Riprendiamo sul nostro sito un testo del giovane Joseph Ratzinger e precisamente la Conferenza per la celebrazione del 75° anno di attività della cattolica Unione per la protezione della giovane - ora Associazione per il lavoro sociale delle giovani – tenuta il 25.04.1970 a Monaco di Baviera, pubblicata in Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp. 200-212. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Ecclesiologia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2022)
La missione nelle stazioni [...] ci permette di riconoscere nel modo più facile il contesto storico di questa fondazione.
Essa cerca di dare una risposta a quella nuova situazione dell’uomo all’inizio del XX secolo, che trova nella stazione il suo primo simbolo pubblico. La stazione è il luogo in cui, per un verso, i mondi vengono a contatto, in cui vicino e lontano vengono messi in comunicazione; è luogo dell’incontro, dello scambio fra il qui e il là, ma, d’altro canto, è anche il luogo dell’estraneità, dell’anonimità, della mobilità, che muta e dissolve le antiche radici.
Se oggi in molte delle nostre città la stazione si è trasformata nel punto di incontro dei lavoratori immigrati, ciò significa che per loro la stazione è il luogo che li collega, pur in mezzo a stranieri, alla loro patria, è quasi la finestra che dal paese straniero guarda verso casa, la promessa della strada che porta là; ma proprio in quanto rappresenta, in questa forma, un mezzo di patria, essa è anche l’espressione dell’inguaribile nostalgia; essa rimane quindi sia richiamo alla patria sia, allo stesso tempo, simbolo dell’estraneità, dello sradicamento.
L’esperienza spirituale, che incontriamo qui, mette in luce particolarmente la situazione di crisi dell’inizio del XX secolo, alla quale cercò di dare una risposta la fondazione dell’unione.
L’antica civilizzazione agricola va verso la fine ed anche la città, magnificata dalla cultura umanistica, entra in una fase di mutamento radicale. Si avvicina l’epoca della tecnopoli; così H.Cox chiama la nuova forma della città e, di conseguenza, la nuova forma di civilizzazione e di società umana, che stanno formandosi e diventano, con sempre maggior velocità, destino e problema per tutti noi.
Le caratteristiche della tecnopoli che sta sorgendo sono, a parere di Vidich e Bensam, ai quali si collega Cox, la mobilità, la concentrazione economica e la comunicazione di massa. Si dovrebbe certo aggiungere con Cox, che alla comunicazione di massa fanno da corrispondente l’anonimità del singolo e l’impersonalità. La forma di base nella quale l’umanità – e l’uomo in essa – esperimenta e realizza se stessa, muta essenzialmente con il crescente dilatarsi del fenomeno della tecnica.
L'uomo sta di fronte ad una nuova fase della sua storia, nella quale gli si aprono nuove possibilità, nella quale però è gettato anche in pericoli del tutto nuovi. Tutto ciò avviene con differente rapidità nei singoli strati sociali; la nuova messa in pericolo dell'uomo, che qui sorge e che fa richiedere una protezione - protezione dell'uomo da se stesso e per se stesso - si può osservare naturalmente, in primo luogo e nella forma più acuta, proprio tra i deboli e gli abbandonati della società, in quelli che dalla stabilità dell'ordinamento rurale vengono direttamente proiettati nella mobilità ed anonimità della nuova epoca; soltanto in essa infatti si può aspettarsi il necessario sostentamento vitale, e ciò avviene in forma più accentuata per le donne che per gli uomini, considerata di nuovo la posizione più debole che era senz'altro assegnata alla donna in questa fase della società occidentale.
Cosa viene fatto qui dunque? Si cerca di creare all'interno della mobilità una continuità che sostenga e metta al sicuro l'uomo; una continuità che lo protegga dai banditi moderni, che abusano dell'uomo in forme molteplici, facendolo oggetto dei loro affari. Si cerca inoltre di procurare, in mezzo all'anonimità, la comunicazione personale che è il mezzo fondamentale per ritrovare se stessi e per autorealizzarsi.
Ma ciò vuol dire che la chiesa storicizzata nella particolare località si riconosce e si mette a disposizione di tutti gli uomini come l'unica chiesa. La chiesa è sorta nella tarda antichità come una comunità di persone tali che dovevano sentirsi un po' come «stranieri, uomini seduti vicino» casualmente, e dunque, se si vuole, una specie di ambiente di stazione: non una società chiusa, che gestisce la sua vita comune e non vuol essere disturbata da altri, ma lo spazio aperto di coloro che, sparpagliati per il mondo, professano il nome di Gesù Cristo e sono aperti tutti l'uno per l'altro e per colui, che cerca la verità della vita umana.
Ciò vuol dire che la chiesa è sempre e soltanto l'unica chiesa, in tutti i luoghi. Noi oggi sperimentiamo una riscoperta del principio della chiesa locale. Si sta di nuovo prendendo coscienza del fatto che una chiesa si forma in un luogo e qui trova la sua più diretta e concreta realizzazione.
Nello stesso tempo vengono riscoperti e sperimentati i livelli intermedi della realizzazione ecclesiale, cioè le conferenze episcopali e gli organismi ecclesiali con esse coordinati, e questo in primo luogo a partire dall'introduzione nella liturgia della lingua popolare, che va sviluppandosi a vista d'occhio. Anche questo ha la sua importanza come vivificazione della struttura ecclesiale e come possibilità dell'inserimento delle molteplici e specifiche possibilità dei singoli popoli nella chiesa universale.
Ambedue i movimenti però possono assumere un risvolto negativo là, dove una comunità si chiude in se stessa e si ritiene autosufficiente; lì appunto dove dei singoli gruppi nazionali percorrono indipendentemente la loro strada e dimenticano di essere chiesa soltanto nella totalità e nella tensione ad essa.
Se dieci anni fa si doveva ricordare ancora che una comunità (una parrocchia) non è un distretto amministrativo, ma è anche chiesa, adesso è necessario ricordare che la chiesa universale non rappresenta soltanto una copertura organizzativa, ma è veramente la chiesa stessa e che la comunità rimane chiesa soltanto se è nell'universalità.
Non si può, infatti, possedere solo per sé il Cristo incarnato, che è la vera vita della chiesa e che dimora in pienezza tra noi in ogni assemblea ecclesiale; questo Cristo, che vuol rendere chiesa completa ogni assemblea che si riunisce in suo nome.
Egli è tutto nel singolo ed è uno soltanto nella totalità. Perciò non lo si può possedere senza la universalità men che meno contro la universalità. Il vivere nell'universalità è quindi il criterio basilare per decidere se una comunità si raduna nel suo nome ed è quindi chiesa. La regola fondamentale per essa è la sua non-chiusura, la sua non-autonomia, la sua apertura verso il tutto della chiesa. Il suo criterio è la volontà di non essere qualcosa di particolare, ma di incorporare in questo luogo l'unica chiesa, che è dappertutto identica e soltanto così è se stessa.
Che implicanza ha tutto questo per la nostra questione? Vuol dire che i fondatori dell'Unione per la protezione della giovane, e tutti coloro che hanno portato avanti finora la loro opera, realizzarono a loro modo questo modello della chiesa aperta. Nella semplicità e nel realismo di una fede che non pone molte domande, ma vive con tanta maggior intensità ed afferra con tanta maggior sicurezza la realtà, essi si sono adoperati - a fatti, non con belle teorie - affinché il modello della chiesa antica, nella sua concatenazione tra comunità locale e apertura universale, offrisse una risposta diretta alla società di oggi, caratterizzata dalla mobilità e dalla concentrazione; e si riesce soltanto se si tenta di rivivere questo antico modello e di accoglierlo con tutte le sue conseguenze.
Nella ingarbugliata disputa sulla chiesa del futuro, sulla chiesa nell'epoca della tecnopoli è stata presa qui una decisione provvisoria che è esemplare e che noi abbiamo compreso appena a sufficienza proprio nella sua attualità e modernità.
Questo mi sembra vero in due maniere. Anzitutto la fondazione di quest'Unione significa che la chiesa locale non si chiude in una speciale forma di esistenza comunitaria, articolata a mo' di chiesa particolare o in qualche altra forma, ma si conosce e vive come chiesa della stazione, ad esempio, (ma anche come chiesa di tutti gli altri settori dell'Unione), proprio come chiesa aperta degli uomini non integrati.
In mezzo all'anonimità, che deriva dalla mobilità, comprende se stessa come l'unica chiesa che abbraccia tutti gli spazi della mobilità umana e si offre ovunque come l'unica istituzione che è patria in ogni regione straniera. Questa disponibilità a considerarsi incessantemente la chiesa aperta, che non si divide in gruppi linguistici ed etnici, ma è a disposizione dell'universalità in quanto presenza dell'universale in questo luogo, mi sembra di importanza fondamentale ed è anche un contributo del tutto specifico della chiesa al chiarimento dei problemi del nostro tempo; la mobilità da sola non crea alcuna unità, cosi come la concentrazione da sola non opera alcuna comunicazione.
Ma l'essere cristiani rettamente inteso, include sempre una certa trascendenza della situazione particolare dello specifico carattere nazionale, della singola lingua, della particolare condizione (e non pertanto il loro consolidamento sacrale).
Esso pone una realtà che può adempirsi sempre e soltanto nella convergenza verso l'universalità. La società di oggi, mobile, concentrata ed anonima, se vuol vivere ha bisogno proprio di tali elementi di convergenza. E una simile conseguenza non può acquistare realtà in quanto tesi ideale, ma soltanto nella positiva pazienza di quelli che stanno realmente nei luoghi della mobilità e dell'anonimità come uomini dedicatisi, con i fatti, all'esecuzione di questa convergenza.
L’altra cosa che mi sembra di rilievo in questo contesto è il fatto che qui si è trattato, e si tratta in sostanza, di una iniziativa laica, che riconosce la necessità interiore della fede e la realizza, come necessità, nella libertà.
Io temo che oggi siamo alquanto lontani da simili realizzazioni spontanee di ciò che è conforme alla fede e che ci siamo assorti, nella stessa misura, in un teorizzare quasi senza speranza, nel quale appunto questa teoria parla con energia fortissima della necessità della prassi.
Davanti ad un movimento laicale cosi significativo e sempre esemplare come questo, mi sembra indispensabile dichiarare che la forma, in cui oggi viene portata avanti nella chiesa la cosiddetta scoperta del laico, va proprio nella falsa direzione.
Per teologia del laico si intende oggi sempre più la lotta per una nuova forma dell'ufficio ecclesiale, ciò che è una vera contraddizione in termini. Il laico infatti o è laico o non lo è. Una teologia del laico, che viene portata avanti come lotta per la proporzione nel governo della chiesa, è una caricatura di se stessa e rimane tale anche se questo malinteso viene ammantato con il concetto di una direzione sinodale della chiesa.
E purtroppo questo non è soltanto uno sbaglio della teoria, ma una deviazione delle forze nella chiesa ed un fallimento nei confronti del loro compito; quando la teologia diventa teoria della politica ecclesiale e lotta per partecipare al governo della chiesa, la forza d'urto va solo verso l'interno di essa. La chiesa si occupa soltanto di se stessa e così logora se stessa. La forza, che le è stata concessa proprio per servire, per essere presenza per altri, viene impiegata nella lotta per dominare e per tenere in moto se stessa. Ma una chiesa che capisce e vive rettamente se stessa non guarda a sé, ma si allontana da sé ed opera per gli altri.
È esattamente quanto accade qui. Il laico dimostra la sua libertà e la sua necessità nel fare ciò che la chiesa deve fare, ciò che è una necessità per essa e ciò che, tuttavia, può accadere in essa soltanto se vien fatto liberamente, per libera iniziativa. E noi oggi abbiamo urgentissimo bisogno proprio di abbandonare l'autogestione ecclesiale e di rivolgerci agli uomini che ci aspettano. La vera libertà e la vera necessità del cristiano che vive nella fede di Cristo, senza incarico ecclesiastico, consiste anche oggi nel portare avanti con decisione e temerarietà simili iniziative, anche se il trend non ne sa nulla e il magistero ecclesiastico non le incoraggia eccessivamente.
Allora e soltanto allora la chiesa si conserva come la forza del futuro, che non viene superata dalla società in marcia verso la tecnopoli, ma viene anzi richiesta nuovamente da essa.
In questo contesto si può accennare ancora ad un terzo tratto caratteristico dell'universalità. Nella cronaca dell'anno 1902 si dice che l'Unione, rifondata a Regensburg, avesse istituito dei corsi serali per stenografia, ragioneria, corrispondenza commerciale, contabilità commerciale, lingua francese e ben presto anche dattilografia... «essa fece nascere molte unioni, ... ma si ritirò sempre, non appena una unione era diventata autosufficiente». La chiesa in sé e in quanto tale non è affatto un istituto sociale d'assistenza e neppure una scuola secondaria popolare. Ma essa può, in via sussidiaria e in situazioni convenienti, sostenere il compito di produrre le iniziative necessarie, che aiutano l'uomo ad essere in grado di percorrere la sua strada nella società moderna; la chiesa lascerà libere tali iniziative non appena il servizio sussidiario ha raggiunto il suo scopo. Essa non può cambiare il suo messaggio con un servizio sociale, però la forza di questo messaggio lascerà sempre dietro a sé delle nuove iniziative sociali, così come essa supera la portata di queste iniziative per tendere a quella maggiore grandezza che sarà e rimarrà un'esigenza dell'uomo anche nella società tecnica.
Riassumendo le precedenti riflessioni possiamo dire che il lavoro dell'Unione per la protezione della giovane si serve, in pratica, dell'universalità e dell'identità dell'unica chiesa in un luogo concreto della storia e della vita umana e cerca di tradurle in realtà di vita quotidiana.
È possibile ora un ulteriore passo avanti, che ci introduca al motivo intimo dell'universalità e dell'identità ecclesiale e cosi, mentre tocchiamo il nocciolo del tema - l'interrogativo sull'uomo stesso - veniamo riportati al problema dal quale eravamo partiti.
Ora infatti si deve ricercare da dove prenda la sua identità la chiesa, perché essa possa tentare di essere la stessa in ogni tempo e in ogni luogo e possa aiutare l'uomo a raggiungere, nella mobilità, la sua identità.
Essa lo può fare soltanto a partire dal suo punto centrale, dalla fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che è nello stesso tempo l' «ultimo uomo», cioè il progetto definitivo dell'uomo e la ricapitolazione nel loro omega di tutti gli abbozzi umani.
A partire da Cristo essa sa che esiste un solo Padre di tutti gli uomini. Da lui è venuta a conoscenza dell'identità inviolabile dell'essere uomo e di conseguenza della dignità umana di tutti gli uomini, che purtroppo non è un dato di fatto nella storia reale, ma tanto più diventa l'imperativo pressante per un credente, che non può accontentarsi (tanto è importante) di una generale fraternità ontologica.
Nell'imitazione di Dio, che ha creato di persona la realtà ed è entrato persino nella positività della vita e del soffrire umano, essa deve lottare piuttosto per la realizzazione del compito principale, di svelare cioè agli uomini la loro fratellanza e di vivere proprio di questa scoperta. Il credente dovrebbe essere spinto dall'irrequietezza di uno scopritore, che deve render nota la sua conoscenza, sovvertitrice della storia, la deve far accettare e portare ad una realizzazione pratica.
Ed è questo ciò che affascina nelle grandi figure della storia dell’Unione: Padre Cipriano Fröhlich, la contessa Cristiana von Preysing, Luisa Fogt, la baronessa Maria von Hohenhausen, Ellen Amman; si sperimenta in essi l’entusiasmo dello scopritore, che non li lascia star fermi, per il quale essi si struggono; in loro si può vedere di nuovo come Cristo sia una scoperta per l’uomo.
Quanto è gretta in confronto a ciò la lotta per le competenze ed il cronico giocare al rialzo di ogni risentimento, che noi oggi sperimentiamo, come se fosse eroico persistere nel risentimento ed enumerare di nuovo le ferite, che nel corso del tempo si sono sofferte dalla chiesa o per la chiesa.
Per la chiesa e per quest’unione, che vive del fondamentale impulso della fede della chiesa e cerca di farla valere in un luogo determinato, si tratta, né più né meno, che della fraternità universale. Si potrebbe però chiedere: cosa viene ottenuto di sicuro? Chi viene raggiunto? In questo contesto mi sembra importante un passo che si trova nella cronaca dell’anno 1903 e che dice: “Ad una signora della missione nelle stazioni, dopo averle chiesto lo ‘scopo dell’Unione’, una specie di sfruttatore di prostitute dice: ‘È buffo, qui lei ne riceve una, mentre io ne posso avere dieci e più ogni giorno...’; detto questo sparì”...
Stimatissime signore, trovate ancora ridicolo attendere questa sola persona alla stazione, magari anche per cento ore al mese, in modo da dare l’impressione di aspettare inutilmente per novantanove? Cosa è quest’unica persona? È l’intero prezzo del prezioso sangue di Cristo. E per voi... cos’è quest’unica persona per voi? Vi dà la risposta San Giovanni Crisostomo: Nulla nel mondo raggiunge il valore di una singola anima”.
In un linguaggio che suona forse un po’ patetico, viene espresso qui qualcosa di decisivo e di duraturo, che oggi, di fronte alla miseria delle masse che ci troviamo davanti e di fronte alla violenza con cui ci aggredisce il problema sociale, può facilmente uscire dal nostro campo visivo. Io avevo già ricordato... che oggi al servizio dell’amore fraterno cristiano viene opposto l’interrogativo se non si trascuri, in questo modo, il necessario cambiamento delle situazioni, se si dia aiuto nel singolo caso e non ci si renda conto del problema collettivo. La chiesa distribuisce ombrelli, così si dice, mentre si tratta di cambiare le condizioni generali del tempo.
Benché proprio questo esempio sia adatto per richiamare alla memoria i limiti di simili sforzi, non si può senz’altro contestare la giustificazione della richiesta di principio. È necessario certo trattare con molta decisone del problema di costruire la tecnopoli come città dell’uomo e di impiegare per un simile compito collettivo, indirizzato al futuro, tutta la forza di cui è meritevole.
Ma l’uomo non è mai puro materiale di costruzione del futuro. Ed egli non si schiude mai del tutto nelle relazioni, ma rimane sempre un nuovo interrogativo, che si protende verso l’infinito: egli esige una risposta personale, che non può mai venire interamente pianificata.
Perciò non ci saranno mai situazioni che rendano superflua l’attività personale, premurosa ed amorosa per l’uomo. Perciò la preoccupazione per il futuro non può mai diventare l’alibi per disfarsi del presente e la lotta per il collettivo non può mai sostituire la donazione al singolo.
Accanto allo sforzo pianificatore, e forse anche combattivo, per il futuro della totalità deve perciò esistere sempre la lotta per l’uomo qui e oggi, nelle situazioni e nelle possibilità dell’oggi, per il singolo nella necessità e nel pericolo di quest’oggi.
Pianificazione del futuro, quando essa avviene positivamente, è amore per chi è molto lontano. Non sostituisce l’amore del prossimo. Forse la pianificazione del futuro e il concreto servizio dell’amore fraterno qui e oggi dovranno in futuro fecondarsi a vicenda più di quanto finora è avvenuto.
Ma il vero e proprio cuore del cristianesimo è e rimane l’amore del prossimo. In realtà, infatti, ogni singolo individuo è amato infinitamente da Dio ed ha un valore infinito.
Come ha acutamente compreso Pascal, Cristo dice a ciascuno: nella mia agonia io ho pensato a te. Io ho versato per te questa goccia di sangue. Se un uomo riuscì a dare significato ad un individuo, ad una singola persona per mezzo del suo amore, ha reso infinitamente profittevole la sua vita.
E resterà sempre il fatto che alcuni uomini vivono perché hanno incontrato un tale amore, che offre una ragione di vita; ciò si avvererà in tutte le situazioni; questo dono non verrà reso superfluo da nessuna riforma e da nessuna rivoluzione.
E viceversa: ci fu salvezza in ogni situazione in cui, in un mondo di inimicizia e di estraneità, si incontrò uno che uscì dal collettivo e fu fratello.
Questi incontri salvifici, che non sono registrati da nessun libro di storia, sono la vera, l’interiore storia della chiesa, che noi oggi, per quanto riguarda la storia delle istituzioni, dimentichiamo più che mai. Solo aiutando a salvare gli altri veniamo salvati noi stessi; solo mentre proteggiamo gli altri viene provveduto anche a noi.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
L’organizzazione di “eventi” domina la logica del jet set e della comunicazione: si tratterebbe di organizzare incontri dove il lignaggio mediatico del partecipanti conferisce ad un incontro la caratteristica di “evento”, permettendo in conseguenza l’afflusso di molto pubblico osannante.
Ben diverso è un avvenimento, dove accade qualcosa e non ci si incontra semplicemente perché il bel mondo lo ha stabilito.
Tale è la nascita di un figlio. È un evento, è un accadimento: prima non c’era e poi è nato ed è meraviglioso il Battesimo che, a sua volta, non è un evento, ma un avvenimento: il Padre lo dichiara proprio figlio, il Padre dichiara che quella vita non è a caso e dona lo Spirito nella lotta contro il demonio per la vita divina, nuova ed eterna.
Avvenimento è anche un matrimonio: fino a quel momento due persone si dicevano “Ti amo”, ora dicono “ti amerò”, perché è un avvenimento promettere di amarsi anche in vecchiaia, anche nel peccato. Nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia.
Non è qualsiasi amore ad essere un avvenimento, mentre lo è l’amore che diviene promessa per sempre e promessa di accogliere i figli che verranno, come parte integrante di quella promessa d’amore.
Una festa di nozze non è un evento, ma un avvenimento: prima non c’era quella promessa per tutta la vita, prima non c’era una famiglia con la promessa di accogliere figli, ora è nata una cosa radicalmente nuova e diversa dal semplice amore.
Ecco perché amo celebrare Battesimo e Matrimoni, mentre mi interessano meno gli eventi, le festicciole, i raduni, le serate organizzate a tema con questo o quell’invitato. Mi interessa ciò che accade e che cambia la vita. La vita sì. Quella mi interessa, e la vita accade e trasforma, non dura una sera.
Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco ai Rettori delle università del Lazio, tenuto il 16/5/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
Illustri Signore e Signori,
do il mio benvenuto a voi, Rettori dei tredici Atenei pubblici, statali e non statali, di Roma e del Lazio, raccolti nel Coordinamento Regionale delle Università del Lazio con i rappresentanti della Regione. Saluto il presidente, professor Stefano Ubertini, Rettore dell’Università della Tuscia, e lo ringrazio delle cortesi parole di presentazione.
Alle Università, in questo particolare momento storico, è affidato un compito di grande responsabilità. Gli anni della pandemia, il diffondersi in Europa della “terza guerra mondiale” che è incominciata a pezzi e adesso sembra che non sarà a pezzi, la questione ambientale globale, la crescita delle diseguaglianze, ci sfidano in modo inedito e accelerato. Una sfida che ha una forte implicazione culturale, intellettuale e morale. Questo scenario sta davanti alle giovani generazioni, rischiando di generare un clima di scoramento, di smarrimento, di perdita di fiducia, peggio ancora: di assuefazione. Dobbiamo dirci la verità: siamo in crisi. E la crisi non è una cosa brutta, non è una cosa cattiva: la crisi è buona, perché la crisi ci fa crescere, ci fa fare opzioni per crescere. Il pericolo è quando la crisi si trasforma in conflitto: il conflitto è chiuso e distrugge. Ma dobbiamo imparare a vivere in crisi, come adesso, e a portare avanti i giovani che sono nelle nostre università, insegnando loro a vivere in crisi e a superare le crisi. Questa è una delle cose più belle che si possano fare: come vivere la crisi e superare la crisi, perché non si trasformi in conflitto.
Ma i giovani non ci stanno, e ci richiamano alle nostre responsabilità. Allora è proprio questo il momento di un grande investimento educativo. Per questo si sta sviluppando il Global Compact on Education, ovvero un progetto di lavoro comune su scala globale, che coinvolge tanti interlocutori, dalle grandi religioni alle istituzioni internazionali, alle singole istituzioni educative. Firmando in questo spirito il documento sulla fratellanza umana ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019, abbiamo convenuto che «ci sta a cuore una formazione integrale che si riassume nel conoscere sé stessi, il proprio fratello, il creato e il Trascendente».
È questo, in concreto, l’orizzonte della pace: una formazione universitaria umana e universale, sul concreto. A volte, alcune università – penso ad alcune che ho conosciuto – portano avanti l’eredità universitaria dell’illuminismo, che è riempire di idee la testa, fare dei “macrocefali”, e questo non aiuta. Si deve educare col linguaggio della testa, del cuore e delle mani, e così si cresce nella società. Questo, in concreto, è l’orizzonte della pace che oggi giustamente reclamiamo e per cui preghiamo intensamente, e dunque dello sviluppo vero e integrale, che non si può costruire se non con il senso critico, la libertà, il sano confronto e il dialogo. E queste quattro cose non si possono fare senza libertà. Siamo qui alla base dell’idea stessa di Università e del ruolo che questa istituzione non può non avere, oltre le barriere e i confini.
In effetti, c’è molto da fare, per assicurare lo sviluppo tecnologico e scientifico, certamente, ma anche per garantirne la sostenibilità umana. I grandi cambiamenti chiedono di ripensare i nostri modelli economici, culturali e sociali, per recuperare il valore centrale della persona umana[1]. E «il termine stesso “università” designa una comunità, ma anche un’idea di convergenza di saperi, in una ricerca che fornisca verità e senso al dialogo tra tutti gli uomini e le donne del mondo»[2].
È dunque veramente importante il servizio che l’università può dare; che potete dare voi e gli Atenei che rappresentate, ciascuno con le proprie caratteristiche, per ripensare e adeguare i nostri modelli di sviluppo, facendo convergere le migliori energie intellettuali e morali. Gli studenti non si accontentano della mediocrità – la sfruttano, ma non si accontentano –; non si accontentano di una mera riproposizione di dati, nemmeno di una formazione professionale senza orizzonte. Lo dimostra, ad esempio, la grande mobilitazione di tanti giovani dottorandi e ricercatori sull’economia, coordinati da docenti di vostre Università, proprio con l’obiettivo di costruire risposte nuove ed efficaci, superando vecchie incrostazioni legate a una sterile cultura della competizione di potere.
Non vi manchi mai lo sforzo di ascoltare, le studentesse e gli studenti, i colleghi e le colleghe – quest’atmosfera di dialogo, non manchi questo –; ascoltare la realtà sociale e istituzionale, quella vicina e quella globale, perché l’università non ha frontiere: il sapere, la ricerca, il dialogo, il confronto non possono che superare ogni barriera ed essere “a tutto campo”[3]. Per favore, non vi manchi pure il coraggio dell’immaginazione e dell’investimento, per uno sviluppo umano della ricerca, per formare giovani capaci di portare qualcosa di nuovo nel mondo del lavoro e nella società; formarli anche al rispetto: rispetto di sé stessi, rispetto del prossimo, rispetto del creato e rispetto nei confronti del Creatore.
E nel promuovere l’eccellenza degli studi e della ricerca, vi esorto a vigilare perché tutti coloro che lo meritano e non ne hanno i mezzi possano esercitare in pieno il loro diritto allo studio e alla formazione. E così pure a portare avanti il lodevole impegno di accogliere studenti, ricercatori e docenti vittime di persecuzioni, guerre, discriminazioni in diversi Paesi del mondo. Possiate stimolare in molti le forme di “apprendimento-servizio” alla comunità, affinché, misurandosi con le povertà e le periferie esistenziali e sociali, diano ulteriore senso e valore alla loro formazione universitaria, mai disgiunta dalla vita, mai disgiunta dalle persone, mai disgiunta dalla società.
Ritorniamo così all’intenzionalità propria dell’istituzione universitaria, nell’impegno convergente della didattica, della ricerca, del dialogo e del confronto con la società. Auspico che le vostre siano comunità vive, comunità trasparenti, attive, accoglienti, responsabili, in un clima fruttuoso di cooperazione, di scambio e di dialogo, valorizzando tutti e ciascuno. Che possiate leggere e affrontare questo cambiamento di epoca con riflessione e discernimento, senza pregiudizi ideologici, senza paure o fughe, o, peggio, conformismi. E su questo mi raccomando di stare attenti alle ideologie. Le ideologie distruggono perché ci fanno vedere una sola strada e chiudono il panorama universale. Le ideologie distruggono l’umanità di una persona, le tolgono il cuore, le tolgono la capacità poetica, la creatività. Oggi ce ne sono tante: bisogna stare attenti a non cadere in questi atteggiamenti ideologici che distruggono, fanno tanto male. Anche nella Chiesa ne abbiamo, tante ideologie, a volte, che non fanno bene.
Mancano pochi anni al Giubileo del 2025. Ricordiamo che proprio tre anni dopo la prima celebrazione giubilare del 1300 fu istituito lo Studium Urbis, quasi a mostrare in pratica e ribadire il rapporto nativo tra la Chiesa e l’istituzione universitaria, una delle più antiche e paradigmatiche espressioni della civiltà europea, di qui poi sviluppatasi nel mondo. Questo antico e consolidato rapporto, nella distinzione e nella cooperazione, siamo chiamati a sviluppare e traguardare nella costruzione responsabile e sostenibile dei percorsi di sviluppo.
Il motto del prossimo Giubileo del 2025, Pellegrini di speranza, può allora esprimere questo impegno convergente, la tensione verso traguardi condivisi di vita, di bene e di fraternità. È il mio augurio e il mio ringraziamento al Comitato Regionale di Coordinamento delle Università del Lazio. Vi accompagno con la mia benedizione e la preghiera. E anche voi, non dimenticatevi di pregare per me. E se qualcuno di voi non prega perché non può, non sa o non se la sente, almeno mi mandi buone onde: ne ho bisogno! Grazie.
Note al testo
[1] Discorso all’Università Roma Tre, 17 febbraio 2017.
[2] Discorso a docenti e studenti della Libera Università Maria Santissima Assunta, 14 novembre 2019.
[3] Cfr Cost. Ap. Veritatis gaudium, Proemio.
1/ Rafa Nadal, maestro di tenacia, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sport.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
Non c’è mai stato nessuno che abbia giocato a tennis come Roger Federer, con la sua classe e la sua potenza, con colpi profondi e palle smorzate, con il suo dritto a uscire come una frusta e il suo rovescio devastante. Ma Federer ha sempre avuto un punto debole, che gli ha fatto perdere partite importantissime: in alcuni momenti di tensione ha come mollato, quasi si fosse arreso prima del tempo .
Non così Rafa Nadal: il suo punto di forza è la sua resistenza, il suo non arrendersi mai, il non mollare mai, la sua forza atletica che gli permette di recuperare palle ormai perse per chiunque.
Questo impressiona ed insegna in lui. Ad un punto dalla sconfitta, ad un passo dalla resa, lo si è visto combattere come se quel colpo fosse il march point. La sua impressionante forza atletica ed il suo temperamento agonistico lo sostengono quando si tratta di correre da una parte all’altra del campo e di recuperare palle sotto rete o agli angoli del campo che sembrerebbe impossibile poter raggiungere.
E questo anche ora che il piede non gli dà tregua: lo si è visto vincere il Roland Garros e due giorni dopo rientrare a casa in stampelle.
Quella resistenza e quella grinta, quel rialzare sempre il capo finché c’è ancora una possibilità, parlano a chi guarda Nadal giocare.
Di quella grinta avremmo bisogno in politica e nella chiesa, a scuola e in università, negli ambienti in cui si lotta per la vita o per la cultura.
Proprio l’impressionante striscia di vittorie sulla terra battuta, meno veloce dell’erba e del cemento, dicono le caratteristiche del tennista maiorchino: la resistenza e il carattere.
Magari tutti ne avessimo!
2/ Nadal e il dolore al piede. Ecco cos'ha e in che condizioni è il suo scafoide. Lo spagnolo ha la sindrome di Müller-Weiss, una malattia degenerativa molto rara che porta alla frammentazione e necrosi dello scafoide, di Lucia Resta
Riprendiamo sul nostro sito un articolo da La Gazzetta dello Sport del 5/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sport.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
Le voci sul ritiro di Rafael Nadal le ha smentite lui stesso: "Ho tanta energia, voglio continuare", ha detto dopo la vittoria al Roland Garros. Ma le condizioni del suo scafoide del piede sinistro preoccupano. Il campione spagnolo è affetto da una malattia molto rara e degenerativa, che di solito colpisce per lo più le donne over 40. Per questo il caso del tennista è molto particolare, perché non sarebbe nel target di questa patologia che si chiama sindrome di Müller-Weiss. Nadal combatte con i problemi al piede da molto tempo ormai, da quando si è infortunato nel 2005, scoprendo di avere una malformazione congenita dell'osso.
Già allora i medici dissero a Nadal che si sarebbe potuto ritrovare costretto al ritiro a causa di quel problema, ma lui, grazie all'uso di una soletta speciale per la scarpa sinistra, è riuscito ad andare avanti per tutti questi anni e a vincere come pochissimi altri nella storia del tennis, ossia come il suo amico Roger Federer e come Novak Djokovic: sono loro tre in corsa per il titolo di The GOAT nel tennis (The Greatest of all Times, il più grande di tutti i tempi). Cerchiamo di capire meglio che cos'è la sindrome di Müller-Weiss rifacendoci alle parole del dottor Umberto Alfieri Montrasio, responsabile dell’Unità specialistica piede e caviglia dell’IRCSS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, che lo ha spiegato a Gazzetta Active dopo l'uscita di scena di Nadal agli Internazionali di Roma.
Come ci ha spiegato il dottor Umberto Alfieri Montrasio, si tratta di una "patologia talmente rara che anche la letteratura è molto scarsa. Talvolta viene persino scambiata per una frattura". Infatti nella letteratura scientifica molte pubblicazioni sono "case report o casistica di pochi pazienti (4-5); tra i più noti vi è uno studio degli anni Cinquanta con 56 casi e due studi di Maceira". E quel poco che si sa, come abbiamo detto, è che il sesso più colpito è quello femminile, con una incidenza del 70% e l'età media dell'insorgenza della sindrome è intorno ai 45 anni, più in generale tra i 40 e i 60 anni. Nadal, invece, che ha appena compiuto 36 anni, ci combatte praticamente da quando aveva 20 anni. Ed è un vero miracolo che sia riuscito ad andare avanti per così tanto tempo. Questa patologia, infatti, "è caratterizzata dalla frammentazione e dalla necrosi dello scafoide tarsale o navicolare che con gli anni porta ad un processo artrosico di quelle articolazioni che ruotano intorno allo scafoide stesso".
CHE COS'HA NADAL AL PIEDE?
È dunque lo scafoide a dare problemi a Nadal, ossia quello che viene detto impropriamente anche "osso navicolare del carpo". È un osso che ricorda la forma dello scafo di una nave, un osso breve del carpo dalla forma allungata e con il maggior asse diretto lateralmente e in basso. Quando un piede è affetto dalla sindrome di Müller-Weiss, come ci ha spiegato il dottor Umberto Alfieri Montrasio, "si ha un rallentamento importante del processo di maturazione dello scafoide. Nel lungo periodo lo scafoide, sottoposto a degli stress, perde la propria elasticità e si frammenta, collassa, si disloca".
IN CHE CONDIZIONI È LO SCAFOIDE DI NADAL
Il piede di Rafael Nadal è ormai martoriato da anni di sofferenza. Ha questa malformazione da sempre, ma se ne è accorto soltanto nel 2005, dopo un infortunio, perché, come spiega l'ortopedico, questa patologia è molto subdola e all'inizio non dà alcun sintomo, quando arrivano dolore e difficoltà di movimento, di fatto ormai è già troppo tardi. Il dottor Umberto Alfieri Montrasio ci ha anche spiegato che la sindrome è talvolta accompagnata "da un bozzo nella parte interna del mesopiede. Di solito i pazienti affetti da Müller-Weiss hanno i piedi cavi, ma questo bozzo nella parte interna del mesopiede simula un piede piatto", ma anche questo sintomo compare quando ormai è tardi. Inoltre è stata notata, nei pochi casi che si sono potuti studiare, una associazione tra la sindrome di Müller-Weiss e il dolore alle ginocchia, altro punto dolente di Nadal.
UN PIEDE NUOVO
Quando a Nadal è stato chiesto se avrebbe rinunciato alla finale del Roland Garros 2022 in cambio di uno scafoide nuovo lui ha risposto senza indugi di sì, perché il suo piede gli dà problemi anche nella vita di tutti i giorni, non solo quando gioca a tennis e ha anche spiegato che dopo il ritiro vorrebbe continuare a praticare sport con gli amici a livello amatoriale. Ma il dottor Alfieri Montrasio ci ha specificato che anche per gli sportivi amatoriali la sindrome di Müller-Weiss causa limitazioni importanti, che è indispensabile l'ortesi plantare, una scarpa adatta e che anche se si può camminare, nuotare, andare in bicicletta, è invece meglio evitare sport come il tennis, il basket, il volley o il rugby perché causano ripetuti traumi del piede. E anche la corsa "può essere fatta solo se blanda, poiché sollecita molto il piede. E più questa piccola ma fondamentale parte del corpo viene traumatizzata, più aumentano le probabilità che lo scafoide si frammenti o dislochi".
Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco ai partecipanti al convegno "Linee di sviluppo del patto educativo globale" promosso dalla Congregazione per l'educazione cattolica, tenuto il 1° giugno 2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
Do il mio benvenuto agli illustri Rettori, Professori e partecipanti al Convegno internazionale “Linee di sviluppo del Patto Educativo Globale”. Ringrazio il Cardinale Versaldi per le sue parole di presentazione. È un finale “a tutta orchestra”, perché adesso i Dicasteri si accorperanno. Grazie, grazie per questo finale a tutta orchestra.
Mi rallegra che la proposta lanciata nel 2019 di un Patto Educativo Globale raccolga attenzioni da molte parti, e che anche le università stiano collaborando. Lo fanno attraverso approfondimenti su diverse tematiche, come la dignità della persona e i diritti umani, la fraternità e la cooperazione, la tecnologia e l’ecologia integrale, la pace e la cittadinanza, le culture e le religioni. Questo vostro Convegno si pone come momento di valutazione del lavoro svolto finora e di pianificazione dello sviluppo del Patto Educativo per i prossimi anni. Deve progredire e andare avanti, non rimanere chiuso.
Di recente ho incontrato i Rettori delle Università del Lazio. Con loro ho ricordato come in questo periodo dobbiamo imparare con i giovani studenti delle nostre università a vivere la crisi e a superarla insieme[1]. Questo per me è importante. Imparare noi e aiutare affinché imparino gli altri a vivere le crisi, perché le crisi sono un’opportunità per crescere. Le crisi vanno gestite e dobbiamo evitare che le crisi si trasformino in conflitto. Le crisi ti spingono in su, ti fanno crescere; il conflitto ti chiude, è un’alternativa, un’alternativa senza soluzione. Educare alla crisi: questo è molto importante. In questo modo essa – la crisi – può diventare un kairòs, un momento opportuno che provoca a intraprendere nuove strade.
Un modello emblematico di come affrontare la crisi ci è offerto dalla figura mitologica di Enea, il quale, in mezzo alle fiamme della città incendiata, carica sulle spalle il vecchio padre Anchise e prende per mano il giovane figlio Ascanio portandoli entrambi in salvo. È bello questo: “ …et sublato patre montem petivi” [«cessi, et sublato montem genitore petivi» (Eneide, II, 804)]. Così si supera una crisi. Enea salva sé stesso non da solo, ma con il padre che rappresenta la sua storia e con il figlio che è il suo futuro. E così va avanti.
Questa figura può essere significativa per la missione degli educatori, che sono chiamati a custodire il passato – il padre sulle spalle – e ad accompagnare i giovani passi del futuro. Essa ci permette anche di richiamare alcuni principi fondamentali del patto educativo globale.
Anzitutto la centralità della persona. Partendo da Troia, Enea non porta con sé dei beni, delle cose – a parte gli idoli Penati – ma solo il padre e il figlio. Le radici e il futuro, le promesse. Questo ci ricorda che in ogni processo educativo bisogna sempre mettere al centro le persone e puntare all’essenziale, tutto il resto è secondario. Ma mai lasciare le radici e la speranza del futuro.
Un altro elemento fondamentale è quello di investire le energie migliori con creatività e responsabilità. L’anziano Anchise rappresenta la tradizione che bisogna rispettare e conservare. Mi viene in mente quello che Gustav Mahler diceva sulla tradizione: “La tradizione è la garanzia del futuro”, non un pezzo di museo. Ascanio rappresenta il domani che bisogna garantire; Enea è colui che fa da “ponte”, che assicura il passaggio e la relazione tra le generazioni. L’educazione, in effetti, è sempre radicata in un passato, ma non per fermarsi: è protesa «a una progettualità di lunga durata»[2], dove l’antico e il nuovo si fondono nella composizione di un nuovo umanesimo. E contro questo, c’è la moda – in tutti i secoli, ma in questo secolo nella vita della Chiesa la vedo pericolosa – che invece di attingere dalle radici per andare avanti – quel senso delle tradizioni belle – si fa un “indietrismo”, non “sotto e su”, ma indietro.
Questo indietrismo che ci fa setta, che ti chiude, che ti toglie gli orizzonti: si dicono custodi delle tradizioni, ma delle tradizioni morte. La vera tradizione cattolica, cristiana e umana è quella che quel teologo [San Vincenzo di Lerins] – secolo V –, descriveva come una crescita continua, cioè in tutta la storia la tradizione cresce, va avanti: “ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”. La vera tradizione è questa, che si porta avanti con i figli.
Non bisogna trascurare, inoltre, che è fondamentale educare al servizio. Anchise e Ascanio, oltre a rappresentare la tradizione e il futuro, sono anche simbolo delle fasce fragili della società che bisogna difendere, respingendo la tentazione di scartare, di emarginare. La cultura dello scarto vuole farci credere che quando una cosa non funziona più bene bisogna buttarla e cambiarla. Così si fa con i generi di consumo, e purtroppo questo è diventato mentalità e si finisce per farlo anche con le persone. Ad esempio, se un matrimonio non funziona più, lo si cambia; se un’amicizia non va più bene, si taglia via; se un vecchio non è più autonomo, lo si scarta… Invece, fragilità è sinonimo di preziosità: gli anziani e i giovani sono come vasi delicati da custodire con cura. Ambedue sono fragili.
Cari amici, questo nostro tempo, in cui il tecnicismo e il consumismo tendono a fare di noi dei fruitori e dei consumatori, la crisi può diventare momento propizio per evangelizzare nuovamente il senso dell’uomo, della vita, del mondo; per recuperare la centralità della persona come la creatura che in Cristo è immagine e somiglianza del Creatore. Questa è la verità grande di cui siamo portatori e che abbiamo il dovere di testimoniare e trasmettere anche nelle nostre istituzioni educative. «Non possiamo tacere alle nuove generazioni le verità che danno senso alla vita»[3]. È parte della verità. Tacere le verità su Dio per rispetto di chi non crede, sarebbe, nel campo educativo, come bruciare i libri per rispetto di chi non pensa, cancellare le opere d’arte per rispetto di chi non vede, o la musica per rispetto di chi non sente. Grazie.
Vi ringrazio per il vostro lavoro al servizio dell’educazione, che è anche il contributo specifico che offrite al processo sinodale della Chiesa. Andate avanti in questa linea del passato verso il futuro, di crescita continua. Bambini e vecchi, avanti tutti. E state attenti all’“indietrismo”, che è la moda di oggi, che ci fa credere che tornando indietro si conserva l’umanesimo. Vi incoraggio ad andare avanti e vi accompagno con la mia benedizione. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.
Note al testo
[1] Discorso ai Rettori delle Università del Lazio (16 maggio 2022).
[2] Messaggio per il lancio del Patto Educativo Globale (12 settembre 2019).
[3] Discorso nell’incontro sul Patto Educativo Globale "Religioni ed Educazione" (5 ottobre 2021).
Riprendiamo sul nostro sito un articolo da Avvenire del 7/6/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Laicità e diritti umani.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
Immaginate un manichino vestito come una Madonna, con il seno scoperto. E immaginatelo, ora, portato in parata a spalla da quattro ragazzi, rigorosamente a volto coperto, durante un Gay Pride, con l’usuale contorno di Drag Queen, lustrini, ricchi premi e cotillons. Che cosa c’entra? Nulla. Come non c’entra nulla il fantoccio raffigurante papa Francesco che benedice, anch’esso sfoggiato nella medesima occasione. È successo al Cremona Pride, e se era un modo per fare pubblicità all’evento beh… ci sono riusciti. Ma un modo ben triste, di quella tristezza che lascia senza parole.
Squallido, prima ancora che blasfemo. Di una volgarità incomprensibile. Gli organizzatori, continuando a non collegare i neuroni tra di loro (ce ne saranno stati almeno due tra i presenti, o no?), alle dichiarazioni di quanti non hanno gradito la trovata l’hanno buttata in caciara, come si dice a Roma. «È la festa dei diritti contro tutte le discriminazioni, il nostro modo per rivendicare la possibilità di esprimere liberamente», ha detto dal palco uno dei promotori della marcia. E questo diritto alla libertà di espressione comprende anche libertà di insultare una religione? Fatemi capire bene: in Parlamento giace da tempo una proposta di legge ambigua, in base alla quale qualcuno potrebbe tentare di tappare la bocca anche ai parroci, in nome della (pur giusta) lotta all’omofobia e gli stessi che invocano certe norme reclamano il 'diritto' di far sfilare una Madonna con il seno nudo (e non perché allatta, come in tante immagini il Bambino)?
E io che scrivo queste righe potrei essere accusato (o persino incriminato) di omofobia? Che libertà di espressione sarebbe quella che consente di dileggiare a senso unico? È uno dei paradossi del politicamente corretto, che fanno a pugni con la logica più elementare. Come quelle assurdità che si sentono di tanto in tanto, che vorrebbero riscrivere le favole per renderle 'neutrali', così la matrigna di Biancaneve potrebbe essere declinata come 'genitore tre' , lasciando però sempre aperto il dubbio su chi sia il genitore uno e chi il due. Provate a esercitarvi su una qualsiasi favola, non se ne esce mai.
È impossibile. Perché è contro la logica, e andare contro la logica non si può. O meglio, forzando un po’ le cose si può provare a farlo, ma si finisce per truffare l’intelligenza delle persone, perché l’intelligenza è regolata dalla logica. E respinge le incursioni tentate da ciò che è illogico. Su questi paradossi gli esempi che si potrebbero fare sono decine e decine, ma restiamo sulla vicenda. Non sono mancate, a Cremona, le reazioni alla 'provocazione' dei manifestanti. I quali invece che dire: 'Ok, scusate, stavolta abbiamo fatto una stupidaggine', hanno rilanciato dicendo che le proteste veniva da 'partiti di destra', cosa data evidentemente per scontata, mentre avrebbe 'sorpreso' gli organizzatori la critica molto dura arrivata dal noto imprenditore e presidente della Cremonese Giovanni Arvedi. Sorpresi perché? Non è dato saperlo.
O forse proprio perché la libertà di pensiero dovrebbe funzionare a senso e schema unico? Il presidente dell’Arcigay s’è detto molto soddisfatto della riuscita della parata di Cremona. E non si sa se è una promessa o una minaccia, è il primo di cinquanta Pride che toccheranno tutte le città italiane. Non ci resta che pregare e sperare perché qualcuno 'attacchi' finalmente il cervello e lo accenda. Eppure non è così difficile da capire: se le persone hanno tutte eguale dignità, questo vale per tutti, non per qualcuno meno e per qualcuno più. Quale che sia la loro condizione personale, il loro modo di pensare, la loro fede. Il rispetto è dovuto alle persone e ai simboli che parlano al cuore e all’intelligenza di quelle stesse persone. Certo non di meno ai simboli delle religioni, di ogni religione. Compresa quella cattolica.
1/ Concorsi pilotati in università: 191 indagati/ “Scegliamo i vincitori, poi i bandi” , di Niccolò Magnani
Riprendiamo sul nostro sito un articolo da Il Sussidiario, pubblicato il 29/5/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Università.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
In origine fu l’Università degli Studi di Firenze, dove il rettore è stato indagato e interdetto con l’accusa di concorsi pilotati: in due anni, spiega oggi un’inchiesta speciale su “La Repubblica”, sono ben 191 i docenti indagati da Nord a Sud. Un “sistema” che, se confermato poi dalle sentenze, si dimostrerebbe marcio dal suo interno con concorsi truccati, bandi “postumi” e rapporti “parentali” tra i vari professori.
In Italia lo si chiama da tempo il “sistema dei baroni”, spesso facendo della becera demagogia: quanto però emerso dalle indagini scaturite dall’inchiesta “Università bandita” della procura di Catania, ecco che quei “baroni” non ne escono certo benissimo. «Al Sud (Università Mediterranea di Reggio Calabria), nelle isole (Università di Palermo e Sassari), al Nord (Statale di Milano, Torino e Genova), nella provincia del Centro (la Stranieri di Perugia) e nelle sue città (Università di Firenze)»: di questo parla il focus di “Rep” oggi, citando un numero impressionante di indagini ancora in corso, specie presso le facoltà di Giurisprudenza e Medicina.
A vario titolo, si citano «patti tra baroni, commissioni controllate, candidati favoriti, candidati ostacolati», il tutto nei soli ultimi tre anni. Ad oggi, spiega “La Repubblica”, sono 191 i docenti indagati tra ricercatori, professori, direttori, protettori e pure rettori: le accuse più gravi sono truffa, l’associazione a delinquere e “pilotaggio” di ben 57 bandi di concorso pubblico. Come emerso dalle indagini di questi anni, spesso i “sistemi” nascevano dai vertici delle università, dagli stessi rettori: “Rep” cita i casi di Tor Vergata, Firenze, Reggio Calabria, Perugia, Statale Milano e San Raffaele.
LE INTERCETTAZIONI SUI DOCENTI INDAGATI: “CI SCEGLIAMO I VINCITORI…”
Sempre su “La Repubblica” vengono poi citate diverse intercettazioni emerse dalle indagini delle Procure sui vari professori-rettori delle Università coinvolte: dal mobbing nei confronti dei candidati meno graditi fino alla spartizione dei posti secondo i desiderata dei vertici universitari, questo quello che emergerebbe dalle inchieste finora realizzate.
«Siamo tutti parenti (…) I nostri concorsi sono truccati» si sente dire nelle intercettazioni dall’Università di Catania, ma non solo: a Reggio Calabria, si legge sempre su “Rep”, non vi sarebbe alcun bando o risultato accademico che avvenga senza la decisione dei vertici. «Che devo fare, ormai ha gli impegni presi. Non capisco perché ma vabbè. Comunque, lo vogliamo fare e stiamo prendendo due cessi. È inutile che Pasquale (Catanoso, ndr) mi dice che sono fuoriclasse», lamentava il capo del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Reggio Calabria, Massimiliano Ferrara, mentre parlava con il rettore dell’epoca, Pasquale Catanoso. «Ci scegliamo i vincitori, poi scriviamo i bandi», emerge da altre intercettazioni citate da “La Repubblica” e ritenute prove nelle inchieste di diverse Procure. L’ex primario dell’Urologia oncologica a Firenze, Marco Carini, pareva progettare ritorsioni contro un collega “anti-sistema”, il chirurgo Massimo Bonacchi: nelle intercettazioni divenute poi note dopo l’inizio dell’inchiesta, si leggeva «Io una soluzione l’avrei, un po’ di mobbing obbligandolo a fare guardie e lavorare. Chiaramente si dimentichi concorsi».
2/ I concorsi truccati all’università e il linguaggio (sconcertante) utilizzato dai baroni. Negli ultimi tre anni, ben nove procure hanno avviato indagini nelle università italiane, da Milano a Palermo, passando per Genova, Roma e Firenze, di Chiara Capuani
Riprendiamo sul nostro sito un articolo da next quotidiano, pubblicato il 29/5/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Università.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
Un sistema basato sullo scambio di favori: oggi a te, domani a me. Sembra reggersi su questo concetto la struttura dei concorsi pubblici nelle università italiane, quegli stessi concorsi che dovrebbero (ipoteticamente) garantire l’accesso ai dipartimenti, l’avvio di una carriera accademica all’interno degli atenei, ma che – soprattutto nel nostro Paese – si rivelano spesso un incubo per i candidati, costretti a sottostare a bandi fatti ad hoc per individui prescelti, aspettando che arrivi il proprio turno. Forse. Prima o poi.
Come riporta un’inchiesta di Repubblica, negli ultimi tre anni ben nove procure hanno organizzato indagini strutturali nelle università italiane, da Milano a Palermo, passando per Genova, Roma e Firenze. Quello che emerge è un quadro scioccante, tra concorsi truccati e intercettazioni che portano alla luce un linguaggio – quello utilizzato dai baroni – davvero sconcertante. I settori più colpiti sono medicina e giurisprudenza, anche se il problema rimane trasversale. E i numeri parlano chiaro: negli ultimi dodici mesi sono 191 tra ricercatori, professori ordinari e associati, direttori di dipartimento, rettori ad essere indagati. I capi d’accusa vanno dalla truffa all’abuso di potere fino all’associazione a delinquere.
I concorsi truccati all’università e il linguaggio (sconcertante) utilizzato dai baroni
A corredo di questo sistema corrotto, sono spuntate poi anche le intercettazioni, pubblicate sempre da Repubblica a seguito dell’inchiesta. Ampio il ventaglio delle frasi utilizzate per mercanteggiare sulle cattedre. La regola di base? “Non si possono prima fare i bandi e poi cercare i vincitori, bisogna fare il contrario”. A Milano, un’inchiesta sui concorsi a Medicina presso l’ospedale Sacco, vede indagato l’infettivologo Massimo Galli: “Ma cerchiamo di fare le robe ogni tanto un po’ più…seriamente”, dichiarava la direttrice amministrativa di Scienze biomediche Monica Molinai a una ricercatrice, riferendosi alla disinvoltura di Galli nel pianificare i bandi. Le due commentavano anche la commissione: “Mettiamo che quello di Palermo sia abituato a metodi un po’ più spicci, quello di Roma magari sta più attento, no?”.
Intercettazioni che mettono in evidenza tutta la corruzione del sistema che, a Genova, si è tradotta in una specie di metafora gastronomica, con il prof Costanzo che, rivolgendosi al collega Daniele Granara in merito alla scelta fra cattedra in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato, gli consigliava: “È solo una tua preferenza soggettiva…se vuoi il bignè o la torta o il cannolo”.
Riprendiamo da Avvenire del 4/5/2022 un articolo di Flavia Marcacci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2022)
«Perché gli uccelli, poggiandosi sui rami degli alberi, possono stare fermi e dormire senza cadere?». È una domanda comune tra i bambini e spesso per rispondere bisogna far mente locale su minimi elementi di ornitologia. Durante il sonno gli uccelli si irrigidiscono così tanto che la muscolatura degli arti e delle zampe permette agli artigli di aderire bene al ramo «come una tenaglia», gli arti inferiori restano arcuati ed è impossibile che essi cadano.
La domanda non l’ha fatta, però, un bimbo nel 2022. Fu pubblicata nel 1680, dopo circa trent’anni di lavoro e con la risposta corretta, in un’opera antesignana che indagava il moto degli esseri viventi. La cosa interessante è che per arrivare a formulare la risposta fu impiegata tanta geometria.
Analogamente fu spiegato perché gli uomini possano camminare sul ghiaccio o perché gli animali più piccoli e più leggeri fanno dei grandi salti rispetto al loro corpo e ad animali più grandi. E ancora, dopo aver analizzato la respirazione, si indagò come si costruisca una macchina con la quale gli uomini possono respirare e vivere sott’acqua per diverse ore.
La scienza fisica e matematica, che avevano mutato dall’intimo l’astronomia e reso la Terra un corpo mobile, andavano ora a indagare le scienze biologiche grazie all’estro e al genio del partenopeo Giovanni Alfonso Borelli, conosciuto in ogni ambiente culturale italiano dell’epoca e operativo soprattutto a Messina. Dopo circa 350 anni abbiamo finalmente la traduzione italiana del suo De motu animalium (a cura di Luigi Ingaliso, Rubbettino pagine 1138, due volumi, euro 49). L’edizione è corredata da splendide tavole che riproducono le immagini con cui Borelli integrava le sue dimostrazioni: la rivoluzione visuale della scienza campeggia qui in schemi, diagrammi, riproduzioni che permettono di capire bene la logica meccanica del moto dei viventi e i dei suoi meccanismi. Vedere significa capire, perché si capisce solo mostrando e dimostrando.
La descrizione dell’anatomia di arti e muscoli è la premessa necessaria per applicare i lemmi meccanici che spiegano il funzionamento e gli effetti delle forze. In aria come nell’acqua, per gli uomini come per gli animali. Anche la purificazione del sangue nei reni e della bile nel fegato, così come la nutrizione e la digestione, e anche la generazione dei viventi sono possibili in virtù del comportamento meccanico delle particelle di cui gli organismi sono composti. Queste particelle sono di varie specie e possono adattarsi soltanto a quegli organi che, come fossero crivelli, filtrano l’una o l’altra specie. Sono sempre particelle quelle che ammalano l’essere umano quando dalla terra salgono esalazioni tossiche che poi precipitano con la pioggia e penetrano nei polmoni. Similmente il cuore non è la sede del calore innato e, contro la concezione di Aristotele e di Cartesio, è invece un muscolo innervato, una pompa sanguigna con struttura stratiforme.
Borelli non vide la sua opera pubblicata, perché morì per una polmonite nel 1679. Ne affidò la stampa a padre Carlo di Gesù e ai suoi allievi dell’Ordine degli Scolopi. Padre Carlo non nascondeva l’attenzione per la nuova scienza, favorendone lo studio nei corsi superiori delle Scuole pie. D’altra parte, il religioso era stato allievo di padre Angelo Morelli, coinvolto nella traduzione dall’arabo delle Coniche di Apollonio. Nell’opera di Borelli si sente la frequentazione dell’Accademia del Cimento e l’approccio profondamente sperimentale.
La vocazione galileiana dell’opera di Borelli è evidente, pagina dopo pagina, e usciva dopo la condanna e l’abiura dello scienziato pisano (1633). La generazione dei primi galileiani tra mille fatiche si era concentrata in quei decenni per consolidare e diffondere il metodo sperimentale di Galileo. Per qualche motivo, invece, l’imprimatur del De motu non costò fatica. Forse ciò avvenne a ragione dell’appoggio della regina Cristina di Svezia, convertita al cattolicesimo e donna di profonda sensibilità artistica e scientifica, o in virtù della frequentazione da parte di Borelli degli ambienti romani con esplicita ammissione di obbedienza alla Chiesa. Gesuiti come G. B. Villalpaldo o J. Prado non sono espressamente menzionati da Borelli, ma lo scienziato li aveva presenti riprendendone alcune concezioni: nel loro commento al libro di Ezechiele (Roma, 1596-1604) evocavano i principi di statica animale e la legge dell’equilibrio dei corpi pesanti ricondotta alla teoria dei baricentri. Come capitava spesso, nei commenti alla Scrittura potevano esserci riferimenti a nozioni scientifiche: si tratta di riferimenti utili a capire dove e come circolasse l’informazione scientifica.
Allievo di Benedetto Castelli, lettore attento di Harvey e di Gassendi, maestro di M. Malpighi e C. Aubry, matematico sulla linea del Maurolico, interessato a questioni astronomiche raffinate, Borelli ha diffuso con il De motu la concezione della coincidenza tra vita e moto e la necessità di lasciarsi guidare da accurate osservazioni e schematizzazioni affinché metodi di diagnosi e cura siano più efficaci. È una pregiata occasione poter sfogliare queste pagine e capire di dove viene la scienza medica di oggi.
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