La storia vera di Fernanda Wittgens. L'arte, l'impegno, la fede. Ecco chi era la donna cui l'arte di Milano deve alcune delle sue opere più importanti, salvate grazie al suo impegno dalle bombe e dalla razzia nazista: il suo lato umano, politico, cristiano
Riprendiamo da Famiglia cristiana un articolo pubblicato on-line il 31/1/2023 senza indicazione di autore (https://www.famigliacristiana.it/articolo/la-storia-vera-di-fernanda-wittgens-l-arte-l-impegno-la-fede.aspx). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Gli anni della seconda guerra mondiale. In particolare sul salvataggio delle opere d’arte in Italia nel corso della II guerra mondiale, cfr.
- Dall’autunno del 1943 al luglio 1944 i capolavori della Pinacoteca di Brera e del Castello Sforzesco, dell'Accademia di Venezia, della Galleria di Urbino, dell'Accademia Carrara di Bergamo, insieme ai dipinti dei Musei romani e ad opere d'arte provenienti da chiese, come il Tesoro di San Marco o le tele di Caravaggio furono custodite in Vaticano (da Micol Forti)
- 1/ Roma 1940-1944: i benemeriti della tutela dell’arte italiana, di Paola Nicita 2/ «I trasporti possono essere iniziati da oggi, 15 novembre 1943»: il ruolo del Vaticano nella salvaguardia del patrimonio artistico italiano, di Micol Forti
- 1/ Pasquale Rotondi, grandissimo e sconosciuto responsabile dell’Operazione Salvataggio delle principali opere d’arte italiane nel 1944. I quadri delle principali gallerie italiane, tramite le Marche, in Vaticano e loro restituzione dopo la guerra 2/ Il contributo di Rodolfo Siviero.
Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2023)
Nella foto Matilde Gioli interpreta Fernanda Wittgens
Quando Fernanda Wittgens fu assunta alla Pinacoteca di Brera era il 1928, aveva una laurea in Lettere con lode presa nel 1926 all’Accademia scientifico letteraria, aveva insegnato nei Licei Manzoni e Parini e poi storia dell’arte al Malagugini, una scuola privata. Non erano tantissime le donne laureate all’epoca neppure nel gran Milan, la qualifica con cui fu assunta in Pinacoteca la dice lunga su tante cose: «Operaia avventizia». Un due di coppe con la briscola a bastoni, però in gamba. Caparbia e visionaria, andò lontano.
Era nata a Milano il 3 aprile del 1903 e Milano le deve moltissimo e anche i tanti visitatori che dopo l’Expo hanno riscoperto Milano come città non solo della moda ma anche dell’arte e del turismo hanno un enorme debito con questa donna poco ricordata.
Tante delle opere d’arte che ancora oggi si ammirano in città non ci sarebbero forse senza di lei, che senza badare alle qualifiche, al suo essere donna in un mondo di uomini e a tutti i paletti che la vita le ha messo davanti ha lottato, anche fisicamente organizzando e collaborandovi molti trasporti per salvare le opere di Brera, del Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale maggiore dalla razzia dei nazisti e, poi, dalle bombe: molto del patrimonio di Brera si salvò dal bombardamento del 1943 perché era riuscita a portarlo via per tempo. Anche il Cenacolo vinciano come lo conosciamo ora e il suo restauro sono un merito suo, dopo che nel 1950 era diventata, prima donna nel ruolo, soprintendente alle Gallerie della Lombardia. E così è merito suo la Pietà Rondanini che convinse il Comune di Milano ad acquistare, sottraendola ad altre città pretendenti.
Ma era solo una ragazza, nata in una famiglia della borghesia milanese con sette figli, cui il padre Adolfo, di origine svizzera, professore di liceo al Parini, aveva trasmesso la passione per l’arte, quando la sua avventura ebbe inizio. Fu il successo di una mostra di arte italiana a Londra a rivelare definitivamente il suo talento al direttore Ettore Modigliani, che le diede fiducia e nel 1931 la volle come vice. Quando Modigliani subì l’allontanamento forzato da Brera nel 1935, quindi il confino L’Aquila, in seguito a dissidi con un gerarca fascista, infine l’espulsione dalle cariche dello Stato per via delle leggi razziali del 1938, Fernanda Wittgens fece pubblicare con la propria firma, visto che la legge non permetteva che un ebreo firmasse una pubblicazione, il libro che Modigliani aveva scritto in esilio, Mentore. E prese di fatto il posto del suo maestro: era 1941 e infuriava la guerra.
L’impegno per l’arte, specie lombarda di cui era fine e arguta conoscitrice, e per gli esseri umani fu tutt’uno: sempre di salvare si trattava. Per l’aiuto dato alla fuga in Svizzera del professore ebreo Paolo D'Ancona, della sua famiglia e di altri ebrei che nemmeno conosceva, Fernanda Wittgens fu arrestata: alla madre scriveva lettere dalla cella ostentando serenità, ma anche rivendicando i propri ideali e il dovere di spendersi per gli altri: «E appunto perché non ho tradito la vera legge che è quella morale o sono provvisoriamente colpita. La legge dello stato si deve seguire fino a quando coincide con la legge morale, ma quando per seguirla bisogna diventare anticristiani si deve sapere disubbidire a qualunque costo».
E ancora: «Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civiltà, di continuare ad affermare che gli uomini sono fratelli, anche se per questo dovrà... pagare? Almeno i cosiddetti intellettuali, cioè coloro che hanno sempre dichiarato di servire le idee e non i bassi interessi, e come tali hanno insegnato ai giovani, hanno scritto, si sono elevati dalle file comuni degli uomini. Sarebbe troppo comodo essere intellettuali nei tempi pacifici e diventare codardi, o anche semplicemente neutri quando c’è pericolo».
Queste righe sono citate nell’appassionato omaggio che le dedicò al Piccolo Teatro l’11 gennaio del 1958, a sei mesi dalla morte, il critico letterario Francesco Flora che la ricordava così: «In tanta energia, in tanta capacità di attuare quel che le stava nell’animo come un gioioso dovere, Fernanda era pur sempre una creatura femminile. E bastava infatti vederla nei contatti col prossimo, tra i potenti e gli umili, capace di trovare il tono giusto, con quella virtù sempre un poco materna che è il fondo della femminilità. Era pur sempre la donna che nell’imminenza della morte, dicendo addio alla vita e alle persone più care poté scrivere: «la mia vera natura [...] è quella di una donna a cui il destino ha dato compiti da uomo, ma che li ha sempre assolti senza tradire l’affettività femminile».
Fernanda Wittgens, scomparsa a 54 anni nel 1957, riposa tra gli illustri del civico mausoleo Palanti al Monumentale di Milano, la sua città le ha intitolato una via accanto alla Basilica di San Lorenzo e il suo nome dal 2014 figura tra i Giusti tra le nazioni, il riconoscimento dato ai gentili che si sono prodigati nel salvare ebrei durante il nazifascismo, un albero piantato a suo nome e un cippo la ricordano nel Giardino dei Giusti a Milano.
Alla sua storia sono dedicati un romanzo di Giovanna Ginex e Rosangela Percoco, intitolato L’Allodola(Salani), deve il titolo al soprannome che le dava Modigliani - perché come l’allodola la riteneva discreta, la si notava solo quando spiccava il volo e una precedente biografia sempre di Ginex, Sono Fernanda Wittengs. Una vita per Brera (Skirà). Dalle lettere e dagli scritti di Fernanda Wittgens nel 2018 il Piccolo teatro ha ricavato una lettura scenica con Sonia Bergamasco per la regia di Marco Rampoldi, intitolata il Miracolo della cena.