Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Alto medioevo e Islam. Per il testo completo on-line de Il potere necessario, di Andrea Lonardo, sull’evoluzione del potere temporale fino alla metà dell’VIII secolo, cfr. Il potere necessario in PDF; per la prima versione del testo, pubblicata come tesi di laurea in Word, cfr. Il potere necessario. I vescovi di Roma e la dimensione temporale nel “Liber pontificalis” da Sabiniano a Zaccaria (604-752), di Andrea Lonardo. Per una brevissima sintesi della ricerca, cfr. Il potere necessario: come nacque il potere temporale della Chiesa?, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
1/ Gli attacchi saraceni furono solo delle scorrerie o furono un’invasione arabo-musulmana? Contro gli opposti eccessi interpretativi
L’alto medioevo è povero di fonti letterarie. In esse emerge però che città, monasteri e borghi della penisola dovettero sopportare attacchi arabi. Se alcune fonti ne parlano diffusamente (in particolare il Liber pontificalis e l’Antapodosis di Liutprando), ne parlano ancor più le cronache arabe stesse che vantano ovunque l’efficacia dei saccheggi, delle deportazioni e delle distruzioni arrecati.
Dinanzi a tali fonti, gli autori scelgono due opposte vie: alcuni tendono a minimizzare, affermando che si trattò solo di azioni piratesche, in fondo solo di attacchi che non ebbero ripercussione alcuna, ma “incresparono” solo momentaneamente l’orizzonte storico, altri, all’opposto, li descrivono come una vera e propria invasione dell’Islam che avrebbe inteso sottomettere e annientare ogni potere non islamico del Mediterraneo.
Per comprendere come entrambe le posizioni siano errate è importantissima un’attenta analisi di ciò che avvenne nel Lazio e a Roma per fornire elementi che illuminino ciò che in realtà accadde.
2/ Il primo attacco su Roma dell’846, durante il pontificato di Sergio II
Le distruzioni, i trasferimenti nell’interno degli insediamenti già costieri per sfuggire ai devastanti attacchi, le fortificazioni che si moltiplicano nel Lazio e a Roma, permettono di comprendere meglio la natura e la pericolosità di queste azioni musulmane in tutto il Mediterraneo, attacchi passati alla storia con il nome di “saraceni”.
Il periodo su cui vale la pena soffermarsi, perché è il periodo di massima crisi vissuto dal Lazio e da Roma, è quello del IX secolo. In particolare è il periodo del pontificato di papa Leone IV (847-855)[1] ad essere rivelativo e ricco di fonti anche archeologiche perché egli dovette prendere atto degli eventi accaduti nei decenni precedenti e prevedere gli attacchi che i suoi successori avrebbero ancora dovuto subire.
Il grande vantaggio nello studio di tale periodo consiste proprio in questo, che i dati letterari della vita del pontefice che emergono dal Liber pontificalis[2] possono essere confrontati con i suoi interventi materiali che sono ancora visibili sul terreno.
Leone IV prese importanti decisioni dinanzi alle incursioni arabe che si erano rivolti prima contro i centri costieri laziali – certamente contro Centumcellae, l’odierna Civitavecchia, così come contro Ostia e Porto – e poi direttamente contro la città di Roma che vide il saccheggio delle basiliche di San Pietro e di San Paolo fuori le mura, nell’anno 846, al tempo di papa Sergio II[3], suo predecessore.
Il Liber pontificalis[4] racconta, nella biografia di quel papa, di un attacco saraceno che durò più giorni. Fu il comes della Corsica Adelvertus ad inviare un primo avvertimento a prepararsi ad un attacco dei musulmani, indicando l’esistenza di una flotta di 73 navi che prima o poi avrebbe attaccato anche Roma - come sempre i numeri delle fonti altomedioevali, sia latine che arabe, debbono essere presi con beneficio di inventario, ma l’idea che il comes intende dare è che l’attacco sarà portato da un numero ingente di imbarcazioni e di uomini.
Il Liber riferisce che, purtroppo, nell’urbe l’avvertimento non venne accolto con serietà e non ci si preparò alla difesa. La Corsica, ovviamente, era già stata oggetto di attacchi, saccheggi e deportazione di schiavi da parte degli arabo-musulmani e Duchesne ricorda che nell’807 un diverso comes, Burcardo, aveva dovuto far fronte ad attacchi saraceni contro l’isola: appare evidente che tali aggressioni provenivano, in questo caso, dai musulmani dell’Hispania (oggi diremmo dell’Andalusia), data la vicinanza della Corsica con tale regione, piuttosto che dal più lontano nord Africa o dalla Sicilia che stava per essere conquistata - l’assedio e la conquista arabi di Palermo sono di poco successivo, dell’830, ma precedenti agli attacchi contro Roma, come si vedrà meglio più avanti.
Gli invasori sbarcarono ad agosto dell’846 ad Ostia e la occuparono, mentre i cittadini fuggirono – si tratta ovviamente della Ostia antica che versava già a quell’epoca in decadenza a motivo dell’avanzamento della linea costiera e l’attacco fu il colpo decisivo che portò all’abbandono del sito.
Il secondo e il terzo giorno i saraceni si diressero contro Porto che, nel frattempo era stata abbandonata e la saccheggiarono: la fuga delle popolazioni indica la consapevolezza della grandezza del pericolo che non risparmiava le persone, poiché eventuali difensori sarebbero stati uccisi e gli altri deportati in schiavitù.
Da Roma si cercò di venire in soccorso di Porto, richiamando i soldati Sassoni, Frisoni e Franchi a recarsi a Porto: essi, giunti lì, capirono di doversi ritirare, avendo perso alcuni uomini e non avendo le forze per resistere. Ritornati nell’urbe tali soldati si apprestarono alla difesa delle Mura cittadine e, in particolare, alla difesa dell’accesso sul Tevere, da cui gli invasori sarebbero potuti penetrare con barche.
Il quarto giorno si venne alla battaglia e i difensori della città ebbero la peggio nello scontro e molti di essi vennero uccisi[5]. I saraceni allora poterono dirigersi verso la basilica di San Pietro al colle Vaticano e la saccheggiarono.
Il testo del Liber che è giunto fino a noi manca delle pagine che descrivono l’ultima parte dell’attacco, che sarebbero state importantissime. Lo Pseudo-Liutprando che ha potuto leggere il testo per intero, così sintetizza la parte testualmente mancante: «Giunti i saraceni [nei pressi della basilica] uccisero innumerevoli uomini, catturarono molte fortificazioni e borghi e, dopo averli saccheggiati, li diedero alle fiamme […] e, dopo aver catturato e ucciso molti, carichi del maggior numero possibile di uomini [presi come schiavi] e di beni predati, se ne ritornarono indietro»[6].
Gli Annales di Prudenzio di Troyes, invece, sono più espliciti nel raccontare del saccheggio e degli oggetti che vennero asportati all’interno della basilica di San Pietro, aggiungendo che la stessa sorte subì la basilica di San Paolo fuori le Mura, evento che doveva essere narrato anche nella parte mancante del Liber pontificalis.
La Cronaca di Montecassino, redatta intorno all’870, e le Gesta epp. Neap. redatte da Giovanni Diacono informano sui fatti che seguirono l’attacco a Roma, descrivendo, seppure in maniera diversa, ulteriori scontri che si ebbero sulla costa e fino a Gaeta, poiché l’azione di saccheggio riguardò ulteriori luoghi e non solo i quattro-cinque giorni di combattimenti a Roma[7].
Appare, comunque, da questi dati in maniera indubbia che l’incursione contro Roma non rientra in nessuna delle due categorie nelle quali si è usi rinchiudere gli assalti saraceni: non si tratta chiaramente di un’invasione, tanto è vero che gli assalitori si ritirarono dopo alcuni giorni e si rivolsero a siti diversi nella loro azione, ma non si tratta nemmeno di un’azione piratesca con toccate e fughe episodiche in una notte, in fondo irrilevanti. Si tratta invece di un’azione che colpisce in serie siti diversi, l’uno dopo l’altro, durando talvolta diversi giorni - almeno quattro giorni nel caso di Roma -, con l’intento di derubare beni e prelevare schiavi, mentre le azioni sono accompagnate dall’uccisione di chiunque si opponga: il dare alle fiamme completa spesso l’azione.
Azioni di questo genere generavano il terrore poiché tutto lasciava pensare che le navi arabo-musulmane si sarebbero potute ripresentare in qualsiasi momento, con azioni a seguire anche nell’interno, e che non vi sarebbe stata pietà alcuna nelle uccisioni, nella cattura di schiavi fra le donne e i bambini e nel saccheggio e nella distruzione dei siti raggiunti. Se addirittura Roma poteva essere colpita, una città con mura imponenti ben distante dal mare, nessuno era al sicuro.
3/ Il periodo rivelatore del pontificato di Leone IV
Il Liber prosegue il suo racconto con la biografia di Leone IV che fu il successore di Sergio II[8]. La sua elezione avvenne in un clima di grande tristezza e paura, poiché a tutti era chiaro che la devastazione delle basiliche romane non era un episodio isolato, bensì era in cunctorum finibus romanorum, cioè riguardava tutti i territori del Lazio. Il sentore era che nullatenus evadere mortis periculum posse, cioè che nessuno poteva scampare alla morte, cioè che non ci fosse via d’uscita.
Alla morte di Sergio II, Leone IV venne prelevato quasi di forza dalla basilica dei Santi Quattro Coronati, di cui aveva la cura, e unanimemente acclamato pontefice in San Giovanni in Laterano. Si procedette contro le consuetudini ad ordinare vescovo di Roma Leone senza attendere che giungesse l’assenso imperiale, per il pericolo imminente: timore et futuro casu perterriti eum sine permissu principis praesulem sacraverunt.
Il Liber si diffonde poi a narrare come la prima attenzione del pontefice fu rivolta a risanare i danni realizzati dagli invasori arabi in San Pietro, donando alla basilica nuove suppellettili liturgiche, al posto di quelle derubate, che le erano necessari peer il culto.
Di ben diversa entità fu il lavoro di consolidamento della cinta muraria di Roma, la cinta di Aureliano già rinforzata da Onorio, che apparve a tutti necessario. Tunc de Romanae urbis statu ac restauratione murorum, qui longo iam senio ad vetustatem infracti dirutique funditus videbantur, coepit cum Iesu Christi domini tractare consultu, cioè cominciò a trattare in fase di consiglio dello stato dell’urbe e, in particolare, del consolidamento delle mura, già da lungo tempo, per l’antichità di tale manufatto, dirute e a tratti in rovina. E ciò perché non potessero facilmente essere espugnate da un nemico – ab hostibus expugnare potuissent -, dove il nemico è chiaramente l’invasore saraceno.
Leone IV si preoccupò fisicamente di percorrere pedibus propris il percorso delle mura per studiarne i punti deboli. Si preoccupò anche di consolidare le porte della città nel loro apparato ligneo a causa del terrore che il nemico ingenerava – ob inimicorum metum sive terrorem.
Addirittura dovette riedificare 15 torri del circuito murario che evidentemente non avrebbero retto all’attacco – XV ab ipso solo turres. Due di esse vennero edificate alla bocca del Tevere perché da lì avevano cercato di accedere le navi arabe: quarum II iuxta Portuensem portam ita prudenter ac sapienter venerabilis praesul ab ipsa ora Tiberis, id est iuxta litus fluminis, aedificari disposuit.
Precedentemente era possibile introdursi all’interno – et quia per hunc locum non solum naves vero etiam homines ante facilius ingrediebantur. E tutto questo fece – sottolinea il Liber – per il pericolo dei saraceni che potevano tornare da un momento all’altro: Et hoc propter futurum Saracenorum periculum et salutem Romanae urbis factum est.
Non bastò il lavoro di muratura, ma fu necessario l’apprestamento di una grande catena con anelli metallici per impedire, all’occorrenza, il passaggio di navi dal fiume: verum etiam ferro munire curavit, quatinus, si necessitas fuerit, per eundem locum nulla valeat navis transire.
Fu un grande miracolo – miraculum –, un miracolo non piccolo, che si potesse apprestare tale apparato difensivo che appariva necessario.
Il Liber racconta poi del secondo attacco saraceno, che si verificò nell’849 e dimostrò che il lavoro alla cinta muraria era più che necessario.
Gli attaccanti sono definiti ipsi Satane filii, ma – si noti bene - il termine non è riferito assolutamente a qualsivoglia aspetto della religione islamica di essi, bensì alla loro crudeltà e violenza. Per l’autore del Liber essi sono figli del maligno, perché vengono per saccheggiare, uccidere, dare alle fiamme e deportare in schiavitù quante più persone possibili: è la violenza crudele degli attaccanti che è indicata con termini demoniaci.
L’attacco venne portato da navi che avevano prima dimorato – secondo il Liber – presso la Sardegna – iuxta insulam Sardiniae -, che a sua volta aveva subito precedenti saccheggi che ininterrottamente continuavano. Potrebbe trattarsi, quindi, di un attacco proveniente da porti dell’Andalusia, ma anche di navi del nord Africa i cui uomini potevano aver costituito una base in Sardegna.
Questa volta, sbarcati a Porto, gli arabo-musulmani si trovarono dinanzi truppe Neapolitanorum, Amalphitanorum, Cagetanorumque […] ut unam cum Romanis: Leone IV non solo aveva restaurato il circuito murario, ma era riuscito a progettare un’azione militare congiunta con forze del ducato di Napoli e delle città di Amalfi e di Gaeta, le cui navi e i cui uomini, insieme a difensori romani dell’urbe stessa, fronteggiarono insieme gli attaccanti.
Il pontefice steso si recò ad Ostia per aprire trattative con i “napoletani” ed assicurarsi che essi non avrebbero combattuto contro Roma, bensì a suo favore.
Sebbene le sorti della battaglia, che venne combattuta a Ostia, sembravano in un primo momento favorevoli ai saraceni – afferma il Liber – il sopraggiungere di una tempesta che fece affondare diverse navi arabe rovesciò l’esito finale e le forze congiunte di Napoli, Amalfi, Gaeta e Roma ebbero la meglio sulle truppe saracene che con le loro navi non riuscirono ad entrare nel Tevere per attaccare, com’era nelle intenzioni, Roma per la seconda volta.
Dopo una serie ulteriore di fatti riguardanti le opere per le chiese cittadine, il Liber giunge al racconto della costruzione delle Mura che saranno dette Leonine, le Mura a difesa della basilica di San Pietro da eventuali ulteriori attacchi arabi. Il Liber ripete che l’opera fu dovuta al rischio di nuovi attacchi dei “nefandi ac malevoli Saraceni” – e di nuovo non è questione di religione, ma della loro crudeltà e del pericolo delle devastazioni senza pietà che essi compivano.
Per una tale opera, cui già aveva dato inizio Leone III (795-816), il pontefice si rivolse all’imperatore Lotario (fu tale dall’840 all’855), perché inviasse fondi per permettere la costruzione di quest’opera di così grandi dimensioni. L’imperatore accordò il suo aiuto e Leone IV ne fu felice, ma la somma era ancora esigua per un tale lavoro. Allora Leone IV convocò tutti i maggiorenti dell’urbe e con essi si decise di inviare richieste a chiunque per tale impresa: de singulis civitatibus massisque universis publicis ac monasteriis, cioè da ogni città dipendete da Roma, da ogni massa/insediamento agricolo e da ogni monastero si richiedeva un contributo per tale opera.
Il lavoro non venne interrotto nemmeno con condizioni atmosferiche avverse, tanto era urgente e prossimo il pericolo, e né frigus, neque flatus ventorum, vel pluvia aut aeris grandis vel modica conturbatio fecero rallentare i lavori: ogni impegno fu messo per giungere rapidamente alla chiusura del nuovo sistema difensivo intorno alla basilica di San Pietro. Una solenne preghiera di benedizione concluse la costruzione e, in quell’occasione, il pontefice pregò perché la nuova “città” – che fu chiamata da allora civitas leonina” - fosse conservata sicura da Dio, per intercessione dell’apostolo Pietro, et de ostibus, quorum causa constructa est, novos ac multiplices abere triumphos.
4/ Le Mura Leonine
Se il Liber pontificalis racconta come fonte letteraria la costruzione delle nuove mura a protezione di San Pietro, dopo aver descritto la situazione in cui esse vennero realizzate, ecco che tale dato può essere confrontato ancora oggi con l’esistenza di tale reperto enorme, quanto a dimensioni, che dice l’entità del pericolo: sono le Mura Leonine ancora oggi in piedi.
Proprio l’erezione di quel complesso difensivo così imponente mostra che un ulteriore attacco arabo-musulmano era ritenuto altamente probabile e, difatti, come si è visto, esso si verificò nell’849. Secoli dopo questo secondo attacco venne rappresentato da Raffaello nelle sue Stanze e l’opera porta oggi il titolo di Battaglia di Ostia[9].
Le Mura Leonine sono un lavoro incredibile, per l’alto medioevo, che venne avvertito come necessario e inderogabile. Sono oggi note come Mura di Passetto di Castello. È rarissimo sentir presentare correttamente tali mura a chi si reca in visita a Roma: gli ignoranti sono abituati a presentarle come se fossero state costruite per permettere al pontefice di fuggire, in caso di attacco, dal Palazzo Apostolico in Castel Sant’Angelo. Ma tale falsa notizia nasce dalla evidente dimenticanza che il papa iniziò ad abitare in Vaticano solo dopo il ritorno da Avignone, mentre quelle mura sono del IX secolo.
Quelle mura non furono erette per la fuga del pontefice, ma, con tutt’altro scopo, in previsione di attacchi arabi. Ma divennero poi decisive per la futura evoluzione della residenza papale. Infatti, quando i pontefici tornarono da Avignone, la residenza lateranense era ormai in decadenza e troppo lontana dal centro della città: a motivo di quelle mura i pontefici decisero di risiedere in Vaticano sia perché quel luogo era più centrale, sia perché era ormai protetto da mura. Insomma gli attacchi arabi, indirettamente, a distanza di secoli, determinarono l’attuale ubicazione della residenza del pontefice!
Quelle mura poterono essere utilizzate in una funzione totalmente diversa da quella originaria quando ci fu l’attacco dei Lanzichenecchi nel 1527 (il famoso Sacco di Roma di età rinascimentale): come un camminamento che fu percorso da papa Clemente VII.
Chi ancora oggi si ferma dinanzi a quelle mura comprende come gli attacchi arabi avrebbero potuto cambiare la storia e come non furono degli eventi secondari, bensì richiesero un ingente impegno a difesa di Roma e di tutti i luoghi che vennero via via sottoposti ad attacco.
Il circuito murario iniziava a monte della città presso Castel Sant’Angelo, legandosi all’antico Mausoleo di Adriano che era già stato mutato in fortezza ai tempi delle guerre goto-bizantine e già portava il nome di Castellum[10]. Da lì le mura salivano lungo il Colle Vaticano: tale tratto è ancora visibile ed è appunto il cosiddetto Passetto di Castello. Le mura proseguivano così alla destra della basilica che non era ancora dotata di un Palazzo per l’abitazione del papa – sarà solo papa Niccolò III, alla fine del XIV secolo ad includere nelle mura la zona dell’attuale Palazzo pontificio.
In cima al Colle Vaticano le mura si chiudevano a sinistra dove sono ora la Torre di San Giovanni – che apparteneva al circuito murario originario - e la Porta Pertusa. Parte di questo tratto di mura è tuttora visibile all’interno dei Giardini Vaticani, poiché le Mura costruite da Antonio da Sangallo il Giovane hanno portato più in avanti il nuovo sistema murario, lasciando le mura Leonine all’interno, nello stato in cui erano all’epoca. La Torre sopracitata apparteneva al circuito delle Mura Leonine, ma è stata, ovviamente, profondamente modificata e ristrutturata nel corso dei secoli.
A quel punto le mura ridiscendevano verso il Tevere con un tracciato che non è stato ancora identificato con precisione, per le successive costruzioni che hanno coperto le fondazioni di tali mura. Certo è che esisteva una porta, detta Porta Saxonum, esattamente dove sorge oggi la porta di Santo Spirito, quindi le mura dovevano giungere fino al Tevere in quelle vicinanze.
È certa l’esistenza di tre porte, la Porta Saxonum, appunto, oggi Porta di Santo Spirito, la Porta di Sant’Angelo – detta in antico Posterula Sancti Angeli -, che venne poi distrutta, vicino Castel Sant’Angelo, e la Porta di San Pellegrino che esiste tuttora sul lato destro del colonnato del Bernini, anche se è stata profondamente modificata nei secoli. Essa era la porta che dava accesso a San Pietro ai pellegrini che giungevano dalla Francigena – il cui ultimo tratto corrisponde all’odierna via Trionfale.
Come hanno posto in evidenza gli studi moderni su tale imponente manufatto[11], il nuovo circuito murario raggiungeva la lunghezza di circa tre chilometri, aveva uno spessore di circa quattro metri, era fatto di murature piene, e raggiungeva un’altezza fra i sei e gli otto metri. Torri di forma rettangolare, ad intervalli regolari, si innalzavano sopra il livello delle mura per permettere sia l’avvistamento, ma anche una difesa più sicura per colpire eventuali aggressori.
Gli studiosi sottolineano come la costruzione sia avvenuta con una posa irregolare di laterizi e con il reimpiego di ogni materiale disponibile per raggiungere il risultato[12].
I lavori durarono all’incirca quattro anni, con inizio nell’849 – l’anno del secondo attacco saraceno – o addirittura l’anno prima, per concludersi il 27 giugno dell’852.
Se il Liber racconta della benedizione delle fortificazioni che venne compiuta percorrendo l’intero circuito a piedi scalzi - per totum murorum ambitum, nudibus pedibus – da parte del papa con tutto il clero, è certo che fu decisivo il concorso anche dell’imperatore e che la cittadinanza tutta si unì all’evento.
Le epigrafi attestano, da un punto di vista materiale, ciò che il Liber ha conservato in forma letteraria[13].
Sulla Porta di San Pellegrino, poi Porta Viridaria, venne posta l’iscrizione:
QUI VENIS AC VADIS DECUS HOC ABTENDE,
QUOD QUARTUS STRUXIT NUNC LEO PAPA LIBENS.
MARMORE PRAECISO RADIANT HAEC CULMINA PULCHRA,
QUAE MANIBUS HOMINUM AUCTA DECORE PLACENT.
CAESARIS INVICTI QUOD CERNIS ISTE HLOTHARI,
PRAESUL TANTUM OVANS TEMPORE GESSIT OPUS.
CREDO MALIGNORUM TIBI IAM NON BELLA NOCEBUNT,
QUENE TRIUMPHUS ERIT HOSTIBUS ULTRA TUIS.
ROMA CAPUT ORBIS, SPLENDOR, SPES, AUREA ROMA,
PRAESULIS UT MONSTRAT EN LABOR ALMA TUI.
CIVITAS HAEC A CONDITORIS SUI NOMINE LEONINA VOCATUR[14].
L’enfasi sul nome di Roma implica che la zona della basilica sia considerata parte integrante della Aurea Roma, non solo fondata da Romolo e Remo e fecondata dalla cultura classica e divenuta poi capitale dell’antico Impero, ma poi rinnovata dal martirio di Pietro e dalla presenza ormai perenne del suo successore.
L’opera è attribuita dall’epigrafe all’invitto Lotario, l’imperatore, ma si sottolinea che fu poi papa Leone che la realizzò “in modo trionfale”[15] – si tornerà alla fine di questo studio sulla questione del rapporto fra potere pontificio, potere imperiale e magistrature cittadine.
In una seconda epigrafe, ancora letta da Maffeo Vegio, nel XV secolo in un luogo imprecisato delle mura, si affermava:
CUM VOLUISSET ITERUM CONTRA ROMANOS MALEVOLA SARRACENORUM GENS BELLA EXCITARE UT PRIUS, DEPRAEDATIONESQUE INFERRE; QUOSDAM, DEO PERMITTENTE, MARIS TEMPESTAS ABSORBUIT, QUOSDAM VERO ROMANI MILITES VIVOS CEPERUNT, ATQUE OB LAUDEM AETERNAMQUE MEMORIAM, PLURES FERRO VINCTOS, IN HOC PERHONESTO OPERE DIVERSOS PERFERRE LABORES COEGERUNT[16].
Qui si esplicita il motivo dell’edificazione delle mura: esse sono state edificate «poiché la stirpe maligna dei Saraceni ha voluto, per la seconda volta, attaccare guerra contro i romani e infliggere, come la prima volta, depredazioni […]».
5/ Cencelle, il nuovo insediamento della Civitas Vetula (Civitavecchia) dopo il saccheggio arabo

Ulteriori interventi difensivi stabiliti da Leone IV sono riportati dal Liber che racconta come Leone IV chiese alle popolazioni che erano dovute fuggire dalla Corsica a causa degli attacchi saraceni ed erano giunte a Roma di riedificare la cittadina di Porto e di prepararsi alla difesa se gli arabi fossero tornati. DI tali corsi si dice che timore Saracenorum perterriti propriis finibus exules exsistebant[17]. Questa piccola notazione ci fa percepire ancora una volta, anche se indirettamente, il grande pericolo che correva ogni insediamento sulle coste mediterranee per le azioni arabo-musulmane: quei corsi - non si specifica più precisamente da quale città provenissero– dovevano essere stati attaccati dai saraceni o dovevano avere avuto notizia di altri centri loro vicini dove si erano avuto massacri, saccheggi e deportazioni di popolazione, ed essi avevano così abbandonato l’isola cercando rifugio in Roma in un numero sufficientemente elevato da poter ripopolare un’intera cittadina come Porto, alla foce del canale navigabile di Fiumicino, stabilendosi in quel luogo e mantenendo un corpo armato anche in prospettiva di una difesa dell’urbe.
Subito più avanti si dice che Leone IV non si preoccupò solo della difesa di Roma, ma invitò tutti, nei luoghi intorno alla città, a preparare mura ed uomini a difesa della popolazione (non tantum pro defensione urbis suos Romanos proceres diligebat, sed undecunque valebat colligere homines ad eorum auxilium et solatium invitabat[18]). In particolare il Liber ricorda come il pontefice si curò direttamente del consolidamento delle cinta murarie di Orte e di Amelia, poiché evidentemente fin lì potevano giungere gli aggressori.
Ampio spazio è poi dedicato, nel Liber, alla fondazione di una nuova città perché gli abitanti di Centumcellae sorta intorno al Porto di Traiano, l’odierna Civitavecchia, erano fuggiti da essa dopo che gli arabi l’avevano sottoposto a saccheggio[19].
Il Liber riferisce un dato storico di grande importanza: erano ormai 40 anni che la città era stata attaccata e al tempo di papa Leone IV non era ancora possibile ritornare a vivere in quel luogo, sulla costa, tanto era grave il pericolo: et per XL annos, muris diruta et habitatore proprio destituta manebat, moresque bestiarum, relictis sedibus propriis ob timorem Saracenorum[20].
Gli storici ipotizzano che l’attacco fosse avvenuto nell’anno 813, a partire da una notizia riportata dagli Annales attribuiti ad Eginardo[21] che raccontano come il comes Emporitanus che sorvegliava Maiorca sorprese una spedizione di Mori – Mori è termine che nelle fonti antiche è equivalente a Saraceni, indicando i musulmani arabi ormai mischiati con le popolazioni del nord Africa (in molte delle fonti i termini mori e saraceni si intercambiano) - insediatasi in Corsica che ritornava in Spagna e, avendola attaccata, catturò otto navi saracene nelle quali erano più di cinquecento abitanti della Corsica che erano stati presi in schiavitù dagli arabi e li liberò. Gli Annales dichiarano che, per vendicarsi, i mori attaccarono Centumcellae ed altri siti.
Il Liber racconta, quindi, che gli abitanti che si erano salvato dall’attacco vivevano come bestie – mores bestiarum – vagando nelle colline[22], senza sapere dove trovare una nuova sistemazione adeguata.
Il pontefice decretò allora che la popolazione di Centumcellae abbandonata si trasferisse in un nuovo luogo sicuro ad quam ipse profectus, loca quae ei affinitate erant coniuncta diligenti cura ac studio praevidit atque conspexit.
Si recò, infatti, infine, ad locum optimum valdeque munitum, cioè, ottimo anche per la copiosità delle acque, come spiega il biografo pontificio, ma anche valde munitum, difeso e difendibile da successivi attacchi.
Il nuovo insediamento porterà, oltre al nome del pontefice, esattamente quello della vecchia città, Cencelle cioè Centumcellae, mentre la vecchia sede della città prenderà il nome di Civitas vetula, cioè Città vecchia, oggi Civitavecchia, ad indicare il luogo che gli abitanti erano stati forzati ad abbandonare.
Estremamente significativo è che la nuova città sia costruita nell’interno a ben 12 miglia dal precedente sito - circa 20 chilometri – perché evidentemente era impossibile dimorare in sicurezza sulla costa.
Secondo il Liber il miracolo di un sogno viene a confermare la scelta del sito che porterà il nome di Leopoli, la città di papa Leone IV - cui ex nomine proprio Leopolim nomen imposuit[23].
Il pontefice compì anche qui, come per la civitas Leonina, una processione intorno alle mura e celebrò l’eucarestia per benedire il nuovo sito. Tutto perché in quo et populus salvus existeret: la preghiera del pontefice fu ne unquam ab hostibus capiatur vel invagatur.
I termini dicono chiaramente l’intenzione difensiva: la memoria dell’attacco saraceno dopo quarant’anni è ancora vivissima e la popolazione è lieta di trovare finalmente un nuovo insediamento nell’interno
Il trasferimento della stessa città implicava la traslazione della sede episcopale e, difatti, la basilica di Cencelle divenne la cattedrale sede del vescovo che era fin lì stato il vescovo di Centumcellae sulla costa.
Per comprendere appieno la situazione anche questo dato è fondamentale: è tutta una città che si trasferisce con il suo vescovo. Appare evidente come si dovesse lasciare un sito a vocazione prevalentemente marinara, poiché era troppo pericoloso restare sulla costa. Gli abitanti furono obbligati dalle circostanze a trasferirsi nel nuovo centro, costruendovi la nuova cattedrale, dopo aver abbandonato la vecchia, forse interamente distrutta dall’attacco.
6/ Gli scavi di Cencelle, riportata alla luce dall’Università La Sapienza di Roma
Come per le Mura Leonine di Roma anche nel caso di Cencelle è possibile confrontare il dato delle fonti letterarie con le evidenze archeologiche.
Cencelle, infatti, è stata recentemente fatta oggetto di scavi e di attenti studi da parte degli archeologi dell’Università La Sapienza[24].
Appare evidente che si scelse proprio quel sito, che era già stato centro etrusco nel passato e doveva aver conservato qualcosa della cinta muraria precedente, nonostante esso fosse lontano dalla vecchia città e dalla costa. Gli edifici di Cencelle vennero utilizzati in maniera intensiva dal IX secolo fino all’XI secolo – di questo periodo è lo strato scavato più superficiale – anche se l’utilizzo proseguì in forma minore ancora per tre secoli, prima del totale abbandono.
L’abbandono progressivo del sito mostra bene che quel luogo venne scelto solo per il pericolo cui era sottoposta la città sulla costa e per lo stato di rovina cui era stata sottoposta. Terminato il pericolo arabo, ecco che divenne naturale abbandonare quell’insediamento che durò solo per breve tempo, perché il luogo naturale nel quale vivere era il vecchio sito costiero.
Come ha scritto Pani Ermini, l’insediamento di Cencelle è particolarmente interessante proprio perché permette di fotografare al vivo un insediamento altomedioevale nato ex novo, per l’urgenza della situazione, e abbandonato dopo pochi secoli per la cessazione di quella situazione di pericolo per cui era sorto: «La città voluta da Leone IV costituisce ora sul piano urbanistico un eccezionale “modello”, per molti aspetti unico se non altro per la sua precisa data di nascita, attraverso il quale è possibile conoscere criteri e modalità vigenti in età carolingia nei processi di fondazione di committenza aulica, nel caso papale, affidata per l’esecuzione, come si è visto, ad un magister militum esperto pertanto nel progettare insediamenti militari fortificati. Essa, quale appare oggi ai nostri occhi anche se ampiamente ristrutturata in età comunale, lascia ancora intravedere resti della sua prima fase di vita che tornano in luce man mano che proseguono le indagini archeologiche»[25].
La città ebbe all’interno delle mura almeno due chiese, la prima dedicata a San Pietro, esattamente come la cattedrale della Centumcellae sulla costa, la seconda dedicata a San Leone Magno in onore del pontefice che portava quel nome.
Gli archeologi ipotizzano che l’edificio basilicale scavato nell’area sommitale sia quello dedicato a San Pietro: di esso sono superstiti tutte e tre le navate, al livello della pianta, mentre è perduta l’abside con il presbiterio; è superstite, invece, la cripta. L’edificio venne ristrutturato nel basso medioevo e restano brani del pavimento musivo di ambito cosmatesco.
Evidentissima è la cinta muraria che, nonostante i danni dovuti al tempo, conferma ciò che il Liber scrive e, precisamente, che fu cura del pontefice assicurarsi che una cinta difensiva venisse eretta, perché evidentemente era da temere un’aggressione saracena anche a tale distanza dalla costa.
7/ La fortificazione di taluni siti e la traslazione di altri nel IX secolo
Se il caso delle Mura Leonine e quello dell’insediamento di Cencelle sono i più noti, appare altresì evidente che essi non solo non sono isolati, ma che si rese necessario intervenire su ogni località costiera e, via via, anche su quelle dell’interno.
Le più importanti fortificazioni nel Lazio nel periodo delle incursioni saracene, oltre alle Mura Leonine e a Cencelle sono elencate da Nardi[26] che ricorda:
- Leopoli sorta a Formia per volere di Leone III (795-816)
- Gregoriopoli ad Ostia per volere di Gregorio IV (829-844), intorno all’830[27]
- Giovannipoli sorta su iniziativa di Giovanni VIII (872-882) per proteggere con fortificazioni la basilica di San Paolo fuori le Mura e il suo monastero (sulla quale vedi poco più avanti)
- Laurenziopoli, sorta intorno alla basilica di San Lorenzo fuori le Mura[28].
Inoltre Leone IV restaurò anche le mura di Porto.
Per quel che riguarda, invece, il trasferimento delle popolazioni in abitati più all’interno, ciò che avvenne per Centumcellae-Cencelle-Civitavecchia avvenne anche per Ceri che divenne Cerveteri, dando vita ad una nuova Ceri nell’interno, facilmente difendibile su di uno sperone roccioso e, probabilmente, anche per Tarquinia-Corneto, che però non era sulla costa, bensì aveva un porto costiero, quello di Gravisca, che venne anch’esso abbandonato, anche se gli storici discutono sulla data esatta della cessazione del suo utilizzo.
Certo è che l’antico abitato della Civita di Tarquinia venne abbandonato con il progressivo trasferimento a Corneto (l’attuale Tarquinia). Si sa che ancora nell’852 esisteva una plebs S. Mariae in Tarquinio perché essa appare nell’elenco della bolla inviata al vescovo di Tuscania Virobono da papa Leone IV in quell’anno, ma la popolazione appare essersi spostata dove è ora Santa Maria di Castello che venne fortificata, secondo Andrews, proprio nel IX secolo.
Nardi Combescure ricorda, infatti, gli studi di D. Andrews che proverebbero che alcuni lacerti murari presso Santa Maria di Castello attesterebbero interventi analoghi e coevi a quelli delle mura di Cencelle del IX secolo[29].
8/ Giovannipoli, la fortificazione di San Paolo fuori le Mura
Per quel che riguarda Roma, oltre ai siti portuali di Ostia e Porto decisivi per l’accesso fluviale alla città, è ovviamente importante il sito di San Paolo fuori le Mura[30]. La basilica di San Paolo non aveva in origine alcun apparato difensivo, come testimonia ancora Procopio al tempo delle guerre goto-bizantine[31].
Il Liber pontificalis racconta che fu innanzitutto necessario un primo restauro del complesso basilicale e monastico quod a Sarracenis desctructum fuerat: fu Benedetto III (855-858) ad incaricarsi di ciò[32].
Fu, come si è detto, Giovanni VIII ad erigere il sistema difensivo della basilica, dandole il nome – in maniera simile a ciò che avvenne con le Leopoli di Leone III e Leone IV – di Giovannipoli.
Fin dall’inizio del suo pontificato il papa fu costretto ad occuparsi di questioni militari, per il pericolo arabo-musulmano e già nell’872, poco dopo la sua elezione, una lettera a Angilberga, la moglie dell’imperatore Ludovico II, fa riferimento alla necessità di approntare una flotta e difese contro gli attacchi: dromones […] cum ceteris navibus construentes et cetera vasa bellica et apparatus, quin potius et ipsos animos dominus preparante set ad versus ostile in cursus indesinenter armantes[33].
Spera sottolinea come il desiderio del pontefice sia di poter disporre di navi e di sistemi difensivi autonomi[34]: appare evidente che tale richiesta non dipenda da una volontà di rendersi indipendente da altri poteri, come quello imperiale, bensì dalla necessità di far fronte con immediatezza ad attacchi che possono avvenire all’improvviso e che non consentono tempi lunghi di risposta.
In effetti, nelle lettere del pontefice relative agli anni 876-877 sono molti i riferimenti agli attacchi saraceni che si intensificarono con conseguenti richieste pressanti di aiuto da parte di Giovanni VIII.
Nel settembre 876 il pontefice scrive: nobis in tanto periculo constitutis et Saracenorum incursionibus undique laceratis, mentre in tre lettere a Carlo il Calvo fra febbraio e maggio 877 i toni divengono disperati con l’affermazione che i saraceni si spingono usque ad muros Urbis e che sono distrutti chiese e monasteri nel Lazio e che la popolazione viene deportata in schiavitù dagli aggressori e che tutti si rifugiano in città, mentre i suburbana sono ormai spopolati[35].
Nella lettera 31[36] si legge: Sabinos quam sini adiacentia loca praedantur. Sanctorum quoque basilicas et altaria destruxerunt, sacerdotes et santimoniales, alios quidem captivos duxerunt, alios autem variis mortibus necaverunt et omnem Christi sanguine redemptum populum in circuitu deleverunt, raccontando cioè che la Sabina è devastata, distrutte le chiese, con diverse persone uccise e molte prese come schiavi, mentre il resto della popolazione si è rifugiata nelle mura di Roma.
Nella lettera 32[37], invece, si dice che hanc Idumeorum et Hismahelitum et Agarenis, cioè che questa stirpe ha commesso tanti delitti ut non hominem, non agrum, non iumentum, non pecus, non quicquam ex his, quae sancti Petri iuris existunt, sed omnia, quae oculo vident, manu diripiant et mala, quae cogitant, sine mora perficiant, cioè non c’è niente che gli arabo-musulmani non abbiano distrutto e depredato. Si noti – vi si tornerà più avanti – come i nomi utilizzati per definire i saraceni siano qui ripresi dal linguaggio biblico, gli Idumei, figli di Ismaele e di Agar.
Nella lettera 56[38] si implora l’imperatore di venire in soccorso: iam vestram augustalem imploravimus maiestatem, supra modum cotidie patimur, quippe cum de tota iam depopulata Campania nil habeamus nilque nobis aut venerabilibus monasteriis ceterisque piis locis neque senatui Romano, unde corporaliter sustentari possumus, remanserit, omnibus etiam Romae suburbanis adeo depredatis. Si chiede cioè di soccorrere perché la depredazione ha apportato danni tali che né le risorse di Roma, né quelle dei monasteri, né quelle presenti sul territorio sono più in grado di sopperire al cibo, poiché tutto è stato depredato e devastato dai saraceni.
La fortificazione a scopo difensivo della basilica di San Paolo, trasformata in cittadella, la Giovannipoli, appunto, deve essere datata probabilmente a partire dal 879, quando il pontefice ritornò dalla Provenza.
Spera spiega che non sono state rinvenute evidenze archeologiche di tali fortificazioni perché i ruderi di esse sono già certamente distrutti alla fine del XIX secolo, nelle diverse ristrutturazioni del complesso lungo i secoli, mentre sono ancora visibili in un gruppo di vedute del XVI e XVII secolo come nelle Sette Chiese di Antonio Lafréry del 1575, in una vignetta del Maggi del 1600, nell’incisione di Custos Dominucus in Deliciae Urbis Romae divinae et humanae e in quella del Villamena del 1609[39].
Dell’iscrizione dedicatoria è rimasta la trascrizione, suddivisa in due parti:
HIC MURUS SALVATOR [ADEST INVIC]TAQUE PORTA / QUAE REPROBOS AR[CET SUSCIPI]T ATQUE PIOS / HANC PROCERES INTRA[TE SENES IUVEN]ESQUE TOGATI / PLEBSQUE SACRATA DE[I LIMINA SANCTA] PETENS, /QUAM PRAESUL DOMINI PATRAVIT RITE JOHANNES / QUI NITIDIS FULSIT MORIBUS AC MERITIS / PRAESULI OCTAVI DE NOMINE FACTA JOHANNIS / ECCE JOHANNIPOLIS URBS VENERANDA CLUIT[40].
ANGELUS HANC DOMINI PAULO CUM PRINCIPE SANCTUS / CUSTODIAT PORTAM SEMPER AB HOSTEM NEQUAM / INSIGNEM NIMIUM MURO QUAM CONSTRUIT AMPLO / SEDIS APOSTOLICAE PAPA JOHANNES OVANS / UT SIBI POST OBITUM COELESTIS IANUA REGNI / PANDATUR, CHRISTO SAT MISERANTE DEO[41].
Da essa risalta la consapevolezza di un nemico alle porte e dell’autorità pontificia che si erge a provvedere alla difesa di un luogo che caratterizza Roma, nella sua identità spirituale.
9/ I successivi attacchi arabo-musulmani in Campania e nel Lazio, nel loro contesto storico
Il nostro sguardo si concentra sul periodo cruciale del pontificato di Leone IV, ma esso è solo un passaggio nella crisi marinara e costiera di quegli anni[42].
Ovviamente le azioni ebbero inizio dal sud dove, già al tempo del papa Adeodato II (672-676) e dell’imperatore Costantino IV (668-685), Siracusa[43] venne conquistata e saccheggiata[44]. Lì, temporaneamente, il padre e predecessore di Costantino IV, l’imperatore Costante II, aveva trasferito la capitale da Costantinopoli per cercare di riprendere il pieno dominio sull’occidente (sarà l’ultimo imperatore ad abitare, anche solo per 13 giorni, nel palazzo imperiale al Palatino in Roma), ma anche nel tentativo di riconquistare Cartagine – l’odierna Tunisi – e il nord Africa che erano stati invasi dagli arabo-musulmani.
L’azione saracena si rivolse poi direttamente contro Costantinopoli che venne assediata per ben 4 anni consecutivamente dagli arabo-musulmani negli anni 674-678[45], sotto Costantino IV che riuscì nell’intento di salvare la città.
Un secondo assedio alla capitale bizantina venne portato dai saraceni nel 717-718, sotto l’imperatore Leone II Isaurico, che usciva da una situazione di guerra civile interna. La sconfitta degli arabo-musulmani a Costantinopoli segnò l’arresto della avanzata saracena a nord-est, ma non quella da sud.
Infatti, poco prima del secondo fallito assedio di Costantinopoli, i saraceni nel 710-711 passarono lo stretto detto oggi di Gibilterra (dall’arabo Yabal Tariq, la montagna di Tariq, il luogotenente che lo attraversò per procedere all’occupazione della penisola ispanica).
Mentre le forze saracene premevano da sud-ovest, si moltiplicarono pian piano gli attacchi da sud, contro le isole e poi direttamente la penisola italiana.
In Sicilia[46] si passò da attacchi e saccheggi a singole città e borghi marinari, a partire già dal 652 e 669, alla conquista vera e propria che, iniziata nell’827, vide i due episodi fondamentali dell’assedio e della caduta di Palermo negli anni 830-831 e poi di Siracusa, con la strage della popolazione locale, nell’878[47]. Le azioni militari saracene proseguirono fino alla conquista totale con gli ulteriori episodi decisivi della conquista di Taormina nel 902 (con la strage della popolazione civile) e, infine, di Rometta che è l’ultima città siciliana a cadere nel 964-965 (anche qui con il saccheggio e le uccisioni di civili).
Come si vede il pontificato di Leone IV segue i saccheggi non ancora a scopo diretto di conquista e poi la conquista di Palermo (830-831), quando gli arabi passarono all’invasione vera e propria, e precede l’assedio e la conquista di Siracusa (878).
Mentre si procedeva alla conquista della Sicilia, altri gruppi saraceni nel frattempo conquistavano Bari che fu emirato dall’847 fino all’871 – anche qui si vede che gli attacchi verso l’urbe coincidono con gli anni di tale dominio.
Taranto fu conquistata e permase sotto il dominio arabo più o meno negli stessi anni dell’emirato barese e precisamente negli anni 840-880.
Negli stessi anni si ebbero degli emirati anche a Tropea, Santa Severina ed Amantea che esercitarono per quasi mezzo secolo (840-885) una vera e propria industria del saccheggio[48].
Questo mostra bene come gli attacchi contro la Campania, il Lazio e Roma stessa non provenissero sempre direttamente dal nord Africa, ormai interamente arabo-musulmano, ma soprattutto da queste teste di ponte stabilitesi nella penisola.
Ovviamente, prima di Roma, furono attaccate le coste campane.
Solo per indicare alcune azioni maggiori con datazione accertata, del 841 è il saccheggio dell’odierna Santa Maria Capua Vetere, “vecchia” come Civitavecchia e Cerveteri – con la fondazione della nuova città di Capua che avvenne nell’856.
Dell’846 lo stesso anno della prima azione su Roma, è l’assedio di Gaeta e un probabile insediamento presso Ausonia (località ad duos leones secondo le fonti), seminando terrore lungo la via Appia.
Sempre dell’846 è il primo attacco a Montecassino, con la distruzione de i priorati annessi di San Giorgio e Santo Stefano, mentre dell’860 è la prima azione saracena contro l’abbazia di San Vincenzo al Volturno che venne sottoposta da Sawdān, emiro di Bari (857-871), a tributo come condizione per non devastarla.
Anteriore all’anno 844 è la devastazione da parte degli arabi dei due monasteri maggiori di Subiaco, quello dei Santi Cosma e Damiano (l’antico monastero di San Clemente) e quello di Santa Scolastica[49]. Gli arabi, nell’incendio che fecero divampare, bruciarono anche tutti i documenti in possesso dei monasteri[50].
Dell’869 è il lungo assedio a Napoli, posto dallo stesso Sawdān[51]. Degli anni 870-871, invece, l’assedio, anch’esso fallito come quello di Napoli, di Salerno.
Nell’anno 876 vengono saccheggiate la Sabina e Velletri.
Gli episodi che seguono il duplice attacco a Roma, la distruzione di Centumcellae e gli altri episodi laziali, raggiungono il loro culmine quando, nell’881, gli arabi si insediano “al Garigliano” dove terranno un ribāṭ (una fortezza/testa di ponte) fino al 915, come base delle loro incursioni al fine di saccheggio e della deportazione di schiavi. Il luogo è forse l’odierna Suio[52]. Possono insediarsi solo previo accordo con Gaeta (e il suo ipata Docibile, 881-2). Sono gli anni in cui i musulmani si insediano anche ad Agropoli (881, previo accordo con Napoli), e a Sepino (881, alleati di Benevento). Sfruttando le guerre intestine longobarde e quelle di questi con i bizantini, essi provano a passare anche più a nord delle coste calabre e lucane ad una fase di veri e propri insediamenti stabili.
L’insediamento del Garigliano ebbe una vita simile - sebbene la cronologia sia leggermente sfalsata - alla roccaforte saracena di Fraxinetum[53] (l'odierna La Garde-Freinet, sul Golfo di Saint Tropez, sotto la montagna che ancora porta memoria di quegli anni, il Massif des Maures), attiva dall’890 al 975, che fu la punta più avanzata sulle coste francesi e che divenne punto di partenza per le scorrerie moresche in Provenza ed in Liguria e fin nelle Alpi.
Dell’881 è il saccheggio dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno con l’uccisione di molti dei monaci[54], da parte dei saraceni del Garigliano. Degli anni che precedono e seguono sono le scorrerie che puntano sulle odierne Formia, Fondi e Terracina, Anagni, Nepi, Sutri, Narni, Orte, Trevi (devastata nell’881), i monasteri del Cassinate, Boiano e Isernia (anche se queste furono forse opera delle truppe mercenarie di Sepino), e ancora Alife, Telesa e Atina, con la fondazione della rocca di San Biagio Saracinisco (forse da ascrivere alle imprese degli arabi di Puglia, Sawdān di Bari e Uthman di Taranto, anteriori di qualche decennio), Teano, Caserta[55].
Insomma, qualsiasi città o borgo, anche dell’interno, è sotto attacco.
Dell’883 è l’assalto a Montecassino, con l’uccisione dell’abate Bertario e la distruzione dell’abbazia, che verrà rifondata solo nel 949)
Nell’890 o 891 i saraceni assediano a lungo l'Abbazia di Farfa, riuscendo infine ad espugnarla nell’897 o 898: i suoi monaci fuggono divisi in tre gruppi, uno viene trucidato dai musulmani vicino Rieti che attaccano anche il contado della città.
Nel 902 i napoletani, temendo le incursioni delle orde di Ibrahim, decidono la distruzione del castrum/rocca, per impedire che diventi un luogo da cui i saraceni possano condurre l'attacco alla città. La comunità religiosa del castrum ripara in San Severino e San Sossio[56].
Ma, man mano, le forze locali sembrano ritrovare forze e il periodo più critico termina nel 915 o 916, quando, sotto papa Giovanni X, una lega anti-saracena cui partecipa Gaeta caccia i saraceni dalla base detta “del Garigliano”.
La cacciata dei saraceni da quel sito sembra non essere solo un episodio vittorioso isolato, bensì l’attestazione di un’accresciuta capacità delle diverse città e borghi che, pian piano, riprendono il controllo della penisola, con gli episodi ben più decisivi della fine degli emirati di Puglia e di Calabria e l’allontanamento della minaccia per l’indebolimento contestuale delle forze avversarie.
Decisiva è, ovviamente, l’avanzata normanna, anch’essa sanguinosa. Parallelamente avviene la silenziosa crescita delle Repubbliche marinare, a partire dalle città di Amalfi e Gaeta, e che esploderà poi dopo il mille con Genova, Pisa e Venezia: tali città con le loro flotte via via ripresero il controllo prima del Tirreno e dell’Adriatico e poi dei mari più a sud.
10/ Cosa sono allora precisamente gli attacchi saraceni su Roma e nel Lazio?
È l’insieme delle numerosissime notizie sugli attacchi arabi che emergono nei diversi luoghi, così come le attestazioni materiali date dalle rimanenze archeologiche delle mura costruite o ricostruite, così come degli insediamenti sorti ex novo a sostituire quelli saccheggiati e ormai troppo esposti, a permettere di rispondere più precisamente alla domanda di partenza.
Tutti questi dati fanno ben capire che non si trattava di una vera e propria invasione arabo-musulmana e nemmeno di episodi occasionali di scorrerie.
Si trattava, invece, di una prima fase, fatta di azioni di saccheggio, di pirateria, di sterminio di popolazioni locali e di acquisizione di schiavi volte al sostentamento di azioni militari più grandi e all’arricchimento, in vista di un successivo salto di qualità che sarebbe dovuto approdare ad emirati locali, come quelli di Bari, di Taranto o di Tropea o di Santa Severina (ma anche di Agropoli).
Solo in un ulteriore momento successivo, che non si ebbe mai nella penisola italiana ma solo in Sicilia, gli attacchi si sarebbero trasformati in una vera e propria invasione, quando si fossero create le condizioni adeguate.
Ma certamente le azioni di saccheggio e di acquisizione di schiavi servivano già a sostenere la guerra di conquista in Sicilia, così come a permettere agli emirati che via via venivano creati, in Puglia, come in Calabria, come in Campania, di prosperare e di condurre azioni più impegnative.
Le navi e le truppe saracene non erano costituite da liberi battitori che puntavano ad un semplice arricchimento personale: no, esse partivano dai porti del nord Africa o dell’Andalusia o della Sicilia e poi dagli emirati della penisola e ad essi ritornavano per riportare il bottino di guerra che era necessario per il consolidamento delle conquiste e per nuove azioni.
Gli attacchi saraceni a cui vengono sottoposti l’intera penisola e così anche il Lazio intendevano accumulare denaro e schiavi in un progetto di più lungo periodo. Nel caso, ad esempio, della Sicilia, è evidente come l’invasione vera e propria venne preparata da una lunghissima serie di attacchi e di saccheggi sulle diverse coste dell’isola[57].
Nel centro Italia e altrove è possibile constatare come si stesse cercando di realizzare una fase successiva, con la creazione di vere e proprie teste di ponte, ed una presenza già stabile in alcune località: a Taranto come a Bari, al Garigliano come a Fraxinetum. Tali sedi permettevano di accrescere già l’entità dei saccheggi e della deportazione di schiavi, indebolendo via via le popolazioni locali e costringendole a ritirarsi nell’interno, con l’abbandono delle coste.
Non si dimentichi che così avvenne anche per l’Hispania: prima dell’invasione vera e propria tramite l’odierna Gibilterra, erano state mandate truppe in avanscoperta che si erano acquartierate a Tarifa e avevano fatto da esploratori per l’attacco successivo.
L’ultima fase, quella della conquista, si verificò pienamente solo in Sicilia, ma non nella penisola, perché i diversi emirati non ebbero il tempo e le forze di mettere radici stabili sul territorio, per il modificarsi degli equilibri.
Solo in questa fase si sarebbe passati alla conquista del territorio in senso vero e proprio, con l’espugnazione delle città più grandi, anche se già la conquista di Bari e di Taranto fa capire che a tali città grandi e ai loro porti si intendeva arrivare.
Ma sbaglia anche chi pretende che ci fosse già un progetto pianificato vero e proprio di conquista. L’esperienza militare dei saraceni li portava a comprendere bene che non era ancora giunto il tempo di iniziare un’azione vera e propria di conquista. Le forze erano già impegnate in Sicilia e bisognava prima chiudere quella partita.
Ma questo non vuole assolutamente dire che sia corretto derubricare gli innumerevoli attacchi come semplici atti di pirateria dovuti a bande di saraceni indipendenti dall’azione arabo-musulmana che si andava compiendo in grande.
Gli attacchi debbono essere interpretati, allora, come mosse preparatorie, come modalità di reperire fondi e schiavi in vista di una conquista che sarebbe certamente giunta, se le forze in campo non avessero rovesciato gli equilibri.
Non ancora un progetto stabile di conquista, ma una serie di passi graduali in vista della conquista vera e propria per la quale non maturarono le condizioni.
Importantissima, in questa prospettiva, è la deportazione di schiavi da tutte le città e i borghi attaccati dagli arabo-musulmani e attestata anche nel caso dell’attacco a Roma. Il commercio di schiavi era una componente decisiva per le forze saracene[58]. Come esse rapivano schiavi nell’Africa nera[59], allo stesso modo si comportarono con gli abitanti delle città saccheggiate o distrutte. Gli attacchi intendevano acquisire beni, ma anche personale da vendere in schiavitù sia per depauperare i territori attaccati sia per acquisire forza lavoro con cui accrescere i propri patrimoni.
Un’analisi comparata di tutte queste azioni permette di cogliere perfettamente la somiglianza fra di esse, per cui le azioni nella penisola ispanica, così come quelle contro isole come Malta o la Sicilia o le Baleari, i saccheggi e le distruzioni nelle odierne Calabria, Puglia, Basilicata e Campania, così come quelli sulle coste laziale, così come gli attacchi sulle coste liguri fino a Genova e, ancora, gli attacchi sulle Alpi, fino al passo del Gran San Bernardo, permette di cogliere questo quadro d’insieme con assoluta chiarezza.
Certamente le cronache del tempo narrano gli eventi aggiungendovi particolari leggendari – hanno qui ragione gli storici che invitano a prendere le fonti con beneficio di inventario -, ma il semplice elenco delle innumerevoli azioni di attacco e saccheggio che avvennero sono sufficienti a comprendere come il secolo IX fu per la penisola un periodo difficilissimo, nel quale le popolazioni vissero atterrite per il pericolo di tali attacchi.
In questo senso, il Medioevo fu certamente tale, un periodo di grande penuria economica e di grande rischio, ma non per una presunta oppressione ideologica che la fede cristiana avrebbe apportato sulle popolazioni già appartenenti all’impero e alla sua precedente cultura pagana, bensì per un impoverimento reale delle condizioni di vita, dovute prima ai barbari e poi agli arabi[60].
L’ignoranza dell’alto medioevo, tipica della cultura occidentale, impedisce di orientarsi a cogliere i perché di un evidente impoverimento che le popolazioni dovettero affrontare, per giungere solo poi ad una progressiva rinascita che generò sia le repubbliche marinare che ripresero via via il controllo del mare, sia la stagione comunale italiana, sia l’affermazione del papato, già prima dell’anno 1000, ma soprattutto dopo di esso.
Il nono secolo fu uno dei più difficili che la penisola dovette sopportare, da paragonare solo al periodo immediatamente precedente delle invasioni barbariche e ovviamente da esso causato. Le fonti letterarie altomedioevali sono povere e non possono diffondersi – come farebbero i moderni perché ricchi di mezzi - a descrivere i particolari di questi infiniti episodi di saccheggio, proprio per la povertà materiale vissuta dai diversi territori e per la conseguente penuria anche di intellettuali e di scuole dedite alla scrittura. Ne deriva che, mentre sono universalmente noti gli eventi di altre azioni belliche successive (si pensi, ad esempio, alle conquiste normanne o alle crociate), poco è giunto a noi di tale travaglio e ancor meno giunge dagli studi specialistici al grande pubblico che spesso ignora totalmente l’incredibile situazione di sofferenza che la penisola dovette sopportare.
L’alto medioevo è saltato a piè pari dal ciclo di istruzioni delle superiori e nessuno si preoccupa di insegnare cosa avvenne dal VII al X al C secolo.
Oggi è un’accresciuta consapevolezza dell’importanza delle fonti materiali – come nel caso delle Mura Leonine o di Cencelle - a dare un prezioso contributo, permettendo di toccare con mano ciò che le fonti letterarie dicono in maniera molto sintetica, data la penuria di mezzi dell’epoca.
11/ Chi erano i saraceni
Ma chi sono i saraceni? Qual è il popolo che viene così identificata dalle fonti?
Come ha scritto Levi Della Vida saraceni è il «nome col quale nel Medioevo cristiano europeo sono stati designati genericamente gli Arabi […] In significato più ristretto s'indicano col nome di Saraceni quei nuclei di Arabi, provenienti dall'Africa settentrionale, i quali, dopo l'occupazione della Sicilia, nel sec. IX e X, fecero spedizioni e stabilirono stazioni militari lungo le coste dell'Italia meridionale, della Liguria e della Provenza (famosa tra tutte quella di Frassineto), spingendosi, in cerca di bottino, fino ai valichi alpini e in Svizzera»[61].
Le fonti chiamano saraceni sono quelli che oggi vengono genericamente definiti “arabi”, cioè quelle popolazioni che, partite dalla penisola arabica, dopo aver conquistato tutto il nord Africa, si spinsero poi nella penisola iberica e, al contempo, dettero l’assalto alle isole del Mediterraneo e alla Sicilia in particolare.
Gli autori altomedioevali non utilizzavano allora in maniera diffusa la parola “arabi”, poiché essa apparve solo tardivamente, solo dopo che Maometto unificò le diverse tribù che avevano nomi sotto un’unica religione e sotto una sola lingua, l’arabo, ed esse cominciarono a percepirsi come un’unità.
Così nelle fonti coeve è abituale affermare che furono i saraceni o i mori a conquistare la Spagna o la Sicilia, mentre noi moderni siamo abituati a dire più precisamente che furono gli arabi a conquistarle.
La parola “saraceni” aveva espressioni equivalenti che abbiamo già incontrato, innanzitutto quella di Agareni. Qui fu Girolamo a consegnare tale termine, come spiega sempre Levi Della Vida: «un semplice scherzo etimologico di San Girolamo, secondo il quale i Saraceni meriterebbero piuttosto di chiamarsi "Agareni", quali discendenti da Agar concubina di Abramo e non da Sara sua moglie legittima, ha accreditato nella letteratura latina medievale il termine Agareni come sinonimo di Saraceni»[62]. Si è visto come le fonti latine utilizzino talvolta anche il termine “Ismaeliti” o “Idumei”: qui è l’importanza attribuita alla Bibbia che fece sì che venissero traslati tali nomi sui “saraceni”.
Esiste un ulteriore termine frequente in età altomedioevale – anch’esso è già stato incontrato in questo articolo -, ed è quello di “mori”, coniato a partire dalla loro carnagione. Si noti bene che le fonti unificano in tale termine sia gli arabi che conquistarono il nord Africa, sia i berberi che essi assimilarono e che, passati all’Islam, divennero anch’essi protagonisti delle successive guerre di conquista.
Il termine “saraceni” - come quello di “mori”, di “agareni” o “ismaeliti” - non indica semplicemente i ceppi originari degli assalitori provenienti dalla penisola arabica, ma anche le popolazioni via via assimilate ad essi.
Tutti costoro vennero unificati nel corso dell’VIII e del IX secolo da un’unica religione, quella dell’Islam, e da un’unica lingua, l’arabo, così come era già avvenuto per le diverse tribù della penisola arabica. Per questo è corretto indicarli come arabo-musulmani.
Ma vale la pena subito ricordare – come già detto - che, quando le fonti che abbiamo considerato li definiscono come “nefandi” o “malevoli” o “terribili” o addirittura “figli di Satana”, non si riferiscono alla loro fede islamica, ma alla loro violenza crudele percepita nei saccheggi a scopo di rapina e di acquisizione di schiavi e nelle devastazioni e uccisioni di civili.
La sensazione è che, però, alcuni storici moderni preferiscano a torto evitare l’uso equivalente di “saraceni”, “arabi” e “musulmani” per riservare al termine “saraceni”[63] i saccheggi e le depredazioni e ai termini “arabi” e “musulmani” la cultura che si sviluppò in Spagna e in Sicilia.
Ma questo è evidentemente fuorviante: le azioni di saccheggio, di uccisioni e di deportazione di schiavi fanno parte della visione che, al tempo, avevano gli arabo-musulmani, esattamente come le prospettive culturali e architettoniche degli edifici della Sicilia arabo-musulmana. Gli arabi che conquistarono l’Andalusia e la Sicilia e lì dettero vita alla civiltà araba sicula e andalusa sono esattamente gli stessi che depredavano ovunque le città e i borghi del Lazio sulla costa e nell’interno.
Il politically correct impedisce qui ogni discorso sensato, quasi che attribuire azioni crudeli a quelle popolazioni voglia dire criticare l’Islam di oggi: così non è e non deve essere. Sarebbe come accusare uno studioso di essere anti-cristiano o anti-clericale perché critica le crociate, mentre sta semplicemente svolgendo il suo lavoro di storico.
È a tutti evidente che non c’è niente di scorretto linguisticamente a parlare di Spagna araba o musulmana o di Sicilia araba o musulmana, così non c’è niente di scorretto a parlare di attacchi al Lazio arabi o musulmani.
Questo non implica, ovviamente, che i saraceni o arabo-musulmani non si siano serviti di accordi con longobardi o bizantini o latini cristiani, questo non significa che non ci siano stati duchi longobardi o bizantini ad aver stretto accordi con loro o addirittura ad averli assoldati per determinate campagne militari, esattamente come al tempo delle crociate ci furono cavalieri crociati che combatterono al fianco di reparti musulmani. Così come questo non implica che ci furono e ci sono arabi non musulmani, ma cristiani, come nel caso dei copti.
Visti dal punto di vista degli attaccanti, invece - e non dal punto di vista laziale -, le azioni militari di conquista della Spagna o della Sicilia e gli attacchi a scopo di saccheggio appartenevano senza dubbio ai concetti di jihad, cioè di guerra santa e religiosamente riconosciuta. Addirittura il termine “razzia” ha come radice etimologica l’arabo ghazziyya, forma magrebina di ghazwa, “incursione”[64].
Come ha scritto Cook, è solo «con la fine delle conquiste dell’VIII e del IX secolo, [che] incomincia a profilarsi una concezione non militare del jihad. È assai probabile che i primi a esplorare la possibilità di un’interpretazione di carattere spirituale del jihad siano stati gli asceti»[65]. Tutte le azioni belliche o di saccheggio compiute nel corso dell’espansione islamica dei primi secoli rientravano a quel tempo nella mentalità degli aggressori nel concetto di jihad compiuto in nome di Allah[66].
Sono le stesse popolazioni arabo-musulmane ad essere protagoniste di saccheggi, di conquiste e di apporti culturali. Taluni studiosi pretendono di attribuire a tali popolazioni solo le razzie, altri pretendono che siano loro proprie solo le conquiste e gli apporti culturali. Entrambe le posizioni sono fuorvianti: erano le stesse popolazioni a compiere razzie allo scopo di saccheggio e di acquisizione di schiavi, a compiere invasioni e conquiste stabili, a apportare nuovi contributi culturali, diversi da quelli originariamente presenti in un determinato luogo, con acquisizioni nuove da un punto di vista religioso, linguistico, architettonico, scientifico e così via. Questi tre elementi caratterizzarono congiuntamente gli arabo-musulmani o saraceni dei primi secoli dell’Islam.
12/ La nascita del potere temporale del vescovo di Roma nel VII e nell’VIII secolo
Gli attacchi dei saraceni su Roma e sulle altre località della costa laziale e dell’interno portano con sé un’ulteriore domanda: chi era la legittima autorità chiamata ad opporsi ad essi? O ancora: chi deteneva il potere nella regione laziale e quali dinamiche conflittuali o sinergiche vivevano le diverse autorità nel territorio laziale nell’alto medioevo?
Roma era una città sottoposta all’imperatore franco o a quello di Costantinopoli ed era costui a doverla difendere? Oppure Roma era sotto giurisdizione pontificia? O ancora era governata da magistrature laiche che se ne occupavano, indipendenti dagli imperi e dai pontificati?
C’è un punto fermo nella questione ed è precisamente il fatto che la donazione di Costantino è un falso e che mai un qualsivoglia imperatore si è sognato di esonerare Roma e la sua regione dalla giurisdizione imperiale. Ma se tale donazione è appunto un falso e Il Constitutum Costantini è certamente un documento altomedioevale – come si vedrà – da dove derivò l’autorità temporale del vescovo di Roma, se essa non venne ottenuta con un qualche atto di ribellione all’impero storicamente che sia riconoscibile e individuabile?
Nel volume Il potere necessario[67] credo di aver dimostrato a sufficienza per il periodo immediatamente antecedente, quello dell’VIII secolo, come vi sia continuità assoluta fra la Roma imperiale e quella altomedioevale: le tasse continuavano ad essere riscosse con le modalità precedenti e gli stipendi dei pubblici ufficiali continuavano ad essere pagati[68], l’amministrazione cittadina continuava a redigere documenti con la stessa prassi e addirittura la stessa forma di scrittura che si ritroverà poi nel basso medioevo – segno di continuità nella trasmissione di essa[69] -, i pubblici palazzi, così come l’amministrazione militare e quella degli acquedotti continuavano ad esistere e a lavorare[70]: chiunque immagina l’alto medioevo come un periodo di anarchia civile erra completamente perché, nonostante la penuria di mezzi, tutto l’apparato statale proseguì a funzionare con continuità.
Ma, d’altro canto, a partire soprattutto dall’invasione longobarda della fine del VI secolo e poi ancor più nel VII e nell’VIII[71], tale apparato che era formalmente quello dell’impero e, quindi, strettamente dipendente dall’imperatore di Costantinopoli e dal suo esarca che aveva sede a Ravenna, sempre più venne ad essere diretto dal vescovo di Roma.
Nel VII e nell’VIII secolo, infatti, Costantinopoli, come si è già detto, fu più volte sotto attacco, da parte degli arabi e dei bulgari[72] e l’imperatore non fu più in grado di occuparsi della penisola italiana.
Il papa continuò ad essere ordinato vescovo di Roma solo dopo che da Costantinopoli fosse giunta l’autorizzazione imperiale[73] – perché il pontefice continuava ad essere un cittadino romano – ma sempre più fu lui con la sua Curia a dover curare il funzionamento dell’amministrazione imperiale, della riscossione delle tasse, del pagamento degli stipendi delle truppe, del restauro degli acquedotti o delle mura cittadine, dell’amministrazione tramite la diaconia del cibo ai poveri della città e così via. Solo per fornire un esempio, è evidente dalle fonti che, da un certo momento in poi, il denaro riscosso dalle tasse e destinato al pagamento dei pubblici stipendi sia civili che militari è custodito insieme alle offerte raccolte dalla Chiesa in Laterano[74].
Insomma, la gestione “temporale” di Roma e del suo territorio da parte del pontefice è un fatto antecedente all’attacco arabo e il pontefice si occupa delle fortificazioni cittadine già almeno dall’VIII secolo: senza una conoscenza dell’VII e dell’VIII secolo è impossibile comprendere chi governasse Roma alla metà del IX.
La necessità di acquisire nuove risorse economiche fece parte di tale processo, ma fu solo un aspetto di tale crescita di responsabilità temporale che abbracciò qualsivoglia dimensione della vita dell’urbe e del suo territorio. Dalle fonti emerge come i diversi pontefici misero sempre più a profitto i possedimenti agricoli nel territorio laziale, soprattutto dopo la perdita di quelli del sud Italia, ma tale attenzione alle risorse agricole è solo un tassello della gestione economica complessiva di Roma e del Lazio che l’amministrazione pubblica continuò a gestire sotto la direzione del vescovo di Roma. In proposito, molto studiato è il caso delle cosiddette domuscultae[75], cioè di fattorie con ampi terreno coltivati che vengono citate nel Liber pontificalis, ma che certo, da sole, non avrebbero mai dato al pontefice un potere temporale. Gli studi moderni sono spesso ambigui, perché si rendono conto che tali “fattorie” non furono un elemento decisivo, anche se, di fatto, attribuiscono poi a tali aziende agricole ruoli spropositati: emblematica, in questo senso, è la posizione di Arnaldi che, da un lato, relativizza la questione delle domuscultae e dei possedimenti agricoli della Chiesa di Roma, e, d’altro canto, afferma che essa fu decisiva[76]. Arnaldi, nella sua ricerca[77], segue passo passo le dinamiche per cui l’imperatore non fu più in grado di occuparsi del centro Italia, ma poi, quando si sofferma a studiare le conseguenze di ciò nella gestione di Roma e del Lazio si sofferma solo sulla questione delle aziende agricole, dimenticando come tutti interi i pubblici servizi siano passati sotto diretta gestione pontificia, nelle loro molteplici dimensioni militari, difensive, amministrative, così come quelle relative all’apparato fiscale e al pagamento degli stipendi.
Ora certamente tale gestione della res publica fu necessariamente gestita sempre più dal pontefice e dalla sua curia, anche se sempre tramite personale che ereditava di generazione in generazione la preparazione e le regole dell’antico apparato imperiale, esattamente perché l’imperatore e il suo esarca erano sempre più impossibilitati ad occuparsene.
Se, fino all’VIII secolo, l’imperatore di Costantinopoli aveva come suo rappresentante nella penisola l’esarca di Ravenna che spesso scendeva a Roma, esercitandovi la sua autorità a nome dell’imperatore stesso[78], ormai solo una stretta striscia di terra collegava Roma a Ravenna – gli storici la chiamano il “corridoio bizantino”[79] – perché i longobardi che la stringevano da nord, con il regno, e da sud con il ducato di Spoleto.
Più volte nel VII e nell’VIII secolo il pontefice si rivolse all’imperatore di Costantinopoli per chiedere aiuto, economico e ancor più militare, contro i longobardi che cercavano di avanzare ulteriormente conquistando ora questa ora quella città dell’impero (da Sora a Sutri, da Narni a Terni, da Perugia fino a Ravenna), ma, alla resa dei conti, egli si ritrovò sempre più solo a fronteggiarli, forte solo della sua autorità spirituale: ogni volta che una città era conquistata dai longobardi, non potendo contare su di un reale intervento militare bizantino, il pontefice era obbligato ad intavolare trattative per riottenere la liberazione di quel luogo dai diversi duchi o re longobardi che l’avevano occupata.
Anzi, non solo non otteneva aiuti, ma, più volte, i pontefici si trovarono costretti a combattere decisioni imperiali sia in campo dogmatico che economico-politico. Al tempo della crisi monotelita il papa Martino I venne deportato a Costantinopoli e deposto nel 653 (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 106-121). L’imperatore obbligò poi il pontefice Costantino a recarsi a Costantinopoli in un viaggio che durò due anni - dal 710 al 711 quando egli rientrò in Roma – facendo uccidere in città diversi membri dello scrinium pontificio non appena il papa si allontanò dalla città: l’imperatore intendeva così confermare, con la sottomissione del pontefice, la sua suprema autorità sull’urbe (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 219-223). Al tempo poi della crisi iconoclasta che iniziò nel 726 l’imperatore cercò di obbligare Roma a prendere la stessa posizione di totale diniego delle immagini che era stata imposta in oriente: tramite l’esarca si giunse a ben cinque tentativi di eliminare fisicamente papa Gregorio II (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 316-322). Ma tale decisione dogmatica fu preceduta e accompagnata dalla decisione di distaccare il sud Italia dall’obbedienza a Roma, indirizzando anche i tributi economici di tali regioni verso Costantinopoli e di fatto dando inizio alla grecizzazione di quelle regioni (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 378-405).
Se un periodo deve essere scelto ad indicare la consumazione di una definitiva autonomia, questo può essere definito dagli anni che intercorrono fra il distacco canonico e fiscale con cui – come si è detto – l’imperatore sottopose nel 729 e ancor più nel 732-733 le regioni della Sicilia e della Calabria alla giurisdizione del patriarca di Costantinopoli e non più del vescovo di Roma, indirizzando il censo e la tassazione di tali regioni verso la seconda Roma, e la definitiva presa di Ravenna da parte dei longobardi nel 751[80]. Da quell’anno non ci fu più un esarca a rappresentare l’imperatore sul territorio della penisola e, difatti, l’anno successivo, papa Stefano II, dopo essersi recato a Pavia dal re longobardo per chiedere la restituzione di quel porto sull’Adriatico, avendo ricevuto un secco diniego, decise di partire verso il regno dei Franchi per chiedere loro protezione contro i longobardi. Ma già gli eventi che vanno dal 729 al 733 di fatto dividono in maniera definitiva il sud Italia controllato da Costantinopoli e Roma e il Lazio controllati dal vescovo di Roma.
Insomma, in parallelo, l’evoluzione del quadro internazionale fa sì che Roma e il Lazio siano sempre più abbandonate a se stesse dal potere centrale imperiale, mentre l’autorità temporale cresce fino a diventare un dato di fatto fra il 729 e il 751, come culmine di un processo ben più lungo.
Tale processo è talmente graduale che non è possibile individuare più precisamente una data, né tanto meno un qualche nome che indichi la nuova entità ormai guidata dal vescovo di Roma[81]. Troppo poco si riflette su tale fatto che la presa di coscienza di tale autonomia è talmente graduale da non essere individuabile nemmeno da un nome: non vi è un fatto come una dichiarazione di indipendenza o come un accordo al termine di una qualche rivolta o guerra. Ancora alla caduta di Ravenna il pontefice che si recò dal re longobardo a Pavia non chiese indietro la città adriatica a proprio nome, ma come legittimo rappresentante dell’impero bizantino di cui si sentiva ancora cittadino e di cui condivideva ancora valori e prospettive.
13/ La seconda metà dell’VIII secolo e il IX secolo
L’excursus rivolto indietro di un secolo, rispetto al momento dell’attacco dei saraceni su Roma, permette ora di porre più correttamente la domanda su quale fosse il potere che governava Roma dopo il distacco dall’impero bizantino e fino alla metà del IX.
Infatti, dopo aver di fatto raggiunto un’autonomia nel governo temporale di Roma e del Lazio, il vescovo di Roma avrebbe forse reinventato insieme ai franchi una nuova dipendenza temporale dal loro regno – poi Impero –, ricreando nuove magistrature che mettessero i nuovi alleati in grado di detenere un nuovo potere su Roma e il Lazio analogo a quello antecedente al distacco da Costantinopoli?
La risposta non può che essere negativa.
Dal momento del distacco da Costantinopoli – e quindi anche alla metà del IX secolo – il governo di Roma era ormai pienamente nelle mani del pontefice.
Le consuetudini di governo interno di Roma e del Lazio vennero mantenute così come erano maturate nei secoli precedenti e non si aggiunsero nuove magistrature, né ai franchi venne riconosciuto il diritto di inviare proprio personale per sostituite o controllare quello che già esisteva.
Come ha scritto Noble, «nella Repubblica [in Roma e suoi territori dalla metà dell’VIII secolo] tutto dipendeva dal Laterano: la stesura dei bilanci, la riscossione dei tributi, le decisioni di spesa. Le corti di giustizia emettevano le sentenze, le opere pubbliche e gli interventi di assistenza venivano messi in atto per tutti i bisognosi. Venivano reclutati piccoli e grandi funzionari che ricevevano una formazione per essere destinati a un incarico, trasferiti e promossi. Praticamente tutti i servizi pubblici che l’antica Roma garantiva ai propri cittadini venivano forniti anche dal papato. Con una sola rilevante eccezione: la Roma papale non disponeva sotto i suoi vessilli di legioni da inviare ai confini del mondo e nemmeno a quelli della Repubblica. Così, i longobardi prima e i musulmani in seguito si dovevano rilevare nemici temibili, papa Leone III poteva essere oggetto di attacchi all’interno di Roma e l’arcivescovo agire autonomamente a Ravenna. Tuttavia, come l’antica Roma a un certo punto si rivolse a nord per reclutare valorosi soldati germanici, la Roma papale guardò alla Francia per ottenere il sostegno militare dei Carolingi»[82].
All’interno dell’urbe poi ci furono certamente conflitti fra fazioni, ma esse non solo portano ad escludere che esistesse un governo antagonista a quello del vescovo di Roma, ma ancor più lasciano chiaramente intendere che, poiché era il pontefice a guidare la città, era al momento delle elezioni che sempre più le diverse famiglie aristocratiche, spesso in lotta fra di loro, cercavano di far emergere i loro candidati poiché sapevano che, una volta eletto il papa, sarebbe stato lui a controllare la situazione[83] – ovviamente tale situazione degenerò nel X secolo, il cosiddetto “secolo di ferro”, esattamente perché per alcuni decenni alcune famiglie “laiche” giunsero a controllare totalmente le elezioni di più pontefici in successione per ergersi a governare la città[84].
Noble giunge ad affermare a ragione: «Verso la metà dell’VIII secolo, le tradizioni romane e quelle lateranensi cominciarono a fondersi e - tranne durante il sofferto pontificato di Leone III – il risultato fu una compenetrazione di tradizioni laiche ed ecclesiastiche che culminavano nell’ufficio papale»[85].
È miope ridurre il ruolo temporale svolto dal pontefice alle derrate alimentari e ai guadagni che provenivano al pontefice dalle domuscultae, il cui ruolo è stato esagerato da taluni storici. Il fatto che il vescovo di Roma gestisse campagne che producevano approvvigionamenti per l’urbe e reddito per altri bisogni è solo un tassello minimo del ben più ampio ruolo temporale giocato dal pontefice come governante della città e delle campagne[86].
Quel ruolo temporale che il pontefice aveva dovuto assumere dinanzi ai longobardi, nel declinare del potere imperiale costantinopolitano, non solo non si riduce, ma si rafforza ancor più al tempo degli attacchi saraceni.
È evidente che i papi del tempo non disdegnavano di occuparsi del “temporale”, ma ciò non avveniva al modo di un occulto e spasmodico desiderio di potere che si andava consolidando con l’acquisizione di domuscultae, di massae e di altre aziende che sole procacciassero un potere economico da mettere poi sul piatto della bilancia per sottomettere a sé la città e il contado. Al contrario, l’attenzione alla dimensione economica, così come a quella difensiva e militare, così come alle alleanze con i potenti del tempo necessarie alla sopravvivenza di Roma, era necessaria allora, in un clima di grande frammentarietà e incertezza, perché solo chi aveva una autorità locale riconosciuta poteva mantenere a livelli accettabili il tenore di vita della popolazione.
Questo non vuol dire che non ci siano stati enormi cambiamenti nel passaggio dall’VIII al IX secolo. Infatti, nei cento anni che andarono dal 751 all’846, il punto di riferimento primario di Roma e del suo vescovo non fu più l’impero di Costantinopoli, bensì il regno franco, divenuto poi impero.
L’imperatore poteva scendere a Roma su invito del pontefice e a sua difesa e la sua presenza in città era rappresentata da un missus permanente, ma non da magistrature che si sostituissero o che dominassero quelle locali, formatesi in Laterano[87].
L’evoluzione del rapporto con i franchi venne scandito da quattro tappe.
Nel 754 papa Stefano II e il re Pipino, prima nell’incontro a Ponthion e poi nel patto stretto a Quierzy-sur-Oise, stabilirono che i franchi avrebbero protetto il pontefice e sarebbero sempre intervenuti in sua difesa, se il papa lo avesse chiesto, mentre il pontefice si impegnava a pregare per il regno franco, di fatto consacrando anche il suo re in quell’occasione[88].
Negli anni successivi e nelle altre tappe del loro rapporto, sempre re e pontefici si richiamarono a questa prima amicitia. Ad ogni nuova elezione pontificia e ad ogni nuovo cambio di monarca essi erano tenuti a sottoscrivere nuovamente l’accordo del 754.
Una seconda tappa decisiva venne segnata, al tempo di Leone III e di Carlo Magno, dall’incoronazione imperiale di Carlo Magno nell’800 a Roma. Il sovrano si recò a Roma a motivo delle tensioni sollevatesi contro il pontefice che era sotto accusa e, pur avendo inviato messi a fare indagini su di lui, si rifiutò di giudicarlo, quando il papa proclamò la propria innocenza[89].
Una terza tappa è segnata dal cosiddetto Ludovicianum, il patto fra Ludovico il Pio e papa Pasquale I, dell’817, Da un lato, tale accordo non fa che ripetere quello del 754, con l’impegno alla protezione da parte dei franchi e al sostegno spirituale da parte di Roma, dall’altro si specifica ancor più che l’alleanza è fra due contraenti e, quindi, che Roma è autonoma, pur appartenendo all’impero che la protegge, al punto che si stabilisce quali procedure debbano essere seguite da fuggitivi che scappino dall’impero a Roma o da Roma nell’impero[90].
Una quarta tappa è data, infine, dalla Constitutio Romana dell’824 che vide protagonisti sempre Ludovico il Pio e Pasquale I papa. In essa il re, a nome anche dell’imperatore Lotario, si faceva garante delle elezioni pontificie che dovevano avvenire secondo le consuetudini, quindi in totale autonomia da parte della Sede Romana, e vincolò il popolo di Roma ad un giuramento di fedeltà[91] che però, nemmeno questa volta, fu una presa di potere imperiale, perché esso era promesso salva fide quam promisi domino apostolico[92].
In nessuno di questi accordi l’imperatore pretese di dettare legge in Roma, mai chiese che sia il pontefice sia altri ufficiali romani venissero da lui designati, mai chiese di reclutare soldati nei territori di Roma, mai chiese di battere moneta e la monetazione continuò a portare indicazioni relative ai pontefici, anche se si aggiunse quella imperiale.
Lo stesso titolo di patricius romanorum che ebbe prima Pipino nel 754 come re e poi Carlo Magno come imperatore nell’800 non significa assolutamente che il sovrano avrebbe governato la città di Roma, bensì esso fu un titolo creato ad hoc per indicare la promessa regia di difendere l’urbe e il suo vescovo. Se tale titolo era già onorifico nella nomenclatura bizantina, a maggior ragione lo divenne nella nuova modalità “latina” ad indicare il protettore della res publica Romana governata dai pontefici[93].
Insomma non venne mai modificata l’autonomia che l’urbe con il suo territorio aveva raggiunto dopo il suo distacco da Costantinopoli. L’imperatore si fece garante di Roma e del suo vescovo, ritenendolo parte dell’impero, ma non intromettendosi mai nelle dinamiche interne, mentre il pontefice si impegnò a sostenere spiritualmente l’impero[94].
Negli anni successivi alla Constitutio Romana, Roma si ritrovò ancora più sola per le lotte intestine dei franchi.
Nell’831, infatti, Ludovico divise l’impero in tre stati, assegnandone il governo ai tre figli, ma, alla sua morte, avvenuta nell’840, scoppiò una vera e propria lotta fra i tre regni che segnò l’inizio delle entità politiche che portarono alla primordiale costituzione di ciò che diverranno poi gli stati di Francia, Germania e Italia. Fu il trattato di Verdun dell’843 a segnare tale divisione ed è significativo che nei due giuramenti di Strasburgo dell’842 è segnalata per la prima volta l’utilizzo delle lingue francese e tedesca dei due contendenti, poiché anche la diversità degli idiomi era ormai segnata.
Nel periodo dell’attacco arabo si assiste ad ancor più rivalità e guerre tra i regni franchi ed esse cresceranno ancora, indebolendo le tre neonate entità, al punto che nell’887 l’attacco a Parigi dei normanni portò alla deposizione di Carlo il Grosso e nell’899 Berengario venne sconfitto sul Brenta dagli ungari.
Solo con l’incoronazione imperiale, nel 962, di Ottone I l’impero tornò ad essere incisivo e il privilegium ottonianum segnò una modifica della situazione precedente[95], ma ciò è già fuori dal contesto che qui si sta studiando.
In sintesi, dalla metà dell’VIII secolo, alla metà del IX secolo i franchi si considerarono chiamati a dare sostegno a Roma e al suo territorio, ma al contempo vennero ad essere riconosciuti e investiti di autorità dal pontefice, come non era mai avvenuto in antico.
Lo stabilizzarsi progressivo del rituale per il quale è il pontefice ad incoronare l’imperatore – a partire da Carlo Magno nel Natale dell’800 – ma al contempo è l’imperatore a dover dare l’assenso al pontefice già eletto a Roma fu, da allora e per secoli, fonte continua di tensioni nelle lotte fra gli eredi al trono imperiale e nelle elezioni pontificie[96].
Nel frattempo, l’anno 812, con la cosiddetta pace di Aquisgrana, segnò il momento nel quale i due imperi, quello franco e quello di Costantinopoli, si riconobbero vicendevolmente, stabilizzando a livello istituzionale ciò che era operante già di fatto, cioè l’esistenza di due imperi romani cristiani, assolutamente indipendenti fra loro, ben diversi nella loro autonomia dai due imperi d’oriente e d’occidente “classici” che erano comunque parte di un’unica realtà, che si percepivano come un corpo unico[97].
Quanto fin qui esposto viene ulteriormente chiarificato proprio dagli eventi che occorsero in Roma al tempo del duplice attacco arabo.
Il primo attacco, quello che portò alla devastazione delle due basiliche, vide come oppositori dei saraceni diverse milizie che sono indicate come Saxi et Frisones et schola quae dicitur Francorum[98]. La loro azione venne diretta dai Romani, afferma il Liber: cognitis Romanis[99]. I franchi sono il terzo gruppo di armati, citati dopo sassoni e frisoni, segno che i diversi regni avevano comunque un piccolo contingente che permaneva stabilmente in città. Ma esso agisce su comando dei romani – e, quindi, del pontefice – mentre non è nominato alcun ufficiale franco che sovrintenda all’intervento, anzi il gruppo franco è l’ultimo dei tre.
Il contingente è poi talmente debole che, come si è visto, dopo un primo scontro con i musulmani si vide perdente e si ritirò dentro le mura. Le altre cronache dell’epoca[100] ricordano di un ulteriore intervento di Ludovico e dei franchi, da situare probabilmente poco dopo l’attacco contro l’urbe, e di un successivo scontro franco-saraceno presso Gaeta, in cui ancora i franchi vennero sconfitti.
Il primo attacco, insomma, mostra, anche se non è possibile chiarire i particolari in dettaglio, dell’intervento di franchi a difesa di Roma, senza che essi avessero né un dominio su Roma, né un’effettiva capacità di fronteggiare l’attacco arabo.
In occasione del secondo attacco i franchi non sono nemmeno nominati e la battaglia, questa volta vittoriosa, contro gli arabi è combattuta da truppe Neapolitanorum, Amalphitanorum, Cagetanorumque […] ut unam cum Romanis[101].
Un ulteriore episodio del Liber, raccontato al termine della biografia di Leone IV, è rivelativo in merito. Il Liber afferma, infatti, che un certo Danhiel magister militum, accusò il magister militum Graziano, ufficiale in Roma e responsabile Romanii palatii[102]- cioè del palazzo romano del Laterano -, di aver suggerito di rivolgersi per aiuti ai “Greci”: Quare non advocamus Graecos et cum eis faedus pacis componentes Francorum regem et gentem de nostro regno et dominatione expellimus?[103]
Si vede qui come esista un’autorità suprema che guida le truppe di stanza a Roma e che costui non è un funzionario franco, bensì un ufficiale militare alle dipendenze del pontefice. Ebbene Danihel accusava Graziano di aver portato la seguente motivazione: quia Franci nobis nichil boni faciunt, neque auditorium prebent, sed magis quae nostra sunt violenter tollunt.
Precise sono le parole attribuite a costui: poiché i franchi “non fanno per noi niente di buono, né porgono alcun aiuto”, cioè poiché essi non sono in grado di proteggerci.
Si capisce bene che l’accusa rivoltagli dall’altro magister militum - di cui non sono indicati gli ambiti di competenza, e non è dato capire se egli comandasse all’interno di Roma o al di fuori dell’urbe -, non si riferisce al lontano imperatore di Costantinopoli, quasi che le milizie intendessero ritornare alla situazione precedente alla metà dell’VIII secolo, ma in realtà l’aiuto che i romani avevano chiesto era piuttosto quello di Gaeta e di Napoli, ancora legate a Costantinopoli. Sono quelle milizie ad essere in grado di aiutare Roma, mentre quelle franche sono troppo lontane e insufficienti alla difesa dell’urbe. Si afferma esplicitamente che, secondo Graziano, i franchi avrebbero potuto essere espulsi de nostro regno et dominatione, espressione che indica chiaramente il potere temporale del pontefice[104].
Si comprende bene, poi, che la costruzione delle Mura Leonine, come del nuovo insediamento di Cencelle, come la fortificazione di tanti luoghi del Lazio, se, da un lato, indicano il pericolo terribile che venne portato dai musulmani, dall’altro indicano chiaramente che fu il vescovo di Roma e non l’imperatore o il re ad erigere quelle difese murarie.
Certo i saraceni erano così devastanti e feroci che addirittura alla corte franca si decise una spedizione contro di essi, come attesta il famoso Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda, in un incontro tenutosi nello stesso anno del primo attacco contro Roma, l’846[105].
Ma qual era appunto il problema? Che il re d’Italia Ludovico II e l’imperatore Lotario suo padre non erano in grado, anche per la distanza delle loro corti, di provvedere al centro Italia. La loro presenza era episodica, con discese occasionali, ma erano poi le autorità locali le uniche a poter essere presenti sul territorio.
Infatti, le incursioni saracene non solo non si arrestarono, ma anzi andarono aumentando di numero e di intensità fino a quando, infine, gli arabi vennero cacciati dal sito detto del Garelianus[106]. Anche in questo caso l’impresa fu permessa da un’alleanza che papa Giovanni X riuscì a realizzare, facendo scendere in campo Alberico I duca di Spoleto, marchio, longobardo e altri signori italiani fra cui truppe longobarde di Capua e soldati bizantini di Gaeta[107].
Le iniziative di difesa sono opera di Leone III per la Leopoli a Formia, di Gregorio IV per Gregoriopoli, di Leone IV per le Mura Leonine e per Cencelle, di Giovanni VIII per Giovannipoli intorno a San Paolo fuori le Mura, così come – si intuisce dalle fonti – furono i pontefici ad intervenire al restauro di sistemi murai ad Orte e Amelia così come in altri siti costieri e dell’interno.
Allo stesso modo, le fonti dichiarano, come si è visto, che molti abitanti delle campagne laziali si rifugiarono entro le mura dell’urbe quando i loro paesi o borghi vennero saccheggiati.
Insomma, cento anni dopo che l’impero franco aveva preso le difese di Roma al posto di quello di Costantinopoli, il ruolo temporale del vescovo di Roma è ancora evidente e necessario.
A Roma il papa giocava un ruolo locale, con attenzione alle Mura e alle città attaccate dai saraceni, ma al contempo la sua autorità universale e super partes permetteva al vescovo di Roma di essere in perenne dialogo con gli imperi, i regni e i ducati.
Anche alla metà del IX secolo, come già alla metà dell’VIII secolo, il potere temporale pontificio è “necessario” al buon andamento delle cose. Spessissimo è il vescovo di Roma ad essere l’unico ad essere, nella realtà dei fatti, in grado di intervenire, di creare le giuste alleanze, di erigere fortificazioni e di convocare truppe e persone per alleviare lo stato di penuria generato dagli incessanti attacchi arabi[108].
Né l’impero romano di Costantinopoli alla metà dell’VIII secolo, né l’impero franco alla metà del IX, furono in grado di difendere Roma e il Lazio, nonostante il pontefice ne invocasse la protezione[109]. Il vescovo di Roma si trovò a fronteggiare due pericoli reali e forti, quello longobardo e quello arabo, da solo, forte solo delle alleanze che riusciva a costruire con la propria autorità e forte della capacità organizzativa e amministrativa del proprio scrinium che provvide alla gestione delle cose militari e delle difese murarie da approntare. Questo ovviamente fece crescere ancor più l’affezione della città e del Lazio intero alla figura del pontefice e al ruolo temporale che era obbligato a svolgere.
Gli eventi della metà del IX secolo sono così estremamente interessanti, poiché mostrano come fosse incombente il pericolo degli assalitori saraceni e come, proprio a motivo di essi, sia ulteriormente cresciuta anche l’autorità temporale del vescovo di Roma e della sua Chiesa, in particolare su Roma e il Lazio, già emersa in maniera decisiva al tempo delle invasioni dei longobardi.
Tali eventi si rivelano decisivi e non secondari per meglio comprendere le modalità dell’espansione araba, perché gli attacchi e i saccheggi si rivelano non tanto azioni piratesche, quanto prodromi di una conquista che era nelle intenzioni per i decenni a venire e perché erano azioni volte a foraggiare le conquiste arabe nel sud Italia.
Ma sono al contempo di prim’ordine per comprendere come l’autonomia di Roma fosse ormai riconosciuta dai diversi patti stipulati con i franchi, ma ancor più come l’esistenza di tale potere temporale del vescovo di Roma, già emersa al tempo del pericolo longobardo, si rivelasse ancora una volta “necessaria” a motivo di quegli attacchi musulmani che nessun altra autorità era all’epoca in grado di fronteggiare.
14/ Considerazioni sulla genesi della Donazione di Costantino
Il periodo in cui il vescovo di Roma prese coscienza di esercitare un vero e proprio potere temporale, decidendo sia dell’amministrazione dell’urbe e del territorio, sia governandone la politica internazionale, aiutano a capire l’origine del cosiddetto Constititum Constantini, il documento che fa risalire tale potere al tempo di Costantino imperatore, al modo di una donazione.
Le due datazioni probabili del documento sono alla metà dell’VIII secolo, quando effettivamente si consumò il distacco fra Roma e Costantinopoli – è la datazione più accreditata – o alla metà del IX – cioè nel periodo che si sta qui studiando[110].
La coincidenza fra l’effettiva origine storica di tale autonomia e la scrittura di tale documento fa ben percepire come non si trattasse tanto di porgere una giustificazione giuridica a tale “indipendenza” che nessuna delle controparti avrebbe creduto, né Costantinopoli, né l’impero franco. Il documento, invece, attesta e manifesta l’autocoscienza della Chiesa di Roma, narrata in forma leggendaria, che tale autonomia è ormai un dato di fatto: se prima il vescovo di Roma aveva costantemente invocato l’intervento dell’imperatore bizantino e ora cercava aiuto presso i franchi, sapeva al contempo di dover gestire la situazione poggiandosi innanzitutto sulle proprie spalle, sapeva che era la propria autorità a dover far fronte a situazioni estremamente pericolose, invocando eventualmente aiuti in chiave internazionale.
Il Constitutum Constantini si basa certamente su leggende anteriori di origine orientale[111], ma proprio nel periodo che intercorre fra ila metà del VII e la metà dell’VIII secolo deve essere posta la sua redazione che passerà poi nelle raccolte di documenti conservate dalla Chiesa.
Se il documento venne scritto negli anni che seguirono la caduta di Ravenna, nel 751, è comprensibile come fosse ormai chiara l’autocoscienza della Chiesa di dover esercitare in proprio un potere che non dipendeva più da Costantinopoli. Se il documento venne, invece, redatto alla metà del IX secolo, ancor più doveva essere forte l’autocoscienza di un ruolo temporale ormai assodato.
Comunque, quale che sia il periodo della redazione della Donazione di Costantino, ciò che era certo che Roma era lì a doversi governare e difendere a partire dalle proprie forze.
Come nell’VIII secolo non era stata Roma a rinnegare l’impero romano ormai bizantino, così ora non era l’urbe e il suo vescovo a voler agire senza i franchi: era invece il potere temporale del vescovo di Roma ad essere necessario e storicamente insostituibile alla sopravvivenza della città.
Note al testo
[1] Per un primo orientamento su papa Leone IV, cfr. la voce F. Marazzi, Leone IV, in Enciclopedia dei papi, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 723-730.
[2] Sulla natura del Liber pontificalis, cfr. A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, in particolare le pp. 493-533.
[3] Per un primo orientamento su papa Sergio II, cfr. la voce I. Bonaccorsi, Sergio II, in Enciclopedia dei papi, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 720-723.
[4] Cfr. su quanto segue, vedi L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, pp. 99-105.
[5] L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a p. 104.
[6] L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a p. 104.
[7] L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a pp. 104-105.
[8] Per tutte le citazioni a seguire, da tale biografia, cfr. L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, pp. 106-134.
[9] Raffaello affrescò l’opera su commissione del pontefice Leone X che intendeva richiamare il nuovo pericolo degli attacchi turchi che, a loro modo, ripetevano le azioni già tentate dagli arabi secoli prima contro la penisola italiana e la città di Roma; cfr. su questo A. Lonardo, Dove si eleggono i papi. Guida ai Musei Vaticani. Cappella Sistina. Stanze di Raffaello. Museo Pio Cristiano, Bologna, EDB, 2015, p. 85.
[10] Oltre alla conoscenza degli studi degli autori che si sono dedicati alla storia e alla costruzione delle mura, merita, in chiave divulgativa, una visita al Museo delle Mura, in via di Porta San Sebastiano 18.
[11] Cfr. S. Pergola, Il fenomeno del reimpiego nelle mura leonine, in “Archivio della società Romana di Storia Patria”, 125 (2002), pp. 5-32; B. Ward-Perkins – S. Gibson, The Surviving Remains of the Leonine Wall. Part I, in “Papers of the British School at Rome” XLVII (1979), pp. 30-57; B. Ward-Perkins – S. Gibson, The Surviving Remains of the Leonine Wall. Part II: the Passetto, in “Papers of the British School at Rome, LI (1983), pp. 222-239; C. Parisi Presicce – R. Motta Rossella – A. Gallitto - M. Franco – A. Gobbi - V. Valerio (a cura di), Mura di Roma. Memorie e visioni della città, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018, pp. 161-162; F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 251-278; F. Marazzi, La costruzione della Civitas Leoniana e qualche considerazione sulla fondazione di «città nuove» papali nel secolo IX, in “Geo-archeologia”, vol. 1992-1, pp. 67-86; L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato romano, in Atti della XXXIX Settimana di studio del CISAM. Committenti e produzione artistico-letteraria nell'alto medioevo occidentale, Spoleto, CISAM, 1992, pp. 371-392, ora anche in L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato Romano, in L. Pani Ermini, Forma e cultura della città altomedievale: scritti scelti, A.M. Giuntella - S. Mariarosaria (a cura di), Spoleto, CISAM, 2001, pp. 235-280, e R. Ivaldi, Le mura di Roma, Roma, Newton & Compton, 2005, pp. 62-70; 509-531 (più divulgativo).
[12] Cfr. in particolare, Cfr. S. Pergola, Il fenomeno del reimpiego nelle mura leonine, in “Archivio della società Romana di Storia Patria”, 125 (2002), pp. 5-32.
[13] Per i testi di tutte le epigrafi apposte sulle Mura leonine e conosciute in trascrizione, cfr. F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 276-277.
[14] «Viandante che entri ed esci, ammira questo splendido edificio che papa Leone IV edificò con animo lieto. Belle splendono, in marmo squadrato, queste alte guglie che, lavorate dalla mano di uomini, piacciono per il loro ornato decoro. Monumento dell’epoca dell’invitto Lotario è questa grande opera che il pontefice realizzò in modo trionfale. A te in verità mai nuoceranno guerre di empi né mai più il nemico celebrerà i suoi trionfi, o Roma, prima nel mondo, splendore, speranza, città aurea, alma sei, Roma, come il pontefice ti dimostra nella sua opera. Questa è la città che, dal nome del suo edificatore, si chiama Leonina».
[15] Marazzi sottolinea che «le lapidi fatte apporre da Leone IV alle porte della civitas Leoniana, senza sminuire il ruolo del pontefice, sottolineano contemporaneamente in maniera forse più netta che nel Liber pontificalis, la compresenza della figura dell’imperatore al compimento dell’opera» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 263).
[16] Testo dell’epigrafe in F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 276.
[17] Liber pontificalis, II, p. 126.
[18] Liber pontificalis, II, p. 127.
[19] Cfr. sulle nuove città sorte in questo periodo a causa della pericolosità degli insediamenti costieri, cfr. gli studi già citati sulle Mura Leonine: L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato romano, in Atti della XXXIX Settimana di studio del CISAM. Committenti e produzione artistico-letteraria nell'alto medioevo occidentale, Spoleto, CISAM, 1992, pp. 371-392, ora anche in L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato Romano, in L. Pani Ermini, Forma e cultura della città altomedievale: scritti scelti, A.M. Giuntella - S. Mariarosaria (a cura di), Spoleto, CISAM, 2001, pp. 235-280, F. Marazzi, La costruzione della Civitas Leoniana e qualche considerazione sulla fondazione di «città nuove» papali nel secolo IX, in “Geo-archeologia”, vol. 1992-1, pp. 67-86 e F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 251-278.
[20] Per le citazioni che seguono, riguardo alle vicende di Centumcellae/Cencelle, cfr. Liber pontificalis, II, pp. 131-132.
[21] Su questo, cfr. L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a p. 139, che fornisce pure il testo della fonte. Per gli Annales attribuiti ad Eginardo, cfr. Annales Regni Francorum, ed. G. Pertz – F. Kurtze (MGH, Scriptores in usum scholarum), Hannover, 1895, p. 200.
[22] Anche se Centumcellae, dopo il saccheggio, non doveva essere stata del tutto abbandonata nell’813, perché il Liber pontificalis II, p. 59, riporta ancora la notizia di donazioni alla cattedrale di San Pietro ancora nell’anno 817.
[23] S. Nardi, Da Centumcellae a Leopoli. Città e campagna nell'entroterra di Civitavecchia dal II al IX secolo d. C., in “Mélanges de l'école française de Rome”, 105-2 (1993), p. 526, riporta il testo dell’iscrizione di fondazione di Leone IV che è stata rinvenuta e ricomposta ed è ora conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, anche se non vi è esposta in forma stabile (l’intero articolo è alle pp. 481-533):
QUAMVIS IN PARVO CON[S]ISTAT CONDITA [MURO]
URBS HAEC NULLA HOMINUM S[EU BE]LLA NOCERE VALEBUNT
DESINAT HINC BELLATO[R N]OXIAM DESINAT HOSTIS
NON HANC UT Q[UISQUAM VALE]T URBEM VIOLARE
ansa sin. LEONIS Q[UARTI]
ansa des. PAPAE
Nardi rimanda per il testo a O. Marucchi, L’iscrizione monumentale di Leopoli, in Nuovo BAC I, 1900, pp. 80-86. Per il ritrovamento di iscrizioni a Cencelle, utili per una datazione delle fasi di utilizzo del sito e per un’analisi dei materiali di reimpiego, cfr. A. Nastasi, Iscrizioni romane, tardoantiche e altomedievali dallo scavo di Leopoli-Cencelle (VT), in “Scienze dell’antichità” 19 (2013), pp. 327-345.
[24] Su Cencelle, a partire dalle recenti indagini archeologiche, cfr.
-L. Ermini Pani – S. Del Lungo (a cura di), Leopoli-Cencelle, I. Le preesistenze, (TardoAntico e MedioEvo. Studi e Strumenti di Archeologia, 1), Roma 1999;
-Leopoli-Cencelle, II. Una città di fondazione papale, Catalogo della Mostra (TardoAntico e MedioEvo. Studi e Strumenti di Archeologia, 1), Roma 1996;
-L. Ermini Pani – E. De Minicis (a cura di), Leopoli-Cencelle IV. Il quartiere sud-orientale, (TardoAntico e MedioEvo. Studi e Strumenti di Archeologia, 1), in c.s.;
-F.R. Stasolla, Primi rinvenimenti di ceramica comune da Cencelle, in E. De Minicis (a cura di), Le ceramiche di Roma e del Lazio in età medievale e moderna, Atti del III Convegno di Studi (Roma, 19-20 aprile 1996), Roma 1998, pp. 70-76;
-F. Bougard – L. Pani Ermini, Leopolis – Castrum Centumcellae. Cencelle: trois ans de recherches archéologiques, in Castrum 7 (Actes du Colloque international), Rome-Madrid 2001, pp. 127-145;
-E. De Minicis– M.I. Marchetti, Cencelle: un isolato pluristratificato nel quartiere sud-orientale della città, in S. Lusuardi Siena (a cura di), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia e la cultura degli insediamenti nell’altomedioevo. Atti delle giornate di studio (Milano-Vercelli, 21-22 marzo 2002), Milano 2003, pp. 11-18;
-A.M. Giuntella et alii, Leopoli-Cencelle: il quartiere residenziale centrale, in S. Lusuardi Siena (a cura di), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia e la cultura degli insediamenti nell’altomedioevo, Atti delle giornate di studio (Milano-Vercelli, 21-22 marzo 2002), Milano 2003, pp. 35-80;
-L. Pani Ermini, Leopoli-Cencelle: note di urbanistica altomedievale in una città di fondazione, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm
-M.C. Somma, Leopoli-Cencelle: settore V. Il centro del potere politico, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm
-F.R. Stasolla, Leopoli-Cencelle: l’organizzazione urbanistica del quartiere sud-orientale, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm
[25] L. Pani Ermini, Leopoli-Cencelle: note di urbanistica altomedievale in una città di fondazione, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm
[26] S. Nardi, Da Centumcellae a Leopoli. Città e campagna nell’entroterra di Civitavecchia dal II al IX secolo d.C., in “Mélanges de l'École française de Rome”, 105-2 (1993), p. 529, nelle note 98 e 99 (l’articolo intero è alle pp. 481-533).
[27] Cfr. su questo C. Parisi Presicce – R. Motta Rossella – A. Gallitto - M. Franco – A. Gobbi - V. Valerio (a cura di), Mura di Roma. Memorie e visioni della città, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018, p. 162.
[28] I diversi autori che ricordano l’evento non citano, però, fonti a sostegno, anche se il Liber pontificalis ricorda molte volte nel IX secolo San Lorenzo e il dono di corredi liturgici da parte dei diversi papi: tutto lascia ritenere che, essendo la basilica fuori le mura, anch’essa venne sottoposta a fortificazione e che le prime fasi di tale apparato difensivo, ancora attualmente visibile dall’esterno grazie ad una torre, debbano risalire al IX secolo.
[29] S. Nardi Combescure, Paesaggi d'Etruria meridionale. L'entroterra di Civitavecchia dal II al XV secolo d.C., Firenze, All’Insegna del Giglio, 2002, pp. 89-90.
[30] Su quanto segue, cioè su Giovannipoli e sui recenti studi e scavi in proposito, cfr. L. Spera, Dalla tomba alla “città” di Paolo: profilo topografico della Giovannipoli, in O. Bucarelli – M.M. Morales, (a cura di), Paulo Apostolo martyri. L’apostolo Paolo nella storia, nell’arte e nell’archeologia, Atti della giornata di studi, Università Gregoriana, 19 gennaio 2009, Roma, GBP, 2011, pp. 119-161, anche se le ricerche recenti hanno riportato alla luce soprattutto le case per i poveri (paupercula habitacula) del V-VI secolo e un tratto di una porticus dell’VIII secolo (cfr. su questo C. Parisi Presicce – R. Motta Rossella – A. Gallito - M. Franco – A. Gobbi - V. Valerio (a cura di), Mura di Roma. Memorie e visioni della città, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018, p. 162).
[31] Procopio, Bellum Gothicum, II, 4: «Là non trovasi nessuna fortificazione».
[32] Liber pontificalis, II, p. 145.
[33] Fragmenta registri Iohannis VIII, p. 279, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.
[34] L. Spera, Dalla tomba alla “città” di Paolo: profilo topografico della Giovannipoli, in O. Bucarelli – M.M. Morales, (a cura di), Paulo Apostolo martyri. L’apostolo Paolo nella storia, nell’arte e nell’archeologia, Atti della giornata di studi, Università Gregoriana, 19 gennaio 2009, Roma, GBP, 2011, pp. 121-122, alla nota 10.
[35] Registrum Iohannis, 31, 32 e 56, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978..
[36] Registrum Iohannis, 31, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.
[37] Registrum Iohannis, 32, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.
[38] Registrum Iohannis, 56, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.
[39] Cfr. su questo L. Spera, Dalla tomba alla “città” di Paolo: profilo topografico della Giovannipoli, in O. Bucarelli – M.M. Morales, (a cura di), Paulo Apostolo martyri. L’apostolo Paolo nella storia, nell’arte e nell’archeologia, Atti della giornata di studi, Università Gregoriana, 19 gennaio 2009, Roma, GBP, 2011, pp. 138-144.
[40] «Qui è il muro salvatore e la porta invitta che tiene lontani i reprobi e accoglie gli uomini pii. Di qui entrate gente illustre, vecchi e giovani togati, plebe devota che vai cercando la sacra soglia del tempio. La costruì con degno rito Giovanni vescovo di Dio, che rifulse per meriti e costumi; e dal nome di Giovanni VIII Papa, la città veneranda ha nome Giovannipoli».
[41] «L’angelo santo di Dio insieme con Paolo principe sieda a custodia di questa porta respingendone sempre l’iniquo nemico. Papa Giovanni, che siede trionfante sulla cattedra apostolica, la costruì e la cinse di ampio muro. Così dopo morte, a lui si schiuda la porta del regno celeste; glielo conceda Cristo, Dio misericordioso».
[42] Per quanto segue, cfr. G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993, pp. 97- 150; A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011; F. Gabrieli – U. Scerrato, Gli arabi in Italia. Cultura, contatti e tradizioni, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1979; M. Di Branco – K. Wolf (a cura di), “Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo, Roma, Viella, 2014; M. Di Branco, 915. La battaglia del Garigliano. Cristiani e musulmani nell’Italia medioevale, Bologna, Il Mulino, 2019; ‘Abdulwāḥid Dhanūn Ṭāha, L’espansione dell’Islam. Insediamenti nel Nord Africa e in Spagna, Genova, ECIG, 1998; L.A. Berto, Cristiani e musulmani nell’Italia dei primi secoli del medioevo. Percezioni, scontri e incontri, Milano, Jouvence, 2018; V. La Salandra, Incursioni islamiche in Italia meridionale. Dagli Omayyadi agli Ottomani, Città di Castello, GBE, 2014; A.G. Sanjuán, Coexistencia y conflictos. Minorías religiosas en la península ibérica durante la Edad Media, Granada, eug, 2015. Vedi anche i nostri Breve cronologia degli attacchi saraceni (termine con cui si designano gli attacchi arabo-islamici del primo millennio) nel Mediterraneo, nella penisola italiana, in quella ispanica, in Provenza e sulle Alpi, di Andrea Lonardo e Andalusia: dal mito alla storia. Appunti per un accostamento realistico a al-Andalus, di Andrea Lonardo. Vedi infine studi che trattano la questione dal punto di vista locale (prospettiva importantissima, anche se tali studi non hanno sempre una completezza scientifica): F. Maurici, Breve storia degli arabi in Sicilia, Palermo, Flaccovio, 2006; U. Schwarz, Amalfi nell’alto Medioevo, Centro di cultura e storia amalfitana, Amalfi, 2002; E. Serrao – G. Lacerenza, Capri e l’Islam. Studi su Capri, il Mediterraneo e l’Oriente, Capri, La Conchiglia, 2000; N. Cariello, I saraceni nel Lazio (VIII-X secolo), Roma, Edilazio, 2001; J.-M. Martin, Da Ponza alle isole Sirenuse. Le isole dei ducati tirrenici nell’alto medioevo, in A. Feniello (a cura di), Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, vol. II, Galatina, Congedo Editore, 2009, pp. 111-112; B. Casale, Ischia, Procida, Capri. Le vicende, in A. Feniello (a cura di), Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, vol. II, Galatina, Congedo Editore, 2009, p. 125; 132-133; N. Cilento, I rapporti fra Ischia e il dicato di Napoli nel medioevo, in A. Feniello (a cura di), Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, vol. II, Galatina, Congedo Editore, 2009,pp. 144-149; L. Pinelli, Gli Arabi e la Sardegna, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1973; B. Luppi, I saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri – Museo Bicknell, 1983; A. Musarra, Genova e il mare nel medioevo, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 17-28.
[43] Cfr. su questo Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 171-172.
[44] Così afferma il Liber pontificalis, I, p. 346, nella biografia di papa Adeodato II: «Postmodum venientes Sarraceni Siciliam, obtinuerunt praedictam civitatem et multa occisione in populo qui in castris seu montanis fecerunt, et praeda nimia vel aere qui ibidem a civitate Romana navigatum fuerat secum abstollentes Alexandriam reversi sunt».
[45] Cfr. su tale periodo, A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 149-150.
[46] Cfr. su questo La conquista musulmana della Sicilia, di Ferdinando Maurici.
[47] Siracusa era già stata assediata una prima volta nell’827, senza successo, prima della conquista di Palermo.
[48] Sugli attacchi lungo le valli della Lucania, cfr. Le invasioni arabo-musulmane (saracene) in Lucania nell’alto medioevo. Le cronache di Lupus Protospatarius Barensis e del Rerum In Regno Neapolitano gestarum breve Chronicon, di Andrea Lonardo.
[49] Cfr. su questo G.P. Carosi, I monasteri di Subiaco. Notizie storiche, Subiaco, Tipografia Editrice Santa Scolastica, 2020, pp. 54-56. Cfr. anche S. Andreotti, I monasteri benedettini di Subiaco. Sintesi di una storia di quindici secoli, in A. Ricci - M.A. Orlandi (a cura di), Lo spazio del silenzio. Storia e restauri dei monasteri benedettini di Subiaco, Subiaco, Tipografia Editrice Santa Scolastica, 2004, p. 21 e A.A. Settia, I monasteri italiani e le incursioni saracene e ungare, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secoli VIII-X). Atti del VII convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Nonantola, 10-13 settembre 2003), Cesena 2006, pp. 79-95.
[50] Lenzi ricorda come Leone VII nel 936 confermò l’utilizzo di possedimenti agricoli di cui il monastero di Subiaco non poteva più fornire documentazione poiché le devastazioni saracene avevano bruciato non solo tutti i beni del monastero, ma anche tutti i manoscritti di esso, compresi i decreti che garantivano il possesso di quelle terre (M. Lenzi, Forme e funzioni dei trasferimenti patrimoniali dei beni della Chiesa in area romana, in “Mélanges de l'école française de Rome”, 1999 111-2 (1999) p. 829; l’intero articolo è alle pp. 771-859); cfr. su questo Regesto Sublacense, doc. 17 del luglio 936, p. 46.
[51] Cfr. su questo C. De Seta, Napoli, Napoli, Arte'm, 2016, p. 33.
[52] Non è ancora stato individuato con sicurezza il sito, noto dalle fonti medioevali come Mons Garelianus, che fu insediamento saraceno dall’881 al 915. Gli studi recenti, condotti da Kordula Wolf e Marco Di Branco, portano a ritenere che Garelianus sia da identificare con l’odierna Suio, nell’entroterra. Le precedenti ricerche, svolte da una missione archeologica organizzata dal Museo d’Arte Orientale di Roma e dalla Soprintendenza laziale, si erano, invece, rivolte al sito di Monte d’Argento, a pochi chilometri dallo scavo archeologico della città romana di Minturno, alla foce del Garigliano, ma sembra che tale identificazione sia ormai da abbandonare, così come l’identificazione con la stessa Minturno o con il Monte d’oro, più vicino a Scauri (cfr. M. Di Branco – G. Matullo – K. Wolf, Nuove ricerche sull’insediamento islamico presso il Garigliano (883–915) (disponibile on -line al link archeologialazio.beniculturali.it/getFile.php?id=772). Cfr. anche M. Di Branco, 915. La battaglia del Garigliano. Cristiani e musulmani nell’Italia medioevale, Bologna, Il Mulino, 2019.
[53] Per un primo approccio alle fonti relative a Fraxinetum, cfr. B. Luppi, I saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri – Museo Bicknell, 1983, pp. 99-111.
[54] Cfr. su questo il Chronicon Vulturnense, libro III (Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni nell’edizione a cura di M. Oldoni con un saggio di F. Marazzi, Cerro al Volturno, Volturnia ed., 2018, pp. 204-218 e, dal punto di vista storico-archeologico, F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno. Guida alla città monastica benedettina, Cerro al Volturno, Volturnia ed., 2014, pp. 46-47. Cfr. anche F. Marazzi – F. Vignone, Dagli scavi 2000-2003 al parco archeologico, in N. Paone – A. Schioppa – F. Marazzi - F. Vignone – L. Speciale – L. De Luca Roberti - A. Shaw, San Vincenzo al Volturno, Isernia, Cosmo Iannone, 2004, pp. 149-150, per la parte archeologica e A. Schioppa, L’Azienda monastica, N. Paone – A. Schioppa – F. Marazzi - F. Vignone – L. Speciale – L. De Luca Roberti - A. Shaw, San Vincenzo al Volturno, Isernia, Cosmo Iannone, 2004, pp. 57-58, per la parte storica.
[55] Nell’880 ca. l’antica Calatia è saccheggiata con la conseguente fuga della popolazione all’interno nell’odierna Caserta Vecchia. A partire da uno scritto del monaco benedettino Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, Casertavecchia risulta esistente già nell'anno 861 d.C. con il nome di Casa Hirta (dal latino: “villaggio posto in alto”). L’insediamento sorse in seguito alle numerose devastazioni saracene della città di Calatia in pianura sulla via Appia che costrinsero intorno all’anno 880 gli abitanti a fuggire in collina. L’antica Calatia era nei pressi di Maddaloni, al confine dell’odierna Caserta.
[56] Cfr. su questo C. De Seta, Napoli, Napoli, Arte'm, 2016, pp. 31-32.
[57] Cfr. su questo A. Vanoli, La Sicilia musulmana, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 53-56, dove l’autore, che intitola il capitolo “Definire la pirateria”, pur utilizzando appunto una terminologia piratesca, si accorge che «si trattò di qualcosa di ben diverso dalle usuali razzie contro i villaggi di costa o le isole minori» (p. 56).
[58] Per i tanti episodi di deportazione di popolazioni nei saccheggi delle città della penisola italiana, oltre alle chiare indicazioni riguardanti il Lazio già considerate, cfr. le testimonianze citate in Le invasioni arabo-musulmane (saracene) in Lucania nell’alto medioevo. Le cronache di Lupus Protospatarius Barensis e del Rerum In Regno Neapolitano gestarum breve Chronicon, di Andrea Lonardo e, in particolare, quella di Bernardo di Bordeaux che ricorda che vide nel porto di Taranto sei navi cariche di novemila schiavi presi “de Beneventanis christianis”, cioè di longobardi catturati nelle valli della Lucania (come sempre i numeri di tali fonti debbono essere relativizzati), riportata da C.D. Fonseca, La chiesa di Taranto dalle origini al tramonto del principato, in C.D. Fonseca (a cura di), Taranto: la Chiesa/le chiese, Fasano di Brindisi, Mandese editore, 1992, p. 18.
[59] Sulla tratta araba degli schiavi, da tenere distinta da quella turca, sempre musulmana ma perpetrata da un altro popolo, cfr. R. Pinilla, Aproximación al estudio de los cautivos cristianos fruto de guerra santa – cruzada en Al-Andalus, pp. 311-321; R. Guemara, La libération et le rachat des captifs. Une lecture musulmane, pp. 333-344; A. Benremdane, Al Ŷihād y la cautividad en los dictámenes jurídicos o fatuas de los alfaquíes musulmanes y de Al Wanšarísí, en particular: el caso de los musulmanes y de los cristianos de Al Andalus, pp. 447-455; M. Hasnaoui, La ley islamica y el rescate de los cautivos según las fetwas de al- Wanšarīsī e Ibn Ṭarkāṭ, pp. 549-558; A. Mechergui, Les précepts des captifs en Islam, pp. 655-659; A. Kolia-Demirtzaki, Some remarks on the fate of prisoners of war in Byzantium, pp. 583-620, in G. Cipollone, La liberazione dei ‘captivi’ tra cristianità e islam. Oltre la crociata e il ğihād: tolleranza e servizio umanitario, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano – Gangemi, 2000 e, in chiave più divulgativa, La tratta araba e turca degli schiavi, dal Nord Africa all’Andalusia, dall’Africa nera alle coste europee 1/ Schiavitù nell'Islam: cenni storici (da Cathopedia) 2/ Tratta araba degli schiavi (da Wikipedia; voce parzialmente tradotta dalla lingua inglese) 3/ Tratta barbaresca degli schiavi (da Wikipedia).
[60] Celebre è la tesi di H. Pirenne nel suo volume Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Newton, Roma, 2012 (originale del 1917) - riaffermata poi in H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Roma-Bari, Laterza, 1992; se ne veda la sintesi alle pp. 275-276 - secondo la quale la grande frattura che separò l’Europa dal resto del Mediterraneo ed il resto del Mediterraneo dall’Europa fu l’invasione islamica; cfr. su tale tesi «Per la prima volta, dalla formazione dell'Impero romano, l'Europa occidentale si trovava isolata dal resto del mondo. Il Mediterraneo, grazie al quale fino ad allora era stata in contatto con la civiltà, le si chiudeva davanti. Fu questo, forse, il risultato più importante che l'espansione dell'Islam ebbe sulla storia universale». La svolta determinata nella storia dell’occidente dall’invasione araba nell’interpretazione di H. Pirenne. Appunti di A.L..
[61] G. Levi Della Vida, voce Saraceni, in Enciclopedia Italiana (1936), disponibile on-line sul sito della Enciclopedia Italiana della Treccani. La questione è ben diversa dalla provenienza etimologica: «L’etimo di “saraceni” è incerto: la derivazione più probabile è dall’arabo sharqiyyun “gli orientali”» (da Dizionario di Storia (2011), Treccani, voce Saraceni, disponibile on-line).
[62] G. Levi Della Vida, voce Saraceni, in Enciclopedia Italiana (1936), disponibile on-line sul sito della Enciclopedia Italiana della Treccani.
[63] Il termine “saraceni” venne utilizzato anche in seguito, come ricorda Levi Della Vida: «La poesia epica francese chiama comunemente Sarrazins gli Arabi di Spagna, e da essa il termine è penetrato nella poesia cavalleresca italiana; "Saracini" sono, per tutto il Medioevo, gli Arabi, anzi i musulmani tutti, coi quali la cristianità ebbe a combattere durante le Crociate (v., p. es., Dante, Inf., XXVII, 87: "e non con Saracin né con Giudei")». Sul termine “opera saracinesca”, invece, ad indicare successivamente talune murature di quel periodo, cfr. D. Esposito, Tecniche costruttive murarie medioevali. Murature ‘a tufelli’ in area romana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1998, pp. 57-67.
[64] Così alla voce razzìa nel Dizionario Treccani on-line. Sul concetto di razzìa complementare a quello di jihad, cfr. A. Vanoli, La Sicilia musulmana, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 54-55.
[65] D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2007, p. 44.
[66] D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2007, pp. 3-44.
[67] A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012.
[68] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 46-70, dove vengono considerati gli studi decisivi di J. Durliat; cfr. J. Durliat, De la ville antique à la ville byzantine. Le problème des subsistances, Roma, 1990 (Collection de l’École Française de Rome 136), ma anche J. Durliat, De l’Antiquité au Moyen-Âge. L’Occident de 313 à 800, Paris, 2002; J. Durliat, voce Severino, in Dizionario storico del papato, a cura di P. Levillain, Milano, 1996, II, pp. 1374-1375; J. Durliat 1996, voce Finanze pontificie (secoli VI-XII), in Dizionario storico del papato, a cura di P. Levillain, Milano, 1996, II, pp. 596-598; J. Durliat, voce Eugenio I, in Dizionario storico del papato, a cura di P. Levillain, Milano, 1996, I, pp. 565-566; J. Durliat, Évêque et administration municipale au VIIe siècle, in La fin de la cité antique et le début de la cité médiévale. De la fin du IIIe siècle à l’avènement de Charlemagn. Actes du colloque tenu à l’Université de Paris X-Nanterre, 1-3 avril 1993, a cura di C. Lepelley, Bari, 1996, pp. 273-286; J. Durliat, Les finances publiques de Dioclétien aux Carolingiens (284-889), Sigmaringen, 1990; J. Durliat, Magister militum -ΣΤΡΑΤΗΛΑΤΗΣ dans l’empire byzantin (VIe-VIIe siècle), in “Byzantinische Zeitschrift”, 72 (1979), pp. 306-320; J. Durliat, Les attributions civiles des évêques mérovingiens: l’exemple de Didier, évêque de Cahors (630-655), in “Annales du Midi”, 91 (1979) 237-254.
[69] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 284-298, con riferimento particolare a P. Radiciotti, Attorno alla storia della curiale romana, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 122 (1999), pp. 105-123.
[70] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 277-279; 478-482.
[71] Ma già ai tempi delle invasioni barbariche era stato solo il pontefice – si pensi alle figure di Leone Magno e poi di Gregorio Magno – ad impedire il saccheggio da parte delle truppe barbariche o, almeno, a fissarne i confini con il rispetto della popolazione. Leone Magno nel 452 si recò a Mantova con una delegazione di autorità romane e ottenne da attila, re degli Unni, che l’urbe non fosse attaccata, mentre nel 455 non riuscì ad ottenere che Genserico non devastasse Roma che venne saccheggiata per due settimane, ma ebbe almeno l’assicurazione dell’incolumità della popolazione. Gregorio Magno si trovò a fronteggiare, invece, l’invasione dei Longobardi e la sua azione fece sì non solo che Roma, divenuta città di confine, restasse non toccata, ma anzi acquisisse un’autorità spirituale che le permise di dare origine all’evangelizzazione del nord Europa.
[72] Cfr. su questo, G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993, pp. 108-125; 144-145; 151-155.
[73] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 19-25; 121-123; 228-237; 375-378.
[74] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 133-136, dove ciò è evidente a partire da papa Severino (640 d.C.).
[75] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 456-468.
[76] Arnaldi, nel corso del suo studio sull’origine del potere temporale del vescovo di Roma, relativizza l’importanza delle domus cultae, affermando: «Solo per una fortuita coincidenza la nascita del dominio temporale dei papi fu preceduta di poco da un evento che li indusse a fare più conto delle proprietà fondiarie incluse nel territorio cui esse si apprestavano a esercitare i “diritti concreti legati alla sovranità”. Si avrebbe perciò torto a considerare un fenomeno come la creazione delle famose domus cultae in una prospettiva politico-territoriale che riuscirebbe fuorviante e falsante. È, però, anche indubbio che la perdita del patrimonio siciliano, costringendo i papi a valorizzare le risorse agricole laziali più di quanto non avessero fatto in passato, favorì indirettamente un rinsaldarsi dei legami fra Roma e il territorio circostante – quello che per il contemporaneo volger di eventi sul piano politico-diplomatico e militare, da ducato bizantino com’era stato finora sarebbe diventato il primo Stato della Chiesa, anche se la denominazione che finirà con l’assumere, di Patrimonio di S. Pietro, metterà in rilievo proprio l’aspetto “patrimoniale” che, benché nient’affatto trascurabile, aveva avuto nella sua genesi un’importanza solo accessoria» (G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, p. 93).
Ma poi nell’introduzione rovescia tale posizione con toni che non sembrano quelli di uno storico, bensì di chi utilizzi un registro morale, quasi che ci fosse stato qualcuno nella Chiesa di allora che volesse ingannare altri con una non corretta gestione di patrimoni pubblici: «Una volta sottolineata con forza la differenza che – di là della pur non trascurabile persistenza del nome – intercorre tra un patrimonio di S. Pietro del VI secolo e il patrimonio di S. Pietro del secolo VIII, va riconosciuto che nella genesi dello Stato della Chiesa i patrimoni fondiari c’entrano per più di un verso. Anzitutto sia questi che quello facevano parte a eguale diritto del complesso delle “temporalità” della Chiesa romana che, momento per momento, va analizzato e scomposto nelle sue mutevoli componenti, ma sempre anche considerato nel suo insieme. Secondariamente, la differenza fra beni patrimoniali, per quanto vasti, e territorio statale, per quanto piccolo, è chiara a noi moderni, ma poteva non esserlo altrettanto agli occhi dei contemporanei della nascita dello Stato della Chiesa. In qualche caso, almeno, si ha l’impressione che chi aveva chiara anche allora tale differenza trovasse il suo tornaconto nel giocare sull’equivoco con chi, all’apparenza, doveva averla meno chiara di lui. Infine, si comprenderà facilmente come l’esperienza acquisita dalla Chiesa romana nell’amministrazione dei patrimoni costituì un utile apprendistato per il momento in cui si presentò per essa la necessità di provvedere al governo di un dominio territoriale: l’uso di documenti scritti, per esempio, le sarebbe venuto buono sia in un caso che nell’altro» (G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, p. 4).
[77] Il riferimento è sempre a G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987.
[78] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 34-46; 130-133; 247-258; 407-410.
[79] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, p. 30.
[80] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 407-410.
[81] Cfr. in chiave sintetica, sulla questione dell’origine del potere temporale del vescovo di Roma, A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 535-558. Ci distanziamo consapevolmente dall’utilizzo che fa Arnaldi dell’espressione Patrimonium S. Petri: infatti egli, pur essendo consapevole che essa sarà ufficiale solo dalla metà del XII secolo per indicare il territorio governato dal pontefice, amplia arbitrariamente l’utilizzo anteriore di tale termine perché intende sottolineare il ruolo dei patrimoni del vescovo di Roma nella genesi dell’origine del potere temporale, isolando a torto tale dimensione, come si è visto, rispetto ad una visione più complessiva (cfr. su questo G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, pp. 3-4). Se fossimo obbligati ad utilizzare un’espressione, preferiremmo, invece, quella di Repubblica di San Pietro proposta da T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 19-20, ma non la utilizziamo proprio per ricordare che non ci fu un momento di instaurazione di tale “repubblica”, come non ci fu un termine usato per indicare il suo sorgere, ma essa si sentì sempre parte di un contesto politico più ampio, anche se imparò a governarsi in autonomia ed amò tale relativa indipendenza.
[82] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 236. È in particolare alle pp. 203-237 che Noble analizza le diverse cariche di cui si ha notizia dai documenti, da quelle più direttamente ecclesiastiche come i sette vescovi titolari, i ventotto presbyteres priores o cardinales, l’arcidiacono e i diaconi, i notarii o scriniarii, con il loro primicerius e secondicerius notariorum, il sacellarius, il bibliothecarius, il protoscriniarius forse identico con il magister censuum, il defensor con la schola dei defensores, il vicedominus, il vestararius, il nomenculator, l’arcarius addetto all’arca, cioè alle finanze, l’adminiculator, mentre l’amministrazione più “laicale”, oltre alle diaconie, con il pater o il dispensator e gli xenodochia per l’assistenza, prevedeva figure addette alle forniture alimentari della città, oltre a militari con un superista, un magister militum, le scholae ognuna con un suo patronus che dovevano fornire se necessario personale per la difesa, iudices palatini e ordinarii, civili e penali, ma anche personale addetto a vario titolo a compiti di diplomazia ad extra, come l’apocrisario papale a Costantinopoli.
[83] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 183-202; 283-284.
[84] Così ne scrive Noble: «Nel X secolo scoppiarono a Roma tensioni sociali di ogni tipo e la nobiltà distolse il papato dai suoi compiti religiosi, trasformandolo per un certo periodo in poco più che un incarico politico […] Come testimonia in modo fin troppo chiaro la triste sequenza di eventi che contraddistingue il secolo X, la lotta tra fazioni che affliggeva il ceto nobiliare, penetrò con effetti dirompenti anche in Laterano – fino ad allora rimasto immune. Le cariche lateranensi – in primo luogo il soglio pontificio, divennero la posta in palio nel gioco di potere in atto nella politica romana» (T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 196-197).
[85] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 198. Noble afferma che fu esattamente la peculiare natura dell’autorità papale a rendere impossibile una sua equiparazione ad un qualsivoglia potere temporale: «Il soglio pontificio divenne il punto focale dei conflitti politici romani, ma i papi riuscirono a non cedere del tutto alle forze che li avrebbero potuti trasformare in semplici governanti temporali […] Le grandi tradizioni universali dell’ufficio papale fecero da scudo contro la “città terrena”» (T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 202).
[86] Alcuni storici ritengono che tale autonomia si sia via via affermata a partire da un desiderio di indipendenza del vescovo di Roma che avrebbe utilizzato una propria capacità propagandistica tramite testi letterari ed iscrizioni inneggianti al proprio ruolo, appoggiandosi sul potere economico delle domuscultae, cioè di fattorie capaci di produrre derrate alimentari e reddito che avrebbero reso sempre più potente la curia pontifica. È possibile intravedere tale tesi fra le righe di autori importanti come Marazzi, che riprende al presente le tesi che furono già di Arnaldi, quando afferma che l’«attività dei pontefici al fine di evidenziare il loro primato, con grandi opere in Roma e nei dintorni, si era avviata ben prima del pontificato di Leone IV, segnata dal costante uso di un linguaggio ricco di riferimenti ai rapporti fra potere imperiale e autorità papale maturato nell’Impero romano cristianizzato nella tarda antichità. Rapporti rielaborati dal Constitutum Constantini in modo tale che al papa spettasse, oltre che al primato spirituale su tutta la cristianità, anche un primato ben più terreno e concreto su varie zone dell’Italia centrale, in realtà ambiguamente gemmato dalla dissoluzione intorno al 750, del controllo dell’Impero Romano d’Oriente su Ravenna e su Roma stessa» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 264). Marazzi prosegue affermando che «l’aristocrazia romana, nella sua componente che non voleva un consolidamento politico del papato svincolato dal controllo delle famiglie locali, si accanì non a caso contro quelle isole di potere, prossime, ma esterne a Roma, con cui i pontefici tentavano di gettare basi solide di dominio territoriale, gestite del tutto in proprio o in consociazione con il potere imperiale [cioè le domuscultae]» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 264). Marazzi sembra qui dimenticare che tale potere temporale era già acquisito al tempo di Leone III e poi di Leone IV da un secolo ed immagina che esso fosse ancora da ottenere. Più avanti nell’articolo già citato, invece, Marazzi sembra correggere tale impostazione quando afferma in conclusione: «I pontefici romani avevano ereditato dai Bizantini, intorno al 750, la rete di castra costruiti lungo il limes longobardo. Le fonti ci dicono che non avrebbero realizzato altri insediamenti definiti in questo modo, nei successivi 150 anni; e non sembra che alcuno abbia osato operazioni di questo genere nel territorio da essi dominato, che, nelle sue caratteristiche fondamentali, doveva serbare ancora un’intelaiatura tardoromana, “aggiornata” solo dalle poche modifiche strategiche apportatevi dai Bizantini alla fine del VI secolo» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 274-275), tranne – aggiungiamo noi – le fortificazioni anti-musulmane e le nuove città nell’interno resesi necessarie. Marazzi oscilla continuamente fra l’attribuire ai pontefici un arbitrario desiderio di giungere a controllare il territorio ancora nel IX secolo, come quando scrive: «Nei decenni a cavallo fra l’VIII e il IX secolo, e per buona parte di questo secolo, i papi cessano in Roma di essere “semplicemente” custodi di chiese e soccorritori di indigenti e pellegrini. Si avverte che la loro attività assume un respiro e una valenza simbolica assai più ampia. Essi lavorano per plasmare l’immagine della città su cui vogliono signoreggiare» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 256) ed, in tale chiave, riprende la tesi di Arnaldi, già superata per l’VIII secolo, quasi che i possedimenti agrari del pontefice addirittura del IX secolo sarebbero stati “il” tassello decisivo nell’acquisizione di tale potere, vedendo nelle rivolte contro Leone III la manifestazione del rifiuto di tale autorità che, a suo dire, stava sorgendo ed era in fieri e, al tempo di Leone III, si andava accentuando. Marazzi ricorda, infatti, le domuscultae – le massae che dettero anch’esse contributi all’edificazione delle mura Leonine – già fondate dai papi Zaccaria, Adriano I e forse dallo stesso Leone III, «entità di grande importanza strategica, vere e proprie teste di ponte della signoria pontificia, dislocate in punti chiave del territorio di Roma, serbatoi di manodopera, all’occorrenza armata, e di rifornimenti alimentari. Esse si definiscono come tipiche creazioni di un potere ancora in itinere verso l’acquisizione di prerogative pienamente “pubbliche”, in quanto funzionarono di fatto come strumenti per l’espressione di una signoria politica, pur essendo giuridicamente nient’altro, se non proprietà che la Chiesa aveva acquisito e deteneva a titolo privato» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 263). Senza dimenticare le tensioni oggettive che si ebbero in Roma al tempo di Leone III con le rivolte del 799 e dell’815, solo uno sguardo ideologico può incentrare le sue attenzioni innanzitutto su tale conflitto di poteri, senza accorgersi che esso manifesta, invece, quanto il potere pontificio fosse da lungo tempo quello determinante e si desiderasse per questo avere un vescovo dell’urbe che sostenesse la propria parte. Ovviamente tale linea ermeneutica non può che interpretare l’edificazione delle mura non come opera necessaria, bensì come realizzata in chiave di auto-promozione politica da parte del pontefice dinanzi all’imperatore e ai membri “laici” dell’urbe. D’altro canto Marazzi riconosce poi chiaramente che l’autorità temporale del vescovo di Roma era già salda ben prima della metà del VII secolo!
[87] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 291.
[88] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 239-255; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 68-69.
[89] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 267-274; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 70-72.
[90] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 274-280.
[91] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 280-292; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 71-72.
[92] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 285.
[93] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 258.
[94] Mentre i moderni ragionano a partire dall’idea degli stati nazione, sorti un millennio dopo, che si escludono a vicenda e non permettono ad altri di intervenire nei propri confini, non così ragionavano le autorità dell’alto medioevo che vedevano sempre compresenti le autorità dell’imperatore (o dei diversi imperatori), del pontefice e le autorità cittadine ad intervenire sui medesimi territori, ogni qual volta fosse stato necessario, pur mantenendo abitualmente invece un esercizio suddiviso dell’autorità.
[95] G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 72-74.
[96] Come è noto, tale relazione ambivalente è l’oggetto del famoso mosaico del Triclinium lateranense: per una prima presentazione del significato iconografico dell’opera, cfr. T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 293-294; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 79-80.
[97] Cfr. su questo G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993, pp. 177-178.
[98] Liber pontificalis, II, p. 100.
[99] Liber pontificalis, II, p. 100.
[100] Duchesne in nota in Liber pontificalis, II, pp. 104-105.
[101] Liber pontificalis, II, p. 117.
[102] Si noti bene che magister militum designa precisamente un’autorità “laica” cittadina, poiché il pontefice non governa direttamente la città, ma le magistrature del tempo dell’impero bizantino sono ancora in essere, ma, mentre in antico esse facevano direttamente riferimento all’imperatore, ora esse fanno riferimento al pontefice.
[103] Cfr. per tale espressione e per quelle che seguono Liber pontificalis, II, p. 134.
[104] Il Liber racconta che Ludovico II venne personalmente a Roma per indagare della cosa e si convinse alla fine che l’accusa era falsa e, volendo mettere a morte il magister militum Danihel per la falsa accusa, ne venne impedito da Leone IV che intercedeva per lui: il fatto conferma così le modalità di intervento franche già analizzate nelle quattro tappe sopra descritte.
[105] A. Lizier (voce Ludovico II re d'Italia e imperatore, in Enciclopedia Italiana (edizione Treccani del 1934), disponibile on-line), afferma in proposito: «Nell’846 [Ludovico II, re d’Italia] partecipò, in Francia all'assemblea tenuta da Lotario per organizzare la difesa dell'Italia dai Saraceni, nella quale fu stabilito (Capitulare de expeditione contra Saracenos facienda) che egli con un esercito d'Italiani rafforzato con milizie franche, borgognone e provenzali iniziasse nel marzo 847 la campagna contro i Musulmani del Mezzogiorno d'Italia e che, nello stesso tempo, si componessero le lotte dinastiche del ducato di Benevento che tanto avevano giovato ai progressi degl'infedeli. Il ducato, con un trattato firmato alla presenza di re Ludovico, fu diviso nei principati di Benevento e di Salerno. Della spedizione si sa solo che nell'848 trionfò dei Musulmani. La vittoria navale di Ostia dell'849 va considerata come un felice complemento dei successi di Ludovico, che, ripassando per Roma, nell'aprile 849 riceveva da papa Leone IV la corona d' imperatore, restando così associato al padre nella dignità imperiale. Da questo stesso anno L. cominciò a governare l'Italia in nome proprio».
[106] Cfr. su questo Gli arabi nel Lazio nei secoli IX e X, di Giuseppe Cossuto e Daniele Mascitelli.
[107] Cfr. su questo A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 110-111.
[108] Le fortificazioni che vengono predisposte in funzione anti-saracena nel IX secolo sono un elemento di grande importanza che viene a contestualizzare le tesi di Toubert sull’incastellamento medioevale. Sono sempre più gli autori che correggono le note tesi dello storico francese che interpretava innanzitutto il fenomeno in chiave di evoluzione sociale interna: la maggior parte delle fortificazioni altomedioevali mostrano, invece, che la necessità di proteggersi da incursioni esterne fu elemento determinante a fianco e prima dell’evoluzione sociale. Ovviamente Roma e il Lazio in particolare furono coinvolti in questo processo difensivo dinanzi all’aggressore saraceno che obbligò gran parte della popolazione costiera a spingersi nell’interno, costruendo e difendendo siti nuovi e vecchi. Per le tesi di Toubert, vedi, in maniera sintetica, P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medioevale, Torino, Einaudi, 1995. Toubert appartiene a quella linea storiografica che ritiene gli attacchi arabi assolutamente secondari: i territori del Lazio sarebbero stati «lievemente perturbati» (p. 50) dai saraceni e se anche gli anni 870-910 sarebbero stati – a suo dire – i «decenni neri» (p. 50), l’autore proporne di ricollocare quelle azioni e la reazione ad esse «su un piano decisamente secondario» (p. 51). Anzi – afferma Toubert - «la minaccia saracena, che nella nostra regione si è fatta sentire solamente negli anni 870-915, non è una causa ma una conseguenza della dissoluzione delle strutture di inquadramento verificatasi dopo il crollo dell’impero carolingio nel vuoto aperto dalla morte di Ludovico II (875)». Toubert non coglie così innanzitutto come gli attacchi arabi nella regione laziale precedano l’870 e siano da retrodatare almeno all’813 quando Centumcellae venne distrutta, includendo poi le azioni su Roma dell’846 e dell’849. Ma, ancor più, la sua ottica non coglie i nessi storici per cui, da un lato, quegli attacchi erano parte di un disegno ben più ampio le cui possibili tappe successive erano ben chiare ai contemporanei, che conoscevano della guerra in atto in Sicilia così come della costituzione dei diversi emirati del sud Italia, che non ebbero tempo e modo di realizzarsi nel centro. D’altro canto Toubert non si accorge di come quegli attacchi vennero contrastati dal potere temporale del vescovo di Roma già pienamente operante, ma al contempo, resero quel potere più consapevole della propria necessità: quegli eventi sono decisivi per chiunque voglia capire in che modo il vescovo di Roma gestì il governo cittadino e si relazionò con Costantinopoli e con i Franchi.
[109] La stessa elezione di Leone IV avvenne senza il consenso imperiale, non perché si volesse tenere lontano il sovrano, ma perché la situazione era così drammatica che non si ritenne di poter aspettare ad ordinare il nuovo vescovo di Roma per averlo effettivamente in carica. Esattamente come avvenne con Stefano II, al tempo del pericolo longobardo, che venne ordinato vescovo di Roma senza poter aspettare l’assenso di Costantinopoli, così Leone IV assume l’incarico senza che fosse avvisato l’imperatore: timore et futuro casu perterriti eum [Leone IV] sine permissu principis praesulem sacraverunt (Liber pontificalis, II, p. 107).
[110] G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 65-66.
[111] Cfr. su questo T. Canella, Gli Actus Silvestri. Genesi di una leggenda su Costantino imperatore, Spoleto, CISAM, 2006.
Riprendiamo sul nostro sito un brano da Laura Pigozzi, Adolescenza zero. Hikikomori, cutters, ADHD e la crescita negata, Nottetempo, 2019, pubblicato da Gabriele Vecchione sul suo profilo FB il 17/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Il problema che avremo nei prossimi decenni potrebbe essere “come salvare il maschile” in quanto punto di tenuta per ogni esistenza umana. L’immaturità è non incontrare un agente fallico, un maschile che non sia da temere né da disprezzare.
È come se il pensiero contemporaneo sul maschile fosse privo di articolazioni e di idee, a differenza di quello che abbiamo imparato a tessere per il femminile.
Se non ci fosse più un posto simbolico per il maschile, sarebbe una tragedia per tutto l’assetto del mondo: possiamo permetterci di eliminare un sesso?
L’evaporazione del padre è riconosciuta come concausa dell’hikikomori: “Con la perdita della dignità del padre, si è persa la dignità la famiglia”, dice un giovane giapponese.
La civilizzazione post-epidica è quella che trasgredisce il tabù dell’incesto madre-figlio e che, in carenza di referenza paterna, si autoframmenta collassando nel brodo collettivo dell’immaturità.
In accordo con lo psicoanalista francese Moustapha Safouan, che scrive: “La mia tesi è che il complesso di Edipo costituisce in linea di massima la colonna vertebrale della funzione socializzante della famiglia”, possiamo dire che la civiltà post-edipica, privata dei tabù fondativi – per esempio quello “non scritto” per cui il figlio non dorme con la madre, ma è il padre che dorme con lei – non offre alcun sostegno alla famiglia come allenamento alla socialità dei figli.
Un figlio che dorme con la madre o che passa molto tempo tra le sue braccia, come accade anche nel reinfetamento dell’hikikomori, ha tutto quello che brama ma perde il necessario, cioè la mancanza su cui si fonda la possibilità stessa dell’esistenza. Ha l’oggetto in tasca, direbbe Lacan, un oggetto che, come per gli psicotici, diventa persecutorio. La mancanza, la distanza, la separazione ci difendono dalla psicosi.
L’infantilizzazione è a doppio binario: i genitori viziano i figli, si identificano in loro e in cambio chiedono di essere da loro viziati. Tra le modalità di relazione umana l’identificazione è quella più primitiva e mal si adatta alla relazione tra genitori e figli, che dovrebbe invece restare asimmetrica.
Riprendiamo sul nostro sito alcuni “appunti di viaggio” di Andrea Lonardo relativi a Roma: con tale espressione si intende dire che tali appunti non sono stati annotati con riferimenti ai grandi storici dell’arte e autori, come negli articoli più scientifici di questo sito, ma sono stati messi per iscritto come un primo abbozzo in vista di una loro pubblicazione più espressamente accademica in futuro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Roma e le sue basiliche e I luoghi della storia della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
La loggia di Amore e Psiche venne concepita da Raffaello come un prolungamento della vegetazione del giardino esterno. I festoni sono di un collaboratore di Raffaello, Giovanni da Udine, che rappresentò 170 specie vegetali comprese alcune appena giunte dall’America come il mais, le zucche, le zucchine.
La storia degli affreschi della Loggia hanno certamente a che fare con il matrimonio tra Agostino Chigi e Francesca Ordeaschi, ma sarebbe davvero banale restringerlo a questo episodio. Nel 1511, infatti, il Chigi, già vedovo e dopo aver prima intrattenuto una relazione con la bellissima cortigiana Imperia ed aver cercato poi invano di sposare Margherita Gonzaga, si innamorò di una giovane di origini molto popolari e semplici, Francesca Ordeaschi appunto, convivendo con lei senza sposarsi fino al 1519, quando celebrò solennemente le nozze.
Ma già nel 1517, in previsione di quelle nozze, il banchiere chiese a Raffaello di dipingere la Loggia con la storia di Amore e Psiche, una divinità e un essere terreno.
Ma sarebbe assolutamente riduttivo ridurre il senso di tale storia e la sua rappresentazione nella Loggia al puro aneddoto che vuole che la Ordeaschi sia Psiche e il Chigi Amore, quasi che l’unico motivo dell’intero sforzo artistico e dell’ingente somma di denaro necessaria per la commissione volessero significare l’elevazione di una popolana al rango di moglie di un ricchissimo banchiere e l’assurgere di lei nella società dei potenti, quasi che la storia sia esclusivamente «simbolo della conquista del rango sociale dei Chigi» da parte della Ordeaschi.
No, nella storia di Amore e Psiche sta l’eterna questione dell’amore ed è questo che affascina. Anzi commuove, pensando anche al fatto che solo l’anno successivo delle nozze il Chigi morì, solo quattro giorni dopo Raffaello - e pochi mesi dopo morì la stessa Francesca, forse avvelenata, una volta che non poté più godere della protezione del marito all’interno della famiglia Chigi. Sono gli eventi della vita a porre in maniera drammatica la domanda se l’amore possa vincere la morte, se l’amore sia una storia divina che fa assurgere all’immortalità, o se, invece, non sia la morte a trionfare infine sugli affetti, per quanto veri e profondi degli uomini.
La storia di Amore e Psiche – ben conosciuta e rappresentata più volte nel Rinascimento – è una novella raccontata da una anziana a Lucio, il protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio.
Raffaello la rappresenta nella Loggia, ovviamente con aiuti (per una foto navigabile che permette di visualizzare quanto qui si va spiegando: http://vcg.isti.cnr.it/farnesina/loggia/ Al termine di questo testo presentiamo un video con tutte le immagini, ma niente sostituisce una visita alla Villa!)
1/ Nella prima scena - entrando nella Loggia dal giardino e guardando a sinistra - si vede Venere con suo figlio Amore, sempre rappresentato come la divinità che trafigge i cuori perché gli uomini si innamorino. Venere è invidiosa di Psiche e allora chiede di farla trafiggere perché si innamori di un uomo brutto. Dietro tale rivestimento mitologico sta l’eterna domanda: ma l’amore fa innamorare anche della bruttezza, ma l’amore rende ciechi, oppure è proprio l’amore che fa scoprire la bellezza nascosta? Alcuni storici ritengono che qui Psiche non sia rappresentata perché era intenzione di rappresentarla più in basso, lì dove guardano Venere e Amore.
2/ Ma - racconta la storia di Amore e Psiche - Amore scagliò la sua freccia colpendo per errore il proprio piede. Quindi fu lui ad innamorarsi di Psiche. Interessantissimo questo gioco delle parti. Ed allora si vede nella seconda scena, che Amore chiede alle tre Grazie di proteggere Psiche – anche qui indica in basso (perché probabilmente manca la rappresentazione della scena in basso). Egli chiede alle Grazie che salvino Psiche dalle ire della madre perché adesso è lui, il figlio, ad essere innamorato della donna che la madre non sopporta.
3/ Si vede infatti Venere che si reca da Giunone, la dea del matrimonio, e da Cerere, la dea della fecondità, a protestare perché combattano con lei contro l’amore tra Amore e Psiche.
4/ Venere decide di salire su un cocchio guidato da quattro colombe e di recarsi da Giove. Questo affresco è sicuramente di mano proprio di Raffaello che lavorava qui con alcuni collaboratori, con Giulio Romano, con il Penni e altri.
5/ Ed ecco si vede Venere dinanzi a Giove con le mani imploranti che scongiura: “Se Psiche sarà catturata, io darò sette baci a chi l’ha catturata.
6/ Venere cerca, insomma, di utilizzare la propria capacità di sedurre, per ottenere ciò che vuole ed ecco che viene inviato Mercurio a dare l’avviso al mondo intero che chi riuscirà a catturare Psiche avrà, ben 7 baci da Venere. Tale raffigurazione è a destra dell’entrata
Nella storia, che non vediamo rappresentata integralmente forse perché anche qui il registro inferiore avrebbe completato la rappresentazione della storia come già si è detto, alla fine si decide che Psiche sia sottoposta a quattro prove: se le supererà potrà infine ambire all’immortalità e all’amore.
7/ Si vede Psiche - dalla parte opposta alle scene già descritte -, che ha superato la quarta prova ed ha in mano il calice dell’Ambrosia che ha strappato a Proserpina. È interessante l’idea che per amare sia necessario superare delle prove, sia necessario essere forti e superare dei periodi di fatica. Certo è che Psiche deve discendere agli inferi e risalirne con il segno che l’amore sta trionfando e che lei veramente ama.
8/ Psiche presenta a Venere il vaso preso da Proserpina e Venere si deve arrendere. L’amore sta trionfando.
9/ Nel frattempo il figlio di Venere, Amore, che è innamoratissimo di Psiche, si rivolge a Giove e chiede che Psiche sia accolta nell’immortalità e diventi una divinità.
10/ Ed ecco allora che Mercurio, che prima aveva combattuto contro Psiche, riesce a venirle incontro perché finalmente sia fatta salire al cospetto degli dei.
11/ Si giunge così ai due grandi affreschi centrali che sono i più importanti. Innanzitutto, il concilio degli dei che deve decidere della divinizzazione di Psiche. Si vede Giove, che ha ai suoi piedi il mondo perché governa la terra e l’aquila perché governa il cielo. Dinanzi a lui sono giunti Amore e Venere ed egli, con gli altri dei, prende la decisione. Mercurio, infatti, dà la coppa dell’’immortalità a Psiche.
Dietro il mito, sta la grande questione: come si possa arrivare all’immortalità. Il mito afferma che ci si arriva attraverso l’amore, ma anche che, perché ciò sia vero, è necessario che la morte sia vinta. Nel mito pagano si intravvede che l’unico modo perché l’amore resista è che la persona diventi immortale. In fondo amare una persona vuol dire annunciarle: “Tu vivrai per sempre”. È questa la grande questione dell’amore: forte come la morte è l’amore o l’amore è più forte della morte?
12/ Nell’altro grande affresco abbiamo la celebrazione delle nozze. Sulla destra si vedono i due sposi seminudi, Psiche e Amore, mentre banchettano insieme a tutti quanti gli dei che consumano i loro cibi. Venere finalmente danza.
È interessante che al centro sia posto lo stemma di Giulio II perché Agostino Chigi, dopo essere stato il banchiere di Alessandro VI, quando rischiava di cadere in disgrazia, venne invece riconfermato da papa della Rovere.
La Quercia di Giulio II, il papa della Rovere che chiamò Raffaello a Roma, insieme a Bramante e a Michelangelo. dice la stima e l’ammirazione – erano profondamente amici – di Agostino Chigi per Giulio II.
Quando poi giunse Leone X, papa de Medici, Chigi riuscì ad entrare anche nelle sue grazie e fu addirittura papa Leone X a celebrare il matrimonio fra lui e Francesca Ordeaschi dopo alcuni anni di convivenza, come si è già detto, e dopo che già aveva avuto dei figli dal Chigi.
Possiamo immaginare tale matrimonio e il papa a fianco dei due sposi e certamente dello stesso Raffaello, così come li possiamo immaginare tutti insieme sotto questa Loggia.
Per una presentazione di tutte le opere di Raffaello in Roma, cfr. il video Raffaello, Roma e l'ideale del Rinascimento che ha Andrea Lonardo come autore:
Qui invece una presentazione della Loggia di Amore e Psiche, sempre con Andrea Lonardo come guida, ma in un video molto più "spartano":
Riprendiamo da Avvenire del 23/1/2022 un articolo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione e terza età.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Sono sempre stato ammaliato da lei e l’ho anelata fin dai tempi dell’asilo: l’immortalità. Ammaliato a tal punto che la vita senza immortalità non sembra gran che desiderabile. Ma finalmente, ora che i neo guru miliardari investono in start up che promettono seconde vite andando ad abitare nel 'metaverso', bilocali con terrazzo su altri pianeti o alchimie chimiche che prolungheranno la vita media di almeno 50 anni, mi sento meno angosciato.
Solo in fondo al mio cervello echeggia, però, una domanda: come sarà la vita dell’anziano – diciamo – dagli 80 ai 135 anni? Sarà mal sopportato come adesso? Si andrà in pensione a 122 anni? E la prostata quando inizierà a dare problemi, prima o dopo i cento?
Chissà se gli anziani continueranno a essere fragili e a essere considerati una categoria a rischio come accade tuttora. O se invece si potrà sciare fino ai 127 anni e saltare la staccionata in un sol balzo fino ai 130. Chissà... Sogni, desideri, forse utopie.
Nel frattempo, in attesa di indirizzarli verso l’immortalità, gli anziani al tempo del Covid vengono preservati come se fossero dei panda in via di estinzione: se solo capita loro di finire in una casa di riposo, modernamente detta Rsa, e dovesse mai circolare un virus, ecco che immediatamente vengono rinchiusi, sbarrate le porte di accesso e impedito loro di ricevere visite. Del tutto.
Certo, lo scopo è buono: impedire che si contagino e possano soccombere sotto le grinfie del Covid. Benché siano la categoria, tra le prime, a essere sottoposta alle vaccinazioni, tutte e tre, sono la categoria che paga il prezzo più alto in termini di limitazioni nella vita di relazione.
È vero che sono state approntate le 'stanze degli abbracci': un divisorio di plastica trasparente con fori che consentono alle braccia dei parenti di toccare i nonnini e le nonnine, debitamente protetti.
Questo 'condom degli abbracci' non è la stessa cosa di un abbraccio vero, così come è diverso quell’altro tipo di abbraccio senza la protezione di lattice: lo sanno tutti, persino i nonnini e le nonnine. Forse chi ha redatto questi regolamenti non sa che quando sei un ospite di una Rsa ti importa solo di vedere i tuoi figli, e più ancora i tuoi nipoti: l’unico sguardo che li tiene in vita, più del risotto, dell’animazione, del beta bloccante e delle videochiamate.
Vogliamo allora liberare gli anziani, per favore? Vogliamo regalare loro gli ultimi sorrisi? Vogliamo consentire ai nonnini e alle nonnine di farsi accogliere nell’abbraccio di carne dei loro figli? A furia di proteggerli li stiamo condannando a una doppia reclusione, come se la vita fosse solo il suo prolungamento, senza che nessuno si assuma la responsabilità di ciò che accade. In questo modo li priviamo dell’affetto e del calore, cioè la cosa più importante della vita, e la cosa che più desiderano i nostri nonnini.
Chi è stato genitore sa che certe sere, prima di addormentarsi, si attende la telefonata del figlio per sapere che tutto va bene. Quando sei un ospite di una Rsa non ti accontenti più di una telefonata: vuoi andare a dormire dopo che hai ricevuto l’abbraccio dei tuoi figli. Loro non lo dicono, perché i nonnini e le nonnine tendono sempre a dire che non hanno bisogno di niente, ma più si diventa vecchi e più si diventa bugiardi riguardo alla propria salute.
Per favore, prima di pensare a vivere fino a 135 anni, vogliamo rendere dignitoso e piena di caloroso significato la vita degli ultraottantenni? Ho fatto un brutto sogno questa notte: finivo in una Rsa a 84 anni, e a causa di un virus tropicale molto aggressivo e molto contagioso dovevo vivere chiuso dentro fino ai 132, mi passavano da mangiare attraverso tubi di plastica e potevo salutare mia moglie e mio figlio una volta alla settimana con una videochiamata. Forse c’è un equivoco che andrebbe detto ai signori delle start up: l’immortalità è nell’abbraccio, e c’è già. Forse dovrebbero concentrarsi su come togliere il puzzo al pesce: aringa alla nuance di pompelmo, branzino al profumo di vaniglia. Come sarebbe bella la modernità!
1/ Pellegrinaggio al cuore della Russia ortodossa, nel monastero di Optina-Pustin, di Eduardo Guedes
Riprendiamo dal mensile Città Nuova dell’8/11/2010 un articolo di Eduardo Guedes. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Chiesa ortodossa. Su Dostoevskij, cfr. anche l’incontro Ascoltando i maestri - Fëdor Dostoevskij.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Rifiorisce Optina-Pustin, il monastero che nell’Ottocento era diventato un centro di spiritualità con un’enorme influenza nella vita e nel pensiero della Russia. Allora, agli starcy (si legge “startsy”) di questo monastero ricorrevano intellettuali e gente semplice. A Optina sono convenuti Gogol, Dostoevskij e Tolstoj, tra altri. Dopo la “notte” del regime comunista, il monastero ha ripreso vita ed è ridiventato di nuovo meta di pellegrinaggi.
Da Mosca sono circa 250 chilometri, nella direzione che ci porterebbe verso Kiev, percorrendo l’immensa pianura, con la sua caratteristica monotonia mitigata da colline e foreste. Kozelsk, in provincia di Kaluga, è la cittadina più vicina. Il monastero di Optina-Pustin sorge imponente oltre il fiume Zhisdra. Una volta, l’ingresso principale del monastero era dalla parte del fiume, per ora in fase di restauro. Ma a parte qualche segno dei lavori in corso e qualche mucchio di sabbia, il monastero si presenta del tutto recuperato dall’abbandono del tempo del regime sovietico. Tutte le chiese sono state rifatte, gli affreschi ridipinti, e giardini e cimitero riflettono un lavoro attento e curato. E non è solo il frutto delle risorse investite nei lavori d’edilizia.
Nel monastero ci sono attualmente 150 monaci. Non sono ancora i più di trecento che ci vivevano negli anni fiorenti della seconda metà del secolo XIX, ma comunque un numero notevole, se si pensa che il monastero è stato riaffidato alla Chiesa ortodossa solo nel 1987.
L’atmosfera del monastero offre un senso di tranquillità, segno che la vita entro quelle mura non ha niente a che fare con le preoccupazioni e le corse del mondo rimasto fuori. Ma dà anche un senso di austerità. Alla fine della liturgia, nella chiesa della Madonna di Kasan, con un buon numero di pellegrini, un monaco fa una breve predica. La parola che più si ripete è “penitenza”. Anche la suora, che all’ingresso del monastero chiedeva elemosina per i lavori in corso nel monastero femminile di Sciamardino, e che ha cercato di convincerci che dovevamo diventare ortodossi, aveva sottolineato che il primo messaggio di Gesù “è stato la penitenza”. La storia di Optina-Pustin è certamente carica di penitenza e di preghiera, ma anche di vita e morte, scomparse e rinascite della vita del monastero, che in certi periodi è stata lodata anche come un esempio di fraternità.
La prima domanda che si pone a Vera Vasilevna, la guida della nostra “escursione” nel monastero è sull’origine di esso. Forse rimonta al secolo XIV. Narra una leggenda di un bandito, di nome Opta, che si sarebbe convertito e fatto monaco. «Ma è probabilmente solo una leggenda, perché non c’è nessun documento storico», si scusa Vera.
La visita guidata assume la forma di un vivo racconto della storia e della vita dei monaci di Optina. Verso la fine del secolo XVIII, nel monastero vivevano solo tre vecchi monaci, uno dei quali cieco, e sembrava destinato ad estinguersi. Pare che la rinascita di Optina sia legata a un passaggio del metropolita di Mosca, Platon, alla fine del Settecento. Il primo igumen (abate), arrivato col compito di ricostruire il monastero, fu Avraamij che, dopo il primo periodo a Optina, scriveva che poteva solo «pregare e piangere», tali erano le condizioni che aveva trovato. Il costruttore di Optina è stato l’abate Moisej che, come riferisce Vera Vasilevna, «costruiva senza avere i soldi per portare a termine l’opera incominciata, fidandosi che questi sarebbero arrivati al momento giusto». Si dice che, quando è morto, nella cassa del monastero c’era solo una moneta, e questa sarebbe rimasta solo perché si era “nascosta” nelle spaccature del legno.
Nel gennaio de 1918, poco mesi dopo la rivoluzione di ottobre, il nuovo governo decise la chiusura del monastero. I monaci sono stati dispersi o arrestati e inviati ai lager. Qualcuno è stato fucilato. Il monastero viene saccheggiato e le chiese desacralizzate. Durante la Seconda guerra mondiale, è stato usato per raccogliere prigionieri, tra cui anche gli ufficiali polacchi.
Optina-Pustin ha anche i suoi nuovi martiri. Nel ’93, tre monaci sono stati assassinati da un uomo che, probabilmente legato a qualche culto satanico, si è introdotto nel monastero proprio con l’intenzione di versare sangue cristiano.
La figura di più grande rilievo tra gli starec di Optina-Pustin è Amvrosij (Ambrogio), nome preso da monaco in onore del santo milanese. Il suo tumulo, nella chiesa della “Presentazione di Maria Bambina al Tempio”, è oggetto di grande venerazione. Nonostante una debolissima salute, passava varie ore al giorno a ricevere persone che lo visitavano per chiedere consigli e preghiere. Abitava fuori delle mura del monastero, nello skit, un eremitaggio a parte fatto per i monaci che volevano condurre una vita più isolata, con un regola più severa. Lo skit si trovava a circa duecento metri dael monastero principale in un denso bosco.
Tra i visitatori che si sono rivolti ad Amvrosij c’è stato anche Fëdor Dostoevskij, nel maggio del 1878, portato dal suo amico, il filosofo Vladimir Solovjov, in un momento molto difficile della vita dello scrittore. Era appena morto suo figlio, Aljoscia, di tre anni. Dostoevskij ha passato tre giorni a Optina e si è incontrato tre volte con padre Amvrosij. «È ritornato come confortato e significativamente tranquillizzato», ha scritto la moglie Anna Grigorevna su questo momento della vita dello scrittore. Alcuni motivi e personaggi del romanzo I fratelli Karamazov riflettono aspetti dell’esperienza vissuta dall’autore a Optina, e nella figura dello starec Zosima tanti riconoscono tratti di Amvrosij.
Lev Tolstoj è stato più volte ad Optina, ma il suo ultimo incontro con Amvrosij è stato molto difficile, e si sono lasciati tutti e due con un’impressione negativa. Con altri monaci, lo scrittore ha mantenuto un rapporto, anche dopo essere stato scomunicato dalla Chiesa ortodossa.
Sotto la spinta di Amvrosij, è stato fondato, non lontano da Optina, il monastero femminile di Sciamordino, che verso la fine dell’Ottocento contava circa mille suore, tra cui una sorella di Lev Tolstoj, Maria.
Anche lo skit ha ripreso vita nei nostri giorni, con una trentina di monaci, ci riferisce Vera Vasilevna. Secondo lei ci sono «alcune figure notevoli» fra gli attuali monaci, ma ammette che gli starcy, come padre Amvrosij, che hanno fatto di questo luogo «il cuore della Russia» devono ancora risorgere.
Dal romanzo I fratelli Karamazov, di Dostoevskij
Lo starčestvo ha prosperato nella nostra Rus’ soprattutto nel celebre eremitaggio di Kozel’skaja Optina. Ignoro chi e quando lo abbia introdotto nel monastero alla periferia della nostra città, ma a quel tempo vi si contava già la terza generazione di starcy, l’ultima delle quali era rappresentata dallo starec Zosima, ma anche lui ormai stava morendo per il deperimento e la malattia e non vi era nessuno che potesse prendere il suo posto.
Dello starec Zosima molti dicevano che, avendo egli ammesso alla propria presenza, per tanti anni, tutti quelli che venivano ad aprirgli il proprio cuore, desiderosi di un suo consiglio e di una sua parola consolatoria, aveva accolto nella sua anima tante di quelle rivelazioni, sofferenze, confessioni da acquisire alla fine una preveggenza così acuta che gli bastava un’occhiata al viso dello sconosciuto visitatore per intuire il motivo della sua visita, che cosa voleva e persino che tipo di sofferenza tormentava la sua coscienza; egli alle volte destava meraviglia, turbamento e persino spavento nel suo visitatore quando questi si accorgeva che lo starec conosceva il suo segreto prima ancora di aver aperto bocca. Ma Alëša notava quasi sempre che molti, quasi tutti, coloro che si recavano per la prima volta dallo starec per un colloquio a quattr’occhi, entravano impauriti e agitati ma uscivano sereni e contenti, e anche il viso più cupo diveniva felice. Alëša fu particolarmente impressionato anche dal fatto che lo starec non era affatto severo; al contrario egli era quasi sempre allegro. I monaci dicevano che egli si affezionava a chi aveva più peccato: più uno aveva peccato e più egli lo amava…
2/ Le lacrime di Dostoevskij e la consolazione dello starec Amvrosij di Optina
Riprendiamo dal sito del Monastero ortodosso di Arona (https://pantocratore.com/2019/05/23/dostoevskij-e-lo-starec-amvrosij-di-optina/) un articolo pubblicato il 23/5/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Chiesa ortodossa.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Era il giugno del 1878 quando Fedor Michajlovic Dostoevskij, in compagnia del filosofo V. Solov’ev, si recò in pellegrinaggio al monastero di Optina Pustyn’. Il celebre autore Russo stava vivendo un momento molto difficile, il 16 maggio di quell’anno gli era morto improvvisamente, dopo un attacco di convulsioni febbrili, il figlioletto Alesha di tre anni.
Scrive la moglie Anna G. Dostoevskaja: «Fedor Michajlovic ebbe un profondo dolore per quella morte: egli amava Alesa in modo particolare, di un amore quasi morboso, come se avesse il presentimento che dovesse perderlo presto. E il bambino era morto di epilessia, malattia ereditata dal padre. Esteriormente tranquillo, egli sopportava con coraggio quel colpo del destino, ma io temevo che esso sarebbe stato fatale alla sua salute, così incostante. Per distrarlo dai pensieri troppo tristi, pregai Solov’ev, che in quei giorni di dolore veniva da noi molto spesso, di persuaderlo ad andare con lui a Optina Pustyn’, dove egli si proponeva di passare l’estate. Solov’ev mi promise che l’avrebbe fatto e cominciò a pregare Fedor M. di andare con lui. Io pure lo pregai di accompagnare Solov’ev e decidemmo che, verso la metà di giugno, Fedor M. sarebbe partito da Mosca insieme con l’amico. Solo non l’avrei mai lasciato partire».
Da quanto riferisce la moglie è da supporre che Dostoevskij si recò a Optina in primo luogo per ottenere conforto spirituale per la dolorosa perdita del figlio. Sia lui che la moglie erano completamente abbandonati al dolore e le parole di consolazione dette dallo starec Amvrosij a Dostoevskij furono molto probabilmente quelle messe in bocca allo starec Zosima nel II libro de I fratelli Karamazov dove il romanziere descrive le donne credenti, e in modo particolare una madre che esprime allo starec il suo dolore per la morte del suo bambino di età e di nome uguale al figlio di Dostoevskij.
Dice la moglie A. G. Dostoevskaja: «La morte del nostro piccolo mi aveva abbattuta: mi abbandonai totalmente al dolore, piansi, piansi, ed ero così disperata che nessuno mi riconosceva. La mia vivacità abituale sparì e la mia energia fece posto all’apatia. Ero indifferente a tutto e a tutti, non mi interessavano più né la casa né gli affari e trascuravo anche i bambini… Molti dei dubbi, pensieri e anche parole mie di quel tempo si trovano ne I fratelli Karamazov nel capitolo “Le donne credenti” in cui una madre che ha perduto il suo bambino sfoga col padre Zosima il suo dolore…».
Nei suoi ricordi Anna Grigor’evna racconta degli incontri avuti da Dostoevskij con lo starec Amvrosij: «Nell’eremo, Fedor M. vide tre volte il celebre e venerato padre Amvrosij; una volta in mezzo alla folla e due volte solo; i suoi discorsi gli fecero una profonda impressione. Quando disse al padre della disgrazia accadutaci e che io ero ancora così straziata, il padre gli domandò se io fossi credente e, avuta una risposta affermativa, lo pregò di portarmi la sua benedizione. Le stesse parole dice padre Zosima, ne I fratelli Karamazov, alla madre addolorata»[1].
Da “Le donne credenti”, II libro de I fratelli Karamazov
Molte delle donne che si affollavano attorno a lui versavano lacrime di gioia e di commozione, sotto l’impressione del momento; altre cercavano di spingersi avanti anche solo per baciargli il lembo della veste, altre ancora si lamentavano. Egli le benediceva tutte e ad alcune rivolgeva qualche parola…
– Eccone una che viene da lontano! – disse lo starec, indicando una donna non ancora vecchia ma molto magra e smunta, dal viso più che abbronzato addirittura quasi nero. La donna stava in ginocchio e guardava lo starec con gli occhi fissi. C’era in quello sguardo un’espressione esaltata.
– Da lontano, bàtjuska, da lontano, trecento versty da qui… Da lontano, bàtjuska, da lontano… – cantilenava la donna, dondolando pian piano la testa da una parte all’altra e appoggiando una guancia sulla palma della mano. Parlava come se si lamentasse. C’è nel popolo un dolore silenzioso e paziente, esso si ritrae in sé e tace. Ma esiste anche un dolore lacerante; esso erompe una volta in lacrime disperate e da quell’istante si sfoga in lamenti. Specialmente nelle donne. Ma non è meno penoso del dolore silenzioso. I lamenti danno sollievo, sì, ma corrodono e lacerano il cuore ancora di più. Un tale dolore non vuole neanche conforto, si nutre della consapevolezza della propria indistruttibilità. I lamenti non esprimono altro che il bisogno di irritare continuamente la ferita.
– Sei della città? – proseguì lo starec, guardando fissamente la donna.
– Della città, padre, della città; veramente siamo gente di campagna, ma viviamo in città. Sono venuta, padre, per vederti. Abbiamo sentito parlare di te, bàtjuska, ne abbiamo sentito parlare. Ho seppellito un bambino piccoletto, poi sono andata a pregar Dio. In tre monasteri sono stata e mi hanno detto: «Nastàsjuska, va’ anche laggiù», ossia qui da voi, angelo santo. Sono venuta, ieri sono stata alla liturgia notturna, ed ecco che oggi sono qui da voi.
– Perché piangi?
– Piango il mio figlioletto, bàtjuska; aveva quasi tre anni; ancora due mesi e avrebbe avuto tre anni. È per il mio bimbetto, padre, che mi tormento. Era l’ultimo figliuolo che ci era rimasto: quattro ne abbiamo avuti, io e Nikìtuska, ma in casa nostra, padre benamato, i bimbi non campano. I tre primi li ho sotterrati io, ma non li ho pianti troppo, ma quest’ultimo l’ho sotterrato e non lo posso dimenticare. È proprio come se fosse qui davanti a me, e non si allontana. Mi ha disseccato l’anima. Guardo i suoi pannolini, la camiciuola, le scarpette e singhiozzo. Tiro fuori tutto ciò che è rimasto di lui, guardo ogni cosa, e piango. Dico a Nikìtuska, mio marito: «Padrone mio, lasciami andare in pellegrinaggio». Lui è vetturino, non siamo poveri, padre, non siamo poveri: lavoriamo per conto nostro, e sono nostri cavalli e carrozza. Ma a che ci serve ora la roba? Si sarà messo a bere il mio Nikìtuska, senza di me; di certo è così; anche prima, non appena mi voltavo, lui subito si disanimava. Ma adesso non penso neppure più a lui. Già da tre mesi sono lontana da casa. Ho dimenticato, ho dimenticato tutto e non voglio più ricordare nulla; e poi che cosa farei adesso con lui? L’ho finita con lui, l’ho finita, l’ho finita con tutti. E non vorrei neppure più rivedere la mia casa, né la mia roba, non vorrei vedere più nulla!
– Senti, madre – proferì lo starec –, un grande santo dei tempi antichi vide una volta in un tempio una mamma che piangeva come te; anche lei piangeva il suo figlioletto, l’unico che aveva e che il Signore aveva chiamato a sé. «Non sai» le disse quel santo «come questi bambinelli se ne stanno tutti fieri davanti al trono di Dio? Nel regno dei cieli non c’è nessuno più fiero di loro. Tu, o Signore, dicono a Dio, ci hai donato la luce; noi l’abbiamo appena veduta e Tu ce l’hai ripresa. E pregano e chiedono con tanta baldanza che il Signore concede subito loro il grado di angeli. Perciò, disse quel santo, gioisci anche tu, donna, e non piangere perché il tuo piccolo è ora vicino al Signore nella schiera dei Suoi angeli». Ecco cosa disse in tempi antichi quel santo alla donna piangente. Ed egli era un grande santo e non poteva non dirle il vero. Perciò sappi anche tu, o madre, che il tuo bambinello è oggi presso il trono del Signore e gioisce, si rallegra, e prega Dio per te. Non piangere quindi neppur tu, ma gioisci.
La donna lo ascoltava con la guancia appoggiata alla mano e con gli occhi bassi. Sospirò profondamente.
– Anche Nikìtuska, per consolarmi, mi parlava proprio come te. «Non sei ragionevole» mi diceva. «Perché piangi? Il nostro bambinello è vicino al Signore Iddio e canta insieme con gli altri angeli». Mi dice così, ma piange anche lui; lo vedo che piange come me. «Lo so, Nikìtuska», dico io, «dove potrebbe essere se non accanto al Signore Iddio?… ma qui con noi ora non c’è più, Nikìtuska, non è più seduto qui vicino a noi come prima…». Se lo vedessi solo una volta, se potessi rivederlo una volta ancora! Non mi avvicinerei, non gli direi neppure una parola, mi nasconderei in un angolo pur di vederlo un attimo, pur di sentirlo giocare nel cortile e poi venire, come una volta, gridando con la sua vocetta: «Mammina, dove sei?» Potessi solo una volta, una volta sola sentirlo camminare nella stanza con i suoi piedini che facevano toc toc!… Mi ricordo che quasi sempre correva da me gridando e ridendo! Potessi solo sentire i suoi piedini, sentirli, riconoscerli! Ma lui non c’è più, bàtjuska, non c’è più e non lo sentirò mai più! Ecco qui la sua cinturina, ma lui non c’è più e io non potrò mai più né vederlo né sentirlo!
Essa cavò dal seno la piccola cintura di passamano del suo bimbetto e, al solo vederla, fu scossa dai singhiozzi e si coprì il volto con le dita attraverso le quali colarono rivi di lacrime.
– Questa – disse lo starec – questa è l’antica «Rachele che piange i suoi figli e non può consolarsi perché essi non sono più»; tale è la sorte assegnata sulla terra a voi madri. E tu non consolarti, non occorre che tu ti consoli, piangi pure; ma, ogni volta che piangi, ricordati che il tuo bambino è uno degli angeli di Dio, che di là ti guarda e ti vede, gioisce delle tue lacrime e le indica al Signore Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto di madre, ma alla fine si trasformerà in una quieta gioia, e le tue amare lacrime non saranno più che lacrime di dolce tenerezza e di purificazione del cuore che laveranno la tua anima dal peccato. Io pregherò per la pace del tuo bambino: come si chiamava?
– Alekséj, bàtjuska.
– È un bel nome. In ricordo di Alekséj «uomo di Dio?».
– Di lui, bàtjuska, di lui, di Alekséj «uomo di Dio».
– Quale grande santo! Pregherò, madre, pregherò e nella mia preghiera ricorderò la tua afflizione e pregherò anche per la salute di tuo marito. Però tu commetti peccato ad abbandonarlo. Torna da tuo marito e abbi cura di lui. Di lassù il tuo piccolo vedrà che hai abbandonato il suo papà e piangerà per voi; perché vuoi turbare la sua beatitudine? Lui è vivo, vivo, giacché l’anima vive in eterno; non è nella casa, ma è invisibile accanto a voi. Ma come potrà venire nella sua casa, se tu dici che hai preso a odiarla, la tua casa? Da chi dunque andrà, se non troverà insieme il babbo e la mamma? Adesso tu lo sogni e ti tormenti, ma allora egli ti manderà dei sogni tranquilli. Va’ da tuo marito, madre, va’ oggi stesso.
– Andrò, caro, seguirò i tuoi consigli. Mi hai sconvolto il cuore. Nikìtuska, Nikìtuska mio, tu mi aspetti, caro, mi aspetti…
3/ Una realtà presente che promette l’infinito. La profezia di Solov’ëv e Dostoevskij. In un libro i tre brevi saggi che il filosofo russo dedicò all'amico scrittore. Chiesa, comunione, e quel finale dei Fratelli Karamazov, dell'abate Mauro Lepori
Riprendiamo dalla rivista Tempi del 10/10/2021 un articolo dell'abate Mauro Lepori. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Chiesa ortodossa.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, l’intervento integrale che padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’Ordine Cistercense, ha tenuto martedì 5 ottobre nell’Aula Papa Benedetto XVI, in Vaticano, in occasione della presentazione del volume a cura di Giuseppina Cardillo Azzaro e Pierluca Azzaro “Fëdor Dostoevskij”, scritto da Vladimir Solov’ëv e pubblicato da Cantagalli nei Quaderni dell’Accademia Sapientia et Scientia. Alla presentazione hanno preso parte anche il Metropolita Hilarion di Volokolamsk (che firma la prefazione del libro), il cardinale Pietro Parolin, l’ambasciatore russo presso la Santa Sede Alexander Avdeev e il professore Pierluca Azzaro.
Se c’è una parola che è risuonata continuamente in me leggendo le luminose pagine dei tre discorsi di Solov’ëv su Dostoevskij, questa parola è “profezia”. Solov’ëv ci aiuta a capire che abbiamo bisogno di profezia e mette in luce la potenza profetica di Dostoevskij. In questo, Solov’ëv si rivela lui stesso come un pensatore estremamente profetico. Quello che coglie e descrive in Dostoevskij è proprio la profezia di cui il mondo ha bisogno. È impressionante leggere questi testi dentro il bisogno di profezia che vive il mondo attualmente, oppure confrontandoli con l’apporto di uomini e donne che nelle Chiese e nella società incarnano questa profezia per noi, come papa Francesco, i suoi predecessori, o le grandi figure della Chiesa Ortodossa.
Solov’ëv ci fa capire che il mondo d’oggi, più che di profezie, ha bisogno di profezia, cioè di uno sguardo capace di scorgere una realtà presente che promette l’infinito. È proprio perché ci permette di vedere una realtà presente che la profezia non è utopia, e che essa per questo incarna una speranza, una speranza fondata sulla fede. Leggendo Solov’ëv e la sua lettura di Dostoevskij ci si sente accompagnati a scorgere di fronte a noi, fra di noi e in noi il seme della novità che sola può salvare il mondo e quindi dare speranza contro ogni speranza.
Esattamente vent’anni fa mi fu chiesta una conferenza per un convegno di artisti cristiani sul tema “Verità, bellezza e pace”. In quella conferenza avevo menzionato la visita che Fëdor Dostoevskij, dopo la morte di suo figlio Alëša, fece nel 1878, accompagnato da Solov’ëv, all’eremo di Optina dove incontrarono il grande monaco e starec Amvrosij, che ispirerà la figura dello starec Zosima ne I fratelli Karamazov.
Dostoevskij ritornò dall’eremo di Optina tranquillizzato e notevolmente rappacificato. Solov’ëv ricorda questo episodio in una nota del primo discorso. Mi ha sorpreso, leggendo queste pagine di Solov’ëv, quando alla fine del secondo discorso mette in luce l’armonia che Dostoevskij ha incarnato fra la bellezza, la verità e il bene. Nella conferenza che feci vent’anni fa avevo portato come esempio di questa armonia fra le tre realtà – verità, bellezza e pace (e penso si possa identificare il bene con la pace) –, proprio quell’incontro fra Solov’ëv, Dostoevskij e lo starec Amvrosij. Dicevo che si poteva considerare Solov’ëv come l’uomo della verità, Dostoevskij come l’uomo della bellezza e lo starec Amvrosij come l’uomo della pace o, se volete, del bene. Il filosofo Solov’ëv e l’artista scrittore Dostoevskij si recano assieme dal monaco Amvrosij e il frutto di questo incontro fu per Dostoevskij la pace del cuore e un nuovo slancio di ispirazione.
Questo incontro fu, a mio parere, come un paradigma, come un’esperienza in cui la realtà dei valori di verità, bellezza e bene ha potuto avvenire, incarnarsi nell’ambito di un’amicizia. I grandi valori diventano realtà sperimentabile perché avvengono in un’amicizia.
Solov’ëv ci rivela in queste conferenze che fu proprio in quella visita a Optina che Dostoevskij concepì una grande opera sulla Chiesa, di cui ha potuto scrivere solo il primo volume, I fratelli Karamazov. Quando si legge questo romanzo sembra sempre che il finale sia un po’ incompleto, o piuttosto si sente che Dostoevskij aveva in mente un seguito e uno sviluppo ulteriori. Però, alla luce di quello che leggiamo in queste stupende pagine di Solov’ëv, capisco, nell’estrema limitatezza della mia conoscenza di Dostoevskij, che la scena finale de I fratelli Karamazov è una profezia, è compiuta in quanto profezia. Perché si mette in scena un’amicizia, l’amicizia sorgiva fra Alëša e alcuni ragazzini, un’amicizia in cui si decide, accanto a una grossa pietra, certamente simbolica, un’alleanza per continuare insieme il cammino. Basta rileggere le ultime battute con cui si conclude il romanzo: «Su, andiamo! Ecco e camminiamo così, tenendoci per mano!» dice Alëša pieno di gioia; e il ragazzo Kolja risponde subito: «E così per sempre, tutta la vita tenendoci per mano!».
Dostoevskij accenna così alla grande profezia che è la Chiesa, la Chiesa come mistero, come Corpo mistico di Cristo, che non si limita mai ad una particolare confessione. La Chiesa come Sposa di Cristo, la Chiesa che è l’umanità rinnovata, riunita, o come dice la Lumen gentium: “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (§1). Proprio questa Chiesa è una realtà presente che promette l’infinito. La compagnia, l’amicizia, magari di sole tre persone come Dostoevskij, Solov’ëv e lo starec Amvrosij, oppure di Alëša con i ragazzini che lo circondano, o anche come noi stasera, è una realtà presente, un germe presente, una realtà ecumenica, che promette l’infinito; e l’infinito è la fraternità universale riconciliata in Cristo, la fraternità che non è soltanto un progetto ideologico, politico, economico, ecologico, che prima o poi scade in violenza, ma una speranza, fondata dalla e sulla fede in Cristo presente, e che si realizza come carità.
Questo giudizio, che dopo 140 anni da quando fu espresso è di una freschezza assolutamente sconvolgente, ci sorprende per la sua adeguatezza alla situazione in cui ci troviamo, alle crisi globali che attraversiamo. La lettura che Solov’ëv fa di Dostoevskij ci aiuta a capire che il fondo sempre positivo delle crisi dell’umanità è il fatto che viviamo dentro la speranza di una fraternità universale che già c’è, che già è data in Cristo morto e risorto per noi, ma che non è ancora compiuta, è sempre da avvenire, fino alla fine dei tempi, fino alla Parusia. Essere coscienti che siamo dentro questa tensione è un grande aiuto a vivere e a cogliere l’essenziale, il positivo, l’estremamente positivo che ci è dato di vivere sempre e comunque.
La speranza è una positività reale, è una letizia reale, ed è bello sentir descrivere da Solov’ëv come Dostoevskij coglie e fonda questa verità profetica nel popolo, nel popolo estremamente decaduto dei malfattori con cui era prigioniero in Siberia. Nei miseri, Dostoevskij scopre qual è il seme della speranza per il mondo intero: il fatto di riconoscersi peccatori ma redenti, di sapersi peccatori senza perdere la consapevolezza profonda di essere salvati, che una Salvezza c’è, che Gesù Cristo c’è.
La grande speranza profetizzata da Dostoevskij è così quella della Croce. La Croce di Cristo, ma anche quella che Lui ci chiede di portare ogni giorno alla sua sequela, è essenzialmente un grande fallimento. Non è un successo, ma un grande fallimento. Ognuno di noi, e ognuna delle nostre Chiese, come tutta la società, ne facciamo costantemente esperienza. Quello che dimentichiamo, e che questi grandi cristiani russi ci ricordano, è che proprio il fallimento della Croce è il segreto della redenzione del mondo, del mondo nuovo a cui tutti aspiriamo. La Croce è il seme presente, reale, della speranza della risurrezione di tutto e di tutti, che germina ora nell’alba di fraternità universale che i cristiani sono chiamati a sperimentare e ad offrire all’umanità.
Questi scritti mi rendono più cosciente di una cosa che tanti grandi spiriti colgono e tentano di suggerirci, di una cosa che dovremmo sempre rinnovare nei rapporti ecumenici: e cioè che l’unità, anzi: la comunione – per usare un termine tanto bello e tanto denso, soprattutto nell’Ortodossia –, la comunione non è solo un lavoro fra di noi, fosse pure ad alto e profondo livello, in particolare teologico; la comunione è un avvenimento a cui ci apriamo fissando Gesù Cristo.
Mi colpisce sempre il vangelo in cui Gesù annuncia la sua passione, ma, nel frattempo, di cosa parlano i suoi discepoli lungo il cammino? Parlano di chi sia il più grande fra di loro (cfr. Mc 9,30-37). Quello che è incredibile è che questi dodici discepoli abbiano fatto tutto quel cammino guardandosi fra di loro e non fissando gli occhi su Gesù, su Gesù che annunciava la passione, la morte e la risurrezione, su Gesù che si rivelava totalmente nel suo infinito mistero. Certo, non capivano quello che Lui diceva; non potevano capirlo. Ma il problema non è di capire come avverrà l’unità, la fraternità universale, come si salverà il mondo, questo mondo di oggi. Il problema è di non dimenticare di fissare gli occhi su Cristo. Perché anche nei momenti di maggiore confusione, guardare Gesù è possibile, ascoltare Gesù, è possibile. Perché Gesù Cristo è presente, qui ed ora, ci parla, ci rivela tutto, è la Rivelazione di tutto.
Io sono pieno di gratitudine, perché questi testi di Solov’ëv, che vanno veramente meditati, e sono di una bellezza che incanta, questi testi in fondo ci gridano un’esigenza assolutamente irrinunciabile se vogliamo voler bene al mondo, all’umanità, irrinunciabile per i discepoli di Cristo che siamo, che bene o male lo seguiamo, in tutte le Chiese: l’esigenza fondamentale per tutti è che torniamo a fissare gli occhi su Cristo, a contemplarlo, ad ascoltarlo, a dirigere l’attenzione su di Lui, ma veramente su di Lui, non sui dettagli delle nostre interpretazioni di Cristo, ma proprio su Cristo presente che ci promette una Salvezza totalmente già compiuta.
La grande profezia di Dostoevskij, come di Solov’ëv, è che la bellezza di Cristo salverà il mondo se i suoi discepoli, pur peccatori, perché peccatori, fisseranno insieme gli occhi su di Lui per trasmettere la sua luce al mondo.
Note al testo
[1] Cfr. AA.VV., Il santo starec Amvrosij del monastero russo di Optina, Abbazia di Praglia, 1993, 64-67.
1/ Un tweet di Federico Rampini su Twitter
Riprendiamo sul nostro sito un tweet di Federico Rampini su Twitter pubblicato l’8/10/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
La #Cina brucia più #carbone di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme. Ha in costruzione 247 nuove centrali a carbone. #clima #cambiamentoclimatico #energia #XiJinping #fermarepechino
2/ Federico Rampini/ “Greta Thunberg? Mi dissocio dalla venerazione per lei”, di Davide Giancristofaro Alberti
Riprendiamo sul nostro sito da Il Sussidiario del 20/11/2021 un articolo di Davide Giancristofaro Alberti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Sono parole per certi versi a sorpresa quelle rilasciate dal giornalista del Corriere della Sera, Federico Rampini, su Greta Thunberg. Ospite nell’ultima puntata del programma di La7, Piazzapulita, il collega della carta stampata, parlando di green, Cop26, transizione ecologica e cambiamento climatico, ha spiegato: “Io, siccome non faccio il ministro (in studio vi era anche Cingolani ndr), posso essere ancora più esplicito: io mi dissocio dalla venerazione nei confronti di Greta Thunberg. Mi preoccupa lo spettacolo degli adulti che si genuflettono davanti agli adolescenti. Gli adolescenti fanno il loro mestiere, fanno benissimo a cavalcare le utopie e a gridarci delle provocazioni. Ma gli adulti devono governare il mondo. E ci sono adulti che a quel vertice sono andati in rappresentanza di un miliardo e mezzo di cinesi e di indiani, che non possono rinunciare da un giorno all’altro al carbone. L’alternativa è chiudere le fabbriche, gettare centinaia, milioni di persone sul lastrico. Si muore di fame prima ancora di morire di inquinamento”.
Quindi Formigli ha chiesto: “Ma è vero che Cina e India hanno fregato l’Occidente sull’inquinamento?”, e Ramponi ha replicato con una smentita: “No… non ci hanno fregato. Il caso che conosco meglio è la Cina, che ci crede alla transizione sostenibile e alla lotta al cambiamento climatico. È già numero uno mondiale nei pannelli solari, ha una posizione dominante nell’eolico e nell’auto elettrica. Ha un progetto molto chiaro. È un problema per noi, certo. Ma per l’ambiente…”.
E ancora: “Cinesi e indiani non possono dall’oggi al domani rinunciare al carbone. L’alternativa è chiudere le fabbriche e gettare centinaia di milioni di persone sul lastrico: si muore di fame, prima ancora di morire di inquinamento”. Rampini, come spiegato dallo stesso, è un grande esperto della realtà cinese e recentemente ha pubblicato il libro “Fermare Pechino“, in cui sottolinea come la Cina abbia di fatto gettato la maschera sotto la presidenza Xi Jinping: “Non nasconde le sue ambizioni egemoniche. Ostenta un enorme complesso di superiorità verso l’Occidente. Minaccia e ricatta ogni paese già scivolato in una situazione di dipendenza economica (dai vicini asiatici all’Australia, dai Balcani fino all’Europa centrale). Perché vuole monopolizzare le tecnologie del futuro, a cominciare dall’auto elettrica. Perché a Hong Kong ci ha fatto vedere cosa può accadere a chi finisce dentro la sua sfera d’influenza”.
3/ Tra comunismo e Confucio: perché non c’è una Greta cinese. La militante svedese e i coetanei hanno visibilità zero a Pechino, non esistono Verdi né stampa libera, di Federico Rampini
Riprendiamo sul nostro sito da Il Corriere della Sera del 13/11/2021 (modificato il 14/11/2021) un articolo di Federico Rampini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Perché non c’è una Greta Thunberg a Pechino? Se ci fosse, come reagirebbe Xi Jinping alle sue accuse? Nella delusione per i risultati della Cop26, l’unica sorpresa positiva era stata la dichiarazione congiunta Cina-Stati Uniti. La creazione di una task force sino-americana sul clima è giudicata un segnale che le relazioni bilaterali registrano il primo miglioramento da anni. A confortare la speranza che possa iniziare una de-escalation arriva il primo vertice bilaterale tra i due presidenti, sia pure a distanza, questo lunedì. Nel comunicato sul clima mancano però impegni precisi: nessun numero vincolante sulle riduzioni di CO2. Si applica la consueta critica di Greta sul blabla? Ma la militante svedese e i suoi coetanei hanno visibilità zero a Pechino.
La superpotenza più inquinante del pianeta è governata da un regime che lascia poca autonomia alla società civile. La nomenclatura comunista diffida delle ong e negli ultimi anni gli spazi per i movimenti ambientalisti cinesi si sono ristretti ancor più. Nella lotta al cambiamento climatico Xi ha meno conti da rendere in casa propria rispetto a un leader occidentale e l’ultimo Plenum del partito ha consolidato il suo immenso potere. Non esistono Verdi né stampa libera, le proteste in occasione di catastrofi ambientali vengono represse o incanalate nelle strutture del partito. La mancanza di una vigilanza dal basso spiega, tra l’altro, il fatto che il governo ha pubblicato il suo ultimo rapporto esaustivo sulle emissioni cinesi di CO2 nel lontano 2014.
Il primato del partito non è l’unica ragione per cui manca una Greta a Pechino. Il leader comunista e confuciano deve osservare il fenomeno della giovane guru come una perversione occidentale che conferma il nostro declino. L’autorevolezza che i media occidentali riconoscono a Greta è inaccettabile nella cultura cinese dove sono gli anziani che vanno ascoltati e rispettati, la loro esperienza è un valore, nei rapporti gerarchici l’età pesa. Nell’ottica cinese «il mondo salvato dai ragazzini» è una pericolosa allucinazione. Nella storia della Cina le rivoluzioni animate dai giovani sono associate a caos, spargimento di sangue. L’ultimo esempio fu la Rivoluzione culturale: Mao Zedong, per consolidare il proprio potere, aizzò gli adolescenti contro insegnanti e genitori. Le Guardie Rosse furono un fenomeno generazionale, contemporaneo al nostro Sessantotto ma molto più violento, una guerra civile. Se i giovani vengono idolatrati in Occidente, per Xi è segno che la nostra civiltà è in una decadenza terminale.
L’allergia di Xi al giovanilismo occidentale segnala anche la distanza fra il pragmatismo di chi deve gestire la transizione energetica di 1,4 miliardi di persone, e le utopie ambientaliste nei Paesi ricchi. Xi crede nelle energie rinnovabili, al punto che i suoi aiuti all’industria dei pannelli solari hanno rovinato molti concorrenti occidentali e hanno consentito alla Cina di egemonizzare il settore. Ambisce a un dominio globale sull’auto elettrica, le batterie, i componenti. Ha il parco centrali nucleari più vasto del mondo e lo considera fonte rinnovabile. Usa i grandi fiumi che nascono in Tibet per l’energia idroelettrica. Tutto questo non basta ancora. Messo alle strette da una forte ripresa economica e un boom delle esportazioni verso il resto del mondo, Xi ha preso atto che la chiusura di tante miniere di carbone era stata prematura. Di fronte all’alternativa secca tra disoccupazione e inquinamento, nell’immediato rilancia il carbone per far funzionare le fabbriche minacciate dai blackout elettrici. Xi non accetterebbe rimproveri da una immaginaria Greta cinese. Il suo impegno per l’ambiente non lo considera blabla. Deve bilanciarlo con la realtà economica di oggi, le tecnologie esistenti, il bisogno di energia subito. La Cina non dimentica che di fame si muore più che di inquinamento. Il Sud del pianeta guarda al modello cinese: bruciare le tappe nella messa al bando del carbone avrebbe costi umani insopportabili.
Joe Biden nel realismo non è molto diverso da Xi. Anche l’America è alle prese con uno shock energetico, causa d’inflazione che intacca il tenore di vita. La bolletta del gas è rincarata del 30%. Mentre si proclama ambientalista, Biden preme sull’Opec (il cartello dei produttori di petrolio) perché aumenti la produzione di greggio e calmieri i prezzi. Un’intesa fra Biden e Xi ha portato a un boom di esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti alla Cina: triplicate. Il gas emette CO2 ma in misura minore rispetto al carbone. È una tappa intermedia per ridurre le emissioni in attesa che fonti pulite siano pronte a sostituirsi. Sia Xi che Biden devono governare il mondo reale, fare compromessi, bilanciare le priorità. Il loro ruolo non si addice alla logica del «tutto e subito».
© Corriere della Sera RIPRODUZIONE RISERVATA
4/ India: gigante ‘cattivo’ che ostacola la sfida sul clima o Paese in crescita che vuole uscire dalla miseria? L’economia vola (non nelle campagne, dove vivono 900 milioni di persone) ma il subcontinente asiatico alla conferenza di Glasgow ha frenato sull’eliminazione delle emissioni guardando al 2070. Il premier Modi ora punta a creare 100 milioni di posti di lavoro nell’industria. E non intende rallentare, di Danilo Taino
Riprendiamo sul nostro sito da Il Corriere della Sera del 27/11/2021 un articolo di Danilo Taino. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Alle prime ombre del crepuscolo, sui pendii verdi delle alture attorno al villaggio di Kongthong si iniziano a sentire dei brevi fischi, più precisamente accenni di musichette emesse tra lingua, denti e labbra. I suoni, tutti diversi, crescono via via che l’oscurità avanza. Sono i genitori che chiamano i figli a casa. A Kongthong, 700 anime, a ogni bambina e bambino appena nati viene assegnato dalla madre un motivetto che si porterà per l’intera vita, suo ed esclusivo. Il sistema si chiama Jingrwai Iawbei. Così tutti hanno due carte d’identità, una ufficiale e una musicale; ma raramente la mamma chiama per nome: solo quando è arrabbiata e non ha proprio voglia di attorcigliare la lingua in tenerezze.
Il cambiamento: non più fuori dal mondo
Siamo nel distretto di Meghalaya, estremo Nord-Est dell’India, a una ventina di chilometri dal confine con il Bangladesh, più a Sud. Prati, sentieri di pietra, galline che becchettano tra l’erba. Fuori dal mondo, verrebbe da pensare, e fuori dal Ventunesimo Secolo. Niente affatto. Lo scorso settembre, il governo di Delhi ha candidato Kongthong a entrare nella lista dei Migliori Villaggi Turistici della World Tourist Organization dell’Onu. Perché questo luogo remoto anche per gli indiani, grazie ai nomi fischiati, sta diventando un’attrazione. Ma turismo con moderazione, niente grandi numeri, nessun pullman e rispetto di natura e tradizioni: come si fa oggi, c’è chi direbbe “sostenibile”. È che l’India cambia così, pezzetto per pezzetto e quasi mai perde la sua antichità. La adatta al mondo in movimento. In molte parti corre ma il complesso del subcontinente si muove a una velocità tutta sua, milioni accelerano e milioni frenano, un’umanità in cammino con tempi diversi.
LA LENTA VIA DELL’ADDIO AL CARBONE, MENTRE DALL’INIZIO DELL’ANNO 35 START-UP SONO DIVENTATE «UNICORNI», CIOÈ SOCIETÀ VALUTATE OLTRE UN MILIARDO DI DOLLARI
Per capire il Paese, per giudicare seriamente come mai non firma l’eliminazione drastica delle centrali a carbone chiesta da altri alla Cop26 di Glasgow, occorre riconoscere che l’India è diversa dal resto del mondo, come se la catena dell’Himalaya la proteggesse dall’Eurasia e l’Oceano ne facesse un’isola. Meravigliosamente e drammaticamente conservatrice ma capace di grandi innovazioni. Con un’identità fortissima ma anche plurale. L’India che corre è da almeno due decenni in mostra a Bangalore (ora rinominata Bengaluru), nel centro del cono Sud della penisola. I parchi tecnologici sono nati inizialmente per ospitare produttori di software, attività nella quale gli indiani eccellono. Oggi, in città sono registrate 67 mila aziende dell’Information Technology e vi hanno stabilito attività praticamente tutti i grandi nomi dell’hi-tech globale: i campioni nazionali Infosys e Wipro, ma anche Amazon, Ibm, Dell, Microsoft, Siemens, Sap, Google, Nokia e via dicendo. Chennai, la ex Madras, conta quattromila imprese tecnologiche. Hyderabad, più a Nord, è un altro centro per lo sviluppo del software. E poi naturalmente Delhi, Bombay (Mumbai), Calcutta (Kolkata).
L’ONDA MONTANTE DELLE START UP MILIARDARIE: GLI INVESTIMENTI NELLE IMPRESE INDIANE SONO CRESCIUTI DEL 287% MENTRE IN CINA LA PERCENTUALE È ‘SOLO’ DEL 118%
L’onda montante del momento che sta scaricando adrenalina tra imprenditori e finanzieri è però quella delle start-up. Dall’inizio del 2021, 35 di loro sono diventate cosiddetti “unicorni”, cioè valutate oltre un miliardo di dollari. La grande quantità di denaro in circolazione nel mondo, messa nel sistema da banche centrali e governi, cerca occasioni d’investimento e gli indiani offrono sia un grande mercato potenziale sia una capacità di utilizzo del web non comune. Un incontro in paradiso, dicono a Delhi. All’età di cinque anni, la società assicurativa Digit Insurance vale oggi quasi due miliardi di dollari. Innovace opera nella Sanità ed è valutata più di 15 miliardi. Urban Company offre servizi iper-locali, dai massaggi alle riparazioni idrauliche, dalle cure di bellezza alla carpenteria e viaggia sul paio di miliardi. E così per 35 volte. Nelle città del Paese l’impressione dell’occidentale è la solita, la folla, il caos, gli ambulanti, i poveri. Se però a Bombay salite su un Uber - non serve che sia un’auto, anche i rickshaw-Ape a tre ruote sono in rete - e vi fate lasciare al distretto finanziario, l’eccitazione è contagiosa. L’indice azionario più importante, il Sensex, quest’anno è su del 25%. E mentre i trader guardano il listino indiano, un occhio lo tengono, soddisfatti, sullo Shangai SE Composite, l’indice cinese che invece è piatto da dieci mesi.
Disastrosi sulla pandemia, leader in economia
La competizione con la Cina è una costante nazionale, in Borsa, nella crescita economica, in politica, oltre che nelle dispute di confine e nell’espansione geopolitica nell’Oceano Indiano. Un’ossessione nazionale spesso frustrata dai successi del gigante vicino. Ma, in questa fase di enormi cambiamenti globali, a Delhi e a Bombay si fa festa più che a Pechino. «In un certo senso, questo è il momento dell’India che va sul palcoscenico globale», è il commento di Bhavish Aggarwal, il chief executive di Ola, una società indiana del genere di Uber che programma di entrare nella produzione di veicoli elettrici. In effetti, la dinamicità che l’economia dell’India sta mostrando dopo i disastri nella gestione della pandemia si incontra con la necessità di molti investitori di mettere meno denaro in Cina - dove Xi Jinping sta conducendo una serrata repressione tra le imprese private, soprattutto hi-tech - e di trovare alternative: l’India è il mercato che al momento sembra più beneficarne.
NEL PAESE SONO IN COSTRUZIONE 28 GIGANTESCHE CENTRALI ELETTRICHE A CARBONE CHE FUNZIONERANNO ANCORA PER DECENNI
Le previsione dell’FMI: crescita del 9,5%
Il Financial Times ha riportato che nel settore tecnologico quest’anno gli investimenti nelle imprese indiane sono cresciuti del 287%, contro il 118% di quelli nelle aziende cinesi. Nel trimestre luglio-agosto 2021, per ogni dollaro investito in una società hi-tech cinese, un dollaro e mezzo è andato a una indiana. L’orgoglio dell’establishment, a cominciare da quello del primo ministro Narendra Modi, si è ulteriormente gonfiato in ottobre quando il Fondo monetario internazionale ha previsto che l’economia del Paese crescerà del 9,5% quest’anno e dell’8,5% il prossimo, contro i rispettivi 8% e 5,6% della Cina.
La grande corsa frenata da burocrazia e corruzione
Quando si fanno previsioni riferite all’India occorre essere prudenti. Le sorprese sono frequenti. Nonostante il Paese sia il maggior produttore di vaccini al mondo, la campagna di immunizzazione ha avuto ritardi e solo da pochi giorni ha superato il miliardo di dosi somministrate (la popolazione sfiora gli 1,4 miliardi). La burocrazia elefantiaca e la corruzione restano una palla al piede. Il governo di tanto in tanto prende misure retroattive che spaventano gli investitori. I contadini continuano ad assediare Delhi per protesta contro una riforma modernizzatrice della distribuzione dei prodotti agricoli. C’è un grande bisogno di riforme ma farle è straordinariamente faticoso in un Paese povero, diviso in 28 Stati e otto Territori dell’Unione, nel quale si parlano 22 lingue riconosciute nella Costituzione. Popolato da lobby, divisioni religiose, partiti politici locali. C’è, appunto l’India che corre, alle velocità delle start-up e della Borsa o con il passo più lento del villaggio dei nomi musicati, e c’è l’India che sta ferma e frena.
I ritardi nelle campagne e le caste che resistono
Nel 1960, solo il 18% della popolazione era urbanizzata. Oggi siamo al 35%. Significa che 900 milioni di indiani vivono nei villaggi delle campagne. E, mentre in città si soffre dell’inquinamento ma le differenze di religione e soprattutto di casta si annacquano, nelle comunità rurali rimangono, lentissime a essere superate. Spesso un dalit, un “intoccabile”, non può prendere l’acqua dal pozzo da cui si servono le caste più alte. Ed è possibile che le sue figlie vengano emarginate, una volta a scuola. Nelle campagne, il problema dell’accesso all’elettricità è antico. Il governo Modi ha compiuto un grande sforzo per portarla nel cento per cento dei villaggi ma la metà delle famiglie ha ancora blackout di 7-8 ore al giorno e gli agricoltori hanno otto ore di fornitura ogni 24. La conseguenza è che molte famiglie continuano a cucinare in casa con combustibili come il legno, lo sterco essiccato, il kerosene e ciò provoca centinaia di migliaia di morti premature ogni anno.
Rischi e prospettive dell’urbanizzazione
Per capire la portata del problema: portare l’urbanizzazione sopra al 50% come la Cina (che punta ad arrivare al 65% entro il 2025) creerebbe in India problemi enormi nelle città. Già oggi c’è carenza di abitazioni, gli slum abbondano, i bambini giocano a cricket ai bordi delle strade camionabili, l’inquinamento è da record, i trasporti restano insufficienti nonostante gli investimenti in metropolitane e treni. Ma l’urbanizzazione non può essere fermata. È un moltiplicatore dell’economia e lo è anche dal punto di vista sociale e culturale: se lasci il villaggio e trovi una catapecchia a Bombay — corre un motto della grande metropoli — hai vinto alla lotteria. Troverai un lavoro, i tuoi figli andranno a una buona scuola. La città è un cancello aperto, soprattutto per i più di 230 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni, Generazione Z con fame di futuro.
Il piano per 27 centrali a carbone
Sulla costa meridionale, a Udangudi nel Tamil Nadu, è in costruzione un nastro trasportatore che entra per un miglio nell’Oceano indiano e scaricherà dalle navi tonnellate e tonnellate di carbone per alimentare una centrale elettrica che servirà i 70 milioni di abitanti dello Stato per i prossimi 30 anni. Sono altre 27 le centrali a carbone in costruzione in India. Se il Paese vuole uscire dalla povertà, o almeno alleviarla, ha bisogno di energia. Per le case ma anche per il progetto “Make in India”, con il quale Modi punta a creare cento milioni di posti nell’industria manifatturiera. Ogni anno - ha calcolato l’ex ministro della Sanità Harsh Vardhan - nel mercato del lavoro entrano 12 milioni di giovani indiani. Occorre dare loro prospettive. Anche per questo e per l’immenso sforzo di trasformazione che deve compiere il Paese, l’abile diplomazia indiana ha imposto di cambiare, nella dichiarazione finale della Cop26, il termine «eliminazione» con «riduzione», riferito all’uso del carbone. Ed è per questo che Modi ha indicato l’obiettivo del 2070, e non del 2050, per la neutralità nelle emissioni di gas serra. Muovere l’intera India è impresa colossale e lenta. A Kongthong, sono certi che ancora nel 2070 chiameranno i bimbi con il loro fischio personale.
© Corriere della Sera RIPRODUZIONE RISERVATA
Riprendiamo da Avvenire del 24/1/2022 un’intervista al vescovo Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell'Anatolia, in Turchia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Islam: la questione della libertà religiosa.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Il vescovo Paolo Bizzeti
con alcuni neo-battezzati in Turchia
Versa l’acqua sulle loro teste e li unge con l’olio. Il vescovo Paolo Bizzeti battezza gli «adulti fuggiti in Turchia a causa della fede in Gesù», come lui stesso racconta. Sono profughi cristiani dell’Iran che hanno trovato “casa” nel sud del Paese, nelle terre che rientrano nel vicariato apostolico dell’Anatolia. Esteso su un’area che equivale a quella della Germania, ha come sede la città di Iskenderun che in italiano mutua il nome dal greco diventando Alessandretta.
Per cinque anni il vicariato apostolico è rimasto vacante dopo l’uccisione del vescovo Luigi Padovese, assassinato il 3 giugno 2010 dal suo autista al grido di Allahu Akbar («Allah è grande»). Fino al 2015 quando papa Francesco ha voluto come successore del “pastore del sorriso” il gesuita d’origine fiorentina. «Qui la Chiesa cattolica – racconta il vescovo 74enne – è costituita anzitutto da turchi e in tutte le nostre parrocchie abbiamo persone locali che si preparano a ricevere il Battesimo: piccolissimi numeri, ma ci sono. Quindi la situazione in Turchia è molto diversa da quella di altri Paesi vicini, grazie anche a una saggia politica che non ostacola le conversioni. Poi ci sono molti rifugiati cristiani: loro invece sono di fatto emarginati e spesso anche in modo pesante».
Si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio il secondo incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che porterà in Toscana i vescovi delle Chiese affacciate sul grande mare in rappresentanza di tre continenti (Europa, Asia e Africa). Al centro dell’incontro, ispirato alle intuizioni del "profeta di pace" Giorgio La Pira, il tema della cittadinanza letta alla luce della fraternità fra i popoli in un'area segnata da guerre, persecuzioni, emigrazioni, sperequazioni. Assieme ai vescovi, arriveranno a Firenze i sindaci delle città del Mediterraneo per un forum “parallelo”. Il doppio appuntamento sarà concluso da papa Francesco domenica 27 febbraio con la sua visita a Firenze
In una piccola teca della cappella all’interno dell’episcopio sono conservate la stola, un messale, la stilografica e un paio di occhiali appartenuti al presule “martire”. E nel vicariato apostolico dell’Anatolia è morto don Andrea Santoro, il fidei donum laziale ucciso in chiesa nel 2006. «La nostra – afferma Bizzeti riferendosi ai cristiani perseguitati o che hanno perso la vita – è una religione che oggi difende la libertà e il rispetto della coscienza altrui, come ci insegnano i Papi. Per questo non ha vita facile, come non hanno vita facile altre minoranze che credono negli stessi valori. È così in tutto il mondo». Il presule parteciperà all’Incontro dei vescovi del Mediterraneo che si terrà dal 23 al 27 febbraio nella sua città natale, Firenze, e che sarà concluso da papa Francesco. Un appuntamento ispirato alla profezia di pace di Giorgio La Pira che vedrà, accanto ai pastori in arrivo da venti nazioni del bacino, i sindaci delle città della regione.
Eccellenza, come valuta questo appuntamento “doppio”?
L’idea di fare incontrare vescovi e sindaci è significativa perché finalmente si va oltre la divisione tra vita civile e vita ecclesiale. Una separazione che, se da una parte, è stata utile per garantire l’autonomia ad ambedue le realtà, dall’altra parte, sui lunghi tempi, è negativa in quanto ciascuno finisce per coltivare il proprio punto di vista senza aprirsi al confronto. In Occidente è prevalsa una visione liberale di Chiesa e di Stato che procedono paralleli a scapito del bene comune, mentre in alcuni Paesi del Medio Oriente sopravvive, anzi si accentua, un uso strumentale della fede che non contempla il fatto che tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti, non solo quelli della religione maggioritaria. Le due visioni non accettano la complessità di una società multireligiosa e la vera uguaglianza tra le esigenze di tutti. Aggiungo che le autorità civili devono confrontarsi con le domande spirituali della gente; e le autorità religiose sono chiamate ad avere uno sguardo ampio che non miri solo alla difesa dei diritti per i loro fedeli. Il bene comune, se è tale, deve comporre le istanze di una società multiculturale, multietnica e multireligiosa. Perciò condanno una politica laicista che ignora Dio e una politica che fa leva su Dio solo per perseguire i suoi interessi.
In Turchia la Chiesa cattolica è piccolissima. Nel 1914 i cristiani erano il 20%; oggi lo 0,2%. C’è il rischio che i luoghi della Chiesa delle origini non abbiano più una presenza cristiana?
Non è più un rischio, è una realtà di fatto. Dipende da molti fattori storici, tra cui una certa debolezza di quei cristiani che preferiscono fuggire anziché essere lievito. Come diceva il patriarca emerito latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, la vocazione a essere cristiano in Medio Oriente comprende il martirio nella vita ordinaria. Non mi spaventa però la piccolezza del numero, ma la scarsa formazione del clero e dei fedeli, così come la poca testimonianza evangelica. Anche da noi l’invito a essere Chiesa “in uscita” è quanto mai attuale e necessario. Nei primi secoli i cristiani erano pochi ma capaci di offrire modelli di vita fraterna e religiosa alternativa a quella pagana ed erano pieni di fervore nell’annunciare la novità del Vangelo.
A Firenze si parlerà della cittadinanza e del rapporto fra Chiesa, società e istituzioni politiche. C’è libertà religiosa in Turchia?
Rispondo con qualche domanda: si può parlare di libertà religiosa quando non si possono costruire una cappella, un centro giovanile, una scuola cattolica? Quando un cristiano non riceve il permesso di andare in un’altra città per celebrare il Natale o la Pasqua perché dove abita non ci sono né chiese né pastori?
Come il fattore religioso è sfruttato dalla politica turca?
Alla nascita della Repubblica nel 1923 vi erano circa 3mila moschee: una ogni 5mila abitanti. Oggi sono più di 80mila: una ogni mille residenti, di cui 11mila costruite negli ultimi undici anni. Il Diyanet, il ministero per gli Affari religiosi, ha un budget superiore a qualunque altro dicastero; controlla tutte le facoltà di teologia islamica i cui professori sono dipendenti del governo; nomina e stipendia gli imam del Paese; abbozza i sermoni del venerdì che vengono scritti dai funzionari del ministero. All’inizio del governo Akp, che ha come leader Erdogan, il 2% dei giovani frequentava le Imam hatip, le scuole di formazione del “buon musulmano”; nel 2017 erano il 10%; oggi si stima che la percentuale sia raddoppiata.
Il Documento di Abu Dhabi è un richiamo alla fratellanza universale, oltre le appartenenze religiose. Come costruire un rapporto “cordiale” con il mondo islamico?
Qui l’islam è moderato rispetto a certi Paesi arabi o di lingua farsi. E grazie alla bontà e alla gentilezza del popolo turco ci sono buoni rapporti. Credo molto nell’incontro e nella conoscenza dal basso che permette di cancellare stereotipi e falsità di cui sono pieni anche alcuni libri scolastici. L’amicizia e la frequentazione cordiale, la comune battaglia contro un liberismo economico disumano, la ricerca della pace e la custodia del Creato sono mattoni per costruire insieme un futuro nuovo.
Resta ancora aperta la ferita del genocidio degli armeni.
Il governo turco sta cercando nuovi rapporti con l’Armenia. Se si riaprono le frontiere, è probabile che si faccia un bel passo in avanti.
Il Paese ha accolto oltre tre milioni di profughi. Però l’Europa ha “pagato” il governo per fermarli.
La Turchia è stata molto generosa nell’accoglienza, anche se oggi la vita dei rifugiati è davvero difficile. Ma bisogna distinguere tra le provenienze. I siriani hanno diverse possibilità su cui invece non possono contare gli iracheni, gli afghani o gli iraniani. L’Europa purtroppo non è capace di affrontare questa catastrofe in modo lucido, corretto, umanamente credibile.
Come si vive l’emergenza coronavirus?
Il Paese sta affrontando la pandemia con efficienza anche per le vaccinazioni. Non ci sono state contestazioni e la gente è attenta al bene comune. Tuttavia la crisi economica connessa al Covid ha fatto aumentare anche qui le disuguaglianze.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Adulti e catechesi.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Quanta fatica per giungere ad essere ciò che si è. Per giungere a sapere e a saper raccontare ad altri ciò che si sa. Quanto tempo per giungere ad avere le amicizie che si hanno. Quanto tempo per costruire quella rete di relazioni di affetto che sono la tua vita.
E qualcuno vorrebbe ritornare indietro per rifare tutta la fatica che ha già fatto? Per ricominciare da zero a leggere e a studiare, ad incontrare ed approfondire rapporti? Per generare vita ed educare? Per tirar su persone?
E qualcuno vorrebbe ricominciare da zero con alzatacce e con notti insonni appresso a questo o a quello?
No, la fatica che è stata fatta è stata fatta. Sarebbe terribile doverla ripetere. Sia tornando giovani, sia reincarnandosi.
Grazie a Dio, quel che è stato fatto è stato fatto.
E se anche qualcosa non è stato fatto come doveva essere fatto – ed è chiaro che c’è anche questo nella vita, se si è consapevoli di ciò che si è – non per questo avrebbe senso tornare indietro per correggere quegli aspetti e, al contempo, ripartire da zero.
Ecco, resettare, per fortuna, è interdetto. La fatica è stata fatta ed ora si deve godere di averlo fatto.
Al futuro Dio provvederà. Ad ogni giorno basta la sua pena.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Importante è l’attenzione al catecumenato e a coloro che chiedono da adulti il Battesimo.
Ma questo è solo uno degli aspetti della crescita della Chiesa e del suo accrescimento.
L’altro, almeno altrettanto importante, è quello della generazione di nuove famiglie.
Se in una comunità giovanile c’è un tot di giovani, non appena essi si fidanzano e poi si sposano con ragazzi e ragazze esterne alla comunità, ecco che il numero dei fratelli e delle sorelle raddoppia.
E certo è che ai membri della comunità spetta poi il compito di avvicinare al Signore i loro fidanzati (e proprio il catecumenato attesta che un’alta percentuale dei nuovi battezzati si avvicina alla Chiesa a motivo del fidanzato o della fidanzata credente).
Se c’è un gruppo di quaranta giovani, se essi si fidanzano con i loro compagni delle superiori o dell’università, ecco che diventano ottanta!
Ma la crescita della comunità è data poi dalla generazione dei figli. Se ogni coppia genera due bambini, ecco che la comunità matura del doppio. Se poi se ne generano quattro - come potrebbe essere e forse dovrebbe anche essere -, ecco che la crescita è enorme (e proprio il catecumenato attesta che un’alta percentuale dei nuovi battezzati si avvicina alla Chiesa a motivo della nascita di un figlio).
La vera causa della debolezza e della stasi delle nostre comunità è data dalla mancanza della maturazione di nuove famiglie e dall’assenza di nuovi bambini.
Ma questo è il motivo della stasi non solo delle nostre comunità, ma ancor più della società intera. È l’Italia intera a non essere viva, prima delle singole comunità. È nella cultura del paese la stanchezza e l’assenza di una prospettiva di “lunga vita”, che sarebbe invece data dall’accrescersi delle famiglie, che creerebbe il clima continuo della festa e della novità.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Il vangelo di Luca donato alle messe domenicali in occasione
della Domenica della Parola, insieme alle indicazioni
sul Vangelo domenica per domenica,
nella parrocchia di San Tommaso Moro in Roma
In tempi di Covid sono cessati i pranzi e le cene che caratterizzano la vita degli uomini, ad eccezione di uno, la mensa eucaristica.
Se molti pastoralisti – quando non sono parroci – continuano a ripetere che le parrocchie sono l’istituzione ecclesiale maggiormente in crisi, è vero esattamente il contrario.
Nel crollo di qualsivoglia istituzione – si pensi al dramma che sta vivendo la scuola con una perdita di attenzione degli studenti che difficilmente sarà recuperata negli anni della loro formazione ulteriore, ma anche alla fatica delle istituzioni sportive, alla stasi del turismo e alle difficoltà dell’industria culturale in genere – la parrocchia è là, forte proprio del suo stare là.
Certo tanti hanno timore ad uscire di casa e le attività rivolte ai più giovani sono state ulteriormente rallentate, ma la parrocchia sta là proprio nella sua capacità di sostenere la formazione di base, di donare ogni domenica il pane della Parola, e quindi della sapienza, e quello dell’eucarestia, e quindi della presenza viva del Signore per la vita laicale.
Dove le messe sono curate, lì le parrocchie non hanno smesso di fiorire.
La parrocchia sta lì nel sostenere le famiglie nell’educazione dei figli, tramite la catechesi, oggi quasi ovunque spostata alla domenica dopo la messa, con sapienza, a causa della pandemia, in maniera da incontrarsi al mattino e non nel freddo del pomeriggio, per poter sfruttare gli spazi all’aperto.
Questo dovrebbe segnalare una teologia pastorale accorta e attenta ai segni dei tempi e non tesa a ripetere ciò che già riteneva di aver capito prima della pandemia: no, la pandemia sta fornendo segni differenti che debbono essere ascoltati. Se prima a qualcuno poteva sembrare che la parrocchia fosse la reatà più in crisi, oggi ci accorgiamo che, nell’emergenza, è l’unica cosa che funziona e resiste, mentre tante altre ipotesi sono tramontate e vengono lasciate derelitte.
La parrocchia è là, mentre tante altre strutture ecclesiastiche sono incerte e indebolite dalla mancanza di libertà di azione dovuta alle diverse restrizioni anti-pandemiche.
La parrocchia sta là, lì si “cena” insieme nell’eucarestia, lì ci si nutre, lì si ascolta la Parola, lì si celebra e ci si incontra, lì vengono accolti coloro che si avvicinano al Signore
La parrocchia regge in un mondo che crolla e nessuno se ne accorge.
La parrocchia funziona in situazioni di emergenza! E forse l’emergenza non è l’eccezione, ma la regola.
1/ Le violenze di Capodanno a Milano uguali a quelle di Colonia. Così ora la Germania previene gli abusi. Nella città tedesca nel 2016 furono aggredite 662 donne in piazza Duomo: da allora leggi più dure, nuove tattiche di polizia e programmi di integrazione, di Elena Tebano
Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo di Elena Tebano pubblicato il 14/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Le nuove schiavitù e La crisi dell’Islam odierno.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
(Epa)
Le aggressioni di Capodanno a Milano sembrano il calco di quelle avvenute sei anni prima 800 chilometri più a nord, in un’altra piazza Duomo: a Colonia. Solo le dimensioni non sono paragonabili: nella città tedesca, la notte tra il 2015 e il 2016, furono colpite 662 donne. Molestate, palpeggiate e derubate da gruppi di aggressori per lo più magrebini, che le avevano prese di mira «protetti» da una folla di circa mille giovani uomini di origine nordafricana e mediorientale, radunati a bere e festeggiare nella piazza che divide il Duomo dalla principale stazione della città.
Le molestie di massa aprirono un dibattito di mesi sulle politiche di asilo (l’allora cancelliera Angela Merkel aveva aperto le porte a un milione di siriani in fuga dalla guerra) e sull’integrazione dei migranti musulmani, oltre ad assicurare un aumento di consensi senza precedenti al partito xenofobo di estrema destra AfD. Hanno portato anche a importanti cambiamenti nelle politiche di sicurezza e integrazione della Germania.
Primo fra tutti quello che riguarda i crimini sessuali. Fino al 2016 le molestie sessuali non erano un reato penale nel diritto tedesco. E lo stupro era perseguibile solo se la vittima dimostrava di essersi difesa fisicamente. Le proposte di modifica del codice erano sempre finite nel nulla. Anche per questo le indagini sui fatti di Colonia hanno avuto conseguenze giudiziarie ridicole: dei 290 indagati per le aggressioni solo 36 sono stati condannati per furto e due per violenze sessuali. Nel novembre 2016 il Parlamento ha finalmente cambiato la legge: ora le molestie sono un reato punibile con il carcere fino a due anni se commesse da singoli e fino a 5 anni se perpetuate da più persone; il codice prevede che tutti i presenti in un gruppo siano perseguibili per le molestie compiute da ogni individuo che ne fa parte e un’aggressione sessuale è stupro anche se la vittima non si difende attivamente.
Le inchieste di polizia su Colonia hanno prodotto anche una revisione della strategia delle forze dell’ordine per gli eventi di massa. «Da allora si fanno molti più controlli preventivi, già sui treni regionali in arrivo nelle grandi città. E si evitano gli assembramenti e gli ingorghi di persone per impedire che si formino folle incontrollate» dice Michael Kiefer, professore dell’Università di Osnabrück che studia l’immigrazione e le politiche sociali. Per il Capodanno 2017 solo a Colonia c’erano 2.100 agenti.
«Il cambiamento più importante però riguarda le politiche nei confronti del gruppo sociale a cui apparteneva la maggioranza degli aggressori di Colonia. Si trattava per lo più di giovani magrebini in condizioni di abbrutimento: persone che non avevano mai lavorato, senza fissa dimora, che vivevano di espedienti e microcriminalità e si spostavano da una città all’altra dell’Europa. Si è intervenuti su questi gruppi sociali con politiche di integrazione, formazione e avviamento al lavoro per inserirle in una vita “borghese” regolare. Ha funzionato: negli anni passati ci sono stati solo episodi sporadici in cui erano coinvolti richiedenti asilo» spiega Kiefer.
«Nell’ultimo periodo però si è registrato anche qui nella Renania Settentrionale-Vestfalia un aumento delle violenze del fine settimana nelle città, con risse e accoltellamenti. È una conseguenza della pandemia di Covid: l’espressione della frustrazione accumulata da giovani sbandati, non solo di origine straniera, che hanno visto ridotte le loro occasioni di aggregazione. In questo senso non mi stupisce che alcuni degli aggressori di Milano siano venuti da Torino o da “fuori”: cercavano un diversivo».
© Corriere della Sera Riproduzione riservata
2/ Violenze a capodanno a Milano: "In piazza Duomo è stato Taharrush Jama’i". L’antropologa Maryan Ismail: ragazze isolate e accerchiate da tre gruppi stretti, tecnica esplosa nel 2011 in Egitto e appresa sul web, di Marianna Vazzana
Riprendiamo da Il Giorno un articolo Marianna Vazzana pubblicato il 14/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Le nuove schiavitù e La crisi dell’Islam odierno.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Milano - Taharrush Jama’i in arabo significa assalti e aggressioni sessuali. Una pratica odiosa messa in atto da uomini in branco che violentano donne in strada. Che sia proprio questo, il fenomeno avvenuto in piazza Duomo a Milano la notte di Capodanno lo spiega Maryan Ismail, originaria della Somalia, in Italia da oltre 40 anni (di cui 30 a Milano), docente di Antropologia dell’immigrazione in vari istituti e presidente della neonata associazione Unione islamica italiana.
Ha analizzato i fatti in un lungo post su Facebook che in due giorni è stato condiviso quasi 1.500 volte.
L’antropologa Maryan Ismail
Perché pensa che si tratti proprio di Taharrush Jama’i, quel che è accaduto a Milano?
"Perché la strategia messa in atto è proprio quella. Le vittime, come in altri casi precedenti, sono state isolate e assalite con azioni precise. Gli aggressori formano tre cerchi stretti: il primo è quello che violenta fisicamente la ragazza, il secondo cerchio filma, fotografa e guarda lo spettacolo, mentre il terzo distrae la folla. Uno o due maschi del primo cerchio si fingono ‘protettori e salvatori’ e rassicurano la vittima convincendola che sono lì per aiutarla. Nel video con le ragazze tedesche si notano due giovani che sembra vogliano spingerle fuori dalle transenne, ma in realtà partecipano alla violenza. La tecnica di protezione ha lo scopo di disorientare la ragazza e di spezzarne la resistenza perché così non sa più di chi fidarsi. Patisce quindi anche un ulteriore e drammatico supplizio di tipo psicologico. La vittima viene palpeggiata, svestita, percossa, morsa, subisce penetrazioni digitali o di corpi estranei e, se c’è abbastanza tempo, violenza sessuale vera e propria".
I presunti aggressori di Milano come avrebbero appreso questa pratica?
"Indubbiamente dal web. Non è un caso che i video a riguardo circolino sui social di lingua araba. I presunti aggressori indagati sono giovani e giovanissimi stranieri o italiani con genitori di origine nordafricana. Qualora fossero responsabili, non dovranno avere attenuanti culturali, ma essere giudicati per violenza sessuale di gruppo".
Nel mondo arabo da quanto tempo si è affacciata questa pratica?
"Da moltissimi anni, anche se il fenomeno è esploso in Egitto nel 2011 durante la caduta di Mubarak ed è stato ben documentato dalla giornalista della Cbs Lara Logan, vittima di un assalto in piazza Tahrir. Le donne hanno iniziato a rispondere, a non accettare in maniera passiva le violenze. Si è anche appurato che velo e abito tradizionale non tutelano, e neppure la religione di appartenenza: le donne vengono colpite in quanto tali (anche bambine e anziane, si va dai 7 ai 70 anni). Alla base c’è la volontà di dominio. Ciascuna di noi avrebbe potuto finire in quella trappola: poteva esserci mia figlia o le sue amiche, potevo esserci io. In Egitto, in Marocco, in Pakistan, in Indonesia e non solo sono state promulgate leggi specifiche contro questo fenomeno, che poi abbiamo visto accadere a Colonia (a gennaio del 2016, ndr) e ora pure nella nostra Milano. Bisogna intervenire al più presto".
Come?
"Dobbiamo unirci, tutte noi persone perbene: italiani e stranieri, di qualunque religione e idea politica, mettendo da parte le ideologie. Bisogna promuovere un urgente e serio programma d’intervento nelle periferie, nelle scuole, nelle parrocchie, nei centri di aggregazione e non solo. I ragazzi devono capire che le donne non sono oggetti, ma sono le loro sorelle, le loro madri, fidanzate e mogli. Sono l’altra parte di sé. E si integri anche la legge del Codice rosso a tutela delle vittime".
© Il Giorno Riproduzione riservata
3/ Violenze di Capodanno a Milano, il diario della notte di terrore: «In 50 ci hanno accerchiate strappandoci anche i vestiti», di Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella
Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo di Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella pubblicato il 13/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Le nuove schiavitù e La crisi dell’Islam odierno.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
«Tutto intorno era uno schifo, c’erano molti ragazzi e chiunque passasse si prendeva la libertà di mettere le mani addosso». Piazza Duomo, la mezzanotte è passata da una manciata di minuti. Nella calca del Capodanno, tra il sagrato e l’ingresso della Galleria, ci sono gruppi di ragazzi che si muovono velocemente. Spingono. Si avvicinano alle ragazze che festeggiano il nuovo anno, le toccano, infilano le mani sotto ai vestiti. A una sfilano il cellulare da una tasca. Un «branco» di cui, secondo gli investigatori, facevano parte anche il «torinese» Abdallah Bouguedra, 21 anni, e il «milanese» Abdelrahman Ahmed Mahmoud Ibrahim, 18 anni, fermati per rapina, violenza sessuale e lesioni.
In piazza ci sono due amiche di 19 anni. Vengono «agganciate» da «quattro o cinque ragazzi» nordafricani arrivati da Torino. Tra loro, secondo le indagini, c’è Bouguedra: ha i capelli tinti di biondo e un giubbotto rosso. «Non se ne andavano, volevano con insistenza il nostro numero di cellulare». Alla fine una delle vittime, nel tentativo di allontanarli, «fornisce il proprio profilo Instagram». Ma il gruppo non si ferma. «Abbiamo chiesto di essere lasciate in pace». Le giovani vengono circondate e aggredite. «I ragazzi molesti continuavano a trattenerci per le spalle, come per accompagnarci contro il nostro volere».
Sono attimi di terrore: «Siamo state travolte da 40/50 ragazzi, dai 16 ai 25 anni, ci hanno toccate. Ci spingevano e ci passavano da un ragazzo all’altro». Un amico vede la scena e cerca di difenderle, nel tentativo si romperà il dito di una mano. Riesce a «strappare» solo una delle due ragazze. «Ho urlato cercando la mia amica, sono salita su un muretto per individuarla ma l’ho persa di vista — ricostruisce la vittima con i magistrati —. Nel mentre sono arrivate le forze dell’ordine con scudi e manganelli. La massa di aggressori si è dileguata».
L’amica però viene brutalmente aggredita, trascinata «sollevandola da terra». «Era lì che cercava di coprirsi con il giubbino, non aveva più indumenti addosso, rannicchiata per terra piena di lividi, i pantaloni abbassati alle caviglie, è stata soccorsa da un operatore delle forze dell’ordine che l’ha aiutata a rialzarsi. Poi da un’ambulanza». Alla clinica Mangiagalli le riscontreranno ecchimosi e lesioni che documentano la violenza subita. Grazie alle testimonianze delle amiche, ai filmati amatoriali e della Scientifica, gli investigatori della polizia identificheranno nel gruppo dei violentatori anche il «milanese» Ibrahim. Ha un giubbotto verde e la felpa con il cappuccio giallo.
Mezz’ora dopo lo stesso ragazzo ricompare nell’aggressione di quattro amiche arrivate in piazza dopo aver cenato in un ristorante del centro. La dinamica è identica. «Stavamo andando in Galleria dai nostri amici. È arrivato un ragazzo basso con un piumino verde. Ha preso di mira una nostra amica, lei ha cercato di allontanarlo». Anche in questo caso arrivano subito altri giovani: «Ho sentito una mano che mi toccava, mi sono girata sconvolta e gli ho urlato: “Che ca... fai?”. Lui però s’è messo a ridere insieme agli amici». Pochi secondi e la giovane «viene travolta da un’ondata di uomini che la palpeggiano violentemente, al punto da romperle i collant».
Un uomo la aiuta a rialzarsi, lei si accorge che le manca la borsetta. A quel punto arrivano due ragazzi con accento nordafricano: «Vado a trovarti la borsa». Uno torna a mani vuote prima di allontanarsi ancora: «Ho avuto l’impressione che lui fosse il capo del branco».
© Corriere della Sera Riproduzione riservata
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione all’affettività.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
La questione della pedofilia viene agitata sempre e solo contro la chiesa cattolica, quasi che solo taluni suoi membri l’abbiano praticata, mentre, come è evidente a qualsiasi analista serio della questione, non ci sono più casi nel clero di quanti ce ne siano fra atei, laici, miscredenti, ministri di altre confessioni cristiane non cattoliche, membri di altre religioni e via dicendo[1].
Ma ci sono altre due questioni nascoste, spesso sottaciute, che non emergono perché si guarda solo alla punta dell’iceberg, mentre esse sono lì, intoccate e, per certi aspetti, intoccabili. Mentre si affrontano giustamente i casi con opportuni e severi processi, è contemporaneamente necessario riflettere su tali due questioni per elaborare linee adeguate che permettano non solo la repressione di coloro che si sono macchiati di tali crimini, ma per elaborare anche una linea adeguata per un’educazione ad una sessualità matura nel futuro.
1/ La questione culturale
La prima questione è culturale e, anche se forse è la seconda che sarà enunciata a breve ad essere più importante, questa prima la condiziona in maniera chiara.
Dinanzi alla pedofilia, nessuno vuole mettere in questione il principio della assoluta libertà sessuale che, invece, deve essere problematizzato proprio perché esiste la pedofilia!
Il mondo dei bambini e degli adolescenti non deve essere erotizzato. Essi hanno diritto ad essere tenuti fuori dagli adulti, essi hanno diritto alla riservatezza, al pudore.
Tale evidenza è stata scardinata dalla “rivoluzione sessuale”, preparata con scritti antecedenti, ma esplosa nel ’68 [2].
Se si leggono gli scritti di Mario Mieli, uno dei leader del movimento omosessuale di quegli anni, appare evidente come egli, dalla rivoluzione sessuale che leggeva ogni divieto in campo sessuale come un’imposizione culturale borghese sulla libertà deduceva che la pedofilia era da affermare con decisione e da proclamare come buona – e non solo la difendeva, ma anche la praticava.
Se si guarda ad un libro simbolo, anche se solo per l’Italia di quegli anni, Porci con le ali[3], scritto da due intellettuali che, con tutta la loro generazione hanno gravi responsabilità in merito – ci si accorge come lì sia proposto come “ovvio”, come “non giudicabile” l’atto di un adulto che masturba un minorenne del suo stesso sesso (i due ragazzi, Rocco e Antonio protagonisti del libro hanno sedici anni).
Ma, ben al di à di tali casi presenti nella memoria di tutti, è l’insieme del mondo pedagogico e culturale di allora che convinse che fosse normale che un minorenne non solo potesse, ma anzi dovesse avere rapporti sessuali sia etero che omosessuali come bagaglio di esperienze necessarie per la sua maturità.
Più che i libri sono stati importanti i film e le canzoni, così come i comportamenti dei personaggi del jet set. Si pensi non solo alle versioni italiana dello stesso Porci con le ali di Pietrangeli, ma ancor più a Lolita (scritto da Nabokov nel 1955, poi trasformato più volte in film) o ancora ad alcuni personaggi interpretati da Ornella Muti e da altri attrici scelte proprio perché identificabili con ragazze di giovanissima età, si pensi al proliferare incontrastato della pornografia che ha lanciato il massaggio che qualsiasi rapporto sessuale è lecito, basta che lo si voglia.
Si pensi al ricchissimo filone di film cosiddetti pornosoft o addirittura di film travestiti da inchieste sul comportamento sessuale dei giovani, dove tardone fanno scoprire ad adolescenti i piaceri del sesso, o lo fanno maschi con autorità, ad esempio professori, verso studentesse adolescenti o lo fanno adulti con ragazzi in chiave omosessuale, il tutto presentato come la “dolce” scoperta del sesso.
Ma si pensi anche al mondo reale dove, grazie al movimento #metoo, sono emerse all’attenzione esperienze in realtà già a tutti note e cioè che nel mondo del cinema, della televisione, del teatro, della comunicazione, il sesso è merce di scambio e quasi qualsiasi giovane attrice o attore è stato invitato, ancora adolescente o nei primi anni della sua carriera, ad offrire il proprio copro per poter entrare nel mercato della cultura dell’immagine o, peggio ancora, ha dovuto subire violenze fisiche[4]. Ovviamente se in tali ambienti il fenomeni è esplosivo, in misura minore, lo si ritrova anche nelle carriere culturali, addirittura il quelle accademiche, dove l’essere disponibili è un’arma in più dinanzi a chi detiene il potere e lo utilizza anche in chiave erotica e non solo partitica.
Si pensi, in tempi più recenti all’idea portata avanti da diversi agenti culturali che un bambino possa essere accompagnato a cambiare sesso fin da piccolissimo, addirittura prima dei dieci anni, perché la sessualità deve essere vissuta in piena “libertà”, senza che sia riconosciuta la necessità di una pazienza e i tempi lunghi dell’educazione che, invece, attestano come, soprattutto nell’adolescenza, si vivano pulsioni che poi saranno rinnegate dallo sviluppo successivo.
Oggi, poi, devastante è il materiale social e i video girati nella realtà che vengono scambiati con numeri impressionanti che fanno ben comprendere di quale ampiezza continui ad essere il fenomeno in tutte le nazioni del mondo, come i dati dell'associazione Meter continuano ad indicare e che sono in crescita, anno dopo anno.
Non esiste a tutt’oggi, un confronto maturo con tale visione che è stata propagandata come la visione liberale, libera, creativa, “radicale” (alla maniera del partito che allora portava tale nome) e che è ciò che ha sostenuto e incoraggiato culturalmente la visione pedofiliaca - una delle poche intellettuali contemporanee che si discosta apertamente dalla sedicente “rivoluzione sessuale “ è la sessuologa Thérèse Hargot che denuncia i danni prodotti da quella “rivoluzione sessuale”[5].
Si noti bene, con ciò non si intende ovviamente dire che sia la cultura sessantottina, o Reich e Marcuse, ad essere direttamente responsabili della pedofilia moderna perché essa è antica quanto il mondo e perché, come si vedrà nel paragrafo successivo, essa ha origini in disturbi profondi della psiche. Ma piuttosto indicare come tale cultura abbia formato una visione distorta del fenomeno, quasi che la pedofilia sia una scelta della persona, in tal modo modificabile a piacere con la forza di volontà.
Certo, ha pesato anche nei modi di affrontare la questione, in tutti gli ambienti religiosi o laici in cui essa è stata perpetrata, l’idea che le questioni scandalose andassero trattate con assoluta riservatezza, atteggiamento che era tipico di quei decenni, ma la visione culturale del tempo che riduceva ogni atteggiamento sessuale alla semplice libertà della persona accrebbe la convinzione che la presa di coscienza delle persone potessero portarle a trasformarsi facilmente e liberamente e nuovi ambienti avrebbero favorito la trasformazione delle persone.
2/ La questione psicotica
Dietro tale copertura culturale, dietro tale apprezzamento della libertà sessuale da inculcare sempre e comunque, a partire dalla primissima infanzia con l’invito agli adulti a farsi “educatori” della libertà sessuale, con approcci a bambini ed adolescenti, perché essi potessero essere “aiutati” nel loro percorso di liberazione, è stata celata l’altra grande questione, che è invece di tipo psicologico[6].
Per promuovere, senza esclusione di colpi, la libertà sessuale tout court è stato tenuto sotto silenzio che la pedofilia è un disturbo psicotico. La pedofilia non nasce in adulti dotati di grande libertà culturale e di ampiezze di visione liberiste, desiderosi di rompere i tabù sessuali della società, ma si radica in personalità che hanno subito danni a motivo di sofferenze inflittegli in età precoci.
Il termine psicosi indica proprio un disturbo di personalità radicato e non facilmente eliminabile, che è evidente già solo dalla serialità della persona pedofilia che compie gli stessi atti con un numero molto ampio di minorenni in sequenza, senza mai maturare alcun vero amore.
È ciò che in analisi viene chiamata “compulsività”, cioè incapacità di controllarsi, ripetendo lo stesso gesto in maniera seriale.
La pedofilia, pur essendo ancora chiaramente descritta nei manuali psicologici degli anni sessanta come piscosi grave e guaribile solo tramite trattamenti profondi della psiche, è stata spesso, invece, trattata come un disturbo semplicemente morale, quasi che la persona, dopo un opportuno tempo di meditazione e di ripensamento, fosse in grado di venirne fuori.
Si noti che questo non scusa responsabili di chiese o di partito o di società sportive o ministri di altre religioni o intellettuali di sinistra o di destra, ma certo aiuta a comprendere come negli anni sessanta, a torto, in ambienti trasversali e di diversissimo orientamento, si riteneva che la pedofilia, una volta scoperta, potesse essere superata se la persona si fosse vergognata, avesse fatto mea culpa, quasi che fosse possibile trasformare tale tendenza psicotica in maniera molto semplice.
La pedofilia era trattata allora quasi come una questione morale: il pedofilo era una persona che provava dei desideri immorali e bastava che se ne accorgesse, se credente si confessasse, se non credente ammettesse la propria colpa e la propria disponibilità a cambiare, e la questione sarebbe stata risolta.
Solo questo atteggiamento che interpretava il fenomeno come morale e non come psicotico spiega fino in fondo – oltre ovviamente alle colpe delle diverse autorità istituzionali addette al controllo[7] -, perché in diocesi, istituzioni educative laiche, nel mondo della carta stampata o della TV, nel mondo dello sport o dell’arbitraggio, si sia attuato talvolta il procedimento gravemente dello spostamento e non quello corretto dell’espulsione (o prima ancora dell’invio in comunità terapeutiche che, a quel tempo, esistevano solo in misura molto ridotta).
Ovviamente tale modo di affrontare i diversi casi come casi “morali” era sostenuto indirettamente della visione culturale che vedeva nella piena espressione di una presunta libertà sessuale un dogma indiscutibile, proponendo l’idea che tanto più una persona fosse disposta a provare qualsisia tipo di esperienza sessuale, tanto più dovesse essere considerato matura e capace di scelte successive sempre più libere.
Affrontare oggi apertamente le due questioni sopra elencate e denunciare con forza che la via della maturazione non è quella dell’assoluta libertà sessuale a qualunque costo, soprattutto nell’età della formazione che deve invece essere protetta da intrusione di adulti, e che la pedofilia è una psicosi grave che deve essere affrontata con terapie profonde tanto ha minato la personalità del soggetto (e, al contempo, riconoscere che essa non può essere l’unica piscosi nel comportamento sessuale dell’adulto, ma anzi che la sessualità può essere malata anche al di fuori della pedofilia) è decisivo.
La Chiesa deve compiere con assoluta urgenza e forza tale percorso di autocritica e di revisione, ma lo stesso debbono fare le altre confessioni cristiane, le altre religioni, il mondo laico, le culture di orientamento liberale e radical-liberista, poiché ognuno ha una responsabilità non solo diretta, ma ancor più culturale, su ciò che è avvenuto nel passato e continuerà ad averla se non costruirà un’adeguata interpretazione del fenomeno perché persone ed istituzioni possano affrontarlo.
La questione morale non è così eliminata[8], perché una persona che commette atti pedofili ha perlomeno la libertà di riconoscere che tali atti sono male e sentirsi obbligato in coscienza a rivolgersi ad una adeguata terapia. Una persona che commette atti pedofiliaci resta moralmente responsabile, ma la sua libertà morale deve portarla – e portare chi presiede l’organizzazione di cui quella persona fa parte, sia essa una diocesi, una scuola laica, un gruppo culturale, artistico, sportivo o di comunicazione – a rivolgersi ad una terapia adeguata, nel frattempo sospendendo qualsiasi attività che possa generare pericolo a minorenni.
Note al testo
[1] Cfr. su questo La pedofilia e gli abusi sessuali che toccano trasversalmente tutte le religioni e tutti gli agnosticismi e ateismi. 4 testimonianze e Le percentuali delle tipologie dei pedofili fornite da Telefono azzurro. Breve nota di Giovanni Amico.
[2] Cfr. su questo Il ’68 ha barattato la giustizia dei lavoratori e la dignità del lavoro con il “fai da te” sessuale, l’unico “diritto” rimasto a rappresentare oggi la bandiera del progresso, di Giovanni Amico.
[3] Marco Lombardo Radice - Lidia Ravera, Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, 1ª ed., Roma, Savelli, settembre 1976.
[4] Cfr. su questo Contro la violenza sulle donne: il marcio purtroppo anche nel mondo del cinema e del teatro, della cultura e dell’informazione e la vergogna del silenzio sulla pornografia, di Andrea Lonardo.
[5] Cfr., ad esempio Oggi la pornografia costruisce l’immaginario della sessualità a partire dai 9 anni di età. Video di un dibattito con Thérèse Hargot, Grégory Dorcel, HPG, Jean Paul Brighelli, Julia Palombe e «La rivoluzione sessuale non ci ha liberati, la chiesa sì. parola di femminista». Un’intervista a Thérèse Hargot di Antonio Sanfrancesco. Dal punto di vista psicoanalitico, decisivi per una comprensione di cosa sia la maturità sessuale sono gli apporti di Franco Fornari e Leonardo Ancona sui quali cfr. Dal fallico al genitale, in prospettiva freudiana (da Franco Fornari, Genitalità e cultura) e Dal fallico al genitale, in prospettiva freudiana (da Leonardo Ancona, La psicoanalisi).
[6] Cfr. su questo Che cos’è la pedofilia?, di Giovanni Amico.
[7] Sulla questione della giustamente invocata “tolleranza zero”, cfr. Pedofilia: implicazioni e presupposti della “tolleranza zero”. Un tornante non solo legislativo, ma ancor più e prima un segnale di capovolgimento di impostazioni psicologiche ormai superate, di Giovanni Amico.
[8] Anzi qui si ripropone, a ragione, il concetto di intrinsece malum che era stato, a torto, estromesso da taluni teologi. Cfr. su questo L’ex -pontefice propone, da teologo, alcune considerazioni sull’intrinsece malum, sulla visione della sessualità caratteristica degli ultimi decenni e sul legame fra fede e celibato, di Giovanni Amico.
Riprendiamo da Romasette del 12/1/2022 un articolo di Roberto Contu. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Genitori e figli.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Mi hanno chiesto di scrivere di paternità per una rivista. Bloccato al tavolo alla ricerca di qualche idea, mi sono ritrovato a pensare a una delle ultime lezioni prima della sosta natalizia. Ero entrato in classe per spiegare il passaggio dall’Ottocento al Novecento alla mia quinta, e ho iniziato a riempire la lavagna.
A un certo punto ho scritto: «Questione del padre», sottolineando due volte. Poi ho fatto aprire il manuale, ho letto qualche riga dalla Lettera al padre di Kafka: «A volte immagino la carta della terra spiegata e tu sopra, disteso di traverso. Ed è come se, per la mia vita, potessi prendere in considerazione solo le zone che tu non copri o che sono fuori dalla tua portata».
Mentre scandivo le parole di Kafka, ho percepito quel silenzio che solo gli insegnanti sanno. Mi sono fermato, ho smesso di leggere: «Non so ragazzi, ma a me pare che queste parole dicano molto, molto di complicato, di doloroso ma di realistico, su come ognuno di noi abbia spesso un conto da regolare con la propria figura paterna». I ragazzi e le ragazze non hanno risposto ma mi hanno guardato, in molti annuendo.
All’inizio dell’anno, nella stessa classe, avevamo discusso su una delle letture estive che avevo assegnato: La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino. Il romanzo racconta l’esperienza di un militante comunista che durante le elezioni del 1953 è chiamato a fare da scrutatore al Cottolengo, per vigilare affinché i religiosi non incassino voti indebiti per la Dc da soggetti incapaci di intendere.
A un certo punto il protagonista, Amerigo Ormea, ha modo di entrare nei cameroni, i degenti gli si mostrano in tutto il loro aspetto deforme e disturbante («fino a dove un essere umano può dirsi umano? Si chiedeva Amerigo»), ma viene fortemente colpito dalla scena di un padre dallo sguardo «socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori», che schiaccia pazientemente le mandorle per il figlio demente che con «occhio animale e disarmato» gli sta di fronte. La scena del padre e del figlio, l’impatto violento con una dimensione dell’umano che suscita l’interrogativo su un suo possibile confine, disarmano le convinzioni ideologiche di Amerigo Ormea, che deve abbandonarsi alla domanda ben più universale sul senso stesso dell’amore.
Con in mente le suggestioni del Kafka appena letto, ho ricordato alla classe quella pagina di Calvino: «Anche quello, di fatto, è un padre. Ama incondizionatamente, semplicemente, in modo potremmo dire primordiale, suo figlio che non è capace di intendere. Quella stessa figura paterna che Kafka, così come Saba, definisce il proprio “assassino” può essere un monumento all’amore, tanto da mettere in crisi un militante come Amerigo Ormea. Dove è allora la verità? E quale è dunque il senso della figura paterna?».
Una ragazza ha alzato la mano e questa volta ha parlato, esplicitando quella che mi sono reso subito conto essere l’unica risposta possibile: «Nella figura paterna ci sono entrambe le dimensioni, professore. Quella dell’amore ma anche quella della guerra». Questa volta ho annuito io, ho pensato che quella ragazza aveva appena detto tutto quello che c’è da dire sulla paternità, e che di questo avrei scritto.
Riprendiamo da Avvenire del 15/1/2022 un articolo di Federica Napolitani e Enrico Alleva. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Università.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Cresce il fenomeno delle “riviste predatorie”. Garantiscono la diffusione a pagamento di articoli, anche di bassa qualità. È la conseguenza della pressione sugli studiosi a produrre senza sosta
Si sta affermando sempre più una strategia politica attenta ai costi e desiderosa di sottoporre a un’intraducibile accountability, un “rendere conto” del proprio operato professionale, il mondo dell'università e della ricerca, con un progressivo accanimento nel misurare i più tipici prodotti della attività scientifica: le pubblicazioni, prova provata prima cartacea e poi digitalizzata del lavoro eseguito e, per tanto, misurabile.
Il publish or perish (pubblica o muori), slogan ormai popolare tra i ricercatori statunitensi, è così diventato una realtà anche in Europa. Soprattutto per i più giovani, produrre messi di pubblicazioni è divenuto inderogabile. La conta e la valutazione delle pubblicazioni dei singoli ricercatori, la competizione tra gruppi di lavoro, dipartimenti o interi istituti, quando non università o enti, si è fatta ogni giorno più stringente. Nel 2006 sorge presso il Ministero per l’Università e la Ricerca, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e la Ricerca (ANVUR), sulla cui evoluzione (tra luci e ombre) i Lincei hanno promosso una riflessione importante negli scorsi mesi.
È nato in questo contesto anche l'Impact Factor, che misura l'impatto (a suon di citazioni bibliografiche) di una rivista scientifica, corretto oggi nel più gettonato indice di Hirsch, che misura invece l'impatto (letteralmente) “autorevole” del singolo autore e delle sue pubblicazioni nella comunità scientifica, basato sul numero di articoli pubblicati e il numero di citazioni di tali articoli da parte di altri studiosi.
Nel 1994 l'Università di Tor Vergata ha attribuito la laurea honoris causa in Medicina al linguista e imprenditore Eugene Garfield, cui va il merito, non da tutti però riconosciuto viste alcune attuali degenerazioni, di aver introdotto i cartacei Current Contents prima e il Web of Science poi, il quale, disponibile a pagamento, oggi rappresenta spesso per valutazioni, concorsi e premi nazionali il principale riferimento "meritocratico" del peso culturale delle pubblicazioni degli studiosi da valutare.
Su questo impianto e su quello fiorito attorno al movimento dell'open access (nato nel lontano 2001 per promuovere il libero accesso ai dati della ricerca, saggiamente considerati “bene comune”, come le pubblicazioni disponibili senza obbligo di pagamento alla rivista), si sono oggi inseriti i cosiddetti "predatory journals", cui riviste scientifiche del calibro di Nature stanno dedicando sempre più attenzione. Sono un fenomeno nuovo e molto pericoloso, in quanto manifesta la degenerazione di un sistema che di una sciocca, crudele e spiccia “meritocrazia della pubblicazione” ha fatto prima un vanto e poi una vera attività truffaldina a scopo di lucro. Si tratta di riviste che pubblicano a pagamento articoli scientifici senza alcuna, o con scarsissima valutazione della loro validità e bontà. Promettono pubblicazioni facili, numerose, e rapide, e grazie alla viralità della rete si stanno trasformando in un dannoso fenomeno esplosivo.
Che fare? Già si cominciano a diffondere “liste nere”, che indicano quali sono le “riviste-truffa” da cui guardarsi. Ma ogni giorno ne spuntano di nuove e furbescamente allettanti, oltre al proliferare di riviste solo mezze-truffaldine. Innanzitutto, e già alcune istituzioni si sono attivate, va spiegato con accuratezza e costanza ai giovani che si avvicinano al mestiere di ricercatore o docente quali siano queste trappole intese a spillare quattrini e che purtroppo in forma crescente inquinano e distorcono le giustificabili necessità di valutare le pubblicazioni, quegli scritti che rappresentano da secoli le principali credenziali curriculari e costruiscono l’autorevolezza di chi le firma. Si tratta di un'azione urgente, ne va del funzionamento complessivo del sistema della ricerca e dell'università.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
Abbiamo bisogno di indicazioni spirituali in tempo di Covid omicron e successive varianti e chi ne ha, le metta a disposizione degli altri.
Dal canto mio, io suggerisco queste.
1/ Prima indicazione in tempo di Covid: passeggiare ogni giorno in cui non piove per una mezz’ora, meditando, pregando se si riesce. Uscire di casa, per mezz’ora, senza fare sport, né attività, ma per il puro gusto di stare in silenzio e di lasciare che i pensieri affiorino, le decisioni si chiariscano, le idee maturino e si comprenda la volontà di Dio.
2/ Seconda indicazione: leggere, leggere anche libri non enormi quanto a pagine, ma decisivi, classici, importanti, necessari. Non leggere a caso, non come le serie Netflix, che le vedi solo perché qualcuno te le propina. No, libri che la storia ha “verificato” essere importanti e capaci di illuminare. Ogni mese almeno uno, per quanto breve.
3/ Terza indicazione: uscire per parlare con qualcuno, scelto o scelta, uscire per parlare a tu per tu, da cuore a cuore, per conoscersi e per sentire come si sta. Decidersi a stare con amici, anche solo per mezz’ora, per ascoltarsi e parlarsi.
4/ Quarta indicazione: uscire per la messa quotidiana. In tempi in cui lo spazio si restringe e talvolta anche le lezioni e il lavoro si fa smart e home, riunirsi, anche in pochi, con la comunità cristiana, per la celebrazione quotidiana, dove ci sia – meglio – una piccola omelia decente e un clima di raccoglimento. E fare la comunione, perché il Signore abiti il tempo della casa.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Filosofia contemporanea.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
Totalità e infinito[1] è una delle opere più importante di Emmanuel Lévinas. Silvano Petrosino la presenta in questo video spiegandone il titolo.
Totalità è la visione “totale” del mondo di cui ognuno ha bisogno per ordinare se stesso e le sue cose.
Finché la realtà “infinita” irrompe in tale totalità. Lévinas presenta l’infinito come una metafisica del reale, una metafisica del concreto, dove ognuno si trova dinanzi al “volto”, sia quello della moglie o del figlio, dell’amico o del migrante, o di Dio stesso., un “volto” dinanzi al quale vale il precetto “non uccidere”, il precetto che chiede alla totalità di accogliere tale infinito.
Straordinario è il modo con cui Petrosino spiega il titolo e il volume di Lévinas.
Note al testo
[1] E. Lévinas. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca, 2016; l’edizione originale è del 1961.
Riprendiamo sul nostro sito l’Angelus di papa Francesco del 26/12/2021, nella domenica della Santa Famiglia di Nazaret. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi festeggiamo la Santa Famiglia di Nazaret. Dio ha scelto una famiglia umile e semplice per venire in mezzo a noi. Contempliamo la bellezza di questo mistero, sottolineando anche due aspetti concreti per le nostre famiglie.
Il primo: la famiglia è la storia da cui proveniamo. Ognuno di noi ha la propria storia, nessuno è nato magicamente, con la bacchetta magica, ognuno di noi ha una storia e la famiglia è la storia da dove noi proveniamo. Il Vangelo della Liturgia odierna ci ricorda che anche Gesù è figlio di una storia familiare. Lo vediamo viaggiare a Gerusalemme con Maria e Giuseppe per la Pasqua; poi fa preoccupare la mamma e il papà, che non lo trovano; ritrovato, torna a casa con loro (cfr Lc 2,41-52).
È bello vedere Gesù inserito nella trama degli affetti familiari, che nasce e cresce nell’abbraccio e nelle preoccupazioni dei suoi. Questo è importante anche per noi: proveniamo da una storia intessuta di legami d’amore e la persona che siamo oggi non nasce tanto dai beni materiali di cui abbiamo usufruito, ma dall’amore che abbiamo ricevuto dall’amore nel seno della famiglia. Forse non siamo nati in una famiglia eccezionale e senza problemi, ma è la nostra storia - ognuno deve pensare: è la mia storia - , sono le nostre radici: se le tagliamo, la vita inaridisce! Dio non ci ha creati per essere condottieri solitari, ma per camminare insieme. Ringraziamolo e preghiamolo per le nostre famiglie. Dio ci pensa e ci vuole insieme: grati, uniti, capaci di custodire le radici. E dobbiamo pensare a questo, alla propria storia.
Il secondo aspetto: a essere famiglia si impara ogni giorno. Nel Vangelo vediamo che anche nella Santa Famiglia non va tutto bene: ci sono problemi inattesi, angosce, sofferenze. Non esiste la Santa Famiglia delle immaginette. Maria e Giuseppe perdono Gesù e angosciati lo cercano, per poi trovarlo dopo tre giorni. E quando, seduto tra i maestri del Tempio, risponde che deve occuparsi delle cose del Padre suo, non comprendono. Hanno bisogno di tempo per imparare a conoscere il loro figlio. Così anche per noi: ogni giorno, in famiglia, bisogna imparare ad ascoltarsi e capirsi, a camminare insieme, ad affrontare conflitti e difficoltà. È la sfida quotidiana, e si vince con il giusto atteggiamento, con le piccole attenzioni, con gesti semplici, curando i dettagli delle nostre relazioni. E anche questo, ci aiuta tanto parlare in famiglia, parlare a tavola, il dialogo tra i genitori e i figli, il dialogo tra i fratelli, ci aiuta a vivere questa radice familiare che viene dai nonni. Il dialogo con i nonni!
E come si fa questo? Guardiamo a Maria, che nel Vangelo di oggi dice a Gesù: «Tuo padre e io ti cercavamo» (v. 48). Tuo padre e io, non dice io e tuo padre: prima dell’io c’è il tu! Impariamo questo: prima dell’io c’è il tu. Nella mia lingua c’è un aggettivo per la gente che prima dice l’io poi il tu: “Io, me e con me e per me e al mio profitto”. Gente che è così, prima l’io poi il tu.
No, nella Sacra Famiglia, prima il tu e dopo l’io. Per custodire l’armonia in famiglia bisogna combattere la dittatura dell’io, quando l’io si gonfia. È pericoloso quando, invece di ascoltarci, ci rinfacciamo gli sbagli; quando, anziché avere gesti di cura per gli altri, ci fissiamo nei nostri bisogni; quando, invece di dialogare, ci isoliamo con il telefonino – è triste vedere a pranzo una famiglia, ognuno con il proprio telefonino senza parlarsi, ognuno parla con il telefonino; quando ci si accusa a vicenda, ripetendo sempre le solite frasi, inscenando una commedia già vista dove ognuno vuole aver ragione e alla fine cala un freddo silenzio. Quel silenzio tagliente, freddo, dopo una discussione familiare, è brutto quello, bruttissimo! Ripeto un consiglio: alla sera, dopo tutto, fare la pace, sempre. Mai andare a dormire senza aver fatto la pace, altrimenti il giorno dopo ci sarà la “guerra fredda”! E questa è pericolosa perché incomincerà una storia di rimproveri, una storia di risentimenti. Quante volte, purtroppo, tra le mura domestiche da silenzi troppo lunghi e da egoismi non curati nascono e crescono conflitti! A volte si arriva persino a violenze fisiche e morali. Questo lacera l’armonia e uccide la famiglia. Convertiamoci dall’io al tu. Quello che deve essere più importante nella famiglia è il tu. E ogni giorno, per favore, pregare un po’ insieme, se potete fare lo sforzo, per chiedere a Dio il dono della pace in famiglia. E impegniamoci tutti – genitori, figli, Chiesa, società civile – a sostenere, difendere e custodire la famiglia che è il nostro tesoro!
La Vergine Maria, sposa di Giuseppe e mamma di Gesù, protegga le nostre famiglie.
Dopo l'Angelus
Mi rivolgo ora agli sposi di tutto il mondo.
Oggi, nella festa della Santa Famiglia, viene pubblicata una Lettera che ho scritto pensando a voi. Vuole essere il mio regalo di Natale per voi sposi: un incoraggiamento, un segno di vicinanza e anche un’occasione di meditazione. È importante riflettere e fare esperienza della bontà e della tenerezza di Dio che con mano paterna guida i passi degli sposi sulla via del bene. Il Signore dia a tutti gli sposi la forza e la gioia di continuare il cammino intrapreso. Voglio anche ricordarvi che ci stiamo avvicinando all’Incontro Mondiale delle Famiglie: vi invito a prepararvi a questo evento, specialmente con la preghiera, e a viverlo nelle vostre diocesi, insieme alle altre famiglie.
E parlando della famiglia, mi viene una preoccupazione, una preoccupazione vera, almeno qui in Italia: l’inverno demografico. Sembra che tanti hanno perso l’aspirazione di andare avanti con figli e tante coppie preferiscono rimanere senza o con un figlio soltanto. Pensate a questo, è una tragedia. Alcuni minuti fa ho visto nel programma “A Sua immagine” come si parlava di questo problema grave, l’inverno demografico. Facciamo tutti il possibile per riprendere una coscienza, per vincere questo inverno demografico che va contro le nostre famiglie contro la nostra patria, anche contro il nostro futuro.
[…]
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
“L'eterno naufragio del mondo era finito” (dall’ufficio di letture, dai "Discorsi" di san Pietro Crisòlogo, vescovo, Disc. 160; Pl 52, 620-622): certo che i teologi antichi avevano una loro forza nel presentare la fede cristiana!
Impressionanti suonano oggi frasi come questa che non indulgono ad alcun moralismo su ciò che il credente dovrebbe o non dovrebbe fare, bensì parlano del mondo dinanzi al Cristo e della salvezza, ora e non prima possibile.
Comprendevano Cristo, come va compreso, in chiave cosmica!
1/ James Tissot, “La vita di Cristo” è una sorpresa continua. Trecentocinquanta. Tanti sono gli acquerelli che compongono La vita di Cristo disegnata da James Tissot. Un’opera d’arte unica, una conversione dello sguardo, di Francesco Baccanelli
Riprendiamo da Il Sussidiario del 3/10/2015 un articolo di Francesco Baccanelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
Trecentocinquanta. Tanti sono gli acquerelli che compongono La vita di Cristo disegnata da James Tissot (Nantes 1836, Chenecey-Buillon 1902) tra il 1886 e il 1894 e conservata per intero al Brooklyn Museum di New York.
Si tratta di un’opera davvero singolare: stupisce per la mole, per l’originalità delle soluzioni iconografiche, per la potenza creativa, per l’alta qualità tecnica, per la varietà dei registri cromatici.
La sua storia ha inizio nel 1885, quando Tissot, in seguito a un’esperienza mistica vissuta all’interno della chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, decide di cambiare radicalmente la propria arte. Si dimette dal ruolo di cantore della mondanità parigina e londinese, abbandona i soggetti salottieri che gli hanno regalato tanta fama e, suscitando grande stupore nei suoi contemporanei, sceglie di dedicarsi esclusivamente alla rappresentazione di temi sacri.
Come primo capitolo di questa nuova fase di carriera, il pittore francese pensa a una serie di disegni dedicati ai Vangeli. Ha chiaro fin da subito che la sua opera non sarà una semplice raccolta degli episodi più famosi, ma un vero e proprio “racconto per immagini” di tutta la vicenda umana di Gesù. I disegni inoltre dovranno riprodurre fedelmente la realtà storica del tempo: contesti, ambienti, tratti somatici, abiti…
Tissot decide di non lasciare nulla al caso. Studia a fondo le Sacre Scritture, chiede aiuto a teologi e storici, visita più volte la Terra Santa, si interessa a questioni di archeologia e di antropologia.
Nel 1894, dopo otto anni di lavoro, La vita di Cristo è finalmente conclusa. Il suo debutto espositivo, avvenuto nello stesso anno a Parigi, si rivela un successo, così come la pubblicazione del libro che la riproduce quasi per intero (La vie de Notre Seigneur Jésus-Christ, Tours, Alfred Mame et fils, 1897) e la mostra itinerante che la porta prima a Londra e poi negli Usa (New York, Boston, Philadelphia, Chicago). Nell’anno 1900, su consiglio del pittore statunitense John Singer Sargent, il Brooklyn Museum decide di acquistarla.
L’aspetto più interessante di questa serie di acquerelli risiede senza dubbio nella straordinaria freschezza iconografica. Al suo interno troviamo scene mai rappresentate prima di allora nella storia dell’arte, scene rappresentate in un modo totalmente nuovo, personaggi marginali studiati in maniera approfondita, edifici storici ricostruiti con scrupolosa attenzione.
La serie si apre con una raffigurazione di Gesù, adulto, nascosto dietro le grate di due piccole finestre; davanti a lui, tralci di vite (in questo contesto il rimando è soprattutto a Gv 15,1: «Io sono la vera vite») e girasoli (simbolo di devozione). Ispirata vagamente a un passo del Cantico dei Cantici (Ct, 2,9: «Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate»), l’immagine svela lo scopo dell’artista: liberare il mistero cristiano dall’emarginazione moderna e riportarlo al centro della vita umana.
Dopo questo momento introduttivo, comincia il vero e proprio racconto. Episodi famosi, episodi poco noti, episodi di raccordo. Tra i primi acquerelli, riconosciamo l’Annunciazione, la Visitazione, la Nascita di Gesù, la Presentazione al tempio, la Fuga in Egitto. Poi, come nei Vangeli, si salta a Gesù dodicenne, nel tempio, in mezzo ai dottori. Un solo (splendido) foglio per raccontare il periodo di lavoro nella bottega di Giuseppe, ed ecco che già si arriva alla vita pubblica. Compaiono gli apostoli, i miracoli, le parabole. Troviamo l’emorroissa che, a carponi, usa le sue poche forze per allungarsi a sfiorare il mantello di Gesù. Il giovane ricco che se ne torna a casa triste, con gli abiti sfarzosi che gli scaldano il corpo ma non il cuore. Gesù che sta insegnando il Padre Nostro, la preghiera che congiunge l’uomo con Dio (ai suoi piedi vediamo gli apostoli seduti per terra, sopra la sua testa un cielo bagnato di luce).
Quando poi si arriva alla passione, alla risurrezione, alle ultime vicende descritte dai Vangeli, il “racconto per immagini” di Tissot diventa ancora più profondo e intenso. Lo si nota benissimo nell’acquerello che raffigura La crocifissione vista dalla croce (il titolo originale è Ce que voyait Notre-Seigneur sur la croix), probabilmente il momento più alto, per potenza iconografica e qualità compositiva, dell’intera opera. Il pittore francese, che nei fogli precedenti ha già rappresentato il Golgota da più angolature, in questo assume il punto di vista di Gesù e prova a ricomporre l’immagine che si presentò ai suoi occhi durante l’agonia. Il risultato è di grande effetto: è praticamente impossibile passare al foglio successivo senza pensare, almeno per un istante, alla sofferenza vissuta sulla croce da Gesù, al suo trovarsi abbandonato dall’uomo, al suo abbandonarsi nelle mani di Dio.
A Tissot i temi cristiani offrono nuove possibilità di ricerca. La sua arte, prima consacrata esclusivamente alle divinità del lusso e del piacere, trova nel Vangelo una preziosa chiave di lettura della realtà. Attraverso La vita di Cristo riesce ad aprirsi alla dimensione dello spirito e a confrontarsi con le domande cruciali dell’esistenza. Vengono in mente le riflessioni di Arturo Martini sull’arte cristiana: «Per noi artisti Cristo rappresenta la figura più grande e più espressiva del nostro mondo. Il legame con l’infinito mancò alla religione pagana: per i Greci Giove o la più bella delle Veneri erano forze di natura idealizzate, forme per la gioia dei sensi. La visione totale dell’essere si stabilisce con l’Incarnazione».
© Il Sussidiario RIPRODUZIONE RISERVATA
2/ James Tissot, una grande Passione. Dalla pittura al cinema. L'artista francese influenzò i pionieri del cinema con i suoi Album sulla storia di Cristo, di Ariel Schweitzer
Riprendiamo da Il Manifesto del 3/4/2021 un articolo di Ariel Schweitzer, storico del cinema, critico e docente all’Università di Tel Aviv, redattore dei Cahiers du Cinéma, autore di numerose retrospettive dedicate a Bresson, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Vittorio De Sica, Amos Gitai, David Perlov et Uri Zoha. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
Un acquarello di Tissot. Gesù servito dagli angeli
Che una sensibilità cinematografica abbia contrassegnato l’opera di James Tissot ancor prima della nascita della settima arte è uno degli aspetti messi in evidenza dalla mostra «James Tissot l’ambigu moderne» (James Tissot, l’ambiguità moderna) tenuta al Musée d’Orsay lo scorso anno. Ammiratore del «narrative painting» della tradizione inglese, Tissot si trasferisce a Londra nel 1871. Qui sviluppa una messa in scena pittorica i cui personaggi sono soggetti di un intrigo misterioso, una storia che lo spettatore è chiamato a indovinare e sviluppare. È il caso di una delle sue opere emblematiche Too Early (1873) in cui gli invitati a un ballo aristocratico sembrano imbarazzati per il fatto di essere arrivati «troppo presto».
Ma è soprattutto dopo la morte della sua compagna, la modella Kathleen Newton nel 1882 che queste risonanze diventano più evidenti. Adepto dello spiritismo, Tissot tenta durante una seduta guidata dal medium inglese William Eglinton di evocare lo spirito della Newton. In preda a una crisi esistenziale la sua ricerca assume un risvolto mistico e religioso quando gli si rivela la figura di Cristo nella chiesa di Saint Sulpice. Il risveglio della fede cattolica lo spinge a recarsi per tre volte in Terra Santa (1886, 1889, 1896), viaggi che ispirano la grande opera della fine della sua vita: 365 disegni e acquarelli consacrati alla Passione di Cristo, esposti prima al Salon di Parigi nel 1894, poi pubblicati in Francia nel 1896 in un album in due volumi e poco dopo in una edizione inglese.
La serie colpisce sia per la sua forza narrativa, il suo realismo inedito e la rappresentazione della Passione sia per una messa in scena quasi cinematografica che moltiplica i punti di vista in soggettiva di Cristo sulla croce. Ogni scena della Passione è scandita su più «piani» che, in successione creano una continuità narrativa tali da evocare il montaggio cinematografico e anche il fumetto contemporaneo.
Più cattolico che orientalista nel suo percorso, Tissot dipinge nel suo album paesaggi e costumi orientali che spesso contrastano con la rappresentazione piuttosto europeizzata della maggior parte dei suoi predecessori. Per accentuare il realismo delle scene il pittore si serve delle fotografie che mette in scena lui stesso nella sua casa parigina, dove modelle in costume d’epoca restituiscono di fronte all’apparecchio scene della Passione. Assai interessato all’invenzione del cinema Tissot organizza la divulgazione dei suoi acquarelli in spettacoli di lanterna magica, spesso nelle chiese di Parigi e altrove.
Autentico successo mondiale, l’album La vita di nostro signore Gesù Cristo influenzerà profondamente alcune delle prime rappresentazioni della Passione al cinema. Alice Guy si ispira all’album di Tissot per il suo La naissance, la vie et la mort du Christ (qualche fonte cita il film come un adattamento diretto dell’opera di Tissot). Realizzato nel 1906, questo film di 35 minuti, composto da 25 scene e girato con più di 300 comparse è considerato come una delle produzioni più ambiziose dell’epoca.
Messo in scena come dei tableaux vivants, quasi senza movimenti di camera, gli episodi sono girati soprattutto nello studio di rue des Alouettes a Parigi, con una scenografia di cartone realizzata con fondali dipinti. Quattro episodi sono stati girati in esterni, nella foresta di Fontainebleau, fatto inusuale all’epoca per un film di finzione, tra cui la bellissima scena del Golgota (anche la scena della Crocifissione è stata girata in studio).
Alice Guy è una innovatrice anche quando utilizza la sovraimpressione in scene a dimensione fantastica e mistica, in particolare l’Ascensione alla fine del film. Come mette in evidenza acutamente Valentine Robert nel suo articolo del catalogo della mostra, certe scene girate da Alice Guy, come quella della flagellazione, sono la ricostruzione quasi esatta degli acquarelli di Tissot in quanto ad arredi e ambientazione o posizione degli attori. Nella scena del miracolo della Veronica si nota un cambiamento di asse nella posizione del tableau-vivant quando la cinepresa isola la figura della Veronica in un piano ravvicinato, una rarità per l’epoca, una rottura rispetto ai film fatti fino a quel momento. Ci si può d’altra parte chiedere se questo piano non avrebbe portato certi commentatori ad affermare, a torto, che La naissance, la vie et la mort includa immagini in soggettiva del Cristo ispirati direttamente al percorso creativo di Tissot.
Osservando più da vicino è chiaro che il Cristo ha già lasciato la scena prima del cambiamento di asse e che il piano ravvicinato su Veronica e il suo velo non può in nessun caso rappresentare il suo punto di vista.
Per quanto sia innovatore e vicino all’universo di Tissot, La naissance, la vie et la mort du Christ resta un film piuttosto teatrale, segnato da un’estetica da studio e dalla drammaturgia tipica dei tableaux-vivants. In maniera ben più evidente lo stile Tissot – il suo realismo e la sua drammaturgia narrativa – si manifesta soprattutto in From the Manger to the Cross (Dalla mangiatoia alla croce) del canadese Sidney Olcott, girato nel 1912 e considerato uno dei primi lungometraggi della storia del cinema (70 minuti nella versione più conosciuta). Ispirato dal percorso del pittore francese Olcott decide di andare a girare in Palestina. Con la sua troupe Kalem, composta da attori, produttori e tecnici, intraprende il viaggio in nave da New York. Prima di arrivare in Palestina la troupe gira l’episodio della fuga in Egitto davanti alle piramidi e la Sfinge di Giza.
Arrivati a Gerusalemme, nel cuore della città vecchia impostano il set costruendo uno studio per gli interni su un terreno nei pressi del loro hotel. Scritto da Gene Gauntier, pioniera del cinema americano e moglie di Olcott, che interpreterà la vergine Maria, la sceneggiatura è direttamente ispirata all’album di Tissot di cui certi testi che accompagnano gli acquerelli sono stati utilizzati da Olcott come didascalie tra una scena e l’altra. Olcott rompe con la tradizione dei tableaux-vivants creando una vera continuità narrativa tra le diverse scene, raccontando la vita di Gesù dalla nascita alla morte con l’idea di girare ogni episodio nello stesso luogo dove si supponeva fosse realmente accaduto – l’Annunciazione a Nazareth, la nascita a Betlemme, l’incontro con i discepoli al lago di Tiberiade (dove è stata girata una scena impressionante di Gesù che cammina sulle acque in sovrimpressione).
Con l’attore inglese shakespeariano Robert Henderson Bland che interpreta Gesù, numerose comparse furono ingaggiate sul posto (tra questi beduini e palestinesi a interpretare i discepoli). Uscito nel 1913 il film fu un immenso successo mondiale, con successivi rifacimenti nel 1918, 1922 e 1938 che avrebbero poi ispirato tutti gli adattamenti successivi della Passione. Tra le altre quelle di Intolerance di Griffith (1916) con la testimonianza del suo assistente a proposito dell’influenza di Tissot sulla composizione di certe scene.
L’influenza di Tissot si fa sentire in altre produzioni dell’epoca di carattere biblico, anche fuori dalla Francia o negli Stati Uniti, come nella produzione italiana CHRISTUS di Giulio Antamoro del 1916. Le citazioni pittoriche (così come letterarie) in questi film favorirono un processo di legittimazione del cinema presso la classe borghese, fino a quel momento assai riluttante nei confronti di ciò che era ancora considerato un passatempo popolare e da baraccone.
I riferimenti all’arte di Tissot (e di Gustav Doré) finirono per accordare a questi film un certo prestigio e accrebbero il loro potenziale commerciale perché allargavano il ventaglio di pubblico.
Il lavoro di Tissot costituisce quindi esempio lampante di una circolazione di riferimenti tra diversi campi artistici a cavallo del diciannovesimo secolo.
Incrociando diversi fenomeni della modernità (spiritismo, fotografia, lanterna magica, cinema), Tissot li assimila nella sua pittura e influenza a sua volta parecchi pionieri del cinema nel loro tentativo di prolungare la rappresentazione della vita di Cristo con l’immagine in movimento. Pier Paolo Pasolini se ne ricorda quando gira Il Vangelo secondo Matteo (1964). Con il forte marchio dell’iconografica religiosa rinascimentale, non evoca precisamente l’influenza dell’album di Tissot. Ma come Sidney Olcott, desidera inizialmente girare la Passione in Palestina. Effettua nel 1963 un viaggio sul posto in compagnia del gesuita don Andrea Carraro, come testimonia il suo Appunti in Palestina per il Vangelo secondo Matteo (1965).
Si vede Pasolini percorrere il paese sulle tracce dei luoghi biblici e non nascondere la sorpresa scoprendo, ad esempio, che il Giordano è un fiumiciattolo ben lontano dall’immagine di un imponente corso d’acqua agitato come gli aveva fatto immaginare l’iconografia pittorica dedicata al soggetto. Eppure Pasolini vede in questo «ridimensionamento», nella modestia dei paesaggi, un elemento perfettamente coerente con la vita di Cristo, il suo sacrificio e la sua devozione spirituale. Il cineasta afferma anche che il paesaggio della regione è già troppo danneggiato dalla modernità e che in Israele non resta praticamente nulla della dimensione arcaica che aveva immaginato per il suo film. Ci si può interrogare su quest’ultima constatazione: certo, nel 1963, non è più lo scenario deserto e arido che avevano visitato qualche decennio prima Tissot e Olcott, ma Israele è ancora un giovane paese in via di sviluppo poco popolato (235.000 abitanti) e relativamente poco edificato.
Si ha l’impressione che Pasolini proietti sul paesaggio israeliano una riflessione che ha cominciato a sviluppare all’epoca in rapporto all’Italia (e all’Occidente) postindustriale, criticando la distruzione del paesaggio armonioso delle città antiche a causa della bruttezza urbanistica e dell’architettura moderna (una riflessione che è al centro del suo corto film saggio del 1973, La Forma della città). Quale sia la ragione (sembrerebbe che lo abbia deciso anche prima del viaggio in Palestina), Pasolini ha scelto di girare la sua Passione nel sud Italia, in particolare in Calabria e Puglia, il cui paesaggio considerava più biblico di quello di Terra Santa, probabilmente anche più propizio a una lettura contemporanea e «mistico-marxista» della vita di Cristo.
© Il Manifesto RIPRODUZIONE RISERVATA
Tissot, Quello che vedeva nostro Signore dalla croce
Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo di Gian Guido Vecchi pubblicato il 25/12/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Il contesto storico del Nuovo Testamento. Cfr. in particolare Avanti Cristo e dopo Cristo: Dionigi il Piccolo e l'invenzione dell'era cristiana, di Giancarlo Biguzzi.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022)
CITTÀ DEL VATICANO — In quale anno è nato, Gesù di Nazareth? La domanda, a uno sguardo superficiale, può sembrare banale: se siamo nel 2021 «dopo Cristo», allora la risposta dovrebbe essere semplice — nell’anno zero, no?
In realtà — come sa bene la Chiesa, e come sanno bene gli studiosi — con buona pace delle simbologie, Gesù non nacque nell’anno zero; non fu crocifisso nell’anno 33 e, quando morì, non aveva trentatré anni (la data considerata più probabile, per la morte, è venerdì 7 aprile dell’anno 30, e a quanto pare Gesù, quando morì, di anni ne aveva 36).
Qual è la ragione di questa confusione? Tutto dipende dal fatto che quindici secoli fa, quando si definì l’«era cristiana», si è sbagliato a calcolare la data della nascita di Gesù. Cominciamo dal principio.
Gesù, nato «avanti Cristo»
I quattro Vangeli non indicano né la data di nascita né la data di morte di Gesù. Ma sappiamo che Erode il Grande, re di Giudea, muore nel 4 avanti Cristo. Quindi Gesù non può essere nato più tardi. Suonerà strano, ma il Cristo è nato «avanti» se stesso, o almeno il se stesso del calendario.
Perché, a seguire il racconto di Matteo (2,16), quando Gesù nasce Erode è ancora vivo: ed è lui che, dopo aver saputo dai Magi della nascita di quel bimbo che chiamano «re dei Giudei», ordina di uccidere tutti i bambini «da due anni in giù», segno che il bimbo non era appena nato.
C’è da considerare anche il periodo tra la fuga in Egitto di Maria e Giuseppe con il bimbo e il ritorno, quando nel racconto evangelico un angelo appare in sogno a Giuseppe e gli dice di rientrare nella terra d’Israele «perché sono morti quelli che cercavano di uccidere il bambino», cioè Erode.
A complicare la faccenda, e a far ballare un altro anno, c’è da dire che l’ «anno 0» dell’era cristiana non esiste: per quanto oggi ci possa sembrare assurdo, il calcolo passa direttamente dall’1 avanti Cristo all’1 dopo Cristo. E questo perché, quando il monaco Dionigi il Piccolo definì a Roma all’inizio del VI secolo la datazione «Anno Domini», non esisteva ancora il concetto di zero, che in Occidente viene trasmesso solo nel 1202 dal Liber abbaci del grande matematico pisano Leonardo Fibonacci: la parola «zero» è la versione toscana del latino zephirum con il quale Fibonacci aveva reso l’arabo sifr, diffondendo in Europa la numerazione indo-araba che usiamo oggi grazie soprattutto all’opera del matematico persiano Muhammad ibn Musa al Khwarizmi, vissuto tra l’VIII e il IX secolo dopo Cristo.
A farla breve, insomma, la gran parte degli studiosi colloca la nascita di Yehoshua ben Yosef, Yeshùa nella forma abbreviata, intorno agli anni 6-7 avanti Cristo.
Come è nato l’errore?
Del resto, che ci sia stato uno sbaglio non è un mistero e la Chiesa ne è consapevole. Ne parlò pubblicamente San Giovanni Paolo II durante un’udienza generale del mercoledì, il 14 gennaio 1987: «Per quanto riguarda la data precisa della nascita di Gesù, i pareri degli esperti non sono concordi. Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo, quando nell’anno 533 propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo, sia caduto in errore. Fino a qualche tempo fa si riteneva che si trattasse di uno sbaglio di circa quattro anni, ma la questione è tutt’altro che risolta».
In effetti, molti studiosi propendono per sei.
Ma com’è possibile che si sia sbagliato?
Il monaco Dionigi il Piccolo era un grande erudito ma a quanto pare si ingannò nel tradurre dal greco un passo fondamentale di Luca, l’indicazione cronologica più precisa dei Vangeli, all’inizio del capitolo 3: «Nel quindicesimo anno di governo di Tiberio Cesare», Giovanni comincia a battezzare nel Giordano. Gesù lo raggiunge, viene battezzato e comincia il suo ministero pubblico, si legge nel versetto 23, quando archómenos hosèi etôn triákonta, aveva «circa» (hosèi) trent’anni.
Dionigi tradusse come se fossero trent’anni o quasi trent’anni, secondo le interpretazioni, e in base alla cronologia romana di Tiberio calcolò come data di nascita il 25 dicembre del 753 dalla fondazione di Roma, fissando come anno 1 dell’era cristiana il 754.
Un gioco da ragazzi. Ma sbagliato: in greco l’espressione «osei eton triakonta» indica un trentenne, non trent’anni precisi: e infatti, calcolano gli studiosi, Giovanni Battista inizia a battezzare nella regione del Giordano tra la fine dell’anno 27 e l’inizio del 28, e a quel tempo Gesù avrebbe avuto trentatré o trentaquattro anni.
E così si arriva all’errore: nella data di nascita, e in quella della morte.
Seguendo la cronologia del Vangelo di Giovanni, che appare più corretta, Gesù e i discepoli si riuniscono per l’Ultima Cena la sera del giovedì, dopo il tramonto e quindi all’inizio del 14 di Nisan, il giorno di preparazione della Pasqua nel rituale ebraico. Il calendario ebraico calcola il ciclo lunare e la data della Pesach non è in un giorno fisso della settimana, come la domenica per la Pasqua cristiana. La Pasqua ebraica - che fa memoria di quando Dio «passò oltre» (pasàch, da cui Pesach) le case degli israeliti nella decima piaga dell’Esodo e quindi della liberazione del popolo di Israele dall’Egitto - quell’anno cadeva di sabato.
Considerato che Gesù è morto dopo i trent’anni, le date possibili erano soltanto due, corrispondenti ai due anni intorno al terzo decennio dopo Cristo nei quali Pesach era di sabato: l’anno 30 o il 33.
Quando ancora non ci si era accorti dell’errore nel calcolare la nascita, si è pensato che l’anno 30 fosse troppo presto e che quello giusto fosse, appunto, il 33. Ma se Gesù è nato tra il 6 e il 7 avanti Cristo, il 33 è troppo tardi, sarebbe morto quasi quarantenne. E allora non resta che l’anno 30. Ad essere precisi, per il bimillenario toccherebbe anticipare. A meno di voler mantenere la simbologia, come fece proprio Giovanni Paolo II celebrando solennemente il Giubileo del 2000, anche se sapeva che i duemila anni dalla nascita di Cristo erano in realtà già passati.
© Corriere della Sera RIPRODUZIONE RISERVATA
Riprendiamo da Avvenire del 27/12/2021 un articolo di Stefano Vecchia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (9/1/2022
Il capo della giunta militare golpista nel Myanmar,
il generale Min Aung Hlaing - Reuters
Le fonti della resistenza contro il regime militare in Myanmar hanno segnalato un nuovo massacro operato dai militari il 24 dicembre a Hpruso, nello Stato orientale di Kayah, dove autoveicoli di una colonna in transito su una strada di grande comunicazione sono stati attaccati e poi bruciati e i passeggeri trucidati. Sarebbero 38 i morti, tra cui un bambino e due operatori dell'organizzazione umanitari Save the Children che risultano dispersi. Un massacro portato a sangue freddo per le milizie locali Karenni ma che per le forze armate è dovuto al mancato stop dei veicoli a un posto di blocco. Nel Kayah quasi la metà della popolazione è cristiana, per lo più cattolici.
Il sottosegretario dell'Onu per gli Aiuti umanitari, Martin Griffith si è detto "inorridito" e ha condannato "questo incidente grave e tutti gli attacchi contro civili nel Paese, che sono proibiti in base al diritto umanitario internazionale". A conferma della brutalità della repressione militare, pochi giorni fa la Bbc aveva confermato quattro uccisioni di massa avvenute a luglio di civili per complessive 40 vittime seppelliti frettolosamente nella foresta nell'area di Sagaing, al centro di scontri tra militari e forze di difesa popolare.
Il convoglio assalito e dato alle fiamme
Forse suggerito dall'attenzione internazionale verso il regime, è arrivato un nuovo rinvio del tribunale militare chiamato a giudicare Aung San Suu Kyi per possesso illegale di ricetrasmittenti e di apparecchi per interferire nei segnali radio. La sentenza attesa per oggi e già rinviata dal 20 dicembre è stata spostata al 10 gennaio. La notizia è stata diffusa da fonti vicine alla donna che è diventata simbolo della lotta nonviolenta contro la dittatura e dal 2015, come Consigliere nazionale e ministro degli Esteri, ha di fatto indirizzato il Paese. Sono una decina i capi d'imputazione per la 76enne Premio Nobel per la Pace, di cui, due già arrivati a giudizio per complessivi quattro anni di carcere.
Dal colpo di stato del primo febbraio scorso anche lei come il presidente, e buona parte della classe politica e istituzionale, sono agli arresti e in decine di casi già rinviati a giudizio per "crimini" che per la maggior parte sono pretestuosi e mirano a costringere Aung San Suu Kyi e la sua Lega nazionale per la democrazia ad accettare il controllo dei militari sul Myanmar e il percorso verso nuove elezioni "democratiche" e una nuova leadership in sostituzione di quella uscita dal voto del novembre 2020 sconfessato dal regime.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
Sempre Gesù fra i dottori a dodici anni viene rappresentato dai pittori come immagine della Parola che si è fatta carne, di Gesù è più grande delle Scritture: “La Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia”, come ha dichiarato papa Francesco alla Pontificia Commissione Biblica[1].
Ma in un dipinto conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, opera della scuola di Giuseppe de Ribera – il dipinto è del 1630 ca. - questo è “detto” in maniera magnifica. Lo si potrebbe utilizzare per interrogare nel corso di un esame di Teologia, fondamentale o di Teologia Biblica o di Ermeneutica delle Scritture per saggiare la consistenza del candidato.
Il dipinto rappresenta sulla sinistra cinque maestri della Scrittura, cinque “professori” di Bibbia – potremmo dire oggi- , cinque scribi sapienti della Torah, ed essi sono interamente presi dal testo.
Quello più vicino a Gesù dodicenne sta analizzando una Bibbia a forma di codice e non si avvede che dinanzi a lui sta il Cristo.
Dietro di lui quattro stanno intorno ad una pergamena e il secondo più vicino a Gesù ha una lente per vedere meglio i dettagli della Bibbia e con il dito lo richiama, ma la sua veste fa da velo alla contemplazione del Cristo, che pure è vicinissimo.
Un altro sta vicinissimo al rotolo e i suoi occhi sono fissi sui caratteri scritti nel testo sacro.
Solo l’ultimo in fondo a sinistra sembra, in qualche modo, guardare a quella figura viva che è dinanzi a Lui, sollevando il suo sguardo dai manoscritti biblici a Gesù stesso.
Quel giovane che sta dinanzi a loro, invece, li guarda, senza essere da loro “visto”, ed indica il Padre.
Si noti bene che, se quegli scribi potrebbero a prima vista potrebbero rappresentare l’esegesi ebraica, d’altro canto si vede bene, nel Codice che è posato sul tavolo, un’Omega, cioè una lettera greca, segno che si tratta di un codice neotestamentario.
Quegli scribi non sono dunque il popolo ebraico, ma sono l’esegesi tout court, quando essa non leva lo sguardo alla presenza del Messia che indica il Padre, ma si fissa solo sui dettagli, senza giungere a contemplare la rivelazione in pienezza[2].
Un dipinto magnifico che indica come si possa conoscere a menadito la Scrittura ed ignorare il suo cuore, come si possa insegnare Bibbia e non conoscere la fede.
Note al testo
[1] Papa Francesco nell’udienza ai membri della Pontificia Commissione Biblica, il 12/4/2013.
[2] Cfr. su questo il nostro A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I "misteri" della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2019 (insieme a L. Mugavero).
Riprendiamo sul nostro sito l’omelia di papa Francesco nella Messa serale della solennità di Maria Madre di Dio con il Te Deum di ringraziamento per l’anno 2021, del 31/12/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
In questi giorni la Liturgia ci invita a risvegliare in noi lo stupore, lo stupore per il mistero dell’Incarnazione. La festa del Natale è forse quella che maggiormente suscita questo atteggiamento interiore: lo stupore, la meraviglia, il contemplare... Come i pastori di Betlemme, che prima ricevono il luminoso annuncio angelico e poi accorrono e trovano effettivamente il segno che era stato loro indicato, il Bambino avvolto in fasce dentro una mangiatoia. Con le lacrime agli occhi si inginocchiano davanti al Salvatore appena nato. Ma non solo loro, anche Maria e Giuseppe sono pieni di santa meraviglia per quello che i pastori raccontano di aver udito dall’angelo riguardo al Bambino.
È così: non si può celebrare il Natale senza stupore. Però uno stupore che non si limiti a un’emozione superficiale – questo non è stupore –, un’emozione legata all’esteriorità della festa, o peggio ancora alla frenesia consumistica. No. Se il Natale si riduce a questo, nulla cambia: domani sarà uguale a ieri, l’anno prossimo sarà come quello passato, e così via. Vorrebbe dire riscaldarsi per pochi istanti ad un fuoco di paglia, e non invece esporsi con tutto il nostro essere alla forza dell’Avvenimento, non cogliere il centro del mistero della nascita di Cristo.
E il centro è questo: «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Lo sentiamo ripetere a più riprese in questa liturgia vespertina, con la quale si apre la solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Lei è la prima testimone, la prima e la più grande, e nello stesso tempo la più umile. La più grande perché la più umile. Il suo cuore è colmo di stupore, ma senza ombra di romanticismi, di sdolcinatezze, di spiritualismi. No. La Madre ci riporta alla realtà, alla verità del Natale, che è racchiusa in quelle tre parole di San Paolo: «nato da donna» (Gal 4,4). Lo stupore cristiano non trae origine da effetti speciali, da mondi fantastici, ma dal mistero della realtà: non c’è nulla di più meraviglioso e stupefacente della realtà! Un fiore, una zolla di terra, una storia di vita, un incontro… Il volto rugoso di un vecchio e il viso appena sbocciato di un bimbo. Una mamma che tiene in braccio il suo bambino e lo allatta. Il mistero traspare lì.
Fratelli e sorelle, lo stupore di Maria, lo stupore della Chiesa è pieno di gratitudine. La gratitudine della Madre che contemplando il Figlio sente la vicinanza di Dio, sente che Dio non ha abbandonato il suo popolo, che Dio è venuto, che Dio è vicino, è Dio-con-noi. I problemi non sono spariti, le difficoltà e le preoccupazioni non mancano, ma non siamo soli: il Padre «ha mandato il suo Figlio» (Gal 4,4) per riscattarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la dignità di figli. Lui, l’Unigenito, si è fatto primogenito tra molti fratelli, per ricondurre tutti noi, smarriti e dispersi, alla casa del Padre.
Questo tempo di pandemia ha accresciuto in tutto il mondo il senso di smarrimento. Dopo una prima fase di reazione, in cui ci siamo sentiti solidali sulla stessa barca, si è diffusa la tentazione del “si salvi chi può”. Ma grazie a Dio abbiamo reagito di nuovo, con il senso di responsabilità. Veramente possiamo e dobbiamo dire “grazie a Dio”, perché la scelta della responsabilità solidale non viene dal mondo: viene da Dio; anzi, viene da Gesù Cristo, che ha impresso una volta per sempre nella nostra storia la “rotta” della sua vocazione originaria: essere tutti sorelle e fratelli, figli dell’unico Padre.
Roma, questa vocazione, la porta scritta nel cuore. A Roma sembra che tutti si sentano fratelli; in un certo senso, tutti si sentono a casa, perché questa città custodisce in sé un’apertura universale. Oso dire: è la città universale. Le viene dalla sua storia, dalla sua cultura; le viene principalmente dal Vangelo di Cristo, che qui ha messo radici profonde fecondate dal sangue dei martiri, cominciando da Pietro e Paolo.
Ma anche in questo caso, stiamo attenti: una città accogliente e fraterna non si riconosce dalla “facciata”, dalle parole, dagli eventi altisonanti. No. Si riconosce dall’attenzione quotidiana, dall’attenzione “feriale” a chi fa più fatica, alle famiglie che sentono di più il peso della crisi, alle persone con disabilità gravi e ai loro familiari, a quanti hanno necessità ogni giorno dei trasporti pubblici per andare al lavoro, a quanti vivono nelle periferie, a coloro che sono stati travolti da qualche fallimento nella loro vita e hanno bisogno dei servizi sociali, e così via. È la città che guarda a ognuno dei suoi figli, a ognuno dei suoi abitanti, anzi, a ognuno dei suoi ospiti.
Roma è una città meravigliosa, che non finisce di incantare; ma per chi ci vive è anche una città faticosa, purtroppo non sempre dignitosa per i cittadini e per gli ospiti, una città che a volte sembra scartare. L’auspicio allora è che tutti, chi vi abita e chi vi soggiorna per lavoro, pellegrinaggio o turismo, tutti possano apprezzarla sempre più per la cura dell’accoglienza, della dignità della vita, della casa comune, dei più fragili e vulnerabili. Che ognuno possa stupirsi scoprendo in questa città una bellezza che direi “coerente”, e che suscita gratitudine. Questo è il mio augurio per quest’anno.
Sorelle e fratelli, oggi la Madre – la Madre Maria e la Madre Chiesa – ci mostra il Bambino. Ci sorride e ci dice: “Lui è la Via. Seguitelo, abbiate fiducia. Lui non delude”. Seguiamolo, nel cammino quotidiano: Lui dà pienezza al tempo, dà senso alle opere e ai giorni. Abbiamo fiducia, nei momenti lieti e in quelli dolorosi: la speranza che Lui ci dona è la speranza che non delude mai.
Riprendiamo sul nostro sito il video della sintesi della finale di Wimbledon 2012 fra lo scozzese britannico Andy Murray e lo svizzero Roger Federer. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Musica.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
Il video che presentiamo è una sintesi della finale di Wimbledon 2012 fra lo scozzese britannico Andy Murray e lo svizzero Roger Federer.
Ciò che colpisce nel video non è solo l’andamento sul filo del rasoio del match: pochi punti giocati in maniera diversa avrebbero potuto capovolgere la partita.
Ciò che colpisce non è solo la forza del tifo: tutti i britannici tifano per il loro campione, mentre tanti tifano per il “re”.
Ciò che colpisce è la presenza di Miroslava "Mirka" Vavrinec, la moglie di Roger Federer, che lo ha sempre seguito in ogni partita importante della vita. La sua sofferenza con il marito per ogni punto perso e la sua gioia per ogni punto vinto dicono quell’unità e quel sostegno che sanno darsi due persone che si vogliono bene.
Come ha dichiarato lo stesso campione, la sua vita sportiva sarebbe stata diversa senza la vicinanza della moglie che è sempre stata un sostegno sicuro: ha voluto seguirlo in ogni angolo della terra, cosa non comune per le mogli degli sportivi.
Solo alla fine entrano sugli spalti anche le prime due figlie, gemelle, della coppia. Anche questo pudore di tenerle a parte, unito al volerle far partecipare infine alla gioia della vittoria – o eventualmente – alla sofferenza della sconfitta è bella.
È una vita insieme, sono una sofferenza ed una gioia portate insieme.
Sono una testimonianza, piccola, di cosa è un matrimonio.
Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Musica. Su Adele, vedi su questo stesso sito anche Adele ci insegna perché la chiesa riconobbe i quattro vangeli come veri. Breve nota di Andrea Lonardo e Sweetest Devotion. Una canzone di Adele dedicata al figlio Angelo appena nato.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
Quando l’intervistatrice le domanda quale ritiene sia il motivo del suo successo, Adele risponde: “Non lo so. Io penso che la gente ‘creda’ alla mia voce. Io penso che c’è evidentemente una tonalità. Io scrivo i miei testi. Io penso che la gente creda alla verità delle mie storie, ma, onestamente, io non so perché questo piaccia tanto e dappertutto”.
Sì, ciò che conquista in Adele non è solo la bellezza della sua voce e la sua capacità di modularla, ma anche il suo carattere, il suo stile. Adele si presenta come “autentica”, come “vera” e, in un tempo di superficialità e apparenze, questo risalta ancor più.
L’intervista è stata pubblicata in occasione dell’uscita di 30, il nuovo album.
Adele che non accettava interviste da 6 anni, afferma: “Mi devo preparare a ridivenire famosa. Io non amo essere famosa, io amo essere una cantante. Io adoro evidentemente di essere una cantante di successo, perché è il mio lavoro, ma d’altro canto – e questo è strano – io odio la celebrità. L’effetto secondario della celebrità non lo sopporto, è il canto che io adoro. Io preferisco che mi si lasci sola, tranquilla. Lo so che è così, ma, più invecchio, più cerco di tenere un equilibrio”.
L’intervistatrice le dice: “Il tuo singolo è divenuto in 24 ore il brano musicale più ascoltato di tutti i tempi”.
Lei risponde: “Sì, ma è la prima generazione streaming! Quando è successo, io ho detto “Mio Dio!”.
L’intervistatrice le domanda da dove venga questo successo mondiale: “Da dove viene questo, che passa dal Brasile alla Cina, dalla Francia al Marocco?”.
Lei risponde con le espressioni con cui abbiamo aperto i nostri appunti e prosegue: “Può essere che alla gente interessi che i miei testi sono così tristi, mentre io sono una persona così strana. Io preferisco essere una “ragazza della porta accanto”, piuttosto che una star”.
Adele dice: “Questa cosa di chiamare un album con la mia età, mi piace. Easy on me è stata una sorta di salto nell’ignoto, sperando di atterrare alla fine”.
Ma cosa è successo le chiede l’intervistatrice. Adele risponde: “La mia vita ha collassato? Eh, sì, ho divorziato e, dunque, tutta la mia vita ha collassato. Ero cambiato in ciò che ero per fare di voi due [il marito e il figlio] la mia priorità, ma ora l’ho abbandonata”.
L’intervistatrice le chiede: “Si è sentita colpevole?” “Sì, certo. Ci si sente colpevoli quando si è la persona che lascia l’altro. Da allora ho fatto progressi nel ritrovare la mia serenità, il rispetto di me. Questa è la ragione per la quale volevo fare questo salto nel non conosciuto. Mio figlio e il mio ex-marito volevano che ritrovassi la serenità. Ora non mi sento più colpevole, solo ho un po’ di vergogna, perché il modo in cui uno racconta le cose fa sì che poi si finisca nelle statistiche – mio figlio rientra nelle statistiche e questo non mi piace”.
L’intervistatrice le chiede: “La prima frase dell’album è: Porterò dei fiori al cimitero della mia anima – è molto malinconica?”.
Adele risponde: “No, è molto drammatica!”
L’intervistatrice afferma: “Ma l’album va pian piano verso la luce”.
Adele: “Sì, è esattamente quello che volevo, era il processo con il quale cercavo di comprendere me stessa. Era come se, all’inizio, io fossi rinchiusa in una stanza da cui non si poteva uscire. Io dovevo veramente confrontarmi con i sentimenti negativi che avevo verso me stessa. Fare tutto questo travaglio e alla fine prendermi in giro nell’ultima canzone. C’è molta gioia a ritrovare se stessi”.
Le chiede ancora: “In un’intervista lei ha detto di sapere ciò che vuole e ciò che non vuole”
Adele afferma: “Io non voglio più ritrovarmi nella mia vita in uno scenario – non semplicemente quello amoroso - in cui mi senta a disagio. Io non voglio più dire “sì” a qualcosa perché mi si dice: “Non lo puoi rifiutare”. È qualcosa che ora io non faccio più. In quanto donna di 33 anni, io ho meritato questo diritto, di non fare più cose in cui mi senta a disagio”.
L’intervistatrice le domanda: “Se le dico che è una donna “decisa”, cosa risponde?”
Adele: “Rispondo: “Grande! Bene!”. Lavoro duramente per essere così. Io preferisco essere una donna decisa che essere una donna che non pensa a sé. Le persone pensano che sia un complimento dire che qualcuno non pensa a sé, ma, in realtà, “Tu non pensi a te, tu non fai di te una priorità” non sono complimenti. Io penso che essere una donna che prende decisioni aiuta gli altri a prendere in mano se stessi e decidersi”.
L’intervistatrice ancora: “Lei pensa che una donna possa avere tutto, carriera, vita amorosa, una famiglia, essere una buona madre, o bisogna fare dei sacrifici?”
Adele risponde: “Io penso che si possa avere tutto, bisogna trovare un buon equilibrio”.
Poi corregge: “Ma talvolta può essere che questo divida il cuore. Può darsi che qualcosa sia necessario lasciarlo cadere. Per poi riprenderlo di nuovo”.
Certo per lei prioritario è essere madre: “Non so se tornerò stabilmente a Londra. Ora devo fare quella che mi sembra la cosa migliore, pensando principalmente a mio figlio che fa la scuola a Los Angeles”.
Ancora Adele: “Io voglio continuare a vivere una vita normale, con gente normale, questo è molto importante per me. Molti dei miei amici sono famosi, è vero, ma è la vita di mio figlio che guida la mia. Avevo amici famosi anche a Londra. Ho un gruppo di amici formidabili, sono fiera dei miei amici”.
Quando le si domanda delle accuse che ha ricevuto nell’aver modificato la sua linea, risponde: “Io non sento il bisogno di spiegare, perché non debbo rendere ragione del mio corpo: perché è così, così sento. Trovo incredibile che la gente sia ossessionata dal corpo degli altri. Questa ossessione del corpo forse dura dalla notte dei tempi, ma io parlo del mio corpo dal mio primo album”.
Quando l’intervistatrice le chiede: “È fiera del cammin percorso da quando aveva 19 anni?”, Adele risponde: “Sì. Non rifarei tutto nella stessa maniera, ma sono fiera del cammino fatto, sono fiera di me”.
Ancora le viene chiesto: “L’amore è un gioco dove si vince o dove si prede?” E lei: “Magari lo sapessi!”
Anche il suo aspetto è cambiato nel tempo: “Io amo come ci si vestiva negli anni ’70, le labbra rosse, i capelli a chignon, cerco solo un nuovo modo di vestirmi. Sento di essermi evoluta nei vestiti che porto”.
L’autenticità che si respira nelle canzoni e del suo modo di stare sul palco, esce rafforzata da questa intervista. Adele nasconde la sua privacy: come è giusto, non si lascia fotografare con suo figlio o con i suoi affetti, ma poi sa parlare di sé, eccome.
Che differenza da cantanti italiani di ben altro livello che si mettono in piazza a ogni piè sospinto, investendo sulla propria immagine per guadagnare.
Ma che differenza anche dall’apparenza di cui tutti siamo circondati e di cui anche ci circondiamo. Ma, oltre l’apparenza, c’è chi prova ad essere autentico. E questo ci interessa.
Io, comunque, le voglio bene.
N.B. Nelle esecuzioni live della magnifica When We Were Young, Adele fa proiettare foto della sua famiglia quando era bambina: anche questa una canzone “autentica”.
Riprendiamo sul nostro sito un’intervista a Giacomo Poretti pubblicata su Famiglia cristiana il 18/11/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
Giacomo Poretti in una scena dello spettacolo
L’anima. E dunque: il bene e il male. L’amicizia. La libertà. L’amore. Dio. Si parla di questo con l'attore Giacomo Poretti, Giacomino anche per l’anagrafe di Villa Cortese, Milano, dov’è nato il 26 aprile 1956, il 33,3 per cento del famoso trio comico con Aldo e Giovanni.
Ma è vero che vi sciogliete?
«No. Dopo 25 anni ci siamo presi una vacanza. Il prossimo anno torniamo insieme con un nuovo film».
Giacomo Poretti fino al 25 novembre è in scena al Teatro Leonardo di Milano con il suo spettacolo Fare un’anima (regia di Andrea Chiodi, con la collaborazione di Luca Doninelli). Nel 2015 ha scritto Al Paradiso è meglio credere (Mondadori). Collabora da anni con il San Fedele di Milano, il Centro culturale dei Gesuiti. A dicembre, su TV2000 andrà in onda Scarp de’ tenis, un docu-reality sui poveri e i clochard di Milano.
Come l’è venuto in mente di portare l’anima a teatro?
«Mi frullava nella testa da un po’, precisamente dal 14 dicembre 2006, quando nacque mio figlio Emanuele. Venne in ospedale padre Eugenio Bruno, per vent’anni direttore del Centro San Fedele e mio amico, e disse a me e mia moglie: “Ah bene. Avete fatto un corpo, adesso dovete farne anche un’anima”. Poteva essere interpretata in due modi: la solita frase carina di un prete che vuol fare bella figura oppure qualcosa su cui rifletterci su. Ha prevalso la seconda».
Cos’è l’anima per un attore comico che ha riscoperto la fede?
«Quando ho visto la prima ecografia di mio figlio ho pensato di farne un architetto, un avvocato di successo, magari un Pallone d’oro con la maglia dell’Inter. M’interessa sapere se questa parola è ancora viva oggi».
Che risposta s’è dato?
«Nessuna, solo domande. A che serve l’anima nel 2018? Viviamo nell’epoca della tecnologia più sfrontata, i Big Data, gli algoritmi. La tecnologia non solo ti suggerisce degli acquisti ma se ti compri un orologio intelligente ti dice ogni quanti minuti devi alzarti e camminare. Se il nostro algoritmo non ci ha mai consigliato un’anima un motivo ci sarà (ride, ndr)».
Ce l’ha con la tecnologia…
«Ma no. Diciamo che l’algoritmo e l’inglese sono i miei due sparring partner sul palco, i miei nemici dichiarati, mi vendico della loro invadenza e della loro prosopopea».
Pure l’inglese?
«La preoccupazione principale dei genitori di oggi è che il loro figlio parli inglese. Abbiamo bisogno di sapere le lingue mica dell’esistenza dell’anima. Però quella parola se ne sta lì, sullo sgabello del cervello, e t’inquieta. Il personaggio in scena fa di tutto per demolirla ma non ci riesce. Le parole hanno bisogno di qualcuno che se ne prenda cura, altrimenti scompaiono e finiscono sui dizionari, i cimiteri delle parole».
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, dice la volpe al Piccolo principe.
«Appunto. Nello spettacolo, ad un certo punto, mi rivolgo a un medico per chiedergli se con una Tac si può vedere l’anima. Allora, se non si vede vuol dire che non esiste? E l’amicizia? E l’amore di due genitori? Delle cose più importanti della nostra vita non abbiamo la prova, non si vedono, eppure andiamo avanti, sono lì».
Insomma, l’anima è un disastro.
«Se la fai scorazzare tra i tuoi neuroni sei rovinato. È come fare un acquisto su Amazon dove compri una giacca e ti ritrovi i suggerimenti collegati all’acquisto: la camicia da abbinare, la sciarpa, il pantalone. Vale anche per l’anima. Chi si è interessato di anima si è interessato di resurrezione, si è chiesto se la vita sta dentro un algoritmo, cosa sono l’inferno e il paradiso. Che cosa siamo noi? Siamo miliardi di atomi messi insieme però è una materia strana, che ha coscienza di sé. Com’è possibile questo mistero?».
Ma si ride almeno in questo spettacolo?
«Tantissimo, soprattutto nella prima parte».
Suo figlio l'ha visto?
«Sì. Gli ho chiesto un parere e mi ha risposto: “Bello papi. Però alla fine mi sono addormentato (ride, ndr)».
Padre Eugenio Bruno è l’ispiratore di questo spettacolo. Che tipo era?
«Lo conobbi nel 2000 durante un cineforum al San Fedele dove veniva proiettato il nostro film Chiedimi se sono felice. Diceva cose sorprendenti e anche un po’ strane. Era una persona di una profondità e dolcezza straordinarie. Non poteva che dirla lui quella frase».
Dall’anima al viaggio nei poveri di Milano. Da una materia eterea e ostica ai bisogni concreti degli ultimi raccontati nel docu-reality di TV2000 Scarp de' tenis.
«Ho imparato a non giudicare perché le storie degli uomini sono complicate e fragili. È un mondo difficile, come diceva la canzone. Mi ha sorpreso la grande quantità di persone in difficoltà. In viale Ortles c’è un dormitorio dove ogni notte arrivano più di 500 senzatetto, sbandati, ammalati».
Qual è l’anima di Milano?
«In questo momento sembra una città-Stato, che si governa da sola e non risponde allo logiche del Paese. Quasi un’isola felice. Anche la sofferenza a Milano ha un tratto di efficienza».
E quella dell’Italia?
«La domanda di riserva?».
Aldo e Giovanni cosa dicono di questo spettacolo?
«Tra di noi c’è un po’ di pudore. Ci siamo presi un anno sabbatico e ognuno ha fatto cose diverse. Sono curioso di sapere cosa ne pensano».
Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco ai membri del Collegio cardinalizio e della Curia romana, per la presentazione degli auguri natalizi, tenuto nell’Aula della Benedizione il 23/12/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Come ogni anno, abbiamo occasione di incontrarci a pochi giorni dalla festa del Natale. È un modo per dire “ad alta voce” la nostra fraternità attraverso lo scambio degli auguri natalizi, ma è anche un momento di riflessione e di verifica per ciascuno di noi, perché la luce del Verbo che si fa carne ci mostri sempre meglio chi siamo e la nostra missione.
Tutti lo sappiamo: il mistero del Natale è il mistero di Dio che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà. Si è fatto carne: quella grande synkatabasis. Questo tempo sembra aver dimenticato l’umiltà, o pare l’abbia semplicemente relegata a una forma di moralismo, svuotandola della dirompente forza di cui è dotata.
Ma se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, credo che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire. Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. Per questo mi piace pensare e anche dire che l’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita, tutti noi, ad attraversarla. Mi viene in mente quel passo degli Esercizi: non si può andare avanti senza umiltà, e non si può andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni. E Sant’Ignazio ci dice di chiedere le umiliazioni.
Non è facile capire cosa sia l’umiltà. Essa è il risultato di un cambiamento che lo Spirito stesso opera in noi attraverso la storia che viviamo, come ad esempio accadde a Naaman il Siro (cfr 2 Re 5). Questo personaggio godeva, all’epoca del profeta Eliseo, di una grande fama. Era un valoroso generale dell’esercito Arameo, che aveva mostrato in più occasioni il suo valore e il suo coraggio. Ma insieme con la fama, la forza, la stima, gli onori, la gloria, quest’uomo è costretto a convivere con un dramma terribile: è lebbroso. La sua armatura, quella stessa che gli procura fama, in realtà copre un’umanità fragile, ferita, malata. Questa contraddizione spesso la ritroviamo nelle nostre vite: a volte i grandi doni sono l’armatura per coprire grandi fragilità.
Naaman comprende una verità fondamentale: non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale: alla fine, fa male. Arriva il momento, nell’esistenza di ognuno, in cui si ha il desiderio di non vivere più dietro il rivestimento della gloria di questo mondo, ma nella pienezza di una vita sincera, senza più bisogno di armature e di maschere. Questo desiderio spinge il valoroso generale Naaman a mettersi in cammino alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo, e lo fa a partire dal suggerimento di una schiava, una ebrea prigioniera di guerra che racconta di un Dio che è capace di guarire simili contraddizioni.
Fatto rifornimento di argento e oro, Naaman si mette in viaggio e giunge così dinanzi al profeta Eliseo. Questi chiede a Naaman, come unica condizione per la sua guarigione, il semplice gesto di spogliarsi e lavarsi sette volte nel fiume Giordano. Niente fama, niente onore, oro né argento! La grazia che salva è gratuita, non è riducibile al prezzo delle cose di questo mondo.
Naaman resiste a questa richiesta, gli sembra troppo banale, troppo semplice, troppo accessibile. Sembra che la forza della semplicità non avesse spazio nel suo immaginario. Ma le parole dei suoi servi lo fanno ricredere: «Se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: “Lavati, e sarai guarito”?» (2 Re 5,13). Naaman si arrende, e con un gesto di umiltà “scende”, toglie la sua armatura, si cala nelle acque del Giordano, «e la sua carne tornò come la carne di un bambino; egli era guarito»(2 Re 5,14). La lezione è grande! L’umiltà di mettere a nudo la propria umanità, secondo la parola del Signore, ottiene a Naaman la guarigione.
La storia di Naaman ci ricorda che il Natale è un tempo in cui ognuno di noi deve avere il coraggio di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà. Possiamo farlo a partire da un esempio più forte, più convincente, più autorevole: quello del Figlio di Dio, che non si sottrae all’umiltà di “scendere” nella storia facendosi uomo, facendosi bambino, fragile, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16). Tolte le nostre vesti, le nostre prerogative, i ruoli, i titoli, siamo tutti dei lebbrosi, tutti noi, bisognosi di essere guariti. Il Natale è la memoria viva di questa consapevolezza e ci aiuta a capirla più profondamente.
Cari fratelli e sorelle, se dimentichiamo la nostra umanità viviamo solo degli onori delle nostre armature, ma Gesù ci ricorda una verità scomoda e spiazzante: “A cosa serve guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?” (cfr Mc 8,36).
Questa è la pericolosa tentazione – l’ho richiamato altre volte – della mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità. Scrivevo nella Evangelii gaudium: «In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele» (n. 96).
L’umiltà è la capacità di saper abitare senza disperazione, con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità; questa umanità amata e benedetta dal Signore. L’umiltà è comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Gesù ci insegna a guardare la nostra miseria con lo stesso amore e tenerezza con cui si guarda un bambino piccolo, fragile, bisognoso di tutto. Senza umiltà cercheremo rassicurazioni, e magari le troveremo, ma certamente non troveremo ciò che ci salva, ciò che può guarirci. Le rassicurazioni sono il frutto più perverso della mondanità spirituale, che rivela la mancanza di fede, di speranza e di carità, e diventano incapacità di saper discernere la verità delle cose. Se Naaman avesse continuato solo ad accumulare medaglie da mettere sulla sua armatura, alla fine sarebbe stato divorato dalla lebbra: apparentemente vivo, sì, ma chiuso e isolato nella sua malattia. Egli con coraggio cerca ciò che possa salvarlo e non ciò che lo gratifica nell’immediato.
Tutti sappiamo che il contrario dell’umiltà è la superbia. Un versetto del profeta Malachia, che mi ha toccato tanto, ci aiuta a comprendere per contrasto quale differenza vi sia tra la via dell’umiltà e quella della superbia: «Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà – dice il Signore degli eserciti – in modo da non lasciar loro né radice né germoglio» (3,19).
Il Profeta usa un’immagine suggestiva che ben descrive la superbia: essa – dice – è come paglia. Allora, quando arriva il fuoco, la paglia diventa cenere, si brucia, scompare. E ci dice anche che chi vive facendo affidamento sulla superbia si ritrova privato delle cose più importanti che abbiamo: le radici e i germogli. Le radici dicono il nostro legame vitale con il passato da cui prendiamo linfa per poter vivere nel presente. I germogli sono il presente che non muore, ma che diventa domani, diventa futuro. Stare in un presente che non ha più radici e più germogli significa vivere la fine. Così il superbo, rinchiuso nel suo piccolo mondo, non ha più passato né futuro, non ha più radici né germogli e vive col sapore amaro della tristezza sterile che si impadronisce del cuore come «il più pregiato degli elisir del demonio»[1]. L’umile vive invece costantemente guidato da due verbi: ricordare – le radici – e generare, frutto dalle radici e dei germogli, e così vive la gioiosa apertura della fecondità.
Ricordare significa etimologicamente “riportare al cuore”, ri-cordare. La vitale memoria che abbiamo della Tradizione, delle radici, non è culto del passato, ma gesto interiore attraverso il quale riportiamo al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti, ciò che ha attraversato la nostra storia, ciò che ci ha condotti fin qui. Ricordare non è ripetere, ma fare tesoro, ravvivare e, con gratitudine, lasciare che la forza dello Spirito Santo faccia ardere il nostro cuore, come ai primi discepoli (cfr Lc 24,32).
Ma affinché il ricordare non diventi una prigione del passato, abbiamo bisogno di un altro verbo: generare. L’umile – l’uomo umile, la donna umile – ha a cuore anche il futuro, non solo il passato, perché sa guardare avanti, sa guardare i germogli, con la memoria carica di gratitudine. L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce. Invece il superbo ripete, si irrigidisce – la rigidità è una perversione, è una perversione attuale – e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato… perché ha perso la memoria.
L’umile accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte di ciò che lo precede, delle sue radici, della sua appartenenza. Il suo presente è abitato da un passato che lo apre al futuro con speranza. A differenza del superbo, sa che né i suoi meriti né le sue “buone abitudini” sono il principio e il fondamento della sua esistenza; perciò è capace di avere fiducia; il superbo non ne ha.
Tutti noi siamo chiamati all’umiltà perché siamo chiamati a ricordare e a generare, siamo chiamati a ritrovare il rapporto giusto con le radici e con i germogli. Senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire.
Gesù, che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà, ci apre una strada, ci indica un modo, ci mostra una meta.
Cari fratelli e sorelle, se è vero che senza umiltà non si può incontrare Dio, e non si può fare esperienza di salvezza, è altrettanto vero che senza umiltà non si può incontrare nemmeno il prossimo, il fratello e la sorella che vivono accanto.
Lo scorso 17 ottobre abbiamo dato inizio al percorso sinodale che ci vedrà impegnati per i prossimi due anni. Anche in questo caso, solo l’umiltà può metterci nella condizione giusta per poterci incontrare e ascoltare, per dialogare e discernere, per pregare insieme, come indicava il Cardinale Decano. Se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio a quell’esperienza dello Spirito che, come dice l’Apostolo, è legata alla convinzione che siamo tutti figli di «un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6).
“Tutti” non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che come tentazione – perversa – serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo cerca di essere l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio, e pertanto discepoli che ascoltano e, proprio in virtù di questo ascolto, possono anche comprendere la volontà di Dio, che si manifesta sempre in maniera imprevedibile. Sarebbe però sbagliato pensare che il Sinodo sia un evento riservato alla Chiesa come entità astratta, distante da noi. La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana.
E la Curia – non dimentichiamolo – non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata. L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico.
Per questo, se la Parola di Dio ricorda al mondo intero il valore della povertà, noi, membri della Curia, per primi dobbiamo impegnarci in una conversione alla sobrietà. Se il Vangelo annuncia la giustizia, noi per primi dobbiamo cercare di vivere con trasparenza, senza favoritismi e cordate. Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà. Senza umiltà non potremo fare questo.
Durante l’apertura dell’assemblea sinodale ho usato tre parole-chiave: partecipazione, comunione e missione. E nascono da un cuore umile: senza umiltà non si può fare né partecipazione, né comunione, né missione. Queste parole sono le tre esigenze che vorrei indicare come stile di umiltà a cui tendere qui nella Curia. Tre modi per rendere la via dell’umiltà una via concreta da mettere in pratica.
Innanzitutto la partecipazione. Essa dovrebbe esprimersi attraverso uno stile di corresponsabilità. Certamente nella diversità di ruoli e ministeri le responsabilità sono diverse, ma sarebbe importante che ognuno si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro. Rimango sempre colpito quando nella Curia incontro la creatività – mi piace tanto –, e non di rado essa si manifesta soprattutto lì dove si lascia e si trova spazio per tutti, anche a chi gerarchicamente sembra occupare un posto marginale. Ringrazio per questi esempi – li trovo, e mi piace –, e vi incoraggio a lavorare affinché siamo capaci di generare dinamiche concrete in cui tutti sentano di avere una partecipazione attiva nella missione che devono svolgere. L’autorità diventa servizio quando condivide, coinvolge e aiuta a crescere.
La seconda parola è comunione. Essa non si esprime con maggioranze o minoranze, ma nasce essenzialmente dal rapporto con Cristo. Non avremo mai uno stile evangelico nei nostri ambienti se non rimettendo Cristo al centro, e non questo partito o quell’altro, quell’opinione o quell’altra: Cristo al centro. Molti di noi lavorano insieme, ma ciò che fortifica la comunione è poter anche pregare insieme, ascoltare insieme la Parola, costruire rapporti che esulano dal semplice lavoro e rafforzano i legami di bene, legami di bene tra noi, aiutandoci a vicenda. Senza questo rischiamo di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio o, peggio ancora, lì dove si creano dei rapporti, essi sembrano prendere più la piega della complicità per interessi personali dimenticando la causa comune che ci tiene insieme. La complicità crea divisioni, crea fazioni, crea nemici; la collaborazione esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi. Nella complicità si sta insieme per ottenere un risultato esterno. Nella collaborazione si sta insieme perché si ha a cuore il bene dell’altro e, pertanto, di tutto il Popolo di Dio che siamo chiamati a servire: non dimentichiamo il volto concreto delle persone, non dimentichiamo le nostre radici, il volto concreto di coloro che sono stati i nostri primi maestri nella fede. Paolo diceva a Timoteo: “Ricorda tua mamma, ricorda tua nonna”.
La prospettiva della comunione implica, nello stesso tempo, di riconoscere la diversità che ci abita come dono dello Spirito Santo. Ogni volta che ci allontaniamo da questa strada e viviamo comunione e uniformità come sinonimi, indeboliamo e mettiamo a tacere la forza vivificante dello Spirito Santo in mezzo a noi. L’atteggiamento di servizio ci chiede, vorrei dire esige, la magnanimità e la generosità per riconoscere e vivere con gioia la ricchezza multiforme del Popolo di Dio; e senza umiltà questo non è possibile. A me fa bene rileggere l’inizio della Lumen gentium, quei numeri 8, 12…: il santo popolo fedele di Dio. È ossigeno per l’anima riprendere queste verità.
La terza parola è missione. Essa è ciò che ci salva dal ripiegarci su noi stessi. Chi è ripiegato su sé stesso «guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è aperto al perdono. Questi sono i due segni di una persona “chiusa”: non impara dai propri peccati e non è aperta al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri» (Evangelii gaudium, 97). Solo un cuore aperto alla missione fa sì che tutto ciò che facciamo ad intra e ad extra sia sempre segnato dalla forza rigeneratrice della chiamata del Signore. E la missione sempre comporta passione per i poveri, cioè per i “mancanti”: coloro che “mancano” di qualcosa non solo in termini materiali, ma anche spirituali, affettivi, morali. Chi ha fame di pane e chi ha fame di senso è ugualmente povero. La Chiesa è invitata ad andare incontro a tutte le povertà, ed è chiamata a predicare il Vangelo a tutti perché tutti, in un modo o in un altro, siamo poveri, siamo mancanti. Ma anche la Chiesa va loro incontro perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni. La persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili – è bello, la missione ci rende vulnerabili –, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo.
Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. Diceva Henri de Lubac: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. […] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri […]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio» (Meditazioni sulla Chiesa, 352).
In conclusione desidero augurare a voi e a me per primo, di lasciarci evangelizzare dall’umiltà, dall’umiltà del Natale, dall’umiltà del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo. Persino i Magi, che certamente possiamo pensare venissero da una condizione più agiata di Maria e Giuseppe o dei pastori di Betlemme, quando si trovano al cospetto del bambino si prostrano (cfr Mt 2,11). Si prostrano. Non è solo un gesto di adorazione, è un gesto di umiltà. I Magi si mettono all’altezza di Dio prostrandosi sulla nuda terra. E questa kenosi, questa discesa, questa synkatabasis è la stessa che Gesù compirà l’ultima sera della sua vita terrena, quando «si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13,4-5). Lo sgomento che suscita tale gesto provoca la reazione di Pietro, ma alla fine Gesù stesso dona ai suoi discepoli la chiave di lettura giusta: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15).
Cari fratelli e sorelle, facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù. Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza. Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità. Possa il Signore farcene dono a partire dalla primordiale manifestazione dello Spirito dentro di noi: il desiderio. Ciò che non abbiamo, possiamo cominciare almeno a desiderarlo. E chiedere al Signore la grazia di poter desiderare, di diventare uomini e donne di grandi desideri. E il desiderio è già lo Spirito all’opera dentro ciascuno di noi.
Buon Natale a tutti! E vi chiedo di pregare per me. Grazie!
Come ricordo di questo Natale, vorrei lasciare qualche libro… Ma per leggerlo, non per lasciarlo nella biblioteca, per i nostri che riceveranno l’eredità! Prima di tutto, uno di un grande teologo, sconosciuto perché troppo umile, un sottosegretario della Dottrina della Fede, mons. Armando Matteo, che pensa un po’ a un fenomeno sociale e a come provoca la pastoralità. Si chiama Convertire Peter Pan. Sul destino della fede in questa società dell’eterna giovinezza. È provocatorio, fa bene. Il secondo è un libro sui personaggi secondari o dimenticati della Bibbia, di padre Luigi Maria Epicoco: La pietra scartata, e come sottotitolo Quando i dimenticati si salvano. È bello. È per la meditazione, per l’orazione. Leggendo questo mi è venuta in mente la storia di Naaman il Siro di cui ho parlato. E il terzo è di un Nunzio Apostolico, mons. Fortunatus Nwachukwu, che voi conoscete bene. Lui ha fatto una riflessione sul chiacchiericcio, e mi piace quello che ha dipinto: che il chiacchiericcio fa sì che si “sciolga” l’identità. Vi lascio questi tre libri, e spero che ci aiutino tutti ad andare avanti. Grazie! Grazie per il vostro lavoro e la vostra collaborazione. Grazie.
E chiediamo alla Madre dell’umiltà che ci insegni a essere umili: “Ave o Maria…”
[Benedizione]
Note al testo
[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris 1974, 135.
Riprendiamo sul nostro sito un video di una canzone di Franco Battiato. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Musica.
Il Centro culturale Gli scritti (2/1/2022)
Riprendiamo il video di una bellissima canzone di Franco Battiato che illumina la condizione giovanile a partire dalla sua esperienza: il cantante confronta le sensazioni di quando era giovane con la sua maturità. Magnifico è il modo non moralistico con il quale descrive e non condanna, limitandosi a constatare che che ci sono delle cose che passano e altre che restano:
Quand’ero giovane andavo a letto tardi
Sempre vedevo l'alba
Dormivo di giorno e mi svegliavo nel pomeriggio
Ed era sera, era già sera
La notte, non mi piace tanto
L’oscurità è ostile a chi ama la luce
Si accavallano i giorni come onde, ci sovrastano
Le cattive notizie in questi tempi di forti tentazioni
Ci sommergono
Dobbiamo seguire la nostra coscienza e le sue norme
Viva la gioventù, che fortunatamente passa
Senza troppi problemi
Vivere è un dono che ci ha dato il cielo
Uscendo dai locali, mi capitava di vedere code di macchine sostare
Al Parco Ravizza o al Monumentale
La merce era il sesso
Compravano sesso, e spesso diverso
Viva la gioventù che fortunatamente passa
Senza troppi problemi
Vivere è un dono che ci ha dato il cielo
Andavamo a suonare nelle sale della Lombardia
E c’era un'atmosfera eccezionale la domenica di pomeriggio
In quelle balere si divertivano a ballare operai e cameriere
Era passata un’altra settimana
|
|