 53-63. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Basso medioevo.

 Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

Castello di Bianello

[…]

La grande chiesa romanica [di Nonantola ora restaurata] era rimasta lesionata in seguito alle scosse sismiche che avevano colpito l'Emilia, e in particolare il territorio tra Modena e Bologna, nel maggio del 2012. L'abbazia era già stata colpita in passato da un sisma: sul portale centrale un’iscrizione ricorda il terremoto del 1117, che aveva fatto crollare le volte e la facciata. Durante gli oltre sei anni di chiusura della chiesa è rimasto in funzione l'adiacente e importante Museo Benedettino e Diocesano, che ha contribuito a mantenere vivo l’interesse intorno al monumento.

Fra gli oggetti carichi di storia che vi sono conservati, alcuni rimandano alla figura di Matilde di Canossa, straordinaria donna di potere nel Medioevo. Seguendo la vita della "Gran Contessa" è possibile disegnare un itinerario che si snoda dai castelli inerpicati sull'Appennino reggiano e raggiunge le potenti abbazie della pianura padana, fino al Po, al Mincio e a Mantova; ma volendo l’itinerario si dirama anche verso la Toscana, per arrivare ad alcune meravigliose pievi romaniche, e addirittura al litorale tirrenico, con il mastio quadrangolare (la cosiddetta "quadratura dei Pisani") intorno al quale è sorta la Fortezza Vecchia di Livorno. Alla volontà di Matilde di Canossa, e al desiderio di avere uno scalo portuale protetto, risale per tradizione la costruzione di una grande torre cilindrica.

Nonantola, il nostro punto di partenza, è un po' lo specchio, l'immagine architettonica della piena maturità di Matilde: forte, potente, colma di senso mistico, capace di reggere gli urti del destino, di dialogare da pari a pari con papi e imperatori.

Del complesso abbaziale resta sostanzialmente la sola grande chiesa, mentre degli altri edifici, a cominciare dal chiostro, si riconoscono solo poche tracce. Alcune parti sono state distrutte, altre inglobate in costruzioni destinate a nuovi usi: uno di questi corpi di fabbrica è la sede del museo.

Le tre absidi romaniche della chiesa si affacciano oggi su uno spazio verde tenuto a giardino, e si riesce a intuire come la struttura fosse un tempo circondata completamente da mura protettive. Durante il Medioevo, l'abbazia benedettina nella piana modenese è stata una delle più grandi e fiorenti dell'Italia settentrionale, con vastissimi possedimenti agricoli e un autentico potere non solo spirituale, ma anche economico e sociale. Favoriti dalla politica imperiale, gli abati di Nonantola gestivano territori vastissimi su cui lavoravano e vivevano migliaia di persone, e amministravano rendite colossali.

Il restauro dopo il terremoto ha restituito a piena godibilità la potente struttura in mattoni, nel 1121. Sulla facciata spicca il prestigioso portale romanico di Wiligelmo, autore anche dei celebri rilievi sulla facciata del duomo di Modena. Nella lunetta è raffigurato Dio Padre benedicente, affiancato da due angeli e dai simboli dei quattro evangelisti. Gli stipiti presentano da un lato episodi dell'infanzia di Cristo, dall'altro fatti storici relativi all'abbazia, a cominciare dalla fondazione in epoca longobarda, nell'anno 752. L'interno, a tre solenni navate, è scandito da pilastri: il presbiterio, cui si accede da una scalinata, sovrasta una bellissima cripta, di insolite, vaste dimensioni.

Nel museo si osservano documenti che recano le sigle degli imperatori Carlo Magno, Ottone I e Federico Barbarossa, insieme a quello che resta dei momenti di maggiore splendore dell’abbazia: preziosi oggetti liturgici, reliquiari, antichissimi paramenti sacerdotali di fattura bizantina, alcuni dipinti del XV e XVI secolo. Di eccezionale importanza e bellezza sono i codici miniati, fra cui l’Evangeliario di Matilde di Canossa, con dieci splendide miniature a piena pagina, conservato tuttora nella preziosa legatura originaria. Si tratta peraltro solo di una minima percentuale dei libri realizzati nello scriptorium dell'abbazia: in diverse biblioteche in Italia e in altre nazioni sono stati identificati oltre duecentocinquanta codici miniati prodotti a Nonantola.

Matilde di Canossa nasce nel 1046, probabilmente a Mantova, terzogenita di Bonifacio, marchese di Tuscia (di ascendenze longobarde), e di Beatrice, duchessa di Lotaringia. Da bambina cresce nel castello di Canossa, che per tutta la vita considererà la sua vera "casa". La sua prima infanzia va ambientata tra le alture dell'Appennino reggiano, spesso contrassegnate dai resti di antichi castelli. E se quello di Canossa è oggi ridotto a un rudere suggestivo, meglio conservato è quello vicino di Bianello, dove Matilde verrà incoronata viceregina d'Italia, e che conserva un affresco trecentesco in cui Matilde è raffigurata con il melagrano simbolo di potere e di saggezza. Vi si sale dal comune di Quattro Castella, un nome che ricorda come sulle quattro colline ai margini della pianura, sorgessero un tempo altrettanti fortilizi. Un territorio davvero inespugnabile, a dispetto dell'aspetto tranquillo e delle paciose tradizioni culinarie della zona.

Nata in una famiglia internazionale Matilde impara le lingue dei Franchi e dei Teutoni, e riceve una inconsueta formazione letteraria. Ma presto iniziano i drammi: prima il padre e poi i due fratelli muoiono tragicamente. La piccola Matilde, rimasta sola con la madre Beatrice si trova a essere erede di un immenso potere. È ancora alle soglie dell'adolescenza quando ha luogo il nuovo matrimonio della madre con il duca di Lotaringia Goffredo il Barbuto, fratello del papa in carica Stefano IX. Tra le clausole del contratto matrimoniale, che riunisce le terre italiane dei duchi di Canossa con quelle lorenesi, c'è la promessa delle nozze tra Matilde e il figlio di primo letto del patrigno, il ben poco avvenente Goffredo il Gobbo.

Gli sponsali vengono celebrati nel 1069, appena prima della morte del suocero, ma il matrimonio si rivela ben poco felice: alla fine del 1070 la ventiquattrenne Matilde dà alla luce una bambina, che però sopravvive solamente poche settimane. Per ricordare la sfortunata piccolina viene fondato il monastero di Frassinoro, sull’Appennino modenese, oggi molto modificato ma ancora visibile.

Matilde non ha altri figli: e la mancanza di un erede maschio crea un crescente attrito con Goffredo, tanto che Matilde decide di lasciare il marito e di tornare a Canossa, presso la madre. Del tutto inutili sono i tentativi di Goffredo il Gobbo di convincere Matilde a tornare in Lotaringia, in un'alternanza di promesse e di minacce che si concluderà solamente nel 1076 con la morte del duca, ucciso in un agguato ordito probabilmente dal conte delle Fiandre; ma circolò il sospetto che il sicario fosse stato armato dalla stessa Matilde.

Rimasta poco dopo orfana della madre, la trentenne Matilde si trova a governare un territorio di immense dimensioni, dalla Tuscia alle sponde del lago di Garda.

Nel pieno della lotta per le investiture, nonostante la stretta parentela con gli imperatori germanici, Matilde si schiera decisamente dalla parte dei papi. Nel gennaio del 1077 organizza a Canossa un incontro di riconciliazione tra l'imperatore Enrico IV di Sassonia e papa Gregario VII, il toscano Ildebrando di Soana.

La Gran Contessa, padrona di casa e regista dell’avvenimento, dimostra in questa occasione il suo spirito indomito. Colpito dalla scomunica, Enrico resta per tre giorni e tre notti fuori dal portone del castello, nella neve, con il capo cosparso di cenere: la scomunica papale viene revocata, ma l’imperatore non dimentica l’umiliazione, oltre a rendersi conto di persona del formidabile sistema difensivo costituito dai castelli di Matilde sulle erte montagne dell'Appennino reggiano. Ne resta un'eccellente dimostrazione nel bel castello di Carpineti, mentre in alcuni casi, come a Monteveglio, Matilde integra il sistema difensivo con la costruzione di deliziose chiese romaniche.

Come ulteriore segno di alleanza, Matilde consegna al pontefice il potere su tutti i suoi territori: Enrico IV reagisce con una spedizione militare, e sfida in campo aperto le milizie del papa e della Gran Contessa, che assiste alla grave sconfitta di Volta Mantovana (15 ottobre 1080) ma non si perde d'animo. Mentre le truppe papali si sbandano, e Gregorio VII fugge a Roma, asserragliandosi in Castel Sant'Angelo, Matilde invece riorganizza il suo esercito, cerca alleati fra le città, emiliane, sfida nuovamente l'imperatore sul campo di battaglia e lo sconfigge a Sorbara (2 luglio 1084).

La combattiva Matilde resta comunque una donna di forte devozione. Continua la sua opera di fondazione di nuove chiese, spesso identificate con esplicite iscrizioni. La si può senz’altro considerare tra i principali committenti di architettura romanica, tra Lombardia, Emilia e Toscana. Oltre a dare un contributo fondamentale alla realizzazione della stupenda cattedrale di Modena, Matilde sostiene economicamente la costruzione dell'affascinante Rotonda di San Lorenzo a Mantova, intatto gioiello architettonico a pianta centrale, realizzato in modo da evocare il Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Nella zona dei prediletti castelli dell'Appennino reggiano, fra i boschi di castagni, Matilde fonda la pieve di Marola: i restauri hanno ricomposto l'aspetto romanico della chiesa, mentre l'edificio abbaziale ha conosciuto varie ricostruzioni ed è stato anche utilizzato come seminario.

Tra le pievi matildiche della Toscana, costruite a cavallo tra XI e XII secolo, va citata prima di tutto quella di Romena, sulla strada verso Poppi, nel Casentino. Dedicata a san Pietro e costruita come vuole un'iscrizione "al tempo delle pesti", è una toccante chiesa romanica, oggi nota anche come centro di un attivo movimento ecclesiale chiamato appunto "Fraternità di Romena". La facciata e la parte anteriore della navata sono crollate nel XVII secolo in seguito a una frana, ma il resto è perfettamente intatto. Una bellezza solida e insieme di inaspettata grazia. L’abside tondeggiante domina un vasto panorama, mentre all'interno gli spazi sono scanditi dalle colonne con un ritmo nobile, degno dell'architettura classica: su uno dei capitelli si legge la data 1152.

Sempre a san Pietro è dedicata la pieve di Gropina, un minuscolo centro del Pratomagno, il massiccio che divide il Casentino dal Valdarno. A Gropina si incontra un’arte inaspettatamente rustica, divertente, bizzarra e popolare, diversa rispetto al tono solenne prediletto da Matilde. La chiesa romanica è infatti importante per le sculture che rivestono i capitelli e l’ambone, con figure di animali fantastici e domestici, che trasmettono un’ancestrale, irresistibile espressività.

Un altro edificio matildico in Toscana custodisce un tesoro prezioso. La pieve San Giovenale si trova ai margini del Valdarno, nel comune di Reggello, frazione di Cascia. E un bell'edificio romanico largo e solido, che trasmette una tranquilla serenità, e possiede la prima manifestazione di un genio: il trittico dipinto da Masaccio ancora poco più che adolescente, intorno al 1421. È un dipinto a fondo oro, ancora immerso nella tradizione pittorica tardogotica, ma in cui il giovanissimo pittore ha saputo trasmettere i primi segni di un talento irrequieto, come si nota soprattutto nella tavola centrale, con il Bambino che si ficca due dita in bocca, la Madonna albina che guarda lontano, e i due angeli di spalle, inginocchiati a ridosso di un trono scorciato in prospettiva con audacia nuova.

Nel 1085 la morte di papa Gregorio VII (sconfitto ed esiliato) priva Matilde di un indispensabile alleato, oltre a lasciare vacante per tre anni la sede pontificia fino all’elezione di Urbano II. Con una decisione davvero sorprendente l’ormai matura Matilde, a quarantatré anni, spedisce una proposta di matrimonio al diciassettenne Guelfo, erede del ducato di Baviera.

Attratto dalla potenza della donna, dai principeschi doni nuziali, dallo sfavillante corteo di cavalieri che gli galoppa incontro ai margini della pianura padana, l'adolescente e smarrito Guelfo arriva a Canossa. Narrano le cronache che lo sposo non riuscì ad adempiere ai doveri coniugali: era chiaramente un matrimonio di puro interesse, un'alleanza politica in chiave anti-imperiale, e Matilde, con le sue ottime conoscenze nella curia papale, non ebbe difficoltà a farlo annullare.

Arriviamo al 1090, e all'ennesimo tentativo di Enrico IV di conquistare l'Italia: ancora una volta Matilde deve scendere sul campo di battaglia. Grazie alla forza dell'esercito e a promesse economiche Enrico riesce a conquistare la città natale della rivale, Mantova.

Matilde si rifugia a Canossa e organizza la resistenza, fidando sull'inaccessibile sistema di fortificazioni nelle valli dell'Enza e del Secchia, intorno alla rocca di Carpineti, i cui ruderi sono ancora carichi di severa imponenza.

Per la sua eccellente posizione strategica, la rocca era una delle residenze predilette da Matilde che dalle sue mura emanò alcuni dei più importanti provvedimenti, e che qui ospitò il papa Gregorio VII e un intero sinodo dei vescovi della zona. L’imperatore germanico cade nella rete: penetrate nella vallata, le truppe imperiali rimangono chiuse in una sanguinosa morsa, continuamente attaccate da veloci sortite perfettamente orchestrate.

Enrico IV deve ritirarsi per l'ultima volta: per Matilde è una vittoria totale. Le città la acclamano, e si raccolgono in una alleanza anti-imperiale che nel tempo diventerà la Lega Lombarda. Subentrato al padre, nel 1111 il nuovo imperatore Enrico V sale al castello di Bianello per insignire l'arcirivale Matilde del titolo di "Viceregina d'Italia" e di vicaria imperiale.

Ma la Gran Contessa ha ormai poco tempo per godere del trionfo. Ammalata di gotta, muore nel 1115 nel feudo fortificato di Bondeno, vicino a Reggiolo. La sua salma viene inumata nell'abbazia benedettina del Polirone, a San Benedetto Po.

Era come tornare in famiglia. L'abbazia era stata fondata da Tedaldo di Canossa, nonno di Matilde, e grazie alle donazioni di Bonifacio (padre della Gran Contessa) era diventata una delle più significative proprietarie terriere dell'Italia settentrionale. Il poderoso complesso è oggi un monumento spettacolare, grazie soprattutto alla ricostruzione cinquecentesca effettuata da Giulio Romano per i Gonzaga: la chiesa, cui si accede da una piazza che pare una balconata animata dalle statue, è un perfetto esempio di basilica cinquecentesca, di architettura aulica e con un raffinato rivestimento di stucchi e affreschi in cui la matrice raffaellesca declina verso il manierismo padano.

Nel refettorio, poi, è stato individuato dai restauri un precocissimo intervento di un pittore esordiente: Antonio Allegri, detto il Correggio. Ma nel cuore del grande organismo rinascimentale sopravvivono ancora parti del tempo di Matilde, come la cappella di Santa Maria, con il prezioso pavimento a mosaico in cui le figure allegoriche delle Virtù si alternano con un bestiario di animali fantastici.

La tomba della Gran Contessa nell'abbazia del Polirone è però vuota. In pieno Seicento, papa Urbano VIII Barberini fece traslare le spoglie a Roma, e affidò al suo scultore preferito, Gian Lorenzo Bernini, l'esecuzione di un sepolcro marmoreo nella basilica di San Pietro. Realizzato nel 1645 (per la verità con il coinvolgimento della bottega di Bernini), il monumento celebra Matilde di Canossa come «onore e gloria d'Italia», «di animo virile e di sentimento femmineo».

Nella destra impugna il bastone di comando, come un condottiero in battaglia, mentre con l'altra mano abbraccia le chiavi e il triregno, simbolo del papato, sempre da lei difeso.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 8:56 pm | | Default

Edith Stein, pietra d'inciampo per ebrei e cristiani. Robiati Bendaud torna criticamente sulla figura della santa per indagare il significato della sua conversione per il popolo eletto e per il dialogo interreligioso, di Roberto Righetto

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Roberto Righetto, pubblicato il 3/3/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Voci dalla Shoah e Gli anni della seconda guerra mondiale. Cfr. in particolare,

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)

Reliquia dell'abito di Edith Stein

Cristianizzare Auschwitz? Operazione ardua e forse neanche auspicabile. Si può parlare invece di una lezione della Shoah per le Chiese europee e per quella cattolica in particolare? Certamente sì.

Tre sono le possibili risposte a queste domande. Innanzitutto la presa di coscienza della responsabilità enorme dei cristiani per l’avvento del nazismo e per la persecuzione degli ebrei. Se dopo quasi duemila anni di cristianesimo hanno potuto manifestarsi un’ideologia e un regime così violentemente razzisti, un mea culpa è doveroso e riguarda l’antigiudaismo e l’antisemitismo dei secoli passati, che oggi si ripresentano.

La seconda via è quella del silenzio. Visitando il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, nel 2006, Benedetto XVI disse: «Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dov’era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questi eccessi di distruzione, questo trionfo del male?». Il crollo della teodicea ha fatto discutere i teologi e i filosofi contemporanei. E queste domande angoscianti sul silenzio di Dio impedirebbero ogni spazio non solo alla filosofia ma anche alla teologia.

Ma pure il volto di Dio che si fa compagno dell’uomo e che non è insensibile alla sua sofferenza è stato indagato dal pensiero del ‘900 (si pensi in particolare al filosofo ebreo Emmanuel Lévinas o al teologo protestante Jürgen Moltmann, che hanno postulato il concetto di “sofferenza di Dio” e di “debolezza di Dio”). Simone Weil ed Etty Hillesum al riguardo furono capaci di esprimere una grande visione: immerse fino in fondo in un oceano di male e di dolore, seppero non annegare, anzi presero su di sé la sofferenza di tutto un popolo senza al tempo stesso intentare un processo a Dio. Addirittura giungendo a rielaborarne il volto: mentre il male trionfa e dimostra la faccia più terribile, Dio ha bisogno di aiuto.

Annota Etty nel suo famosissimo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». E Simone da parte sua, a proposito della presunta assenza di Dio rispetto alle vicende umane, scrive: «Creando il mondo, Dio volontariamente si è messo come da parte (non è forse l’amore di sua natura discreto e umile?) per non togliere spazio al libero gioco delle sue creature. Dio, perciò, non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».

Ma per i cristiani c’è una terza possibilità in questo discorso che si fa non solo arduo ma temerario: papa Francesco più volte l’ha affrontato. Come nel marzo 2015 a Napoli, rispondendo a una giovane a proposito del dolore innocente: «Il nostro Dio è anche il Dio dei silenzi e ci sono silenzi di Dio che non si possono spiegare se non guardi il Crocifisso. Il nostro Dio sta anche in silenzio. Ricordati: è il Dio delle parole, il Dio dei gesti e il Dio dei silenzi».

Un accento che a suo modo si ritrova nel romanzo La notte di Elie Wiesel, in cui un kapò nazista fa impiccare a un albero un bambino costringendo i detenuti del lager ad assistere. Un prigioniero esclama: «Dov’è il buon Dio?». E lo scrittore risponde a voce bassa: «Eccolo lì, appeso a quella forca». La forca e la croce, il silenzio e il mistero.

Tutti ricordano l’ultimo messaggio della Hillesum: «Abbiamo lasciato il campo cantando», scritto su un biglietto gettato dal treno che la portava al lager dove avrebbe trovato la morte.

Dal campo di smistamento di Westerbork, “l’ultima fermata prima di Auschwitz”, passò anche Edith Stein. Sulla sua figura ha scritto ora un saggio illuminante e conturbante al contempo (Edith Stein. Storia di un’ebrea, San Paolo) Vittorio Robiati Bendaud, saggista ebreo allievo di Giuseppe Laras, che vuole interrogarsi sul significato della sua conversione per ebrei e cristiani. Perché a parere dell’autore Edith Stein e diversi altri intellettuali ebrei assimilati alla cultura europea, e tedesca in particolare, si trovarono a un clima favorevole alla loro apostasia: da Roth a Bergson, da Scheler a Rosenzweig – l’unico che sulla soglia del cristianesimo preferì infine tornare alla religione degli avi – tutti si sentivano più europei che ebrei e perciò inclini a fare il passo della conversione.

Ma quello di Stein fu un salto più che un passo, dato che non solo si fece cattolica ma anche carmelitana. Uno schiaffo per la sua famiglia e per la madre Auguste in particolare, a cui lei si sentì comunque sempre legatissima senza negare nulla delle sue origini, ma partecipando appieno alle vicissitudini del suo popolo.

Come dimostra la lettera accorata che scrisse nel 1933 a Pio XII, in cui sollecitò con forza il pontefice a prendere posizione in difesa degli ebrei dinanzi alla persecuzione sempre più evidente. Robiati Bendaud rilegge la vicenda della Stein attraverso la sua autobiografia (Dalla vita di una famiglia ebrea) e la visuale della nipote Susanna, figlia di Erna, una delle sorelle di Edith (Zia Edith. Eredità ebraica di una santa cattolica): due libri che a loro modo si completano, con giudizi diversi e a volte contrastanti sui vari personaggi della famiglia Stein. Entrambi i volumi sono stati pubblicati da Ocd, le edizioni dei carmelitani scalzi.

Edith era stata spinta dalla mancanza di atmosfera religiosa che c’era nella sua famiglia, o da pulsioni verso l’ateismo? Forse entrambe le cose. Ma il processo che la portò alla conversione non avvenne per acquiescenza al mondo intellettuale in cui operava.

Quando rese noto il suo desiderio di farsi cattolica, il gruppo filosofico riunito attorno a Husserl manifestò la propria delusione: a quel tempo fra gli studiosi e gli accademici prevaleva la fede luterana e la cultura cattolica era vista negativamente.

A dire il vero, la futura carmelitana si stava già allontanando dal maestro, che le aveva preferito l’altro allievo Heidegger, salvo poi pentirsene più avanti.

C’era nel creatore del metodo fenomenologico innanzitutto un pregiudizio maschilista ma senza dubbio anche un sentimento anticattolico, radicato nella Germania del tempo.

Dunque la conversione della Stein è assolutamente sincera, sia che la causa occasionale sia stata la lettura di Teresa d'Avila che l’aver seguito in chiesa una donna con le borse della spesa e averla vista pregare intensamente.

Quello di Robiati Bendaud è un salutare pugno in faccia per i cattolici. Non gli va l’ipotesi di cristianizzare Auschwitz, ed è comprensibile e condivisibile. Animatore del dialogo fra ebrei e cristiani, sostenitore dell’unicità della Shoah rispetto alle altre forme di persecuzioni di ieri e di oggi – anche chi scrive la pensa così – si è speso più volte per ricordare il genocidio degli armeni scrivendone assieme ad Antonia Arslan,

Certo ai cristiani di fronte alla Shoah, oltre che tacere e non dare adito in nessun modo all’antisemitismo, spetta il compito di capire. Resta la scelta di Edith, vera pietra d’inciampo per il mondo ebraico ieri come oggi. La sua conversione è destinata a far sempre discutere ebrei e cattolici e per questo motivo la sua figura, come dice Robiati Bendaud e come mostra di condividere Cristiana Dobner nella postfazione, ben difficilmente può costituire un modello per il dialogo ebraico-cristiano.

Ma resta la grandezza della sua figura, come filosofa e come testimone, come santa e come martire, morta ad Auschwitz il 9 agosto 1942 con la sorella Rosa anch’essa fattasi cattolica e monaca, alla quale disse nel convento olandese di Echt prima di essere arrestata dalla Gestapo: «Vieni, andiamo per il nostro popolo». Esempio supremo di quell’empatia che eresse a simbolo del suo pensiero.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Marzo 2023 - 8:54 pm | | Default

Ritiro degli universitari di Roma per la Quaresima 2023

Ritiro degli universitari di Roma per la Quaresima 2023

File audio del ritiro 

Le tentazioni e la Quaresima (don Alberto Ravagnani ritiro universitari Roma 2023)

Invocazione allo Spirito Santo

Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.

Vieni, padre dei poveri,
vieni; datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.

Consolatore perfetto,
ospite dolce dell'anima,
dolcissimo sollievo.

Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.

O luce beatissima,
invadi nell'intimo
il cuore dei tuoi fedeli.

Senza la tua forza,
nulla è nell'uomo,
nulla senza colpa.

Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
Drizza ciò ch'è sviato.

Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.

Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna. Amen.

Dal Vangelo secondo Matteo 4,1-11

1In quel tempo Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
ed essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti:
Il Signore, Dio tuo, adorerai:
a lui solo renderai culto».
11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Prossimi appuntamenti

- Edith Stein. «Che senso può avere la chiamata a una vita che viene dal nulla e va verso il nulla?».
Santa Maria della Vittoria, giovedì 20 aprile, ore 19.45, con Andrea Lonardo e la prof.ssa Angela Ales Bello (Ascoltando i maestri)

- L’Apocalisse
Santa Prassede, sabato 13 maggio, ore 10.15, con Andrea Lonardo e il prof. Gaetano Lettieri (Ascoltando i maestri)

- Pellegrinaggio a piedi dalla basilica di San Paolo fuori le Mura alle catacombe di San Callisto.
Sabato 6 maggio, partenza alle ore 10.00 dalla cappellania di Roma Tre, dinanzi alla basilica, termine all’ora di pranzo, con pranzo al sacco

- Campo degli universitari.
Roma, Assisi, Loreto, parco nazionale della Maiella, Roma (25-28 luglio o 27-30 luglio)

- Cresime degli universitari, 20 maggio

Redazione de Gliscritti | Giovedì 23 Marzo 2023 - 4:56 pm | | Default

Harry Potter e l’educazione alla vita buona. 6 post di Andrea Lonardo con una settima appendice

I brevi testi di Andrea Lonardo che seguono non hanno la pretesa di analizzare la saga di Harry Potter – rimandiamo per questo ad approfondimenti più generali fra i quali segnaliamo anche Cosa ho capito grazie a Harry, di Alessandro D’Avenia e Viva Harry Potter, abbasso la Rowling, di Massimo Introvigne. I post che pubblichiamo vogliono semplicemente sottolineare alcune questioni che emergono dalla saga e che illuminano la questione educativa che viene oggi dibattuta. Vedi anche Harry Potter e la confermazione. Ancora un post su Harry Potter, di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2011)

Video. Andrea Lonardo spiega Harry Potter a King's Cross Station (video da Youtube, Canale Gli scritti)

1/ Il male negato in Harry Potter, nella questione educativa e nella catechesi

È straordinario in Harry Potter e l'ordine della fenice (Harry Potter all'età di 15 anni) come sia centrale il fatto che è pericoloso nascondere il male. Il ministro della magia non vuole misurarsi con il male e, nonostante l'evidenza, nega che l'oscuro signore sia tornato, nega che ci sia qualcuno che vuole condurre il mondo alla morte.

Invia pertanto un insegnante che pian piano assumerà il controllo totale sulla scuola, trasformando l'insegnamento in qualcosa di totalmente astratto, proprio perché avulso dalla realtà, dove invece il male esiste e bisogna prepararsi ad affrontarlo.Harry Potter ed i suoi amici decideranno di prepararsi in segreto ad affrontare il male.

È sicuramente uno degli aspetti nei quali la saga di Harry Potter rispecchia realmente la crisi educativa in cui ci troviamo – ed anche la crisi della catechesi. Genitori ed educatori pretendono, talvolta, che il tema del male sia bandito, perché pensano che impaurisca le giovani generazioni. È vero che la paura del giovane deve essere vinta, ma non può essere vinta fingendo che il male non esiste.

Anche nella catechesi il tema del male (e del peccato) è poco frequentato e l’antico insegnamento della vita cristiana come lotta è spesso assente. Nelle discussioni fra catecheti il “combattimento” emerge soprattutto come contrapposizione di diverse posizioni pastorali – e lì si pretende di individuare una netta contrapposizione fra bene e male, fra buoni e cattivi – mentre toni forti analoghi non vengono utilizzati nei confronti di nessun’altra questione. Raramente emerge, ad esempio, la questione del peccato del mondo che si oppone al Cristo – e non solo del peccato dei cristiani – e del peccato che ognuno porta nel cuore. Pressoché assente è la riproposizione del messaggio biblico, quando afferma che il peccato conduce alla morte

La prospettiva delle due vie, quella della vita e quella della morte, presente dal Deuteronomio al vangelo della casa sulla roccia, dall’annuncio dei “beati” alla messa in guardia dei “guai” corrispettivi, dai frutti dello Spirito all’opera della carne, fino al conflitto con il mondo nel quarto evangelo per non parlare del giudizio finale con la sua dichiarazione di un pianto e di uno stridore di denti, sembra caduta in disuso.

Eppure tali testi non hanno un intento moralistico. Non vogliono accusare una parte del mondo di essere cattiva. Vogliono piuttosto affermare che esiste una via che porta alla morte. E lo si dice proprio perché non si ritiene l'altro semplicemente cattivo. Piuttosto, amandolo, lo si vuole illuminare.

L'ideologia del “politicamente corretto” impone, invece, che si crei un contrasto ombra/luce solo fra modi di vivere nella chiesa, mai fra lo spirito del vangelo e lo spirito del mondo.

In Harry Potter, invece, il tema del bene che si deve misurare con il male è centrale. Seguire un ragazzo che passa dagli 11 ai 17 anni – questo è lo sviluppo di Harry Potter – vuol dire affrontare insieme a lui la sfida del male, chiamando il male per nome. E smettendo di fingere che non esiste.

2/ I nostri ragazzi hanno letto migliaia di pagine nei sette volumi di Harry Potter: possiamo trattarli ancora da analfabeti?

Parlo con una ragazza di III media. Mi dice che ha letto tutto Harry Potter in I media. Ha iniziato e non si è fermata finché non ha letto tutti i volumi. Migliaia di pagine! In I media!

Un’altra mi dice, addirittura, che lo ha letto tutto in IV elementare! Certo non tutti i bambini ed i ragazzi leggono come questi due casi. Ma i più svegli sì! In IV elementare!

E talvolta vengono trattati nella catechesi come se fossero dei bambini, con disegni da colorare e con storielline su Gesù. Questi ragazzi leggono, pensano, riflettono, invece! La catechesi deve rispondere ai più svegli di loro e solo così appassionerà anche gli altri.

Il parroco della ragazza in questione mi dice: «È fondamentale non essere infantili con i bambini ed i ragazzi. Io preferisco che non capiscano qualcosa, ma che sentano che io dico cose grandi e importanti. Talvolta glielo dico esplicitamente: “Queste cose adesso non le potete capire, le capirete quando sarete grandi”. Guai se dovesse giungere loro il messaggio che il cristianesimo è una cosa da bambini».

3/ Ancora su Harry Potter: il contesto della presentazione degli affetti

Merita soffermarsi sul fatto che le relazioni affettive fra ragazzi e ragazze in Harry Potter sono presenti e significative – a partire dal quarto volume in poi – ma sempre all'interno di un contesto che le relativizza. I protagonisti, pur soffrendo e gioendo della dimensione affettiva che matura in loro, non ne sono presi come se fosse l'unicum. Al centro c'è piuttosto la lotta tra il bene ed il male, alla quale tutti sentono di dover dare il loro precipuo contributo.

In una scena straordinaria della versione cinematografica Harry Potter e Ginny stanno per baciarsi. Ma non c’è tempo... improvvisamente la battaglia divampa e si deve lasciare tutto, anche quel bacio non dato, per combattere. Bisogna prima affrontare il male e sconfiggerlo, bisogna prima combattere per salvare la vita di Hogwarts e dei suoi studenti.

Questo situare la dimensione affettiva in un contesto più ampio merita un plauso, perché tale è la situazione reale dei nostri ragazzi. Tale è nella loro stessa auto-considerazione se non vengono spenti in maniera ideologica i loro interessi e le loro passioni vitali.

Questa gerarchia in Harry Potter, per la quale l’innamorarsi non ha il posto supremo, affascina e convince.

Qui il video dell'attacco alla Tana dei Mangiamorte con Harry Potter e Ginny che stanno per baciarsi

4/ Ancora su Harry Potter: il male non ama

I seguaci di Voldemort litigano fra di loro addirittura per decidere chi deve uccidere Harry Potter. L’assenza di amore e di amicizia fra di loro è assoluta. Non sembra un espediente letterario per tagliare con l’accetta il bene e il male. È piuttosto un modo estremamente realistico per mostrare che il male è assenza di amore, assenza di bene.

Harry ed i suoi commettono errori ed anche possono offendersi a vicenda, ma sono alla ricerca dell’amicizia e provano amore e gioia. Non così nel campo del male, dove l’amicizia è bandita e la gioia non ha spazio.

5/ Citazioni bibliche in Harry Potter

Almeno tre volte è citata la Scrittura nell’ultimo volume della saga, Harry Potter e i doni della morte.

Nel cimitero di Godric’s Hollow Harry trova scritto prima: «Dove si trova il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore» (Harry Potter e i doni della morte, p. 301). La citazione è da Mt 6,21.

Poi, sulla tomba dei genitori trova scritto «L’ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte» (Harry Potter e i doni della morte, p. 304). La citazione è da 1 Cor 15,26.

La terza citazione è più evocativa. Nell’ultimo dialogo prima del duello finale, fra Harry e Voldemort, quest’ultimo ricorda che Silente sosteneva che «l’amore vince la morte» (espressione proverbiale nei maestri spirituali cristiani, costruita a partire da «Chi non ama rimane nella morte», 1 Gv 3,14,  e «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede»,1 Gv 5,4).

Interessante è che non sia sufficiente l’amore - di cui Harry Potter è circondato e che porta nel cuore fino a sacrificarsi - per poter vincere Voldemort. Bisogna anche avere «un’arma più potente» di quella di Voldemort (cfr. Harry Potter e i doni della morte, p. 679).

Non basta l’amore, serve la potenza! Un cristiano direbbe: serve che l’amore sia quello dell’Onnipotente!

La citazione iniziale di Harry Potter e i doni della morte, p. 9, tratta dalle Coefore di Eschilo, pur nella sua ambiguità, sembra andare nella stessa direzione:

Oh, le pene della stirpe,
l'urlo orrendo della morte
e il colpo che vibra profondo,
la ferita inguaribile, il dolore,
la maledizione che nessuno può sopportare.

Ma c'è una medicina nella casa,
no, non là fuori, no,
non giunge da estranei ma da loro,
è la loro lotta di sangue. Noi vi preghiamo,
oscuri dei del sottosuolo.

Udite, dei della terra profonda,
rispondete al richiamo, dateci il vostro aiuto.
E benedite i figli, che ottengano la vittoria.

La medicina è certamente nella casa, è nella lotta di sangue dei giovani che affrontano il male, ma è al contempo al di fuori della casa. Senza l’aiuto degli dei, nessuna vittoria è possibile. Senza la grazia, la guerra sarebbe persa. 

6/ 19 anni dopo...

Il finale di Harry Potter sorprende. Come ogni vero finale. 19 anni dopo Harry Potter e Ginny sono diventati marito e moglie. E padre e madre di una discendenza. Essi hanno scelto di generare così come sono stati generati. E accompagnano al treno per Hogwarts una nuova generazione di figli. La vita continua a scorrere perché chi è stato figlio accetta di divenire padre e chi è stato allievo accetta di divenire educatore.

La catechesi ha bisogno di questa prospettiva. Ne ha bisogno non solo quando parla agli adulti, ma anche quando si rivolge ai bambini. Si parla ad un bambino, indicandogli che un giorno sarà anche lui padre. Solo così si trafigge il suo cuore.

Un bambino non si innamora della lotta per la vita attraverso dei giochini. Si innamora perché intravede una meta alta.

Appendice (o settimo post): Harry Potter e la confermazione 

«Ci sei quasi» disse James. «Sei molto vicino. Noi siamo... fieri di te»[1].

È un dialogo semplice quello fra Harry Potter e le figure dei suoi genitori che improvvisamente appaiono prima che egli venga “ucciso”.

Essi vengono a “confermarlo”. A “confermarlo” non in una banale approvazione buonista, bensì a sostenerlo perché è il momento che egli doni se stesso fino a morire.

Di questa conferma hanno bisogno i nostri ragazzi. Che valga la pena donarsi fino a morire. Che ci sia qualcosa per cui vale la pena vivere e morire. E che i grandi credano in questo, perché anche i loro figli intraprendano la stessa strada.

La madre Lily dice ad Harry: «Sei stato coraggioso», invitandolo implicitamente a proseguire, mentre giunge l'ora decisiva. Ed alla domanda di Harry «Resterete con me?» il padre risponde «Fino alla fine».

L'educazione, anche quella di impostazione cristiana, sembra tutta sbilanciata ad interrogare i ragazzi, chiedendo loro se vogliono confermare i valori ricevuti da ragazzi. Ad esempio, nel cammino della Cresima, l'atteggiamento abituale dei catechisti sembra essere quello di domandare se i giovani vogliono oggi dare il loro assenso ad una lontana promessa fatta dai genitori.

Tutt'altro potrebbe – e, crediamo, dovrebbe – essere un vero atteggiamento educativo. Gli adulti dovrebbero, loro per primi, ora che il gioco diviene difficile e non più scontato, rinnovare la loro promessa ed assicurare che ne vale la pena. Essi per primi dovrebbero trovare le parole ed i gesti per confermare i ragazzi che quella è la via della vita, anche se si tratta di morire.

Solo in seconda battuta sarebbe poi la volta dei ragazzi di dire il loro assenso. Il loro assenso non ad un'antica promessa fatta nel lontano Battesimo, bensì all'assicurazione appena confermatagli dai grandi che li amano.

Harry Potter dice infine alla madre «Stammi vicino». E la Rowling prosegue poi raccontando l'azione del ragazzo: «E si avviò».

Certo il testo della saga di Harry Potter non ha un intento sacramentale, ma suggerisce qualcosa ad una società ed ad una chiesa che vuole parlare di fortezza e di confermazione alle nuove generazioni.

Note al testo

[1] J.K. Rowling, Harry Potter e i doni della morte, Salani, Milano, 2008, pp. 642-643. Anche le citazioni successive fanno riferimento alle stesse pagine.

Redazione de Gliscritti | Mercoledì 22 Marzo 2023 - 12:30 pm | | Default

Due straordinarie iconografe ucraine, Ivanka Demchuk e Lyuba Yatskiv. Riproporre la tradizione delle icone in linguaggio moderno. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo sulle iconografe ucraine Ivanka Demchuk e Lyuba Yatskiv con i link alle gallery per poter vedere le loro icone e i loro affreschi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Chiese ortodosse.

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

Dinanzi al dramma della guerra vale la pena anche considerare la ricchezza di un popolo e conoscerlo. Due iconografe di quella terra, Ivanka Demchuk e Lyuba Yatskiv, sempre attingendo alla tradizione orientale, stanno dipingendo reinterpretandolo in linguaggio moderno e il loro lavoro merita attenzione per la bellezza delle loro opere.

1/ Ivanka Demchuk

Ivanka Demchuk è nata nel 1990 a Leopoli in Ucraina, si è laureata presso il Lviv State College of Decorative and Applied Arts intitolato a I. Trusha, Dipartimento di pittura nel 2008, poi al corso di laurea presso l'Accademia nazionale delle arti di Lviv, Dipartimento di arte sacra, nel 2012, completando nel 2014 il master presso la stessa Accademia Nazionale delle Arti di Lviv.

Sue opere sono riprodotte in fotografia on-line sul suo sito (https://www.ivankademchuk.com/), al link https://www.ivankademchuk.com/ivankademchukportfolio

Ivanka Demchuk, Vita nascosta di Gesù a Nazaret
Ivanka Demchuk, Cristo appare alle donne
Ivanka Demchuk, I discepoli di Emmaus
Ivanka Demchuk, Storie di San Nicola
Ivanka Demchuk, Gesù dinanzi a Pilato

2/ Lyuba Yatskiv

Lyuba Yatskiv è nata nel 1977 a Lviv, in Ucraina, si è laureata presso il Lviv State College of Decorative and Applied Arts intitolato a I. Trusha, Dipartimento di pittura nel 1996, poi al corso di laurea presso l'Accademia nazionale delle arti di Lviv, Dipartimento di arte sacra, nel 2002 dove ha poi iniziato ad insegnare.

Sue opere sono riprodotte in fotografia on-line sul suo sito (https://iconart-gallery.com/en/artists/lyuba-yatskiv/), al link https://iconart-gallery.com/en/catalogue/#!/Lyuba-Yatskiv/c/59971450

Lyuba Yatskiv, Natività
Lyuba Yatskiv, Adorazione dei Magi
Lyuba Yatskiv, Mosè conduce il popolo
Lyuba Yatskiv, Giona nella balena
Lyuba Yatskiv, Ultima cena
Lyuba Yatskiv, I giorni della creazione

Redazione de Gliscritti | Lunedì 13 Marzo 2023 - 12:43 am | | Default

«Osservai più volte con incredibile godimento dell’animo (incredibili animi iocunditate) le Stelle». Dello stupore di Galileo Galilei, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo, ispirata alla lettera da due post di Giovanni Lonardo su FB. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Scienza e fede e Filosofia: il Seicento.

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

Nella notte fra il 7 e l'8 di gennaio del 1610 Galileo punta il suo nuovo perspicillo verso Giove, e vede per la prima volta nella nostra storia tre delle sue Lune, anche se all'inizio le scambia per Stelle Fisse, e poi nelle notti successive ne vede una quarta, vede che le tre che aveva già visto cambiano di posizione rispetto a Giove, capisce cosa sta vedendo, e pochi mesi dopo, nel Sidereus Nuncius, lo scrive al Mondo Intero, insieme alle sue prime scoperte.

Nelle sue parole è evidente lo stupore che dà piacere che lo colse, per la novità e la bellezza di ciò che vedeva incredibili animi iocunditate, con un incredibile godimento dell’anima:

«Ma io, lasciando le cose terrene, mi rivolsi alla speculazione delle celesti; e prima mirai la Luna così da vicino, come se fosse distante appena due semidiametri terrestri. Dopo questa, osservai più volte con incredibile godimento dell’animo (incredibili animi iocunditate) le Stelle, tanto fisse che erranti; e vedendole tanto fitte, cominciai a pensare sul modo con cui potessi misurare le loro distanze; e finalmente lo trovai».

Lo stupore e la gioia della scoperta è il tratto che congiunge tutte le affermazioni del Sidereus Nuncius, come è evidente dalle espressioni galileiane sulla scoperta che le galassie sono “greggi di stelle”:

«Quel che fu da noi in terzo luogo osservato, è l’essenza, ossia la materia, della stessa Via Lattea, che in virtù del cannocchiale è dato scrutare tanto sensibilmente, da esserne risolte, con la certezza che è data dagli occhi, tutte le dispute che per tanti secoli tormentarono i filosofi, e noi liberati da verbose discussioni.

È infatti la galassia nient’altro che una congerie di innumerevoli Stelle, disseminate a mucchi; ché in qualunque regione di essa si diriga il cannocchiale, subito una ingente folla di Stelle si presenta alla vista, delle quali parecchie si vedono abbastanza grandi e molto distinte; ma la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile.

Ma poiché non soltanto nella galassia si nota quel candore latteo come di nube albeggiante, bensì numerose areole di colore consimile splendono qua e là per l’etere di tenue luce, se in una qualsiasi di esse si rivolga il cannocchiale, c’imbatteremo in un fitto ammasso di Stelle.

Inoltre (meraviglia ancor più grande) le Stelle chiamate fino ad oggi dai singoli astronomi nebulose, sono greggi di piccole Stelle disseminate in modo mirabile; e mentre ciascuna di esse, per la sua esilità, ossia per la grandissima lontananza da noi, sfugge alla nostra vista, dall’intreccio dei loro raggi si genera quel candore, che è stato creduto finora essere una parte più densa del cielo, capace di riflettere i raggi delle Stelle o del Sole».

Redazione de Gliscritti | Lunedì 13 Marzo 2023 - 12:34 am | | Default

Breve nota satirica sul matrimonio dei preti promosso dall’intellighenzia, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota satirica di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Ecclesiologia e Cristianesimo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

1/

Quando ero giovane, in Gregoriana, circolava questa battuta:

«Oggi nessuno vuole più sposarsi, tranne i preti, nessuno vuole più farsi prete tranne le donne, nessuno vuole più andare a messa e ricevere la comunione tranne i divorziati risposati».

La triplice espressione metteva il dito nella piaga: erano pochi quelli che volevano sposarsi, pochi i seminaristi, pochi i praticanti.

2/

Oggi il clima è profondamente cambiato.

È tutta l’intellighenzia del paese, anzi dell’Europa tutta, che scommette così tanto sulla bellezza del matrimonio che le sembra inconcepibile che un uomo viva senza sposarsi e senza avere figli.

È così forte la certezza della necessità del matrimonio e della paternità che si chiede che questa gioia che appare sconfinata per la cultura contemporanea possa valere anche per chi è prete. Per l’intellighenzia un giovane che non si sposasse avrebbe fallito la propria esistenza.

Prova ne è proprio la forza con cui si chiede ai poveri preti celibi di avere a tutti i costi una compagna.

3/

Analogo è il caso del sacerdozio. La stima per il sacerdozio è così cresciuta nell’intellighenzia che scrive sui quotidiani nazionali che un dono così grande, ormai pienamente esaltato anche dai principali pubblicisti, non può essere precluso alle donne. Tutto il mondo laico ama il sacerdozio in maniera così spassionata e ne comprende la necessità per la Repubblica Italiana, in ogni città e paese, in ogni luogo pubblico e non solo privato, che sembrerebbe triste negarlo a qualcuno, come un diamante che dovesse illuminare le dita di ognuno.

Finalmente il sacerdozio è amato e stimato al di sopra di ogni cosa. Tutti se ne occupano e ne discutono, comprendendone la necessità.

4/

La pervicacia con cui si continua a parlare di matrimonio per i preti ricorda però l’ignoranza ecclesiologica dell’intellighenzia.

Nella tradizione della chiesa e ancora oggi non si è mai trattato di matrimonio dei preti, bensì di sacerdozio degli sposati. Tutt’oggi nelle chiese ortodosse, dove esistono preti sposati, i seminaristi debbono prima sposarsi e solo poi, con l’accordo della moglie e dei figli, possono accedere all’ordinazione sacerdotale.

Insomma non si tratta del caso se io mi possa sposare o meno, ma se sia legittimo per la moglie di Odifreddi o di Fedez che i loro rispettivi mariti siano ordinati preti a servizio della chiesa.

Perché se Chiara Ferragni non desse il suo OK al matrimonio in Chiesa e al sacerdozio, non sarebbe possibile procedere alla successiva ordinazione del marito.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 13 Marzo 2023 - 12:32 am | | Default

L'elmo di Alessandro [Magno], di Gianfranco Ravasi

Riprendiamo da Avvenire un articolo scritto da Gianfranco Ravasi e pubblicato il 10/5/2007. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Storia greca e romana e Vita.

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

Alessandro Magno incontrò alcuni Macedoni che trasportavano in otri, a dorso di mulo, acqua che avevano attinto a un fiume. Vedendo Alessandro provato dalla sete del mezzogiorno, riempirono velocemente un elmo e glielo porsero.

Egli prese l'elmo nelle sue mani ma, guardando attorno a lui, vide che la sua cavalleria dirigeva lo sguardo bramoso sulla bevanda. Allora la rese senza aver bevuto e, ringraziando, disse a chi l'aveva offerta: «Se bevo solo io, questi uomini perderanno coraggio».

Il sole implacabile, il deserto, il corpo stanco, le labbra aride e soprattutto gli sguardi di tanti uomini su quell'elmo colmo di acqua: è da qui che nasce la forza esemplare del gesto di Alessandro Magno, narrato dallo storico greco Plutarco nella celebre Vita di Alessandro, composta agli inizi del II sec. d.C.

Due sono gli spunti che possiamo raccogliere da questo notissimo episodio. Innanzitutto la fermezza del famoso sovrano che supera la tentazione dell'insindacabilità del potere e dei privilegi e si pone al livello degli altri, delle persone comuni che però condividono le stesse esigenze umane. È il risultato di un rigore non solo personale, quasi ascetico, ma anche del rispetto delle necessità comuni, è il frutto di una sensibilità e nobiltà d'animo che vince ogni egoismo.

C'è, però, un altro profilo nell'atto di Alessandro ed è quello della testimonianza. Se ti preoccupi solo dei tuoi vantaggi, non potrai mai essere un educatore di altri.

È per questo che la gente spesso non ha fiducia nelle classi dirigenti in tutti gli ambiti della vita sociale, perché non vede in essi che la corsa all'esito personale, all'interesse privato, al privilegio.

È anche per questo che tanti genitori ed educatori non incidono nell'animo dei giovani: quella che manca è la testimonianza, lezione più efficace di ogni discorso.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 13 Marzo 2023 - 12:31 am | | Default

La storia vera di Fernanda Wittgens. L'arte, l'impegno, la fede. Ecco chi era la donna cui l'arte di Milano deve alcune delle sue opere più importanti, salvate grazie al suo impegno dalle bombe e dalla razzia nazista: il suo lato umano, politico, cristiano

Riprendiamo da Famiglia cristiana un articolo pubblicato on-line il 31/1/2023 senza indicazione di autore (https://www.famigliacristiana.it/articolo/la-storia-vera-di-fernanda-wittgens-l-arte-l-impegno-la-fede.aspx). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Gli anni della seconda guerra mondiale. In particolare sul salvataggio delle opere d’arte in Italia nel corso della II guerra mondiale, cfr.

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

Nella foto Matilde Gioli interpreta Fernanda Wittgens

Quando Fernanda Wittgens fu assunta alla Pinacoteca di Brera era il 1928, aveva una laurea in Lettere con lode presa nel 1926 all’Accademia scientifico letteraria, aveva insegnato nei Licei Manzoni e Parini e poi storia dell’arte al Malagugini, una scuola privata. Non erano tantissime le donne laureate all’epoca neppure nel gran Milan, la qualifica con cui fu assunta in Pinacoteca la dice lunga su tante cose: «Operaia avventizia». Un due di coppe con la briscola a bastoni, però in gamba. Caparbia e visionaria, andò lontano.

Era nata a Milano il 3 aprile del 1903 e Milano le deve moltissimo e anche i tanti visitatori che dopo l’Expo hanno riscoperto Milano come città non solo della moda ma anche dell’arte e del turismo hanno un enorme debito con questa donna poco ricordata.

Tante delle opere d’arte che ancora oggi si ammirano in città non ci sarebbero forse senza di lei, che senza badare alle qualifiche, al suo essere donna in un mondo di uomini e a tutti i paletti che la vita le ha messo davanti ha lottato, anche fisicamente organizzando e collaborandovi molti trasporti per salvare le opere di Brera, del Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale maggiore dalla razzia dei nazisti e, poi, dalle bombe: molto del patrimonio di Brera si salvò dal bombardamento del 1943 perché era riuscita a portarlo via per tempo. Anche il Cenacolo vinciano come lo conosciamo ora e il suo restauro sono un merito suo, dopo che nel 1950 era diventata, prima donna nel ruolo, soprintendente alle Gallerie della Lombardia. E così è merito suo la Pietà Rondanini che convinse il Comune di Milano ad acquistare, sottraendola ad altre città pretendenti.

Ma era solo una ragazza, nata in una famiglia della borghesia milanese con sette figli, cui il padre Adolfo, di origine svizzera, professore di liceo al Parini, aveva trasmesso la passione per l’arte, quando la sua avventura ebbe inizio. Fu il successo di una mostra di arte italiana a Londra a rivelare definitivamente il suo talento al direttore Ettore Modigliani, che le diede fiducia e nel 1931 la volle come vice. Quando Modigliani subì l’allontanamento forzato da Brera nel 1935, quindi il confino L’Aquila, in seguito a dissidi con un gerarca fascista, infine l’espulsione dalle cariche dello Stato per via delle leggi razziali del 1938, Fernanda Wittgens fece pubblicare con la propria firma, visto che la legge non permetteva che un ebreo firmasse una pubblicazione, il libro che Modigliani aveva scritto in esilio, Mentore. E prese di fatto il posto del suo maestro: era 1941 e infuriava la guerra.

L’impegno per l’arte, specie lombarda di cui era fine e arguta conoscitrice, e per gli esseri umani fu tutt’uno: sempre di salvare si trattava. Per l’aiuto dato alla fuga in Svizzera del professore ebreo Paolo D'Ancona, della sua famiglia e di altri ebrei che nemmeno conosceva, Fernanda Wittgens fu arrestata: alla madre scriveva lettere dalla cella ostentando serenità, ma anche rivendicando i propri ideali e il dovere di spendersi per gli altri: «E appunto perché non ho tradito la vera legge che è quella morale o sono provvisoriamente colpita. La legge dello stato si deve seguire fino a quando coincide con la legge morale, ma quando per seguirla bisogna diventare anticristiani si deve sapere disubbidire a qualunque costo».

E ancora: «Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civiltà, di continuare ad affermare che gli uomini sono fratelli, anche se per questo dovrà... pagare? Almeno i cosiddetti intellettuali, cioè coloro che hanno sempre dichiarato di servire le idee e non i bassi interessi, e come tali hanno insegnato ai giovani, hanno scritto, si sono elevati dalle file comuni degli uomini. Sarebbe troppo comodo essere intellettuali nei tempi pacifici e diventare codardi, o anche semplicemente neutri quando c’è pericolo».

Queste righe sono citate nell’appassionato omaggio che le dedicò al Piccolo Teatro l’11 gennaio del 1958, a sei mesi dalla morte, il critico letterario Francesco Flora che la ricordava così: «In tanta energia, in tanta capacità di attuare quel che le stava nell’animo come un gioioso dovere, Fernanda era pur sempre una creatura femminile. E bastava infatti vederla nei contatti col prossimo, tra i potenti e gli umili, capace di trovare il tono giusto, con quella virtù sempre un poco materna che è il fondo della femminilità. Era pur sempre la donna che nell’imminenza della morte, dicendo addio alla vita e alle persone più care poté scrivere: «la mia vera natura [...] è quella di una donna a cui il destino ha dato compiti da uomo, ma che li ha sempre assolti senza tradire l’affettività femminile».

Fernanda Wittgens, scomparsa a 54 anni nel 1957, riposa tra gli illustri del civico mausoleo Palanti al Monumentale di Milano, la sua città le ha intitolato una via accanto alla Basilica di San Lorenzo e il suo nome dal 2014 figura tra i Giusti tra le nazioni, il riconoscimento dato ai gentili che si sono prodigati nel salvare ebrei durante il nazifascismo, un albero piantato a suo nome e un cippo la ricordano nel Giardino dei Giusti a Milano.

Alla sua storia sono dedicati un romanzo di Giovanna Ginex e Rosangela Percoco, intitolato L’Allodola(Salani), deve il titolo al soprannome che le dava Modigliani - perché come l’allodola la riteneva discreta, la si notava solo quando spiccava il volo e una precedente biografia sempre di Ginex, Sono Fernanda Wittengs. Una vita per Brera (Skirà). Dalle lettere e dagli scritti di Fernanda Wittgens nel 2018 il Piccolo teatro ha ricavato una lettura scenica con Sonia Bergamasco per la regia di Marco Rampoldi, intitolata il Miracolo della cena.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 13 Marzo 2023 - 12:22 am | | Default

Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi con Franco Nembrini. I video on-line degli incontri in San Giovanni in Laterano

Riprendiamo sul nostro sito i video degli incontri in San Giovanni in Laterano del ciclo Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi con Franco Nembrini, introdotti da don Fabio Rosini e conclusi dal cardinal De Donatis. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Giacomo Leopardi. Cfr., in particolare:

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

- Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi con Franco Nembrini. Prima serata

- Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi con Franco Nembrini. Seconda serata

- Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi con Franco Nembrini. Terza serata

- Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi con Franco Nembrini. Quarta serata

Redazione de Gliscritti | Lunedì 13 Marzo 2023 - 12:16 am | | Default

Di un’acqua che non disseta e di una sete infinita: il pallavolista Andrea Lucchetta, Alessandro Magno e Giacomo Leopardi dinanzi alla samaritana al pozzo. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Vita e Cristianesimo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)

Bisogna ascoltare – è commovente, è un’esperienza indimenticabile -, le parole di Andrea Lucchetta mentre le lacrime si riaffacciano ai suoi occhi, quando ripensa alla tristezza seguita alla vittoria dei Mondiali del 1990.

Nel video[1], dal minuto 10.08, si vede prima il punto della vittoria che prosegue con l’urlo di gioia “Campioni del mondo” del telecronista e poi con il racconto di Andrea Zorzi che ricorda alcuni particolari della festa azzurra.

https://youtu.be/fybvFtJ4kI0?t=627

Ma poi, improvviso, arriva lo stacco e appare il volto di Andrea Lucchetta che racconta:

«E quindi è stato qualcosa che poi alla fin fine però è sfociato in un momento di tristezza totale, perché quando siamo arrivati comunque sul podio, quando abbiamo alzato la coppa al cielo, e ho passato quella coppa che rappresentava fondamentalmente il sogno di una vita, alla fin fine ho realizzato che questo sogno era finito, quello con cui avevi cercato di lottare, di vincere, avevi cercato comunque di sacrificarti per poter arrivare poi a raggiungerlo, se n’era andato. E cosa ti rimaneva? La tristezza di quell’attimo fuggente. Per cui mi sono sentito svuotare completamente».

L’uomo ha sempre sete, come la samaritana al pozzo, l’uomo sempre ritorna ad un pozzo ad attingere nuova acqua, perché i sorsi già attinti non dissetano mai pienamente.

Così è, nella leggenda, di Alessandro Magno: giunto ai confini della terra piange, perché ormai le sue conquiste sono terminate – così è, ad esempio, nell’Alexandros di Giovanni Pascoli.

Così è di Giacomo Leopardi. Quanto falsa è l’interpretazione dei suoi carmi quasi egli fosse infelice per i suoi difetti fisici o per la mancanza di corrispondenza nei suoi amori!

Leopardi, invece, è il poeta che avverte che qualsivoglia successo umano, qualsivoglia amore ricambiato, mai soddisferà il cuore umano, che è troppo grande rispetto a ciò che esiste e alla brevità della vita e alle possibilità della conoscenza.

Così è della samaritana al pozzo, che sempre torna ad attingere e mai è sazia, proprio quella samaritana messa a nudo dal Cristo che le ricorda che ha avuto cinque mariti e quel sesto con cui ora vive non le basta ancora: nessun amore umano è sufficiente alla sete dei cuori.

Di abbeverarsi ad altro ognuno ha bisogno, perché la finitezza del vivere sia buona, in quanto ormai carica di infinito.

Note al testo

[1] È il video Pallavolo 1990: Generazioni di fenomeni, di Silvia D’Ortenzi, della serie TV Sfide.

Redazione de Gliscritti | Sabato 11 Marzo 2023 - 11:33 pm | | Default