Gli attacchi saraceni (arabo-musulmani) nel Lazio del IX secolo e il potere temporale del vescovo di Roma nell'alto medioevo: fonti letterariele ed evidenze materiali e archeologiche, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /01 /2022 - 23:19 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Alto medioevo e Islam. Per il testo completo on-line de Il potere necessario, di Andrea Lonardo, sull’evoluzione del potere temporale fino alla metà dell’VIII secolo, cfr. Il potere necessario in PDF; per la prima versione del testo, pubblicata come tesi di laurea in Word, cfr. Il potere necessario. I vescovi di Roma e la dimensione temporale nel “Liber pontificalis” da Sabiniano a Zaccaria (604-752), di Andrea Lonardo. Per una brevissima sintesi della ricerca, cfr. Il potere necessario: come nacque il potere temporale della Chiesa?, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)

1/ Gli attacchi saraceni furono solo delle scorrerie o furono un’invasione arabo-musulmana? Contro gli opposti eccessi interpretativi

L’alto medioevo è povero di fonti letterarie. In esse emerge però che città, monasteri e borghi della penisola dovettero sopportare attacchi arabi. Se alcune fonti ne parlano diffusamente (in particolare il Liber pontificalis e l’Antapodosis di Liutprando), ne parlano ancor più le cronache arabe stesse che vantano ovunque l’efficacia dei saccheggi, delle deportazioni e delle distruzioni arrecati.

Dinanzi a tali fonti, gli autori scelgono due opposte vie: alcuni tendono a minimizzare, affermando che si trattò solo di azioni piratesche, in fondo solo di attacchi che non ebbero ripercussione alcuna, ma “incresparono” solo momentaneamente l’orizzonte storico, altri, all’opposto, li descrivono come una vera e propria invasione dell’Islam che avrebbe inteso sottomettere e annientare ogni potere non islamico del Mediterraneo.

Per comprendere come entrambe le posizioni siano errate è importantissima un’attenta analisi di ciò che avvenne nel Lazio e a Roma per fornire elementi che illuminino ciò che in realtà accadde.

2/ Il primo attacco su Roma dell’846, durante il pontificato di Sergio II

Le distruzioni, i trasferimenti nell’interno degli insediamenti già costieri per sfuggire ai devastanti attacchi, le fortificazioni che si moltiplicano nel Lazio e a Roma, permettono di comprendere meglio la natura e la pericolosità di queste azioni musulmane in tutto il Mediterraneo, attacchi passati alla storia con il nome di “saraceni”.

Il periodo su cui vale la pena soffermarsi, perché è il periodo di massima crisi vissuto dal Lazio e da Roma, è quello del IX secolo. In particolare è il periodo del pontificato di papa Leone IV (847-855)[1] ad essere rivelativo e ricco di fonti anche archeologiche perché egli dovette prendere atto degli eventi accaduti nei decenni precedenti e prevedere gli attacchi che i suoi successori avrebbero ancora dovuto subire.

Il grande vantaggio nello studio di tale periodo consiste proprio in questo, che i dati letterari della vita del pontefice che emergono dal Liber pontificalis[2] possono essere confrontati con i suoi interventi materiali che sono ancora visibili sul terreno.

Leone IV prese importanti decisioni dinanzi alle incursioni arabe che si erano rivolti prima contro i centri costieri laziali – certamente contro Centumcellae, l’odierna Civitavecchia, così come contro Ostia e Porto – e poi direttamente contro la città di Roma che vide il saccheggio delle basiliche di San Pietro e di San Paolo fuori le mura, nell’anno 846, al tempo di papa Sergio II[3], suo predecessore.

Il Liber pontificalis[4] racconta, nella biografia di quel papa, di un attacco saraceno che durò più giorni. Fu il comes della Corsica Adelvertus ad inviare un primo avvertimento a prepararsi ad un attacco dei musulmani, indicando l’esistenza di una flotta di 73 navi che prima o poi avrebbe attaccato anche Roma - come sempre i numeri delle fonti altomedioevali, sia latine che arabe, debbono essere presi con beneficio di inventario, ma l’idea che il comes intende dare è che l’attacco sarà portato da un numero ingente di imbarcazioni e di uomini.

Il Liber riferisce che, purtroppo, nell’urbe l’avvertimento non venne accolto con serietà e non ci si preparò alla difesa. La Corsica, ovviamente, era già stata oggetto di attacchi, saccheggi e deportazione di schiavi da parte degli arabo-musulmani e Duchesne ricorda che nell’807 un diverso comes, Burcardo, aveva dovuto far fronte ad attacchi saraceni contro l’isola: appare evidente che tali aggressioni provenivano, in questo caso, dai musulmani dell’Hispania (oggi diremmo dell’Andalusia), data la vicinanza della Corsica con tale regione, piuttosto che dal più lontano nord Africa o dalla Sicilia che stava per essere conquistata - l’assedio e la conquista arabi di Palermo sono di poco successivo, dell’830, ma precedenti agli attacchi contro Roma, come si vedrà meglio più avanti.

Gli invasori sbarcarono ad agosto dell’846 ad Ostia e la occuparono, mentre i cittadini fuggirono – si tratta ovviamente della Ostia antica che versava già a quell’epoca in decadenza a motivo dell’avanzamento della linea costiera e l’attacco fu il colpo decisivo che portò all’abbandono del sito.

Il secondo e il terzo giorno i saraceni si diressero contro Porto che, nel frattempo era stata abbandonata e la saccheggiarono: la fuga delle popolazioni indica la consapevolezza della grandezza del pericolo che non risparmiava le persone, poiché eventuali difensori sarebbero stati uccisi e gli altri deportati in schiavitù.

Da Roma si cercò di venire in soccorso di Porto, richiamando i soldati Sassoni, Frisoni e Franchi a recarsi a Porto: essi, giunti lì, capirono di doversi ritirare, avendo perso alcuni uomini e non avendo le forze per resistere. Ritornati nell’urbe tali soldati si apprestarono alla difesa delle Mura cittadine e, in particolare, alla difesa dell’accesso sul Tevere, da cui gli invasori sarebbero potuti penetrare con barche.

Il quarto giorno si venne alla battaglia e i difensori della città ebbero la peggio nello scontro e molti di essi vennero uccisi[5]. I saraceni allora poterono dirigersi verso la basilica di San Pietro al colle Vaticano e la saccheggiarono.

Il testo del Liber che è giunto fino a noi manca delle pagine che descrivono l’ultima parte dell’attacco, che sarebbero state importantissime. Lo Pseudo-Liutprando che ha potuto leggere il testo per intero, così sintetizza la parte testualmente mancante: «Giunti i saraceni [nei pressi della basilica] uccisero innumerevoli uomini, catturarono molte fortificazioni e borghi e, dopo averli saccheggiati, li diedero alle fiamme […] e, dopo aver catturato e ucciso molti, carichi del maggior numero possibile di uomini [presi come schiavi] e di beni predati, se ne ritornarono indietro»[6].

Gli Annales di Prudenzio di Troyes, invece, sono più espliciti nel raccontare del saccheggio e degli oggetti che vennero asportati all’interno della basilica di San Pietro, aggiungendo che la stessa sorte subì la basilica di San Paolo fuori le Mura, evento che doveva essere narrato anche nella parte mancante del Liber pontificalis.

La Cronaca di Montecassino, redatta intorno all’870, e le Gesta epp. Neap. redatte da Giovanni Diacono informano sui fatti che seguirono l’attacco a Roma, descrivendo, seppure in maniera diversa, ulteriori scontri che si ebbero sulla costa e fino a Gaeta, poiché l’azione di saccheggio riguardò ulteriori luoghi e non solo i quattro-cinque giorni di combattimenti a Roma[7].

Appare, comunque, da questi dati in maniera indubbia che l’incursione contro Roma non rientra in nessuna delle due categorie nelle quali si è usi rinchiudere gli assalti saraceni: non si tratta chiaramente di un’invasione, tanto è vero che gli assalitori si ritirarono dopo alcuni giorni e si rivolsero a siti diversi nella loro azione, ma non si tratta nemmeno di un’azione piratesca con toccate e fughe episodiche in una notte, in fondo irrilevanti. Si tratta invece di un’azione che colpisce in serie siti diversi, l’uno dopo l’altro, durando talvolta diversi giorni - almeno quattro giorni nel caso di Roma -, con l’intento di derubare beni e prelevare schiavi, mentre le azioni sono accompagnate dall’uccisione di chiunque si opponga: il dare alle fiamme completa spesso l’azione.

Azioni di questo genere generavano il terrore poiché tutto lasciava pensare che le navi arabo-musulmane si sarebbero potute ripresentare in qualsiasi momento, con azioni a seguire anche nell’interno, e che non vi sarebbe stata pietà alcuna nelle uccisioni, nella cattura di schiavi fra le donne e i bambini e nel saccheggio e nella distruzione dei siti raggiunti. Se addirittura Roma poteva essere colpita, una città con mura imponenti ben distante dal mare, nessuno era al sicuro.

3/ Il periodo rivelatore del pontificato di Leone IV

Il Liber prosegue il suo racconto con la biografia di Leone IV che fu il successore di Sergio II[8]. La sua elezione avvenne in un clima di grande tristezza e paura, poiché a tutti era chiaro che la devastazione delle basiliche romane non era un episodio isolato, bensì era in cunctorum finibus romanorum, cioè riguardava tutti i territori del Lazio. Il sentore era che nullatenus evadere mortis periculum posse, cioè che nessuno poteva scampare alla morte, cioè che non ci fosse via d’uscita.

Alla morte di Sergio II, Leone IV venne prelevato quasi di forza dalla basilica dei Santi Quattro Coronati, di cui aveva la cura, e unanimemente acclamato pontefice in San Giovanni in Laterano. Si procedette contro le consuetudini ad ordinare vescovo di Roma Leone senza attendere che giungesse l’assenso imperiale, per il pericolo imminente: timore et futuro casu perterriti eum sine permissu principis praesulem sacraverunt.

Il Liber si diffonde poi a narrare come la prima attenzione del pontefice fu rivolta a risanare i danni realizzati dagli invasori arabi in San Pietro, donando alla basilica nuove suppellettili liturgiche, al posto di quelle derubate, che le erano necessari peer il culto.

Di ben diversa entità fu il lavoro di consolidamento della cinta muraria di Roma, la cinta di Aureliano già rinforzata da Onorio, che apparve a tutti necessario. Tunc de Romanae urbis statu ac restauratione murorum, qui longo iam senio ad vetustatem infracti dirutique funditus videbantur, coepit cum Iesu Christi domini tractare consultu, cioè cominciò a trattare in fase di consiglio dello stato dell’urbe e, in particolare, del consolidamento delle mura, già da lungo tempo, per l’antichità di tale manufatto, dirute e a tratti in rovina. E ciò perché non potessero facilmente essere espugnate da un nemico – ab hostibus expugnare potuissent -, dove il nemico è chiaramente l’invasore saraceno.

Leone IV si preoccupò fisicamente di percorrere pedibus propris il percorso delle mura per studiarne i punti deboli. Si preoccupò anche di consolidare le porte della città nel loro apparato ligneo a causa del terrore che il nemico ingenerava – ob inimicorum metum sive terrorem.

Addirittura dovette riedificare 15 torri del circuito murario che evidentemente non avrebbero retto all’attaccoXV ab ipso solo turres. Due di esse vennero edificate alla bocca del Tevere perché da lì avevano cercato di accedere le navi arabe: quarum II iuxta Portuensem portam ita prudenter ac sapienter venerabilis praesul ab ipsa ora Tiberis, id est iuxta litus fluminis, aedificari disposuit.

Precedentemente era possibile introdursi all’interno – et quia per hunc locum non solum naves vero etiam homines ante facilius ingrediebantur. E tutto questo fece – sottolinea il Liber – per il pericolo dei saraceni che potevano tornare da un momento all’altro: Et hoc propter futurum Saracenorum periculum et salutem Romanae urbis factum est.

Non bastò il lavoro di muratura, ma fu necessario l’apprestamento di una grande catena con anelli metallici per impedire, all’occorrenza, il passaggio di navi dal fiume: verum etiam ferro munire curavit, quatinus, si necessitas fuerit, per eundem locum nulla valeat navis transire.

Fu un grande miracolo – miraculum –, un miracolo non piccolo, che si potesse apprestare tale apparato difensivo che appariva necessario.

Il Liber racconta poi del secondo attacco saraceno, che si verificò nell’849 e dimostrò che il lavoro alla cinta muraria era più che necessario.

Gli attaccanti sono definiti ipsi Satane filii, ma – si noti bene - il termine non è riferito assolutamente a qualsivoglia aspetto della religione islamica di essi, bensì alla loro crudeltà e violenza. Per l’autore del Liber essi sono figli del maligno, perché vengono per saccheggiare, uccidere, dare alle fiamme e deportare in schiavitù quante più persone possibili: è la violenza crudele degli attaccanti che è indicata con termini demoniaci.

L’attacco venne portato da navi che avevano prima dimorato – secondo il Liber – presso la Sardegna – iuxta insulam Sardiniae -, che a sua volta aveva subito precedenti saccheggi che ininterrottamente continuavano. Potrebbe trattarsi, quindi, di un attacco proveniente da porti dell’Andalusia, ma anche di navi del nord Africa i cui uomini potevano aver costituito una base in Sardegna.

Questa volta, sbarcati a Porto, gli arabo-musulmani si trovarono dinanzi truppe Neapolitanorum, Amalphitanorum, Cagetanorumque […] ut unam cum Romanis: Leone IV non solo aveva restaurato il circuito murario, ma era riuscito a progettare un’azione militare congiunta con forze del ducato di Napoli e delle città di Amalfi e di Gaeta, le cui navi e i cui uomini, insieme a difensori romani dell’urbe stessa, fronteggiarono insieme gli attaccanti.

Il pontefice steso si recò ad Ostia per aprire trattative con i “napoletani” ed assicurarsi che essi non avrebbero combattuto contro Roma, bensì a suo favore.

Sebbene le sorti della battaglia, che venne combattuta a Ostia, sembravano in un primo momento favorevoli ai saraceni – afferma il Liber – il sopraggiungere di una tempesta che fece affondare diverse navi arabe rovesciò l’esito finale e le forze congiunte di Napoli, Amalfi, Gaeta e Roma ebbero la meglio sulle truppe saracene che con le loro navi non riuscirono ad entrare nel Tevere per attaccare, com’era nelle intenzioni, Roma per la seconda volta.

Dopo una serie ulteriore di fatti riguardanti le opere per le chiese cittadine, il Liber giunge al racconto della costruzione delle Mura che saranno dette Leonine, le Mura a difesa della basilica di San Pietro da eventuali ulteriori attacchi arabi. Il Liber ripete che l’opera fu dovuta al rischio di nuovi attacchi dei “nefandi ac malevoli Saraceni” – e di nuovo non è questione di religione, ma della loro crudeltà e del pericolo delle devastazioni senza pietà che essi compivano.

Per una tale opera, cui già aveva dato inizio Leone III (795-816), il pontefice si rivolse all’imperatore Lotario (fu tale dall’840 all’855), perché inviasse fondi per permettere la costruzione di quest’opera di così grandi dimensioni. L’imperatore accordò il suo aiuto e Leone IV ne fu felice, ma la somma era ancora esigua per un tale lavoro. Allora Leone IV convocò tutti i maggiorenti dell’urbe e con essi si decise di inviare richieste a chiunque per tale impresa: de singulis civitatibus massisque universis publicis ac monasteriis, cioè da ogni città dipendete da Roma, da ogni massa/insediamento agricolo e da ogni monastero si richiedeva un contributo per tale opera.

Il lavoro non venne interrotto nemmeno con condizioni atmosferiche avverse, tanto era urgente e prossimo il pericolo, e né frigus, neque flatus ventorum, vel pluvia aut aeris grandis vel modica conturbatio fecero rallentare i lavori: ogni impegno fu messo per giungere rapidamente alla chiusura del nuovo sistema difensivo intorno alla basilica di San Pietro. Una solenne preghiera di benedizione concluse la costruzione e, in quell’occasione, il pontefice pregò perché la nuova “città” – che fu chiamata da allora civitas leonina” - fosse conservata sicura da Dio, per intercessione dell’apostolo Pietro, et de ostibus, quorum causa constructa est, novos ac multiplices abere triumphos.

4/ Le Mura Leonine

Se il Liber pontificalis racconta come fonte letteraria la costruzione delle nuove mura a protezione di San Pietro, dopo aver descritto la situazione in cui esse vennero realizzate, ecco che tale dato può essere confrontato ancora oggi con l’esistenza di tale reperto enorme, quanto a dimensioni, che dice l’entità del pericolo: sono le Mura Leonine ancora oggi in piedi.

Proprio l’erezione di quel complesso difensivo così imponente mostra che un ulteriore attacco arabo-musulmano era ritenuto altamente probabile e, difatti, come si è visto, esso si verificò nell’849. Secoli dopo questo secondo attacco venne rappresentato da Raffaello nelle sue Stanze e l’opera porta oggi il titolo di Battaglia di Ostia[9].

Le Mura Leonine sono un lavoro incredibile, per l’alto medioevo, che venne avvertito come necessario e inderogabile. Sono oggi note come Mura di Passetto di Castello. È rarissimo sentir presentare correttamente tali mura a chi si reca in visita a Roma: gli ignoranti sono abituati a presentarle come se fossero state costruite per permettere al pontefice di fuggire, in caso di attacco, dal Palazzo Apostolico in Castel Sant’Angelo. Ma tale falsa notizia nasce dalla evidente dimenticanza che il papa iniziò ad abitare in Vaticano solo dopo il ritorno da Avignone, mentre quelle mura sono del IX secolo.

Quelle mura non furono erette per la fuga del pontefice, ma, con tutt’altro scopo, in previsione di attacchi arabi. Ma divennero poi decisive per la futura evoluzione della residenza papale. Infatti, quando i pontefici tornarono da Avignone, la residenza lateranense era ormai in decadenza e troppo lontana dal centro della città: a motivo di quelle mura i pontefici decisero di risiedere in Vaticano sia perché quel luogo era più centrale, sia perché era ormai protetto da mura. Insomma gli attacchi arabi, indirettamente, a distanza di secoli, determinarono l’attuale ubicazione della residenza del pontefice!

Quelle mura poterono essere utilizzate in una funzione totalmente diversa da quella originaria quando ci fu l’attacco dei Lanzichenecchi nel 1527 (il famoso Sacco di Roma di età rinascimentale): come un camminamento che fu percorso da papa Clemente VII.

Chi ancora oggi si ferma dinanzi a quelle mura comprende come gli attacchi arabi avrebbero potuto cambiare la storia e come non furono degli eventi secondari, bensì richiesero un ingente impegno a difesa di Roma e di tutti i luoghi che vennero via via sottoposti ad attacco.

Il circuito murario iniziava a monte della città presso Castel Sant’Angelo, legandosi all’antico Mausoleo di Adriano che era già stato mutato in fortezza ai tempi delle guerre goto-bizantine e già portava il nome di Castellum[10]. Da lì le mura salivano lungo il Colle Vaticano: tale tratto è ancora visibile ed è appunto il cosiddetto Passetto di Castello. Le mura proseguivano così alla destra della basilica che non era ancora dotata di un Palazzo per l’abitazione del papa – sarà solo papa Niccolò III, alla fine del XIV secolo ad includere nelle mura la zona dell’attuale Palazzo pontificio.

In cima al Colle Vaticano le mura si chiudevano a sinistra dove sono ora la Torre di San Giovanni – che apparteneva al circuito murario originario - e la Porta Pertusa. Parte di questo tratto di mura è tuttora visibile all’interno dei Giardini Vaticani, poiché le Mura costruite da Antonio da Sangallo il Giovane hanno portato più in avanti il nuovo sistema murario, lasciando le mura Leonine all’interno, nello stato in cui erano all’epoca. La Torre sopracitata apparteneva al circuito delle Mura Leonine, ma è stata, ovviamente, profondamente modificata e ristrutturata nel corso dei secoli.

A quel punto le mura ridiscendevano verso il Tevere con un tracciato che non è stato ancora identificato con precisione, per le successive costruzioni che hanno coperto le fondazioni di tali mura. Certo è che esisteva una porta, detta Porta Saxonum, esattamente dove sorge oggi la porta di Santo Spirito, quindi le mura dovevano giungere fino al Tevere in quelle vicinanze.

È certa l’esistenza di tre porte, la Porta Saxonum, appunto, oggi Porta di Santo Spirito, la Porta di Sant’Angelo – detta in antico Posterula Sancti Angeli -, che venne poi distrutta, vicino Castel Sant’Angelo, e la Porta di San Pellegrino che esiste tuttora sul lato destro del colonnato del Bernini, anche se è stata profondamente modificata nei secoli. Essa era la porta che dava accesso a San Pietro ai pellegrini che giungevano dalla Francigena – il cui ultimo tratto corrisponde all’odierna via Trionfale.

Come hanno posto in evidenza gli studi moderni su tale imponente manufatto[11], il nuovo circuito murario raggiungeva la lunghezza di circa tre chilometri, aveva uno spessore di circa quattro metri, era fatto di murature piene, e raggiungeva un’altezza fra i sei e gli otto metri. Torri di forma rettangolare, ad intervalli regolari, si innalzavano sopra il livello delle mura per permettere sia l’avvistamento, ma anche una difesa più sicura per colpire eventuali aggressori.

Gli studiosi sottolineano come la costruzione sia avvenuta con una posa irregolare di laterizi e con il reimpiego di ogni materiale disponibile per raggiungere il risultato[12].

I lavori durarono all’incirca quattro anni, con inizio nell’849 – l’anno del secondo attacco saraceno – o addirittura l’anno prima, per concludersi il 27 giugno dell’852.

Se il Liber racconta della benedizione delle fortificazioni che venne compiuta percorrendo l’intero circuito a piedi scalzi - per totum murorum ambitum, nudibus pedibus – da parte del papa con tutto il clero, è certo che fu decisivo il concorso anche dell’imperatore e che la cittadinanza tutta si unì all’evento.

Le epigrafi attestano, da un punto di vista materiale, ciò che il Liber ha conservato in forma letteraria[13].

Sulla Porta di San Pellegrino, poi Porta Viridaria, venne posta l’iscrizione:

QUI VENIS AC VADIS DECUS HOC ABTENDE,
QUOD QUARTUS STRUXIT NUNC LEO PAPA LIBENS.
MARMORE PRAECISO RADIANT HAEC CULMINA PULCHRA,
QUAE MANIBUS HOMINUM AUCTA DECORE PLACENT.
CAESARIS INVICTI QUOD CERNIS ISTE HLOTHARI,
PRAESUL TANTUM OVANS TEMPORE GESSIT OPUS.
CREDO MALIGNORUM TIBI IAM NON BELLA NOCEBUNT,
QUENE TRIUMPHUS ERIT HOSTIBUS ULTRA TUIS.
ROMA CAPUT ORBIS, SPLENDOR, SPES, AUREA ROMA,
PRAESULIS UT MONSTRAT EN LABOR ALMA TUI.
CIVITAS HAEC A CONDITORIS SUI NOMINE LEONINA VOCATUR[14].

L’enfasi sul nome di Roma implica che la zona della basilica sia considerata parte integrante della Aurea Roma, non solo fondata da Romolo e Remo e fecondata dalla cultura classica e divenuta poi capitale dell’antico Impero, ma poi rinnovata dal martirio di Pietro e dalla presenza ormai perenne del suo successore.

L’opera è attribuita dall’epigrafe all’invitto Lotario, l’imperatore, ma si sottolinea che fu poi papa Leone che la realizzò “in modo trionfale”[15] – si tornerà alla fine di questo studio sulla questione del rapporto fra potere pontificio, potere imperiale e magistrature cittadine.

In una seconda epigrafe, ancora letta da Maffeo Vegio, nel XV secolo in un luogo imprecisato delle mura, si affermava:

CUM VOLUISSET ITERUM CONTRA ROMANOS MALEVOLA SARRACENORUM GENS BELLA EXCITARE UT PRIUS, DEPRAEDATIONESQUE INFERRE; QUOSDAM, DEO PERMITTENTE, MARIS TEMPESTAS ABSORBUIT, QUOSDAM VERO ROMANI MILITES VIVOS CEPERUNT, ATQUE OB LAUDEM AETERNAMQUE MEMORIAM, PLURES FERRO VINCTOS, IN HOC PERHONESTO OPERE DIVERSOS PERFERRE LABORES COEGERUNT[16].

Qui si esplicita il motivo dell’edificazione delle mura: esse sono state edificate «poiché la stirpe maligna dei Saraceni ha voluto, per la seconda volta, attaccare guerra contro i romani e infliggere, come la prima volta, depredazioni […]».

5/ Cencelle, il nuovo insediamento della Civitas Vetula (Civitavecchia) dopo il saccheggio arabo

Ulteriori interventi difensivi stabiliti da Leone IV sono riportati dal Liber che racconta come Leone IV chiese alle popolazioni che erano dovute fuggire dalla Corsica a causa degli attacchi saraceni ed erano giunte a Roma di riedificare la cittadina di Porto e di prepararsi alla difesa se gli arabi fossero tornati. DI tali corsi si dice che timore Saracenorum perterriti propriis finibus exules exsistebant[17]. Questa piccola notazione ci fa percepire ancora una volta, anche se indirettamente, il grande pericolo che correva ogni insediamento sulle coste mediterranee per le azioni arabo-musulmane: quei corsi - non si specifica più precisamente da quale città provenissero– dovevano essere stati attaccati dai saraceni o dovevano avere avuto notizia di altri centri loro vicini dove si erano avuto massacri, saccheggi e deportazioni di popolazione, ed essi avevano così abbandonato l’isola cercando rifugio in Roma in un numero sufficientemente elevato da poter ripopolare un’intera cittadina come Porto, alla foce del canale navigabile di Fiumicino, stabilendosi in quel luogo e mantenendo un corpo armato anche in prospettiva di una difesa dell’urbe.

Subito più avanti si dice che Leone IV non si preoccupò solo della difesa di Roma, ma invitò tutti, nei luoghi intorno alla città, a preparare mura ed uomini a difesa della popolazione (non tantum pro defensione urbis suos Romanos proceres diligebat, sed undecunque valebat colligere homines ad eorum auxilium et solatium invitabat[18]). In particolare il Liber ricorda come il pontefice si curò direttamente del consolidamento delle cinta murarie di Orte e di Amelia, poiché evidentemente fin lì potevano giungere gli aggressori.

Ampio spazio è poi dedicato, nel Liber, alla fondazione di una nuova città perché gli abitanti di Centumcellae sorta intorno al Porto di Traiano, l’odierna Civitavecchia, erano fuggiti da essa dopo che gli arabi l’avevano sottoposto a saccheggio[19].

Il Liber riferisce un dato storico di grande importanza: erano ormai 40 anni che la città era stata attaccata e al tempo di papa Leone IV non era ancora possibile ritornare a vivere in quel luogo, sulla costa, tanto era grave il pericolo: et per XL annos, muris diruta et habitatore proprio destituta manebat, moresque bestiarum, relictis sedibus propriis ob timorem Saracenorum[20].

Gli storici ipotizzano che l’attacco fosse avvenuto nell’anno 813, a partire da una notizia riportata dagli Annales attribuiti ad Eginardo[21] che raccontano come il comes Emporitanus che sorvegliava Maiorca sorprese una spedizione di Mori – Mori è termine che nelle fonti antiche è equivalente a Saraceni, indicando i musulmani arabi ormai mischiati con le popolazioni del nord Africa (in molte delle fonti i termini mori e saraceni si intercambiano) - insediatasi in Corsica che ritornava in Spagna e, avendola attaccata, catturò otto navi saracene nelle quali erano più di cinquecento abitanti della Corsica che erano stati presi in schiavitù dagli arabi e li liberò. Gli Annales dichiarano che, per vendicarsi, i mori attaccarono Centumcellae ed altri siti.

Il Liber racconta, quindi, che gli abitanti che si erano salvato dall’attacco vivevano come bestie – mores bestiarum – vagando nelle colline[22], senza sapere dove trovare una nuova sistemazione adeguata.

Il pontefice decretò allora che la popolazione di Centumcellae abbandonata si trasferisse in un nuovo luogo sicuro ad quam ipse profectus, loca quae ei affinitate erant coniuncta diligenti cura ac studio praevidit atque conspexit.

Si recò, infatti, infine, ad locum optimum valdeque munitum, cioè, ottimo anche per la copiosità delle acque, come spiega il biografo pontificio, ma anche valde munitum, difeso e difendibile da successivi attacchi.

Il nuovo insediamento porterà, oltre al nome del pontefice, esattamente quello della vecchia città, Cencelle cioè Centumcellae, mentre la vecchia sede della città prenderà il nome di Civitas vetula, cioè Città vecchia, oggi Civitavecchia, ad indicare il luogo che gli abitanti erano stati forzati ad abbandonare.

Estremamente significativo è che la nuova città sia costruita nell’interno a ben 12 miglia dal precedente sito - circa 20 chilometri – perché evidentemente era impossibile dimorare in sicurezza sulla costa.

Secondo il Liber il miracolo di un sogno viene a confermare la scelta del sito che porterà il nome di Leopoli, la città di papa Leone IV - cui ex nomine proprio Leopolim nomen imposuit[23].

Il pontefice compì anche qui, come per la civitas Leonina, una processione intorno alle mura e celebrò l’eucarestia per benedire il nuovo sito. Tutto perché in quo et populus salvus existeret: la preghiera del pontefice fu ne unquam ab hostibus capiatur vel invagatur.

I termini dicono chiaramente l’intenzione difensiva: la memoria dell’attacco saraceno dopo quarant’anni è ancora vivissima e la popolazione è lieta di trovare finalmente un nuovo insediamento nell’interno

Il trasferimento della stessa città implicava la traslazione della sede episcopale e, difatti, la basilica di Cencelle divenne la cattedrale sede del vescovo che era fin lì stato il vescovo di Centumcellae sulla costa.

Per comprendere appieno la situazione anche questo dato è fondamentale: è tutta una città che si trasferisce con il suo vescovo. Appare evidente come si dovesse lasciare un sito a vocazione prevalentemente marinara, poiché era troppo pericoloso restare sulla costa. Gli abitanti furono obbligati dalle circostanze a trasferirsi nel nuovo centro, costruendovi la nuova cattedrale, dopo aver abbandonato la vecchia, forse interamente distrutta dall’attacco.

6/ Gli scavi di Cencelle, riportata alla luce dall’Università La Sapienza di Roma

Come per le Mura Leonine di Roma anche nel caso di Cencelle è possibile confrontare il dato delle fonti letterarie con le evidenze archeologiche.

Cencelle, infatti, è stata recentemente fatta oggetto di scavi e di attenti studi da parte degli archeologi dell’Università La Sapienza[24].

Appare evidente che si scelse proprio quel sito, che era già stato centro etrusco nel passato e doveva aver conservato qualcosa della cinta muraria precedente, nonostante esso fosse lontano dalla vecchia città e dalla costa. Gli edifici di Cencelle vennero utilizzati in maniera intensiva dal IX secolo fino all’XI secolo – di questo periodo è lo strato scavato più superficiale – anche se l’utilizzo proseguì in forma minore ancora per tre secoli, prima del totale abbandono.

L’abbandono progressivo del sito mostra bene che quel luogo venne scelto solo per il pericolo cui era sottoposta la città sulla costa e per lo stato di rovina cui era stata sottoposta. Terminato il pericolo arabo, ecco che divenne naturale abbandonare quell’insediamento che durò solo per breve tempo, perché il luogo naturale nel quale vivere era il vecchio sito costiero.

Come ha scritto Pani Ermini, l’insediamento di Cencelle è particolarmente interessante proprio perché permette di fotografare al vivo un insediamento altomedioevale nato ex novo, per l’urgenza della situazione, e abbandonato dopo pochi secoli per la cessazione di quella situazione di pericolo per cui era sorto: «La città voluta da Leone IV costituisce ora sul piano urbanistico un eccezionale “modello”, per molti aspetti unico se non altro per la sua precisa data di nascita, attraverso il quale è possibile conoscere criteri e modalità vigenti in età carolingia nei processi di fondazione di committenza aulica, nel caso papale, affidata per l’esecuzione, come si è visto, ad un magister militum esperto pertanto nel progettare insediamenti militari fortificati. Essa, quale appare oggi ai nostri occhi anche se ampiamente ristrutturata in età comunale, lascia ancora intravedere resti della sua prima fase di vita che tornano in luce man mano che proseguono le indagini archeologiche»[25].

La città ebbe all’interno delle mura almeno due chiese, la prima dedicata a San Pietro, esattamente come la cattedrale della Centumcellae sulla costa, la seconda dedicata a San Leone Magno in onore del pontefice che portava quel nome.

Gli archeologi ipotizzano che l’edificio basilicale scavato nell’area sommitale sia quello dedicato a San Pietro: di esso sono superstiti tutte e tre le navate, al livello della pianta, mentre è perduta l’abside con il presbiterio; è superstite, invece, la cripta. L’edificio venne ristrutturato nel basso medioevo e restano brani del pavimento musivo di ambito cosmatesco.

Evidentissima è la cinta muraria che, nonostante i danni dovuti al tempo, conferma ciò che il Liber scrive e, precisamente, che fu cura del pontefice assicurarsi che una cinta difensiva venisse eretta, perché evidentemente era da temere un’aggressione saracena anche a tale distanza dalla costa.

7/ La fortificazione di taluni siti e la traslazione di altri nel IX secolo

Se il caso delle Mura Leonine e quello dell’insediamento di Cencelle sono i più noti, appare altresì evidente che essi non solo non sono isolati, ma che si rese necessario intervenire su ogni località costiera e, via via, anche su quelle dell’interno.

Le più importanti fortificazioni nel Lazio nel periodo delle incursioni saracene, oltre alle Mura Leonine e a Cencelle sono elencate da Nardi[26] che ricorda:

- Leopoli sorta a Formia per volere di Leone III (795-816)

- Gregoriopoli ad Ostia per volere di Gregorio IV (829-844), intorno all’830[27]

- Giovannipoli sorta su iniziativa di Giovanni VIII (872-882) per proteggere con fortificazioni la basilica di San Paolo fuori le Mura e il suo monastero (sulla quale vedi poco più avanti)

- Laurenziopoli, sorta intorno alla basilica di San Lorenzo fuori le Mura[28].

Inoltre Leone IV restaurò anche le mura di Porto.

Per quel che riguarda, invece, il trasferimento delle popolazioni in abitati più all’interno, ciò che avvenne per Centumcellae-Cencelle-Civitavecchia avvenne anche per Ceri che divenne Cerveteri, dando vita ad una nuova Ceri nell’interno, facilmente difendibile su di uno sperone roccioso e, probabilmente, anche per Tarquinia-Corneto, che però non era sulla costa, bensì aveva un porto costiero, quello di Gravisca, che venne anch’esso abbandonato, anche se gli storici discutono sulla data esatta della cessazione del suo utilizzo.

Certo è che l’antico abitato della Civita di Tarquinia venne abbandonato con il progressivo trasferimento a Corneto (l’attuale Tarquinia). Si sa che ancora nell’852 esisteva una plebs S. Mariae in Tarquinio perché essa appare nell’elenco della bolla inviata al vescovo di Tuscania Virobono da papa Leone IV in quell’anno, ma la popolazione appare essersi spostata dove è ora Santa Maria di Castello che venne fortificata, secondo Andrews, proprio nel IX secolo.

Nardi Combescure ricorda, infatti, gli studi di D. Andrews che proverebbero che alcuni lacerti murari presso Santa Maria di Castello attesterebbero interventi analoghi e coevi a quelli delle mura di Cencelle del IX secolo[29].

8/ Giovannipoli, la fortificazione di San Paolo fuori le Mura

Per quel che riguarda Roma, oltre ai siti portuali di Ostia e Porto decisivi per l’accesso fluviale alla città, è ovviamente importante il sito di San Paolo fuori le Mura[30]. La basilica di San Paolo non aveva in origine alcun apparato difensivo, come testimonia ancora Procopio al tempo delle guerre goto-bizantine[31].

Il Liber pontificalis racconta che fu innanzitutto necessario un primo restauro del complesso basilicale e monastico quod a Sarracenis desctructum fuerat: fu Benedetto III (855-858) ad incaricarsi di ciò[32].

Fu, come si è detto, Giovanni VIII ad erigere il sistema difensivo della basilica, dandole il nome – in maniera simile a ciò che avvenne con le Leopoli di Leone III e Leone IV – di Giovannipoli.

Fin dall’inizio del suo pontificato il papa fu costretto ad occuparsi di questioni militari, per il pericolo arabo-musulmano e già nell’872, poco dopo la sua elezione, una lettera a Angilberga, la moglie dell’imperatore Ludovico II, fa riferimento alla necessità di approntare una flotta e difese contro gli attacchi: dromones […] cum ceteris navibus construentes et cetera vasa bellica et apparatus, quin potius et ipsos animos dominus preparante set ad versus ostile in cursus indesinenter armantes[33].

Spera sottolinea come il desiderio del pontefice sia di poter disporre di navi e di sistemi difensivi autonomi[34]: appare evidente che tale richiesta non dipenda da una volontà di rendersi indipendente da altri poteri, come quello imperiale, bensì dalla necessità di far fronte con immediatezza ad attacchi che possono avvenire all’improvviso e che non consentono tempi lunghi di risposta.

In effetti, nelle lettere del pontefice relative agli anni 876-877 sono molti i riferimenti agli attacchi saraceni che si intensificarono con conseguenti richieste pressanti di aiuto da parte di Giovanni VIII.

Nel settembre 876 il pontefice scrive: nobis in tanto periculo constitutis et Saracenorum incursionibus undique laceratis, mentre in tre lettere a Carlo il Calvo fra febbraio e maggio 877 i toni divengono disperati con l’affermazione che i saraceni si spingono usque ad muros Urbis e che sono distrutti chiese e monasteri nel Lazio e che la popolazione viene deportata in schiavitù dagli aggressori e che tutti si rifugiano in città, mentre i suburbana sono ormai spopolati[35].

Nella lettera 31[36] si legge: Sabinos quam sini adiacentia loca praedantur. Sanctorum quoque basilicas et altaria destruxerunt, sacerdotes et santimoniales, alios quidem captivos duxerunt, alios autem variis mortibus necaverunt et omnem Christi sanguine redemptum populum in circuitu deleverunt, raccontando cioè che la Sabina è devastata, distrutte le chiese, con diverse persone uccise e molte prese come schiavi, mentre il resto della popolazione si è rifugiata nelle mura di Roma.

Nella lettera 32[37], invece, si dice che hanc Idumeorum et Hismahelitum et Agarenis, cioè che questa stirpe ha commesso tanti delitti ut non hominem, non agrum, non iumentum, non pecus, non quicquam ex his, quae sancti Petri iuris existunt, sed omnia, quae oculo vident, manu diripiant et mala, quae cogitant, sine mora perficiant, cioè non c’è niente che gli arabo-musulmani non abbiano distrutto e depredato. Si noti – vi si tornerà più avanti – come i nomi utilizzati per definire i saraceni siano qui ripresi dal linguaggio biblico, gli Idumei, figli di Ismaele e di Agar.

Nella lettera 56[38] si implora l’imperatore di venire in soccorso: iam vestram augustalem imploravimus maiestatem, supra modum cotidie patimur, quippe cum de tota iam depopulata Campania nil habeamus nilque nobis aut venerabilibus monasteriis ceterisque piis locis neque senatui Romano, unde corporaliter sustentari possumus, remanserit, omnibus etiam Romae suburbanis adeo depredatis. Si chiede cioè di soccorrere perché la depredazione ha apportato danni tali che né le risorse di Roma, né quelle dei monasteri, né quelle presenti sul territorio sono più in grado di sopperire al cibo, poiché tutto è stato depredato e devastato dai saraceni.

La fortificazione a scopo difensivo della basilica di San Paolo, trasformata in cittadella, la Giovannipoli, appunto, deve essere datata probabilmente a partire dal 879, quando il pontefice ritornò dalla Provenza.

Spera spiega che non sono state rinvenute evidenze archeologiche di tali fortificazioni perché i ruderi di esse sono già certamente distrutti alla fine del XIX secolo, nelle diverse ristrutturazioni del complesso lungo i secoli, mentre sono ancora visibili in un gruppo di vedute del XVI e XVII secolo come nelle Sette Chiese di Antonio Lafréry del 1575, in una vignetta del Maggi del 1600, nell’incisione di Custos Dominucus in Deliciae Urbis Romae divinae et humanae e in quella del Villamena del 1609[39].

Dell’iscrizione dedicatoria è rimasta la trascrizione, suddivisa in due parti:

HIC MURUS SALVATOR [ADEST INVIC]TAQUE PORTA / QUAE REPROBOS AR[CET SUSCIPI]T ATQUE PIOS / HANC PROCERES INTRA[TE SENES IUVEN]ESQUE TOGATI / PLEBSQUE SACRATA DE[I LIMINA SANCTA] PETENS, /QUAM PRAESUL DOMINI PATRAVIT RITE JOHANNES / QUI NITIDIS FULSIT MORIBUS AC MERITIS / PRAESULI OCTAVI DE NOMINE FACTA JOHANNIS / ECCE JOHANNIPOLIS URBS VENERANDA CLUIT[40].

ANGELUS HANC DOMINI PAULO CUM PRINCIPE SANCTUS / CUSTODIAT PORTAM SEMPER AB HOSTEM NEQUAM / INSIGNEM NIMIUM MURO QUAM CONSTRUIT AMPLO / SEDIS APOSTOLICAE PAPA JOHANNES OVANS / UT SIBI POST OBITUM COELESTIS IANUA REGNI / PANDATUR, CHRISTO SAT MISERANTE DEO[41].

Da essa risalta la consapevolezza di un nemico alle porte e dell’autorità pontificia che si erge a provvedere alla difesa di un luogo che caratterizza Roma, nella sua identità spirituale.

9/ I successivi attacchi arabo-musulmani in Campania e nel Lazio, nel loro contesto storico

Il nostro sguardo si concentra sul periodo cruciale del pontificato di Leone IV, ma esso è solo un passaggio nella crisi marinara e costiera di quegli anni[42].

Ovviamente le azioni ebbero inizio dal sud dove, già al tempo del papa Adeodato II (672-676) e dell’imperatore Costantino IV (668-685), Siracusa[43] venne conquistata e saccheggiata[44]. Lì, temporaneamente, il padre e predecessore di Costantino IV, l’imperatore Costante II, aveva trasferito la capitale da Costantinopoli per cercare di riprendere il pieno dominio sull’occidente (sarà l’ultimo imperatore ad abitare, anche solo per 13 giorni, nel palazzo imperiale al Palatino in Roma), ma anche nel tentativo di riconquistare Cartagine – l’odierna Tunisi – e il nord Africa che erano stati invasi dagli arabo-musulmani.

L’azione saracena si rivolse poi direttamente contro Costantinopoli che venne assediata per ben 4 anni consecutivamente dagli arabo-musulmani negli anni 674-678[45], sotto Costantino IV che riuscì nell’intento di salvare la città.

Un secondo assedio alla capitale bizantina venne portato dai saraceni nel 717-718, sotto l’imperatore Leone II Isaurico, che usciva da una situazione di guerra civile interna. La sconfitta degli arabo-musulmani a Costantinopoli segnò l’arresto della avanzata saracena a nord-est, ma non quella da sud.

Infatti, poco prima del secondo fallito assedio di Costantinopoli, i saraceni nel 710-711 passarono lo stretto detto oggi di Gibilterra (dall’arabo Yabal Tariq, la montagna di Tariq, il luogotenente che lo attraversò per procedere all’occupazione della penisola ispanica).

Mentre le forze saracene premevano da sud-ovest, si moltiplicarono pian piano gli attacchi da sud, contro le isole e poi direttamente la penisola italiana.

In Sicilia[46] si passò da attacchi e saccheggi a singole città e borghi marinari, a partire già dal 652 e 669, alla conquista vera e propria che, iniziata nell’827, vide i due episodi fondamentali dell’assedio e della caduta di Palermo negli anni 830-831 e poi di Siracusa, con la strage della popolazione locale, nell’878[47]. Le azioni militari saracene proseguirono fino alla conquista totale con gli ulteriori episodi decisivi della conquista di Taormina nel 902 (con la strage della popolazione civile) e, infine, di Rometta che è l’ultima città siciliana a cadere nel 964-965 (anche qui con il saccheggio e le uccisioni di civili).

Come si vede il pontificato di Leone IV segue i saccheggi non ancora a scopo diretto di conquista e poi la conquista di Palermo (830-831), quando gli arabi passarono all’invasione vera e propria, e precede l’assedio e la conquista di Siracusa (878).

Mentre si procedeva alla conquista della Sicilia, altri gruppi saraceni nel frattempo conquistavano Bari che fu emirato dall’847 fino all’871 – anche qui si vede che gli attacchi verso l’urbe coincidono con gli anni di tale dominio.

Taranto fu conquistata e permase sotto il dominio arabo più o meno negli stessi anni dell’emirato barese e precisamente negli anni 840-880.

Negli stessi anni si ebbero degli emirati anche a Tropea, Santa Severina ed Amantea che esercitarono per quasi mezzo secolo (840-885) una vera e propria industria del saccheggio[48].

Questo mostra bene come gli attacchi contro la Campania, il Lazio e Roma stessa non provenissero sempre direttamente dal nord Africa, ormai interamente arabo-musulmano, ma soprattutto da queste teste di ponte stabilitesi nella penisola.

Ovviamente, prima di Roma, furono attaccate le coste campane.

Solo per indicare alcune azioni maggiori con datazione accertata, del 841 è il saccheggio dell’odierna Santa Maria Capua Vetere, “vecchia” come Civitavecchia e Cerveteri – con la fondazione della nuova città di Capua che avvenne nell’856.

Dell’846 lo stesso anno della prima azione su Roma, è l’assedio di Gaeta e un probabile insediamento presso Ausonia (località ad duos leones secondo le fonti), seminando terrore lungo la via Appia.

Sempre dell’846 è il primo attacco a Montecassino, con la distruzione de i priorati annessi di San Giorgio e Santo Stefano, mentre dell’860 è la prima azione saracena contro l’abbazia di San Vincenzo al Volturno che venne sottoposta da Sawdān, emiro di Bari (857-871), a tributo come condizione per non devastarla.

Anteriore all’anno 844 è la devastazione da parte degli arabi dei due monasteri maggiori di Subiaco, quello dei Santi Cosma e Damiano (l’antico monastero di San Clemente) e quello di Santa Scolastica[49]. Gli arabi, nell’incendio che fecero divampare, bruciarono anche tutti i documenti in possesso dei monasteri[50].

Dell’869 è il lungo assedio a Napoli, posto dallo stesso Sawdān[51]. Degli anni 870-871, invece, l’assedio, anch’esso fallito come quello di Napoli, di Salerno.

Nell’anno 876 vengono saccheggiate la Sabina e Velletri.

Gli episodi che seguono il duplice attacco a Roma, la distruzione di Centumcellae e gli altri episodi laziali, raggiungono il loro culmine quando, nell’881, gli arabi si insediano “al Garigliano” dove terranno un ribāṭ (una fortezza/testa di ponte) fino al 915, come base delle loro incursioni al fine di saccheggio e della deportazione di schiavi. Il luogo è forse l’odierna Suio[52]. Possono insediarsi solo previo accordo con Gaeta (e il suo ipata Docibile, 881-2). Sono gli anni in cui i musulmani si insediano anche ad Agropoli (881, previo accordo con Napoli), e a Sepino (881, alleati di Benevento). Sfruttando le guerre intestine longobarde e quelle di questi con i bizantini, essi provano a passare anche più a nord delle coste calabre e lucane ad una fase di veri e propri insediamenti stabili.

L’insediamento del Garigliano ebbe una vita simile - sebbene la cronologia sia leggermente sfalsata - alla roccaforte saracena di Fraxinetum[53] (l'odierna La Garde-Freinet, sul Golfo di Saint Tropez, sotto la montagna che ancora porta memoria di quegli anni, il Massif des Maures), attiva dall’890 al 975, che fu la punta più avanzata sulle coste francesi e che divenne punto di partenza per le scorrerie moresche in Provenza ed in Liguria e fin nelle Alpi.

Dell’881 è il saccheggio dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno con l’uccisione di molti dei monaci[54], da parte dei saraceni del Garigliano. Degli anni che precedono e seguono sono le scorrerie che puntano sulle odierne Formia, Fondi e Terracina, Anagni, Nepi, Sutri, Narni, Orte, Trevi (devastata nell’881), i monasteri del Cassinate, Boiano e Isernia (anche se queste furono forse opera delle truppe mercenarie di Sepino), e ancora Alife, Telesa e Atina, con la fondazione della rocca di San Biagio Saracinisco (forse da ascrivere alle imprese degli arabi di Puglia, Sawdān di Bari e Uthman di Taranto, anteriori di qualche decennio), Teano, Caserta[55].

Insomma, qualsiasi città o borgo, anche dell’interno, è sotto attacco.

Dell’883 è l’assalto a Montecassino, con l’uccisione dell’abate Bertario e la distruzione dell’abbazia, che verrà rifondata solo nel 949)

Nell’890 o 891 i saraceni assediano a lungo l'Abbazia di Farfa, riuscendo infine ad espugnarla nell’897 o 898: i suoi monaci fuggono divisi in tre gruppi, uno viene trucidato dai musulmani vicino Rieti che attaccano anche il contado della città.

Nel 902 i napoletani, temendo le incursioni delle orde di Ibrahim, decidono la distruzione del castrum/rocca, per impedire che diventi un luogo da cui i saraceni possano condurre l'attacco alla città. La comunità religiosa del castrum ripara in San Severino e San Sossio[56].

Ma, man mano, le forze locali sembrano ritrovare forze e il periodo più critico termina nel 915 o 916, quando, sotto papa Giovanni X, una lega anti-saracena cui partecipa Gaeta caccia i saraceni dalla base detta “del Garigliano”.

La cacciata dei saraceni da quel sito sembra non essere solo un episodio vittorioso isolato, bensì l’attestazione di un’accresciuta capacità delle diverse città e borghi che, pian piano, riprendono il controllo della penisola, con gli episodi ben più decisivi della fine degli emirati di Puglia e di Calabria e l’allontanamento della minaccia per l’indebolimento contestuale delle forze avversarie.

Decisiva è, ovviamente, l’avanzata normanna, anch’essa sanguinosa. Parallelamente avviene la silenziosa crescita delle Repubbliche marinare, a partire dalle città di Amalfi e Gaeta, e che esploderà poi dopo il mille con Genova, Pisa e Venezia: tali città con le loro flotte via via ripresero il controllo prima del Tirreno e dell’Adriatico e poi dei mari più a sud.

10/ Cosa sono allora precisamente gli attacchi saraceni su Roma e nel Lazio?

È l’insieme delle numerosissime notizie sugli attacchi arabi che emergono nei diversi luoghi, così come le attestazioni materiali date dalle rimanenze archeologiche delle mura costruite o ricostruite, così come degli insediamenti sorti ex novo a sostituire quelli saccheggiati e ormai troppo esposti, a permettere di rispondere più precisamente alla domanda di partenza.

Tutti questi dati fanno ben capire che non si trattava di una vera e propria invasione arabo-musulmana e nemmeno di episodi occasionali di scorrerie.

Si trattava, invece, di una prima fase, fatta di azioni di saccheggio, di pirateria, di sterminio di popolazioni locali e di acquisizione di schiavi volte al sostentamento di azioni militari più grandi e all’arricchimento, in vista di un successivo salto di qualità che sarebbe dovuto approdare ad emirati locali, come quelli di Bari, di Taranto o di Tropea o di Santa Severina (ma anche di Agropoli).

Solo in un ulteriore momento successivo, che non si ebbe mai nella penisola italiana ma solo in Sicilia, gli attacchi si sarebbero trasformati in una vera e propria invasione, quando si fossero create le condizioni adeguate.

Ma certamente le azioni di saccheggio e di acquisizione di schiavi servivano già a sostenere la guerra di conquista in Sicilia, così come a permettere agli emirati che via via venivano creati, in Puglia, come in Calabria, come in Campania, di prosperare e di condurre azioni più impegnative.

Le navi e le truppe saracene non erano costituite da liberi battitori che puntavano ad un semplice arricchimento personale: no, esse partivano dai porti del nord Africa o dell’Andalusia o della Sicilia e poi dagli emirati della penisola e ad essi ritornavano per riportare il bottino di guerra che era necessario per il consolidamento delle conquiste e per nuove azioni.

Gli attacchi saraceni a cui vengono sottoposti l’intera penisola e così anche il Lazio intendevano accumulare denaro e schiavi in un progetto di più lungo periodo. Nel caso, ad esempio, della Sicilia, è evidente come l’invasione vera e propria venne preparata da una lunghissima serie di attacchi e di saccheggi sulle diverse coste dell’isola[57].

Nel centro Italia e altrove è possibile constatare come si stesse cercando di realizzare una fase successiva, con la creazione di vere e proprie teste di ponte, ed una presenza già stabile in alcune località: a Taranto come a Bari, al Garigliano come a Fraxinetum. Tali sedi permettevano di accrescere già l’entità dei saccheggi e della deportazione di schiavi, indebolendo via via le popolazioni locali e costringendole a ritirarsi nell’interno, con l’abbandono delle coste.

Non si dimentichi che così avvenne anche per l’Hispania: prima dell’invasione vera e propria tramite l’odierna Gibilterra, erano state mandate truppe in avanscoperta che si erano acquartierate a Tarifa e avevano fatto da esploratori per l’attacco successivo.

L’ultima fase, quella della conquista, si verificò pienamente solo in Sicilia, ma non nella penisola, perché i diversi emirati non ebbero il tempo e le forze di mettere radici stabili sul territorio, per il modificarsi degli equilibri.

Solo in questa fase si sarebbe passati alla conquista del territorio in senso vero e proprio, con l’espugnazione delle città più grandi, anche se già la conquista di Bari e di Taranto fa capire che a tali città grandi e ai loro porti si intendeva arrivare.

Ma sbaglia anche chi pretende che ci fosse già un progetto pianificato vero e proprio di conquista. L’esperienza militare dei saraceni li portava a comprendere bene che non era ancora giunto il tempo di iniziare un’azione vera e propria di conquista. Le forze erano già impegnate in Sicilia e bisognava prima chiudere quella partita.

Ma questo non vuole assolutamente dire che sia corretto derubricare gli innumerevoli attacchi come semplici atti di pirateria dovuti a bande di saraceni indipendenti dall’azione arabo-musulmana che si andava compiendo in grande.

Gli attacchi debbono essere interpretati, allora, come mosse preparatorie, come modalità di reperire fondi e schiavi in vista di una conquista che sarebbe certamente giunta, se le forze in campo non avessero rovesciato gli equilibri.

Non ancora un progetto stabile di conquista, ma una serie di passi graduali in vista della conquista vera e propria per la quale non maturarono le condizioni.

Importantissima, in questa prospettiva, è la deportazione di schiavi da tutte le città e i borghi attaccati dagli arabo-musulmani e attestata anche nel caso dell’attacco a Roma. Il commercio di schiavi era una componente decisiva per le forze saracene[58]. Come esse rapivano schiavi nell’Africa nera[59], allo stesso modo si comportarono con gli abitanti delle città saccheggiate o distrutte. Gli attacchi intendevano acquisire beni, ma anche personale da vendere in schiavitù sia per depauperare i territori attaccati sia per acquisire forza lavoro con cui accrescere i propri patrimoni.

Un’analisi comparata di tutte queste azioni permette di cogliere perfettamente la somiglianza fra di esse, per cui le azioni nella penisola ispanica, così come quelle contro isole come Malta o la Sicilia o le Baleari, i saccheggi e le distruzioni nelle odierne Calabria, Puglia, Basilicata e Campania, così come quelli sulle coste laziale, così come gli attacchi sulle coste liguri fino a Genova e, ancora, gli attacchi sulle Alpi, fino al passo del Gran San Bernardo, permette di cogliere questo quadro d’insieme con assoluta chiarezza.

Certamente le cronache del tempo narrano gli eventi aggiungendovi particolari leggendari – hanno qui ragione gli storici che invitano a prendere le fonti con beneficio di inventario -, ma il semplice elenco delle innumerevoli azioni di attacco e saccheggio che avvennero sono sufficienti a comprendere come il secolo IX fu per la penisola un periodo difficilissimo, nel quale le popolazioni vissero atterrite per il pericolo di tali attacchi.

In questo senso, il Medioevo fu certamente tale, un periodo di grande penuria economica e di grande rischio, ma non per una presunta oppressione ideologica che la fede cristiana avrebbe apportato sulle popolazioni già appartenenti all’impero e alla sua precedente cultura pagana, bensì per un impoverimento reale delle condizioni di vita, dovute prima ai barbari e poi agli arabi[60].

L’ignoranza dell’alto medioevo, tipica della cultura occidentale, impedisce di orientarsi a cogliere i perché di un evidente impoverimento che le popolazioni dovettero affrontare, per giungere solo poi ad una progressiva rinascita che generò sia le repubbliche marinare che ripresero via via il controllo del mare, sia la stagione comunale italiana, sia l’affermazione del papato, già prima dell’anno 1000, ma soprattutto dopo di esso.

Il nono secolo fu uno dei più difficili che la penisola dovette sopportare, da paragonare solo al periodo immediatamente precedente delle invasioni barbariche e ovviamente da esso causato. Le fonti letterarie altomedioevali sono povere e non possono diffondersi – come farebbero i moderni perché ricchi di mezzi - a descrivere i particolari di questi infiniti episodi di saccheggio, proprio per la povertà materiale vissuta dai diversi territori e per la conseguente penuria anche di intellettuali e di scuole dedite alla scrittura. Ne deriva che, mentre sono universalmente noti gli eventi di altre azioni belliche successive (si pensi, ad esempio, alle conquiste normanne o alle crociate), poco è giunto a noi di tale travaglio e ancor meno giunge dagli studi specialistici al grande pubblico che spesso ignora totalmente l’incredibile situazione di sofferenza che la penisola dovette sopportare.

L’alto medioevo è saltato a piè pari dal ciclo di istruzioni delle superiori e nessuno si preoccupa di insegnare cosa avvenne dal VII al X al C secolo.

Oggi è un’accresciuta consapevolezza dell’importanza delle fonti materiali – come nel caso delle Mura Leonine o di Cencelle - a dare un prezioso contributo, permettendo di toccare con mano ciò che le fonti letterarie dicono in maniera molto sintetica, data la penuria di mezzi dell’epoca.

11/ Chi erano i saraceni

Ma chi sono i saraceni? Qual è il popolo che viene così identificata dalle fonti?

Come ha scritto Levi Della Vida saraceni è il «nome col quale nel Medioevo cristiano europeo sono stati designati genericamente gli Arabi […] In significato più ristretto s'indicano col nome di Saraceni quei nuclei di Arabi, provenienti dall'Africa settentrionale, i quali, dopo l'occupazione della Sicilia, nel sec. IX e X, fecero spedizioni e stabilirono stazioni militari lungo le coste dell'Italia meridionale, della Liguria e della Provenza (famosa tra tutte quella di Frassineto), spingendosi, in cerca di bottino, fino ai valichi alpini e in Svizzera»[61].

Le fonti chiamano saraceni sono quelli che oggi vengono genericamente definiti “arabi”, cioè quelle popolazioni che, partite dalla penisola arabica, dopo aver conquistato tutto il nord Africa, si spinsero poi nella penisola iberica e, al contempo, dettero l’assalto alle isole del Mediterraneo e alla Sicilia in particolare.

Gli autori altomedioevali non utilizzavano allora in maniera diffusa la parola “arabi”, poiché essa apparve solo tardivamente, solo dopo che Maometto unificò le diverse tribù che avevano nomi sotto un’unica religione e sotto una sola lingua, l’arabo, ed esse cominciarono a percepirsi come un’unità.

Così nelle fonti coeve è abituale affermare che furono i saraceni o i mori a conquistare la Spagna o la Sicilia, mentre noi moderni siamo abituati a dire più precisamente che furono gli arabi a conquistarle.

La parola “saraceni” aveva espressioni equivalenti che abbiamo già incontrato, innanzitutto quella di Agareni. Qui fu Girolamo a consegnare tale termine, come spiega sempre Levi Della Vida: «un semplice scherzo etimologico di San Girolamo, secondo il quale i Saraceni meriterebbero piuttosto di chiamarsi "Agareni", quali discendenti da Agar concubina di Abramo e non da Sara sua moglie legittima, ha accreditato nella letteratura latina medievale il termine Agareni come sinonimo di Saraceni»[62]. Si è visto come le fonti latine utilizzino talvolta anche il termine Ismaeliti” o “Idumei”: qui è l’importanza attribuita alla Bibbia che fece sì che venissero traslati tali nomi sui “saraceni”.

Esiste un ulteriore termine frequente in età altomedioevale – anch’esso è già stato incontrato in questo articolo -, ed è quello di “mori”, coniato a partire dalla loro carnagione. Si noti bene che le fonti unificano in tale termine sia gli arabi che conquistarono il nord Africa, sia i berberi che essi assimilarono e che, passati all’Islam, divennero anch’essi protagonisti delle successive guerre di conquista.

Il termine “saraceni” - come quello di “mori”, di “agareni” o “ismaeliti” - non indica semplicemente i ceppi originari degli assalitori provenienti dalla penisola arabica, ma anche le popolazioni via via assimilate ad essi.

Tutti costoro vennero unificati nel corso dell’VIII e del IX secolo da un’unica religione, quella dell’Islam, e da un’unica lingua, l’arabo, così come era già avvenuto per le diverse tribù della penisola arabica. Per questo è corretto indicarli come arabo-musulmani.

Ma vale la pena subito ricordare – come già detto - che, quando le fonti che abbiamo considerato li definiscono come “nefandi” o “malevoli” o “terribili” o addirittura “figli di Satana”, non si riferiscono alla loro fede islamica, ma alla loro violenza crudele percepita nei saccheggi a scopo di rapina e di acquisizione di schiavi e nelle devastazioni e uccisioni di civili.

La sensazione è che, però, alcuni storici moderni preferiscano a torto evitare l’uso equivalente di “saraceni”, “arabi” e “musulmani” per riservare al termine “saraceni”[63] i saccheggi e le depredazioni e ai termini “arabi” e “musulmani” la cultura che si sviluppò in Spagna e in Sicilia.

Ma questo è evidentemente fuorviante: le azioni di saccheggio, di uccisioni e di deportazione di schiavi fanno parte della visione che, al tempo, avevano gli arabo-musulmani, esattamente come le prospettive culturali e architettoniche degli edifici della Sicilia arabo-musulmana. Gli arabi che conquistarono l’Andalusia e la Sicilia e lì dettero vita alla civiltà araba sicula e andalusa sono esattamente gli stessi che depredavano ovunque le città e i borghi del Lazio sulla costa e nell’interno.

Il politically correct impedisce qui ogni discorso sensato, quasi che attribuire azioni crudeli a quelle popolazioni voglia dire criticare l’Islam di oggi: così non è e non deve essere. Sarebbe come accusare uno studioso di essere anti-cristiano o anti-clericale perché critica le crociate, mentre sta semplicemente svolgendo il suo lavoro di storico.

È a tutti evidente che non c’è niente di scorretto linguisticamente a parlare di Spagna araba o musulmana o di Sicilia araba o musulmana, così non c’è niente di scorretto a parlare di attacchi al Lazio arabi o musulmani.

Questo non implica, ovviamente, che i saraceni o arabo-musulmani non si siano serviti di accordi con longobardi o bizantini o latini cristiani, questo non significa che non ci siano stati duchi longobardi o bizantini ad aver stretto accordi con loro o addirittura ad averli assoldati per determinate campagne militari, esattamente come al tempo delle crociate ci furono cavalieri crociati che combatterono al fianco di reparti musulmani. Così come questo non implica che ci furono e ci sono arabi non musulmani, ma cristiani, come nel caso dei copti.

Visti dal punto di vista degli attaccanti, invece - e non dal punto di vista laziale -, le azioni militari di conquista della Spagna o della Sicilia e gli attacchi a scopo di saccheggio appartenevano senza dubbio ai concetti di jihad, cioè di guerra santa e religiosamente riconosciuta. Addirittura il termine “razzia” ha come radice etimologica l’arabo ghazziyya, forma magrebina di ghazwa, “incursione”[64].

Come ha scritto Cook, è solo «con la fine delle conquiste dell’VIII e del IX secolo, [che] incomincia a profilarsi una concezione non militare del jihad. È assai probabile che i primi a esplorare la possibilità di un’interpretazione di carattere spirituale del jihad siano stati gli asceti»[65]. Tutte le azioni belliche o di saccheggio compiute nel corso dell’espansione islamica dei primi secoli rientravano a quel tempo nella mentalità degli aggressori nel concetto di jihad compiuto in nome di Allah[66].

Sono le stesse popolazioni arabo-musulmane ad essere protagoniste di saccheggi, di conquiste e di apporti culturali. Taluni studiosi pretendono di attribuire a tali popolazioni solo le razzie, altri pretendono che siano loro proprie solo le conquiste e gli apporti culturali. Entrambe le posizioni sono fuorvianti: erano le stesse popolazioni a compiere razzie allo scopo di saccheggio e di acquisizione di schiavi, a compiere invasioni e conquiste stabili, a apportare nuovi contributi culturali, diversi da quelli originariamente presenti in un determinato luogo, con acquisizioni nuove da un punto di vista religioso, linguistico, architettonico, scientifico e così via. Questi tre elementi caratterizzarono congiuntamente gli arabo-musulmani o saraceni dei primi secoli dell’Islam.

12/ La nascita del potere temporale del vescovo di Roma nel VII e nell’VIII secolo

Gli attacchi dei saraceni su Roma e sulle altre località della costa laziale e dell’interno portano con sé un’ulteriore domanda: chi era la legittima autorità chiamata ad opporsi ad essi? O ancora: chi deteneva il potere nella regione laziale e quali dinamiche conflittuali o sinergiche vivevano le diverse autorità nel territorio laziale nell’alto medioevo?

Roma era una città sottoposta all’imperatore franco o a quello di Costantinopoli ed era costui a doverla difendere? Oppure Roma era sotto giurisdizione pontificia? O ancora era governata da magistrature laiche che se ne occupavano, indipendenti dagli imperi e dai pontificati?

C’è un punto fermo nella questione ed è precisamente il fatto che la donazione di Costantino è un falso e che mai un qualsivoglia imperatore si è sognato di esonerare Roma e la sua regione dalla giurisdizione imperiale. Ma se tale donazione è appunto un falso e Il Constitutum Costantini è certamente un documento altomedioevale – come si vedrà – da dove derivò l’autorità temporale del vescovo di Roma, se essa non venne ottenuta con un qualche atto di ribellione all’impero storicamente che sia riconoscibile e individuabile?

Nel volume Il potere necessario[67] credo di aver dimostrato a sufficienza per il periodo immediatamente antecedente, quello dell’VIII secolo, come vi sia continuità assoluta fra la Roma imperiale e quella altomedioevale: le tasse continuavano ad essere riscosse con le modalità precedenti e gli stipendi dei pubblici ufficiali continuavano ad essere pagati[68], l’amministrazione cittadina continuava a redigere documenti con la stessa prassi e addirittura la stessa forma di scrittura che si ritroverà poi nel basso medioevo – segno di continuità nella trasmissione di essa[69] -, i pubblici palazzi, così come l’amministrazione militare e quella degli acquedotti continuavano ad esistere e a lavorare[70]: chiunque immagina l’alto medioevo come un periodo di anarchia civile erra completamente perché, nonostante la penuria di mezzi, tutto l’apparato statale proseguì a funzionare con continuità.

Ma, d’altro canto, a partire soprattutto dall’invasione longobarda della fine del VI secolo e poi ancor più nel VII e nell’VIII[71], tale apparato che era formalmente quello dell’impero e, quindi, strettamente dipendente dall’imperatore di Costantinopoli e dal suo esarca che aveva sede a Ravenna, sempre più venne ad essere diretto dal vescovo di Roma.

Nel VII e nell’VIII secolo, infatti, Costantinopoli, come si è già detto, fu più volte sotto attacco, da parte degli arabi e dei bulgari[72] e l’imperatore non fu più in grado di occuparsi della penisola italiana.

Il papa continuò ad essere ordinato vescovo di Roma solo dopo che da Costantinopoli fosse giunta l’autorizzazione imperiale[73] – perché il pontefice continuava ad essere un cittadino romano – ma sempre più fu lui con la sua Curia a dover curare il funzionamento dell’amministrazione imperiale, della riscossione delle tasse, del pagamento degli stipendi delle truppe, del restauro degli acquedotti o delle mura cittadine, dell’amministrazione tramite la diaconia del cibo ai poveri della città e così via. Solo per fornire un esempio, è evidente dalle fonti che, da un certo momento in poi, il denaro riscosso dalle tasse e destinato al pagamento dei pubblici stipendi sia civili che militari è custodito insieme alle offerte raccolte dalla Chiesa in Laterano[74].

Insomma, la gestione “temporale” di Roma e del suo territorio da parte del pontefice è un fatto antecedente all’attacco arabo e il pontefice si occupa delle fortificazioni cittadine già almeno dall’VIII secolo: senza una conoscenza dell’VII e dell’VIII secolo è impossibile comprendere chi governasse Roma alla metà del IX.

La necessità di acquisire nuove risorse economiche fece parte di tale processo, ma fu solo un aspetto di tale crescita di responsabilità temporale che abbracciò qualsivoglia dimensione della vita dell’urbe e del suo territorio. Dalle fonti emerge come i diversi pontefici misero sempre più a profitto i possedimenti agricoli nel territorio laziale, soprattutto dopo la perdita di quelli del sud Italia, ma tale attenzione alle risorse agricole è solo un tassello della gestione economica complessiva di Roma e del Lazio che l’amministrazione pubblica continuò a gestire sotto la direzione del vescovo di Roma. In proposito, molto studiato è il caso delle cosiddette domuscultae[75], cioè di fattorie con ampi terreno coltivati che vengono citate nel Liber pontificalis, ma che certo, da sole, non avrebbero mai dato al pontefice un potere temporale. Gli studi moderni sono spesso ambigui, perché si rendono conto che tali “fattorie” non furono un elemento decisivo, anche se, di fatto, attribuiscono poi a tali aziende agricole ruoli spropositati: emblematica, in questo senso, è la posizione di Arnaldi che, da un lato, relativizza la questione delle domuscultae e dei possedimenti agricoli della Chiesa di Roma, e, d’altro canto, afferma che essa fu decisiva[76]. Arnaldi, nella sua ricerca[77], segue passo passo le dinamiche per cui l’imperatore non fu più in grado di occuparsi del centro Italia, ma poi, quando si sofferma a studiare le conseguenze di ciò nella gestione di Roma e del Lazio si sofferma solo sulla questione delle aziende agricole, dimenticando come tutti interi i pubblici servizi siano passati sotto diretta gestione pontificia, nelle loro molteplici dimensioni militari, difensive, amministrative, così come quelle relative all’apparato fiscale e al pagamento degli stipendi.

Ora certamente tale gestione della res publica fu necessariamente gestita sempre più dal pontefice e dalla sua curia, anche se sempre tramite personale che ereditava di generazione in generazione la preparazione e le regole dell’antico apparato imperiale, esattamente perché l’imperatore e il suo esarca erano sempre più impossibilitati ad occuparsene.

Se, fino all’VIII secolo, l’imperatore di Costantinopoli aveva come suo rappresentante nella penisola l’esarca di Ravenna che spesso scendeva a Roma, esercitandovi la sua autorità a nome dell’imperatore stesso[78], ormai solo una stretta striscia di terra collegava Roma a Ravenna – gli storici la chiamano il “corridoio bizantino”[79] – perché i longobardi che la stringevano da nord, con il regno, e da sud con il ducato di Spoleto.

Più volte nel VII e nell’VIII secolo il pontefice si rivolse all’imperatore di Costantinopoli per chiedere aiuto, economico e ancor più militare, contro i longobardi che cercavano di avanzare ulteriormente conquistando ora questa ora quella città dell’impero (da Sora a Sutri, da Narni a Terni, da Perugia fino a Ravenna), ma, alla resa dei conti, egli si ritrovò sempre più solo a fronteggiarli, forte solo della sua autorità spirituale: ogni volta che una città era conquistata dai longobardi, non potendo contare su di un reale intervento militare bizantino, il pontefice era obbligato ad intavolare trattative per riottenere la liberazione di quel luogo dai diversi duchi o re longobardi che l’avevano occupata.

Anzi, non solo non otteneva aiuti, ma, più volte, i pontefici si trovarono costretti a combattere decisioni imperiali sia in campo dogmatico che economico-politico. Al tempo della crisi monotelita il papa Martino I venne deportato a Costantinopoli e deposto nel 653 (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 106-121). L’imperatore obbligò poi il pontefice Costantino a recarsi a Costantinopoli in un viaggio che durò due anni - dal 710 al 711 quando egli rientrò in Roma – facendo uccidere in città diversi membri dello scrinium pontificio non appena il papa si allontanò dalla città: l’imperatore intendeva così confermare, con la sottomissione del pontefice, la sua suprema autorità sull’urbe (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 219-223). Al tempo poi della crisi iconoclasta che iniziò nel 726 l’imperatore cercò di obbligare Roma a prendere la stessa posizione di totale diniego delle immagini che era stata imposta in oriente: tramite l’esarca si giunse a ben cinque tentativi di eliminare fisicamente papa Gregorio II (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 316-322). Ma tale decisione dogmatica fu preceduta e accompagnata dalla decisione di distaccare il sud Italia dall’obbedienza a Roma, indirizzando anche i tributi economici di tali regioni verso Costantinopoli e di fatto dando inizio alla grecizzazione di quelle regioni (cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 378-405).

Se un periodo deve essere scelto ad indicare la consumazione di una definitiva autonomia, questo può essere definito dagli anni che intercorrono fra il distacco canonico e fiscale con cui – come si è detto – l’imperatore sottopose nel 729 e ancor più nel 732-733 le regioni della Sicilia e della Calabria alla giurisdizione del patriarca di Costantinopoli e non più del vescovo di Roma, indirizzando il censo e la tassazione di tali regioni verso la seconda Roma, e la definitiva presa di Ravenna da parte dei longobardi nel 751[80]. Da quell’anno non ci fu più un esarca a rappresentare l’imperatore sul territorio della penisola e, difatti, l’anno successivo, papa Stefano II, dopo essersi recato a Pavia dal re longobardo per chiedere la restituzione di quel porto sull’Adriatico, avendo ricevuto un secco diniego, decise di partire verso il regno dei Franchi per chiedere loro protezione contro i longobardi. Ma già gli eventi che vanno dal 729 al 733 di fatto dividono in maniera definitiva il sud Italia controllato da Costantinopoli e Roma e il Lazio controllati dal vescovo di Roma.

Insomma, in parallelo, l’evoluzione del quadro internazionale fa sì che Roma e il Lazio siano sempre più abbandonate a se stesse dal potere centrale imperiale, mentre l’autorità temporale cresce fino a diventare un dato di fatto fra il 729 e il 751, come culmine di un processo ben più lungo.

Tale processo è talmente graduale che non è possibile individuare più precisamente una data, né tanto meno un qualche nome che indichi la nuova entità ormai guidata dal vescovo di Roma[81]. Troppo poco si riflette su tale fatto che la presa di coscienza di tale autonomia è talmente graduale da non essere individuabile nemmeno da un nome: non vi è un fatto come una dichiarazione di indipendenza o come un accordo al termine di una qualche rivolta o guerra. Ancora alla caduta di Ravenna il pontefice che si recò dal re longobardo a Pavia non chiese indietro la città adriatica a proprio nome, ma come legittimo rappresentante dell’impero bizantino di cui si sentiva ancora cittadino e di cui condivideva ancora valori e prospettive.

13/ La seconda metà dell’VIII secolo e il IX secolo

L’excursus rivolto indietro di un secolo, rispetto al momento dell’attacco dei saraceni su Roma, permette ora di porre più correttamente la domanda su quale fosse il potere che governava Roma dopo il distacco dall’impero bizantino e fino alla metà del IX.

Infatti, dopo aver di fatto raggiunto un’autonomia nel governo temporale di Roma e del Lazio, il vescovo di Roma avrebbe forse reinventato insieme ai franchi una nuova dipendenza temporale dal loro regno – poi Impero –, ricreando nuove magistrature che mettessero i nuovi alleati in grado di detenere un nuovo potere su Roma e il Lazio analogo a quello antecedente al distacco da Costantinopoli?

La risposta non può che essere negativa.

Dal momento del distacco da Costantinopoli – e quindi anche alla metà del IX secolo – il governo di Roma era ormai pienamente nelle mani del pontefice.

Le consuetudini di governo interno di Roma e del Lazio vennero mantenute così come erano maturate nei secoli precedenti e non si aggiunsero nuove magistrature, né ai franchi venne riconosciuto il diritto di inviare proprio personale per sostituite o controllare quello che già esisteva.

Come ha scritto Noble, «nella Repubblica [in Roma e suoi territori dalla metà dell’VIII secolo] tutto dipendeva dal Laterano: la stesura dei bilanci, la riscossione dei tributi, le decisioni di spesa. Le corti di giustizia emettevano le sentenze, le opere pubbliche e gli interventi di assistenza venivano messi in atto per tutti i bisognosi. Venivano reclutati piccoli e grandi funzionari che ricevevano una formazione per essere destinati a un incarico, trasferiti e promossi. Praticamente tutti i servizi pubblici che l’antica Roma garantiva ai propri cittadini venivano forniti anche dal papato. Con una sola rilevante eccezione: la Roma papale non disponeva sotto i suoi vessilli di legioni da inviare ai confini del mondo e nemmeno a quelli della Repubblica. Così, i longobardi prima e i musulmani in seguito si dovevano rilevare nemici temibili, papa Leone III poteva essere oggetto di attacchi all’interno di Roma e l’arcivescovo agire autonomamente a Ravenna. Tuttavia, come l’antica Roma a un certo punto si rivolse a nord per reclutare valorosi soldati germanici, la Roma papale guardò alla Francia per ottenere il sostegno militare dei Carolingi»[82].

All’interno dell’urbe poi ci furono certamente conflitti fra fazioni, ma esse non solo portano ad escludere che esistesse un governo antagonista a quello del vescovo di Roma, ma ancor più lasciano chiaramente intendere che, poiché era il pontefice a guidare la città, era al momento delle elezioni che sempre più le diverse famiglie aristocratiche, spesso in lotta fra di loro, cercavano di far emergere i loro candidati poiché sapevano che, una volta eletto il papa, sarebbe stato lui a controllare la situazione[83] – ovviamente tale situazione degenerò nel X secolo, il cosiddetto “secolo di ferro”, esattamente perché per alcuni decenni alcune famiglie “laiche” giunsero a controllare totalmente le elezioni di più pontefici in successione per ergersi a governare la città[84].

Noble giunge ad affermare a ragione: «Verso la metà dell’VIII secolo, le tradizioni romane e quelle lateranensi cominciarono a fondersi e - tranne durante il sofferto pontificato di Leone III – il risultato fu una compenetrazione di tradizioni laiche ed ecclesiastiche che culminavano nell’ufficio papale»[85].

È miope ridurre il ruolo temporale svolto dal pontefice alle derrate alimentari e ai guadagni che provenivano al pontefice dalle domuscultae, il cui ruolo è stato esagerato da taluni storici. Il fatto che il vescovo di Roma gestisse campagne che producevano approvvigionamenti per l’urbe e reddito per altri bisogni è solo un tassello minimo del ben più ampio ruolo temporale giocato dal pontefice come governante della città e delle campagne[86].

Quel ruolo temporale che il pontefice aveva dovuto assumere dinanzi ai longobardi, nel declinare del potere imperiale costantinopolitano, non solo non si riduce, ma si rafforza ancor più al tempo degli attacchi saraceni.

È evidente che i papi del tempo non disdegnavano di occuparsi del “temporale”, ma ciò non avveniva al modo di un occulto e spasmodico desiderio di potere che si andava consolidando con l’acquisizione di domuscultae, di massae e di altre aziende che sole procacciassero un potere economico da mettere poi sul piatto della bilancia per sottomettere a sé la città e il contado. Al contrario, l’attenzione alla dimensione economica, così come a quella difensiva e militare, così come alle alleanze con i potenti del tempo necessarie alla sopravvivenza di Roma, era necessaria allora, in un clima di grande frammentarietà e incertezza, perché solo chi aveva una autorità locale riconosciuta poteva mantenere a livelli accettabili il tenore di vita della popolazione.

Questo non vuol dire che non ci siano stati enormi cambiamenti nel passaggio dall’VIII al IX secolo. Infatti, nei cento anni che andarono dal 751 all’846, il punto di riferimento primario di Roma e del suo vescovo non fu più l’impero di Costantinopoli, bensì il regno franco, divenuto poi impero.

L’imperatore poteva scendere a Roma su invito del pontefice e a sua difesa e la sua presenza in città era rappresentata da un missus permanente, ma non da magistrature che si sostituissero o che dominassero quelle locali, formatesi in Laterano[87].

L’evoluzione del rapporto con i franchi venne scandito da quattro tappe.

Nel 754 papa Stefano II e il re Pipino, prima nell’incontro a Ponthion e poi nel patto stretto a Quierzy-sur-Oise, stabilirono che i franchi avrebbero protetto il pontefice e sarebbero sempre intervenuti in sua difesa, se il papa lo avesse chiesto, mentre il pontefice si impegnava a pregare per il regno franco, di fatto consacrando anche il suo re in quell’occasione[88].

Negli anni successivi e nelle altre tappe del loro rapporto, sempre re e pontefici si richiamarono a questa prima amicitia. Ad ogni nuova elezione pontificia e ad ogni nuovo cambio di monarca essi erano tenuti a sottoscrivere nuovamente l’accordo del 754.

Una seconda tappa decisiva venne segnata, al tempo di Leone III e di Carlo Magno, dall’incoronazione imperiale di Carlo Magno nell’800 a Roma. Il sovrano si recò a Roma a motivo delle tensioni sollevatesi contro il pontefice che era sotto accusa e, pur avendo inviato messi a fare indagini su di lui, si rifiutò di giudicarlo, quando il papa proclamò la propria innocenza[89].

Una terza tappa è segnata dal cosiddetto Ludovicianum, il patto fra Ludovico il Pio e papa Pasquale I, dell’817, Da un lato, tale accordo non fa che ripetere quello del 754, con l’impegno alla protezione da parte dei franchi e al sostegno spirituale da parte di Roma, dall’altro si specifica ancor più che l’alleanza è fra due contraenti e, quindi, che Roma è autonoma, pur appartenendo all’impero che la protegge, al punto che si stabilisce quali procedure debbano essere seguite da fuggitivi che scappino dall’impero a Roma o da Roma nell’impero[90].

Una quarta tappa è data, infine, dalla Constitutio Romana dell’824 che vide protagonisti sempre Ludovico il Pio e Pasquale I papa. In essa il re, a nome anche dell’imperatore Lotario, si faceva garante delle elezioni pontificie che dovevano avvenire secondo le consuetudini, quindi in totale autonomia da parte della Sede Romana, e vincolò il popolo di Roma ad un giuramento di fedeltà[91] che però, nemmeno questa volta, fu una presa di potere imperiale, perché esso era promesso salva fide quam promisi domino apostolico[92].

In nessuno di questi accordi l’imperatore pretese di dettare legge in Roma, mai chiese che sia il pontefice sia altri ufficiali romani venissero da lui designati, mai chiese di reclutare soldati nei territori di Roma, mai chiese di battere moneta e la monetazione continuò a portare indicazioni relative ai pontefici, anche se si aggiunse quella imperiale.

Lo stesso titolo di patricius romanorum che ebbe prima Pipino nel 754 come re e poi Carlo Magno come imperatore nell’800 non significa assolutamente che il sovrano avrebbe governato la città di Roma, bensì esso fu un titolo creato ad hoc per indicare la promessa regia di difendere l’urbe e il suo vescovo. Se tale titolo era già onorifico nella nomenclatura bizantina, a maggior ragione lo divenne nella nuova modalità “latina” ad indicare il protettore della res publica Romana governata dai pontefici[93].

Insomma non venne mai modificata l’autonomia che l’urbe con il suo territorio aveva raggiunto dopo il suo distacco da Costantinopoli. L’imperatore si fece garante di Roma e del suo vescovo, ritenendolo parte dell’impero, ma non intromettendosi mai nelle dinamiche interne, mentre il pontefice si impegnò a sostenere spiritualmente l’impero[94].

Negli anni successivi alla Constitutio Romana, Roma si ritrovò ancora più sola per le lotte intestine dei franchi.

Nell’831, infatti, Ludovico divise l’impero in tre stati, assegnandone il governo ai tre figli, ma, alla sua morte, avvenuta nell’840, scoppiò una vera e propria lotta fra i tre regni che segnò l’inizio delle entità politiche che portarono alla primordiale costituzione di ciò che diverranno poi gli stati di Francia, Germania e Italia. Fu il trattato di Verdun dell’843 a segnare tale divisione ed è significativo che nei due giuramenti di Strasburgo dell’842 è segnalata per la prima volta l’utilizzo delle lingue francese e tedesca dei due contendenti, poiché anche la diversità degli idiomi era ormai segnata.

Nel periodo dell’attacco arabo si assiste ad ancor più rivalità e guerre tra i regni franchi ed esse cresceranno ancora, indebolendo le tre neonate entità, al punto che nell’887 l’attacco a Parigi dei normanni portò alla deposizione di Carlo il Grosso e nell’899 Berengario venne sconfitto sul Brenta dagli ungari.

Solo con l’incoronazione imperiale, nel 962, di Ottone I l’impero tornò ad essere incisivo e il privilegium ottonianum segnò una modifica della situazione precedente[95], ma ciò è già fuori dal contesto che qui si sta studiando.

In sintesi, dalla metà dell’VIII secolo, alla metà del IX secolo i franchi si considerarono chiamati a dare sostegno a Roma e al suo territorio, ma al contempo vennero ad essere riconosciuti e investiti di autorità dal pontefice, come non era mai avvenuto in antico.

Lo stabilizzarsi progressivo del rituale per il quale è il pontefice ad incoronare l’imperatore – a partire da Carlo Magno nel Natale dell’800 – ma al contempo è l’imperatore a dover dare l’assenso al pontefice già eletto a Roma fu, da allora e per secoli, fonte continua di tensioni nelle lotte fra gli eredi al trono imperiale e nelle elezioni pontificie[96].

Nel frattempo, l’anno 812, con la cosiddetta pace di Aquisgrana, segnò il momento nel quale i due imperi, quello franco e quello di Costantinopoli, si riconobbero vicendevolmente, stabilizzando a livello istituzionale ciò che era operante già di fatto, cioè l’esistenza di due imperi romani cristiani, assolutamente indipendenti fra loro, ben diversi nella loro autonomia dai due imperi d’oriente e d’occidente “classici” che erano comunque parte di un’unica realtà, che si percepivano come un corpo unico[97].

Quanto fin qui esposto viene ulteriormente chiarificato proprio dagli eventi che occorsero in Roma al tempo del duplice attacco arabo.

Il primo attacco, quello che portò alla devastazione delle due basiliche, vide come oppositori dei saraceni diverse milizie che sono indicate come Saxi et Frisones et schola quae dicitur Francorum[98]. La loro azione venne diretta dai Romani, afferma il Liber: cognitis Romanis[99]. I franchi sono il terzo gruppo di armati, citati dopo sassoni e frisoni, segno che i diversi regni avevano comunque un piccolo contingente che permaneva stabilmente in città. Ma esso agisce su comando dei romani – e, quindi, del pontefice – mentre non è nominato alcun ufficiale franco che sovrintenda all’intervento, anzi il gruppo franco è l’ultimo dei tre.

Il contingente è poi talmente debole che, come si è visto, dopo un primo scontro con i musulmani si vide perdente e si ritirò dentro le mura. Le altre cronache dell’epoca[100] ricordano di un ulteriore intervento di Ludovico e dei franchi, da situare probabilmente poco dopo l’attacco contro l’urbe, e di un successivo scontro franco-saraceno presso Gaeta, in cui ancora i franchi vennero sconfitti.

Il primo attacco, insomma, mostra, anche se non è possibile chiarire i particolari in dettaglio, dell’intervento di franchi a difesa di Roma, senza che essi avessero né un dominio su Roma, né un’effettiva capacità di fronteggiare l’attacco arabo.

In occasione del secondo attacco i franchi non sono nemmeno nominati e la battaglia, questa volta vittoriosa, contro gli arabi è combattuta da truppe Neapolitanorum, Amalphitanorum, Cagetanorumque […] ut unam cum Romanis[101].

Un ulteriore episodio del Liber, raccontato al termine della biografia di Leone IV, è rivelativo in merito. Il Liber afferma, infatti, che un certo Danhiel magister militum, accusò il magister militum Graziano, ufficiale in Roma e responsabile Romanii palatii[102]- cioè del palazzo romano del Laterano -, di aver suggerito di rivolgersi per aiuti ai “Greci”: Quare non advocamus Graecos et cum eis faedus pacis componentes Francorum regem et gentem de nostro regno et dominatione expellimus?[103]

Si vede qui come esista un’autorità suprema che guida le truppe di stanza a Roma e che costui non è un funzionario franco, bensì un ufficiale militare alle dipendenze del pontefice. Ebbene Danihel accusava Graziano di aver portato la seguente motivazione: quia Franci nobis nichil boni faciunt, neque auditorium prebent, sed magis quae nostra sunt violenter tollunt.

Precise sono le parole attribuite a costui: poiché i franchi “non fanno per noi niente di buono, né porgono alcun aiuto”, cioè poiché essi non sono in grado di proteggerci.

Si capisce bene che l’accusa rivoltagli dall’altro magister militum - di cui non sono indicati gli ambiti di competenza, e non è dato capire se egli comandasse all’interno di Roma o al di fuori dell’urbe -, non si riferisce al lontano imperatore di Costantinopoli, quasi che le milizie intendessero ritornare alla situazione precedente alla metà dell’VIII secolo, ma in realtà l’aiuto che i romani avevano chiesto era piuttosto quello di Gaeta e di Napoli, ancora legate a Costantinopoli. Sono quelle milizie ad essere in grado di aiutare Roma, mentre quelle franche sono troppo lontane e insufficienti alla difesa dell’urbe. Si afferma esplicitamente che, secondo Graziano, i franchi avrebbero potuto essere espulsi de nostro regno et dominatione, espressione che indica chiaramente il potere temporale del pontefice[104].

Si comprende bene, poi, che la costruzione delle Mura Leonine, come del nuovo insediamento di Cencelle, come la fortificazione di tanti luoghi del Lazio, se, da un lato, indicano il pericolo terribile che venne portato dai musulmani, dall’altro indicano chiaramente che fu il vescovo di Roma e non l’imperatore o il re ad erigere quelle difese murarie.

Certo i saraceni erano così devastanti e feroci che addirittura alla corte franca si decise una spedizione contro di essi, come attesta il famoso Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda, in un incontro tenutosi nello stesso anno del primo attacco contro Roma, l’846[105].

Ma qual era appunto il problema? Che il re d’Italia Ludovico II e l’imperatore Lotario suo padre non erano in grado, anche per la distanza delle loro corti, di provvedere al centro Italia. La loro presenza era episodica, con discese occasionali, ma erano poi le autorità locali le uniche a poter essere presenti sul territorio.

Infatti, le incursioni saracene non solo non si arrestarono, ma anzi andarono aumentando di numero e di intensità fino a quando, infine, gli arabi vennero cacciati dal sito detto del Garelianus[106]. Anche in questo caso l’impresa fu permessa da un’alleanza che papa Giovanni X riuscì a realizzare, facendo scendere in campo Alberico I duca di Spoleto, marchio, longobardo e altri signori italiani fra cui truppe longobarde di Capua e soldati bizantini di Gaeta[107].

Le iniziative di difesa sono opera di Leone III per la Leopoli a Formia, di Gregorio IV per Gregoriopoli, di Leone IV per le Mura Leonine e per Cencelle, di Giovanni VIII per Giovannipoli intorno a San Paolo fuori le Mura, così come – si intuisce dalle fonti – furono i pontefici ad intervenire al restauro di sistemi murai ad Orte e Amelia così come in altri siti costieri e dell’interno.

Allo stesso modo, le fonti dichiarano, come si è visto, che molti abitanti delle campagne laziali si rifugiarono entro le mura dell’urbe quando i loro paesi o borghi vennero saccheggiati.

Insomma, cento anni dopo che l’impero franco aveva preso le difese di Roma al posto di quello di Costantinopoli, il ruolo temporale del vescovo di Roma è ancora evidente e necessario.

A Roma il papa giocava un ruolo locale, con attenzione alle Mura e alle città attaccate dai saraceni, ma al contempo la sua autorità universale e super partes permetteva al vescovo di Roma di essere in perenne dialogo con gli imperi, i regni e i ducati.

Anche alla metà del IX secolo, come già alla metà dell’VIII secolo, il potere temporale pontificio è “necessario” al buon andamento delle cose. Spessissimo è il vescovo di Roma ad essere l’unico ad essere, nella realtà dei fatti, in grado di intervenire, di creare le giuste alleanze, di erigere fortificazioni e di convocare truppe e persone per alleviare lo stato di penuria generato dagli incessanti attacchi arabi[108].

Né l’impero romano di Costantinopoli alla metà dell’VIII secolo, né l’impero franco alla metà del IX, furono in grado di difendere Roma e il Lazio, nonostante il pontefice ne invocasse la protezione[109]. Il vescovo di Roma si trovò a fronteggiare due pericoli reali e forti, quello longobardo e quello arabo, da solo, forte solo delle alleanze che riusciva a costruire con la propria autorità e forte della capacità organizzativa e amministrativa del proprio scrinium che provvide alla gestione delle cose militari e delle difese murarie da approntare. Questo ovviamente fece crescere ancor più l’affezione della città e del Lazio intero alla figura del pontefice e al ruolo temporale che era obbligato a svolgere.

Gli eventi della metà del IX secolo sono così estremamente interessanti, poiché mostrano come fosse incombente il pericolo degli assalitori saraceni e come, proprio a motivo di essi, sia ulteriormente cresciuta anche l’autorità temporale del vescovo di Roma e della sua Chiesa, in particolare su Roma e il Lazio, già emersa in maniera decisiva al tempo delle invasioni dei longobardi.

Tali eventi si rivelano decisivi e non secondari per meglio comprendere le modalità dell’espansione araba, perché gli attacchi e i saccheggi si rivelano non tanto azioni piratesche, quanto prodromi di una conquista che era nelle intenzioni per i decenni a venire e perché erano azioni volte a foraggiare le conquiste arabe nel sud Italia.

Ma sono al contempo di prim’ordine per comprendere come l’autonomia di Roma fosse ormai riconosciuta dai diversi patti stipulati con i franchi, ma ancor più come l’esistenza di tale potere temporale del vescovo di Roma, già emersa al tempo del pericolo longobardo, si rivelasse ancora una volta “necessaria” a motivo di quegli attacchi musulmani che nessun altra autorità era all’epoca in grado di fronteggiare.

14/ Considerazioni sulla genesi della Donazione di Costantino

Il periodo in cui il vescovo di Roma prese coscienza di esercitare un vero e proprio potere temporale, decidendo sia dell’amministrazione dell’urbe e del territorio, sia governandone la politica internazionale, aiutano a capire l’origine del cosiddetto Constititum Constantini, il documento che fa risalire tale potere al tempo di Costantino imperatore, al modo di una donazione.

Le due datazioni probabili del documento sono alla metà dell’VIII secolo, quando effettivamente si consumò il distacco fra Roma e Costantinopoli – è la datazione più accreditata – o alla metà del IX – cioè nel periodo che si sta qui studiando[110].

La coincidenza fra l’effettiva origine storica di tale autonomia e la scrittura di tale documento fa ben percepire come non si trattasse tanto di porgere una giustificazione giuridica a tale “indipendenza” che nessuna delle controparti avrebbe creduto, né Costantinopoli, né l’impero franco. Il documento, invece, attesta e manifesta l’autocoscienza della Chiesa di Roma, narrata in forma leggendaria, che tale autonomia è ormai un dato di fatto: se prima il vescovo di Roma aveva costantemente invocato l’intervento dell’imperatore bizantino e ora cercava aiuto presso i franchi, sapeva al contempo di dover gestire la situazione poggiandosi innanzitutto sulle proprie spalle, sapeva che era la propria autorità a dover far fronte a situazioni estremamente pericolose, invocando eventualmente aiuti in chiave internazionale.

Il Constitutum Constantini si basa certamente su leggende anteriori di origine orientale[111], ma proprio nel periodo che intercorre fra ila metà del VII e la metà dell’VIII secolo deve essere posta la sua redazione che passerà poi nelle raccolte di documenti conservate dalla Chiesa.

Se il documento venne scritto negli anni che seguirono la caduta di Ravenna, nel 751, è comprensibile come fosse ormai chiara l’autocoscienza della Chiesa di dover esercitare in proprio un potere che non dipendeva più da Costantinopoli. Se il documento venne, invece, redatto alla metà del IX secolo, ancor più doveva essere forte l’autocoscienza di un ruolo temporale ormai assodato.

Comunque, quale che sia il periodo della redazione della Donazione di Costantino, ciò che era certo che Roma era lì a doversi governare e difendere a partire dalle proprie forze.

Come nell’VIII secolo non era stata Roma a rinnegare l’impero romano ormai bizantino, così ora non era l’urbe e il suo vescovo a voler agire senza i franchi: era invece il potere temporale del vescovo di Roma ad essere necessario e storicamente insostituibile alla sopravvivenza della città.

Note al testo

[1] Per un primo orientamento su papa Leone IV, cfr. la voce F. Marazzi, Leone IV, in Enciclopedia dei papi, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 723-730.

[2] Sulla natura del Liber pontificalis, cfr. A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, in particolare le pp. 493-533.

[3] Per un primo orientamento su papa Sergio II, cfr. la voce I. Bonaccorsi, Sergio II, in Enciclopedia dei papi, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 720-723.

[4] Cfr. su quanto segue, vedi L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, pp. 99-105.

[5] L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a p. 104.

[6] L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a p. 104.

[7] L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a pp. 104-105.

[8] Per tutte le citazioni a seguire, da tale biografia, cfr. L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, pp. 106-134.

[9] Raffaello affrescò l’opera su commissione del pontefice Leone X che intendeva richiamare il nuovo pericolo degli attacchi turchi che, a loro modo, ripetevano le azioni già tentate dagli arabi secoli prima contro la penisola italiana e la città di Roma; cfr. su questo A. Lonardo, Dove si eleggono i papi. Guida ai Musei Vaticani. Cappella Sistina. Stanze di Raffaello. Museo Pio Cristiano, Bologna, EDB, 2015, p. 85.

[10] Oltre alla conoscenza degli studi degli autori che si sono dedicati alla storia e alla costruzione delle mura, merita, in chiave divulgativa, una visita al Museo delle Mura, in via di Porta San Sebastiano 18.

[11] Cfr. S. Pergola, Il fenomeno del reimpiego nelle mura leonine, in “Archivio della società Romana di Storia Patria”, 125 (2002), pp. 5-32; B. Ward-Perkins – S. Gibson, The Surviving Remains of the Leonine Wall. Part I, in “Papers of the British School at Rome” XLVII (1979), pp. 30-57; B. Ward-Perkins – S. Gibson, The Surviving Remains of the Leonine Wall. Part II: the Passetto, in “Papers of the British School at Rome, LI (1983), pp. 222-239; C. Parisi Presicce – R. Motta Rossella – A. Gallitto - M. Franco – A. Gobbi - V. Valerio (a cura di), Mura di Roma. Memorie e visioni della città, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018, pp. 161-162; F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 251-278; F. Marazzi, La costruzione della Civitas Leoniana e qualche considerazione sulla fondazione di «città nuove» papali nel secolo IX, in “Geo-archeologia”, vol. 1992-1, pp. 67-86; L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato romano, in Atti della XXXIX Settimana di studio del CISAM. Committenti e produzione artistico-letteraria nell'alto medioevo occidentale, Spoleto, CISAM, 1992, pp. 371-392, ora anche in L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato Romano, in L. Pani Ermini, Forma e cultura della città altomedievale: scritti scelti, A.M. Giuntella - S. Mariarosaria (a cura di), Spoleto, CISAM, 2001, pp. 235-280, e R. Ivaldi, Le mura di Roma, Roma, Newton & Compton, 2005, pp. 62-70; 509-531 (più divulgativo).

[12] Cfr. in particolare, Cfr. S. Pergola, Il fenomeno del reimpiego nelle mura leonine, in “Archivio della società Romana di Storia Patria”, 125 (2002), pp. 5-32.

[13] Per i testi di tutte le epigrafi apposte sulle Mura leonine e conosciute in trascrizione, cfr. F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 276-277.

[14] «Viandante che entri ed esci, ammira questo splendido edificio che papa Leone IV edificò con animo lieto. Belle splendono, in marmo squadrato, queste alte guglie che, lavorate dalla mano di uomini, piacciono per il loro ornato decoro. Monumento dell’epoca dell’invitto Lotario è questa grande opera che il pontefice realizzò in modo trionfale. A te in verità mai nuoceranno guerre di empi né mai più il nemico celebrerà i suoi trionfi, o Roma, prima nel mondo, splendore, speranza, città aurea, alma sei, Roma, come il pontefice ti dimostra nella sua opera. Questa è la città che, dal nome del suo edificatore, si chiama Leonina».

[15] Marazzi sottolinea che «le lapidi fatte apporre da Leone IV alle porte della civitas Leoniana, senza sminuire il ruolo del pontefice, sottolineano contemporaneamente in maniera forse più netta che nel Liber pontificalis, la compresenza della figura dell’imperatore al compimento dell’opera» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 263).

[16] Testo dell’epigrafe in F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 276.

[17] Liber pontificalis, II, p. 126.

[18] Liber pontificalis, II, p. 127.

[19] Cfr. sulle nuove città sorte in questo periodo a causa della pericolosità degli insediamenti costieri, cfr. gli studi già citati sulle Mura Leonine: L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato romano, in Atti della XXXIX Settimana di studio del CISAM. Committenti e produzione artistico-letteraria nell'alto medioevo occidentale, Spoleto, CISAM, 1992, pp. 371-392, ora anche in L. Pani Ermini, «Renovatio murorum» tra programma urbanistico e restauro conservativo: Roma e il Ducato Romano, in L. Pani Ermini, Forma e cultura della città altomedievale: scritti scelti, A.M. Giuntella - S. Mariarosaria (a cura di), Spoleto, CISAM, 2001, pp. 235-280, F. Marazzi, La costruzione della Civitas Leoniana e qualche considerazione sulla fondazione di «città nuove» papali nel secolo IX, in “Geo-archeologia”, vol. 1992-1, pp. 67-86 e F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 251-278.

[20] Per le citazioni che seguono, riguardo alle vicende di Centumcellae/Cencelle, cfr. Liber pontificalis, II, pp. 131-132.

[21] Su questo, cfr. L. Duchesne, Liber pontificalis, II, Paris, de Boccard, 1981, in nota a p. 139, che fornisce pure il testo della fonte. Per gli Annales attribuiti ad Eginardo, cfr. Annales Regni Francorum, ed. G. Pertz – F. Kurtze (MGH, Scriptores in usum scholarum), Hannover, 1895, p. 200.

[22] Anche se Centumcellae, dopo il saccheggio, non doveva essere stata del tutto abbandonata nell’813, perché il Liber pontificalis II, p. 59, riporta ancora la notizia di donazioni alla cattedrale di San Pietro ancora nell’anno 817.

[23] S. Nardi, Da Centumcellae a Leopoli. Città e campagna nell'entroterra di Civitavecchia dal II al IX secolo d. C., in “Mélanges de l'école française de Rome”, 105-2 (1993), p. 526, riporta il testo dell’iscrizione di fondazione di Leone IV che è stata rinvenuta e ricomposta ed è ora conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, anche se non vi è esposta in forma stabile (l’intero articolo è alle pp. 481-533):
QUAMVIS IN PARVO CON[S]ISTAT CONDITA [MURO]
URBS HAEC NULLA HOMINUM S[EU BE]LLA NOCERE VALEBUNT
DESINAT HINC BELLATO[R N]OXIAM DESINAT HOSTIS
NON HANC UT Q[UISQUAM VALE]T URBEM VIOLARE
ansa sin. LEONIS Q[UARTI]
ansa des. PAPAE
Nardi rimanda per il testo a O. Marucchi, L’iscrizione monumentale di Leopoli, in Nuovo BAC I, 1900, pp. 80-86. Per il ritrovamento di iscrizioni a Cencelle, utili per una datazione delle fasi di utilizzo del sito e per un’analisi dei materiali di reimpiego, cfr. A. Nastasi, Iscrizioni romane, tardoantiche e altomedievali dallo scavo di Leopoli-Cencelle (VT), in “Scienze dell’antichità” 19 (2013), pp. 327-345.

[24] Su Cencelle, a partire dalle recenti indagini archeologiche, cfr.
-L. Ermini Pani – S. Del Lungo (a cura di), Leopoli-Cencelle, I. Le preesistenze, (TardoAntico e MedioEvo. Studi e Strumenti di Archeologia, 1), Roma 1999;
-Leopoli-Cencelle, II. Una città di fondazione papale, Catalogo della Mostra (TardoAntico e MedioEvo. Studi e Strumenti di Archeologia, 1), Roma 1996;
-L. Ermini Pani – E. De Minicis (a cura di), Leopoli-Cencelle IV. Il quartiere sud-orientale, (TardoAntico e MedioEvo. Studi e Strumenti di Archeologia, 1), in c.s.;
-F.R. Stasolla, Primi rinvenimenti di ceramica comune da Cencelle, in E. De Minicis (a cura di), Le ceramiche di Roma e del Lazio in età medievale e moderna, Atti del III Convegno di Studi (Roma, 19-20 aprile 1996), Roma 1998, pp. 70-76;
-F. Bougard – L. Pani Ermini, Leopolis – Castrum Centumcellae. Cencelle: trois ans de recherches archéologiques, in Castrum 7 (Actes du Colloque international), Rome-Madrid 2001, pp. 127-145;
-E. De Minicis– M.I. Marchetti, Cencelle: un isolato pluristratificato nel quartiere sud-orientale della città, in S. Lusuardi Siena (a cura di), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia e la cultura degli insediamenti nell’altomedioevo. Atti delle giornate di studio (Milano-Vercelli, 21-22 marzo 2002), Milano 2003, pp. 11-18;
-A.M. Giuntella et alii, Leopoli-Cencelle: il quartiere residenziale centrale, in S. Lusuardi Siena (a cura di), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia e la cultura degli insediamenti nell’altomedioevo, Atti delle giornate di studio (Milano-Vercelli, 21-22 marzo 2002), Milano 2003, pp. 35-80;
-L. Pani Ermini, Leopoli-Cencelle: note di urbanistica altomedievale in una città di fondazione, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm
-M.C. Somma, Leopoli-Cencelle: settore V. Il centro del potere politico, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm
-F.R. Stasolla, Leopoli-Cencelle: l’organizzazione urbanistica del quartiere sud-orientale, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm

[25] L. Pani Ermini, Leopoli-Cencelle: note di urbanistica altomedievale in una città di fondazione, in L’Europe en Mouvement, IV Congrès International d'Archéologie Médiévale et Moderne (Paris 1, Sorbonne, 3-8 settembre 2007), edito in web: http://medieval-europe-paris-2007.univ-paris1.fr/Fr.htm

[26] S. Nardi, Da Centumcellae a Leopoli. Città e campagna nell’entroterra di Civitavecchia dal II al IX secolo d.C., in “Mélanges de l'École française de Rome”, 105-2 (1993), p. 529, nelle note 98 e 99 (l’articolo intero è alle pp. 481-533).

[27] Cfr. su questo C. Parisi Presicce – R. Motta Rossella – A. Gallitto - M. Franco – A. Gobbi - V. Valerio (a cura di), Mura di Roma. Memorie e visioni della città, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018, p. 162.

[28] I diversi autori che ricordano l’evento non citano, però, fonti a sostegno, anche se il Liber pontificalis ricorda molte volte nel IX secolo San Lorenzo e il dono di corredi liturgici da parte dei diversi papi: tutto lascia ritenere che, essendo la basilica fuori le mura, anch’essa venne sottoposta a fortificazione e che le prime fasi di tale apparato difensivo, ancora attualmente visibile dall’esterno grazie ad una torre, debbano risalire al IX secolo.

[29] S. Nardi Combescure, Paesaggi d'Etruria meridionale. L'entroterra di Civitavecchia dal II al XV secolo d.C., Firenze, All’Insegna del Giglio, 2002, pp. 89-90.

[30] Su quanto segue, cioè su Giovannipoli e sui recenti studi e scavi in proposito, cfr. L. Spera, Dalla tomba alla “città” di Paolo: profilo topografico della Giovannipoli, in O. Bucarelli – M.M. Morales, (a cura di), Paulo Apostolo martyri. L’apostolo Paolo nella storia, nell’arte e nell’archeologia, Atti della giornata di studi, Università Gregoriana, 19 gennaio 2009, Roma, GBP, 2011, pp. 119-161, anche se le ricerche recenti hanno riportato alla luce soprattutto le case per i poveri (paupercula habitacula) del V-VI secolo e un tratto di una porticus dell’VIII secolo (cfr. su questo C. Parisi Presicce – R. Motta Rossella – A. Gallito - M. Franco – A. Gobbi - V. Valerio (a cura di), Mura di Roma. Memorie e visioni della città, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2018, p. 162).

[31] Procopio, Bellum Gothicum, II, 4: «Là non trovasi nessuna fortificazione».

[32] Liber pontificalis, II, p. 145.

[33] Fragmenta registri Iohannis VIII, p. 279, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.

[34] L. Spera, Dalla tomba alla “città” di Paolo: profilo topografico della Giovannipoli, in O. Bucarelli – M.M. Morales, (a cura di), Paulo Apostolo martyri. L’apostolo Paolo nella storia, nell’arte e nell’archeologia, Atti della giornata di studi, Università Gregoriana, 19 gennaio 2009, Roma, GBP, 2011, pp. 121-122, alla nota 10.

[35] Registrum Iohannis, 31, 32 e 56, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978..

[36] Registrum Iohannis, 31, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.

[37] Registrum Iohannis, 32, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.

[38] Registrum Iohannis, 56, in MGH, Epistolae Karolini Aevi, Tomus V, München, 1978.

[39] Cfr. su questo L. Spera, Dalla tomba alla “città” di Paolo: profilo topografico della Giovannipoli, in O. Bucarelli – M.M. Morales, (a cura di), Paulo Apostolo martyri. L’apostolo Paolo nella storia, nell’arte e nell’archeologia, Atti della giornata di studi, Università Gregoriana, 19 gennaio 2009, Roma, GBP, 2011, pp. 138-144.

[40] «Qui è il muro salvatore e la porta invitta che tiene lontani i reprobi e accoglie gli uomini pii. Di qui entrate gente illustre, vecchi e giovani togati, plebe devota che vai cercando la sacra soglia del tempio. La costruì con degno rito Giovanni vescovo di Dio, che rifulse per meriti e costumi; e dal nome di Giovanni VIII Papa, la città veneranda ha nome Giovannipoli».

[41] «L’angelo santo di Dio insieme con Paolo principe sieda a custodia di questa porta respingendone sempre l’iniquo nemico. Papa Giovanni, che siede trionfante sulla cattedra apostolica, la costruì e la cinse di ampio muro. Così dopo morte, a lui si schiuda la porta del regno celeste; glielo conceda Cristo, Dio misericordioso».

[42] Per quanto segue, cfr. G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993, pp. 97- 150; A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011; F. Gabrieli – U. Scerrato, Gli arabi in Italia. Cultura, contatti e tradizioni, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1979; M. Di Branco – K. Wolf (a cura di), “Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo, Roma, Viella, 2014; M. Di Branco, 915. La battaglia del Garigliano. Cristiani e musulmani nell’Italia medioevale, Bologna, Il Mulino, 2019; ‘Abdulwāḥid Dhanūn Ṭāha, L’espansione dell’Islam. Insediamenti nel Nord Africa e in Spagna, Genova, ECIG, 1998; L.A. Berto, Cristiani e musulmani nell’Italia dei primi secoli del medioevo. Percezioni, scontri e incontri, Milano, Jouvence, 2018; V. La Salandra, Incursioni islamiche in Italia meridionale. Dagli Omayyadi agli Ottomani, Città di Castello, GBE, 2014; A.G. Sanjuán, Coexistencia y conflictos. Minorías religiosas en la península ibérica durante la Edad Media, Granada, eug, 2015. Vedi anche i nostri Breve cronologia degli attacchi saraceni (termine con cui si designano gli attacchi arabo-islamici del primo millennio) nel Mediterraneo, nella penisola italiana, in quella ispanica, in Provenza e sulle Alpi, di Andrea Lonardo e Andalusia: dal mito alla storia. Appunti per un accostamento realistico a al-Andalus, di Andrea Lonardo. Vedi infine studi che trattano la questione dal punto di vista locale (prospettiva importantissima, anche se tali studi non hanno sempre una completezza scientifica): F. Maurici, Breve storia degli arabi in Sicilia, Palermo, Flaccovio, 2006; U. Schwarz, Amalfi nell’alto Medioevo, Centro di cultura e storia amalfitana, Amalfi, 2002; E. Serrao – G. Lacerenza, Capri e l’Islam. Studi su Capri, il Mediterraneo e l’Oriente, Capri, La Conchiglia, 2000; N. Cariello, I saraceni nel Lazio (VIII-X secolo), Roma, Edilazio, 2001; J.-M. Martin, Da Ponza alle isole Sirenuse. Le isole dei ducati tirrenici nell’alto medioevo, in A. Feniello (a cura di), Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, vol. II, Galatina, Congedo Editore, 2009, pp. 111-112; B. Casale, Ischia, Procida, Capri. Le vicende, in A. Feniello (a cura di), Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, vol. II, Galatina, Congedo Editore, 2009, p. 125; 132-133; N. Cilento, I rapporti fra Ischia e il dicato di Napoli nel medioevo, in A. Feniello (a cura di), Napoli nel Medioevo. Territorio ed isole, vol. II, Galatina, Congedo Editore, 2009,pp. 144-149; L. Pinelli, Gli Arabi e la Sardegna, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1973; B. Luppi, I saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri – Museo Bicknell, 1983; A. Musarra, Genova e il mare nel medioevo, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 17-28.

[43] Cfr. su questo Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 171-172.

[44] Così afferma il Liber pontificalis, I, p. 346, nella biografia di papa Adeodato II: «Postmodum venientes Sarraceni Siciliam, obtinuerunt praedictam civitatem et multa occisione in populo qui in castris seu montanis fecerunt, et praeda nimia vel aere qui ibidem a civitate Romana navigatum fuerat secum abstollentes Alexandriam reversi sunt».

[45] Cfr. su tale periodo, A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 149-150.

[46] Cfr. su questo La conquista musulmana della Sicilia, di Ferdinando Maurici.

[47] Siracusa era già stata assediata una prima volta nell’827, senza successo, prima della conquista di Palermo.

[48] Sugli attacchi lungo le valli della Lucania, cfr. Le invasioni arabo-musulmane (saracene) in Lucania nell’alto medioevo. Le cronache di Lupus Protospatarius Barensis e del Rerum In Regno Neapolitano gestarum breve Chronicon, di Andrea Lonardo.

[49] Cfr. su questo G.P. Carosi, I monasteri di Subiaco. Notizie storiche, Subiaco, Tipografia Editrice Santa Scolastica, 2020, pp. 54-56. Cfr. anche S. Andreotti, I monasteri benedettini di Subiaco. Sintesi di una storia di quindici secoli, in A. Ricci - M.A. Orlandi (a cura di), Lo spazio del silenzio. Storia e restauri dei monasteri benedettini di Subiaco, Subiaco, Tipografia Editrice Santa Scolastica, 2004, p. 21 e A.A. Settia, I monasteri italiani e le incursioni saracene e ungare, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secoli VIII-X). Atti del VII convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Nonantola, 10-13 settembre 2003), Cesena 2006, pp. 79-95.

[50] Lenzi ricorda come Leone VII nel 936 confermò l’utilizzo di possedimenti agricoli di cui il monastero di Subiaco non poteva più fornire documentazione poiché le devastazioni saracene avevano bruciato non solo tutti i beni del monastero, ma anche tutti i manoscritti di esso, compresi i decreti che garantivano il possesso di quelle terre (M. Lenzi, Forme e funzioni dei trasferimenti patrimoniali dei beni della Chiesa in area romana, in “Mélanges de l'école française de Rome”, 1999 111-2 (1999) p. 829; l’intero articolo è alle pp. 771-859); cfr. su questo Regesto Sublacense, doc. 17 del luglio 936, p. 46.

[51] Cfr. su questo C. De Seta, Napoli, Napoli, Arte'm, 2016, p. 33.

[52] Non è ancora stato individuato con sicurezza il sito, noto dalle fonti medioevali come Mons Garelianus, che fu insediamento saraceno dall’881 al 915. Gli studi recenti, condotti da Kordula Wolf e Marco Di Branco, portano a ritenere che Garelianus sia da identificare con l’odierna Suio, nell’entroterra. Le precedenti ricerche, svolte da una missione archeologica organizzata dal Museo d’Arte Orientale di Roma e dalla Soprintendenza laziale, si erano, invece, rivolte al sito di Monte d’Argento, a pochi chilometri dallo scavo archeologico della città romana di Minturno, alla foce del Garigliano, ma sembra che tale identificazione sia ormai da abbandonare, così come l’identificazione con la stessa Minturno o con il Monte d’oro, più vicino a Scauri (cfr. M. Di Branco – G. Matullo – K. Wolf, Nuove ricerche sull’insediamento islamico presso il Garigliano (883–915) (disponibile on -line al link archeologialazio.beniculturali.it/getFile.php?id=772). Cfr. anche M. Di Branco, 915. La battaglia del Garigliano. Cristiani e musulmani nell’Italia medioevale, Bologna, Il Mulino, 2019.

[53] Per un primo approccio alle fonti relative a Fraxinetum, cfr. B. Luppi, I saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri – Museo Bicknell, 1983, pp. 99-111.

[54] Cfr. su questo il Chronicon Vulturnense, libro III (Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni nell’edizione a cura di M. Oldoni con un saggio di F. Marazzi, Cerro al Volturno, Volturnia ed., 2018, pp. 204-218 e, dal punto di vista storico-archeologico, F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno. Guida alla città monastica benedettina, Cerro al Volturno, Volturnia ed., 2014, pp. 46-47. Cfr. anche F. Marazzi – F. Vignone, Dagli scavi 2000-2003 al parco archeologico, in N. Paone – A. Schioppa – F. Marazzi - F. Vignone – L. Speciale – L. De Luca Roberti - A. Shaw, San Vincenzo al Volturno, Isernia, Cosmo Iannone, 2004, pp. 149-150, per la parte archeologica e A. Schioppa, L’Azienda monastica, N. Paone – A. Schioppa – F. Marazzi - F. Vignone – L. Speciale – L. De Luca Roberti - A. Shaw, San Vincenzo al Volturno, Isernia, Cosmo Iannone, 2004, pp. 57-58, per la parte storica.

[55] Nell’880 ca. l’antica Calatia è saccheggiata con la conseguente fuga della popolazione all’interno nell’odierna Caserta Vecchia. A partire da uno scritto del monaco benedettino Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, Casertavecchia risulta esistente già nell'anno 861 d.C. con il nome di Casa Hirta (dal latino: “villaggio posto in alto”). L’insediamento sorse in seguito alle numerose devastazioni saracene della città di Calatia in pianura sulla via Appia che costrinsero intorno all’anno 880 gli abitanti a fuggire in collina. L’antica Calatia era nei pressi di Maddaloni, al confine dell’odierna Caserta.

[56] Cfr. su questo C. De Seta, Napoli, Napoli, Arte'm, 2016, pp. 31-32.

[57] Cfr. su questo A. Vanoli, La Sicilia musulmana, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 53-56, dove l’autore, che intitola il capitolo “Definire la pirateria”, pur utilizzando appunto una terminologia piratesca, si accorge che «si trattò di qualcosa di ben diverso dalle usuali razzie contro i villaggi di costa o le isole minori» (p. 56).

[58] Per i tanti episodi di deportazione di popolazioni nei saccheggi delle città della penisola italiana, oltre alle chiare indicazioni riguardanti il Lazio già considerate, cfr. le testimonianze citate in Le invasioni arabo-musulmane (saracene) in Lucania nell’alto medioevo. Le cronache di Lupus Protospatarius Barensis e del Rerum In Regno Neapolitano gestarum breve Chronicon, di Andrea Lonardo e, in particolare, quella di Bernardo di Bordeaux che ricorda che vide nel porto di Taranto sei navi cariche di novemila schiavi presi “de Beneventanis christianis”, cioè di longobardi catturati nelle valli della Lucania (come sempre i numeri di tali fonti debbono essere relativizzati), riportata da C.D. Fonseca, La chiesa di Taranto dalle origini al tramonto del principato, in C.D. Fonseca (a cura di), Taranto: la Chiesa/le chiese, Fasano di Brindisi, Mandese editore, 1992, p. 18.

[59] Sulla tratta araba degli schiavi, da tenere distinta da quella turca, sempre musulmana ma perpetrata da un altro popolo, cfr. R. Pinilla, Aproximación al estudio de los cautivos cristianos fruto de guerra santa – cruzada en Al-Andalus, pp. 311-321; R. Guemara, La libération et le rachat des captifs. Une lecture musulmane, pp. 333-344; A. Benremdane, Al Ŷihād y la cautividad en los dictámenes jurídicos o fatuas de los alfaquíes musulmanes y de Al Wanšarísí, en particular: el caso de los musulmanes y de los cristianos de Al Andalus, pp. 447-455; M. Hasnaoui, La ley islamica y el rescate de los cautivos según las fetwas de al- Wanšarīsī e Ibn Ṭarkāṭ, pp. 549-558; A. Mechergui, Les précepts des captifs en Islam, pp. 655-659; A. Kolia-Demirtzaki, Some remarks on the fate of prisoners of war in Byzantium, pp. 583-620, in G. Cipollone, La liberazione dei ‘captivi’ tra cristianità e islam. Oltre la crociata e il ğihād: tolleranza e servizio umanitario, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano – Gangemi, 2000 e, in chiave più divulgativa, La tratta araba e turca degli schiavi, dal Nord Africa all’Andalusia, dall’Africa nera alle coste europee 1/ Schiavitù nell'Islam: cenni storici (da Cathopedia) 2/ Tratta araba degli schiavi (da Wikipedia; voce parzialmente tradotta dalla lingua inglese) 3/ Tratta barbaresca degli schiavi (da Wikipedia).

[60] Celebre è la tesi di H. Pirenne nel suo volume Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Newton, Roma, 2012 (originale del 1917) - riaffermata poi in H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Roma-Bari, Laterza, 1992; se ne veda la sintesi alle pp. 275-276 - secondo la quale la grande frattura che separò l’Europa dal resto del Mediterraneo ed il resto del Mediterraneo dall’Europa fu l’invasione islamica; cfr. su tale tesi «Per la prima volta, dalla formazione dell'Impero romano, l'Europa occidentale si trovava isolata dal resto del mondo. Il Mediterraneo, grazie al quale fino ad allora era stata in contatto con la civiltà, le si chiudeva davanti. Fu questo, forse, il risultato più importante che l'espansione dell'Islam ebbe sulla storia universale». La svolta determinata nella storia dell’occidente dall’invasione araba nell’interpretazione di H. Pirenne. Appunti di A.L..

[61] G. Levi Della Vida, voce Saraceni, in Enciclopedia Italiana (1936), disponibile on-line sul sito della Enciclopedia Italiana della Treccani. La questione è ben diversa dalla provenienza etimologica: «L’etimo di “saraceni” è incerto: la derivazione più probabile è dall’arabo sharqiyyun “gli orientali”» (da Dizionario di Storia (2011), Treccani, voce Saraceni, disponibile on-line).

[62] G. Levi Della Vida, voce Saraceni, in Enciclopedia Italiana (1936), disponibile on-line sul sito della Enciclopedia Italiana della Treccani.

[63] Il termine “saraceni” venne utilizzato anche in seguito, come ricorda Levi Della Vida: «La poesia epica francese chiama comunemente Sarrazins gli Arabi di Spagna, e da essa il termine è penetrato nella poesia cavalleresca italiana; "Saracini" sono, per tutto il Medioevo, gli Arabi, anzi i musulmani tutti, coi quali la cristianità ebbe a combattere durante le Crociate (v., p. es., Dante, Inf., XXVII, 87: "e non con Saracin né con Giudei")». Sul termine “opera saracinesca”, invece, ad indicare successivamente talune murature di quel periodo, cfr. D. Esposito, Tecniche costruttive murarie medioevali. Murature ‘a tufelli’ in area romana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1998, pp. 57-67.

[64] Così alla voce razzìa nel Dizionario Treccani on-line. Sul concetto di razzìa complementare a quello di jihad, cfr. A. Vanoli, La Sicilia musulmana, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 54-55.

[65] D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2007, p. 44.

[66] D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2007, pp. 3-44.

[67] A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012.

[68] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 46-70, dove vengono considerati gli studi decisivi di J. Durliat; cfr. J. Durliat, De la ville antique à la ville byzantine. Le problème des subsistances, Roma, 1990 (Collection de l’École Française de Rome 136), ma anche J. Durliat, De l’Antiquité au Moyen-Âge. L’Occident de 313 à 800, Paris, 2002; J. Durliat, voce Severino, in Dizionario storico del papato, a cura di P. Levillain, Milano, 1996, II, pp. 1374-1375; J. Durliat 1996, voce Finanze pontificie (secoli VI-XII), in Dizionario storico del papato, a cura di P. Levillain, Milano, 1996, II, pp. 596-598; J. Durliat, voce Eugenio I, in Dizionario storico del papato, a cura di P. Levillain, Milano, 1996, I, pp. 565-566; J. Durliat, Évêque et administration municipale au VIIe siècle, in La fin de la cité antique et le début de la cité médiévale. De la fin du IIIe siècle à l’avènement de Charlemagn. Actes du colloque tenu à l’Université de Paris X-Nanterre, 1-3 avril 1993, a cura di C. Lepelley, Bari, 1996, pp. 273-286; J. Durliat, Les finances publiques de Dioclétien aux Carolingiens (284-889), Sigmaringen, 1990; J. Durliat, Magister militum -ΣΤΡΑΤΗΛΑΤΗΣ dans l’empire byzantin (VIe-VIIe siècle), in “Byzantinische Zeitschrift”, 72 (1979), pp. 306-320; J. Durliat, Les attributions civiles des évêques mérovingiens: l’exemple de Didier, évêque de Cahors (630-655), in “Annales du Midi”, 91 (1979) 237-254.

[69] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 284-298, con riferimento particolare a P. Radiciotti, Attorno alla storia della curiale romana, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 122 (1999), pp. 105-123.

[70] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 277-279; 478-482.

[71] Ma già ai tempi delle invasioni barbariche era stato solo il pontefice – si pensi alle figure di Leone Magno e poi di Gregorio Magno – ad impedire il saccheggio da parte delle truppe barbariche o, almeno, a fissarne i confini con il rispetto della popolazione. Leone Magno nel 452 si recò a Mantova con una delegazione di autorità romane e ottenne da attila, re degli Unni, che l’urbe non fosse attaccata, mentre nel 455 non riuscì ad ottenere che Genserico non devastasse Roma che venne saccheggiata per due settimane, ma ebbe almeno l’assicurazione dell’incolumità della popolazione. Gregorio Magno si trovò a fronteggiare, invece, l’invasione dei Longobardi e la sua azione fece sì non solo che Roma, divenuta città di confine, restasse non toccata, ma anzi acquisisse un’autorità spirituale che le permise di dare origine all’evangelizzazione del nord Europa.

[72] Cfr. su questo, G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993, pp. 108-125; 144-145; 151-155.

[73] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 19-25; 121-123; 228-237; 375-378.

[74] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 133-136, dove ciò è evidente a partire da papa Severino (640 d.C.).

[75] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 456-468.

[76] Arnaldi, nel corso del suo studio sull’origine del potere temporale del vescovo di Roma, relativizza l’importanza delle domus cultae, affermando: «Solo per una fortuita coincidenza la nascita del dominio temporale dei papi fu preceduta di poco da un evento che li indusse a fare più conto delle proprietà fondiarie incluse nel territorio cui esse si apprestavano a esercitare i “diritti concreti legati alla sovranità”. Si avrebbe perciò torto a considerare un fenomeno come la creazione delle famose domus cultae in una prospettiva politico-territoriale che riuscirebbe fuorviante e falsante. È, però, anche indubbio che la perdita del patrimonio siciliano, costringendo i papi a valorizzare le risorse agricole laziali più di quanto non avessero fatto in passato, favorì indirettamente un rinsaldarsi dei legami fra Roma e il territorio circostante – quello che per il contemporaneo volger di eventi sul piano politico-diplomatico e militare, da ducato bizantino com’era stato finora sarebbe diventato il primo Stato della Chiesa, anche se la denominazione che finirà con l’assumere, di Patrimonio di S. Pietro, metterà in rilievo proprio l’aspetto “patrimoniale” che, benché nient’affatto trascurabile, aveva avuto nella sua genesi un’importanza solo accessoria» (G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, p. 93).
Ma poi nell’introduzione rovescia tale posizione con toni che non sembrano quelli di uno storico, bensì di chi utilizzi un registro morale, quasi che ci fosse stato qualcuno nella Chiesa di allora che volesse ingannare altri con una non corretta gestione di patrimoni pubblici: «Una volta sottolineata con forza la differenza che – di là della pur non trascurabile persistenza del nome – intercorre tra un patrimonio di S. Pietro del VI secolo e il patrimonio di S. Pietro del secolo VIII, va riconosciuto che nella genesi dello Stato della Chiesa i patrimoni fondiari c’entrano per più di un verso. Anzitutto sia questi che quello facevano parte a eguale diritto del complesso delle “temporalità” della Chiesa romana che, momento per momento, va analizzato e scomposto nelle sue mutevoli componenti, ma sempre anche considerato nel suo insieme. Secondariamente, la differenza fra beni patrimoniali, per quanto vasti, e territorio statale, per quanto piccolo, è chiara a noi moderni, ma poteva non esserlo altrettanto agli occhi dei contemporanei della nascita dello Stato della Chiesa. In qualche caso, almeno, si ha l’impressione che chi aveva chiara anche allora tale differenza trovasse il suo tornaconto nel giocare sull’equivoco con chi, all’apparenza, doveva averla meno chiara di lui. Infine, si comprenderà facilmente come l’esperienza acquisita dalla Chiesa romana nell’amministrazione dei patrimoni costituì un utile apprendistato per il momento in cui si presentò per essa la necessità di provvedere al governo di un dominio territoriale: l’uso di documenti scritti, per esempio, le sarebbe venuto buono sia in un caso che nell’altro» (G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, p. 4).

[77] Il riferimento è sempre a G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987.

[78] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 34-46; 130-133; 247-258; 407-410.

[79] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, p. 30.

[80] Cfr. su questo A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 407-410.

[81] Cfr. in chiave sintetica, sulla questione dell’origine del potere temporale del vescovo di Roma, A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Roma, Antonianum, 2012, pp. 535-558. Ci distanziamo consapevolmente dall’utilizzo che fa Arnaldi dell’espressione Patrimonium S. Petri: infatti egli, pur essendo consapevole che essa sarà ufficiale solo dalla metà del XII secolo per indicare il territorio governato dal pontefice, amplia arbitrariamente l’utilizzo anteriore di tale termine perché intende sottolineare il ruolo dei patrimoni del vescovo di Roma nella genesi dell’origine del potere temporale, isolando a torto tale dimensione, come si è visto, rispetto ad una visione più complessiva (cfr. su questo G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, pp. 3-4). Se fossimo obbligati ad utilizzare un’espressione, preferiremmo, invece, quella di Repubblica di San Pietro proposta da T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 19-20, ma non la utilizziamo proprio per ricordare che non ci fu un momento di instaurazione di tale “repubblica”, come non ci fu un termine usato per indicare il suo sorgere, ma essa si sentì sempre parte di un contesto politico più ampio, anche se imparò a governarsi in autonomia ed amò tale relativa indipendenza.

[82] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 236. È in particolare alle pp. 203-237 che Noble analizza le diverse cariche di cui si ha notizia dai documenti, da quelle più direttamente ecclesiastiche come i sette vescovi titolari, i ventotto presbyteres priores o cardinales, l’arcidiacono e i diaconi, i notarii o scriniarii, con il loro primicerius e secondicerius notariorum, il sacellarius, il bibliothecarius, il protoscriniarius forse identico con il magister censuum, il defensor con la schola dei defensores, il vicedominus, il vestararius, il nomenculator, l’arcarius addetto all’arca, cioè alle finanze, l’adminiculator, mentre l’amministrazione più “laicale”, oltre alle diaconie, con il pater o il dispensator e gli xenodochia per l’assistenza, prevedeva figure addette alle forniture alimentari della città, oltre a militari con un superista, un magister militum, le scholae ognuna con un suo patronus che dovevano fornire se necessario personale per la difesa, iudices palatini e ordinarii, civili e penali, ma anche personale addetto a vario titolo a compiti di diplomazia ad extra, come l’apocrisario papale a Costantinopoli.

[83] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 183-202; 283-284.

[84] Così ne scrive Noble: «Nel X secolo scoppiarono a Roma tensioni sociali di ogni tipo e la nobiltà distolse il papato dai suoi compiti religiosi, trasformandolo per un certo periodo in poco più che un incarico politico […] Come testimonia in modo fin troppo chiaro la triste sequenza di eventi che contraddistingue il secolo X, la lotta tra fazioni che affliggeva il ceto nobiliare, penetrò con effetti dirompenti anche in Laterano – fino ad allora rimasto immune. Le cariche lateranensi – in primo luogo il soglio pontificio, divennero la posta in palio nel gioco di potere in atto nella politica romana» (T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 196-197).

[85] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 198. Noble afferma che fu esattamente la peculiare natura dell’autorità papale a rendere impossibile una sua equiparazione ad un qualsivoglia potere temporale: «Il soglio pontificio divenne il punto focale dei conflitti politici romani, ma i papi riuscirono a non cedere del tutto alle forze che li avrebbero potuti trasformare in semplici governanti temporali […] Le grandi tradizioni universali dell’ufficio papale fecero da scudo contro la “città terrena”» (T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 202).

[86] Alcuni storici ritengono che tale autonomia si sia via via affermata a partire da un desiderio di indipendenza del vescovo di Roma che avrebbe utilizzato una propria capacità propagandistica tramite testi letterari ed iscrizioni inneggianti al proprio ruolo, appoggiandosi sul potere economico delle domuscultae, cioè di fattorie capaci di produrre derrate alimentari e reddito che avrebbero reso sempre più potente la curia pontifica. È possibile intravedere tale tesi fra le righe di autori importanti come Marazzi, che riprende al presente le tesi che furono già di Arnaldi, quando afferma che l’«attività dei pontefici al fine di evidenziare il loro primato, con grandi opere in Roma e nei dintorni, si era avviata ben prima del pontificato di Leone IV, segnata dal costante uso di un linguaggio ricco di riferimenti ai rapporti fra potere imperiale e autorità papale maturato nell’Impero romano cristianizzato nella tarda antichità. Rapporti rielaborati dal Constitutum Constantini in modo tale che al papa spettasse, oltre che al primato spirituale su tutta la cristianità, anche un primato ben più terreno e concreto su varie zone dell’Italia centrale, in realtà ambiguamente gemmato dalla dissoluzione intorno al 750, del controllo dell’Impero Romano d’Oriente su Ravenna e su Roma stessa» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 264). Marazzi prosegue affermando che «l’aristocrazia romana, nella sua componente che non voleva un consolidamento politico del papato svincolato dal controllo delle famiglie locali, si accanì non a caso contro quelle isole di potere, prossime, ma esterne a Roma, con cui i pontefici tentavano di gettare basi solide di dominio territoriale, gestite del tutto in proprio o in consociazione con il potere imperiale [cioè le domuscultae]» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 264). Marazzi sembra qui dimenticare che tale potere temporale era già acquisito al tempo di Leone III e poi di Leone IV da un secolo ed immagina che esso fosse ancora da ottenere. Più avanti nell’articolo già citato, invece, Marazzi sembra correggere tale impostazione quando afferma in conclusione: «I pontefici romani avevano ereditato dai Bizantini, intorno al 750, la rete di castra costruiti lungo il limes longobardo. Le fonti ci dicono che non avrebbero realizzato altri insediamenti definiti in questo modo, nei successivi 150 anni; e non sembra che alcuno abbia osato operazioni di questo genere nel territorio da essi dominato, che, nelle sue caratteristiche fondamentali, doveva serbare ancora un’intelaiatura tardoromana, “aggiornata” solo dalle poche modifiche strategiche apportatevi dai Bizantini alla fine del VI secolo» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, pp. 274-275), tranne – aggiungiamo noi – le fortificazioni anti-musulmane e le nuove città nell’interno resesi necessarie. Marazzi oscilla continuamente fra l’attribuire ai pontefici un arbitrario desiderio di giungere a controllare il territorio ancora nel IX secolo, come quando scrive: «Nei decenni a cavallo fra l’VIII e il IX secolo, e per buona parte di questo secolo, i papi cessano in Roma di essere “semplicemente” custodi di chiese e soccorritori di indigenti e pellegrini. Si avverte che la loro attività assume un respiro e una valenza simbolica assai più ampia. Essi lavorano per plasmare l’immagine della città su cui vogliono signoreggiare» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 256) ed, in tale chiave, riprende la tesi di Arnaldi, già superata per l’VIII secolo, quasi che i possedimenti agrari del pontefice addirittura del IX secolo sarebbero stati “il” tassello decisivo nell’acquisizione di tale potere, vedendo nelle rivolte contro Leone III la manifestazione del rifiuto di tale autorità che, a suo dire, stava sorgendo ed era in fieri e, al tempo di Leone III, si andava accentuando. Marazzi ricorda, infatti, le domuscultae – le massae che dettero anch’esse contributi all’edificazione delle mura Leonine – già fondate dai papi Zaccaria, Adriano I e forse dallo stesso Leone III, «entità di grande importanza strategica, vere e proprie teste di ponte della signoria pontificia, dislocate in punti chiave del territorio di Roma, serbatoi di manodopera, all’occorrenza armata, e di rifornimenti alimentari. Esse si definiscono come tipiche creazioni di un potere ancora in itinere verso l’acquisizione di prerogative pienamente “pubbliche”, in quanto funzionarono di fatto come strumenti per l’espressione di una signoria politica, pur essendo giuridicamente nient’altro, se non proprietà che la Chiesa aveva acquisito e deteneva a titolo privato» (F. Marazzi, Le "città nuove" pontificie e l'insediamento laziale nel IX secolo, in R. Francovich - G. Noyé (a cura di), La storia dell'Alto Medioevo italiano alla luce dell'archeologia, Firenze, All'Insegna del Giglio, 1994, p. 263). Senza dimenticare le tensioni oggettive che si ebbero in Roma al tempo di Leone III con le rivolte del 799 e dell’815, solo uno sguardo ideologico può incentrare le sue attenzioni innanzitutto su tale conflitto di poteri, senza accorgersi che esso manifesta, invece, quanto il potere pontificio fosse da lungo tempo quello determinante e si desiderasse per questo avere un vescovo dell’urbe che sostenesse la propria parte. Ovviamente tale linea ermeneutica non può che interpretare l’edificazione delle mura non come opera necessaria, bensì come realizzata in chiave di auto-promozione politica da parte del pontefice dinanzi all’imperatore e ai membri “laici” dell’urbe. D’altro canto Marazzi riconosce poi chiaramente che l’autorità temporale del vescovo di Roma era già salda ben prima della metà del VII secolo!

[87] T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 291.

[88] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 239-255; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 68-69.

[89] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 267-274; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 70-72.

[90] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 274-280.

[91] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 280-292; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 71-72.

[92] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 285.

[93] Cfr. su questo, T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, p. 258.

[94] Mentre i moderni ragionano a partire dall’idea degli stati nazione, sorti un millennio dopo, che si escludono a vicenda e non permettono ad altri di intervenire nei propri confini, non così ragionavano le autorità dell’alto medioevo che vedevano sempre compresenti le autorità dell’imperatore (o dei diversi imperatori), del pontefice e le autorità cittadine ad intervenire sui medesimi territori, ogni qual volta fosse stato necessario, pur mantenendo abitualmente invece un esercizio suddiviso dell’autorità.

[95] G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 72-74.

[96] Come è noto, tale relazione ambivalente è l’oggetto del famoso mosaico del Triclinium lateranense: per una prima presentazione del significato iconografico dell’opera, cfr. T.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova, ECIG, 1998, pp. 293-294; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 79-80.

[97] Cfr. su questo G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993, pp. 177-178.

[98] Liber pontificalis, II, p. 100.

[99] Liber pontificalis, II, p. 100.

[100] Duchesne in nota in Liber pontificalis, II, pp. 104-105.

[101] Liber pontificalis, II, p. 117.

[102] Si noti bene che magister militum designa precisamente un’autorità “laica” cittadina, poiché il pontefice non governa direttamente la città, ma le magistrature del tempo dell’impero bizantino sono ancora in essere, ma, mentre in antico esse facevano direttamente riferimento all’imperatore, ora esse fanno riferimento al pontefice.

[103] Cfr. per tale espressione e per quelle che seguono Liber pontificalis, II, p. 134.

[104] Il Liber racconta che Ludovico II venne personalmente a Roma per indagare della cosa e si convinse alla fine che l’accusa era falsa e, volendo mettere a morte il magister militum Danihel per la falsa accusa, ne venne impedito da Leone IV che intercedeva per lui: il fatto conferma così le modalità di intervento franche già analizzate nelle quattro tappe sopra descritte.

[105] A. Lizier (voce Ludovico II re d'Italia e imperatore, in Enciclopedia Italiana (edizione Treccani del 1934), disponibile on-line), afferma in proposito: «Nell’846 [Ludovico II, re d’Italia] partecipò, in Francia all'assemblea tenuta da Lotario per organizzare la difesa dell'Italia dai Saraceni, nella quale fu stabilito (Capitulare de expeditione contra Saracenos facienda) che egli con un esercito d'Italiani rafforzato con milizie franche, borgognone e provenzali iniziasse nel marzo 847 la campagna contro i Musulmani del Mezzogiorno d'Italia e che, nello stesso tempo, si componessero le lotte dinastiche del ducato di Benevento che tanto avevano giovato ai progressi degl'infedeli. Il ducato, con un trattato firmato alla presenza di re Ludovico, fu diviso nei principati di Benevento e di Salerno. Della spedizione si sa solo che nell'848 trionfò dei Musulmani. La vittoria navale di Ostia dell'849 va considerata come un felice complemento dei successi di Ludovico, che, ripassando per Roma, nell'aprile 849 riceveva da papa Leone IV la corona d' imperatore, restando così associato al padre nella dignità imperiale. Da questo stesso anno L. cominciò a governare l'Italia in nome proprio».

[106] Cfr. su questo Gli arabi nel Lazio nei secoli IX e X, di Giuseppe Cossuto e Daniele Mascitelli.

[107] Cfr. su questo A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 110-111.

[108] Le fortificazioni che vengono predisposte in funzione anti-saracena nel IX secolo sono un elemento di grande importanza che viene a contestualizzare le tesi di Toubert sull’incastellamento medioevale. Sono sempre più gli autori che correggono le note tesi dello storico francese che interpretava innanzitutto il fenomeno in chiave di evoluzione sociale interna: la maggior parte delle fortificazioni altomedioevali mostrano, invece, che la necessità di proteggersi da incursioni esterne fu elemento determinante a fianco e prima dell’evoluzione sociale. Ovviamente Roma e il Lazio in particolare furono coinvolti in questo processo difensivo dinanzi all’aggressore saraceno che obbligò gran parte della popolazione costiera a spingersi nell’interno, costruendo e difendendo siti nuovi e vecchi. Per le tesi di Toubert, vedi, in maniera sintetica, P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medioevale, Torino, Einaudi, 1995. Toubert appartiene a quella linea storiografica che ritiene gli attacchi arabi assolutamente secondari: i territori del Lazio sarebbero stati «lievemente perturbati» (p. 50) dai saraceni e se anche gli anni 870-910 sarebbero stati – a suo dire – i «decenni neri» (p. 50), l’autore proporne di ricollocare quelle azioni e la reazione ad esse «su un piano decisamente secondario» (p. 51). Anzi – afferma Toubert - «la minaccia saracena, che nella nostra regione si è fatta sentire solamente negli anni 870-915, non è una causa ma una conseguenza della dissoluzione delle strutture di inquadramento verificatasi dopo il crollo dell’impero carolingio nel vuoto aperto dalla morte di Ludovico II (875)». Toubert non coglie così innanzitutto come gli attacchi arabi nella regione laziale precedano l’870 e siano da retrodatare almeno all’813 quando Centumcellae venne distrutta, includendo poi le azioni su Roma dell’846 e dell’849. Ma, ancor più, la sua ottica non coglie i nessi storici per cui, da un lato, quegli attacchi erano parte di un disegno ben più ampio le cui possibili tappe successive erano ben chiare ai contemporanei, che conoscevano della guerra in atto in Sicilia così come della costituzione dei diversi emirati del sud Italia, che non ebbero tempo e modo di realizzarsi nel centro. D’altro canto Toubert non si accorge di come quegli attacchi vennero contrastati dal potere temporale del vescovo di Roma già pienamente operante, ma al contempo, resero quel potere più consapevole della propria necessità: quegli eventi sono decisivi per chiunque voglia capire in che modo il vescovo di Roma gestì il governo cittadino e si relazionò con Costantinopoli e con i Franchi.

[109] La stessa elezione di Leone IV avvenne senza il consenso imperiale, non perché si volesse tenere lontano il sovrano, ma perché la situazione era così drammatica che non si ritenne di poter aspettare ad ordinare il nuovo vescovo di Roma per averlo effettivamente in carica. Esattamente come avvenne con Stefano II, al tempo del pericolo longobardo, che venne ordinato vescovo di Roma senza poter aspettare l’assenso di Costantinopoli, così Leone IV assume l’incarico senza che fosse avvisato l’imperatore: timore et futuro casu perterriti eum [Leone IV] sine permissu principis praesulem sacraverunt (Liber pontificalis, II, p. 107).

[110] G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 65-66.

[111] Cfr. su questo T. Canella, Gli Actus Silvestri. Genesi di una leggenda su Costantino imperatore, Spoleto, CISAM, 2006.