Paternità, la dimensione dell’amore e della guerra. Riflessioni con gli studenti a partire dalla “Lettera al padre” di Kafka e da “La giornata di uno scrutatore” di Calvino. I conti da regolare con la figura paterna, di Roberto Contu
Riprendiamo da Romasette del 12/1/2022 un articolo di Roberto Contu. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Genitori e figli.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2022)
Mi hanno chiesto di scrivere di paternità per una rivista. Bloccato al tavolo alla ricerca di qualche idea, mi sono ritrovato a pensare a una delle ultime lezioni prima della sosta natalizia. Ero entrato in classe per spiegare il passaggio dall’Ottocento al Novecento alla mia quinta, e ho iniziato a riempire la lavagna.
A un certo punto ho scritto: «Questione del padre», sottolineando due volte. Poi ho fatto aprire il manuale, ho letto qualche riga dalla Lettera al padre di Kafka: «A volte immagino la carta della terra spiegata e tu sopra, disteso di traverso. Ed è come se, per la mia vita, potessi prendere in considerazione solo le zone che tu non copri o che sono fuori dalla tua portata».
Mentre scandivo le parole di Kafka, ho percepito quel silenzio che solo gli insegnanti sanno. Mi sono fermato, ho smesso di leggere: «Non so ragazzi, ma a me pare che queste parole dicano molto, molto di complicato, di doloroso ma di realistico, su come ognuno di noi abbia spesso un conto da regolare con la propria figura paterna». I ragazzi e le ragazze non hanno risposto ma mi hanno guardato, in molti annuendo.
All’inizio dell’anno, nella stessa classe, avevamo discusso su una delle letture estive che avevo assegnato: La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino. Il romanzo racconta l’esperienza di un militante comunista che durante le elezioni del 1953 è chiamato a fare da scrutatore al Cottolengo, per vigilare affinché i religiosi non incassino voti indebiti per la Dc da soggetti incapaci di intendere.
A un certo punto il protagonista, Amerigo Ormea, ha modo di entrare nei cameroni, i degenti gli si mostrano in tutto il loro aspetto deforme e disturbante («fino a dove un essere umano può dirsi umano? Si chiedeva Amerigo»), ma viene fortemente colpito dalla scena di un padre dallo sguardo «socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori», che schiaccia pazientemente le mandorle per il figlio demente che con «occhio animale e disarmato» gli sta di fronte. La scena del padre e del figlio, l’impatto violento con una dimensione dell’umano che suscita l’interrogativo su un suo possibile confine, disarmano le convinzioni ideologiche di Amerigo Ormea, che deve abbandonarsi alla domanda ben più universale sul senso stesso dell’amore.
Con in mente le suggestioni del Kafka appena letto, ho ricordato alla classe quella pagina di Calvino: «Anche quello, di fatto, è un padre. Ama incondizionatamente, semplicemente, in modo potremmo dire primordiale, suo figlio che non è capace di intendere. Quella stessa figura paterna che Kafka, così come Saba, definisce il proprio “assassino” può essere un monumento all’amore, tanto da mettere in crisi un militante come Amerigo Ormea. Dove è allora la verità? E quale è dunque il senso della figura paterna?».
Una ragazza ha alzato la mano e questa volta ha parlato, esplicitando quella che mi sono reso subito conto essere l’unica risposta possibile: «Nella figura paterna ci sono entrambe le dimensioni, professore. Quella dell’amore ma anche quella della guerra». Questa volta ho annuito io, ho pensato che quella ragazza aveva appena detto tutto quello che c’è da dire sulla paternità, e che di questo avrei scritto.