1/ Henri Matisse. Tra fleur e fleurt, un cuore intenerito, di Giuseppe Frangi 2/ L’agilità del colore dalla sedia a rotelle: l’ultimo Matisse al Moma, di Giuseppe Frangi

1/ Henri Matisse. Tra fleur e fleurt, un cuore intenerito. Donne bellissime, linee delicate come passi di danza. Cosa si nasconde dietro la purezza che contraddistingue le figure femminili dell'artista francese? A Ferrara, per scoprire un'arte che nasce dall'ammirazione e dalla gratitudine per la realtà, di Giuseppe Frangi

Riprendiamo dal sito clonline (https://it.clonline.org/news/cultura/2014/03/28/tra-fleur-e-fleurt-un-cuore-intenerito) un articolo di Giuseppe Frangi pubblicato il 28/3/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Arte moderna e contemporanea. Cfr., in particolare, Henri Matisse dinanzi all'oggettività del cristianesimo: la Cappella delle domenicane di Vence, di Andrea Lonardo. Qui il video dell'incontro su Henri Matisse del ciclo Ascoltando i maestri, con Micol Forti e Andrea Lonardo, moderato da Francesco D'Alfonso e con la lettura recitata di brani di Matisse:

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

C’è un aspetto straordinario di Matisse che la bella mostra organizzata a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, mette in evidenza: è l’aver affrontato per tutta la vita il tema del corpo femminile, spesso anche nudo, senza mai cadere né in uno sguardo vizioso, né in un esercizio di possesso.

Matisse non era certo un monaco, e non si precludeva i piaceri della vita. Aveva sposato Amélie, la donna che gli aveva già dato una figlia, nel 1898, a quasi 30 anni. Se ne sarebbe poi separato nel 1939. Aveva un’attrazione per volti e corpi femminili, che nutrivano il suo sguardo e la sua pittura. Eppure, quando questo suo vissuto si traferiva sulle tele, prevaleva sempre un’imprevedibile purezza, una capacità di incanto, di distacco da forme che pur rappresentavano per lui l’emergere della bellezza. Di una bellezza intesa anche come piacere, quanto meno per gli occhi e per il pensiero.

Lusso, calma, voluttà è il celebre titolo di un quadro che nel 1904 segnò la sua consacrazione sul palcoscenico dell’arte: categorie che Matisse mai rinnegherà, dimostrando però in tutta la sua vita di declinarle con leggerezza e trasparenza. Il suo è un approccio dominato sempre da un senso di gratitudine che alla fine plasma l’orizzonte, e che trasforma anche la sensualità in una sorta di inno.

Matisse è un uomo pienamente del Novecento, che riesce però a sottrarsi a tutti i diktat, da quelli formali a quelli ideologici, con cui gli artisti si sono dovuti misurare. Questa sua distanza spesso viene letta come accomodamento borghese di un artista che non si trovò mai a partecipare a nessuna delle avanguardie. In realtà è totalmente dentro il suo tempo, con uno sguardo libero che lo fa andare oltre i problemi. Così le sue figure, che sono il centro tematico della mostra di Ferrara, si ritrovano spogliate da ogni ansia, come se fossero sempre al posto giusto, nell’ora più bella, e in condizioni psicologiche ideali.

È un mondo fortunato quello di Matisse? In un certo senso, sì. Ma la pittura è il mezzo con cui condivide la sua fortuna con lo sguardo di milioni di uomini: non è un caso che nessun artista abbia contaminato, tanto come lui, gli artisti delle generazioni successive (sino alla nostra). Non per scelte stilistiche o di gusto; è una contaminazione di libertà, a cui tantissimi artisti guardano come da un orizzonte desiderato, e che introiettano nelle forme più impreviste.

Tornando alle figure di Matisse, il paragone più pertinente è quello con i fiori. Lui guarda ai corpi, specie femminili, come se fossero fiori. In francese fleur ha lo stesso suono di fleurt (è un’assonanza che Matisse per primo aveva suggerito). Il rapporto dell’artista con la figura è quindi sempre anche un fleurt con la persona che ha davantiFleurt dice tutta la delicatezza del rapporto che s’instaura, dice dell’attrattiva che l’artista riceve, dice anche della transitorietà. «Voglio rendere evidente per gli altri l’intenerimento del mio cuore», spiegò Matisse nel momento in cui si decise all’impegno per la Cappella di Vence. L’intenerimento era quello suscitato dal rapporto con la persona che era stata il tramite per quel lavoro così inatteso: la modella Monique Bourgoeis, poi diventata soeur Jacques-Marie.

In Matisse l’arte scaturisce sempre da questo sguardo ammirato e intenerito sulla realtà. I corpi diventano testimonial di una bellezza che non rinuncia a niente, e che sembrano assaporare una freschezza da Paradiso. Le linee che li disegnano sono come passi di danza, sino all’esito meraviglioso di quei Nudi blu, collage realizzati con la tecnica dei papiers decoupés. Qui Matisse raggiunge una punta di purezza da cui non si toglierebbe mai lo sguardo.

N.B. de Gli scritti L’articolo si riferiva alla mostra Matisse la figura. La forza della linea, l’emozione del colore, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 22 febbraio - 15 giugno 2014

2/ L’agilità del colore dalla sedia a rotelle: l’ultimo Matisse al Moma. Al MOMA i papiers gouachés decoupés di Henri Matisse. Una sorta di paradiso delle immagini. E aveva ragione Greenberg a sostenere che i fogli a tempera sforbiciati rappresentavano la vera avanguardia, di Giuseppe Frangi

Riprendiamo dal sito del quotidiano Il Manifesto (https://ilmanifesto.it/lagilita-del-colore-dalla-sedia-a-rotelle-lultimo-matisse-al-moma) un articolo di Giuseppe Frangi pubblicato il 19/10/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Arte moderna e contemporanea. Cfr., in particolare, Henri Matisse dinanzi all'oggettività del cristianesimo: la Cappella delle domenicane di Vence, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (19/2/2023)

Nel 1941 Henri Matisse si sottopose a un intervento chirurgico molto delicato a causa di un tumore all’intestino. L’operazione riuscì, ma per Matisse la vita cambiò radicalmente; si trovò in una condizione che oggi definiamo di «non autosufficienza». Costretto per molto tempo a letto, gli divenne complicato anche mettersi al cavalletto a dipingere. Aveva sempre bisogno di un’infermiera, per di più non poteva contare né sulla moglie Amélie né sulla figlia Marguerite (nata da un suo amore precedente il matrimonio) perché tutt’e due impegnate nella resistenza e costrette a stare nella clandestinità.

Matisse morì nel 1954: quindi per ben tredici anni convisse con limiti e problemi fisici davvero faticosi. In realtà, se si passa in rassegna il catalogo di questa ultima parte della vita di Matisse, è praticamente impossibile trovare anche il minimo riscontro di quella sua situazione, sia per quanto riguarda il numero delle opere prodotte, sia, soprattutto, per la evidente felicità che le permea. In un secolo che aveva attinto a piene mani da ogni patologia, reale o immaginata che fosse, la parabola di Matisse appare così come qualcosa di stupefacentemente fuori copione: seppe allargare sempre l’orizzonte, proprio mentre la vita procedeva a imbuto chiudendogli via via gli spazi praticabili; trasformò i limiti impostigli in spazi di una nuova libertà.

Se il cavalletto non era più alla sua portata, iniziò a dipingere tagliando nel colore: muoveva le forbici dentro i grandi fogli che aveva accuratamente fatto preparare a tempera dalle sue assistenti, quasi danzando con le mani. Se non poteva più recarsi in quei favolosi angoli di mondo dove si era alimentato di immagini e colori, sempre con carta e forbici aveva realizzato nelle grandi stanze dell’Hotel Regina, a Cimiez, appena sopra Nizza, delle visioni che ricreavano quei contesti reali.

Da queste premesse si può intuire come la grande mostra tutta dedicata ai papiers gouachés découpés di Matisse – approdata ora al Moma dopo la prima tappa estiva alla Tate Modern di Londra: Matisse. The Cut-Outs, fino al 9 febbraio 2015 – costituisca per il visitatore un’immersione in una sorta di felicità inimmaginata e inimmaginabile. Il Matisse di questi ultimi anni procede come in uno stato di grazia in cui anche il frammento e lo scarto conservano lo splendore della pura e gratuita invenzione. Tanto che la ripetizione dei motivi non sfiora mai la saturazione.

Matisse sperimentò per la prima volta le potenzialità dei cut-outs in occasione del laborioso cantiere del murale americano per Albert Barnes. Avendo a che fare con uno spazio molto complesso, con quelle tre grandi lunette collegate tra di loro, e faticando a trovare la soluzione, aveva fatto ricorso all’escamotage di ritagliare le figure per poi muoverle su una maquette e trovare così i giusti equilibri. Si trattò di un approccio quindi strumentale ai papiers découpés, che però aveva rivelato a Matisse le potenzialità di un metodo che andava oltre la pittura. Siamo agli inizi degli anni trenta e i fogli li vediamo tagliati con una certa sommarietà, spesso scomposti in più elementi per facilitare spostamenti e sperimentare soluzioni diverse.

È con gli anni quaranta, cioè quelli che fanno seguito all’intervento chirurgico, che i papiers découpés si ripresentano a Matisse come alternativa alla pittura da cavalletto, che ora gli riusciva non solo difficile ma anche concettualmente superata. Le prime esperienze sistematiche sono funzionali alle copertine progettate per l’amico editore Tériade e per la sua rivista «Verve». È proprio Tériade nel 1943 a proporre a Matisse di andare oltre e di realizzare un libro. Nacque così Jazz, probabilmente il più bel libro d’artista pubblicato nel Novecento. In mostra il libro è presentato nella versione stampata nelle vetrine, mentre sul muro sovrastante scorrono gli originali, che è molto raro vedere e che sono custoditi al Beaubourg. In questo modo si può capire la ritrosia di Matisse di fronte all’idea di tradurli in stampa. Matisse infatti non ritaglia semplicemente dei fogli colorati, ma ritaglia il colore. I fogli originali mostrano una corposità, conferita dalla stesura delle tempere, che nella stampa si smarrisce. Si perde spesso la direzione della pennellata e quel mix di colore e di granuli di bianco che dà un peso specifico diverso alle immagini. Del resto il nome esatto della tecnica è chiaro: papiers gouachés decoupés. Dove quel gouachés non è affatto aspetto secondario… Si crea anche qualche confusione tra i bianchi, che negli originali non sono mai uguali tra il bianco del foglio di supporto e quello dei papiers inseriti nella composizione.

Tra gli originali e la stampa c’è poi un altro elemento distintivo: sono le pagine con testo scritto a mano, che Matisse inserisce per dare ritmo e respiro al libro. È un testo quindi con funzioni riempitive: lui stesso lo paragonava alla paglia che si mette nelle scatole di vino per proteggere le bottiglie. Ma Matisse lo trasforma in un magnifico prontuario per aspiranti artisti, con una sequenza di illuminazioni che alla fine diventano chiavi di lettura, libera e liberante, delle stesse immagini.

Nel 1942, confidandosi con Louis Aragon, Matisse aveva rivelato di sognare che in paradiso gli sarebbe stato concesso di realizzare dei grandi affreschi. Nel 1946, costretto a passare l’estate nel suo appartamento parigino, decide di creare un paesaggio desiderato ma per lui irraggiungibile, lavorando sulle memorie del viaggio realizzato a Tahiti nel 1930. È stata la sua assistente di questi ultimi anni, Lydia Delectorskaya, a raccontare la genesi di queste grandi composizioni di quasi quattro metri, realizzate su carta beige con agili forme di creature marine ritagliate invece nel bianco. Matisse ne ricavò poi delle serigrafie, ma gli originali esposti evidenziano il metodo che aveva seguito: le sagome bianche infatti sono punteggiate da fori di spillo, in quanto Matisse le spostava sino a trovare i giusti rapporti.

Con il trascorrere degli anni l’agilità di Matisse cresce in modo inversamente proporzionale ai limiti fisici a cui era costretto. Nel 1948 si butta a tempo pieno nel cantiere della cappella di Vence, lavoro scaturito grazie alla relazione con quella che era stata la sua prima infermiera, Monique Bourgeois, diventata poi suora domenicana. Matisse cerca una sorta di «paradiso» delle immagini. E dimostra di poterlo trovare sia tracciando a segno sicuro la grande Madonna con il bambino, realizzata su piastrelle per la cappella, sia ritagliando nel blu il grande fregio con cui trasformò una stanza del Regina in una piscina – Swimming pool, del 1952, è un capolavoro di sedici metri che doveva servire da maquette per una ceramica, ed è presente solo nella tappa del Moma perché lì è custodito ed è, evidentemente, intrasportabile.

Il paradiso di Matisse naturalmente non poteva non ritrovarsi popolato di corpi e di presenze femminili. A parte la serie magnifica e celebre dei quattro Nudi blu (dove la piattezza pura del colore propone un rapporto nuovo con la corporeità), in mostra è presente un assoluto capolavoro come Zulma (1950), un ritratto di una donna in piedi, tra due tavolini. C’è una sintesi di tutto Matisse in questo gioiello: la sagoma blu del corpo in questo caso si apre al centro, liberando una forma quasi color carne. È come una zip leggera, che si spalanca a sorpresa per svelare tutta la sensualità di questa “dea” planata nello studio di Matisse.

Si potrebbe pensare che questa lunghissima danza con le forbici e i colori sia stata come una felice partita giocata però da Matisse su un campo a parte. La mostra rivela che la situazione è esattamente opposta, e che Matisse sta in realtà giocando una partita d’avanguardia. Non è un caso che Clement Greenberg, il grande teorico della nuova arte americana, già nel ’48, su «Partisan review», riconoscesse come Matisse avesse colto per primo la crisi della pittura da cavalletto. La pittura con lui rompeva definitivamente la convenzione del perimetro, si dilatava nello spazio, con l’ambizione di trasfigurarlo. Non solo: l’arte con lui diventa esperienza di una proiezione di sé in territori nuovi, di una virtualità, per così dire, molto reale. Dove anche un artista costretto su una sedia a rotelle può vivere la dimensione dell’agilità, come fosse il più fantastico degli acrobati. Reduce dall’operazione, del resto, aveva preso tutti in contropiede con questa sua reazione: «Tout est neuf, tout est frais comme si le monde venait de naître».

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Febbraio 2023 - 12:08 am | | Default

La prima parte della notte trascorsa nel lavoro e la differenza fino a pochi decenni fa. Breve nota di Andrea Lonardo a partire da un inno dei vespri

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

Uno degli inni dei vespri, che ancora oggi leggiamo, dice:

«Ecco il sole scompare
all'estremo orizzonte;
scende l'ombra e il silenzio
sulle fatiche umane
».

Ebbene tale inno si cantava alle 18.00 o alle 19.00, prima della cena, per poi recitare Compieta e andare a dormire.

La cena segnava l’ingresso nella notte e la fine di ogni lavoro, l’ingresso nel silenzio e nel buio della notte, con la gratitudine per tutto il giorno già trascorso.

Ebbene oggi, a quell’ora, per una parrocchia, comincia – quasi! – la vita parrocchiale.

Le riunioni iniziano alle 19.00, poi alle 21.00, le conferenze in centro città sono spesso alle 19.45. Poi ci sono i saluti dei giovani, le cene di lavoro, gli incontri dei catechisti e degli animatori.

“L'ombra e il silenzio sulle fatiche umane” calano verso le 24.00 o più tardi ancora, se si deve scrivere, mandare mail, telefonare e decidere questioni.

La scomparsa del riposo che iniziava subito dopo la cena condiziona a sua volta il mattino, l’ora di levata, la disposizione verso il lavoro che inizia al mattino.

Questo è parte del dramma moderno, della vita non naturale che tutti viviamo.

È un eroe chi si alza ancora al mattino molto presto, dopo essere andato a dormire all’1 di notte.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 27 Febbraio 2023 - 12:04 am | | Default

Considerazioni rilevanti a partire dalle percentuali dei votanti e degli astenuti nelle elezioni regionali 2023 del Lazio e della Lombardia, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Giustizia, carità e politica.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

Si è molto e a ragione parlato del crescente e drammatico astensionismo nelle recenti elezioni regionali del Lazio e della Lombardia 2023.

Vale la pena precisare la questione, per comprendere a quale grado stia giungendo l’irrilevanza “relativa” dei diversi partiti.

Fratelli d’Italia, il partito che ha ricevuto il maggior numero di voti in totale, ha raggiunto nel Lazio il 36% dei voti (meno in Lombardia). Se si calcola il 36% del 37% dei votanti totali la percentuale raggiunge il 13,32% di coloro che hanno diritto al voto. Ciò vuol dire che poco più di 1 italiano su 10 ha votato Fratelli d'Italia.

Se si guarda al PD il risultato è ancora più sconfortante: infatti, il 20% dei voti raggiunti nel Lazio sul 37% dei votanti del paese ammonta al 7,4% dei votanti italiani. Insomma circa ½ italiano su 10 ha votato per il Partito Democratico.

Se si guarda al Movimento 5Stelle la situazione si aggrava ancor più: il 9% dei suoi voti sul 37% dei votanti totali totalizza il 3,33% degli italiani, insomma poco più di ¼ di votante ogni 10.

Se si guarda ai risultati delle coalizioni, la maggioranza del centro-destra ha totalizzato il 54% che, sul 37% dei votanti totali, ammonta al 19,98%. Insomma 2 italiani su 10 hanno votato centro-destra.

Per capire ancor meglio la situazione, si deve notare che nel Lazio il partito Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ha più voti da solo – anche se di pochissimo – dell’intero centro-sinistra, cioè del PD con tutti i suoi alleati.

La soglia del 54% indica che, fra i votanti - ma non in relazione all’intero elettorato che in maggioranza si astiene - il centro-destra ha la maggioranza assoluta e non più relativa.

Potrebbe governare anche senza alcun premio di maggioranza, perché oltre il 50% dei votanti – percentuale altissima – lo vota.

Per fare un raffronto con un altro dato estremamente significativo della situazione politica e sociale del paese, non si deve dimenticare che al primo turno delle primarie del PD i votanti sono stati circa 45.000 [N.B. l'articolo è stato scritto prima della votazione definitiva che ha una percentuale molto più alta, ma che è appunto più alta perché non hanno votato soolo gli iscritti e non è del tutto chiaro chi, dunque, abbia effettivamemte votato al di là degli iscritti].

Gli iscritti al momento della fondazione del partito nel 2008 erano ottocentomila circa. Il dato preciso è calcolabile al 7 novembre 2009, due settimane dopo la vittoria di Pier Luigi Bersani al congresso del 25 ottobre, quando l’allora responsabile per l’organizzazione del Partito democratico Maurizio Migliavacca aveva comunicato che gli iscritti che avevano votato le varie mozioni nei circoli erano stati «863 mila».

Ovviamente l’essere tesserati di un partito indica una forma di coinvolgimento molto maggiore della semplice espressione di un voto, ma certo il passaggio da 863.000 al numero di 45.000 votanti odierno significa che nel 2023 si è scesi ad 1/17 dei partecipanti del 2009.

In una prospettiva di ascolto sinodale del paese, questi dati – sia quelli percentuali, sia quelli di maggioranza politica – dicono qualcosa dello stato della nazione e delle sue mutate visioni sociali che deve essere sviscerato e interpretato, se si vuole dialogare con il paese odierno e non con una nazione immaginaria.

Redazione de Gliscritti | Domenica 26 Febbraio 2023 - 11:59 pm | | Default

Del vero senso dell’arcobaleno. Breve nota biblica e politica di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura e Affettività e sessualità.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

Dai riferimenti contemporanei all’arcobaleno appare evidente una cosa: l’uomo non è più in grado di cogliere il simbolismo naturale delle cose. Egli utilizza del cosmo, senza avere più lo stupore che avevano i primitivi. Il moderno dimentica che esiste l’universo e gli eventi dell’atmosfera e del cosmo ben più grandi di lui.

1/ Ebbene cosa è l’arcobaleno? Un arco che unisce il cielo e la terra.

L’arcobaleno non è un “segno” meramente umano, ma rimanda alle divinità che guardano alla terra.

In Israele, in particolare, l’arcobaleno è il segno dell’alleanza del creatore con gli uomini.

Dio dice, in Gen 9,13: «Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra»
.

Quell’arco è multicolore, perché è segno di un’alleanza con “ogni essere che vive in ogni carne”, è segno di un’alleanza che riguarda ogni germoglio, erbe e alberi creati “ciascuno secondo la propria specie” (cfr. Gen 1,11) e ogni animale creato “secondo la propria specie” (Gen 1,21): ma è segno di un’alleanza di Dio, perché è l’arco del cielo, di Dio, è l’arco teso fra il cielo e la terra. Non è semplicemente un arco “terrestre”: ecco la meraviglia del simbolo.

2/ Ma c’è una seconda questione che deve essere evocata per capire il simbolismo primigenio dell’arcobaleno: esso viene dopo la pioggia, dopo la tempesta, dopo il diluvio.

Il creatore si rende conto in Genesi che «la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre» (Gen 6,5) e per questo ne segue il diluvio.

L’arcobaleno viene dopo il diluvio. La sommersione di tutte le cose ricorda cioè che le opere dell’uomo meriterebbero la devastazione e che, invece, il Signore dona il suo perdono: egli continuerà a far sussistere la terra, nonostante i peccati umani.

Non un mondo, dunque, di una primigenia e sempiterna bontà, bensì un mondo pieno di male e di peccato, al quale Dio concede il suo perdono, perché possa continuare a vivere. Senza tale sguardo di misericordia, tutto tornerebbe nel nulla.

Il diluvio duplica la creazione, è ricreazione, è nuova creazione. La sua forza sta nell’annunciare che la vita persisterà, nonostante i peccati che gli uomini riconoscono di aver commesso.

Ecco il secondo messaggio dell’arcobaleno nella sua simbolica cosmica: esso è segno della vita che continua a fluire, nonostante il fatto che i cuori e le opere dell’uomo non siano buone

3/ Ecco l’arcobaleno: un’alleanza con il cielo e la coscienza di un perdono che supera il male, che però continua ad essere presente.

Non una vita tutta decisa dagli uomini, né una vita innocente, invece la terra mantenuta in vita da un cielo misericordioso.

Redazione de Gliscritti | Domenica 26 Febbraio 2023 - 11:58 pm | | Default

Maschile e femminile in pastorale: ciò che è visibile e ciò che è nascosto. Breve nota di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Ecclesiologia e Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

N.B.
Quanto segue, non intende minimamente affrontare l’intera questione del maschile e femminile nella chiesa, ma solo indicare un piccolo dettaglio che ha qualche rilevanza.

Quando si parla del maschile e del femminile nella vita della comunità cristiana e delle parrocchie si trascura talvolta un piccolo dettaglio che ha una sua rilevanza: è più difficile accorgersi del maschile!

Per motivi che non è facile sviscerare appieno, che sono forse non del maschile e del femminile in sé, ma del portato storico, l’uomo è meno “vistoso”, è più invisibile.

Si vede meno innanzitutto per il suo vestire che non è colorato, spesso tende ai grigi, ai blu, ai marroni, mentre la donna è più abituata ai colori, al giallo, al rosso, al contrasto bianco-nero.

Si vede meno anche perché parla di meno, esprime meno il suo apprezzamento o il dispiacere. Già nel numero degli interventi e nella lunghezza di essi.

L’uomo è più taciturno – ed è un difetto, spesso.

Chiede anche l’affetto meno visibilmente, non vuole attenzioni, non le domanda.

Si pensi anche ai giovani e alle giovani. Spesso è la ragazza che è contenta di essere abbracciata, mentre talvolta lo è meno un maschio.

Ma ciò dipende anche dallo sguardo del sacerdote, che è anch’egli un maschio. Forse, anzi, è proprio qui la questione.

Forse è anche lui che tende ad accorgersi di più della presenza femminile. Forse anche lui “guarda” – anche se castamente – di più l’universo femminile ed è felice di ricevere un sorriso o un gesto di affetto da una donna.

Mi colpì, per contrasto, un incontro di un vescovo con i ragazzi delle cresime: prima e dopo la celebrazione era evidente che egli era rivolto anche al maschile – sempre castamente, si intende. Si interessava degli studi dei diversi giovani, si soffermava sulle poche parole che dicevano ed essi raccontavano dell’università, degli studi, delle famiglie. Le ragazze gli si rivolgevano con ampi sorrisi, con occhi dolci, ma egli riusciva come a relativizzare questa evidente simpatia immediata, per soffermarsi di più su altre questioni.

Ecco questo dettaglio provoca chi presiede gruppi giovanili o l’intera comunità a dare spazio anche a chi non si vede, a chi parla meno, a chi è meno vistoso e meno visibile, per dare vero e ampio spazio anche alla parte maschile, alla ricerca vocazionale dei maschi, ai loro problemi e dubbi di fede, che altrimenti resterebbero sullo sfondo.

Bisogna accorgersi anche del maschile, fare attenzione anche a chi non si nota a prima vista.

Redazione de Gliscritti | Domenica 26 Febbraio 2023 - 11:51 pm | | Default

Preghiera di guerra, un racconto breve contro la guerra di Mark Twain

Riprendiamo sul nostro sito il racconto breve La Preghiera di Guerra, che Mark Twain scrisse nel 1904 e che venne poi pubblicato nel 1916, postumo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Per la pace contro la guerra.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

Illustrazione del 1965 di Ben Shahn 
per Preghiera di guerra, di Mark Twain

Erano tempi colmi di un’eccitazione grande ed esaltante. Il paese era in armi, la guerra era in corso, dentro ogni petto bruciava il fuoco sacro del patriottismo; rullavano i tamburi, suonavano le bande, schioccavano le pistole giocattolo, i mortaretti sibilavano e crepitavano; sotto una distesa di tetti e terrazze, mille mani facevano fluttuare una foresta di bandiere che brillavano sotto il sole; ogni giorno i giovani volontari marciavano giù per l’ampio viale allegri e eleganti nelle loro nuove uniformi, e fieri padri e madri e sorelle e fidanzate salutavano il loro passaggio con voci strozzate da felici emozioni; ogni sera i fedeli nella chiesa stracolma ascoltavano, ansanti, l’oratoria patriottica che scuoteva le profondità più profonde dei loro cuori e che loro spesso interrompevano con cicloni d’applausi, le lacrime che correvano giù per le guance; nelle chiese i pastori predicavano devozione alla bandiera e al paese e invocavano il Dio delle Battaglie, implorando il Suo aiuto alla nostra buona causa con fervida e straripante eloquenza che commuoveva tutti gli astanti.

Era certo un momento lieto e benigno, e la mezza dozzina di anime acide che osavano disapprovare la guerra ponendo in dubbio la sua giustezza erano redarguite con un tale rimprovero irato e severo che scomparivano rapidamente dalla vista e più non osavano offendere.

Arrivò la domenica mattina: il giorno dopo i battaglioni sarebbero partiti per il fronte; la chiesa era piena; i volontari erano presenti, le loro facce luminose di sogni marziali: visioni di severe avanzate, l’alta preparazione, la corsa alla carica, le sciabole scintillanti, la fuga del nemico, il tumulto, il fumo avviluppante, il feroce inseguimento, la resa!

Poi il ritorno a casa, eroi d’acciaio, accolti, adorati, sommersi da mari dorati di gloria! I volontari seduti accanto ai loro cari, fieri, felici, invidiati da vicini e amici privi di figli e fratelli da mandare ai campi dell’onore, verso la vittoria per la bandiera, o, cadendo, verso la più nobile tra le nobili morti. La messa proseguì; fu letto un capitolo di guerra dal Vecchio Testamento; fu intonata la prima preghiera; seguì il tuono dell’organo che scosse l’edificio, e in un unico gesto la folla esultò, con occhi lucidi e cuori pulsanti, ed eruttò la tremenda invocazione:

“Dio terribile! O Tu che comandi,
È tuono la Tua tromba, Folgore la Tua spada.”

Poi venne la preghiera lunga. Nessuno riusciva a ricordare un linguaggio altrettanto appassionato e implorante e commovente e bello. Il cuore di questa supplica era che il nostro Padre misericordioso e benigno avrebbe vegliato sui nostri giovani nobili soldati, e avrebbe donato loro aiuto, conforto e coraggio nella loro missione patriottica; e li avrebbe benedetti; e li avrebbe protetti in battaglia nel momento del pericolo, e li avrebbe tenuti nella Sua mano potente, e li avrebbe resi forti e fiduciosi, invincibili nel cimento di sangue; li avrebbe aiutati a schiacciare il male, e avrebbe dato loro e alla loro bandiera e alla loro patria onore e gloria imperituri.

Un vecchio sconosciuto entrò e passò a passi silenziosi e lenti lungo la navata centrale, gli occhi fissi sul sacerdote, il suo corpo alto avvolto in un panno lungo fino ai piedi, la testa nuda, i suoi capelli bianchi che scendevano sulle spalle in una cataratta schiumosa, il suo viso solcato e innaturalmente pallido, pallido fino all’orrore. Mentre gli occhi di tutti lo seguivano con meraviglia, andò per il suo cammino; ascese senza esitazione al fianco del predicatore e rimase lì in attesa. Il sacerdote, gli occhi chiusi, ignaro della sua presenza, proseguì con la sua preghiera commovente, e alla fine concluse con le parole di un fervido appello:

“Benedici le nostre armi, dacci la vittoria, Oh nostro Signore e Dio, Padre e Protettore della nostra patria e della nostra bandiera!”

Lo sconosciuto toccò il suo braccio e gli fece cenno di farsi da parte, cosa che lo spaventato ministro fece, e andò al suo posto. Per un istante osservò l’udienza incantata con occhi solenni in cui bruciava una luce misteriosa; e con voce profonda disse:

“Vengo dal Trono, e porto a voi un messaggio da Dio Onnipotente.”

Le parole colpirono l’edificio come un terremoto; se lo sconosciuto lo sentì, non ci fece caso.

“Lui ha ascoltato le parole del Suo servitore il vostro pastore, e se questo è il vostro desiderio voi sarete accontentati dopo che io, il Suo messaggero, ve ne avrò illustrato il senso; ovvero, il suo senso profondo. Perché come tante altre preghiere dell’uomo, questa preghiera chiede più di quello che dicono le parole; a meno che uno non si fermi a riflettere. Il servitore di Dio e vostro servitore ha recitato la sua preghiera. Si è fermato a riflettere? La preghiera è una sola? No, sono due: quella detta e quella non detta. Entrambe sono arrivate alle orecchie di Colui che ascolta tutte le suppliche, dette e non dette. Pensateci; tenetelo a mente. Se imploranti chiedete una benedizione, state attenti! Perché allo stesso tempo e senza volerlo potreste invocare una maledizione sul vostro vicino. Se pregate perché arrivi la benedizione della pioggia sul vostro campo che ne ha bisogno, con questo atto è possibile che invochiate una maledizione sul campo del vicino che non ha bisogno della pioggia e potrebbe esserne danneggiato.

“Voi avete ascoltato la preghiera del vostro servitore; la parte proferita a parole. Io ho ricevuto l’incarico da Dio di dirvi a parole l’altra parte: quella che il pastore, e i vostri cuori con lui, ha recitato in silenzio. Per ignoranza e senza riflettere? Dio voglia che sia così! Voi avete ascoltato le parole che dicono ‘Dacci la vittoria, O nostro Signore e Dio.’ Questo è sufficiente. Tutta la preghiera che avete recitato è contenuta in queste parole pregnanti. Altre spiegazioni sono inutili. Quando avete pregato per ottenere la vittoria, avete pregato anche per tutte quelle cose che tacitamente vengono dopo la vittoria; che devono venire, non possono fare a meno di venire. Allo spirito di Dio il Padre che ascolta è giunta anche la parte non proferita della preghiera. Lui mi ordina di tradurla in parole. Ascoltate!

"Oh Signore e Padre nostro, i nostri giovani patrioti, idoli nei nostri cuori, partono per la battaglia: stai al loro fianco! Anche noi, con il nostro spirito, lasciamo la pace del nostro focolare per andare a colpire il nemico. Oh Signore, aiutaci a ridurre i loro soldati a brandelli sanguinanti con le nostre granate; aiutaci a coprire i loro campi ridenti con le forme pallide dei patrioti morti; aiutaci a coprire il tuono del loro cannoni con le urla dei loro feriti che si contorcono nel dolore; aiutaci a devastare le loro umili case con un uragano di fuoco; aiutaci a schiacciare il cuore delle loro oltraggiose vedove con un dolore implacabile; aiutaci a lasciarli senza un tetto, i loro piccoli costretti a vagare senza conforto tra la desolazione della loro terra, vestiti di stracci, affamati, assetati, scherniti dal sole fiammeggiante dell’estate e dal ghiaccio dell’inverno, lo spirito nello sconforto, spezzati dalla fatica, costretti ad implorarti per chiedere il rifugio della tomba che Tu negherai loro.

Per il bene di noi che Ti adoriamo, Signore, schiaccia le loro speranze, rendi misere le loro vite, protrai il loro amaro pellegrinaggio, rendi pesanti i loro passi, annaffia la loro strada con le loro lacrime, macchia la neve bianca con il sangue dei loro piedi feriti!

Noi lo chiediamo, nello spirito dell’amore, a Colui che è Sorgente di Amore, e Che è Rifugio Sempre Fedele e Amico di coloro che sono amaramente oltraggiati e cercano il Suo aiuto con cuore umile e contrito.

Amen."

Il vecchio fece una pausa.

“Questo è ciò che avete chiesto con la vostra preghiera; se lo desiderate ancora, parlate! Il messaggero dell’Altissimo è qui che aspetta.”

*****

Tempo dopo dissero che quest’uomo doveva essere un pazzo, perché non c’era alcun senso nelle sue parole.

Redazione de Gliscritti | Domenica 26 Febbraio 2023 - 11:47 pm | | Default

Delle due donne che sono le “uniche” signore, ma che raramente vengono invitate allo show, anche in quello di Maurizio Costanzo, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e media e Del morire.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2023)

Sorella morte raramente viene invitata agli show televisivi, eppure è signora. È lei a condurre la danza, perché, come lei stessa canta, “Io son di tutti voi signora e padrona”.

Eppure pochi conduttori la invitano a comparire. Essa si autoinvita, però, e sopraggiunge, per tutti.

È lei a saggiare la consistenza di ogni vita e le chiacchiere non reggono al suo cospetto: o lei tiene il palco o le chiacchiere hanno il dominio.

L’altra gran donna è la fede, che si presenta, come negli affreschi medioevali, con la croce in una mano, perché crede nella decisività della vicenda del Cristo, e con il calice nell’altra: quel calice rappresenta la piena attualità della presenza di Dio nella storia, cioè l’eucarestia.

Anch’essa è raramente invitata in televisione, pur essendo la vera e unica antagonista di sorella morte, ma il linguaggio borghese del varietà e dei rapper/trapper ha imbarazzo a misurarsi con il vero conflitto che domina la scena del mondo, quello nel quale le due dame si affrontano per il predominio assoluto del cosmo, ben sapendo che o signora di tutto è la morte o lo è la fede, mentre tutte le altre sono, al loro cospetto, solo comparse.

Signori e signore, va in scena l’attualità del mondo e le due dame sono sempre lì, sul palco, anche se i conduttori tendono ad emarginarle: sono loro due la vera attualità, ossia ciò che più presente e contemporaneo non potrebbe essere, ma sono anche il vero futuro, la vera questione dello svilupo del mondo e più attuali di così non potrebbero essere, mentre tutto il resto è solo chiacchiera già vecchia!

Ad un certo punto, quindi, esse si riprendono il ruolo che loro compete e si seggono al loro giusto posto di conduttrici e non di comparse figuranti.

Redazione de Gliscritti | Domenica 26 Febbraio 2023 - 11:44 pm | | Default

1/ L’impunità [su Sanremo, Fedez e cacabandole varie], di Gigi De Palo 2/#metoo e Sanremo. Breve nota di Giovanni Amico

1/ L’impunità [su Sanremo, Fedez e cacabandole varie], di Gigi De Palo

Riprendiamo sul nostro sito un post di Gigi De Palo pubblicato sul suo profilo Instagram il 12/2/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Media ed Educazione. Cfr, in particolare Nella canzone Poco ricco di Checco Zalone l’ironia su Fedez e sui rapper che vivono vendendo la propria immagine. Breve nota di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

Quello che non mi piace, a nessun livello, è l’impunità. È vedere che in Italia ci sono figli e figliastri. Che le regole valgono solo per alcuni.

È mostrare ai nostri figli che se ti chiami Fedez puoi fare quello che vuoi, puoi dire quello che vuoi, senza alcuna conseguenza.

Puoi prendere per i fondelli Emanuela Orlandi o andare a regalare soldi in Lamborghini riprendendo in diretta social le reazioni dei beneficiari fregandotene della loro privacy e della loro dignità tanto non cambia nulla.

Puoi festeggiare in un supermercato il tuo compleanno giocando a a tirarti addosso con gli amici pane, frutta e verdura in barba a chi quel cibo non ce l’ha, ma dopo ventiquattro ore è tutto finito…

Puoi ostentare la tua ricchezza e spostarti con Jet privati che inquinano in un’ora di volo quanto dieci persone normali in un anno e poi raccontarti paladino dell’ambiente… puoi mandare messaggi non concordati a Sanremo e il giorno dopo sei comunque sul palco pagato e con il microfono in mano come se nulla fosse…

A me - e lo dico senza mezzi termini - fa paura il fatto che saltino tutte le regole non scritte del vivere civile. Che chi sbaglia, chi si fa solo gli affari suoi, chi pensa che la libertà sia non avere limiti e si comporta come nessuno di noi si sognerebbe mai di fare, non solo non paghi, ma anzi trasformi tutto questo in business e potere mediatico.

Attenzione amici se non esistono più “leggi non scritte”, se alcune persone alla luce del loro potere “social” hanno l’impunità di dire e fare quello che vogliono senza alcuna possibilità di essere criticate o limitate in quella che raccontano essere “libertà”, gli unici che ci rimettono siamo noi.

I comuni mortali che se dicono quello che pensano, in nome del concetto di “libertà” di questi signori, vengono massacrati e messi alla berlina per le loro opinioni.

Perché, fondamentalmente, siano liberissimi di pensarla come loro. Altrimenti siamo automaticamente razzisti, fascisti, comunisti, ignoranti, oscurantisti, nemici della libertà!

2/#metoo e Sanremo. Breve nota di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Media ed Educazione. Cfr, in particolare Nella canzone Poco ricco di Checco Zalone l’ironia su Fedez e sui rapper che vivono vendendo la propria immagine. Breve nota di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

Da Sanremo è lecito aspettarsi non l’ennesima tirata contro gli abusi sulle donne, bensì una specifica denuncia contro tali abusi quando vengono commessi da produttori, registi, attori, cantanti, manager televisivi, gente dello spettacolo.

Ben 124 attrici hanno denunciato in una lettera di essere a conoscenza di abusi avvenuti nel mondo dello spettacolo (cfr. su questo stesso sito la lettera Dissenso comune. Violenza maschile. Si chiama Dissenso comune ed è una lettera manifesto firmata da 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo. Per contestare un intero sistema di potere e non (solo) il potente di turno), ma nessun nome è ancora venuto alla luce.

Il mondo dello spettacolo continua a presentarsi come il mondo della libertà, come il mondo dei diritti e delle denunce contro la società italiana, quando è proprio al suo interno che avvengono abusi: a detta di tantissimi, qualsiasi giovane ragazza o ragazzo che prova a fare carriera in quel mondo, le avances e le profferte sessuali si sprecano e solo pochissimi riescono a far carriera senza dover cedere.

Questo ci aspetteremmo, non una generica denuncia sociale contro terzi, bensì una denuncia che coinvolga dall’interno il mondo dello spettacolo, dove tutti, a partire dalle donne, sono sotto ricatto se vogliono emergere.

Da lavoratori interni della televisione ci è stato segnalato che anche uomini debbono sottostare a ricatti affettivi e sessuali di altri uomini, per far parte di una cordata che porti a particine e parti per apparire in video.

Se non ora, quando è lecito aspettarsi denunce sui palchi di spettacoli come Sanremo?

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:57 pm | | Default

Descrizione della Pala di Santa Chiara (1283, Maestro di Santa Chiara) per una visita, nella basilica di Santa Chiara del Protomonastero di Santa Chiara in Assisi

Riprendiamo dal sito ufficiale del protomonastero di Santa Chiara in Assisi (https://www.assisisantachiara.it/la-basilica/la-tavola-di-s-chiara/) un articolo dedicato alla Pala di Santa Chiara. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Francesco d’Assisi. Cfr., in particolare, La povertà e la clausura di santa Chiara e il suo coinvolgimento nel mondo. Chiara, Federico II e il regno di Boemia, Appunti di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

La Pala di Santa Chiara, dai più ritenuta opera del Maestro di Santa Chiara, fu eseguita nel 1283 sotto il pontificato di Papa Martino IV, come recita un’iscrizione dipinta ai piedi della Santa. Le dimensioni del pannello di formato rettangolare sono di cm 276 x 163.

Il campo pittorico dell’icona è diviso in tre campi da due colonnine dipinte dai quali partono archi ogivali; i triangoli superstiti sono occupati da due angeli in volo.

L’effetto ricercato fa pensare ad un tabernacolo a sportelli, con il campo centrale occupato da una finta sculture lignea policroma e le due ali istoriate con la vita della Santa; i piedi di santa Chiara poggiano su una specie di basamento dipinto sopra il fondo dorato, l’aureola copre parzialmente l’arco dando l’illusione di essere posta davanti, cioè in rilievo; le storie del registro superiore hanno un profilo simmetrico quasi si trattasse di due sportelli aperti di forma centinata.

Nei due fianchi sono dipinti otto episodi della vita di S. Chiara. La narrazione si svolge in senso antiorario, partendo dal basso a sinistra:

1/ il giorno della domenica delle Palme, mentre tutte le altre fanciulle si affrettano verso l’altare a prendere la palma, Chiara per un atto di umiltà se ne resta al suo posto: ed ecco che il vescovo scende dall’altare e le pone la palma tra le mani;

2/ la notte seguente Chiara fugge dalla casa paterna e raggiunge Santa Maria della Porziuncola accompagnata da alcune amiche, qui è accolta da Francesco e dai suoi frati che pregano al lume delle torce;

3/ inginocchiata davanti all’altare Chiara depone le sue ricche vesti e indossa un rude saio, Francesco le taglia i capelli;

4/ lo zio di Chiara, Monaldo, insieme ad altri familiari, cerca di portare via la fanciulla dal monastero di S. Paolo delle benedettine, dove era stata condotta da Francesco: Chiara si aggrappa alle tovaglie dell’altare e, toltasi il velo, mostra il capo rasato;

5/ mentre Chiara si trovava nel monastero di Sant’Angelo di Panzo fu raggiunta dalla sorella Agnese, i parenti furenti tentarono di riportarla a casa ma alle preghiere di Chiara il suo corpo divenne più pesante del piombo e lo zio Monaldo che aveva alzato il pugno per percuoterla fortemente non riuscì più ad abbassare il braccio che a lungo gli rimase paralizzato; l’episodio ha una sua appendice con Francesco che taglia i capelli ad Agnese alla presenza di Chiara;

6/ una volta che nel monastero di San Damiano vi era un solo pane, Chiara ordinò alla dispensiera di mandarne una parte ai frati e di tagliare la metà serbata in cinquanta fette, che furono distribuite alle suore nel refettorio;

7/ giacendo Chiara sul letto di morte, una suora ebbe in visione la Regina del Cielo entrare nella stanza assieme ad una schiera di vergini incoronate e rivestirne il corpo con un panno di meravigliosa bellezza;

8/ sparsasi la notizia della morte di Chiara una gran folla uscì dalla città verso San Damiano, i funerali furono celebrati dal Pontefice Innocenzo IV e dai cardinali della Curia.

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:53 pm | | Default

1/ Simon Mago e San Pietro, in Samaria e a Roma, con il suo volo e la sua caduta ai Fori. Breve nota di Andrea Lonardo 2/ Voce Simon Mago dall’Enciclopedia Italiana della Treccani (1936)

1/ Simon Mago e San Pietro, in Samaria e a Roma, con il suo volo e la sua caduta ai Fori. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura e Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

Parlare di Simon Mago e di Simon Pietro vuol dire parlare di 2 incontri che si illuminano a vicenda – fra l’altro tutti e due si chiamano Simone!

In Samaria, come raccontano gli Atti degli Apostoli, Simone, che praticava la magia, vede che san Pietro dona lo Spirito: allora offre denaro per avere lo stesso potere. È l’origine del termine “simonia”, il grande peccato che è credere di poter ottenere i doni di Dio - il sacerdozio ad esempio – a pagamento, per denaro. Invece esiste solo la gratuità, la grazia di Dio che opera gratis, liberamente!

Il secondo incontro fra i due è, invece, a Roma, nei Fori, dove fonti non bibliche e discutibili, situano un nuovo incontro di Pietro con Simon Mago che vuole esercitare la sua magia dinanzi a Nerone, per farsi riconoscere come divinità. Si alza in volo magicamente, ma poi viene fatto ricadere in terra da Simon Pietro, un po’ come Icaro!

I due episodi affrontano la grande questione del mondo magico, se la magia che veniva e viene praticata, possa avere un valore.

La risposta di Pietro è chiara: no, la magia è falsa e pericola.

Falsa perché il mondo non è determinato da forze occulte, meccaniche o incontrollate. Si pensi all’oroscopo: gli antichi credevano che si potesse vaticinare il futuro dalle costellazioni o dal volo degli uccelli. No, afferma la chiesa, chi crede nei segni zodiacali è pre-galileiano, è aristotelico-tolemaico, crede ancora che le stelle girino intorno alla terra (per usare un linguaggio moderno). La vita non è già determinata, ma è un incontro fra l’uomo libero e il Dio libero.

Pericolosa, perché dimentica Cristo e si mette in balia dei demoni. I demoni esistono, vogliono il male di tutti, ma sono solo creature, sono angeli decaduti. Non ci si deve appellare a loro, perché essi fingeranno di volere il bene in maniera magica, mentre da veri angeli, dovrebbero invece chiedere di diventare cristiani e di fidarsi di Cristo.

La vita di Simon Mago “precipita”, cioè termina nel male, perché dà credito a spiriti del male, invece che confidare nello Spirito del Figlio, quello Spirito che è adorato dagli angeli del cielo e che governa veramente il mondo con la sua provvidenza.

Cristo è più forte degli spiriti e della loro magia, Cristo è il Signore degli angeli buoni.

2/ Voce Simon Mago dall’Enciclopedia Italiana della Treccani (1936)

Riprendiamo sul nostro sito la voce Simon Mago dall’Enciclopedia Italiana della Treccani (1936), disponibile on-line che la riporta senza indicazione di autore. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura e Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

Di questo importante personaggio dei primissimi tempi cristiani abbiamo notizie sia dal Nuovo Testamento, sia da antichi scrittori cristiani. Secondo Atti (VIII, 9-24), S. risiedeva nella città di Samaria allorché, poco dopo l'anno 37, vi giunse da Gerusalemme il diacono Filippo a predicarvi la dottrina di Cristo; nella città S. godeva di grande autorità, perché con le sue arti magiche aveva guadagnato moltissimi seguaci. Udita la predicazione di Filippo, S. si battezzò, mosso anche dai prodigi che vedeva operare da lui; quando più tardi gli apostoli Pietro e Giovanni vennero a Samaria per confermare i neofiti, vedendo S. che costoro "ricevevano lo Spirito Santo" per mezzo dell'imposizione delle mani degli apostoli, offrì a questi denaro per aver la virtù di fare altrettanto. Respinto da Pietro e invitato a far penitenza, S. si raccomandò agli apostoli affinché fosse distornata da lui ogni punizione. Né il Nuovo Testamento accenna più a lui.

Dall'antica letteratura cristiana riceviamo molte altre notizie. Secondo Giustino era nativo di Gitta, che era una borgata vicino a Nabulus, patria di Giustino. Lo stesso Giustino riferisce che S. venne a Roma ai tempi di Claudio, vi guadagnò molti seguaci con le sue arti magiche, e gli fu perfino innalzata una statua nell'Isola Tiberina con l'iscrizione Simoni deo sancto (sennonchè questa ultima notizia è certamente falsa, perché nel 1574 si ritrovò effettivamente nell'Isola Tiberina una base, la quale però portava l'iscrizione Semoni Sanco deo fidio sacrum, ecc., ossia era dedicata al dio sabino Semo Sancus); inoltre S. aveva con sé una certa Elena di Tiro, donna già di mala vita, che egli quale "Grande Potenza di Dio" aveva liberato come "Prima Intelligenza" (πρώῖη ἔννοια). Secondo Ireneo l'autodivinizzazione di S. lo portava ad affermare di essere apparso ai Giudei come "Figlio" (di Dio), a Samaria come "Padre", e ai pagani come "Spirito Santo". Per l'ulteriore esposizione del sistema gnostico di S., v. gnosticismo, XVII, p. 477.

Altre notizie su S. sono date da Ippolito (Philosophumena, VI, 7-20) ma sono prive di fondamento storico. Anche più fantastiche sono le informazioni degli apocrifi Atti di Pietro, ov'è riportata la leggenda della sfida lanciata da S. in Roma a Pietro e Paolo: S., per convincere Nerone, si offre ad ascendere verso il cielo nel Foro Romano, e con le sue arti magiche riesce a volare; ma le preghiere dei due apostoli annullano l'efficacia della sua magia, egli precipita, si sfracella e poco dopo muore disperato.

Dall'episodio di S. che tenta di comperare da S. Pietro poteri e grazie spirituali è derivato il termine "simonia" (v.).

Bibl.: Oltre alle opere citate a gnosticismo e a clemente i papa, cfr. P. Lugano, Le memorie leggendarie di S. M. e della sua volata, in Nuovo Bull. di archeol. crist., 1900, pp. 29-66; F. Savio, S. Giustino martire e l'apoteosi di S. M., in Civiltà catt., 1910, pp. 532, 673; H. Dannenbauer, Die römische Petruslegende, in Histor. Zeitschrift, 1931, pp. 239-62.

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:44 pm | | Default

Nel ’68, un attacco a Manzoni e la risposta di in ragazzo. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Storia contemporanea.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

Mi racconta un arcivescovo e cardinale di un episodio di cui fu testimone nel ‘68.

Si dibatteva di letteratura in un’aula accademica ed un professore dichiarò che Manzoni era superato.

Un giovane si alzò dal fondo e domandò: «Da chi?».

Il professore cercò di rispondere, farfugliò qualche risposta non troppo precisa, si alzò e se ne andò.

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:41 pm | | Default

Ancora sulla lettura dei nostri bambini e ragazzi: di una bambina che ha letto tutto Harry Potter in quarta elementare. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

Incontro una ragazza di V elementare che ha sotto il braccio un volume della saga di Harry Potter.

Le chiedo a che punto è arrivata nella lettura.

Mi risponde che lo ha già letto tutto in IV elementare.

Le chiedo più precisamente.

Mi risponde che ha iniziato a febbraio della IV elementare e ha finito tutti i sette volumi ad agosto dello stesso anno.

Lo sta rileggendo ora per la terza volta - è in seconda media.

Ancora una volta mi pongo in silenzio la domanda: “Ma come è possibile che non ci accorgiamo che i migliori dei nostri bambini leggono, mentre noi proponiamo loro, in catechesi e a scuola, delle attività di una banalità assurda, quasi fossero dei deficienti?”

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:40 pm | | Default

Tommaso a 29 anni è prof al liceo classico: “Inutili le lingue classiche? Hanno ragione, ma danno sostanza a tutto il resto”. Il lento declino del Liceo Classico risponde ad un nuovo modo di intendere l’istruzione: famiglie e studenti chiedono un riscontro pratico - spendibile da subito - al termine degli studi. Tommaso Pucci, prof di greco e latino a 29 anni, naviga controcorrente e rivendica con forza il valore del percorso liceale, di Federico Bianchetti

Riprendiamo dal sito skuola.net un’intervista di Federico Bianchetti pubblicata il 9/2/2023 (https://www.skuola.net/scuola/tommaso-29-anni-prof-liceo-classico-inutili-lingue-classiche.html). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Educazione, scuola e cultura. Cfr. in particolare Classico. Storia di come un concetto elitario si fa universale, dal sito Una parola al giorno.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

“Il greco e il latino sono lingue morte”. Uno stereotipo che nel corso degli anni ha trovato terreno sempre più fertile, poggiando le proprie radici nella convinzione che le lingue antiche, e di conseguenza il Liceo Classico, non offrano più alcuna competenza spendibile immediatamente nel mondo del lavoro ai giovani.

Lo confermano gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione: solo il 6% lo ha scelto per il prossimo anno scolastico. Un cambio di paradigma che vede il Classico scivolare in fondo alla classifica dei percorsi.

Tutto ciò si tramuta in una sfida quotidiana per gli stessi insegnanti di questo indirizzo liceale che provano, al massimo delle loro possibilità, a lasciare un “segno” sulla formazione dei giovani studenti. È questa la missione che si è imposto Tommaso Pucci, che a soli 29 anni è docente di latino e greco dell’Istituto Paritario “Santa Maria” di Roma.

Un percorso controcorrente, il suo: non solo ha scelto questa branca del sapere per sé, ma ha scelto di metterla a disposizione, ogni giorno in classe, anche delle nuove generazioni. Perché, secondo lui, il liceo Classico non è per nulla obsoleto. Anche se, ammette, le lingue antiche possono essere considerate “inutili” se dobbiamo cercare a tutti i costi il modo in cui spenderle nel pratico. Ma c’è anche tanto di più, secondo il giovanissimo professore. E lo ha spiegato a Skuola.net in occasione della Giornata Internazionale della Lingua Greca.

Iniziamo dagli stereotipi più “classici”: il greco è davvero una “lingua morta”? E il liceo classico è davvero un liceo troppo ancorato al passato?
“Se guardiamo alla definizione strettamente linguistica di 'lingua morta' possiamo pensare che sia così: non esiste nessun parlante attualmente vivo che si esprima in greco antico. Va considerato però il legame diretto con il greco moderno. Perciò, anche nei termini della linguistica, affermare che il greco sia una lingua morta è inesatto. Ma forse il punto è un altro: vale o no la pena studiarlo e perché? Che sia morta o meno è irrilevante”.

“Certo, se continuiamo a guardare alla classicità come a un negozio di antiquariato cui essere devoti per il nome stesso che porta, a riservarne l'accesso solo ad una selezionata élite che accetta questa cieca devozione, credo che abbia ragione chi ritiene che il liceo classico sia troppo ancorato al passato. O forse poco ancorato al presente.”

Alla luce degli ultimi dati sulle iscrizioni al liceo classico, sempre più in discesa, pensi che l’insegnamento del greco e del latino ha bisogno di evolversi per trovare spazio nella didattica del futuro?
“Sicuramente è indispensabile trovare le strategie più adatte anche dal punto di vista didattico perché si possa rispondere alle nuove sfide del presente. Credo però che il problema delle iscrizioni vada oltre le mere strategie.”

“Forse dovremmo ripartire dai fondamenti, vale a dire dal fatto che la didattica è un mezzo, non il fine. Ogni strumento, tradizionale o nuovo che sia, funziona nella misura in cui è chiaro lo scopo. E lo scopo è la relazione educativa, che è la vera sfida della scuola. Anche su questo i testi antichi hanno molto da dire: come ho imparato dalla mia professoressa di greco, che citava Plutarco: "La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come legna da ardere, ha bisogno solo di una scintilla che la accenda, che vi infonda l'impulso alla ricerca e il desiderio della verità". Poi il resto viene di conseguenza, anche stare seduti davanti a una versione per qualche ora, sfogliando il dizionario fino a farsi venire le vesciche alle dita. Esagero, ovviamente, ma sono convinto che imparare a faticare è questione di motivazione, non solo di strategie. Come insegnanti dovremmo ripartire da qui, da questa domanda che tra l'altro riguarda anche noi, il nostro lavoro, la nostra fatica quotidiana.”

La tua è stata una scelta controcorrente: fare l’insegnante di lingue antiche al classico quando sembra che i giovani siano sempre più disamorati di questo liceo. Quali sono state le tue motivazioni?
“È una sfida, non posso negarlo. In senso strettamente didattico è raro trovare compiacimento dei risultati raggiunti, quando si insegnano discipline come latino e greco. Quando incontro per la prima volta una classe, cerco sempre di immedesimarmi nella domanda che tutti gli studenti in modo più o meno esplicito si pongono: “Chi te l'ha fatto fare?”. E quindi, prima ancora che se lo chiedano, cerco di presentarmi attraverso la storia che mi ha condotto ad essere lì con loro.

Nelle scelte di vita sono gli incontri ad essere decisivi. E per me lo sono stati: sicuramente la passione delle mie insegnanti di greco al liceo è stata importante, ma ancora più determinante è stato aver incontrato qualcuno che vivesse la sua vocazione di insegnante non solo con la passione per la letteratura, ma anche con il gusto di viverla coi giovani come un'esperienza attuale.

Era il 2013, mi ero appena diplomato, avevo deciso di iniziare a studiare filosofia, ma avevo grandi incognite sul mio presente e sul mio futuro. Mi sono ritrovato a organizzare insieme ad altri amici le conferenze sulla Divina Commedia tenute dal prof. Franco Nembrini: in quel momento ho percepito un'attrattiva verso qualcosa di nuovo, che però risuonava in me come se già mi appartenesse. È lì che ho scoperto e deciso di essere un insegnante”

Cosa diresti ad uno studente che reputa “inutili” le lingue classiche?
“Gli direi che ha ragione. Non c'è cosa più inutile, forse. Ed è un'altra delle prime provocazioni che lancio alle classi che mi vengono affidate. Non se ne può più di sentire certi slogan. "Eh, ma il classico ti apre la mente…", "Guarda che se studi le lingue classiche, capirai l'etimologia di tante parole", "Chi studia al classico, può prendere qualsiasi facoltà universitaria". Per carità, non che non ci sia un fondo di verità, è evidente.

Condivido quanto scritto di recente da Gramellini e l'immagine della cyclette. Sarà che a me non basta limitarmi a comprendere che la fatica che sto facendo ora darà i frutti poi, come se dovessimo rimandare sempre il tempo del godimento a un momento che non è mai oggi. È bella anche la strada, mica solo la meta. D'altra parte ravviso in questi espedienti il tentativo più o meno grossolano di trovare un'utilità laddove non c'è, almeno nei termini in cui la s'intende di solito, come se per fare un percorso di liceo classico si debba necessariamente trovare qualcosa di appetibile, di immediatamente spendibile nel pratico.

Il liceo classico scommette proprio sul percorso inverso. Credo che la nostra proposta sia per un percorso che scommette in un certo senso sul tempo inutile, ma che è quello che può dare sostanza a tutto il resto. Non dico per trovare risposte esistenzialmente esaurienti, ma almeno per aprire un certo tipo di domande, questo sì. E non è poco.”

In un mondo del lavoro che punta sempre di più sulle STEM come può collocarsi uno studente che sceglie gli studi umanistici? C’è ancora spazio per chi sceglie questo tipo di formazione?
“Se parliamo di percorso liceale, sono convinto anch'io che il classico apra qualsiasi strada. La scuola dovrebbe aiutare appunto a trovare la propria, qualsiasi sia la formazione ricevuta. Se parliamo invece degli studi universitari, la questione è più complessa. Sicuramente, in un'epoca in cui il mondo del lavoro sta cambiando, ad eccezione di alcune facoltà più specialistiche, la scelta universitaria non determina a priori il percorso lavorativo.

È plausibile che chi studia oggi, possa ritrovarsi domani a fare un lavoro che ancora non esiste. Improbabile dirlo per un giovane che intraprende gli studi di medicina, plausibile invece per chi opta per altro tipo di studi, come quelli umanistici, per l'appunto.”

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:36 pm | | Default

A Benedetto XVI piaceva Guareschi (e pure don Matteo), di Samuele Pinna

Riprendiamo dal sito breviarium.eu brani da un articolo di Samuele Pinna pubblicato l’11/2/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Educazione e media.

Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2023)

N.B. de Gli scritti
È meraviglioso ricordare come pure papa Francesco annoveri le storie di Guareschi, con i suoi Peppone e don Camillo, fra i racconti di “santi” da riproporre in Italia, come ha affermato nell’importantissimo discorso al Convegno di Firenze della chiesa italiana (cfr. su questo Un cristianesimo “popolare”. La chiara proposta di papa Francesco alla Chiesa italiana. Breve nota di Andrea Lonardo).

Nel libro da poco dato alle stampe da Georg Gänswein con Saverio Gaeta, Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI, vi sono due curiosità che non potevano non attirare la mia attenzione e che mostrano tutta la bella umanità di Joseph Ratzinger. Racconta, infatti, il suo segretario che al Monastero Mater Ecclesiae di domenica o nelle festività liturgiche

il pomeriggio era dedicato all’attività culturale: nei primi tempi ascoltavamo opere liriche e concerti in cd, mentre negli ultimi anni li abbiamo visti in dvd. Al termine, una delle Memores leggeva ad alta voce un libro, e una delle scelte predilette da Benedetto era la serie di racconti di Giovannino Guareschi su don Camillo e Peppone[1].

Se la notizia non è un inedito, perché Benedetto XVI aveva già dichiarato come a lui piacesse don Camillo e Peppone[2], tuttavia ricorda i suoi gusti letterari. Nella sua delicatezza, è poi affascinante scoprire come il Papa emerito, tra i suoi mille interessi, si facesse leggere proprio le pagine di Mondo piccolo (tale il “titolo” delle storie guareschiane) con i due protagonisti da tutti conosciuti: don Camillo e Peppone Bottazzi, il sindaco comunista del paese. Forse, perché – scrivevo in un mio saggio – «il “segreto” di questi racconti è, fuor di dubbio, l’uso dell’umorismo in chiave buona»[3]. D’altronde, 

tra i santi – afferma Paolo Gulisano –, grande esempio di questa virtù è stato san Francesco di Sales, che nella sua Filotea precisava le caratteristiche di un buon umorismo cristiano, che in primo luogo deve allietare il cuore e non offendere nessuno. […] La derisione e la beffa infatti si fondano sulla presunzione di sé e sul disprezzo per gli altri, e questo è un peccato molto grave. Cosa molto diversa sono le battute scherzose tra amici, che si fanno in allegria e gioia serena[4].

Se l’umorismo non deve mai perdere di vista il bene, allo stesso tempo, tuttavia, è finalizzato a chiarire i concetti in gioco. L’umorismo – spiega, infatti, lo stesso Guareschi – «è il nemico dichiarato della retorica perché, mentre la retorica gonfia e impennacchia ogni vicenda, l’umorismo la sgonfia e la disadorna, riducendola con una critica spietata all’osso»[5]. Non solo, è anche semplificazione, perché, «costretto a ridurre ogni cosa all’osso, riesce (più o meno bene) a fare lunghi discorsi con pochissime parole. E dice senza dire. E per dire si serve della forma più facile: la storiella»[6].

[…]

Secondo Giacomo Biffi, il quale mi ha confidato come anche lui ogni giorno rileggesse qualche pagina vergata dallo novellista della Bassa, il modo di elaborare le sue narrazioni ha dei tratti geniali: 

La scrittura di Guareschi – anzi sarebbe forse più pertinente dire il suo “discorrere” – più che a scegliere le parole con arte o a enunciare in modo rigoroso dei concetti, mira ad arrivare direttamente alle cose[7].

La validità di questo giudizio è confermata da un altro scrittore, Giuseppe Marotta de L’oro di Napoli, al quale Giovannino aveva presentato alcuni tra i primi racconti (quando non esisteva ancora Mondo piccolo). La risposta, presente in una missiva, può essere sintetizzata più o meno in questi termini:

“Continua così, Giovannino, parla della tua terra, della tua gente, perché tu creerai qualcosa di immortale”; questo nel ’46… “Tu non allinei parole, ma cose”, e ancora: “Tieni forte il tuo umorismo perché, quando stai per scivolare nel patetico, con un colpo d’ala ti tiri su, tu trasformi la smorfia in un sorriso”[8].

Un’altra curiosità mi ha colpito: monsignor Georg racconta che di domenica, talvolta vedeva con il Santo Padre un film d’epoca, «ma gli piacevano anche gli episodi di don Matteo»[9]. Del resto – rilevavo nel mio libro sul famoso attore –, si può rimanere ammaliati dagli episodi che uniscono a un racconto giallo alcune vicissitudini dei protagonisti nelle varie serie che si sono succedute:

Questo perché Don Matteo è una fiaba dei tempi moderni, dove si sprigionano in un condensato molti valori positivi. […] La caratteristica, però, probabilmente più affascinante di don Matteo si mostra quando, solitamente a fine puntata, fa prendere coscienza del male e (addirittura) riesce a convertire le persone che per vari motivi hanno commesso qualche delitto. Ascoltando attentamente le sue parole, i dialoghi sono sempre edificanti e azzeccati, studiati e pronunciati con cura e, sovente, con commozione. Qui Terence primeggia con i suoi occhi di un azzurro terso e lo sguardo furbo alla Trinità grazie a quella bellissima storia narrata e interpretata magistralmente[10].

[…]

sono solo due piccole curiosità, che però mi fanno ancora dire come Benedetto XVI mi abbia insegnato, con squisita consonanza, che la compagnia di Cristo non toglie nulla e dona largamente: basta posare lo sguardo sulla creazione con gli occhi misericordiosi del Creatore, affinché il nostro “decidere sul da farsi” corrisponda sempre più in modo perfetto al Suo. E, magari nel paradosso, anche guardando un lungometraggio o leggendo un libro, «gustare il sapore buono della vita, la quale non si gioca solo nel tempo presente perché chiamata a ristare nell’eternità»[11].

Note al testo

[1] G. Gänswein – S. Gaeta, Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI, Piemme, Milano 2023, p. 316.

[2] Cfr. Benedetto XVI (J. Ratzinger) – P. Seewald, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 30.

[3] S. Pinna, A dottrina con Don Camillo. I fondamenti dell’agire umano, Introduzione di D. Riserbato, Glossario a cura di F. Favero, Cantagalli, Siena 2022, p. 33.

[4] P. Gulisano, Presentazione, in S. Pinna, Dalle lettere di don Augusto. Come rimanere cattolici nonostante tutto, Postfazione di E. Beruschi, Edizioni Ares, Milano 2020, pp. 5-9: pp. 6-7.

[5] G. Guareschi, L’umorismo, a cura di A. Paganini, L’ora d’oro, Poschiavo 2015, p. 105.

[6] Ibid., p. 107.

[7] G. Biffi, Giovanni Guareschi ovvero La teologia di Peppone, in Id., Pinocchio, Peppone, l’Anticristo e altre divagazioni, Cantagalli, Siena 2005, pp. 81-107: p. 83.

[8] S. Pinna – D. Riserbato, Guareschi: Don Camillo e Peppone. Conversazione con Alberto Guareschi, in Idd., Filastrocche e canarini. Il mondo letterario di Giacomo Biffi, Presentazione di Pinocchio e Postfazione di M. M. Zuppi, Cantagalli, Siena 2019, p. 95.

[9] G. Gänswein – S. Gaeta, Nient’altro che la verità, p. 104.

[10] S. Pinna, Il suo nome è Terence Hill. Una vita da film, Àncora, Milano 2021, p. 143.

[11] Id. (ed.), Essere Chiesa nello Spirito. Interventi di Francesco Pinna, Teresa Gornati, Samuele Pinna, Federica Favero, Presentazione del cardinal R. Sarah, IF – Press, Roma 2022, p. 342.

Redazione de Gliscritti | Domenica 12 Febbraio 2023 - 10:31 pm | | Default

Ulisse o il viaggio interminato [Delle diverse interpretazione del mito di Ulisse], di Giulia Regoliosi

Riprendiamo sul nostro sito un articolo pubblicato su Il nuovo Areopago 1/3 (1982), pp. 48-62. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione I classici greci e latini.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2023)

È andato sempre crescendo, in questi ultimi decenni, l’interesse per il folklore: e in particolare nello studio della mitologia si è cercata molto di più l'origine del mito, la sua storia pre- ed extraletteraria, la sua connessione col rito e il costume, che non la creazione artistica, il ripensamento che ogni autore ed ogni epoca ha operato su una vicenda preesistente, sul già dato.

Eppure, se l’antropologia e la psicanalisi hanno indagato con risultati d’indubbio fascino sulla somiglianza fra miti diversi, lontani nel tempo e nello spazio, altrettanto fascino ha per noi la diversità entro lo stesso mito.

Anche quando cessa di essere storia religiosa, il mito non può essere manipolato casualmente: è patrimonio comune, appartiene prima ad un popolo poi all’umanità intera, anche perché fissato in archetipi letterari generalmente autorevoli, a volte considerati per secoli come maestri.

Le varianti che l’intreccio acquista possono anche essere moltissime: ma al senso ultimo del mito, al volto del personaggio, l’autore, specie l’autore antico, si accosta con attenzione e rispetto, cercando, più che di modificarlo, di comprenderlo e, attraverso di esso, di comprendere la propria realtà.

Così la maggior parte dei personaggi mitici sono proceduti sostanzialmente costanti attraverso le riletture dei secoli: altri, i meno, hanno subito grossi mutamenti. Fra questi il più evidente è certo Ulisse.

Già nel corso della letteratura greca la valutazione del personaggio è fortemente contraddittoria; varia, mutevole e poliedrica è la figura di Ulisse nella tradizione occidentale. È importante rilevarlo, giacché l’immagine che se ne ha abitualmente, in fondo, non coincide con nessuno degli Ulissi effettivamente creati, ma è una curiosa commistione di vaghi ricordi omerici e danteschi.

Capire perché proprio questo personaggio, fra tutti, si sia così mutato, capire il senso dei diversi ricordi omerici e danteschi. Capire perché proprio questo personaggio, fra tutti, si sia cosi mutato, capire il senso dei diversi Ulissi, può voler dire invece capire meglio i poeti e le epoche che li hanno espressi, e la loro visione dell’uomo. È appena il caso di dire che una ricerca di tale portata richiederebbe un lavoro di ben altra ampiezza: i giudizi che tentiamo sono offerti all’approfondimento critico del lettore[1].

Segno di contraddizione

L’Ulisse-Odisseo dei poemi omerici, che per comodità affronteremo in blocco senza porre problemi sull'unità d’autore, appare caratterizzato da tre ordini di appellativi, che pongono in rilievo tre fondamentali caratteristiche del personaggio: l’intelligenza, nei suoi diversi aspetti di ingegnosità, astuzia, capacità di comprendere situazioni e persone, di far tesoro dell’esperienza; una complessa qualità espressa dalla radice tla- coi suoi molteplici derivati, e che indica sia la sofferenza, sia la capacità di sopportazione, sia la capacità di attendere il momento giusto per agire, sia l’ardimento e il coraggio; infine l’abilità militare[2].

Il terzo ordine di appellativi mostra come Odisseo sia pienamente inserito fra gli eroi omerici, in cui la capacità di usare le armi, la forza, perfino la spietatezza verso il nemico abbattuto sono segni distintivi e notazioni non solo usuali, ma legittime e positive.

Gli altri due ordini sono più tipicamente suoi, e lo contraddistinguono: su questi in particolare vale allora la pena di soffermarsi.

Quale valore dà Omero all’astuzia, ad esempio, o alla pazienza-coraggio? Intravede in queste caratteristiche delle luci e delle ombre, o l’immagine di esse, e quindi del personaggio, è chiaramente positiva?

Un’analisi puntuale dei due poemi ci dà una risposta netta. In entrambi il giudizio che gli altri personaggi danno di Odisseo, la coscienza che egli ha di sé, il suo comportamento nelle diverse situazioni sono univocamente positivi: nei rari casi in cui non lo siano, interviene subito un cambiamento o una rettifica.

Odisseo nell’Iliade è stimato da tutti i capi, e dagli stessi nemici; gli sono affidati tutti gli incarichi diplomatici e difficili imprese belliche; è costantemente presente sul campo, spesso in posizione di autorevolezza; ha la stima e l’appoggio di Atena, dea dell’intelligenza; ha una sicura consapevolezza del proprio valore, che lo porta sia a rintuzzare prontamente accuse infondate (ricevendo le scuse di chi le aveva avanzate), sia a rifiutare lodi superflue[3].

Nell’Odissea, naturalmente, il ritratto si approfondisce, ma le notazioni presenti nell’Iliade vengono più volte riprese: il giudizio espresso su di lui dai protagonisti dell’Iliade sopravvissuti, Nestore, Menelao, Elena, ribadisce positivamente la sua abilità nell’inganno e la sua esperienza molteplice.

Emerge anche un giudizio su Odisseo come uomo privato e come signore: sia la madre (evocata dai morti), sia lo schiavo Eumeo lo ricordano con parole affettuose, sottolineandone le doti di umanità. Nell’incontro coi Feaci egli rivela doti di fine psicologo e, in particolare nelle parole di augurio a Nausicaa, una profonda visione del matrimonio come comunione di spirito[4].

Ma soprattutto su tre caratteristiche ci soffermiamo, poiché richiedono una precisazione.

La prima, particolarmente importante perché gravida di sviluppi futuri, è la sua curiositas, il suo desiderio di conoscenza. Due volte, nell’episodio di Polifemo e in quello di Circe, Odisseo mette a repentaglio la sua persona e quella dei compagni per voler vedere troppo: ma non c’é in questo una concezione di sfida o di rischio consapevolmente portato all’eccesso. I due episodi, insieme coi consigli di Circe, arricchiranno la sua esperienza: non si ripeteranno.

Quando le sirene lo tenteranno dicendogli “Noi conosciamo tutto ciò che succede sull’alma terra”, Odisseo si sarà prudentemente cautelato dal rischio di cedere legandosi all’albero della nave: vuole ascoltare, mentre ai compagni si sono chiuse le orecchie, ma non allontanarsi in una via pericolosa, che lo svii dalla sua meta fondamentale, dal suo costante e netto desiderio: il ritorno in patria, che neppure l’offerta d’immortalità potrebbe sostituire. Tutte le altre azioni di eccesso, l’apertura dell’otre dei venti, la distruzione delle mandrie del Sole, sono compiute dai compagni[5].

La seconda caratteristica, che gli viene rimproverata sia da Calipso sia da Atena, è la diffidenza, che lo porta a non fidarsi e a mentire su di sé anche quando non sarebbe strettamente necessario. Ma questa tortuosità della sua mente è un habitus o nasce da una dolorosa esperienza?

L’episodio di Polifemo, che precede cronologicamente ogni altro accenno a tale caratteristica, è illuminante: inizialmente le risposte di Odisseo al Ciclope sono sincere; solo dopo che Polifemo ha rivelato la sua crudeltà e l’ha insultato dandogli dell’ingenuo, l’eroe ricorre agli inganni. L’esperienza lo renderà poi prudente: non a caso la parola eidòs (“esperto”) ricorre sia nell’episodio in questione sia nel contesto del rimprovero d’Atena[6].

Finalmente abbiamo da approfondire l’idea di tlemosýne, “pazienza”. Come emerge chiaramente soprattutto ad Itaca, quando Odisseo freme di fronte alla spudoratezza delle ancelle e s’impone di calmarsi, si tratta dell’attesa vigile e forte che la situazione cambi, che sia tempo di agire con fermezza e coraggio: l’esplicito ricordo dell’episodio di Polifemo chiarisce una volta di più come tale episodio sia per più versi chiave di lettura del personaggio[7].

Un’ultima osservazione: alcuni tratti del mito di Odisseo, noti da autori piu tardi, sono in Omero appena accennati, e in contesti non sicuramente omerici[8], o mancano completamente: così la discendenza dal maligno Sisifo, la falsa accusa di tradimento architettata contro Palamede, l’inganno operato contro Filottete, il sacrilego furto da Troia della statua di Atena, la parte odiosa svolta nell’uccisione di Ifigenia, di Polissena o di Astianatte.

È impresa disperata chiedersi se Omero conoscesse questi episodi o per lo meno il legame di Odisseo con essi, così come chiedersi se l’immagine che il poeta ci dà del personaggio è sua innovazione o se tale gli era pervenuta dalle fonti preletterarie. Quel che è certo è l’assoluta positività dell’Odisseo omerico: intelligenza e azione sono in lui sempre nella giusta luce e misura.

Negli autori successivi questa visione va gradatamente deteriorandosi. È purtroppo impossibile, data la ristrettezza di spazio, effettuare un’analisi puntuale del cammino che il personaggio compie nella fase più creativa della cultura greca: nei poemi ciclici, nella lirica, nella tragedia. Possiamo solo accennare ad alcune tappe.

Nei poemi ciclici si va lentamente facendo strada l’idea di una partecipazione di Odisseo agli episodi negativi cui si era alluso più sopra: ma la sua responsabilità e soprattutto l’idea di una sua condanna morale non sono ancora chiaramente presenti[9].

In Pindaro gli accenni sono scarsi, ma significativi nella loro negatività: per un autore che considera come massimi valori la verità e la sapienza che solo gli dei possono dare, l’accusa ad Odisseo di frode, d’inferiorità nella sophía rispetto alla sua vittima Palamede, l’accusa ad Omero di aver usato della bellezza della poesia per coprire la verità della figura d’Odisseo, sono assai chiare: ciò che è dono divino non può essere manipolato dagli uomini ai propri fini[10].

Ma è soprattutto la tragedia che conferisce al personaggio connotazioni fortemente negative, trasformandolo in una figura maligna e sinistra. Anche se le tragedie di Eschilo dedicate a lui non sono pervenute, già la scelta degli episodi e gli scarsi frammenti sono abbastanza significativi[11].

Nell’Aiace di Sofocle Odisseo subisce un’evoluzione, una maturazione nel corso della tragedia: il vedere il proprio nemico, Aiace, prima colpito dagli dei in quella che per lui è la massima qualità umana, l’intelligenza (Aiace infatti impazzisce), poi suicida per il disonore, fa crescere anche Odisseo, che si rende conto della precarietà dell’uomo in tutti i suoi aspetti: donde il rispetto per il cadavere di Aiace e la proposta di seppellirlo; ma la maturazione presuppone uno stato iniziale differente: e il giudizio che il Coro dà di lui, la diffidenza con cui ascolta le sue parole fin quasi alla fine, fino a persuadersi della sua buona fede, sono chiari segni dell’immagine che ormai il personaggio aveva assunto[12].

Nel più tardo Filottete non c’è più alcun ripensamento: Odisseo è costantemente un consigliere d’inganni, che tenta di rendere simile a sé il giovane e generoso Neottolemo. Sapienza e pazienza-coraggio sono rivisitati: solo la menzogna permette di acquisire fama rispetto alla prima qualità; la seconda consiste nel rinunciare ai propri ideali[13]

Che cosa è avvenuto fra le due tragedie? La crisi della polis ateniese, crisi culturale e politica insieme, ha portato Sofocle ad un’amara meditazione sul valore e sul limite dell’uomo, testimoniata da tragedie intermedie come l’Antigone o l’Edipo re: l’intelligenza e l’agire umano sono precari, e possono porsi in contrasto con le leggi divine; l’uomo ha una dignità altissima ma nello stesso tempo è diviso fra il bene e il male, né e sempre chiaro e umanamente comprensibile quale sia il bene.

Solo l’Edipo a Colono, l’ultima tragedia, giungerà ad una conclusione di fede pura: il Filottete è la tragedia di una intelligenza volta verso il male, oltre che di un’azione di guerra, scritta durante una guerra, che non ha nulla d’eroico o di giustificante[14].

Nelle molte tragedie, intere o frammentarie, di Euripide in cui compare Odisseo, il personaggio è ormai nettamente delineato: appellativi che rovesciano volutamente quelli omerici, costante atteggiamento d’istigazione all’inganno e alla crudeltà; i consigli di pazienza sono, ironicamente, rivolti ai vinti. Molti critici hanno voluto vedere nell’Odisseo euripideo un riferimento a personaggi contemporanei, ad esempio ad Alcibiade nel frammentario Palamede: e questo è possibile.

Ma più al fondo c’é il dubbio del poeta sulla sophìa (“c’è una sapienza che non è sapienza” afferma nelle Baccanti, v. 395), il disgusto per la vita politica della polis divenuta sofisma e demagogia, un’ansia di conoscere la verità disillusa dall’incomprensibilità del reale[15].

Odisseo diviene così, per i poeti greci, un segno di contraddizione: valori saldamente positivi in Omero, in cui parole come métis (“intelligenza”) esprimono concetti univoci, termini come délos (“inganno”) non hanno in sé alcun giudizio negativo, i derivati dalla radice tla- nelle accezioni di “pazienza” e di “ardire” sono senza sfumature di eccesso, s’incrinano: il rischio della hybris, l’assenza del senso del limite, s’accentua nel pensiero e nell’azione dell’uomo. Non è Odisseo a modificarsi: sono le sue caratteristiche originarie, e sono anche la politica, la guerra, la filosofia a rivelarsi, all’uomo del VI e soprattutto del V secolo, una realtà precaria e intrisa di male[16]

Com’altrui piacque 

Dante ignorava la letteratura greca, e non ebbe quindi la possibilità di attingere direttamente la complessa evoluzione-involuzione del personaggio che siamo andati delineando. È probabile che non conoscesse neanche le tarde opere attribuite a Ditti e a Dares, rielaborazioni in chiave antiomerica del mito troiano e fonti del ciclo troiano medioevale[17].

Conobbe la figura di Ulisse e se ne formò un giudizio attraverso la mediazione degli autori latini, a loro volta ispirati chi a Omero chi ai poeti greci successivi: e se Cicerone, o Orazio, o Seneca accennano a Ulisse come modello di pazienza, temperanza e desiderio di conoscenza, Virgilio nell’Eneide dà un’immagine composita, fortemente negativa nel contesto della caduta di Troia (con riferimenti significativi ad episodi quali il processo di Palamede o il furto del Palladio, oltre naturalmente al cavallo di legno) o nell’accenno pieno d’avversione e timore all’isola d'Itaca; sfumata in compassione per l'esilio e di ammirazione per le imprese nelle parole dell’ex-compagno Achemenide; e Stazio, nell’Achilleide, ci presenta un Ulisse operatore d'inganni insieme con Diomede, ma pur sempre a vantaggio della spedizione greca, cui viene reso Achille.

Nel complesso la mentalità pratica, tendenzialmente pragmatica, romana rivaluta Ulisse: non a caso le parole più dure contro di lui sono messe da Virgilio in bocca al traditore Sinone, o da Ovidio in bocca al rivale Aiace, in quell’esercitazione retorica che è il dibattito fra Ulisse ed Aiace per il possesso delle armi d'Achille nelle Metamorfosi

In Ulisse la concreta morale romana, di stampo vuoi epicureo, vuoi stoico, vuoi accademico ma in chiave latina, trova, o sottolinea, qualità a lei vicine, vale a dire, come si accennava prima, la resistenza alla fatica, alla sventura e alle passioni, ed anche l’aver visto e conosciuto città e costumi di uomini; la durezza del guerriero, l’uso e l’abuso dell’astuzia, sembrano notazioni marginali, ormai d'obbligo ma secondarie; piuttosto traspare la simpatia per l'esule, visibile, oltre che nel passo virgiliano, in molti accenni nelle opere di Ovidio dall’esilio[18].

La fonte immediata dell’episodio dantesco della morte di Ulisse è un altro passo di Ovidio[19]: quando Enea giunge a Gaeta “che non aveva ancora il nome della nutrice”, incontra un compagno di Ulisse, Macareo, che gli narra l’episodio di Ulisse e di Circe e termina dicendo che la maga aveva preannunciato ai Greci, “pigri e tardi” per l’attesa, una lunga e pericolosa navigazione, per cui egli ha preferito fermarsi: e di Ulisse altro non dice e non sa.

Da questa vaga predizione di Circe, che sostituisce quella ben più circostanziata dell’Odissea, prende le mosse l’immaginazione dantesca: ché l’antichità ignorava un non ritorno di Ulisse in patria, o anche un suo definitivo ripartire; al massimo, traendo spunto dall’omerica predizione di Tiresia all’imbocco del regno dei morti, aveva pensato ad un viaggio cui Ulisse era costretto per placare la collera del dio del mare, talvolta anche ad altri brevi episodi di allontanamento da Itaca, ma sempre per motivi contingenti e non volontari, e conclusi comunque con un definitivo rientro in patria.

È interessante però notare come la profezia di Tiresia termini con l’ambiguità di ogni pagana profezia, parlando della morte di Ulisse “lontano dal mare” o, con diversa interpretazione, “venuta dal mare”, quasi ad aprire il campo a varianti del mito che in realtà nessun autore antico scelse di operare[20].

Dante ripercorre, illuminato dall’esperienza di fede, il cammino che la cultura greca aveva percorso “a tentoni”, secondo le parole di S. Paolo all’Areopago. La precarietà della ragione e dell’agire, il pericolo insito nelle più alte manifestazioni umane ‒ l’amore come l’impegno politico, la fedeltà al proprio signore come la scienza ‒ quando divengono criterio assoluto e totalizzante, stanno al fondo della concezione del poema, come vita vissuta, sofferta e giudicata. Eppure ragione e agire, amore e impegno, fedeltà e desiderio di conoscenza sono doni e dignità grandissimi, se liberamente inseriti in un disegno salvifico.

L’Ulisse di Dante nasce così, in una visione sintetica che supera ogni antica e moderna contraddizione, recupera tutto il positivo di una tradizione millenaria, pone in giusta luce e motiva il negativo e l’errore, elimina ogni anacronismo scegliendo come segno del limite un divieto già pagano: “acciò che l’uom più oltre non si metta”.

Non c’è contrasto fra il consigliere di frodi e l’uomo che considera suprema caratteristica dell’umanità il “seguir virtute e canoscenza”. L’intelligenza in tutte le sue accezioni e le sue valenze è posta da lui come il massimo valore, a cui tutto è sottomesso, la lealtà verso nemici e amici come il rispetto degli dei, gli affetti e i doveri familiari come i confini da non varcare[21]. Il Dante politico e uomo di corte, il Dante filosofo e ansioso del vero resta turbato:

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a cio ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi
... (vv. 19-22). 

La scoperta del vero, il superamento del limite, la realizzazione della suprema conoscenza, folle sogno di Ulisse che tutto gli ha sacrificato e tutto vi ha perduto, riusciranno a Dante: ma non da solo, né in “compagna picciola”.

Al Purgatorio, da cui, “com’altrui piacque”, era nato il turbine che aveva fermato Ulisse, segno dell’inconoscibilità all’uomo del mistero eterno, Dante giungerà per un piano di salvezza: e come primo gesto gli sarà chiesto di cingersi con una corona di sottomissione. Dante compie il gesto “com’altrui piacque”, ubbidendo all’inconoscibile che sceglie di rendersi conosciuto[22].

Si diceva prima che Dante ha ripercorso il cammino degli antichi greci. La meditazione che egli opera sulla ragione e sull’agire dell’uomo è simile in modo impressionante alla meditazione antica, ma la speranza, la certezza che anima il poeta cristiano agli antichi non è stata data.

Ulisse non aveva la possibilità di giungere dove Dante giunge: salvezza e saggezza (connesse per il greco, in cui sophron, “saggio”, significa “che ha salva la mente”) erano per lui il frenarsi, il fermarsi: del resto anche Virgilio, il dantesco simbolo della ragione, non accompagna Dante per tutto il viaggio e, in vita, è riuscito solamente a illuminare chi veniva dopo di lui, ma non ha conosciuto la via che la Rivelazione ha aperto[23].

Come e diversamente da Virgilio, Ulisse evoca la condizione dell’uomo precristiano, la cui massima saggezza era l’accettazione del limite, la cui massima colpa era il negarlo. Ma così Dante ci dà un personaggio costruito su fonti antiche ‒ ambigue e non originali ‒, ripensato nella problematica fondamentale, ma anche diverso e nuovo. L’Ulisse omerico ha resistito alle sirene, è tornato in patria, conosceva sé stesso: quello dantesco, consigliere d’inganni come nei poeti postomerici, è anche l’uomo teso alla suprema realizzazione di sé e per ciò stesso violatore dell’antica saggezza. Alla sintesi dell’antico si aggiunge una meditazione sull’uomo di sempre, e in particolare su sé stesso e sull’inquieta epoca che si apre davanti a lui.

Sei secoli dopo la creazione dantesca, presso il lager nazista di Buna Monowitz, vicino ad Auschwitz, si svolge una straordinaria lezione d’italiano, che usa come strumento didattico il Canto d’Ulisse[24]. Primo Levi, Häftling il cui nome è un numero, testimone e partecipe di una grandiosa opera di annientamento morale e fisico di chi una volta era un uomo, si trova, in una sorta di breve pausa, ad insegnare la propria lingua ad un deportato francese: e sceglie come testo i frammentari ricordi scolastici del passo dantesco. Rivissuta nel lager, la vicenda di Ulisse acquista significati nuovi: il divieto e il folle desiderio di superarlo sono esperienze tragicamente concrete, il “mare aperto” e la “montagna, bruna per la distanza” evocano ricordi lontani; ma la terzina della dignità dell’uomo è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.

E soprattutto il maestro-Häftling si ferma sconvolto sul “com’altrui piacque”, cercando disperatamente “prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più” di far capire all’altro “qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...”. La dignità dell’uomo e il mistero di Dio e della Sua volontà penetrano per questa via inconsueta, attraverso il pagano Ulisse, il cristiano Dante, l’ebreo Levi, fra gli ingranaggi di una macchina assurda e disumana.

Il consigliere 

La sintesi dantesca non si ripete. Gli autori che nella letteratura occidentale reinterpretano la figura di Ulisse ormai conosciuta negli originali greci o in traduzione colgono di questo complesso personaggio solo un aspetto: il consigliere, a volte negativo e sinistro, a volte saggio e costruttivo; l’esule roso dalla nostalgia; l’uomo dall’inesausto desiderio di conoscenza.

Un libero tentativo di sintesi nuova lo troviamo solo nella creazione joyciana di Leopold Bloom, in cui però i motivi omerici sono intrecciati a motivi ebraici e irlandesi, Ulisse a Parnell, e i puntuali riferimenti agli episodi dell’Odissea (peraltro soppressi dall’autore nell’edizione definitiva) coesistono con la lettura delle vicende di Bloom come momenti del rituale ebraico.

La saggezza borghese di Bloom, il suo desiderio di novità, i sogni d’impossibile evasione, i consigli dati all’inquieto Dedalus-Telemaco in cui rivive il figlioletto morto undicenne, sono compresenti nel “viaggio” di una giornata all’interno di Dublino: e alla fine Leopold-Ulisse rincasa, supera il desiderio di ripartire e sparire, supera bonariamente l’idea di vendicarsi della moglie infedele e si ferma; è Telemaco invece ad andarsene.

Le altre riletture del mito di Ulisse ‒ nella sua veste più tradizionale ‒ sono, come si diceva, ad una dimensione.

Dell’Ulisse consigliere scegliamo un solo esempio[25], certamente il più significativo e approfondito: il personaggio creato da Shakespeare in Troilo e Cressida.

L’opera, che fa parte delle black comedies o problem plays, è composita e di difficile lettura. Il motivo dell’amore e dell’infedeltà, l’elemento comico rappresentato dal mezzano Pandaro cui è affidata anche la battuta conclusiva, sono calati nell’impianto dell’Iliade, sfide, battaglie, ambascerie, morti di Patroclo e di Ettore, con una folla di personaggi e un ritmo che diviene, alla fine, convulso e dispersivo.

Su tutto si leva la voce dissacrante di Tersite, il fool, che ha per ognuno una parola di disprezzo e che così giudica l’intera vicenda: “sempre guerra e lussuria: non c’è null’altro che resti di moda” (Atto V, scena II).

In questo contesto la figura di Ulisse è stata interpretata dai critici nei modi più disparati, in chiave negativa o positiva, come la voce dell’autore o come il più bieco fellone. Certo, un po’ dell’antica contraddizione aderisce al personaggio, né potrebbe essere altrimenti in un'opera che sembra avere come protagonista la debolezza umana: Ulisse è un dogfox, un “volpone”, come lo definisce Tersite (peraltro una delle sue definizioni meno malevole), ma i suoi consigli sono accorti e prudenti, saggia, soprattutto nell’ottica del Seicento, la sua idea di governo, i suoi inganni hanno in fondo uno scopo pedagogico e non sono mai distruttivi, i suoi giudizi sulle persone sono, nella loro esperta lungimiranza, sempre esatti.

Un episodio in particolare: di fronte a Troilo impaziente di rivedere la donna amata, che si trova nel campo greco e che un’ambasceria gli dà l’opportunità di reincontrare, l’anziano nemico, che intuisce e sa, sceglie la via più brusca per informarlo: lo conduce presso la tenda di Cressida e lo fa assistere al colloquio fra la donna e Diomede, che infrange duramente i sogni dell’amante.

Vi è stato chi ha veduto del sadismo nella scelta di Ulisse: ma a Troilo la presenza di Ulisse offre, oltre ai consigli di pazienza e ad un quieto e misurato realismo, la possibilità di sfogo: l’uomo che ha vissuto, che conosce la vita e non si fa illusioni, aiuta con la sua presenza, e anche con la durezza della prova a cui lo sottopone, il ragazzo illuso.

Chi ha visto nel rapporto Ulisse-Troilo una somiglianza col rapporto Odisseo omerico-Telemaco o anche Bloom-Dedalus si è forse avvicinato al vero: noi aggiungiamo che si è qui molto lontani dal cinismo del rapporto Odisseo-Neottolemo nel Filottete sofocleo[26].

Il ritorno in patria

Il tema dell’esilio e della nostalgia, pur così importante nell’Odissea, cosi affettuosamente sentito anche dai latini, come si è visto, non ebbe invece grande sviluppo nella tradizione successiva. Fra i non molti autori che colsero del personaggio soprattutto quest’aspetto ne scegliamo due, Foscolo e Pavese[27].

In realtà Foscolo allude due volte, come si sa, ad Ulisse: e il riferimento dei Sepolcri riprende la visione negativa della figura mitica.

Se Aiace, suicida perché soccombente nella contesa per le armi di Achille, è un “generoso”, Ulisse ha vinto per il “senno astuto” e il “favor di regi” (v. 222), ingiustamente e, forse, con l’inganno.

Le armi assegnate a chi meno le meritava sono tolte dagli dei alla “poppa raminga” (v. 224) e portate dal mare sulla tomba di Aiace.

Poppa raminga”: questa definizione della nave d’Ulisse è l’unico nesso che leghi l’“Itaco” dei Sepolcri all’Ulisse di A Zacinto. L’antica contraddizione si perpetua nel Foscolo, che utilizza il mito come segno, né gli chiede un’assoluta coerenza. Nel carme la figura centrale del passo in questione è Aiace, il generoso cui la morte è stata giusta dispensiera di gloria: nel sonetto la figura centrale è il poeta stesso, esule in modo definitivo dalla sua terra, dalla sua isola: e Ulisse diviene per lui un segno, l’esule nato come lui in un’isola ionia, come lui costretto a vagare e soffrire, ma uscito “bello” dalla sofferenza, ma tornato a baciare la sua terra, mentre Foscolo non tornerà.

Anche per Pavese il mito è un segno: “Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale”. Così nei Dialoghi con Leucò l’autore usa dei miti greci come guida all’immaginazione e come possibilità di approfondire e comprendere ed esprimere la realtà.

Due sono i dialoghi ispirati ad Odisseo (questo il suo nome in Pavese): L’isola e Le streghe. Il primo ha come protagonisti Calipso e Odisseo: l’antica dea, che ha rinunciato alla potenza e vive l’immortalità come un eterno istante, come un sonno senza risveglio, è suo malgrado resa inquieta dalla presenza di lui, il mortale che ha un destino, nostalgie e rimpianti; e gli chiede di restare, di accettare un’immortalità consistente nel limitare i propri orizzonti, nello scambiare un’isola con un’altra: cambio positivo, giacché non ha in sé il rischio della disillusione, del trovare il passato diverso da come lo si ricordava: tema caro a Pavese, che ritroviamo ne La luna e i falò.

Ma Odisseo rifiuta, perché capisce che l’immortalità di Calipso è solitudine non rassegnata, e perché ha Itaca nel cuore.

Nel secondo dialogo Circe parla a Leucotea (la Leucò che dà titolo al libro) dell’incontro con Odisseo: l’amore che li ha uniti per un anno, lei dea col superiore sorriso delle divinità che in nulla si lasciano coinvolgere, lui mortale con la serietà degli uomini che s’impegnano con tutte le persone e le cose, l’ha segnata al fondo: si è lasciata chiamare Penelope, ha alimentato la nostalgia di lui, ne ha ascoltato i ricordi in cui persino il cane aveva un nome.

Ed ora che Odisseo è tornato a casa, l’ha trasformato in ricordo, lei che non l’aveva trasformato in maiale né in lupo: e ricordare è caratteristica degli uomini, come Leucotea l’ammonisce[28]

Il viaggio

L’ansia di conoscenza dell’Ulisse dantesco segna profondamente la letteratura successiva: certamente l’immagine del personaggio che prevale nella tradizione occidentale, non solo letteraria ma anche popolare, è quella del viaggiatore avventuroso, curioso, avido di esperienze e ribelle al riposo o ai divieti: un personaggio variegato e sfumato, a volte parente di Gulliver, a volte degli esploratori o dei corsari, a volte di Sinbad o dell’Ebreo errante.

Al di là delle varietà una vicenda accomuna tutti questi Ulissi: la nuova e definitiva partenza dopo il ritorno ad Itaca (la variante dantesca per cui il ritorno addirittura non avviene è dopo di lui abbandonata).

È curioso come l’atteggiamento che da Ulisse prende nome, l’ulissismo, sia estraneo al personaggio mitico nella sua gestazione antica. La navigazione-simbolo degli antichi, la spedizione che ha infranto un tabu, non è quella di Ulisse: su un piano mitico è quella degli Argonauti, la prima in assoluto nella cronologia antica (e se ne ricorderà il Monti nell’ode Al Signor di Montgolfier), su un piano storico è quella di Serse, che ha violato i limiti imposti ai Persiani e le leggi della natura, o quella di Alessandro, che è giunto ai confini del mondo conosciuto e ha preteso onori divini.

Il viaggio di Ulisse, che pure arriva al misterioso paese dei Cimmerii dove si apre l’Aldilà, come il viaggio di Enea, che pure penetra negli Inferi, sono sì avvertiti dagli antichi come straordinari, ma senza alcuna caratteristica di eccesso, o di ansia di novità. L’ulissismo non è una nozione antica, né dalla maggioranza degli autori classici sarebbe accolto in modo positivo.

Soprattutto l’Ottocento e il Novecento hanno scelto questa immagine del personaggio. Si tratta del resto di una tematica continuamente presente nella cultura a noi più vicina nel tempo, anche quando il riferimento esplicito ad Ulisse manca; l’idea di una meta perseguita, di una sfida, di un’ansia di procedere e di conquistare permea molta parte della letteratura dell’occidente: basti pensare a Melville, o ad Hemingway, o a Buzzati.

Come primo esempio scegliamo l’Ulysses di Tennyson. È il monologo del vecchio re, ormai da anni rientrato in patria e reinserito nel suo compito di legislatore, ma che si sente profondamente estraneo e al compito e al suo popolo.

Egli che molto ha visto e conosciuto, che è divenuto un nome, che è parte di tutto ciò che ha incontrato, è tuttavia uno sconosciuto per i suoi; a loro rimarrà Telemaco, che più del padre è adatto a regnare; ad Ulisse si apre il mondo non ancora esplorato, “il cui confine si dilegua sempre e sempre quando io avanzo” (vv. 20-21). L’appello che rivolge ai compagni è per certi versi simile all’ “orazion picciola” dantesca: ma anche se una direzione è prevista ‒ l’occidente ‒, anche se una meta ‒ e quale meta! le isole dei morti ‒ è ipotizzata, pure né la direzione né la meta né la stessa conoscenza di un mondo nuovo sembrano l’essenziale, lo scopo ultimo del viaggio. Lo scopo è non fermarsi, non arrugginire come una spada nel fodero, esercitare la volontà sfidando il tempo e la vecchiaia come una volta a Troia si sfidavano perfino gli dei, sfruttare la vita fino all’estremo istante della morte, dovunque e comunque essa venga.

La lirica di Tennyson fu conosciuta e amata dal Pascoli, che la tradusse: e più volte il Pascoli riprese il personaggio. La tematica di una meta inseguita continuamente, che “si dilegua sempre e sempre quando io avanzo”, per riprendere le parole di Tennyson in chiave pascoliana, è fondamentale nel nostro poeta: ripensiamo alle due poesie intitolate La felicità, chimera sempre inseguita che si rivela infine coincidente con la vita stessa, alla ricerca affannosa e infinita del vero ne Il libro, dove non a caso ricorre il tema delle sirene, all’ascesa solitaria, a cui non seguirà discesa, ne La piccozza, alla delusione del conquistatore giunto al termine del viaggio in Alexandros.

Il desiderio del mistero convive nel poeta con la certezza, a volte angosciata, a volte malinconica e rassegnata, che esso non è attingibile: e se nella piccozza caduta all’uomo morente si riflettono le stelle dell’Orsa, quasi un’apertura su una meta più grande di quella raggiunta, il più delle volte la meta s’inverte, è il cammino già percorso, è la casa da cui si è partiti: il significato della ricerca è nella ricerca stessa, oppure nella propria origine.

Così nel lungo poema, l’opera più importante dedicata a Ulisse, che ha per titolo L’ultimo viaggio, è un viaggio assai strano quello che l’antico eroe decide di compiere. Da tempo è tornato ad Itaca, non una ma due volte, dopo aver adempiuto al compito impostogli da Tiresia per placare il dio del mare: da nove anni vive di ricordi e dell’attesa della morte. Al decimo il ritorno delle rondini lo spinge a ripartire: ma non per terre nuove. Il suo viaggio intende ripercorrere le tappe del viaggio precedente, per rivedere i luoghi e le persone, affascinanti e misteriosi, che gli hanno dato avventura, e amore, e gloria.

Ma le prime tappe sono deludenti: non ritrova né Circe né il Ciclope: tutto è divenuto umano e banale. La delusione lo porta a trascurare frettoloso tutte le altre tappe, teso ormai ad una sola meta: le sirene, il vero, la possibilità di conoscere sé stesso, di capire chi è.

Ma anche questa possibilità gli viene negata dalle due sirene che lo osservano, immobili e silenziose, naufragare sugli scogli. Il cadavere dell’uomo è accolto, portato dal mare, da Calypso, che geme su chi ha rifiutato da lei l’immortalità e grida la superiorità della non-vita sulla morte.

Dunque l’ultimo viaggio è una nuova spedizione e insieme un ritorno sui propri passi, nella speranza vana di rivivere il già vissuto e di cogliere un’occasione perduta, la parola delle sirene. Ma il passato non si ripete, le sirene tacciono, la morte non ha compensi[29].

Più esplicito, in altri poeti del Novecento, è il riferimento soggettivo, il confronto o l’identificazione fra il mito e l’io. D’Annunzio immagina, nel primo libro delle Laudi, un incontro con Ulisse, che naviga nello Ionio: ma il protagonista è l’io narrante, che intuisce nel personaggio mitico uno simile a sé e gli chiede di metterlo alla prova e, se lo riconosce suo pari, di prenderlo seco, altrimenti di ucciderlo; Ulisse, che aveva mostrato la propria superiorità non degnando di uno sguardo i nuovi venuti, a questa profferta volge gli occhi, pur senza rispondere, a “quel giovane orgoglio chiarosonante nel vento”: un orgoglio vicino al suo[30].

E Saba intitola Ulisse una breve lirica in cui l’identificazione col personaggio è compiutamente avvenuta: come da giovane egli aveva navigato lungo le coste dalmate, così ora, rifiutando il porto, lo spinge ancora al largo “il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore”: il viaggio reale della giovinezza diviene l’impegno costantemente aperto dell’età matura. Il titolo è evocativo di un retroterra culturale che dà spessore all’autobiografia: e l’Ulisse prescelto è ancora, come per gli autori precedentemente citati, quello dantesco, ma, come in quasi tutti, spogliato di un giudizio trascendente[31].

Note al testo

[1] Indichiamo in particolare due testi, rimandando ad essi per un’ulteriore bibliografia: E. Wust, RE XVII, Stuttgart 1937, 1905 segg. (cfr. anche Suppl. VII, 696 segg., a cura di P.v.d. Muhll) s.v. Odysseus; W.B. Stanford, The Ulysses Theme. A Study in the Adaptability of a Traditional Hero, Oxford 1954. Due precisazioni generali: i passi riportati in traduzione sono tradotti dall’autrice. La variazione della forma di nomi propri - Odisseo/Ulisse, Vergilio/Virgilio, Calipso/Calypso - è legata all’uso dell’autore di cui si sta trattando.

[2] Al primo gruppo appartengono, ad esempio, polýmetis, polyméchanos, poikilométes, kérdea eidós, dólon átos; al secondo, polýtlas, talasíron, telémon, al terzo douríklytos, ptolíporthos, kraterós. L’appellativo di Od. 1,1 polýtropos può porsi nel primo o nel secondo gruppo, a seconda che s’intenda “dal multiforme ingegno” o “dalle molte traversie”.

[3] Si veda 1,430 segg.; 2,166 segg.; 3,203 segg.; 4,338 segg.; 5,519 segg.; 10,227 segg.; 11,310 segg.; 14, 29 segg.; e le due ambascerie ad Achille nei libri 9 e 19.

[4] Si veda 3,121 segg.; 4,242 segg.; 5,12 segg.; 11,202 segg.; 14,137 segg. Inoltre l’incontro coi Feaci nei libri 6 e 7 e, in particolare, 6,180 segg.

[5] 9,172 segg.; 10,185 segg.; 12,191 segg.

[6] 5,171 segg.; 5,356 segg.; 13,256 segg. Vedi anche la riluttanza a svelarsi sia presso i Feaci sia ad Itaca (non sempre con motivi comprensibili, come nel caso dell’incontro con Laerte). La parola eidòs ricorre in 9,281 e in 13,296.

[7] Il passo citato è 20, 18 segg.; ma cfr. anche 10, 54.

[8] Od. 11, 543 allude alla vittoria su Aiace nella contesa per le armi di Achille: comunque Odisseo si rammarica di aver vinto, rivedendo l’ombra sdegnosa del rivale. Od. 24, 115 segg. allude alla riluttanza di Odisseo a partecipare alla guerra e al suo stratagemma per sottrarvisi.

[9] I frammenti del Ciclo sono riportati, insieme col riassunto di Proclo, nell'edizione omerica di T.W. Allen, Oxford 1946, vol. V. In particolare si vedano i fr. 2, 9, 21, 26.

[10] N. 8, 26; fr. 275 Bowra; N. 7, 20. Cfr. Ol. 1,30 segg.; fr. 42 Bowra.

[11] In particolare il Palamede, il Filottete, l'Armorum iudicium. Per i frammenti si veda l'edizione del Nauck, Leipzig 1926 (anche per Euripide).

[12] Per la maturazione del personaggio v. in particolare i vv. 121 segg. Per i giudizi su di lui i vv. 1 segg.; 379 segg.; 955 segg.

[13] Vedi in particolare i vv. 82 e 119 segg.

[14] L’Aiace è collocabile fra il 450 e il 442; l’Antigone nel 442-441; l’Edipo Re probabilmente fra il 433 e il 410; il Filottete nel 409; l’Edipo a Colono fu rappresentato postumo nel 401. Ricordiamo che fra il 431 e il 404 si svolse la tragica guerra del Peloponneso.

[15] Le tragedie euripidee in cui appare Odisseo, o se ne parla, sono l’Ecuba, le Troiane (in trilogia col frammentario Palamede), l’Ifigenia in Tauride, l’Ifigenia in Aulide e il frammentario Filottete. Solo nel dramma sariresco Il Ciclope, che riprende l’episodio dell’Odissea, l’imitazione omerica si estende alla raffigurazione del personaggio.

[16] In età ellenistica e greco-romana il mito viene più volte ripreso, anche se la fase creativa è sostanzialmente finita. Tralasciamo di approfondire questa fase, anche perché in genere non molto rilevante.

[17] Nel IV sec. d.C. vennero tradotte o ridotte in latino due opere greche perdute, l’Ephemeris belli Troiani, attribuita a Ditti cretese, eroe della guerra medesima, e il De excidio Troiae, attribuita a Dares frigio, pure eroe della guerra ma di parte troiana (in realtà le due opere risalivano a un paio i secoli prima). Fra i poemi medioevali il più famoso è il Roman de Troie di Benoit de Sainte Maure (XII sec.).

[18] Si veda Cic. De fin. 5,18,49; De Or. 1,44,196. Hor. Epod. 17,16; Ep. 1, 2, 17 segg.; Ep. 1,7,40. Verg. Aen. 2 passim; 3,271 seg.; 3,613 segg. Ov. Met. 13, 1 segg.; Ep. 1, 3, 33-34; 4,10,9 segg.; Trist. 1,2,9; 1,5,57 segg.; Sen. De const. sap. 2, 1; Ep. 31, 2; 56, 31; 123, 12. Uisse è personaggio anche della tragedia Troiane di Seneca, derivata dall'omonima tragedia euripidea: una lettura attenta ce lo mostra in luce meno negativa che nel modello. Sarebbe interessante esaminare anche la tragedia latina arcaica: molte coturnate di Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio riprendono opere greche ispirate a episodi del mito di Ulisse. Sovente i frammenti non sono significativi: ma quando lo sono, l'immagine del personaggio conserva l’ambiguità antica, con una certa prevalenza di elementi positivi.

[19] Ov. Met. 14, 154 segg.

[20] Od. 11, 100 segg.; in particolare 134 segg.

[21] Inf. 26, 59 segg.; 93 segg.; 109.

[22] Cfr. Inf. 26, 141 con Purg. 1, 133. 

[23] Purg. 22, 67 segg.

[24] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi 1964, pagg. 138 segg. 

[25] Altri esempi in Racine (Iphigénie), Metastasio (Achille in Sciro), Fénelon (Les aventures de Télemaque), Giraudoux (La guerre de Troie n’aura pas lieu).

[26] L’episodio con Troilo è nell’atto V, scena II. Degli altri passi, citiamo il discorso sul buon governo (Atto I, scena I). L’interpretazione del rapporto Ulisse-Troilo in Stanford, op.cit., pag. 169 segg.

[27] Possiamo citare anche i due drammi di Calderón de la Barca, El mayor encanto amor e Los encantos de la culpa: entrambi riguardano l’episodio di Circe, abbandonata da Ulisse per tornare in patria. Il secondo, rifacimento del primo, l’interpreta in chiave allegorica, riprendendo una linea interpretativa del mito già antica, sia pagana sia del cristianesimo primitivo.

[28] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi 1968, pagg. 113 segg. e 125 segg.

[29] Le poesie di Pascoli citate fanno parte delle raccolte: Myricae (La felicità); Primi poemetti (Il libro, La felicità); Odi e Inni (La piccozza); Poemi conviviali (L’ultimo viaggio ma anche Anticlo e Il sonno di Odisseo, in cui pure compare il personaggio; Alexandros).

[30] Maia, Laus vitae, 4, 21 segg. Sempre nell’ampio poema che occupa quasi tutto il primo libro delle Laudi D’Annunzio usa il termine “Ulisside” per designare due suoi amici che avevano dell’eroe l’ansia di conoscenza, contrapposti al “savio Ulisside”, cioè il pigro Telemaco senza ambizioni (cfr. 15, 301 segg. con 4, 190 segg.). A Ulisse, contrapposto per la sua audacia e la sua fortezza (nel mare e nella vendetta) alla debolezza passiva del cristianesimo, è dedicato anche il primo componimento della raccolta, Alle Pleiadi e i Fati: accenniamo, solo di passaggio, che il tema della vendetta è stato ripreso anche da altri autori.

[31] U. Saba, Ulisse, in Il Canzoniere, Einaudi 1948.

Redazione de Gliscritti | Domenica 05 Febbraio 2023 - 11:19 pm | | Default

Nadal: «Sia io che Federer e Djokovic ci siamo spinti al limite l’uno con l’altro - Federer, Djokovic y yo nos hemos llevado al límite», da un’intervista al tennista maiorchino a Marca

Riprendiamo alcuna passaggi, in traduzione, di un’intervista a Rafael Nadal, pubblicata da Marca il 23/12/2022 (https://www.marca.com/tenis/2022/12/23/63a34cb3ca4741c5098b45b4.html). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sport.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2023)

«Il mio pensiero non è cambiato negli anni. Uno sarà il migliore, ma non è facile da definire perché ognuno ha argomenti per sostenere un giocatore al posto di un altro, al netto dei dati oggettivi. Alla fine conta che sia io che Federer e Djokovic abbiamo fatto molto di più di quello che sognavamo. Abbiamo raggiunto numeri mai toccati prima nel nostro sport, quindi noi tre entreremo nella storia del tennis. Ci siamo spinti al limite l’uno con l’altro, altrimenti nessuno di noi sarebbe arrivato a 35 anni competitivo. Ovviamente mi piacerebbe essere quello che finisce con più titoli Slam, ma non è mai stata un’ossessione e mai lo sarà. Ringrazio la vita perché ho potuto fare tante cose che ho non avrei mai sognato quando ero piccolo».

Così Rafael Nadal racconta, in una lunga intervista a Marca, pubblicata il 23/12/2022. Straordinario è, nelle sue parole, cogliere come la lotta con i due grandi avversari gli abbia tolto, ovviamente, titoli che sarebbero stati altrimenti conquistati, ma lo abbia soprattutto reso un tennista migliore, “spingendolo” al limite, e rendendo ancora più belle le sue vittorie.

Nell’intervista Nadal parla anche in maniera molto bella della nascita del suo bambino:  

«Il suo arrivo [del mio primo figlio] è stato un cambiamento drastico, mi sono dovuto riorganizzare anche dal punto di vista professionale. Sono felice. Mi godo una nuova tappa della vita. Ho sempre pensato che sarei diventato padre a fine carriera ma, per fortuna, la mia carriera è durata molto più a lungo di quanto mi aspettassi. Quindi devo imparare a convivere con questa novità provando a essere sempre competitivo».

Redazione de Gliscritti | Domenica 05 Febbraio 2023 - 11:15 pm | | Default

Classico. Storia di come un concetto elitario si fa universale, dal sito Una parola al giorno

Riprendiamo dal sito Una parola al giorno (https://unaparolaalgiorno.it/significato/classico) un testo pubblicato il 26/8/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2023)

clàs-si-co

SIGNIFICATO Che riguarda le antiche civiltà greca e latina; tradizionale, tipico; esemplare, eccellente

ETIMOLOGIA dal latino: classicus, cittadino appartenente alla prima classe di censo, e successivamente scrittore di prim’ordine.

Storia di come un concetto elitario si fa universale.

In latino il classico è l’eccellente - poiché appartenente alla classe sociale più elevata, o poiché assimilato a questa. E la cultura classica nel senso di greca e latina, oltre ad essere classica nel senso di esempio di perfezione ed eccellenza, si è rivelata anche una cultura “di classe”, strettamente elitaria, preclusa ai più.

Ma l’eccellenza del classico si è sovrapposta ad un’idea di tradizione, acquisendo un connotato di identità culturale. Il classico è un esempio storico, una radice di cultura.

Se parliamo di musica classica parliamo certo di musica colta, ma anche di una musica che ha avuto un peso adatto a scavare profondamente l’immaginario collettivo di ogni classe sociale; parlando di libri potremo citare un grande classico: la caratura di quel libro starà nella sua capacità di parlare a chiunque in ogni tempo; e non si smetterà mai di sorridere davanti ad una rassicurante gag classica. Per non parlare poi di arredamenti dalla linea classica, di abbigliamenti classici, o di classici esempi.

In altre parole, classico è ciò che ha un valore tanto alto e schietto che spontaneamente diventa tradizionale, diventa cultura condivisa.

Redazione de Gliscritti | Domenica 05 Febbraio 2023 - 11:13 pm | | Default

Galileo e i 400 anni del Saggiatore: sbagliato nel merito, giusto nei principi. Galilei lo scrisse per contestare un testo sulle comete del gesuita Grassi, che appoggiava il sistema di Brahe. Sulle comete aveva ragione Grassi, ma sul fronte epistemologico resta un'opera capitale, di Flavia Marcacci

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Flavia Marcacci pubblicato il 26/1/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2023)

«Chi meno intende e sa, tanto più risolutamente discorre». È una delle tante lamentele espresse dallo scienziato pisano Galileo Galilei ne Il Saggiatore. Si tratta di una lunga lettera all’accademico linceo Virginio Cesarini, avente la sostanza del trattato e di cui nel 2023 si celebrano i 400 anni dalla pubblicazione.

Era il 6 maggio del 1623 quando ebbe inizio la stampa di quest’opera, sovvenzionata dal Principe dei Lincei Federico Cesi e sollecitata dal sodale Francesco Stelluti che da tempo chiedeva allo scienziato pisano di condividere i suoi pensieri sulle comete.

Era dal 1618 che il passaggio di tre comete suscitava clamore, accendendo il dibattito sulla natura di questi fenomeni che si trascinava da qualche decennio.

Galileo aveva problemi di salute e inizialmente era restato fuori dalle discussioni. Se non che nel 1619 il gesuita Orazio Grassi pubblicò la Disputatio astronomica sostenendo che le comete sono corpi al di sopra del cielo della Luna: il telescopio, infatti, non mostrava spostamenti del fenomeno, rispetto allo sfondo delle stelle fisse, rispetto a diversi luoghi di osservazione (parallasse), lasciando pensare che esso fosse davvero lontano nel firmamento.

Grassi prendeva distanza dalle teorie aristoteliche per le quali le comete erano alterazioni dell’atmosfera al di sotto della luna. Soprattutto, il gesuita andava a sostenere le teorie di Tycho Brahe, l’autorevole astronomo danese che aveva rivoluzionato con i suoi strumenti e le sue abili osservazioni a occhio nudo molte concezioni antiche.

Grazie a lui era stata rigettata l’antica opinione per cui i cieli erano sfere solide.

D’altra parte, il modello cosmologico di Tycho Brahe, avente la Terra al centro del mondo, il Sole ruotante intorno a essa e tutti gli altri pianeti ruotanti intorno al Sole, era un buon compromesso per i gesuiti: la condanna al sistema eliocentrico di Copernico era avvenuta qualche anno prima (1616) e occorreva un modello alternativo adeguabile alle osservazioni telescopiche successive al 1609, anno in cui Galileo iniziò a usare questo strumento fare astronomia.

Si aggiunga che, al contempo, criticare Aristotele rendeva manifesta l’ambizione all’innovazione di Grassi.

L’ombra di Tycho, insomma, si accresceva e Galileo doveva percepirla come un fastidioso intralcio per il cercatore della verità. Meglio mettere a tacere subito coloro che con Tycho volevano smentire Copernico.

Così, se pur gli era stato intimato di non proferire parola a favore di Copernico, Galileo poteva supporsi libero nel pronunciarsi contro Tycho, poiché nulla in questo senso gli era stato ingiunto. Le sue critiche furono dapprima espresse celandosi dietro il Discorso sulle comete di Mario Guiducci, console dell’Accademia fiorentina.

La contromossa di Grassi fu il conio dello pseudonimo Lotario Sarsi Sigensano con cui pubblicò per tutta risposta la Libra astronomica: così rispose alle critiche con tono polemico e aspro e riferendosi esplicitamente a Galileo.

Ecco che allora Galileo uscì allo scoperto e di sua mano firmò Il Saggiatore. Qui, pagina dopo pagina, Galileo criticò la scienza “di sistema”, irrigidita dietro convinzioni ataviche e inabile ad adattarsi alle nuove scoperte.

Più che dell’esperienza, secondo Galileo, Grassi/Sarsi si faceva forte del solo principio di autorità, chiudendo gli occhi di fronte alle evidenze e producendo dimostrazioni sbagliate.

Galileo non aveva una sua teoria delle comete ma pur di attaccare l’avversario sosteneva che la cometa fosse un corpo apparente. Le idee cometarie di Galileo erano sbagliate, ma lo spirito controversistico gli permise comunque di identificare alcuni grandi temi epistemologici che guideranno la nuova scienza: il ruolo degli strumenti, il rapporto tra vedere e conoscere, la compenetrazione tra argomentazioni logiche ed evidenze sensibili.

Dalla libra al saggiatore, i titoli delle opere al centro della polemica evocano la necessità di soppesare e confrontare i ragionamenti, svelare gli errori altrui e demolire l’avversario.

«La natura è scritta in caratteri matematici» è qui proclamato da Galileo con forza, e alle dimostrazioni geometriche alterna citazioni letterarie tra le quali campeggia l’Ariosto.

Per cantare le sue ragioni, Galileo colora il testo di metafore ed espressioni colorite: così da schernire i vizi di quella filosofia che «con tanta agevolezza si accomoda alle nostre voglie», ma non è vera conoscenza.

Grassi risponderà ancora con la Ratio ponderae et simbellae, ma Galileo non vi trovò toni meno accorati e accomodanti.

Perché tanta pervicacia non portò Galileo a proporre una teoria innovativa delle comete? Bisogna considerare la complessità delle questioni, la profondità delle scoperte galileiane e l’intreccio imbrogliato tra realtà e teorie che sgominava vecchi approcci alla natura senza poter immediatamente proporne nei nuovi.

Nel corso del 2023 si avrà modo di ragionarne ampiamente: si intravede già un significativo numero di eventi organizzati per esaminare questo episodio indimenticabile della storia della scienza. Non a caso, Enrico Bellone, curando l’edizione de Il Saggiatore (Roma 1994), ne ebbe a dire che qui «si tocca con mano, pagina per pagina, un momento splendido nel cammino incerto e accidentato degli uomini verso la verità».

Redazione de Gliscritti | Domenica 05 Febbraio 2023 - 11:09 pm | | Default

Decorazione ispirata alla Alif e alla Lam arabe in Masaccio, Gentile da Fabriano a altri pittori toscani (da Mahmoud Salem Elsheikh)

Riprendiamo sul nostro sito dalla Rivista di Studi Indo-Mediterranei VI (2016) on-line (http://kharabat.altervista.org/RSIM-BTracce_-1_di_presenza_arabo-islamiche_in_Tscana.pdf ) un brano dall’articolo Tracce di presenza arabo-musulmana in Toscana, di Mahmoud Salem Elsheikh. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2023)

N.B. de Gli scritti
Non è stato possibile trasportare i caratteri arabi in questo file, per cui essi vanno ricontrollati sull'orignale dell'articolo.

[…]

Qualcuno, mosso non si sa da quale suggestione, crede di leggere sull’aureola della Madonna di San Giovenale di Masaccio nientemeno che la «Shahāda», la professione di fede islamica «lā ilaha illā Allāh wa Muḥammad rasūl Allāh» (‘Non c’è altro dio se non Iddio e Muḥammad è l’Inviato di Dio’), parlando di chiari e visibili caratteri arabi stilizzati in finto cufico sull’aureola e sulla veste.

A questa conclusione era arrivato nel 1968 Rudolf Selheim che precisava però che la «shahāda» sarebbe leggibile a rovescio: quindi in una «iscrizione a specchio». Anche il bravo Wladimiro Settimelli sull’Unità del 28 giugno 1997 afferma che la scritta sull’aureola della Madonna niente altro è che la «classica professione di fede di chi crede nel Corano».

La stessa supposizione è unanimemente accordata a due opere di Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi (Uffizi), e soprattutto la Madonna dell’Umiltà (Museo di San Matteo, Pisa).

Di quest’ultima opera si dice che «sull’orlo del panno dov’è disteso il Bambino corre un’iscrizione in caratteri arabi che compongono le prime parole della shahāda, la professione di fede musulmana» (Sylvia Auld).

Letture assolutamente fantasiose e immaginarie, originate non si sa da quale pretesa e a quale scopo da persone che di arabo manco sanno distinguere l’alef (prima lettera dell’alfabeto) da una banana!

Come abbiamo già dimostrato, sia nel 1997 a Reggello, in occasione di un dibattito sulla Madonna di San Giovenale di Masaccio che a Roma nel 2011, in un convegno vaticano, questi motivi ornamentali letti come caratteri arabi non sono altro che imitazioni, in funzione assolutamente ornamentale e suggestiva, delle due lettere alte dell’alfabeto arabo أ) A) e ل) L), qualche volta intrecciate لا) LA) ال , ch’è facile leggere sulle iscrizioni arabe.

Quanti hanno visitato l’Alhambra si ricorderanno certamente del motto ripetuto dei signori Al-Aḥmar, frase poi scelta come motto del mausoleo di re Muḥammad V a Rabat, هللا اال غالب ال «l’onnipotenza è di Dio», dove le due lettere dell’alfabeto, أ e ال , ل ,formano un motivo decorativo di straordinaria bellezza che potremmo chiamare «decorazione ispirata alla Alif e alla Lam - أ e ل ,o ال ال ».

Ed è a questo motivo che si sono ispirati i pittori e gli artigiani rinascimentali, giocando pure di fantasia, e qualche volta al diagramma ال intrecciavano un altro capovolto, magari ripetutamente, per formare una figura artistico-decorativa.

Basterà osservare la cornice della Croce dipinta di Giotto, quella restaurata di Ognissanti e quell’altra Croce di Santa Maria Novella, per vedere che perfino la cornice del dipinto è decorata con gli stessi motivi decorativi delle أ) A) e ل) L).

Sono alcuni elementi che testimoniano i rapporti fra il mondo arabo-islamico e la Toscana e, sommati a tanti altri - l’ambone della chiesa pistoiese di San Giovanni Fuorcivitas (marmo con vetri dorati del 1270) e il bicchiere detto di Santa Edvige, opera di un maestro egiziano del sec. XII, conservato nel Palazzo dei Vescovi di Pistoia -, armi ed armature (Museo Stibbert), vestiti, ricette mediche, strumenti scientifici (conservati in abbondanza nel Museo di Storia della Scienza), costituiscono un raro esempio di fusione e di simbiosi culturale che sta proprio alla base della civiltà del nostro Mediterraneo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 05 Febbraio 2023 - 11:07 pm | | Default