La Chiesa nella stazione ferroviaria: una testimonianza esemplificativa sull’identità della Chiesa, di Joseph Ratzinger
Riprendiamo sul nostro sito un testo del giovane Joseph Ratzinger e precisamente la Conferenza per la celebrazione del 75° anno di attività della cattolica Unione per la protezione della giovane - ora Associazione per il lavoro sociale delle giovani – tenuta il 25.04.1970 a Monaco di Baviera, pubblicata in Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp. 200-212. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Ecclesiologia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2022)
La missione nelle stazioni [...] ci permette di riconoscere nel modo più facile il contesto storico di questa fondazione.
Essa cerca di dare una risposta a quella nuova situazione dell’uomo all’inizio del XX secolo, che trova nella stazione il suo primo simbolo pubblico. La stazione è il luogo in cui, per un verso, i mondi vengono a contatto, in cui vicino e lontano vengono messi in comunicazione; è luogo dell’incontro, dello scambio fra il qui e il là, ma, d’altro canto, è anche il luogo dell’estraneità, dell’anonimità, della mobilità, che muta e dissolve le antiche radici.
Se oggi in molte delle nostre città la stazione si è trasformata nel punto di incontro dei lavoratori immigrati, ciò significa che per loro la stazione è il luogo che li collega, pur in mezzo a stranieri, alla loro patria, è quasi la finestra che dal paese straniero guarda verso casa, la promessa della strada che porta là; ma proprio in quanto rappresenta, in questa forma, un mezzo di patria, essa è anche l’espressione dell’inguaribile nostalgia; essa rimane quindi sia richiamo alla patria sia, allo stesso tempo, simbolo dell’estraneità, dello sradicamento.
L’esperienza spirituale, che incontriamo qui, mette in luce particolarmente la situazione di crisi dell’inizio del XX secolo, alla quale cercò di dare una risposta la fondazione dell’unione.
L’antica civilizzazione agricola va verso la fine ed anche la città, magnificata dalla cultura umanistica, entra in una fase di mutamento radicale. Si avvicina l’epoca della tecnopoli; così H.Cox chiama la nuova forma della città e, di conseguenza, la nuova forma di civilizzazione e di società umana, che stanno formandosi e diventano, con sempre maggior velocità, destino e problema per tutti noi.
Le caratteristiche della tecnopoli che sta sorgendo sono, a parere di Vidich e Bensam, ai quali si collega Cox, la mobilità, la concentrazione economica e la comunicazione di massa. Si dovrebbe certo aggiungere con Cox, che alla comunicazione di massa fanno da corrispondente l’anonimità del singolo e l’impersonalità. La forma di base nella quale l’umanità – e l’uomo in essa – esperimenta e realizza se stessa, muta essenzialmente con il crescente dilatarsi del fenomeno della tecnica.
L'uomo sta di fronte ad una nuova fase della sua storia, nella quale gli si aprono nuove possibilità, nella quale però è gettato anche in pericoli del tutto nuovi. Tutto ciò avviene con differente rapidità nei singoli strati sociali; la nuova messa in pericolo dell'uomo, che qui sorge e che fa richiedere una protezione - protezione dell'uomo da se stesso e per se stesso - si può osservare naturalmente, in primo luogo e nella forma più acuta, proprio tra i deboli e gli abbandonati della società, in quelli che dalla stabilità dell'ordinamento rurale vengono direttamente proiettati nella mobilità ed anonimità della nuova epoca; soltanto in essa infatti si può aspettarsi il necessario sostentamento vitale, e ciò avviene in forma più accentuata per le donne che per gli uomini, considerata di nuovo la posizione più debole che era senz'altro assegnata alla donna in questa fase della società occidentale.
Cosa viene fatto qui dunque? Si cerca di creare all'interno della mobilità una continuità che sostenga e metta al sicuro l'uomo; una continuità che lo protegga dai banditi moderni, che abusano dell'uomo in forme molteplici, facendolo oggetto dei loro affari. Si cerca inoltre di procurare, in mezzo all'anonimità, la comunicazione personale che è il mezzo fondamentale per ritrovare se stessi e per autorealizzarsi.
Ma ciò vuol dire che la chiesa storicizzata nella particolare località si riconosce e si mette a disposizione di tutti gli uomini come l'unica chiesa. La chiesa è sorta nella tarda antichità come una comunità di persone tali che dovevano sentirsi un po' come «stranieri, uomini seduti vicino» casualmente, e dunque, se si vuole, una specie di ambiente di stazione: non una società chiusa, che gestisce la sua vita comune e non vuol essere disturbata da altri, ma lo spazio aperto di coloro che, sparpagliati per il mondo, professano il nome di Gesù Cristo e sono aperti tutti l'uno per l'altro e per colui, che cerca la verità della vita umana.
Ciò vuol dire che la chiesa è sempre e soltanto l'unica chiesa, in tutti i luoghi. Noi oggi sperimentiamo una riscoperta del principio della chiesa locale. Si sta di nuovo prendendo coscienza del fatto che una chiesa si forma in un luogo e qui trova la sua più diretta e concreta realizzazione.
Nello stesso tempo vengono riscoperti e sperimentati i livelli intermedi della realizzazione ecclesiale, cioè le conferenze episcopali e gli organismi ecclesiali con esse coordinati, e questo in primo luogo a partire dall'introduzione nella liturgia della lingua popolare, che va sviluppandosi a vista d'occhio. Anche questo ha la sua importanza come vivificazione della struttura ecclesiale e come possibilità dell'inserimento delle molteplici e specifiche possibilità dei singoli popoli nella chiesa universale.
Ambedue i movimenti però possono assumere un risvolto negativo là, dove una comunità si chiude in se stessa e si ritiene autosufficiente; lì appunto dove dei singoli gruppi nazionali percorrono indipendentemente la loro strada e dimenticano di essere chiesa soltanto nella totalità e nella tensione ad essa.
Se dieci anni fa si doveva ricordare ancora che una comunità (una parrocchia) non è un distretto amministrativo, ma è anche chiesa, adesso è necessario ricordare che la chiesa universale non rappresenta soltanto una copertura organizzativa, ma è veramente la chiesa stessa e che la comunità rimane chiesa soltanto se è nell'universalità.
Non si può, infatti, possedere solo per sé il Cristo incarnato, che è la vera vita della chiesa e che dimora in pienezza tra noi in ogni assemblea ecclesiale; questo Cristo, che vuol rendere chiesa completa ogni assemblea che si riunisce in suo nome.
Egli è tutto nel singolo ed è uno soltanto nella totalità. Perciò non lo si può possedere senza la universalità men che meno contro la universalità. Il vivere nell'universalità è quindi il criterio basilare per decidere se una comunità si raduna nel suo nome ed è quindi chiesa. La regola fondamentale per essa è la sua non-chiusura, la sua non-autonomia, la sua apertura verso il tutto della chiesa. Il suo criterio è la volontà di non essere qualcosa di particolare, ma di incorporare in questo luogo l'unica chiesa, che è dappertutto identica e soltanto così è se stessa.
Che implicanza ha tutto questo per la nostra questione? Vuol dire che i fondatori dell'Unione per la protezione della giovane, e tutti coloro che hanno portato avanti finora la loro opera, realizzarono a loro modo questo modello della chiesa aperta. Nella semplicità e nel realismo di una fede che non pone molte domande, ma vive con tanta maggior intensità ed afferra con tanta maggior sicurezza la realtà, essi si sono adoperati - a fatti, non con belle teorie - affinché il modello della chiesa antica, nella sua concatenazione tra comunità locale e apertura universale, offrisse una risposta diretta alla società di oggi, caratterizzata dalla mobilità e dalla concentrazione; e si riesce soltanto se si tenta di rivivere questo antico modello e di accoglierlo con tutte le sue conseguenze.
Nella ingarbugliata disputa sulla chiesa del futuro, sulla chiesa nell'epoca della tecnopoli è stata presa qui una decisione provvisoria che è esemplare e che noi abbiamo compreso appena a sufficienza proprio nella sua attualità e modernità.
Questo mi sembra vero in due maniere. Anzitutto la fondazione di quest'Unione significa che la chiesa locale non si chiude in una speciale forma di esistenza comunitaria, articolata a mo' di chiesa particolare o in qualche altra forma, ma si conosce e vive come chiesa della stazione, ad esempio, (ma anche come chiesa di tutti gli altri settori dell'Unione), proprio come chiesa aperta degli uomini non integrati.
In mezzo all'anonimità, che deriva dalla mobilità, comprende se stessa come l'unica chiesa che abbraccia tutti gli spazi della mobilità umana e si offre ovunque come l'unica istituzione che è patria in ogni regione straniera. Questa disponibilità a considerarsi incessantemente la chiesa aperta, che non si divide in gruppi linguistici ed etnici, ma è a disposizione dell'universalità in quanto presenza dell'universale in questo luogo, mi sembra di importanza fondamentale ed è anche un contributo del tutto specifico della chiesa al chiarimento dei problemi del nostro tempo; la mobilità da sola non crea alcuna unità, cosi come la concentrazione da sola non opera alcuna comunicazione.
Ma l'essere cristiani rettamente inteso, include sempre una certa trascendenza della situazione particolare dello specifico carattere nazionale, della singola lingua, della particolare condizione (e non pertanto il loro consolidamento sacrale).
Esso pone una realtà che può adempirsi sempre e soltanto nella convergenza verso l'universalità. La società di oggi, mobile, concentrata ed anonima, se vuol vivere ha bisogno proprio di tali elementi di convergenza. E una simile conseguenza non può acquistare realtà in quanto tesi ideale, ma soltanto nella positiva pazienza di quelli che stanno realmente nei luoghi della mobilità e dell'anonimità come uomini dedicatisi, con i fatti, all'esecuzione di questa convergenza.
L’altra cosa che mi sembra di rilievo in questo contesto è il fatto che qui si è trattato, e si tratta in sostanza, di una iniziativa laica, che riconosce la necessità interiore della fede e la realizza, come necessità, nella libertà.
Io temo che oggi siamo alquanto lontani da simili realizzazioni spontanee di ciò che è conforme alla fede e che ci siamo assorti, nella stessa misura, in un teorizzare quasi senza speranza, nel quale appunto questa teoria parla con energia fortissima della necessità della prassi.
Davanti ad un movimento laicale cosi significativo e sempre esemplare come questo, mi sembra indispensabile dichiarare che la forma, in cui oggi viene portata avanti nella chiesa la cosiddetta scoperta del laico, va proprio nella falsa direzione.
Per teologia del laico si intende oggi sempre più la lotta per una nuova forma dell'ufficio ecclesiale, ciò che è una vera contraddizione in termini. Il laico infatti o è laico o non lo è. Una teologia del laico, che viene portata avanti come lotta per la proporzione nel governo della chiesa, è una caricatura di se stessa e rimane tale anche se questo malinteso viene ammantato con il concetto di una direzione sinodale della chiesa.
E purtroppo questo non è soltanto uno sbaglio della teoria, ma una deviazione delle forze nella chiesa ed un fallimento nei confronti del loro compito; quando la teologia diventa teoria della politica ecclesiale e lotta per partecipare al governo della chiesa, la forza d'urto va solo verso l'interno di essa. La chiesa si occupa soltanto di se stessa e così logora se stessa. La forza, che le è stata concessa proprio per servire, per essere presenza per altri, viene impiegata nella lotta per dominare e per tenere in moto se stessa. Ma una chiesa che capisce e vive rettamente se stessa non guarda a sé, ma si allontana da sé ed opera per gli altri.
È esattamente quanto accade qui. Il laico dimostra la sua libertà e la sua necessità nel fare ciò che la chiesa deve fare, ciò che è una necessità per essa e ciò che, tuttavia, può accadere in essa soltanto se vien fatto liberamente, per libera iniziativa. E noi oggi abbiamo urgentissimo bisogno proprio di abbandonare l'autogestione ecclesiale e di rivolgerci agli uomini che ci aspettano. La vera libertà e la vera necessità del cristiano che vive nella fede di Cristo, senza incarico ecclesiastico, consiste anche oggi nel portare avanti con decisione e temerarietà simili iniziative, anche se il trend non ne sa nulla e il magistero ecclesiastico non le incoraggia eccessivamente.
Allora e soltanto allora la chiesa si conserva come la forza del futuro, che non viene superata dalla società in marcia verso la tecnopoli, ma viene anzi richiesta nuovamente da essa.
In questo contesto si può accennare ancora ad un terzo tratto caratteristico dell'universalità. Nella cronaca dell'anno 1902 si dice che l'Unione, rifondata a Regensburg, avesse istituito dei corsi serali per stenografia, ragioneria, corrispondenza commerciale, contabilità commerciale, lingua francese e ben presto anche dattilografia... «essa fece nascere molte unioni, ... ma si ritirò sempre, non appena una unione era diventata autosufficiente». La chiesa in sé e in quanto tale non è affatto un istituto sociale d'assistenza e neppure una scuola secondaria popolare. Ma essa può, in via sussidiaria e in situazioni convenienti, sostenere il compito di produrre le iniziative necessarie, che aiutano l'uomo ad essere in grado di percorrere la sua strada nella società moderna; la chiesa lascerà libere tali iniziative non appena il servizio sussidiario ha raggiunto il suo scopo. Essa non può cambiare il suo messaggio con un servizio sociale, però la forza di questo messaggio lascerà sempre dietro a sé delle nuove iniziative sociali, così come essa supera la portata di queste iniziative per tendere a quella maggiore grandezza che sarà e rimarrà un'esigenza dell'uomo anche nella società tecnica.
Riassumendo le precedenti riflessioni possiamo dire che il lavoro dell'Unione per la protezione della giovane si serve, in pratica, dell'universalità e dell'identità dell'unica chiesa in un luogo concreto della storia e della vita umana e cerca di tradurle in realtà di vita quotidiana.
È possibile ora un ulteriore passo avanti, che ci introduca al motivo intimo dell'universalità e dell'identità ecclesiale e cosi, mentre tocchiamo il nocciolo del tema - l'interrogativo sull'uomo stesso - veniamo riportati al problema dal quale eravamo partiti.
Ora infatti si deve ricercare da dove prenda la sua identità la chiesa, perché essa possa tentare di essere la stessa in ogni tempo e in ogni luogo e possa aiutare l'uomo a raggiungere, nella mobilità, la sua identità.
Essa lo può fare soltanto a partire dal suo punto centrale, dalla fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che è nello stesso tempo l' «ultimo uomo», cioè il progetto definitivo dell'uomo e la ricapitolazione nel loro omega di tutti gli abbozzi umani.
A partire da Cristo essa sa che esiste un solo Padre di tutti gli uomini. Da lui è venuta a conoscenza dell'identità inviolabile dell'essere uomo e di conseguenza della dignità umana di tutti gli uomini, che purtroppo non è un dato di fatto nella storia reale, ma tanto più diventa l'imperativo pressante per un credente, che non può accontentarsi (tanto è importante) di una generale fraternità ontologica.
Nell'imitazione di Dio, che ha creato di persona la realtà ed è entrato persino nella positività della vita e del soffrire umano, essa deve lottare piuttosto per la realizzazione del compito principale, di svelare cioè agli uomini la loro fratellanza e di vivere proprio di questa scoperta. Il credente dovrebbe essere spinto dall'irrequietezza di uno scopritore, che deve render nota la sua conoscenza, sovvertitrice della storia, la deve far accettare e portare ad una realizzazione pratica.
Ed è questo ciò che affascina nelle grandi figure della storia dell’Unione: Padre Cipriano Fröhlich, la contessa Cristiana von Preysing, Luisa Fogt, la baronessa Maria von Hohenhausen, Ellen Amman; si sperimenta in essi l’entusiasmo dello scopritore, che non li lascia star fermi, per il quale essi si struggono; in loro si può vedere di nuovo come Cristo sia una scoperta per l’uomo.
Quanto è gretta in confronto a ciò la lotta per le competenze ed il cronico giocare al rialzo di ogni risentimento, che noi oggi sperimentiamo, come se fosse eroico persistere nel risentimento ed enumerare di nuovo le ferite, che nel corso del tempo si sono sofferte dalla chiesa o per la chiesa.
Per la chiesa e per quest’unione, che vive del fondamentale impulso della fede della chiesa e cerca di farla valere in un luogo determinato, si tratta, né più né meno, che della fraternità universale. Si potrebbe però chiedere: cosa viene ottenuto di sicuro? Chi viene raggiunto? In questo contesto mi sembra importante un passo che si trova nella cronaca dell’anno 1903 e che dice: “Ad una signora della missione nelle stazioni, dopo averle chiesto lo ‘scopo dell’Unione’, una specie di sfruttatore di prostitute dice: ‘È buffo, qui lei ne riceve una, mentre io ne posso avere dieci e più ogni giorno...’; detto questo sparì”...
Stimatissime signore, trovate ancora ridicolo attendere questa sola persona alla stazione, magari anche per cento ore al mese, in modo da dare l’impressione di aspettare inutilmente per novantanove? Cosa è quest’unica persona? È l’intero prezzo del prezioso sangue di Cristo. E per voi... cos’è quest’unica persona per voi? Vi dà la risposta San Giovanni Crisostomo: Nulla nel mondo raggiunge il valore di una singola anima”.
In un linguaggio che suona forse un po’ patetico, viene espresso qui qualcosa di decisivo e di duraturo, che oggi, di fronte alla miseria delle masse che ci troviamo davanti e di fronte alla violenza con cui ci aggredisce il problema sociale, può facilmente uscire dal nostro campo visivo. Io avevo già ricordato... che oggi al servizio dell’amore fraterno cristiano viene opposto l’interrogativo se non si trascuri, in questo modo, il necessario cambiamento delle situazioni, se si dia aiuto nel singolo caso e non ci si renda conto del problema collettivo. La chiesa distribuisce ombrelli, così si dice, mentre si tratta di cambiare le condizioni generali del tempo.
Benché proprio questo esempio sia adatto per richiamare alla memoria i limiti di simili sforzi, non si può senz’altro contestare la giustificazione della richiesta di principio. È necessario certo trattare con molta decisone del problema di costruire la tecnopoli come città dell’uomo e di impiegare per un simile compito collettivo, indirizzato al futuro, tutta la forza di cui è meritevole.
Ma l’uomo non è mai puro materiale di costruzione del futuro. Ed egli non si schiude mai del tutto nelle relazioni, ma rimane sempre un nuovo interrogativo, che si protende verso l’infinito: egli esige una risposta personale, che non può mai venire interamente pianificata.
Perciò non ci saranno mai situazioni che rendano superflua l’attività personale, premurosa ed amorosa per l’uomo. Perciò la preoccupazione per il futuro non può mai diventare l’alibi per disfarsi del presente e la lotta per il collettivo non può mai sostituire la donazione al singolo.
Accanto allo sforzo pianificatore, e forse anche combattivo, per il futuro della totalità deve perciò esistere sempre la lotta per l’uomo qui e oggi, nelle situazioni e nelle possibilità dell’oggi, per il singolo nella necessità e nel pericolo di quest’oggi.
Pianificazione del futuro, quando essa avviene positivamente, è amore per chi è molto lontano. Non sostituisce l’amore del prossimo. Forse la pianificazione del futuro e il concreto servizio dell’amore fraterno qui e oggi dovranno in futuro fecondarsi a vicenda più di quanto finora è avvenuto.
Ma il vero e proprio cuore del cristianesimo è e rimane l’amore del prossimo. In realtà, infatti, ogni singolo individuo è amato infinitamente da Dio ed ha un valore infinito.
Come ha acutamente compreso Pascal, Cristo dice a ciascuno: nella mia agonia io ho pensato a te. Io ho versato per te questa goccia di sangue. Se un uomo riuscì a dare significato ad un individuo, ad una singola persona per mezzo del suo amore, ha reso infinitamente profittevole la sua vita.
E resterà sempre il fatto che alcuni uomini vivono perché hanno incontrato un tale amore, che offre una ragione di vita; ciò si avvererà in tutte le situazioni; questo dono non verrà reso superfluo da nessuna riforma e da nessuna rivoluzione.
E viceversa: ci fu salvezza in ogni situazione in cui, in un mondo di inimicizia e di estraneità, si incontrò uno che uscì dal collettivo e fu fratello.
Questi incontri salvifici, che non sono registrati da nessun libro di storia, sono la vera, l’interiore storia della chiesa, che noi oggi, per quanto riguarda la storia delle istituzioni, dimentichiamo più che mai. Solo aiutando a salvare gli altri veniamo salvati noi stessi; solo mentre proteggiamo gli altri viene provveduto anche a noi.