Gli ambientalisti sporcaccioni, Van Gogh del minestrone e il fact checking: povero nostro mondo che finge di non capire nemmeno le battute pur di difendere il politicamente corretto, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

Non bisogna prendere sul serio gli stupidi. Bisogna ironizzare. Bisogna saper scherzare e prendere in giro. È una conquista di chi si contrappone oggi al politicamente corretto essersi riappropriati della battuta, della facezia, dell’ironia (cfr. su questo La diocesi di Roma e la conquista del registro dell’ironia. Brevissima nota di Andrea Lonardo).

Proprio per questo il politicamente corretto si oppone a chi sa scherzare.

Dinanzi ad idioti che continuano ad imbrattare tele nei musei indebolendo il fronte ecologico c’è stato chi, saggiamente, non ha attaccato con dotte dissertazioni una prassi tanto insulsa, ma ha ironizzato su di essa inventando un post palesemente falso che affermava che un uomo travestito da Van Gogh era entrato in una riunione di ambientalisti in Olanda e aveva rovesciato una pentola di minestrone sulle loro teste.

Subito un gruppo benpensante di fact checking si sono affrettati a dichiarare che tale notizia era falsa, come se ci fosse bisogno di sentenziare su di una cosa così ovvia (i fact checkers non capiscono le battute e trattano le barzellette come tratterebbero le enciclopedie!) e, al seguito di questi ulteriori imbecilli, i principali social hanno bannato la presa in giro degli ambientalisti sporcaccioni.

Insomma è come se avessero censurato le prime pagine della rivista Il male che decenni fa, quando il politicamente corretto non era ancora salito in cattedra, fosse stato censurato perché ironizzava con false prime pagine dei principali quotidiani del paese.

O come se venisse censurato Lercio, perché pubblica notizie non vere.

Inneggiamo al non politicamente corretto e chi è politicamente corretto peste lo colga!

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:06 pm | | Default

Le visioni di Ildegarda di Bingen illustrate dalle miniature: l’uomo al centro dell’universo ben prima dell’Umanesimo e del Rinascimento. Forse con il Rinascimento l’uomo comincia a dimenticare le ragioni per cui aveva senso sentirsi al centro, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

È vero ciò che l’Umanesimo e il Rinascimento avrebbero posto per la prima volta al centro l’uomo? O è vero piuttosto che a partire dal Rinascimento l’uomo sarebbe stato spodestato dal centro, per giungere infine al post-moderno che ritiene l’uomo un essere casuale e inferiore rispetto al resto del cosmo?

Pe orientarsi in tale questione vale la pena soffermarsi sulle immagini che accompagnano i manoscritti a noi pervenuti di Ildegarda di Bingen (così come studiare immagini similari del tempo che saranno citate più avanti).

Il Liber Scivias (1141-1151), nel quale più forte è l’intenzione teologica, e il Liber divinorum operum (1163-1173), rivolto maggiormente alla cosmologia, sono due opere di Ildegarda che sono pervenute a noi in manoscritti accompagnati da miniature eseguite nei secc. 12° e 13°[1].

1/ L’uomo al centro dell’universo, abbracciato dal Padre e dal Figlio. La II visione della parte prima del Libro delle opere divine

L’immagine più famosa sull’uomo è quella della II visione della parte prima del Libro delle opere divine. Come scrive in sintesi Ildegarda, spiegando ciò che vide in visione: «L’uomo è il centro della creazione e tutta lo riguarda, come dimostra il fatto che tocca con testa, piedi e dita il cerchio di aria leggera. È piccolo materialmente, ma dotato di grande anima. Come con gli occhi del corpo vede le creature, con quelli della fede vede Dio in tutto il creato»[2].

Ovviamente in Ildegarda, che è una badessa benedettina, tale centralità dell’uomo è garantita dalla Trinità e, infatti, nella stessa miniatura si vede ciò che lei scrive a proposito della testa d’uomo su cui poggia una testa di vegliardo: «È Dio nella sua duplice funzione di Creatore dell’uomo e di Cristo redentore»[3].

Ecco perché la miniatura dipinge due teste ad indicare nella Trinità il Padre e il Figlio che abbracciano il cosmo intero e, in particolare, l’uomo. Il Padre abbraccia l’uomo tramite l’amore del Figlio.

Non solo, ma l’intera circonferenza che tutto abbraccia «rappresenta la Divinità senza inizio né fine, che tutto comprende senza essere circoscritta»[4].

Inoltre così scrive Ildegarda dei due cerchi di fuoco lucido e nero: «Il fuoco lucido è la potenza di Dio, che è sopra di tutti e dà vita a tutto. Quello nero indica il fuoco della Geenna, che colpisce i colpevoli di cattive azioni»[5].

E subito precisa: «Il fuoco lucido ha densità doppia dell’altro, perché solo con la grazia e la clemenza di Dio l’uomo può superare la gravità del peccato»[6].

Insomma l’uomo è assolutamente al centro dell’universo, ma lo è perché lì lo ha posto il Dio creatore e lo ha salvato il Cristo con la sua croce.

Ogni altro particolare dell’immagine riportata poi nella miniatura - anche se molti particolari vengono omessi rispetto al testo della visione – rimanda a questioni cosmologiche, come il globo che è al centro che è indicato come la terra[7], ma al contempo permette a Ildegarda approfondimenti morali e spirituali: «Posto ad uguale distanza dal cerchio d’aria da ogni parte, indica la vita attiva che deve equilibrarsi fra le opere spirituali e quelle corporali. La sua distanza dagli altri elementi è stata stabilita da Dio per preservare il mondo dallo strepitio degli elementi, dalle inondazioni e dalla violenza dei venti. Così il fedele tempera il suo comportamento fra la sfiducia nelle proprie forze e la considerazione delle potenze divine»[8].

Molti dei particolari della visione hanno a che fare poi innanzitutto co la cosmologia medioevale, come i cerchi di etere e, più vicino alla terra, delle acque che la circondano, ma anche con dodici modalità, definite “venti” e caratterizzate ognuno da un simbolo animale, che l’uomo deve comprendere, in senso morale e spirituale, per raggiungere, ad esempio, la pazienza o per sfuggire alle tentazioni del diavolo.

2/ La visione del Figlio di Dio in forma umana nello Scivias

Per comprendere appieno la visione appena considerata è importante confrontarla con due altre visioni, anch’esse rappresentate dalle miniature antiche.

La prima è la II visione del II libro dello Scivias.

Anche qui al centro è la figura umana, ma questa volta essa non è semplicemente quella dell’uomo, bensì quella del Figlio di Dio che prenderà la carne nel grembo della Vergine.

Quel Figlio è il Figlio del Padre rappresentato dalla luce che circonda il Figlio, generato prima dei tempi secondo la divinità, come afferma esplicitamente Ildegarda che così scrive:

in questa visione, «la luce senza origine cui nulla manca è il Padre e la forma d’uomo di color zaffiro, senza macchia di imperfezione, invidia e iniquità indica il Figlio, generato dal Padre prima dei tempi, secondo la sua divinità e, in seguito, incarnato nel mondo secondo la sua umanità. Tutta questa luce, ardente di un fuoco dolcissimo, privo di ogni forma di arida e tenebrosa mortalità, rappresenta lo Spirito Santo, grazie al quale l’Unigenito Figlio di Dio fu concepito secondo la carne e poi nacque nel tempo da una vergine. Lo Spirito infonde nel mondo la luce del vero splendore»[9].

Qui, insomma, la visione è trinitaria e difatti si parla anche dello Spirito «grazie al quale l’Unigenito Figlio di Dio fu concepito secondo la carne e poi nacque nel tempo da una vergine»[10].

La centralità dell’uomo, allora, non dipende puramente dalla creazione e dalla sua presenza eccedente nel mondo, bensì dal Figlio stesso e dalla sua incarnazione che, prendendo carne umana, mostrò l’altissima dignità dell’uomo, dignità talmente alta che lo stesso Figlio di Dio non esitò a farsi uomo.

Ovviamente la visione di Cristo e conseguentemente la sua raffigurazione sono frequentissime nella cattolicissima Ildegarda, ma in questa visione la figura umana non è semplicemente rappresentata, bensì è posta ancora una volta al centro dell’immagine.

Nella miniatura[11] un alone è ritagliato intorno al Figlio di modo che sia la luce stessa del Padre quella che tutto abbraccia, abbracciando non solo lo stesso Spirito, ma lo stesso Figlio fino a toccarlo da vicino e a sostenerlo: è quella “luce serena” la paternità stessa di Dio che ha generato dall’eterno il suo Figlio.

3/ La visione dell’uomo al centro del mondo, questa volta senza la Trinità che lo abbraccia, nella III visione della I parte del Libro delle opere divine

La terza visione della I parte del Libro delle opere divine è speculare alla seconda visione. Qui Ildegarda accentua gli influssi che provengono direttamente dalle cose create sull’uomo, senza rappresentare più esplicitamente la testa d’uomo con su posta la testa di Vegliardo, che abbiamo visto essere quelle del Figlio e del Padre che hanno posto l’uomo al centro del cosmo.

Certo, restano i due cerchi, quello più spesso che rappresenta la misericordia di Dio e quello meno spesso che rappresenta invece la sua giustizia, ma è come se in questa visione ci si incentrasse sull’uomo così come egli è nel cosmo.

In particolare qui sono posti in evidenza gli influssi dei venti che sono da un lato, dal punto di vista cosmologico, necessari al buon andamento del mondo, ma, dall’altro, dal punto di vista morale e spirituale, Ildegarda interpreta anche come segni dell’azione di Dio che spinge l’uomo al retto agire. Scrive, ad esempio: «Vento del nord che spira dal solstizio d’inverno: Quando il tedio e la stanchezza rallentano l’uomo nel comportamento delle buone opere, anche le tribolazioni corporali lo affliggono, ma il vento spinge l’uomo reagire»[12].

4/ Dio, nella I immagine della I parte del Libro delle opere divine

La I visione – e la conseguente I miniatura – del Libro delle opere divine è dedicata interamente a Dio. Afferma Ildegarda che nell’immagine rivestita di tunica dorata è simbolizzata «la carità ardente di Dio. La tunica dorata indica il corpo incarnato di Cristo rivestito di carità, perché le capacità umane senza fede non valgono nulla»[13].

La circonferenza di color oro, invece, «è la Sapienza divina che tutto circonda»[14].

Le due ali originate dalle spalle «sono la carità di Cristo che abbraccia giusti e peccatori»[15].

L’agnello splendente tra le mani dell’immagine, invece, è «la carità [che] fa agire Cristo con la mansuetudine della vera fede, che risplende e illumina tutti»[16].

Ecco nuovamente ciò che dà centralità all’uomo: l’uomo è al centro, ma non perché un qualche pensiero filosofico ve lo collochi, bensì per l’opera di Dio.

Lo stesso Dio lotta perché la “centralità” dell’uomo sia tale e lotta contro i demoni che vogliono invece condurre l’uomo e il cosmo alla perdizione, strappando loro la vita.

Infatti, la figura centrale schiaccia il mostro orribile di colore nero a rappresentare che «la carità schiaccia il male, rappresentato dalla discordia, congiunta a molti vizi, grazie ai piedi di Cristo, che ha affrontato la croce»[17].

Non solo, ma Ildegarda nella visione contempla un serpente che morde l’orecchio del mostro: «La posizione del serpente indica la totalità dei vizi e la pelle screziata la molteplicità delle forme che Satana assume, costituendo un unico ammasso di malvagità»[18].

5/ L’uomo al lavoro nella IV visione del I Libro delle opere divine

Nella IV visione della I parte del Libro delle opere divine è considerato, invece, l’uomo nel fluire delle stagioni. L’immagine pone questo in evidenza, rappresentando l’uomo al lavoro sulla superficie del globo sferico, con alberi che mostrano gli effetti dell’autunno, dell’inverno, della primavera e dell’estate.

Così scrive Ildegarda: «Nel firmamento è disposto dal Creatore, in modo congruente con determinate attribuzioni, il fuoco, l’etere, le acque, le stelle, i venti»[19].

E ancora: «Perché l’uomo, che è rafforzato da Dio a somiglianza del firmamento, deve considerare sempre con cura sé stesso e le sue opere, giacché Dio lo ha reso creatura razionale su tutte le altre affinché egli lo conoscesse e glorificasse»[20].

Ed ancora: «Le due forze dell’anima: una giova alle cose che si riferiscono a Dio, l’altra svolge il suo compito vivificando e guidando il corpo»[21].

È chiara qui la visione medioevale che vede una perfetta corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo, dove gli elementi corrispondono alle stagioni e queste alle età dell’uomo e queste ancora ai temperamenti dell’uomo[22].

Al contempo è evidente anche che il lavoro – e le conoscenze “scientifiche” necessarie ad esso – non sono viste solo come “punizione” dopo il peccato originale, ma anche come mezzi di redenzione affidati all’uomo che può con essi contribuire ad una vita più giusta e ricca per tutti.

6/ La storia della salvezza nelle immagini dello Scivias

Nello Scivias, invece, tutta una serie di miniature rimandano alla storia della salvezza.

Ad esempio, nella visione V del Libro I, l’“immagine femminile pallida dalla testa fino all’ombelico” rappresenta «la Sinagoga, madre dell’incarnazione di Cristo che prevede nell’ombra i segreti di Dio dal momento dell’origine dei suoi figli fino alla loro fortificazione, ma non li svela pienamente»[23].

La miniatura[24] la rappresenta con occhi chiusi ad indicare questo non vedere pienamente, eppure altissima, come una torre fatta proprio per vedere. Il colore della donna è pallido, ma i suoi santi e profeti sono di colori vivissimi e con occhi aperti perché tutti volti ad indicare l’incarnazione ventura.

Nel suo cuore «c’è Abramo. Egli, infatti, dette inizio alla circoncisione della Sinagoga. Nel petto Mosè. Egli, infatti, portò nel cuore degli uomini la legge divina. Nel ventre gli altri profeti. Essi furono i custodi dei precetti divini, nell’insieme dell’opera loro affidata dalla divinità»[25].

Se, alla maniera medioevale, si denuncia anche la cecità della Sinagoga, nondimeno essa è esaltata, perché la rivelazione al popolo ebraico è riconosciuta come vera, vitale, decisiva ed eterna.

La miniatura rappresenta la visione con in alto sul petto della donna Mosé, che ha portato agli uomini i comandamenti eterni di Dio e, nel grembo, Aronne con il coltello iniziatore del sacerdozio e Abramo con la tiara sul capo. Il testo di Ildegarda è, come sempre, più ricco della miniatura e spiega come la “sinagoga” sia al contempo antitesi e prefigurazione della chiesa, sia luce e ombra.

Nella IV visione del libro II, invece, è la Chiesa stessa ad essere rappresentata[26]: «Immagine femminile, come una torre, che è inserita nel muro di cinta di una città: quell’immagine, per la sua struttura massiccia, non poteva cadere in nessun modo. È la chiesa. Lo Spirito Santo, nella forza dell’incarnazione di Gesù, operò miracoli nella sposa di Cristo e la rese tanto forte nel difendersi, che ella non può cadere in errore, per cui gioirà sempre nell’amore del suo sposo per la protezione celeste»[27].

Nella visione V sono – sempre all’interno della chiesa immaginata nella figura di una donna - le monache, e i monaci insieme agli altri uomini: «Grandissima folla di uomini, più luminosi del sole, tutti adorni di oro e gemme in modo meraviglioso. È l’illustre schiera dei vergini, che brillano davanti a Dio più di quanto appaia sulla terra, perché affrontarono coraggiosamente la morte, ornandosi della soma sapienza che deriva dalle opere compiute in nome di Cristo»[28].

Si vede qui, ancora una volta, la centralità dell’uomo e della donna consacrati, che già brillano in terra, ma che in realtà brillano molto di più di quanto appaia agli occhi terreni, brillano della gloria divina che si manifesterà nel giudizio e nella vita eterna.

Ma nella miniatura, molto meno precisa rispetto al testo, si vedono a destra della donna anche alcune figure che sembrano combattere la Chiesa, mentre a sinistra altri che sembrano voler tornare alla comunione con lei. In basso vi sono persone chine al lavoro, forse in parte distolte dalla loro vocazione, mentre le figure centrali sembrano ben salde nella loro vocazione nella Chiesa e con essa. In alto sono fiamme di fuoco che rappresentano l’azione dello Spirito che abbraccia quella della Chiesa: il fuoco spirituale fuoriesce da tre finestre, simbolo della trinità.

Si potrebbe continuare analizzando le visioni una per una, ma vale la pena accennare ancora alla VI visione[29], che presenta il valore dei sacramenti nella vita della Chiesa.

Dice il testo di Ildegarda: «Il venerabile sacramento del corpo di Cristo. La chiesa è congiunta a Cristo nella passione, è ornata del suo sangue e ne è scaturita la salvezza delle anime»[30].

La miniatura che la accompagna mostra la croce di Cristo ed una donna – la Chiesa – che raccoglie i frutti della passione tramite i sacramenti. La donna/Chiesa è raffigurata due volte nella miniatura, una volta come colei che è toccata dal sangue di Cristo che sgorga dalla croce di Cristo e insieme mentre lo raccoglie in un calice e poi, una seconda volta, in basso, alla mensa dell’eucarestia.

Il duplice momento è ulteriormente rafforzato dai simboli circostanti. Nella crocifissione, in alto, un cartiglio recita: “Haec sit tibi, Fili, sponsa in restaurationem populi mei, cui ipsa mater sit, animas per salvationem spiritus et aquae regenerans”.

In basso la mensa dell’altare eucaristico ha, invece, intorno a sé quattro dei misteri della vita di Cristo[31] - la sua nascita, la sua deposizione nel sepolcro, la sua resurrezione e la sua ascensione al cielo – perché chi partecipa dell’eucarestia diviene parte di quei misteri.

L’insieme di tali visioni mostra come la centralità dell’uomo nel cosmo si compia proprio nel mistero della Chiesa che restituisce all’uomo la figliolanza divina in pienezza, per cui l’uomo si sente amato e posto da Dio nel mondo e proteso non alla morte, ma alla vita che non delude.

7/ L’immagine della stessa Ildegarda, sempre insieme alla Chiesa

Lo sguardo ecclesiale di Ildegarda appare nelle miniature quando esse recano, in basso, la raffigurazione della stessa Ildegarda, talvolta sola, talvolta con il monaco Volmar, suo segretario e consigliere spirituale, talvolta con Richardis di Strade, sua consorella monaca e discepola prediletta.

Ildegarda era sempre accompagnata dalla preghiera delle sue consorelle, anche quando si recava a predicare nelle pubbliche piazze e in tante chiese cattedrali, come avvenne tra l’altro a Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz, Bamberga e Würzburg, e la comunità la sosteneva nella sua missione.

Nella Vita (II, 23, 107) “quasi” autobiografica scritta dal monaco Goffredo e successivamente Teodorico, Ildegarda afferma:

«Mentre scrivevo il libro Scivias, avevo accanto a me, unita d’amore, come Paolo a Timoteo, una nobile fanciulla, figlia della marchesa […] che si era vincolata a me con amicizia privilegiata in ogni cosa, si era afflitta con me nei miei affanni, finché non portai a termine il libro».

Ildegarda aveva desiderava che Richardis potesse rimanere presso di sé sempre nel monastero di Rupertsberg, ma - afferma ancora Ildegarda - a causa della nobiltà della sua casata, si piegò poi ad un incarico di maggior prestigio, cioè diventare badessa di un diverso rinomato monastero.

Le immagini di Ildegarda con Richardis e con il suo consigliere Volmar fanno ben capire anche a livello iconografico come Ildegarda, da vera monaca, non fosse mai sola, bensì sempre accompagnata dalla sua comunità: Ildegarda è donna di chiesa, non sapiente solitaria.

8/ Ildegarda non è sola nella descrizione della centralità dell’uomo nel cosmo nel medioevo

Si è fin qui parlato delle immagini peculiari tratte dalle visioni di Ildegarda. Ma guai a dimenticare che la centralità dell’uomo nel cosmo da lei attestata è tipica di qualsiasi autore dell’epoca.

Lo prova la costanza con la quale ogni ciclo pittorico o scultoreo medioevale ha raffigurato le scene di Genesi, nelle quali è assolutamente evidente che l’uomo è l’opera più bella di Dio, che l’uomo è posto al centro e nel cuore del mondo.

Adamo ed Eva sempre vengono raccontati e raffigurati, sempre introducono le altre storie bibliche, perché è proprio a motivo del fatto che l’uomo è al centro dell’amore divino che tutto il testo della historia salutis lo riguarda.

Se si passa poi a raffigurazioni più sintetiche, come quella di Ildegarda – raffigurazioni meno narrative delle storie bibliche -, si trovano altri esempi analoghi.

Famosa è la seconda volta del ciclo della Creazione del Cosmo nella cripta della cattedrale di Anagni[32]: l’uomo è raffigurato al centro con le quattro lettere H-O-M-O disposte in cerchio. Tutto è disposto intorno all’uomo, in un rimando di microcosmo e macrocosmo, in una suddivisione in quattro spicchi nei quali sono rappresentati o semplicemente scritti le quattro età della vita dell’uomo, i temperamenti umani, le quattro stagioni dell’anno e i quattro elementi.

9/ L’uomo al centro del cosmo in Ildegarda e l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci

Per contemplare ulteriormente il significato delle visioni di Ildegarda e la loro specificità, vale la pena confrontarle con le immagini dell’uomo nel cosmo elaborate in età rinascimentale, innanzitutto quella disegnata da Leonardo da Vinci che è divenuta come un simbolo della sua propria epoca.

Il cosiddetto Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci è uno studio morfologico con il quale Leonardo intese fissare con assoluta precisione le “misure” del corpo umano in relazione a figure geometriche.

Leonardo si accorse che Vitruvio si era sbagliato quando aveva suggerito che la figura umana potesse essere iscritta similmente in un cerchio ed in un quadrato: nel cerchio (homo ad circulum), invece, il centro dell'uomo corrisponde all'ombelico, mentre nell'uomo inserito in un quadrato (homo ad quadratum) tale centro si trova sotto il pube, ossia nei genitali.

Leonardo, probabilmente, stava realizzando il volume De figura quando disegnò lo studio di proporzioni che venne poi erroneamente chiamato “uomo vitruviano”.

Nell’analogo disegno di Cesare Cesariano, del 1521, si comprende come le osservazioni morfologiche di Leonardo fossero ben più precise rispetto a quelle di derivazione “vitruviana”[33].

Cesare Cesariano, "Uomo vitruviano", 1521

La differenza della rappresentazione dell’uomo di Leonardo rispetto a quello di Ildegarda è certamente dovuta innanzitutto alla “precisione” della nuova epoca: l’età rinascimentale già si avvicina all’età barocca che, per prima, possederà strumenti di precisione, come il cannocchiale o l’orologio per calcolare con precisione il tempo – cosa che era impossibile precedentemente e tale impossibilità rendeva la ricerca scientifica diversa non nelle intenzioni, ma nei risultati. La scoperta della prospettiva e delle proporzioni è parte di questo spirito incipiente.

Ma la differenza sta ancor più nell’assenza dell’abbraccio di Dio all’uomo. La centralità dell’uomo è fondata da Ildegarda nella rivelazione, mentre in Leonardo è come data per presupposta. Si noti bene: non che Leonardo non fosse cattolico! No, egli lo era pienamente, ma è come se con il Rinascimento, pian piano, passasse in secondo piano il bisogno di ricordare il motivo della centralità dell’uomo in Dio.

Nell’altra raffigurazione che è stata scelta da tanti, oltre a quella dell’Uomo vitruviano, come immagine chiave della visione dell’uomo del Rinascimento, Piero della Francesca a Rimini, nel Tempio Malatestiano, pone l’uomo, in questo caso Sigismondo Pandolfo Malatesta, al centro, ma lo pone, a differenza di Leonardo, ancora dinanzi al divino, in questo caso rappresentato da san Sigismondo che porta un’aureola scorciata in prospettiva. L’uomo è qui inginocchiato a chiedere l’intercessione del santo, anche se è il vero centro del dipinto, avendo a sinistra il santo e a destra più in basso due cani, uno nero e l’altro bianco, a rappresentare forse la fedeltà e la vigilanza.

Nella mente di Piero, come di Leonardo, la Trinità è assolutamente presente, sia quando viene rappresentata, sia quando è iconograficamente assente.

Ma sempre più l’abbraccio trinitario dell’uomo passa sullo sfondo.

Il paradosso è che proprio quando scompare la presenza divina si avvia la strada alla “marginalizzazione” dell’uomo: diversi filosofi descrivo l’epoca post-moderna, che succede alla moderna età nella quale l’uomo è ancora centrale, come post-umanista o addirittura post-umana [34].

A partire da Nietzsche[35], ma ancor più nello sguardo contemporaneo, l’uomo non è più centrale come nel medioevo e nel rinascimento, bensì può diventare secondario anche rispetto agli animali e certamente assolutamente insignificante rispetto alle coordinate del tempo e dello spazio – il tempo che si allarga ai quindici miliardi di anni dal Big Bang e lo spazio dell’universo in espansione.

Insomma, il Rinascimento non pone l’uomo al centro, ma inizia a destituirne la centralità.

Note al testo

[1] Scrive Dalli Regoli: «Il codice di Wiesbaden (Hessische Landesbibl., 1) - oggi perduto ma attestato da una copia su pergamena realizzata nella prima metà di questo secolo (Wiesbaden, Hessische Landesbibl., B) - conteneva la stesura originaria del Liber Scivias, curata da I., e dunque databile nella seconda metà del sec. 12°; più tarda è la redazione di Heidelberg (Universitätsbibl., Sal. X, 16). L'esemplare più antico del Liber divinorum operum è quello conservato a Lucca (Bibl. Statale, 1942), probabilmente proveniente da uno scriptorium renano del terzo decennio del 13° secolo» (dalla voce Ildegarda di Bingen, di G. Dalli Regoli, in Enciclopedia dell'Arte Medievale (1996), disponibile on-line). Dalli Regoli ricorda poi che «comune ai due codici è comunque la capacità di sintetizzare in forma icastica una materia scientifica e teologica complessa, ricorrendo largamente alle superfici specchianti del fondo oro, a profili scuri che delineano figure d'impronta solenne e ieratica, a un repertorio decorativo classicizzante: tipologie e caratteri stilistici che riportano alla grande tradizione della miniatura ottoniana, evidentemente un riferimento culturale ancora valido nella regione renana tra 12° e 13° secolo». A questo link è possibile sfogliare on-line il manoscritto di Lucca https://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ALU0022_ms.1942&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU mentre la pagina di presentazione è al seguente link http://www.internetculturale.it/it/41/collezioni-digitali/26271/hildegard-von-bingen-della-biblioteca-statale-di-lucca.

[2] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 383. L’edizione di Sciacca non è completa, ma ad essa vale la pena fare riferimento per una prima comprensione delle opere: l’edizione critica e completa, con il testo originale latino, è disponibile in Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine (edizione a cura di M. Cristiani e M. Pereira), Milano, Mondadori, 2003, che sarà citata talvolta a integrazione.

[3] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 406.

[4] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 382.

[5] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 382.

[6] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 382.

[7] Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine (edizione a cura di M. Cristiani e M. Pereira), Milano, Mondadori, 2003, pp. 194-197.

[8] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 383.

[9] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 106-107.

[10] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 106-107.

[11] Cfr. per una descrizione accurata H. Spaziante, Hildegard von Bingen e le miniature dello Scivias. Un dono di Dio da riscoprire, Fano, Edizioni Segno, 2018, pp. 138-141.

[12] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 392.

[13] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 373.

[14] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 373.

[15] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 374.

[16] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 374.

[17] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 374.

[18] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 374.

[19] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 393.

[20] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 394.

[21] Ildegarda di Bingen, Libro delle Opere Divine, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 395.

[22] Cfr. Tale perfetta corrispondenza è rappresentata iconograficamente nella cripta del Duomo di Anagni, descritta in D. Angelucci – C. Coladarci, Il Museo della Cattedrale di Anagni. La guida storico artistica, Roma, Efesto, 2021, pp. 110-115, su cui si veda più oltre.

[23] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 92.

[24] Cfr. per una descrizione accurata H. Spaziante, Hildegard von Bingen e le miniature dello Scivias. Un dono di Dio da riscoprire, Fano, Edizioni Segno, 2018, pp. 117-122.

[25] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 93.

[26] Cfr. per una descrizione accurata H. Spaziante, Hildegard von Bingen e le miniature dello Scivias. Un dono di Dio da riscoprire, Fano, Edizioni Segno, 2018, pp. 149-152.

[27] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 116.

[28] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 123.

[29] Cfr. per una descrizione accurata H. Spaziante, Hildegard von Bingen e le miniature dello Scivias. Un dono di Dio da riscoprire, Fano, Edizioni Segno, 2018, pp. 158-163.

[30] Ildegarda di Bingen, Scivias, in Ildegarda di Bingen, Visioni (edizione a cura di A.M. Sciacca), Roma, Castelvecchi, 2019, p. 125.

[31] Sui “misteri” di Cristo, cfr. A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I "misteri" della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2019 (insieme a L. Mugavero).

[32] La datazione è discussa e l’intera affrescatura della cripta viene attribuita a tre diverse scuole che, comunque, terminarono il lavoro entro il 1231, secondo Romano. Per un’analisi dettagliata della seconda volta e dell’intero ciclo, cfr. D. Angelucci – C. Coladarci, Il Museo della Cattedrale di Anagni. La guida storico-artistica, Roma, Edizioni Efesto, 2021, pp. 109-163; in particolare sulla seconda volta, pp. 111-112.

[33] Appare ridicola qualsiasi interpretazione del disegno leonardiano come esoterico, mentre esso, all’opposto, intende essere chiaro e chiarificante. Tale interpretazione del disegno, quasi fosse un’opera per iniziati dai reconditi significati, è diffusa dalla stupidità di autori vari e appare nel romanzetto di Dan Brown Il codice da Vinci, operetta talmente sconclusionato nella trama che, mentre suggerisce che un’orrenda trama di “malvagi” intendano nascondere qualcosa al mondo intero, mette invece in scena un ricercatore francese di nome Jacques Saunière che è un esoterico che non intende divulgare a nessuno il “segreto” che egli solo conosce sulla vera vita di Gesù, iniziatore della dinastia merovingia e del suo sangue regale. Egli, infatti, pur essendo un ricercatore del Louvre, non ha mai voluto scrivere alcuna pubblicazione sul “segreto” di cui è a conoscenza e, anche in punto di morte, preferisce mantenere segreto il segreto, mettendosi nella posizione dell’uomo “vitruviano” per essere “compreso” dall’unico “iniziato” che può capirlo, per continuare a trasmettere il segreto ad altri iniziati per mantenerlo segreto e nasconderlo ai più. Peccato che lo studio delle proporzioni umane di Leonardo sia una critica a Vitruvio e che parli, invece, il linguaggio della chiarezza.

[34] Cfr. su questo L’uomo e il suo trionfo: Petrarca, Ariosto, Machiavelli. Secondo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini che affronta il tema di uno sguardo che situi l’antropologia medioevale rispetto a quella rinascimentale e a quella moderna e post-moderna, nelle sue diversità storiche.

[35] Cfr. in maniera esemplificativa le parole con le quale il giovane F. Nietzsche inizia Su verità e menzogna in senso extra-morale: «In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della “storia universale”: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo. Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pathos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pathos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. Non c’è niente in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell’universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare» (F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extra-morale, in F. Nietzsche, Verità e menzogne e altri scritti giovanili, Newton Compton, 1981).

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:05 pm | | Default

Al tempo di Leonardo da Vinci non era vietata in Italia e in Roma la dissezione di cadaveri a scopo scientifico. Gli studi di Laurenza sulla questione e l’ipotesi che Giovanni degli specchi abbia cercato di utilizzare alcune posizioni filosofiche di Leonardo sull’anima per screditarlo senza successo presso la chiesa, mentre era stato proprio il papa, unitamente a Giuliano de Medici, a volerlo a Roma, perché collaborasse con lo Stato pontificio, invito che Leonardo era stato ben contento di accettare, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Filosofia umanistica e rinascimentale, Roma e le sue basiliche e Fede e scienza. Cfr. in particolare

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

Laurenza ha dimostrato come non ci fosse divieto di dissezioni anatomiche al tempo di Leonardo da Vinci, come invece affermato dalla vulgata:

«Leonardo allude a difficoltà incontrate a Roma a causa dei suoi studi anatomici. Che cosa potevano riguardare le accuse formulate da Giovanni degli Specchi? Non la pratica di aprire cadaveri in sé stessa. I recenti studi di K. Park e anche la storiografia migliore già dalla fine dell'800 hanno chiarito come non esisteva da parte delle autorità laiche o religiose alcuna preclusione particolare, di carattere etico o religioso, nei confronti delle dissezioni anatomiche[1]. Questo specialmente in Italia[2]. Esistono rari casi di editti o processi contro anatomisti, ma questi hanno avuto motivazioni molto circostanziate: furto di cadaveri in cimiteri o involontaria dissezione di corpi ancora vivi, come capita a Vesalio in Spagna[3]»[4].

È stato il curatore dei Musei Vaticani Guido Cornini, esperto leonardiano, recentemente scomparso, a farmi conoscere gli studi del Laurenza, di cui egli accoglieva le conclusioni, come mi rivelò in un incontro che dedicammo insieme proprio a Leonardo da Vinci a Roma.

Laurenza mostra come erano vietate dissezioni se esse implicavano il furto di cadaveri, ma come invece esse erano permesse se compiute all’interno delle disposizioni legislative e a scopo scientifico: conseguentemente, Leonardo non poté incorrere in alcun rifiuto di esse.

È ideologica la presentazione di Leonardo come di una personalità di cui si ostacolasse la ricerca scientifica o come di un mago esoterico che venisse avversato, anzi proprio la sua presenza a Roma, come ospite del papa nella Palazzina del Belvedere, mostra come fosse stato esplicitamente invitato dalla chiesa di allora a collaborare con lo Stato Pontificio e come egli avesse benevolmente accolto tale invito, penultima tappa della sua vita prima di quella francese.

Laurenza introduce così il suo studio:

«Tra il 1513-14 e il 1516 Leonardo soggiorna in Vaticano. Sono gli anni nei quali sotto il pontificato di un papa Medici, Leone X, il Rinascimento raggiunge l’apice. A Roma confluisce il meglio della cultura dell’epoca e già da tempo operano artisti come Raffaello, Bramante, Michelangelo. Paradossalmente è questo il periodo meno studiato della vita di Leonardo. Questa lettura vinciana intende avviare la riconsiderazione di questa fase dell’opera di Leonardo, fornendo nuove evidenze relative a tre argomenti: gli studi anatomici, il suo legame con la famiglia dei Medici e con altri personaggi e luoghi frequentati mentre è a Roma, i rapporti con Raffaello»[5].

Così Laurenza descrive lo stato delle dissezioni anatomiche all’epoca di Leonardo:

«Esistevano vari tipi o occasioni di dissezione[6]. Uno era dato dalla pubblica dissezione, praticata da professori dell'università su cadaveri di giustiziati concessi dalle autorità. A Roma la più antica notizia in questo senso cade poco prima dell'arrivo di Leonardo, nel 1512: "Addì 22 di marzo fu giustiziato Giovanni da Montelauro per le mani della giustizia di Campidoglio, fune fato notomia e di poi fu seppellito", recita il registro della Confraternita di San Giovanni Decollato (Archivio di Stato di Roma, San Giovanni Decollato, b. I. l. 2, fol. 31 v)[7]. Accanto a queste pubbliche dissezioni (che ovviamente avevano un carattere rituale e non erano occasioni di nuova ricerca) troviamo la pratica, peraltro non ben documentata, delle dissezioni private, condotte da un anatomista con pochi allievi, tollerate dalle autorità e solo condannate quando i cadaveri erano stati procacciati profanando un cimitero.

Infine abbiamo quella che a mio avviso è la più importante occasione di conoscenze anatomiche umane sia in generale che nel caso di Leonardo: le autopsie post mortem. Spesso in questi casi si tratta di autopsie effettuate sul corpo della donna e sui suoi genitali, chieste dai parenti che vogliono accertare una eventuale natura genetica del male che, secondo alcune teorie, poteva essere trasmesso ai figli solo dalla madre nel corso della gravidanza; questo per prendere eventuali provvedimenti precauzionali nei confronti dei figli della morta[8]. Una autopsia praticata era anche quella della donna morta in gravidanza, un cesareo post mortem, praticato con la speranza di impartire il battesimo alla nuova creatura che si riteneva potesse rimanere in vita per qualche tempo dopo la morte della madre. Queste autopsie venivano condotte presso la casa del defunto[9].

Esisteva poi il vasto campo delle autopsie praticate negli ospedali. All'epoca gli ospedali accoglievano poveri e diseredati e quindi in questo caso le autopsie avvenivano non su richiesta dei parenti, ma per iniziativa dei medici e quindi potevano avere anche una più spiccata finalità scientifica. Ora se consideriamo che i corpi su cui si praticavano autopsie erano anche quelli delle donne, a volte gravide[10], e che, nel passo in questione, Leonardo cita espressamente un "ospedale", ne consegue che nel soggiorno romano, occupandosi, come si è visto, di embriologia, se sezionò cadaveri umani, oltre che animali, questo avvenne nel corso di autopsie ospedaliere, una pratica che difficilmente poteva comportare problemi, come il furto di cadaveri da cimiteri connesso con le dissezioni private.

Quindi allo stato delle nostre conoscenze la spiegazione delle difficoltà incontrate da Leonardo a Roma va trovata altrove, non nella pratica dissettiva in sé stessa. E io credo che la soluzione risieda nel risvolto filosofico della sua ricerca anatomica, un risvolto che la storiografia ha spesso trascurato come uno spiacevole e pesante ripiegamento speculativo[11]»[12].

Laurenza ipotizza che Giovanni degli specchi – che cercò di ostacolare Leonardo presso il pontefice - abbia utilizzato alcune affermazioni filosofiche di Leonardo per cercare di creargli intorno, senza successo, un atteggiamento avverso.

Leonardo riteneva, infatti, che il bambino nell’utero non avesse un'“anima” propria, ma avesse l’“anima” della madre come principio agente, secondo principi filosofici che oggi non comprendiamo più perché non utilizziamo il concetto di “anima” che invece era abituale per Leonardo e per il suo tempo, concetto assolutamente differente da considerazioni scientifiche moderne – anzi Laurenza mostra come fossero molto più avanti su questo punto autori contemporanei di Leonardo e come egli utilizzasse categorie filosofiche superate, mentre la vulgata, proprio perché a priori deve difendere la modernità di Leonardo, non si avvede di questo:

«Questi temi filosofici sono sviluppati in un altro gruppo di note contenute in un foglio […]: la lunga nota nell'angolo in basso a sinistra in W. 19102 r (K/P 198 r) e la nota in alto a destra sul verso dello stesso (W. 19102 V, K/P 198 v).

In esse Leonardo riprende i temi fisiologici e vitalistici relativi al feto e aggiunge la considerazione più filosofica che una stessa anima, quella materna, presiede alle attività sia della madre che del feto, la cui anima resta come addormentata e come tutelata da quella materna:

A questo putto non batte il cuore e non alita [...] e una medesima anima governa questi due corpi e i desideri, le paure e i dolori son comuni così a essa creatura come a tutti li altri membri animati [della madre] […] (W. 19102 r)»[13].

Questa ipotesi permetterebbe di ricomprendere le argomentazioni di Giovanni degli specchi contro Leonardo:

«“Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale” (CA, f. 500 r). Questa frase compare in un abbozzo di lettera che Leonardo prepara mentre si trova a Roma. Siamo nel 1515 è da due anni è diventato Papa, con il nome di Leone X, Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Leonardo indirizza la missiva a Giuliano de’ Medici, fratello del Papa.

È proprio per porsi al servizio di Giuliano che Leonardo si è trasferito a Roma, dove si trova sicuramente dal 1514. Quando Leonardo scrive la lettera, Giuliano è assente da Roma e Leonardo si lamenta con il suo mecenate delle difficoltà che incontra con due tecnici di origine tedesca.

Non si tratta di due assistenti di Leonardo, come a volte viene inteso. Solo uno, “Giorgio tedesco”, è un aiutante di Leonardo. L’altro “Giovanni degli specchi”, l’autore dell’accusa relativa agli studi anatomici, è un maestro indipendente che, come Leonardo, ha il suo laboratorio in Belvedere, una parte dei palazzi vaticani destinata anche ad alloggio di artisti e tecnici. Dalla lettera emerge questo quadro: non solo maestro Giorgio, l’aiutante di Leonardo, è assolutamente negligente nel suo lavoro, ma rivela all’altro tecnico, Giovanni degli specchi, molti segreti della bottega di Leonardo.

Giovanni degli specchi ha visto male l’arrivo di Leonardo a Roma, come cosa, scrive Leonardo, che ha sminuito il suo lavoro agli occhi di Giuliano de’ Medici. E quindi cerca di osteggiarlo in vari modi: sobillando l’aiutante di Leonardo e anche diffondendo pesanti accuse contro di lui. A queste accuse allude per l’appunto il passo famoso: “quest’altro m’ ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale”, cioè: Giovanni degli specchi ha diffuso in Vaticano e in un ospedale, dove Leonardo praticava dissezioni anatomiche, accuse relative a queste ultime[14].

Questo passo è stato genericamente interpretato nel senso che il carattere sacrilego e cinico insito nella dissezione dei cadaveri, la fama quasi di mago di Leonardo rappresentarono appigli sui quali Giovanni degli specchi poté imbastire le sue calunnie[15].

La mia ipotesi è invece che le calunnie abbiano riguardato il livello più filosofico della ricerca anatomica di Leonardo, quello in cui dallo studio del corpo egli passa a quello dell’anima. Questi temi sono al centro di una vicenda che, a seguito di una bolla emanata da Leone X nel 1513, vede contrapposti teologi e filosofi naturali. Una vicenda che ha come epicentro Roma proprio negli anni in cui Leonardo soggiorna in Vaticano».[16]

Insomma l’argomento utilizzato da Giovanni degli specchi nel tentativo di screditare Leonardo è probabilmente più filosofico che scientifico e niente ha a che vedere con la pratica della dissezione ad uso scientifico.

Note al testo

[1] K. Park, The Criminal and the Saintly Body: Autopsy and Dissection in Renaissance Italy, in «Renaissance Quarterly», 1994, pp. 1-33; Eadem, The Life of the Corpse: Division and Dissection in Late Medieval Europe, in «Journal of the History of Medicine and Allied Sciences», 1995, n. 1, pp. 111-132; cfr. poi la seguente letteratura, ancora utilissima sebbene datata: A. Corradi, Dello studio e dell'insegnamento dell'anatomia in Italia nel Medioevo ed in parte del Cinquecento, in «Rendiconti del R. Istituto Lombardo», serie II, vol. IV, fasc. XV, 1873; M. Del Gaizo, Della pratica della anatomia in Italia sino al 1600, estr. da «Atti della R. Accademia Medico-Chirurgica di Napoli», anno XLVI, 1892, pp. 1-42; Idem, Dell'azione dei papi sul progresso dell'anatomia e della chirurgia sino al 1600, estr. da La scuola cattolica e la scienza italiana, Milano, 1893, pp. 1-20; E. Solmi, Per gli studi anatomici di Leonardo da Vinci, cit.; M. Niven Alston, The attitude of the Church towards dissection before 1500, in «Bulletin of the History of medicine», 1944, pp. 221-238; F. Garofalo, Contributo storico allo studio dell'insegnamento dell'Anatomia nella Sapienza (documenti d'archivio), in «Humana studia», 1950, pp. 11-35.

[2] Le difficoltà incontrate, a differenza del loro collega italiano Mondino, da Guido da Vigevano e Henri de Mondeville, due anatomici attivi in Francia nel XIV secolo, possono essere spiegate in base alla differente sensibilità in Italia e nel resto d'Europa, cui alludono molti degli autori citati nella nota precedente.

[3] Del Gaizo, Dell'azione dei papi, cit.

[4] D. Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X [c. 1513-1516]. Gli studi anatomici, la vita, l’arte. “Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale” [Codice Atlantico, f. 500 r], XLIII Lettura Vinciana, 12 aprile 2003, Firenze-Milano, Giunti, 2004, p. 14; cfr. nello studio l’intero capitolo Le accuse ricevute da Leonardo a Roma: l'atteggiamento dell'epoca nei confronti delle dissezioni.

[5] D. Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X [c. 1513-1516]. Gli studi anatomici, la vita, l’arte. “Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale” [Codice Atlantico, f. 500 r], XLIII Lettura Vinciana, 12 aprile 2003, Firenze-Milano, Giunti, 2004, p. 7.

[6] Cfr. gli autori cit. in nota 3; inoltre: A. Pazzini, Leonardo da Vinci e l'esercizio dell'anatomia in Roma, in «Pagine di storia della scienza e della tecnica», 1952, VII, pp. 5-14; P. Pericoli, L'Ospedale di Santa Maria della Consolazione in Roma, Imola, 1879.

[7] Per la storia dell'anatomia a Roma nel XVI secolo cfr. anzitutto A. Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, Torino, 1994 (in part. p. 90 sul documento citato). Il documento continua: "[...] e di poi fu seppellito nella compagnia della Misericordia di Roma, addì 28 di marzo fuli fatto l'esequie con nove messe e otto torce". Clemente VII (l'altro papa Medici che succede, dopo il breve pontificato di Adriano VI, a Leone X) regolamenta lo svolgimento della pubblica dissezione attraverso la Bulla de Protomedici et Collegi Medicorum Urbis iurisdictione et facultatibus (cfr. Garofalo, Contributo storico, cit.; Carlino, La fabbrica del corpo, cit., p. 70).

[8] Park, The Criminal and the Saintly Body, cit.

[9] La pratica era diffusa e Antonio Benivieni, medico e anatomista fiorentino del Quattrocento, ricorda con meraviglia il caso di una autopsia che gli fu negata dai parenti della morta "per non so - scrive - quale superstizione" ("nescio qua superstitione"). Cfr. Park, The Criminal and the Saintly Body, cit.

[10] Corradi, Dello studio e dell'insegnamento dell'anatomia, cit.; Del Gaizo, Della pratica della anatomia, cit. Park, The Criminal and the Saintly Body, cit.; e Eadem, The Life of the Corpse, cit. Leonardo, quando disseziona il cadavere di un vecchio centenario nell'ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova (c. 1507), afferma di avere, contestualmente, sezionato anche il corpo di un bambino di due anni (W. 19027 v, K/P 69 v).

[11] Questo vale anche per la storiografia più recente che, da questo punto di vista, non si distingue molto da quella di un secolo addietro. Solmi, Leonardo da Vinci come precursore dell'embriologia, cit., imposta il suo studio nei termini di Leonardo geniale precursore delle scoperte anatomiche della moderna embriologia (a p. 38, parla di conquiste dell'“ingegno italiano”). Circa le parti speculative sull'anima o sono presentate con un punto esclamativo di sostanziale disprezzo (come, p. 40, a proposito di Egidio da Viterbo o, p. 43, a proposito della nota in cui Leonardo, citando Avicenna, afferma che l'anima partorisce il corpo), o sono completamente ignorate, come nel caso dei riferimenti all'anima nei tardi passi embriologici, non commentati (pp. 64-66). A proposito dei filosofi che si occuparono di embriologia all'epoca di Leonardo, Solmi scrive (p. 70, nota): “A bella posta mi sono astenuto dal confrontare le teorie del Vinci con quelle del Cardano e di Telesio intorno alla generazione. [...] perché queste ultime paragonate con quelle dell'artista-filosofo sembrano il balbettio di fanciulli incoscienti”. Per Solmi la filosofia naturale è scienza in senso moderno. È tuttavia rilevante che le parti che, da quest'ultimo punto di vista, Solmi (pp. 57-56) più esalta come innovative scoperte embriologiche di Leonardo sono quelle relative alla distinzione tra parte fetale e materna della placenta […].

[12] D. Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X [c. 1513-1516]. Gli studi anatomici, la vita, l’arte. “Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale” [Codice Atlantico, f. 500 r], XLIII Lettura Vinciana, 12 aprile 2003, Firenze-Milano, Giunti, 2004, p. 15.

[13] D. Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X [c. 1513-1516]. Gli studi anatomici, la vita, l’arte. “Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale” [Codice Atlantico, f. 500 r], XLIII Lettura Vinciana, 12 aprile 2003, Firenze-Milano, Giunti, 2004, p. 13; cfr. tutto il capitolo Un gruppo di note di epoca romana: il versante filosofico degli studi embriologici.

[14] Per quanto riguarda il presunto brano in cui Leonardo avrebbe scritto “Il Papa saputo che io ho scorticato tre cadaveri”, si tratta di un abbaglio storiografico. Nessun foglio di Leonardo, attualmente noto, contiene questo passo. M. Baratta, Curiosità Vinciane, Torino, 1905, pp. 3-4, cita come fonte una conferenza di G. Piumati riguardante la pubblicazione dei manoscritti di Leonardo.
Baratta cita ricordando male, oppure l’errore è di Piumati (occorrerebbe controllare la sua edizione dei fogli anatomici e magari le sue trascrizioni manoscritte che si trovano attualmente nell’Archivio della Commissione Vinciana presso la Biblioteca Nazionale di Roma). Un suggerimento per chiarire l’equivoco è già in G. Favaro, Gli studi anatomici di Leonardo nei Regesti Vinciani, in «Atti e memorie della Reale Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Venezia», Serie V, vol. III, 1938, pp. 101-106, in part. p. 105, nota 1, che però, nel testo, lascia ancora in sospeso il problema. Il brano viene accolto come buono da Solmi, 1907 (cfr. nota successiva) e questo contribuisce alla sua fortuna. Il brano viene citato come buono da A. Canezza, Gli arcispedali di Roma nella vita cittadina, nella storia e nell’arte, 1933 e A. Pazzini, Leonardo da Vinci l’esercizio dell’anatomia, 1952, cit. infra, p. 14. Ringrazio Carlo Pedretti e la Biblioteca Leonardiana di Vinci (in particolare Romano Nanni e Monica Taddei) per l’aiuto che mi hanno fornito nel dipanare la bibliografia relativa al problema, non tutta di agevole consultazione.

[15] Quasi ogni studio su Leonardo (antico o recente, biografia o analisi degli studi anatomici o altro) ha più o meno accolto questa interpretazione. Mi limito a citare alcuni studi che permettono anche di cominciare ad inquadrare la bibliografia specifica relativa al soggiorno di Leonardo a Roma (cfr. poi le note successive): E. Solmi, Per gli studi anatomici di Leonardo da Vinci, in Miscellanea di studi critici pubblicati in onore di Guido Mazzoni, Firenze, 1907, pp. 343-360; V. Rocchi, Leonardo da Vinci e i suoi studi nell’Ospedale di Santo Spirito, in «Giornale di Medicina e Chirurgia», Roma, 1912, pp. 802-806; E. Lavagnino, Leonardo a Roma, in AA. VV., Leonardo, 1962 (I ed. 1939), pp. 127-128; C.D. O’ Malley e J.B. de C.M. Saunders, Leonardo On the Human Body, New York, 1983 (1952), p. 26.

[16] D. Laurenza, Leonardo nella Roma di Leone X [c. 1513-1516]. Gli studi anatomici, la vita, l’arte. “Quest’altro m’ha impedito l’anatomia col Papa biasimandola e così allo spedale” [Codice Atlantico, f. 500 r], XLIII Lettura Vinciana, 12 aprile 2003, Firenze-Milano, Giunti, 2004, pp. 7-8.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:04 pm | | Default

La maternità e la paternità come orgoglio della vita di un altro, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educare.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

Divenire genitori è un rinunziare al proprio orgoglio: anche per questo generare è un atteggiamento pienamente conforme al Vangelo.

Si smette di essere orgogliosi di sé per divenire orgogliosi della vita di un altro. Quel bambino, quella bambina divengono la luce dei tuoi occhi, quel bambino, quella bambina vuoi che siano guardati dal mondo intero e che siano trovati belli, amabili.

 La maternità e la paternità sono un decentramento, sono uno spostamento del centro di attenzione, sono un cambiamento di prospettiva, nel senso più “ottico” del termine: invitano a guardare altrove rispetto a dove si fissava l’attenzione fino a quel momento.

È questa la conversione che chiede lo sposarsi per diventare genitori, ma è questo anche ciò che dona la generazione: essere liberi da sé stessi per iniziare ad amare.

È per questo che chi è troppo pieno di sé incontrerà un ostacolo dinanzi alla generazione: un figlio è una pietra di inciampo.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:03 pm | | Default

In morte di Gian Luigi Prato, maestro e caro, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

Prato è stato un gigante. Certo nell’ambito specifico della sua metodologia che era quella scientifica - quella “storico-critica” come si usa dire con fare ridondante negli ambienti biblici.

Le sue lezioni sono state illuminanti per la loro scientificità. Ogni parola era pesata, confrontata con ogni possibile posizione, con un aggiornamento impossibile alla maggior parte degli studiosi.

Ricordo con nostalgia la passione che mi ispirarono le ore in cui presentava luogo per luogo le fortificazioni delle antiche città dell’età del ferro in Israele, per affermare che non vi era traccia di eventi bellici che sostenessero l’idea di una conquista. Con lo stesso spirito critico indagava sui re dell’Israele ancora unitario, ponendo seriamente in dubbio i racconti davidici.

Solo anni dopo, proseguendo la ricerca se gli eventi veterotestamentari fossero solo narrazioni o anche attestazione di eventi, mi resi conto che i profeti più antichi già parlavano di Mosè e di Davide, anche se non è dato sapere cosa conoscessero dei racconti che ora sono nel Pentateuco.

Da lui ho imparato che i cananei sono i fenici dell’interno e che la loro lingua è quella che si ritrova in tutti i siti fenici antichi – notazione di un interesse mostruoso che mai ho sentito ripetere da altri.

Ricordo le sue lezioni su Caino e Abele dove egli – sempre a partire dall’esegesi storico-critica – sosteneva a ragione una lettura che mi apparve indubitabile nella sua analisi.

Caino aveva fatto sacrifici, ma la sua vita non aveva avuto fortuna, mentre Abele aveva offerto sacrifici analoghi e tutto gli era andato per il verso giusto. Insomma il gradimento divino del sacrifico, compreso nel contesto dell’epoca, significava il successo di vita, il successo familiare, il successo nel lavoro.

Il mancato gradimento, invece, l’insuccesso. Perché per questo si offriva un sacrificio: perché Dio desse “successo” alle opere che si intendevano compiere.

Ecco allora la questione di Caino e Abele: quando tuo fratello ha successo e tu invece fallisci, il peccato si affaccia al tuo cuore e tu desideri non vederlo, non incontrarlo, perché ti ricorda la disparità delle sorti, perché il suo successo ti fa male. “Il peccato è accovacciata alla porta del tuo cuore”, è accovacciato quando la sorte di tuo fratello è migliore della tua. Una lettura incredibilmente vera, sia dal punto di vista esegetico, che dal punto di vista esistenziale.

Una persona è un maestro quando le sue parole ti restano impresse, ti hanno fatto cogliere cose nuove e indimenticabili.

Ma tale profondità culturale del prof. Prato riguardava ogni ambito del sapere. Ricordo una sua visita guidata ad una mostra sulle Crociate, in cui iniziò dicendo che esse erano rivolte non contro gli arabi, ma contro l’incipiente pericolo turco – nel 1071 le popolazioni che poi saranno definite turche si presentarono per la pima volta in Anatolia e sconfissero i bizantini a Manzikert. Subito l’impero di Costantinopoli comprese che quel pericolo era gravissimo, più grave del pericolo arabo che fin lì era stato in grado di fronteggiare. E chiesero aiuto ai latini che decisero la prima crociata.

Di fatti i turchi distrussero non solo i bizantini, ma anche gli arabi e per ben otto secoli gli arabi furono soggiogati da una diversa popolazione musulmana, quella turca che li impoverì.

Mai qualcuno mi aveva spiegato che le Crociate affrontavano i turchi e non gli arabi.

Per tornare agli studi biblici, memorabili furono le sue lezioni di critica testuale, quando spiegò dell’importanza della LXX greca tradotta da maestri ebrei che dal punto di vista testuale poteva attestare un testo ebraico più antico del Testo Masoretico come nel caso di Dt 32,8 (noi traduciamo “divideva i popoli secondo il numero degli Israeliti” – incomprensibile -, la LXX “secondo il numero degli angeli”, cioè “dei figli delle divinità”).

Memorabili le sue lezioni sul testo consonantico di Qumran che, in alcuni passaggi non decisivi, ma comunque importanti, è diverso dal Testo Masoretico, segno di un progredire del testo che non può essere nascosto, quasi non ce ne fossero attestazioni – il mio libro La Parola si è fatta carne e non libro deve a lui i capitoli in cui si spiega che la fede ebraico-cristiana non possiede un testo delle Scritture stabilito in maniera assoluta, per cui non esiste una Sola scriptura anche solo perché esistono versioni che attestano lezioni originarie diverse di passi biblici diverse, sulle quali non è possibile giungere ad una definizione indubitabile.

Il suo rapporto con gli studiosi delle università non pontificie lo rendeva incredibilmente aperto. Ricordo i suoi riferimenti agli studi di Mario Liverani, invitato proprio da lui all’Associazione Biblica Italiana, che difendeva a ragione la costruzione ideale dei figli di Giacobbe, quasi che ognuno portasse il nome di una tribù poi nota storicamente (come se Italo avesse come figli Ligure, Lombardo e Laziale).

Ma Prato non era solo il docente più competente che abbia mai conosciuto – scriveva alla lavagna in ugaritico, in accadico, in geroglifico egiziano.

Era anche umile, cosa rarissima in studiosi del suo calibro: era buono, era disponibile a qualsiasi domanda e colloquio.

Ho scoperto poi che era giusto: alla notizia del concepimento della sua bambina non ebbe dubbi, la sua nascita meritava l’abbandono di tutto, tutto doveva essere lasciato per lei.

La notizia generò sconcerto, ma manifestò la sua serietà, il suo senso di responsabilità, la sua giustizia.

Bellissimo è, peraltro, che i suoi figli portino nomi biblici, come Noemi e Davide, segno che le storie veterotestamentarie sono bellissime e “vere”.

Il limite dell’esegesi di Prato era che non leggeva le Scritture secondo lo spirito dell’unità delle Scritture e in chiave tipologica, “nello stesso Spirito con cui sono state scritte”, come afferma Dei Verbum.

Questo gli impediva di cogliere tutta la ricchezza del testo biblico, eppure Noemi e Davide sono i nomi che ha scelto per i suoi figli amati, insieme a Pinuccia.

Il suo carattere garbato, delicato e timido lo rendeva un solitario, anche se, paradossalmente, sapeva essere veramente amico. La leggenda voleva che egli vivesse nella biblioteca del Seminario Lombardo, mentre non fosse abituale vederlo concelebrare con gli altri.

Eppure era attentissimo alla vita della chiesa e amava sostenerla. Lo invitai a parlare di Qumran e della civiltà egizia a Santa Melania – quelle memorabili lezioni sono on-line a questi link:

Quando ero direttore dell’Ufficio catechistico nacque l’idea di sostenere i catechisti di ogni prefettura con tre incontri l’anno su questioni decisive ed un anno si scelse il tema della Genesi, dei racconti di creazione per restituire ai catechisti la capacità di commentare in maniera entusiasmante Genesi 1-11 nell’Iniziazione cristiana.

Ebbene, una sera mi preparavo a parlare della creazione ad un incontro dove c’erano centinata di catechisti e lo vidi arrivare a salutarmi, dicendomi che era venuto per ascoltare la mia relazione. Io, imbarazzatissimo, gli dissi: “Professore, ma la prospettiva con la quale affronterò il tema utilizzerà i suoi studi, ma anche metodologie diverse da quelle che ho appreso da lei!”.

Mi rispose che era contento di essere lì, di ascoltarmi, che era importante che i catechisti mi ascoltassero. Restò fino alla fine dell’incontro, ascoltò le domande dei catechisti e le risposte e mi fece i complimenti. Io mi vergognai ancora di più. Anche quella volta dimostrò di essere non solo un uomo raffinato, capace di amicizia, al punto di venire umilmente ad ascoltare la relazione di un suo alunno ai catechisti! Dimostrò di essere un uomo ecclesiale.

Il suo parroco, nell’omelia per il suo funerale, ha ricordato come ogni domenica – o spesso al sabato sera – venisse in parrocchia per la messa e come, alla richiesta se avesse voluto l’Unzione degli Infermi e il Viatico, sentendo avvicinarsi la fine, avesse risposto, vigile, di sì.

È stato per me un maestro, l’ho seguito in corsi e conferenze ogni volta che potevo – una volta stetti una settimana con lui a Pragelato, dove teneva ancora una volta un corso su Genesi 1-11.

Ci siamo incontrati – e cercati – raramente, ma in momenti forti della vita. Con queste parole voglio rinnovare la mia gratitudine e la mia ammirazione.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:02 pm | | Default

La messa del vice-parroco cui si chiede di occuparsi dei giovani e il parroco saggio, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Teologia pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

Se si chiede ad un vice-parroco di occuparsi dei giovani, bisogna che il parroco consenta a lui di celebrare la messa nell’ora in cui i giovani vengono a messa o nell’ora in cui vi potrebbero partecipare più facilmente più avanti (di solito alla domenica sera).

Perché la messa è il luogo più grande di annuncio. Perché la messa è ciò che rende le persone fratelli e genera la comunità.

Assegnare ad un viceparroco la cura dei giovani e poi stabilire che sia un altro prete a celebrare la messa più adatta come orario alle abitudini dei giovani è un suicidio pastorale: è come affidare ad un prete di fare una “battaglia”, togliendogli le armi per combatterla!

La decisione su come suddividere le messe domenicali in una parrocchia è la più importante che un parroco debba compiere insieme all’intera comunità - e questo ancor più in una grande città dove le messe della domenica sono molte.

Poiché il centro della vita cristiana non è il gruppo o il gruppetto, ma la messa domenicale, chiedere ad un prete diverso da quello cui si affida la responsabilità dei giovani di celebrare la messa cui i giovani di fatto parteciperanno è un errore pastorale ed ecclesiologico!

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:01 pm | | Default

Del riconoscimento di chi è più in gamba di noi, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educare.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2022)

Giobbe, che pure è intelligente, si sente dire da Dio: “Giobbe, ma sei tu che hai creato le Pleiadi e Orione? Sei tu che conduci all’acqua le gazzelle del deserto? Sei tu che fai scendere la neve? Sai come sono fatti gli abissi? Sei tu che ha creato il Behemoth? Sai tu della morte e della vita?”

Questo modo di rispondere interrogando non significa solo che all’uomo non è dato di comprendere appieno il “mistero” del dolore, ma anche che l’uomo deve avere coscienza della propria piccolezza. Anzi, che l’uomo diviene sé stesso solo quando riconosce l’infinità dell’Onnipotente.

Un uomo che non “possedesse” le giuste dimensioni, di sé, del creato, del Creatore, non potrebbe “stare” nella vita da sapiente. Nella vita ci sono ordini di grandezza diversi e sapienza è riconoscerli.

Questo vale, mutatis mutandis, anche nelle relazioni fra gli uomini. Tutti gli uomini desiderano essere riconosciuti nelle loro capacità, nelle loro doti, nei loro carismi, tutti desiderano che ci si fidi di loro. E questo è non solo giusto, ma anzi giustissimo.

Tutti desiderano ancor più che gli si dia ascolto, anche se sono peccatori, anche se sono incapaci, anche se sono piccoli da un qualche punto di vita. E questo è non solo giusto, ma anzi giustissimo.

Ma questa esigenza evangelica ha un suo corrispettivo.

Tutti siamo chiamati anche a riconoscere doti, carissimi qualità gli uni degli altri e anche di chi è più in gamba di noi. Non solo essere riconosciuti, ma anche riconoscere.

Una persona che non si fidasse a sua volta di altri e anche che non desse fiducia a chi sia evidentemente più in gamba, scaverebbe una divisione che si allargherà sempre di più, se tale atteggiamento persiste nel tempo.

Essere in gamba implica il riconoscere chi è più in gamba di noi.

Ovviamente il raffronto con Giobbe e il suo Dio è assolutamemte improprio perché qui si tratta di due umani, ma già nel rapporto con l'umano si impara a vivere la differenza e si imparano "misure".

Questo riconoscere l’altro più in gamba si manifesta nella fiducia che si offre a quella determinata persona, così come si manifesta nell’indirizzare ad essa altre persone, nell’essere un richiamo per tutti a rivolgersi a quella persona saggia.

A volte chi si lamenta di non essere apprezzato lo fa giustamente, perché non c’è chi ci si accorga di lui. Altre volte, invece, chi si lamenta lo fa impropriamente, perché è quella stessa persona che si condanna all’isolamento, perché non sa riconoscere le giuste “misure” della vita.

Tale fiducia vale ben al di là dei ruoli ministeriali che questo o quello ricopre. Paradossalmente il ruolo ministeriale è meno importante, perché è legittimo dissentire su questioni anche importanti con chi è ministro. Ciò che rovina il cammino personale è l’incapacità di divenire discepoli di chi è sapiente e buono.

Chi non dà mai fiducia raramente la riceverà, chi non dà fiducia a chi è più in gamba di lui, raramente incontrerà chi gli darà fiducia.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 4:00 pm | | Default

Breve introduzione al vangelo di Luca ed ai suoi temi principali. Meditazione per il ritiro parrocchiale dell'Avvento 2003 (tpfs*), di don Andrea Lonardo

N.B. Il presente testo non ha alcuna pretesa di completezza. Trascrizione di una meditazione, si propone solo di stimolare ad una lettura personale del vangelo di Luca, fornendo alcune prime chiavi per un orientamento.

 

Indice:

  • Luca e Paolo
  • Solo Luca ci racconta che...
  • Gerusalemme e Roma
  • Il Padre in Luca
  • Un annuncio di misericordia
  • Un banchetto di festa
  • Un tempo che arriva a pienezza
  • Oggi: un tempo pregnante di Spirito
  • Lo Spirito Santo
  • La preghiera
  • La Chiesa
  • L'annunzio del vangelo è per tutti
  • Storicità e credibilità a fondamento dell'annunzio
  • I beni da condividere
  • I Appendice Vangelo di Luca, parti proprie
  • II Appendice Riferimenti dei temi principali
    • Le indicazioni di luogo, coordinate geografiche e teologiche
    • I temi
      • Il Padre e la festa
      • La misericordia
      • Il tempo
      • L' “oggi” di Cristo che realizza questo compimento
      • Lo Spirito Santo
      • La preghiera
      • La Chiesa
      • L'annunzio
      • Storicità e credibilità
      • Del condividere i beni

 

Durante tutto questo anno, a partire da oggi e fino all'Avvento dell'anno prossimo, si leggerà sempre il Vangelo di Luca, fatta eccezione per le grandi feste nelle quali si legge il Vangelo di Giovanni.
Per introdurre alla lettura dei testi di Luca, ho preparato una lista dei temi più importanti.
Voglio iniziare leggendo Lc 4, 16:

16Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto
messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19e predicare un anno di grazia del Signore.

20Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». 24Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 25Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27 C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
28All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.

Ho scelto questo brano per iniziare la meditazione perché qui cogliamo tantissimi temi che l'evangelista Luca ha probabilmente appreso da S.Paolo.

Luca e Paolo

Se voi andate nella Basilica di S.Paolo fuori le mura vedete che, nel quadriportico, è posta la statua di S.Paolo al centro. Ma, più avanti a destra, ecco la statua di S.Luca, proprio perché la tradizione dice che Luca ha sempre accompagnato Paolo. Probabilmente Luca è arrivato a Roma, perché negli Atti degli Apostoli, dei quali è autore, ci sono i cosiddetti brani “noi”, in cui non si dice “lui arrivo lì”, ma “noi arrivammo lì”. E' quindi probabile che quando Paolo giunse a Roma, Luca era con lui per accompagnarlo. Molti dei temi che troviamo nel suo Vangelo riprendono riflessioni di Paolo sulla comprensione del mistero di Cristo.

Solo Luca ci racconta che...

Prendiamo per cominciare le parti proprie di Luca cioè quei brani che noi troviamo solo nel suo Vangelo [1] . Il Vangelo di Luca, uno dei tre sinottici, è l'unico a raccontarci molte delle parabole più conosciute ed amate. Pensate alla parabola del padre e dei due figli, il più giovane dei quali va via da casa e poi torna, mentre l'altro che è sempre rimasto, si arrabbia al ritorno del fratello. C'è solamente nel Vangelo di Luca. Oppure a quella della donna che ha perso una delle dieci dramme e quindi la cerca, o a quella del povero Lazzaro e del ricco, o ancora a quella del fariseo e del pubblicano, con il fariseo che dice “Io sono bravo”, si mette al primo banco, e il pubblicano che sta in fondo e dice “Signore io non sono degno”. Tutti questi testi sono brani raccontati solo da Luca. Il Vangelo è uno solo ma ognuno dei quattro evangelisti ricorda e racconta delle cose particolari, degli aspetti di Gesù che noi non conosceremmo altrimenti. Questo vale ancora di più riguardo al Natale. Dei primi momenti di Maria sono solo Matteo e Luca a raccontarci, e ognuno dei due mostra un aspetto diverso. Per esempio l'Annunciazione dell'incarnazione di Gesù nel grembo di Maria, nove mesi prima della nascita, la visita dell'Angelo a Maria, li troviamo solo nel Vangelo di Luca.

Gerusalemme e Roma

Il Vangelo di Luca, a differenza di altri Vangeli, comincia con Gerusalemme. E, al cuore di Gerusalemme, ha sempre di vista il Tempio, il luogo che è stato strumento, nell'Antica Alleanza, della comunione tra Dio ed il popolo.
Dopo i primi quattro versetti, si vede subito Zaccaria che va al Tempio per offrire l'incenso. Gesù viene portato, subito dopo la nascita, a Gerusalemme (questo c'è solo in Luca). Solo in Luca c'è Gesù dodicenne che spiega ai dottori della legge la presenza di Dio nel Tempio. Poi tutto il Vangelo è costruito come un percorso, con Gesù che deve salire a Gerusalemme, verso la Passione. Già Marco aveva compreso il significato della presenza di Gesù al Tempio – Mc 11,11-12,44, unità di cui non ci stancheremo mai di segnalare la centralità [2] . Ma da questo Tempio, che è suo poiché Gesù è il luogo della comunione con il Padre, egli sarà cacciato fuori per essere ucciso altrove. Luca, con Matteo, fa precedere l'annuncio dell'uccisione dall'annuncio della cacciata dal Tempio, nella parabola dei vignaioli omicidi, in Lc 20,15. Il Tempio è stato centrale, nella vita del popolo ed anche nell'annuncio di Gesù, ma ecco che gli eventi decisivi, la croce, la sepoltura, la resurrezione, già lo superano, avvenendo al di fuori di esso. Poi avviene il fatto di Emmaus, i discepoli si stanno allontanando da Gerusalemme, ma vi tornano di nuovo. Quando Gesù ascende al cielo di nuovo tutti tornano a Gerusalemme. Ma, sempre più, due momenti diversi si palesano agli occhi dell'evangelista e del lettore. Da un lato, il primo momento, finché Gesù non dà lo Spirito Santo: tutto il Vangelo ci mostra come Gesù sia il compimento dell'Antica Alleanza. Gerusalemme è il fulcro dell'Antico Testamento ed il Tempio il fulcro di Gerusalemme. Non si può togliere la Città Santa dall'Antico Testamento, né il Tempio dalla Città Santa. Nel Vangelo di Luca Gesù appare sempre legato alla sua città, al suo Tempio, ma, la sua cacciata, la sua passione e resurrezione, la sua ascensione, il dono dello Spirito Santo, aprono ad un secondo momento. Viene detto allora: “Adesso dovete andare fino agli estremi confini della Terra”. Infatti l'evangelista Luca è anche l'autore degli Atti degli Apostoli, è evidente che la mano è la stessa. Quindi partendo da Gerusalemme si dovrà arrivare fino ai confini del mondo. A quei tempi la fine del mondo era Roma. Adesso è diverso. Dopo la scoperta dell'America alla fine del '400, il mondo è molto più ampio. Gli Atti degli Apostoli finiscono con Roma, quindi ciò che è stato vissuto a Gerusalemme deve essere portato nella capitale dell'Impero. In questa indicazione noi troviamo qualcosa di molto grande per noi: noi siamo coloro che devono essere radicati profondamente nella storia della rivelazione dell'Antico Testamento e nella storia di Cristo, ma dobbiamo essere anche coloro che ne sono testimoni per tutto il mondo. Fare una cosa senza l'altra sarebbe come distruggere il Cristianesimo. Se uno dicesse: io vado dappertutto, ma non mi radico nell'evento, nella storia che Dio ha compiuto, sarebbe come un folle che vaga dicendo parole senza senso. Realmente noi dobbiamo essere radicati in quella storia. Sapete che la Chiesa continua a dire che è importante insegnare ai bambini, ai figli, ai nipoti, l'amore per la Scrittura, l'amore per la Chiesa, l'insegnare a comprendere l'Antico Testamento, a comprendere il Nuovo, a comprendere che Gesù è l'origine e il fine di tutto. L'evangelista Luca ha questa enorme coscienza che Gesù è per quel posto, è lì che si vive quella storia, ma quella storia appartiene di diritto al mondo intero. Già in questo ritroviamo questa fierezza di essere cristiani, questa opposizione anche, ma allo stesso tempo questo desiderio di incontrare ogni uomo. Si pensi al Papa, al suo viaggiare. A volte qualcuno dice anche di noi preti. “Ma non c'è, è andato in Vicariato, in centro ecc.”. Questo, non solo non toglie nulla ad una Parrocchia, ma è necessario per educare al fatto che un quartiere non è il cuore del mondo. Ognuno di noi - i vostri figli, i vostri nipoti, voi stessi, i preti, le suore, i laici - ha un dono che non può tenere per sé. Noi apparteniamo ad una Chiesa, la Chiesa di Roma, che in maniera più grande di ogni altra, sente l'urgenza di essere un punto di riferimento per il mondo intero. Ma d'altro canto, guai se questo annunzio non fosse radicato. Nel Vangelo c'è una tensione tra una storia che si compie solo in un luogo, Gesù non è stato in America, non è stato in India ecc., ed il fatto che quel Signore è il Signore risorto nello Spirito Santo, che ogni uomo ha diritto di avere e che la Chiesa deve portare, deve donare. Guai a chi muore senza evangelizzare, a chi non è fecondo, non solo fisicamente, ma soprattutto perché non trasmette ad altri questo dono per cui dice: “Ecco, altri sono diventati cristiani perché c'è stata l'accoglienza, la missione ecc.”.
Lo sviluppo dal primo annunzio al popolo ebraico fino agli estremi confini della terra non è solo lineare. Nasconde anche la profonda tensione di un dono rivolto per primo al popolo eletto, ma in gran parte non accolto, mentre contemporaneamente tale dono si disvela come destinato dallo Spirito a tutte le genti, ai pagani, ad ogni uomo. Paolo sarà figura determinante in questo, ma non possiamo trascurare che negli Atti è proprio Pietro il primo che comprende che Gesù e per tutti e battezza i primi non ebrei. E' al capo degli apostoli che, anche in questo, spetta il primato. E' possibile cogliere analogie e somiglianze con il pensiero paolino che si interroga, in Rom 11, 12: “Se pertanto la loro caduta (degli Ebrei) è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei popoli (dei pagani), che cosa non sarà la loro partecipazione totale!” Negli Atti la missione si apre sempre più al paganesimo perché questa è volontà dello Spirito Santo, ma anche per il rifiuto incontrato in molte sinagoghe, come afferma la finale di At 28, 28: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno”.
Anche il vitello o toro – simbolo che deriva dal profeta Ezechiele e dai quattro esseri viventi dell'Apocalisse - è stato riferito dai Padri della Chiesa, come simbolo, proprio all'evangelista Luca, a motivo della centralità del Tempio, luogo appunto dei sacrifici animali.

Il Padre in Luca

Dentro questa dinamica geografica e di sviluppo ecclesiale ci sono temi grandissimi che Luca conosce e ci presenta in maniera molto forte [3] . Innanzi tutto, come primo tema, non possiamo non soffermarci su questa grandissima verità che Luca ci trasmette, che veramente Dio è il Padre. E' veramente il Padre di Gesù Cristo, ma attraverso il Figlio ci rivela che anche noi siamo figli in Gesù Cristo [4] . Vediamo ad esempio il racconto delle tentazioni nel deserto. Mentre il Vangelo di Marco, che è il più antico, il primo che è stato scritto, ci dice solo che Gesù fu tentato, ma non ci spiega in cosa consistettero le tentazioni del deserto, Luca e Matteo ci ricordano le tre tentazioni specifiche. Ma Luca in particolare insiste sul fatto che la tentazione di mutare le pietre in pane, la tentazione di gettarsi giù dal pinnacolo, la tentazione della gloria, sono precedute da una frase che il Diavolo rivolge a Gesù: “Se tu sei Figlio di Dio” – in Luca è come una inclusione alla prima ed alla terza proposta, mentre in Matteo avviene alle prime due - “allora chiedi questa cosa”.
E' sottintesa una domanda che è il grande dubbio dell'uomo. L'uomo può non sentirsi figlio, può sentirsi orfano, può sentirsi come se nessuno lo avesse mai amato e voluto su questa terra; ed è la grande tentazione che il diavolo per primo pone a Gesù Cristo: “Ma tu, ora che sei divenuto uomo, sei proprio sicuro che Dio ti ami? Sei proprio sicuro di essere Figlio? Guarda come sei ridotto, stai nel deserto”. La grande domanda è: “Ma tu sei voluto, sei amato?” Questa è la vera domanda al Figlio di Dio fatto uomo. Le tre domande sono un modo di ripetere questo tema: “Ma non sarà che tu un Padre non ce l'hai, che a nessuno importa che tu viva, che tu esista? Non sarà che sei nato per caso?” Gesù risponde affermando continuamente la Verità del suo rapporto con Dio, il Padre.
Pensiamo a come questa realtà è presente nella nostra vita. Alcune cose io le scopro parlando con le persone in occasione dei battesimi, grazie a voi, ai vostri figli, ai vostri nipoti: quanto è importante che i genitori siano consapevoli che, nel Battesimo, Dio è veramente Padre del loro bambino, che non è voluto solo da loro. Dio vuole quel bambino! E' anche la grande domanda che i giovani portano con loro: “Ma io sono amato?” Loro cercano la ragazza, il ragazzo - il mondo giovanile gira tutto intorno a questo, come se il vero problema fosse trovare “qualcuno che ti si piglia”. In realtà il vero dubbio è se Dio voglia loro bene, il vero desiderio è che la loro vita non sia uno scherzo del caso. Solo la risposta a questa domanda può dare la pace.
Alcuni autori continuano a citare l'espressione “meteorite giovanneo” per Lc 10, 21-22, “Io ti rendo lode, Padre... Sì, Padre, perché così è piaciuto a te. Ogni cosa mi è affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”, misconoscendo proprio la centralità del rapporto fra il Padre ed il Figlio nel vangelo di Luca. Vorrebbero così insinuare che in maniera casuale, e non dalla sua profonda conoscenza e comprensione di Cristo, sarebbero giunte a Luca queste parole di Gesù. Esse sarebbero in dissonanza rispetto alla presentazione lucana del Cristo. E', invece, un brano cardine per gettare luce sull'identità di Gesù così come Luca l'ha ricevuta e la trasmette. E' la stessa riflessione del “mysterion” in S.Paolo. Nella sua teologia il mistero non è tanto ciò che è incomprensibile ed inconoscibile, ma è ciò a cui l'uomo non può arrivare con le sole sue forze, senza rivelazione da parte di Dio stesso. E' il mistero del rapporto fra il Padre ed il Figlio, inaccessibile, finché il Figlio non lo partecipa agli uomini! Come nessuno può accedere alla conoscenza del nostro intimo, della nostra storia personale, se noi non decidiamo di farne dono e racconto, così, ancor più, è di Dio. Solo dall'interno si può aprire la porta che dischiude la conoscenza della sua vita. Ed è, appunto, la Rivelazione cristiana.
Accenno soltanto ad altri testi lucani che approfondiscono lo stesso aspetto, innanzitutto alla grande storia del padre e dei due figli, in Lc 15. Tante volte l'abbiamo letta. Sappiamo che è sbagliato chiamarla “la parabola del figliol prodigo”, perché in realtà non si parla di un figlio, ma di due figli. Ma è anche sbagliato chiamarla, come suggeriscono alcuni, “la parabola del padre misericordioso”, come se ci fossero padri che non sono misericordiosi, come se il Padre non fosse misericordioso! Noi sentiamo il bisogno, per la nostra esperienza umana, se diciamo padre, di aggiungere un'altra parola, perché noi conosciamo padri che non sono misericordiosi. In realtà Gesù ci sta dicendo semplicemente che è la parabola del Padre e dei suoi figli. Un padre che è padre! Il problema è cercare di essere come quel Padre, noi dobbiamo cercare di assomigliare a quel Padre. Un padre è colui che ama i suoi figli. Tutti e due i nati da lui, quello che se ne va e quello che brontola sempre, il figlio del piacere e quello del dovere – come li ha definiti la Dolto - quelli sono i suoi figli! La parabola gioca tutto quanto sul rapporto che c'è tra questo padre e i due figli (e la fratellanza che ne consegue).
Pensate poi alle grandi parole sulla croce. Luca è l'unico che ricorda queste due parole di Gesù, che voi non trovate in nessun altro Vangelo. Quando Gesù, prima di morire, dice “Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito”, riaffermando così la sua risposta alla tentazione nel deserto. Padre, io sto morendo, ma tu sei mio Padre, io ho questo Spirito che è lo Spirito Santo e anche la vita di questa terra, che sta finendo, la metto nelle tue mani. Luca è l'unico che ci ricorda anche che, dinanzi al peccato, quando lo stanno uccidendo, Gesù dice, “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E, subito prima - e dopo la preghiera con la quale Gesù si è rivolto al Padre nel Getsemani - davanti al Sinedrio che lo interroga “Dunque tu sei il Figlio di Dio?”, Gesù risponde “Lo dite voi stessi, io lo sono!” (Lc 22, 70).
C'è dunque questo primo grande tema che troveremo durante l'anno, che è il grande annunzio che Cristo fa e che Luca ci ricorda. Non che negli altri evangelisti non ci sia, ma Luca lo ricorda in maniera particolare. Giovanni lo fa in un altro modo, ognuno dei quattro autori dei vangeli ricorda un aspetto particolare, così come quando noi guardiamo una persona, ognuno ricorda un particolare, un gesto.

Un annuncio di misericordia

Legato a questo c'è il grande tema della misericordia. Dante definiva Luca lo “scriba mansuetudinis Christi”, cioè colui che ha scritto della mansuetudine di Cristo, della misericordia, della bontà, della condiscendenza.
Basta citare le parabole della pecora perduta, della dramma perduta e dei figli perduti tutti e due (il grande e il piccolo) e del padre. Il tema della peccatrice perdonata, con Simone che non vuole accogliere questa donna. Non capisce perché lui, che è giusto, deve vedere Gesù che perde tempo con una poco di buono. E' arrabbiato perché Gesù dedica poco tempo a lui e dedica più tempo a delle persone che si sono avvicinate a lui, che lo cercano, lo desiderano. Lui, convinto di stare bene, di non avere bisogno di niente, di non aver bisogno di cambiare, di convertirsi, è stupito che invece Gesù sia così amata da una donna che ne sente il bisogno e che Gesù ami tanto questa donna. Pensate al tema presentato nella bellissima parabola del fariseo e del pubblicano. Gesù dice che quel pubblicano che dice “Signore, io non sono degno di stare qui”, quello tornò a casa sua giustificato, mentre il fariseo che pensava di non avere bisogno di niente tornò a casa condannato. Pensate al buon samaritano, tutti i sacerdoti, i leviti, non si curano di questo uomo, mentre uno straniero - come se dicessimo oggi un appartenente all'Islam, un testimone di Geova, una persona che non appartiene al popolo - lo aiuta. C'è questo secondo grande tema, che ci invita a scoprire quando noi abbiamo sperimentato la misericordia di Dio, perché nel nostro sguardo si legga se noi ricordiamo ancora che quando eravamo peccatori, eravamo lontani, Dio ci ha amato. Se noi ricordiamo questo, allora riusciremo a provare questa misericordia verso ogni uomo. Perché l'altro è come me. E riscoprire chi sono io, mi fa riscoprire come l'altro viene guardato da Cristo: con lo stesso sguardo con cui ha guardato me.

Un banchetto di festa

Ci sono poi, legati a questo, i temi della festa e della gioia. Alcuni dicono anche che Luca è il Vangelo della gioia, perché ogni volta che un peccatore torna a Cristo, bisogna mangiare, bisogna fare festa. In tutte queste parabole c'è un banchetto dove si suona, si danza, perché una persona nuova è arrivata a Cristo. Addirittura si dice che gli angeli del cielo fanno più festa per un peccatore che si converte, che per mille giusti che non hanno bisogno di alcuna conversione. Il tema della gioia, dell'allegria, della festa è quindi legato a quello della misericordia che deve essere celebrata. Non basta che ci sia, ma addirittura deve diventare una festa.

Un tempo che arriva a pienezza

Nel Vangelo di Luca c'è poi una grande attenzione al tempo, a come lo vivono gli uomini, ma soprattutto a come Dio lo vive. Per esempio, nei primi due capitoli non ci si limita a dire “Quando finì il tempo della gravidanza di Elisabetta, di Maria”, ma si usa l'espressione “compimento del tempo”. Il tempo che scorreva arriva a compiersi, arriva a terminare, a finire, giungendo alla sua pienezza. Finisce perché si compie la realtà più grande! Alla fine c'è questo grande annunzio che ascolteremo la notte di Natale: “Oggi, nella città di Davide è nato il Salvatore”. Davvero, in quel preciso momento, il tempo arriva a compiersi. Tutto quello che succede prima è come una preparazione, qualcosa che ci ha fatto camminare verso quel momento in cui arriva la pienezza del tempo.

Oggi: un tempo pregnante di Spirito

Si deve notare come Luca sottolinei molto la presenza dello Spirito Santo, proprio perché il tempo non si compie per opera di noi uomini, non è fatto, come ci fanno credere, dalle nostre azioni o dalla nostra fama.
In realtà il tempo si compie, perché Dio compie il tempo. Paradossalmente quello che fa l'uomo non conta nulla, e questo è in un certo senso una fortuna, perché è liberante. Il tempo si compie quando Dio capisce che deve mandare il suo Figlio, quando Dio decide che è il momento e a Dio “piace” mandare suo Figlio. E' Dio che manda l'Angelo a Maria, è Dio che manda lo Spirito Santo su Maria. L'iniziativa parte da Dio, non dall'uomo. La parola Avvento ricorda questo, non siamo noi ad andare verso Cristo, ma solo perché Cristo viene verso di noi, noi possiamo cominciare a camminare verso di lui. Luca sottolinea la presenza degli angeli proprio perché la vita non è fatta solo dagli uomini, ma gli uomini passano, se non ci fosse Cristo e con Lui la vita eterna. Quando Gesù nasce, Luca ci descrive la festa, il canto degli angeli, perché tutto il Creato, con tutti gli Angeli e tutte le creature celesti, è il destinatario della Rivelazione di Dio, non solo gli uomini, o addirittura, come a volte si è portati a credere, una particolare generazione! Il cosmo intero ringrazia la nascita del Salvatore, perché quel Figlio è venuto per il cosmo intero. Chiaramente è venuto anche per me, per la mia famiglia, ma non si risolve in questa dimensione. Si realizza una concezione molto più grande del compiersi del tempo. In virtù di questo il tempo di Gesù e poi quello della Chiesa, diventano il tempo dell'oggi. Gli Atti mostrano, infatti, fin dalla Pentecoste, come l'annuncio del profeta Gioele si sia realizzato proprio oggi, nell'ultimo tempo, e si concludono con l'affermazione che i pagani oggi, ora, accolgono la salvezza: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno” (At 28, 28). E' l'oggi di Cristo che continua nell'oggi della Chiesa.
Siccome il tempo è compiuto, quando Cristo passa si entra nella Salvezza. E' come un treno che passa, bisogna salirci sopra. Lui passa e io salgo, io vengo accolto, io entro in questa comunione. Sarebbe interessante cercare tutte le volte in cui, nel Vangelo di Luca, si dice “oggi”. A Luca piace questa parola. In questo brano che abbiamo letto all'inizio di questa meditazione, per esempio, Gesù va a Nazareth, legge questo brano e dice: “Oggi si è compiuta questa Parola”. Il profeta aveva detto: “Lo Spirito Santo scenderà, ci sarà un anno di grazia”. Luca capisce che Gesù ha realizzato in quel momento la promessa fatta da Dio. Essa non è più una promessa, ma è proprio in quel momento lì che l'anno di grazia inizia, che la promessa diviene realtà.
Pensate a questa frase bellissima e terribile: “E Gesù, passando in mezzo a loro, se ne andò”, alla fine di questa pericope. Quando l'oggi di Gesù si compie, lì le persone si dividono. Allora appena lui fa capire - guardate come si intrecciano i temi in Luca - appena Gesù fa capire che Lui è venuto anche per il Siro e per la vedova di Zareptha, che sono due pagani, allora la gente di Nazareth dice: “Ma come? Il Messia non è venuto per noi, solo per noi? E' venuto per gli altri! Ma che quelli sono più importanti di noi?” Allora vogliono ucciderlo. Vogliono un Gesù che sia solo per loro, non interessa che sia per tutti. E c'è questa frase bellissima e terribile: “Gesù, passando in mezzo a loro, se ne andò”. Perché Gesù passa in mezzo a loro e può andarsene o essere accolto in questa dinamica di accoglienza del mistero del Padre, della sua Misericordia.
E proprio Luca sottolinea che questo tempo pregno di Spirito Santo, non è un tempo che non si ripeta, anzi chiede proprio la costanza della fedeltà. Gesù “secondo il suo solito” entra nella sinagoga di Nazaret (Lc 4, 16) e, “come al solito”, se ne va al monte degli Ulivi (Lc 22, 39).

Lo Spirito Santo

Luca ci mostra, con una impressionante continuità, l'opera dello Spirito. La prospettiva è proprio quella che la Chiesa annuncerà con forza nel Credo: “Per opera dello Spirito Santo si è incarnato e si è fatto uomo”. Non dunque uno Spirito che allontana dalla vita, ma, all'opposto, lo Spirito che presiede all'Incarnazione del Figlio.Nelle storie parallele della nascita del Battista e del Cristo lo Spirito è sempre all'opera. Giovanni (Lc 1, 14) “sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre”, ma nel grembo di Maria sarà proprio lo Spirito Santo che scenderà su di lei (Lc 1, 35), che stenderà la sua ombra per lo stesso concepimento del Figlio.
Anche Elisabetta fu piena di Spirito Santo (Lc 1, 41) e così Zaccaria che fu pieno di Spirito santo (Lc 1, 67) quando profetò dicendo: “Benedetto...”.
Così anche, in Lc 2, 25-27, Simeone. al quale lo Spirito Santo aveva preannunziato della nascita del Cristo.
Ma lo Spirito riposa su Gesù. Potremmo dire, con espressioni paoline, che lo Spirito Santo è lo Spirito di Cristo, che è il suo Spirito. Il Battista lo annunzia come colui che vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco (Lc 3, 16). Nel momento del battesimo scende su Gesù lo Spirito Santo, in apparenza corporea, come di colomba (3, 22) che lo manifesta, nella voce del Padre, come il Figlio prediletto, come l'unico del Padre. E' lo Spirito – e non solo il tentatore – che lo conduce nel deserto ed è con la potenza dello Spirito che Gesù torna in Galilea. Nella sinagoga a Nazaret – il brano iniziale di questa meditazione – Gesù proclama che il brano di Isaia proprio in vista di lui era stato scritto e che ora, “oggi”, lo Spirito del Signore è sopra di lui. Proprio la densissima affermazione cristologica della conoscenza del Padre e del Figlio, in Lc 10, 21, avviene nell'esultanza nello Spirito Santo.
In più, già in Lc 11, 13 – “Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” – è evidente che lo Spirito che è proprio del Figlio è lo stesso Spirito che sarà donato agli uomini.
Nel racconto degli Atti, come è evidente che le Scritture sono state ispirate dallo Spirito Santo, così è evidente che la vita e la storia della Chiesa ugualmente è sua opera. Nello Spirito sono stati scelti gli apostoli, nello Spirito vivono la Pentecoste, nello Spirito inizia la missione di annuncio, a tal punto che tutti “ne sono ripieni”. E' lo Spirito che indica a Pietro che il Cristo è venuto anche per i pagani e desidera il loro battesimo. Ogni ministero ed ogni missione particolare dallo Spirito ha origine in Lui ed in Lui trova forza per compiersi. Potremmo, in sintesi, dire che lo Spirito oltre ad essere lo Spirito del Cristo è anche, per sua volontà, Spirito ecclesiale, lo Spirito della Chiesa..

La preghiera

Proprio in questo tempo che è arrivato al suo culmine, alla sua pienezza, e, perciò, si qualifica come “oggi” in cui è non solo possibile, ma richiesto, accogliere Cristo nello Spirito, si apre lo spazio della preghiera, perché sia accolta la presenza di Dio nel suo Figlio.
Maria è colei che prega, con le parole che saranno la forma ed il contenuto della preghiera cristiana di ogni tempo: “Avvenga di me secondo la tua parola”. Vediamo in lei, nell'assenza di peccato e nell'abbandono totale alla grazia, la donna che vive la stessa preghiera di Cristo: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice; tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 43).
La preghiera di Cristo si manifesta in pienezza come preghiera al Padre, nel cammino della croce, non solo nell'orto del Getsemani, ma anche come preghiera di intercessione per Pietro, in Lc 22, 32-33, “Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”, e di intercessione per i carnefici della passione, in Lc 23, 34, “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”, ed, infine, come preghiera di abbandono fiduciale in Lc 23, 46, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.
Il vangelo dell'infanzia di Gesù e di Giovanni Battista, in Luca, ci trasmette le tre preghiere del mattino, del tramonto e della notte, il Benedictus, il Magnificat, il Nunc Dimittis, con cui la Chiesa, da allora, prega nelle ore dei giorni.
Proprio immediatamente dopo che Gesù ha chiarito come rovesciare la domanda “Chi è il mio prossimo?”, chiedendo “Chi è stato prossimo, chi si è fatto prossimo, a colui che era incappato nei briganti?”, a mostrare che la carità verso gli uomini è solo una dimensione della vita cristiana, ecco l'episodio avvenuto nella casa di Marta e Maria. Marta non solo non lascia tutto per sedersi ai piedi del Signore per ascoltare la sua parola, ma pretende, in più, che tutti facciano come lei. Vuole erigere il suo comportamento a norma “ecclesiale”. E Gesù la ammonisce sulla “parte migliore” che a Maria non sarà tolta e da cui lei stessa deve lasciarsi istruire.
Se qui è in evidenza la preghiera come ascolto del Signore che parla, nella parabola della vedova importuna e del giudice è, invece, presente la grande dimensione della preghiera di domanda, di richiesta, di intercessione. (Lc 18, 1-8).
La segue immediatamente la preghiera del pubblicano “O Dio abbi pietà di me peccatore” (Lc 18, 13) che sola sarà ascoltata, a differenza di quella del fariseo che si presume giusto e disprezza gli altri.

La Chiesa

In tutti e quattro gli evangelisti è evidente la perfetta continuità, instaurata dal Cristo, fra sé e la vita della Chiesa. In Marco è il comando, nella finale lunga, della fede e del battesimo da donare – realtà necessarie per la salvezza! – a tutti i popoli. In Matteo è l'assicurazione di essere “con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. In Giovanni le due finali, legano, proprio attraverso la testimonianza degli apostoli e dei discepoli, la vita dei credenti - che crederanno e avranno la vita per la fede - a quella del Cristo.
Luca ha sentito il bisogno di non fermarsi a scrivere la storia di Gesù, dal suo inizio alla resurrezione. Deve anche raccontare la storia della Chiesa, fin dove la conosce, per dire che è la stessa storia. Nel suo primo libro e nel suo secondo è la stessa realtà che è sotto i nostri occhi, è lo stesso “oggi” di salvezza che, iniziato, continua a compiersi. Già in Lc 24, 15-35, l'episodio dei discepoli di Emmaus, essi debbono tornare dagli apostoli e da Pietro per sentire l'annuncio loro, prima di fare il proprio e trovarlo uguale. In Lc 24, 36-43, nell'apparizione ai discepoli a Gerusalemme, essi sono costituiti testimoni del Cristo, nel cui nome saranno predicati, a tutte le genti, la conversione ed il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (Lc 24, 47-48).
Gli Atti mostrano la corsa della Parola, fino agli estremi confini della terra, fino a Roma. La Scrittura Santa si mostra non un tutto completo a sé stante, ma si apre alla tradizione della Chiesa, che giunge fino a Roma. Tutta la storia della Chiesa diviene storia di salvezza, vita alla presenza dello Spirito Santo. Ed una geografia di salvezza, poiché Dio è Padre dell'Incarnazione, conduce a Roma, città a cui la Provvidenza ha assegnato un posto particolare.

L'annunzio del vangelo è per tutti

Proprio per questo, se Luca non ci racconta della presenza di Gesù nelle regioni di Tiro e Sidone, in mezzo ai pagani, ma solo in Galilea e Giudea, è, però, proprio anche del suo vangelo la coscienza, come vedevamo, che il vangelo è dono per tutti gli uomini. Il vangelo è per tutti Nessuno lo riceve per tenerlo per sé.
Nell'episodio che abbiamo letto all'inizio di questa meditazione, episodio programmatico lucano, la reazione di rifiuto della folla nasce proprio anche a motivo delle parole di Gesù che ricorda, indicando la traiettoria del cristianesimo, che già nel passato Elia era stato inviato proprio ad una vedova a Zarepta di Sidone – ed essa lo aveva accolto! – e che Eliseo, discepolo di Elia, aveva guarito proprio un Siro, un non ebreo, Naaman (4, 25-30).
In Lc 10, 1-20, è solo Luca a raccontarci dell'invio dei 72 discepoli e del loro ritorno. E la lettura spirituale dei Padri ha visto, a ragione, in questo numero la missione in nuce a tutti i popoli della terra (tradizionalmente, a partire da una interpretazione di Gen 10, i popoli erano stati calcolati in numero di 70 o 72). Ecco che gli Atti portano a compimento ciò che è “previsto” in tutto il vangelo, dispiegano l'annuncio che è già presente in Luca.

Storicità e credibilità a fondamento dell'annunzio

Non solo il vangelo è per tutti, ma è anche per tutto l'uomo. Non da un sacrificio di una parte dell'uomo, la ragione, esso trae forza, poiché l'atto di fede è un atto integrale che ognuno compie nella pienezza delle sue facoltà. La fede è, anzi, l'atto “giusto”, “ragionevole” dinanzi alla Rivelazione che si è manifestata nella realtà della storia. Unico fra gli evangelisti, Luca introduce il suo scritto con un breve prologo di 4 versetti, raccontandoci la sua ricerca storica, perché Teofilo, suo destinatario, si possa rendere conto “della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto” (Lc 1, 4).
Il percorso storico che va da Gesù agli Apostoli e da essi agli uomini della loro cerchia che misero per iscritto la storia del Signore (cfr. Dei Verbum 18 e 19) non è una deformazione della realtà dell'evangelo di Cristo, piuttosto è via che sostiene la “sicurezza” della fede. Una branca della teologia fondamentale, quella che studia l'origine del Nuovo Testamento ed i criteri di storicità, continua proprio le parole lucane, ponendosi come scopo la verifica del rapporto fra il Gesù della storia ed il Cristo annunciato dagli evangelisti e sostenendo, anche nell'oggi della moderna ricerca scientifica, la fondatezza della fede. Essa ha fondamento e non è fiducia cieca che non sa, che ignora Colui al quale la fede è data, il Cristo che rivela il Padre.
Anche la parola degli Atti, sottolinea questa dimensione profondamente rispettosa dell'umanità integrale dell'atto di fede, del motivo del credere: “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele...” At 2, 36).
Nel misterioso nome Teofilo, che letteralmente significa “amico di Dio”, possiamo vedere non solo un personaggio storico a noi ignoto, a cui Luca si indirizzava, ma anche ogni cercatore di Dio, e perciò suo amico, che vuole scavare sui motivi della fede cristiana ed essere illuminato da essa.
La storicità è corroborata dalle coordinate storiche per le quali la vita di Gesù e della Chiesa si incontra con quelle dei personaggi noti della storia, Augusto e Tiberio, Téuda e Giuda il Galileo, Gallione e Felice.

I beni da condividere

Sottolineatura tipica lucana, memoria dell'insegnamento di Gesù, è, infine, l'attenzione rivolta ai beni di cui l'uomo vive. Nuovamente possiamo leggere questi brani proprio come comprensione che a tutto l'uomo il vangelo è rivolto e la dimensione economica, di giustizia e di carità, trae luce dall'essere toccata dalla presenza dell' “oggi” della salvezza.
La figura del Battista, in Luca, già mostra questa sottolineatura, quando incontriamo la domanda a lui rivolta: “Che dobbiamo fare?” (Lc 3, 10-18). Persone di differenti mestieri sono invitate a riflettere bene sulla dimensione etica del loro operare professionale.
Le beatitudini, in Lc 6, 20-28, sottolineano ancor più la dimensione non solo spirituale dell'annuncio – non “beati i poveri in spirito”, ma “beati i poveri” – e la contrapposta maledizione della ricchezza non condivisa e del disinteresse: “Ma guai a voi, ricchi”.
Frequentemente la parola di Gesù che l'evangelo lucano ci ricorda, segue l'uomo da presso sul tema della fiducia da non riporre nella propria sicurezza - Lc 12, 31-21, su chi accumula tesori e dice: “Anima mia riposati...” – sul guardarsi dall'avarizia, sulla scelta degli invitati - Lc 14, 12-14 – su chi vuole seguire il Signore, senza essere disposto a cedere ciò che ha – Lc 14, 28-33, “Chi vuol costruire una torre...”.
La parabola del ricco e del povero Lazzaro, Lc 16, 19-31, è dono che solo Luca ci ha conservato.
Infine l'episodio di Zaccheo, incontro reale che conduce un uomo a dare la metà dei suoi beni ai poveri e a restituire quattro volte tanto ciò che ha frodato, in Lc 19, 1-9, manifesta la forza rinnovatrice del vangelo di Gesù. Il pane, per il quale l'uomo nella storia si è diviso, diviene ora occasione di condivisione e segno di salvezza.
Il banchetto condiviso con i poveri ed i peccatori, in terra, diviene segno e anticipo del banchetto del cielo, quando Dio giudicherà, farà giustizia e salverà, in Cristo.

 


I Appendice
Vangelo di Luca, parti proprie

Lc 1, 1-4
Lc 1-2 annunzio di Gv Batt, Annunciazione, Visitazione, Magnificat, nascita di Gv Batt e circoncisione, Benedictus, vita nascosta di Gv, nascita di Gesù e circoncisione, presentazione di Gesù al Tempio, Nunc dimittis con Simeone ed Anna, vita nascosta di Gesù; Gesù fra i dottori
Lc 3, 1-2 nell'anno decimoquinto di Tiberio Cesare
Lc 3, 10-14 a Giovanni Battista: “Che dobbiamo fare?”
Lc 4, 25-30 a Nazareth, vedova di Zarepta ed Eliseo e Naaman il Siro
Lc 5, 1-11 prendi il largo e calate le reti per la pesca
Lc 6, 24-28 ma guai a voi ricchi
Lc 7, 11-17 resurrezione del figlio della vedova di Nain
Lc 7, 36-50 la peccatrice perdonata e Simone il fariseo
Lc 8, 2-3 il seguito femminile di Gesù
Lc 9, 51-56 si diresse decisamente verso Gerusalemme… vuoi che scenda un fuoco dal cielo?
Lc 10, 17-20 ritorno dei 72 discepoli
Lc 10, 29-37 il buon samaritano
Lc 10, 38-42 Marta e Maria
Lc 11, 5-8 l'amico importuno
Lc 12, 13-21 guardarsi dall'avarizia
Lc 13, 1-9 torre di Siloe che cade
Lc 13, 10-17 guarigione della donna curva
Lc 13, 31- oggi e domani compio…
Lc 14, 1-6 guarigione di un idropico di sabato
Lc 14, 7-11 non scegliere il primo posto
Lc 14, 12-14 quando poi fu a pranzo…
Lc 14, 28-33 torre da costruire e dare i propri averi
Lc 15, 8-10 dramma perduta
Lc 15, 11-32 il padre e i due figli
Lc 16, 1-9 amministratore astuto
Lc 16, 10-12 fedeltà nell'uso del denaro
Lc 16, 14-15 i farisei e il denaro
Lc 16, 19-31 il ricco e il povero Lazzaro
Lc 16, 7-10 servo che ha fatto quel che doveva fare
Lc 17, 11-19 guarigione dei 10 lebbrosi
Lc 17, 20-22 il regno di Dio è in mezzo a voi
Lc 18, 1-8 la vedova importuna e il giudice
Lc 18, 9-14 il fariseo e il pubblicano
Lc 19, 1-10 Zaccheo
Lc 19, 41-44 pianto su Gerusalemme
Lc 21, 34-38 State bene attenti che i cuori non si appesantiscano… durante il giorno… e la notte
Lc 22, 14-18 quando fu l'ora: ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua
Lc 22, 28-30 voi siete quelli che avete perseverato… io preparo per voi un regno
Lc 22, 31-34 ma io ho pregato per te
Lc 22, 35-38 vi è forse mancato qualcosa? ma ora
Lc 23, 6-12 lo mandò da Erode
Lc 23, 13-16 Pilato dice Gesù innocente
Lc 23, 26-32 Simone di Cirene… donne, piangete sui vostri figli
Lc 23, 40-43 il ladrone perdonato
Lc 23, 46 Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito
Lc 24, 15-35 Emmaus
Lc 24, 36-43 apparizione ai discepoli a Gerusalemme

 


II Appendice
Riferimenti dei temi principali

Le indicazioni di luogo, coordinate geografiche e teologiche

-il simbolo del toro o vitello
-Gerusalemme è il centro iniziale di tutto
-inizio con Zaccaria
-Gesù portato al tempio
-Gesù dodicenne al tempio (lì inizia il suo ministero); perdita di tre giorni come “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”
-Salita a Gerusalemme 9, 51 (la Galilea è solo l'inizio)
-13, 33 perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme
-13, 34 Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti... Ecco la vostra casa vi viene lasciata deserta
-17, 11 durante il viaggio verso Gerusalemme
-19, 45 ss. entrato poi nel Tempio... ogni giorno insegnava nel Tempio
-20, 15 e lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero
-passione e resurrezione
a Emmaus tornano a Gerusalemme
opo l'ascensione e fino al dono dello Spirito
-poi “Andate fino agli estremi confini della terra”

I temi

Il Padre e la festa

-1, 49 non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio
-3 tentazioni: se sei figlio
-10, 21-22 io ti rendo lode, Padre... Sì, Padre, perché così è piaciuto a te. Ogni cosa mi è affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare
-12, 30 ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno... al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno
-15 padre e i suoi due figli
-22, 70 tu dunque sei il Figlio di Dio? Lo dite voi stessi: io lo sono
-23, 46 Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito
-Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno

La misericordia

-15, 8-10 dramma perduta
-15 padre e i suoi due figli
-7, 36 peccatrice perdonata
-16, 1-8 amministratore infedele
-18, 9-14 il fariseo e il pubblicano
-10, 29 buon samaritano
-Malco, il servo del sommo sacerdote guarito nell'orto del Getsemani

Il tempo

-1, 57 si compì il tempo di partorire per Elisabetta
-2, 6 si compì il tempo di partorire per Maria
-2, 21 compiuto il tempo della loro purificazione
-lo Spirito Santo scenderà su di te
-gli angeli (cioè non è opera umana)
-vi annunzio una grande gioia
-At 2, 1 mentre il giorno di Pentecoste stava per compiersi

L' “oggi” di Cristo che realizza questo compimento

-4, 16 Secondo il suo solito; espressione che si ripete (esprime la quotidianità)
-ma insieme: “oggi”
-2, 11 oggi nella città di Davide vi è nato un Salvatore
-4 a Nazaret: lo Spirito del signore è su di me; un anno di misericordia; oggi si è adempiuta questa parola nelle vostre orecchie
-passando in mezzo a loro se ne andò
-18, 37 passa Gesù il Nazareno
-5, 26 oggi abbiamo visto cose prodigiose
-13, 31 oggi e domani compio…
-16,16 la Legge e i Profeti fino a Giovanni; da quel momento in poi è annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza...
-17, 20-22 il regno di Dio è in mezzo a voi
-19 Zaccheo 2 volte
-23,43 oggi sarai con me in Paradiso
-13, 1-9 torre che cade (e si apre il tema della misericordia)
-At 2, 16 accade, invece, quello che predisse il profeta Gioele
-At 3, 24 tutti i profeti annunziano questi giorni
-At 4, 9 visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo
-At 7, 52 del quale voi ora siete diventati traditori ed uccisori
-At 28, 28 sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno

Lo Spirito Santo

-1, 14 sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre
-1, 35 lo Spirito Santo scenderà su di te
-1, 41 Elisabetta fu piena di Spirito Santo
-1, 67 Zaccaria suo padre fu pieno di Spirito santo e profetò dicendo: Benedetto...
-2, 25-27 c'era un uomo di nome Simeone... lo Spirito Santo gli aveva preannunziato... mosso dunque dallo Spirito
-3, 16 costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco
-3, 22 e scese su di lui lo Spirito Santo, in apparenza corporea, come di colomba
-4, 1 Gesù, pieno di Spirito Santo... fu condotto dallo Spirito nel deserto
-4, 14 Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo
-4, 18 lo Spirito del Signore è sopra di me
-10, 21 Gesù esultò nello Spirito Santo e disse...
-11, 13 quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono
-At 1, 2 apostoli che si era scelti nello Spirito Santo
-At 1, 4-5 attendere che si adempisse la promessa... voi invece sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni
-At 1, 8 avrete forza dallo Spirito Santo
-At 1, 16 ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo
-At 2, 4 ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo
-At 2, 33 dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo lo ha effuso
-At 2, 38 dopo riceverete il dono dello Spirito Santo
-At 4, 25 tu che per mezzo dello Spirito Santo dicesti per bocca del nostro padre, il tuo servo Davide
-At 4, 31 tutti furono pieni di Spirito Santo
-At 5, 32 e di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a Lui
-At 6, 3 cercate... sette uomini... pieni di Spirito e di saggezza
-At 7, 55 Stefano, pieno di Spirito Santo
-At 8, 15 pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro... imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo
-At 9, 17 perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo
-At 10, 44ss. Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese su tutti coloro... si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo
-At ecc. ecc.

La preghiera

-Maria: avvenga di me secondo la tua parola
-tre preghiere del Magnificat, Benedictus e Nunc dimittis
-6, 12-13 Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno chiamò a sé i suoi disceoli e ne scelse dodici...
-9, 28 Gesù salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante
-10, 38-42 Marta e Maria
-18, 1-8 la vedova importuna e il giudice
-18, 9-14 il fariseo e il pubblicano
-22, 32-33 ma io ho pregato per te
-23, 34 Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno
-23, 46 Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito

La Chiesa

-24, 15-35 Emmaus
-24, 36-43 apparizione ai discepoli a Gerusalemme
-At sempre la Chiesa in un crescendo
-At 1, 13 c'erano Pietro e Giovanni...
-At 1, 21-22 bisogna che uno... divenga, insieme a noi, testimone della resurrezione
-At 2, 41 e quel giorno si unirono a loro circa 3000 persone
-3 sommari della vita della Chiesa At 2, 42-48; 4, 32-35; 5, 12-18
-At 10, 44ss. Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese su tutti coloro... si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo
-At 15 controversia ad Antiochia e “concilio” di Gerusalemme

L'annunzio

-4, 25-30 a Nazareth, vedova di Zarepta ed Eliseo e Naaman il Siro
-10, 1-20 invio e ritorno dei 72 discepoli
-At fino a Roma
-At 1, 8 e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e in Samaria e fino agli estremi confini della terra
-At 2, 8 ss. e com'è che li udiamo tutti parlare la nostra lingua nativa?... siamo ebrei e proseliti...
-At 9, 15 per portare il mio nome ai popoli, ai re e ai figli di Israele
-At 10, 44ss. Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese su tutti coloro... si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo
-At 28, 28 sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno

Storicità e credibilità

-1, 1-4
-At 2, 36 sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele
-indicazioni cronologiche
-2, 1 in quei giorni un decreto di Cesare Augusto...
-3, 1 ss. nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare...
-At 5, 36-37 venne Tèuda, dicendo di essere qualcuno.. fu ucciso... e finirono nel nulla... dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento
-At 11, 28 ciò che di fatto avvenne sotto l'imperatore Claudio
-At 12, 1-2 il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni
-At 18, 12 mentre era proconsole dell'Acaia Gallione
-At 24, 27 Felice ebbe come successore Porcio Festo...

Del condividere i beni

-3, 10-14 a Giovanni Battista: “Che dobbiamo fare?”
-6, 20-28 beati voi poveri... ma guai a voi ricchi
-6, 36 siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro
-12, 31-21 chi accumula tesori: anima mia riposati; guardarsi dall'avarizia
-14, 12-14 sulla scelta degli invitati
-14, 28-33 chi vuol costruire una torre
-16, 9 procuratevi amici con la disonesta ricchezza
-16, 14 i farisei, che erano attaccati al denaro
-16, 19 ss. il ricco e il povero Lazzaro
-19, 1 ss. Zaccheo
-21, 34 state bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano

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Note

[Nota 1] I brani sono indicati di seguito nell'appendice acclusa.

[Nota 2] Cfr. su questo il nostro invito alla lettura di Marco, Una introduzione alla lettura continua del vangelo di Marco , nella sezione Approfondimenti di questo sito www.gliscritti.it.

[Nota 3] Per un elenco, non esaustivo, dei brani lucani che affrontano i diversi temi presentati, vedi in appendice i fogli che sono stati distribuiti durante la meditazione, per il lavoro personale.

[Nota 4] Abbiamo volutamente tralasciato in questa meditazione una presentazione completa di Cristo nel vangelo di Luca, poiché la riflessione su Cristo era stata il tema di precedenti incontri. Cfr. su questo il lavoro parallelo già citato sul vangelo di Marco Una introduzione alla lettura continua del vangelo di Marco, nella sezione Approfondimenti di questo sito www.gliscritti.it.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 12:17 pm | | Default

Gesù Cristo via della speranza (tpfs*), di d.Rino Fisichella (relazione presso il Vicariato di Roma nell'anno pastorale 1994/95)

Premessa

“Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea”. E' con queste parole che viene dato l'annuncio pasquale. La sequenza, che ripercorre i grandi temi del triduo pasquale, si conclude con un annuncio di speranza che è, insieme, richiamo alla responsabilità ed elezione per una missione. E' interessante notare che nei racconti dei Sinottici l'annuncio della risurrezione è dato da un angelo. Il significato teologico sottostante è chiaro: il mistero della risurrezione è tale che può essere rivelato solo da Dio. Ancora una volta, fino alla fine, il credente è posto all'ombra del primato della Parola di Dio che indica non solo il fatto, ma anche la strada adeguata per poterlo raggiungere.

Mai nella storia dell'umanità vi fu annuncio più sconvolgente di quello che è preludio del mattino di Pasqua. Cristo è veramente risorto. L'identità tra il crocifisso e il risorto è il centro del kerigma apostolico e noi, da duemila anni, percorriamo le strade di questo mondo ripetendo in modo immutato lo stesso, identico, annuncio. Qui si scontrano le diverse concezioni della vita umana; qui devono convergere le differenti visioni religiose che esprimono il mistero; qui si risolve l'originalità della fede cristiana. Fuori da questo orizzonte Gesù di Nazareth sarebbe un grande evento della storia con un forte messaggio sapienziale, ma niente di più; lontano da questo scenario, la Chiesa sarebbe una grande società - per alcuni versi, forse, anche perfetta - ma non potrebbe più qualificarsi “sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano” (LG 1). La speranza che Pasqua esprime ha nulla in comune con l'utopia e niente da spartire con il mito. Per la prima volta viene posto nella storia dell'umanità il criterio che abilita ognuno ad uscire dalle
tenebre della disperazione e della morte per entrare nel sereno della speranza e della vita.

1. La speranza cristiana

In che cosa consiste la speranza cristiana? In una battuta, tanto semplice quanto densa di significato, lo dice l'apostolo Paolo: “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27; 1 Tim 1,1: “Cristo Gesù nostra speranza). La presenza di Cristo nella vita di ogni credente - per Paolo il credente e la Chiesa sono spesso usati in modo intercambiabile senza distinzione alcuna - è il mistero pieno e totale che Dio ha voluto rivelare e questo è fonte e oggetto della speranza. All'origine della speranza cristiana, in altre parole, vi è un atto pieno e totale, quanto gratuito, dell'amore di Dio; esso consiste nella chiamata alla salvezza mediante la partecipazione alla sua stessa vita.

La speranza, quindi, nella prospettiva cristiana non nasce dall'uomo. Essa non è primariamente intesa come un desiderio che si apre al futuro, frutto della coscienza che tende ad andare sempre oltre se stessa in attesa di un compimento; al contrario, è intesa come una chiamata gratuita che parte dalla rivelazione di Dio. E' qui che si percepisce la novità della nostra concezione e si compie il discernimento su ogni altra forma di speranza che appartiene all'umanità come suo sforzo peculiare di tendere verso il futuro. Nella misura in cui si recepisce la ricchezza del nostro patrimonio di fede e lo si valorizza, si sarà in grado di compiere un passo in avanti sia nella conoscenza del mistero e, quindi, nell'approfondimento della fede, della preghiera e della testimonianza, sia, nello stesso tempo, nel contribuire in modo originale alla storia del pensiero.

Tutti possono sperare, ma è il contenuto della speranza che qualifica l'atto e lo fa comprendere diverso dal sentimento o dall'utopia. Anche il suicida - scriveva il filosofo Kierkegaard nei suoi Diari - spera in una vita migliore e in forza di questa speranza compie la follia del suo gesto; ma è davvero speranza quell'atto? La speranza cristiana non sorge nel momento del bisogno, della sofferenza o dello sconforto determinato da diverse motivazioni; se così fosse in nulla si distinguerebbe dal generico sentimento o dal desiderio di aggrapparsi a qualcosa come soluzione estrema al male. La speranza cristiana, al contrario, ha come compagne di viaggio che non l'abbandonano mai la fede e la carità. Essa sorge dalla fede e si nutre dell'amore. Senza questa circolarità non sarebbe possibile comprendere la specificità del sperare credente che vive di certezza e non di delusione.
La teologia paolina è estremamente chiara su questo punto; nei momenti cruciali in cui l'apostolo deve descrivere l'esistenza cristiana pone sempre insieme la triade di fede, speranza e carità. E' sufficiente il richiamo ai tre testi in cui esplicitamente ritorna questo insegnamento: “Memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra fatica nella carità e della vostra pazienza nella speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1 Ts 1,3); “Rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza” (1 Ts 5,8); “Queste, dunque, le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor 13,13).

Essendo certezza del compimento della promessa, la speranza cristiana “non delude” perché affonda le sue radici nell'amore (Rm 5,5); e non potrà mai essere separata dall'amore: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Uno sguardo più attento a questo testo, permetterà di comprendere ulteriormente le caratteristiche della speranza cristiana che Paolo descrive nonostante non appaia esplicitamente il termine. Alcuni versetti prima, l'apostolo aveva detto che per coloro che vivono della fede e della speranza la condizione di sofferenza del presente, pur con tutte le tribolazioni e malvagità, non è paragonabile alla gloria che sarà loro concessa. Questa gloria, non è altro che la rivelazione del Figlio di Dio, la conoscenza del suo volto o, se si vuole, la rivelazione piena del mistero che rapirà in una contemplazione senza fine. Il futuro che attende coloro che oggi sperano e credono, non solo compenserà il presente ma, soprattutto, lo supererà nell'intensità della felicità. Qui, però, sorge la domanda che accompagna ancora oggi molti di noi: chi potrà garantire tutto questo? Chi mai potrà dare garanzia del compimento di questa attesa e della soddisfazione di questa speranza? L'apostolo, per rispondere, introduce il concetto di libertà.

Sia la creazione che l'uomo attendono la liberazione dalla “schiavitù della corruzione” (Rm 8,21). Anche i cristiani, che già sono salvati nella morte di Cristo, attendono ugualmente la pienezza della loro salvezza. Questo tempo che viviamo, quindi, diventa il tempo della attesa paziente. “La pazienza - ricorda sempre Paolo - alberga in sé la speranza, la custodisce, la rafforza e la conduce ad un nuovo sperare” (Schlier). Ciò che dà certezza al nostro sperare e costituisce la garanzia della correttezza del nostro attendere, è il fatto che il credente, proprio perché tale, percepisce e “sente” dentro di sé che attende ancora qualcosa. La presenza dello Spirito di Cristo in noi, poi, non fa che confermare questa prospettiva. Poiché non sappiamo neppure che cosa sia importante chiedere per il nostro compimento, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza. C'è pertanto una duplice garanzia per la certezza della nostra speranza, quella soggettiva, che è il “sentire” di ognuno che tende al compimento; quella oggettiva, la presenza dello Spirito che dà forza nell'attesa.

Ritorniamo di nuovo al nostro testo, dove Paolo ripropone la stessa domanda che, in modo implicito, era stata rivolta precedentemente: chi dà garanzia della nostra speranza e della vittoria sulla sofferenza del presente? Chi o che cosa rende sicuro il cristiano che la sofferenza attuale non sarà definitiva, e deve sperare nella gloria che gli verrà data? La risposta è talmente chiara da non dare adito a equivoci di sorta: l'amore di Dio per noi è fondamento, garanzia e sostegno del nostro sperare. E' il suo amore che ci tiene saldi e legati strettamente a lui. E' in forza dell'amore che viene superato tutto ciò che è motivo di sofferenza. E Paolo ha ben diritto di parlare così, enucleando perfino le sette esperienze di sofferenza che abbiamo ascoltato. Sarebbe utile rileggere il brano di 2 Corinzi per capire fino in fondo che l'apostolo non parla di sofferenze immaginarie, ma di ciò che lui stesso ha provato: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso una notte e un giorno in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2 Cor 11,23-27).

Su tutte queste sofferenze, non c'è solo vittoria, ma “trionfo” (õðåñíéêùìåí); per quanto forti e potenti possano essere le forze del male, l'apostolo - e con lui ogni credente - “è persuaso” cioè vive della certezza indiscussa che niente potrà far crollare la speranza della fede nel presente. In una parola, si potrebbe dire che in questa prospettiva tutta la sofferenza che è presente nel mondo, rappresenta per il cristiano non il dolore dell'agonia, ma quello della partoriente! Questa è la certezza dell'amore.

L'atto della speranza cristiano, pertanto, si condensa intorno ad alcuni elementi che la esplicitano e definiscono: l'attesa, anzitutto, della rivelazione piena e definitiva del Signore; la fiducia nella sua promessa che verrà e dove è lui, là saremo anche noi; la pazienza, inoltre, che non cede allo scoraggiamento e che sa perseverare nella sofferenza; la libertà, infine, di agire con e nello Spirito che consente di muoversi in questo modo anticipando la liberazione totale del futuro.

Un'ultima connotazione merita di essere considerata: il carattere comunitario della speranza. Non c'è nulla di privato nella Chiesa. Ricevere il battesimo equivale ad inserirsi nella fede della Chiesa e, quindi, a divenire un soggetto ecclesiale. La speranza cristiana non è un fatto privato, ma azione di tutta la comunità credente che in questo modo si pone come segno per l'umanità intera. Ancora un testo di Paolo permette di fondare questa prospettiva. “Vi esorto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,1- 6). Il tema di fondo di questo testo, come si vede subito, è quello dell'unità. La pace che i cristiani devono mantenere salda, indica nel linguaggio paolino la salvezza che si è ottenuta con la riconciliazione con Dio. Ciò che sostiene e promuove questa “pace”, viene elencato dall'apostolo: in primo luogo, egli pone l'unità della Chiesa di cui Cristo è il capo e che è sostenuta dallo Spirito Santo. Questa unità è fondamento della sola speranza che i credenti sono chiamati a vivere e testimoniare come loro vocazione peculiare. L'unità e l'unicità della speranza, appartengono all'unità della Chiesa, hanno lo stesso fondamento e non possono essere frammentate. La speranza, pertanto, può essere per i credenti solamente ecclesiale; sia perché è prima di tutto la Chiesa che spera e in essa ogni credente, sia perché è segno di unità dei credenti stessi tra di loro. Una conferma la si ritrova in un significativo testo di LG dove il concilio descrive la Chiesa: “Cristo unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità” (LG 8). La dimensione comunitaria della speranza è anche ciò che permette di affermare che il credente spera per tutti e per la salvezza di tutti. E' Tommaso d'Aquino che ha avuto la grande intuizione di sostenere che a fondamento della speranza per la salvezza universale vi è l'amore del prossimo. Ciò che speriamo per noi stessi, amando lo dobbiamo sperare per tutti (STh II-II,17,3). E' qui, alla fine, che diventa chiaro il paolino “sperare contro ogni speranza”, perché la speranza rimanda all'amore che tutto comprende e perdona.

2. C'è ancora speranza?

In quanto la speranza è sempre stata collegata al futuro, essa ha affascinato non poco la mente e la fantasia degli uomini. Alcuni esempi non stoneranno; consentiranno, invece, di evidenziare ulteriormente la peculiarità della speranza cristiana.

Un primo esempio lo troviamo nell'antichità. Il mito del vaso di Pandora è ben conosciuto. Fuggita dalla presenza di Zeus, Pandora aprì il vaso sulla terra e ne uscirono disgrazie, malattie e pestilenze, insieme ad ogni sorta di malvagità. Alla fine, Zeus rinchiuse all'ultimo momento il vaso e vi rimase imprigionata la speranza, ultimo dono fatto agli uomini per consolarli di tante miserie. Per chi va a visitare il battistero di Firenze, una ulteriore immagine lo colpirà, permettendogli di avere un ulteriore visione della concezione della speranza. Andrea Pisano ha ritratto la speranza come una giovane donna seduta, con le ali, che nonostante queste, tende le mani verso un frutto che non raggiunge mai. Il significato sottostante è anch'esso chiaro: la speranza rimane prigioniera dell'utopia; il suo tendere rimane tale, ma non può pensare di raggiungere il frutto che resta, per sempre, irraggiungibile. Un ultimo esempio può essere preso da alcune pagine di un autore contemporaneo, Cesare Marotta, che scrive un interessante Intervista con la speranza.

“Riconobbi subito la speranza, era lei. Silenziosa ed assorta, sedeva al capezzale di un giovane suicida. Costui non aveva ancora vent'anni: si era sdraiato sul lettino e come uno che si faccia una fotografia con 1'autoscatto aveva contato fino a dieci... La speranza sembrava vegliarlo, ed era indiscutibilmente la speranza: un volto bianco lunare, capelli lisci e quieti come l'acqua nelle vasche, sulle labbra il sorriso gelido e bruciante della Gioconda, le mani in grembo, se non erano serpi, celate dalle pieghe della veste. Non si sa, è inutile, che cosa abbia in mano la speranza. Magari nasconde tutto il piacere del mondo, nei suoi pugni chiusi, oppure l'antico trucco finirà un giorno, la vedremo agitare nell'aria due rossi moncherini e ridere definitivamente di noi. Le dissi, indicando il povero giovinetto: “Eccone uno che non vi appartiene più. Forse avreste potuto aiutarlo, ma siete arrivata tardi?” La speranza disse: “Al contrario. Non l'ho mai abbandonato. Ero con lui quando ha irreparabilmente agito; anzi, vedete, sono ancora qui”. A partire da qui inizia un dialogo tra l'autore e la speranza fatto da reciproche incomprensioni, fino a quando di nuovo rivolgendosi alla speranza viene detto: “E voi.., qualsiasi imbecille, qualsiasi pezzente vi chiami, voi gli date retta. Non negatelo siete stata vista con un mendicante, con un gobbo, con un negro”. “Era un negro?” “Vorreste farmi credere che non lo sapevate?”. La speranza non rispose.... “I miei occhi, li avete veduti?”... Cercai lo sguardo della speranza, ma non c'era: lontani e vuoti, i suoi occhi di un tenue azzurro non ricevevano né immagini né colori; mi resi conto che la speranza è cieca. Continuò a sorridere, mi salutò dicendo: “Hanno commesso un gravissimo errore i vostri artisti di ogni tempo. Non la fortuna dovevano raffigurare bendata. La fortuna trova sempre, a colpo sicuro, gli individui più immeritevoli dei suoi doni. Non sbaglia mai, è ben raro che si comprometta, come me, con mendicanti e negri. Rettificate, vi prego: diffondete la notizia che la speranza è cieca: la speranza non sa di chi siano, ditelo, le braccia che le si tendono; chiunque può ingannarla e chiunque lo fa”.

Questa esemplificazione permette di verificare le grandi differenze che intercorrono tra la visione pagana della speranza e quella cristiana. La prima la vede come ultimo appiglio concesso all'umanità per non naufragare nel mare delle difficoltà e dei disastri - si pensi al vaso di Pandora - la seconda la vede, invece, come provocatrice e sorgente di senso. Per la prima, la speranza si collega spesso e volentieri all'utopia come un qualcosa di irraggiungibile e costitutivamente esposta all'incertezza e alla delusione, perché rimane un tendere senza avere certezza di poter raggiungere; per la seconda, la speranza è legata al presente e chiede di rimanere fedele ad essa nella certezza della fede.

Uno dei problemi fondamentali che il cristianesimo oggi vive, è certamente quello della comunicazione. Abbiamo vissuto per secoli all'ombra dell'imperativo petrino: “Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza presente in voi a chiunque ve lo domandi” (1 Pt 3,15) e oggi dobbiamo costatare che, nell'indifferenza generale, siamo nella condizione che più nessuno chiede della nostra speranza, obbligandoci così a provocare la stessa domanda. E' in questo orizzonte che sorgono i problemi più urgenti per l'evangelizzazione. Abbiamo un linguaggio capace di comunicare la verità della fede, perché vicino al linguaggio del nostro contemporaneo? Ho timore a rispondere, conoscendo già il contenuto negativo della risposta. Abbiamo anzitutto bisogno di conoscere il nostro contemporaneo - senza dimenticare che il cristiano stesso è il nostro contemporaneo perché respira la stessa aria culturale - e di porlo davanti a noi con tutta la crudezza dell'analisi possibile.

Vi è una scritta che campeggia sulla riva destra del Tevere all'altezza di Ponte Garibaldi: Keine Schönheit ohne Gefahr! Senza pericolo non c'e bellezza alcuna. Vorrei tentare di descrivere il nostro contemporaneo, nella sua attesa di speranza, proprio a partire da questa scritta. Fino ad alcuni decenni fa per provare i brividi del pericolo e, quindi, l'ebbrezza della bellezza, bisognava trasmigrare in terra straniera, verso popoli e culture diverse dalla nostra. Oggi, invece, la paura e il pericolo sono entrati a pieno titolo nel centro delle nostre città e nel mezzo della nostra vita, senza consegnarci, in cambio, bellezza alcuna. Venendosi a modificare il rapporto con la “vita” ne è derivato, conseguentemente, un modificato rapporto con la speranza.

Non è retorica affermare che il nostro contemporaneo vive una situazione paradossale e per molti versi contraddittoria nei confronti della speranza. Da una parte, caduto nella trappola dell'efficientismo, egli rincorre solo l'immediato senza più avere progetti per il futuro; dall'altra, se appena è in grado di alzare i propri occhi per guardare al di là dell'efficienza, scopre che ha una sete immensa di speranza. E' necessario fare dei passi indietro per capire Io stato di questa crisi, perché i movimenti culturali che oggi viviamo hanno sempre radici più profonde di quanto pensiamo. Le delusioni per la speranza iniziano per noi all'inizio di questo secolo. Come inizio di ogni secolo, anche il nostro si presentava foriero di buoni auspici. Il progresso, soprattutto, appariva come la vera conquista che avrebbe fatto compiere un salto nella qualità della vita. Ma non sono passati che pochi anni e il 1914 ricorda a tutti lo scoppio della prima guerra mondiale. Al di là delle interpretazioni, essa indica che la società, pur avanzata, non riesce a trovare forme di convivenza internazionale che sappiano rispettare le peculiarità di ognuno. Ciò che emerge è il predominio dell'una sull'altra. La seconda guerra mondiale non farà che radicalizzare questa prospettiva. Non è un caso che i] marxismo come ideologia, prima, e come sistema politico, poi, si sia costruito proprio sulla volontà di creare ed attuare un progetto che fondasse la sua consistenza sulle relazioni sociali come perno per il cambio della società. L'internazionale socialista non era che il preludio per una visione mondiale che abbandonati gli schemi borghesi delle classi, attuava l'unicità della classe.

Se Auschwitz aveva rappresentato il sogno folle di esaltare la razza, il Gulag diventava nei decenni successivi il segno della follia del dogmatismo autoritario marxista. Si era puntato tutto sul collettivismo e ci si ritrova a fare i conti con l'individualismo che ha in Nietzsche il suo maestro più rappresentativo. A tutto questo si aggiunga l'evoluzione avvenuta nelle scienze. Fino alla fine della seconda guerra mondiale la certezza era la parola d'ordine della scienza. Ciò che la scienza raggiunge e produce è sicuro, certo e vero. Dovevano sorgere le teorie di K. Popper per mostrare che anche la scienza, anzi soprattutto la scienza, non ha carattere di certezza, ma solo di provvisorietà e probabilità. L'unica certezza che si può raggiungere è quella probabilistica e coloro che ne sono più sicuri sono proprio gli scienziati! Ai problemi nazionali, subentrano oggi quelli mondiali e planetari. I fallimenti delle diverse organizzazioni delle Nazioni Unite sono sotto gli occhi di tutti e mostrano l'incapacità a risolvere problemi che spaziano da quelli economici a quelli armamentari e della sicurezza. Un ultimo riferimento in questo orizzonte, va fatto obbligatoriamente sulla situazione internazionale attuale che vede conflitti sempre più profondi a livello delle determinazioni etiche del vivere sociale. La speranza per la vita e per diverse forme di vita che partirebbero dalle determinazioni degli individui, ha aperto lo spazio alla ricerca biogenetica e non sappiamo ancora dove essa andrà a parare; dall'altra parte la sfiducia nella continuazione della vita in uno stato di sofferenza, porta a valutare la determinazione della propria morte. E' falso affermare che vi è neutralità nelle scienze e, pertanto, tutto è lecito. Non solo si deve giudicare l'uso che viene fatto della scienza, ma insieme ad esso si deve considerare il fatto che ogni scoperta, persa la neutralità, ha alle sue spalle una particolare antropologia o visione del mondo. La conseguenza che ne deriva, nell'ordine pratico legislativo e sociale-politico è quella di una mancanza di normatività etica che obbliga a rinchiudere il tutto nella sfera del privato. Al soggettivismo culturale si aggiunge l'individualismo della determinazione etica senza rendersi conto della micidiale miscela che si viene ad innescare.

Sembriamo persone che stanno sognando a occhi aperti e confondiamo tutto non distinguendo più tra realtà e fantasia, tra il bene e il male, tra ciò che è frutto della fede e ciò che è solo prodotto ideologico. Più lo sguardo si affaccia sul futuro e più sembrano crescere i dubbi e la confusione. Dovremo pur chiederci perché l'occidente mostra con sempre più accentuazione i segni di una follia generale. C'è in molti una situazione patologica di angoscia che nasce dal dubbio e sfocia nella disperazione. Ciò che viene vissuto non è più dramma, ma tragedia che impedisce di vedere una soluzione positiva.

Ciò che sta davanti ai nostri occhi è, comunque, una società vecchia. Non solo per il problema della natalità, ma perché incapace di progettare il futuro. I segni di una Società vecchia sono facilmente riconoscibili: si percepiscono nella paura che accompagna ogni decisione e nell'incapacità a saper scegliere il rinnovamento. Il timore del generare è essenzialmente paura del futuro e di ciò che esso riserva, perché non si è più in grado di guidarlo e progettarlo a partire da noi. Solo la coscienza che si sta mentendo è in grado di definire “progresso” ciò che è invece decadenza. In quelli che vivono solo di nostalgia - puntando tutto sul passato e rompendo quindi la relazione passato-presente - e sono tanti, la paura ha il sopravvento sulla speranza e questa viene combattuta in nome della tradizione, senza rendersi conto che la tradizione o è viva e produttrice di futuro o non è tradizione. Parliamo di crisi, ma con onestà dobbiamo ammettere che più che altro noi fotografiamo la crisi senza avere molta determinazione per uscirne né molta forza per contrastarla. Qui entra di nuovo in gioco la missione dei credenti come testimoni di speranza. In questo orizzonte diventa maggiormente comprensibile l'esperienza dell'uomo biblico che non riusciva più a credere agli annunci di speranza che gli venivano rivolti dai profeti. Per l'uomo veterotestamentario, la promessa della terra e di un popolo erano condizione di vita. Jhwh era stato conosciuto come il Dio della promessa. Ora, però, loro non hanno più né patria né famiglia, né tempio né desiderio di credere ancora... Come è possibile sperare se nel presente vedo solo deportazione ed esilio? E' qui che si gioca la grande sfida della fede biblica e il profeta pone la sua credibilità. Sorgeranno allora Isaia, Geremia ed Ezechiele per ridare speranza ad un popolo in piena crisi di fede. Questa, analogicamente, è la stessa condizione che vive il cristiano nel mondo contemporaneo. In un periodo in cui nel nostro vocabolario sono entrate con impeto parole come: precarietà, degradazione... come si potrà di nuovo porre fede alla parola di salvezza? Il sorgere di nuovi profeti che, nella Chiesa e a nome della Chiesa annunciano un rinnovato esodo e l'entusiasmo per la terra promessa è ciò che serve per rinforzare la speranza.

Conclusione

A partire dalla ristrutturazione urbanistica del Settecento, quando i pellegrini arrivavano a Roma, la prima vista che avevano della città erano i quattro obelischi che indicavano loro la collocazione delle quattro basiliche maggiori. Allo sguardo affaticato del pellegrino l'obelisco indicava che la meta era stata raggiunta, nonostante la fatica e i mille pericoli che il viaggio comportava. Nei giorni successivi si sarebbe messo di nuovo in viaggio, attraversando la città eterna, per raggiungere la meta del suo pellegrinaggio; la speranza che lo aveva accompagnato, ora diventava realtà. Era giunto a Roma, alla tomba di Pietro, per professare la fede e celebrare l'anno Santo. Il sogno che lo aveva guidato gli permetteva adesso di godere della sua presenza a Roma come di un'oasi in mezzo al deserto.

Nella grande città del mondo, vedo oggi diversi obelischi che dovrebbero riportare alla mente di questo uomo affaticato e affannato, tanto da non avere più neppure il tempo per pensare a se stesso, uno spazio di silenzio e di contemplazione. Questi obelischi potrebbero essere i diversi santuari che si ergono ancora come spazi di speranza per quanti hanno ancora forza per sognare e coraggio per testimoniare.

Non si dimentichi, che la speranza oggi, per molti che non credono, potrebbe essere il nuovo nome della fede e, in ogni caso, una speranza vera non è altro che un cammino verso la professione della fede. Mi fa compiere questa considerazione il romanzo postumo di I.Silone, l'uomo che fino alla fine ha voluto esprimere la sua ricerca di Dio senza poter arrivare a professare la fede ecclesiale. Nel suo ultimo romanzo autobiografico, Severina, narra di una suora che in preda ad una crisi di fede lascia il convento. La sua vita è una continua ricerca di Dio; questi, però, poco alla volta diventa solo un'idea e non le dice più nulla. Severina partecipa a diverse attività, si mostra utile agli altri e un giorno, intervenendo a una manifestazione, per sbaglio viene colpita a morte. E' portata in ospedale. Al suo capezzale accorre immediatamente una consorella di un tempo, presa dalla preoccupazione di farle professare la fede. A Severina ormai morente, la suora chiede con insistenza:

“Severina, Severina, credi?” E Severina rivolgendole lo sguardo risponde: “No, però, spero”. Ecco il dramma della nostra epoca e, nello stesso tempo, l'offerta di una mediazione per poter continuare a comunicare e ad annunciare il vangelo. Non trovo conclusione migliore del rimando a due espressioni che tutti conoscono e che potrebbero facilmente divenire i pilastri che aiutano nella comprensione di un progetto di evangelizzazione che accompagna la Chiesa in questo pontificato di Giovanni Paolo Il. Il santo Padre iniziava il suo servizio petrino nell'ottobre del 1978 con le parole: “Non abbiate paura, aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo”. Era un invito pressante al coraggio della fede nel Signore risorto. Sotto la forza della fede e la costanza della testimonianza le porte si sono aperte e perfino dei muri sono caduti. Molte porte, purtroppo rimangono ancora chiuse perché non c'è limite all'egoismo e la gelosia per un riduttivo concetto di libertà vieta di saper guardare al di là di noi stessi. Ecco che in questi giorni viene di nuovo l'invito pressante a saper “Varcare le soglie della speranza”. Vi è tanta poesia e tanto realismo in questa espressione che si coglie intuitivamente. Varcare la soglia dice tutto: coraggio per non rimanere fermi in sé; entusiasmo per sapere che la soglia è il luogo dell'ingresso verso un mondo che permetterà di gustare in pienezza i frutti della promessa; libertà di compiere un gesto, il primo passo che compete a noi e a nessun altro in prima persona... Ritornano alla mente le parole dell'Apocalisse: “lo sto alla porta e busso”. Nel coraggio di aprire quella porta e varcare la soglia per mettersi alla sua sequela vi è il senso di tutta una vita e una missione ecclesiale che, nei diversi ministeri. ci rende tutti responsabili per la salvezza di questo mondo.

Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it 

Il ruolo della ragione nella decisione di credere in Cristo
Solo nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell'uomo 
Il matrimonio come sacramento e il suo rapporto con la realtà naturale del matrimonio 
Il compito della catechesi oggi ed i suoi problemi
Lettera sulla "teologia biblica del deserto" 
Testimoniare il Vangelo nell'Università 
La fede e la preghiera
Trasmettere la fede, il consegnare se stessi di Dio e dell’uomo 
Fede e politica 
Educare ai valori per sconfiggere il relativismo 
La cultura cattolica: identità e forza educativa di una tradizione 
Comunicare Cristo ai giovani

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 12:16 pm | | Default

La Pasqua, centro della storia della salvezza (tpfs*), di d.Andrea Lonardo (articolo pubblicato dalla rivista dell'Ufficio Liturgico della Diocesi di Roma, Culmine e fonte, numero 2, anno 2004)

“Tutto ciò che non va diritto alla carità è figura. L'unico oggetto della Scrittura è la carità”. Con la citazione di queste parole di B.Pascal si apre Solo l'amore è credibile di H.U.von Balthasar. E' l'affermazione inequivocabile dell'esistenza di un centro. 

La Pasqua evento Trinitario

E noi non possiamo non comprendere la Pasqua, innanzitutto, che come evento dell'amore Trinitario, centro di tutto ciò che esiste.
“Come il Padre ha amato me” (Gv 15, 9): è il Padre che, per amore, chiede al Figlio di donare la sua vita. Per amore non solo degli uomini, ma per l'amore stesso che ha per Lui, il Figlio. L'amore esige, chiede, perché l'altro sia fino in fondo ciò che è e si consumi nel dono completo.
Ed il Figlio ama il Padre da cui è amato e mandato. Il suo sacrificio pasquale sulla croce è realizzazione in terra dell'abbandono e dell'amore eterno che il Figlio ha verso il Padre: “Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14, 31). E' la realtà dell' “amore più grande” che non da tregua al cuore dell'uomo, fino a che non arrivi al dono di sé.
Sarebbe allora un grave errore vedere nella resurrezione solo qualcosa fatto per gli uomini. Essa è di nuovo la realtà dell'amore del Padre che solleva il Figlio dal letto di morte. E' un amore che non solo da inizio, ma che porta a compimento. Il Figlio è riconosciuto dal Padre nell'eternità ed in ogni passaggio della sua esistenza storica, nelle proclamazioni del Battesimo al Giordano e della Trasfigurazione, nell'evento della Resurrezione - “Dio lo ha resuscitato dai morti!” (At 3, 15). E' il motivo della grande nostalgia del cuore umano che sempre chiede di essere riconosciuto, dopo essere stato generato, confermato, dopo essere stato inviato, accompagnato, dopo esser partito.
Ma il Padre ed il Figlio non solo si amano scambievolmente. Essi pure amano insieme. E' la presenza dello Spirito Santo, è il mistero dell'eterna fecondità della pericoresi trinitaria – annuncio segreto che non esisterà mai vero amore umano che non sia generativo, fecondo di nuova vita. Il cerchio non si chiude nell'amore del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre. Dal loro amore “procede” lo Spirito Santo nell'eternità e la Pentecoste nella storia. La Pasqua è centro perché lì, nel dono dello Spirito Santo, ha inizio la Chiesa ed il tempo, da allora, si protende con essa verso il domani, verso la Gerusalemme celeste, realtà non diversa dalla stessa Chiesa, bensì suo compimento pieno.
Veramente non possiamo parlare della Pasqua, senza parlare della Trinità!

La storia della salvezza fino al dono del Figlio

Tutta la storia della salvezza, raccontataci dalla Bibbia, è cresciuta verso questo vertice di realtà. Agli insipienti che affermano che Gesù non sia stato cosciente di essere il Figlio, l'unico Figlio, il diletto Figlio, la Chiesa risponde proprio raccontando la Pasqua. E' proprio sulla spianata del Tempio, nei giorni che precedono e causano la croce, che Gesù parla ancora in parabole. I sinottici ricordano la prima raccontata al Tempio in quegli ultimi giorni di importanza straordinaria, verità di tutto ciò che Gesù più vuole sia accolto e compreso.
In Mc 12, 1- 12 e paralleli si snoda il racconto del padrone della vigna che inviò un servo, poi un altro, poi altri ancora, a chiedere conto, a testimonianza del suo amore per la fecondità fruttifera di questa vigna. Ma il cuore della parabola è più in là. Non è in gioco soltanto che la vigna – il popolo, quel Tempio, la vita umana stessa – non sia proprietà degli uomini, che anzi hanno ricevuto tutto solo in affidamento e ne debbono rendere conto, ma, soprattutto che al padre, dopo tanta cura per la sua vigna, sia rimasto solo uno, il figlio prediletto! Tanti servi, tanti inviati, giudici e re, messaggeri e profeti –e fra essi anche Giovanni il Battista – aveva mandato alla sua vigna. E' da ultimo, che ha deciso di inviare il suo Unico e prediletto Figlio. “Avranno rispetto per mio figlio”, si era detto fra sè! Straordinaria è la memoria lucana che ben comprende il senso di questa parabola. Il Padre fa seguire alla domanda che medita tra sé e sé – “Che devo fare?”, cioè, potremmo dire: “Le ho provate tutte, come posso ancora dargli una chance?” – la risposta: “Manderò il mio unico figlio; forse di lui avranno rispetto”.
Ecco la chiara coscienza della identità di Gesù che sa di essere assolutamente diverso da tutti coloro che il Padre ha inviato prima di Lui.
E' l'annunzio del contenuto della fede. Se anche nessuno vivesse la verità, essa resta la verità. Bisogna averlo questo coraggio della verità. Non è perché Gesù è accolto che diviene il Figlio. Egli è il Figlio, anche se tutti lo buttassero fuori dalla sua vigna. L'uomo, a volte, ha come paura della verità, pensa che essa possa poi essere costrizione, imposizione schiavizzante. E', in realtà, vero l'opposto. E' proprio nell'assenza della verità che l'uomo vive nell'arbitrio e diviene dittatore o servo ed il messaggio dell'evangelo si annacqua in seduzione, confezione di prodotto suadente, gadget, simpatia superficiale che cerca di conquistare l'uomo. La verità sola crea quella distanza, quel distacco che ti obbliga a riflettere, a decidere. La verità precede, viene prima dell'adesione dell'uomo. La pericope si conclude con la constatazione. “Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro”. E' una parola detta al cuore del problema ed al cuore dell'ascoltatore. Ma non è proprio questa l'opera dell'amore: appellarsi alla libertà dell'altro, perché l'altro possa vedere la verità sua e della realtà?
E' proprio nella passione che abbiamo la rivelazione più alta nella stessa bocca di Gesù del suo essere Figlio. Nella proclamazione altissima dinanzi al sommo sacerdote (che domanda “Sei tu il Cristo, il Figlio del Dio benedetto?”): “Io lo sono!”. Nella preghiera del Getsemani dell'Abba, Padre. Nelle preghiere sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” e “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
Ecco il centro della storia della salvezza! Ecco il Figlio! Colui “per mezzo del quale sono tutte le cose” è finalmente in mezzo a noi.

Il nuovo culto reso a Dio

Proprio per il dono totale ed irrevocabile del Figlio la Pasqua diviene la fine dell'antico culto e l'inizio del nuovo. Sarebbe possibile vedere tutto questo da molteplici prospettive. Vogliamo qui presentarne una sola, a chiarificazione ed introduzione: è l'annuncio del nuovo Tempio.
In Mc 11, 11, l'unico luogo che sembra interessare Gesù, a Gerusalemme, è proprio il Tempio (e questo ben prima del vangelo di Luca che, come sappiamo, lo ha come punto di riferimento costante). Le due azioni sembrano addirittura coincidere: Gesù entrò a Gerusalemme, Gesù entrò nel Tempio. Immediata segue una frase solo apparentemente misteriosa: “Dopo aver guardato ogni cosa attorno, uscì”.
Soffermiamoci un istante a riflettere sul significato della presenza del Tempio nell'Antica e nella Nuova Alleanza, con l'aiuto delle meditazioni che d.Umberto Neri pronunziò nel pellegrinaggio dei preti e seminaristi di Roma, in Terra Santa nel 1990 [1] :
 
La questione dei templi: per capire il ruolo del tempio nella tradizione di Israele occorre un attimo ricomprendere tutta l'antropologia e tutta la teologia di Israele, quindi ricondursi all'idea originaria. Mi baso sui testi della tradizione rabbinica, evidentemente, per questo, ma la Scrittura li legittima totalmente. Corrispondono questi testi ad una lettura oggettiva dell'Antico Testamento ...
L'uomo è stato creato come essere colloquiante con Dio. E il paradiso è il luogo di questo colloquio con Dio. E la cacciata dal paradiso, più che come in una lettura non corretta dal punto di vista teologico e spirituale spesso fatta fra di noi, vista come grave di conseguenze per il faticare dell'uomo, per la sua stessa morte, è vista come la catastrofe in quanto allontanante dal luogo dell'incontro personale con Dio. La restitutio quindi dell'uomo, la redenzione dell'uomo, dell'umanità, la storia della salvezza si disegna tutta come un ritorno al luogo della communio con Dio, della comunione edenica… Ci sono dei testi numerosissimi nei quali si parla delle diverse generazioni che si succedono alla prima generazione quella di Adamo, come generazione nella quale la Shekinah si allontana di un gradino, poi di un altro, poi di un altro, poi di un altro, poi di un altro fino al punto supremo dell'allontanamento che è costituito dalla generazione della separazione, della dispersione, la generazione della Torre di Babele, l'ultimo grado di separazione. E poi i riavvicinamenti progressivi che iniziano con la storia di Abramo. La storia di Abramo è la storia del ritorno, dunque di questo riabbassarsi della Shekinah, della dimora della Gloria di Dio, al livello dell'uomo, in modo da riavvolgere l'uomo e ricomprenderlo nella communio. Questo è il discorso. Quindi il viaggio di Abramo verso la terra che Dio gli indicherà, è il viaggio con cui Abramo inizia la riconduzione dell'uomo alla communio con Dio. E' per questo che, arrivato nella terra, - “questa è la terra” - comincia subito a costruire degli altari. Non è soltanto una presa di possesso, ma è la qualifica della terra come il luogo nel quale si può ritrovare il colloquio con Dio, e dal quale è legittimo innalzare a Dio la supplica e nel quale è giustificato attendere da parte di Dio la benedizione....
 
Gesù “guardando ogni cosa intorno”, manifesta di essere il vero responsabile di ogni rapporto sacramentale con Dio. Egli è il signore del Tempio, è colui che viene a prenderne possesso, è colui che ha il diritto sul quel luogo, perché ne ha la potestà sacramentale!
Ed ecco che il giorno dopo, nuovamente, incorniciato dall'episodio del fico sterile, Gesù torna a Gerusalemme e di nuovo l'unico luogo menzionato è il Tempio: nient'altro gli interessa, ma attraverso quell'interesse è in gioco tutto il rapporto di Dio con gli uomini!
E' il secondo ingresso, al v. 11, 15 nel Tempio. Marco sottolinea che non vengono cacciati da Gesù solo i “venditori” di oggetti, ma anche i “compratori” e chiunque “portasse cose attraverso il Tempio”! E' la manifestazione non tanto della malizia morale di chi guadagnava sulle offerte, ma della fine, del compimento di un modo di vivere il dialogo con Dio. Dio manifesta che il suo amore non si può acquistare! Che il trasportare cose in suo nome, non è motivo della comunione fra l'uomo e Dio. Viene il momento in cui l'unico sacrificio gradito a Dio è la vita del suo stesso Figlio, Figlio offerto e non acquistato, da accogliere e non da costruire.
Marco, con le sue sottolineature, ci manifesta l'unitaria comprensione della Chiesa apostolica nei confronti della realtà di Cristo, nuovo Tempio. Citiamo ancora d.Umberto Neri:

Il testo a questo riguardo più significativo, che però ha degli elementi altrove inconfutabilmente corretti, corrispondenti, è il capitolo II del Vangelo di Giovanni, dove Gesù dice, dopo avere scacciato i venditori dal tempio: “Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro”. Non per protestare contro lo sfruttamento dei poveri!. Non ha motivo per protestare contro le classi abbienti che sfruttavano i poveri facendo fare loro offerte al Tempio – ecco allora commentari che parlano in questo modo di un Gesù come riformatore sociale che scaccia i creditori dal tempio! Non si possono dire cose di questo genere - credo che anche a lui interessasse che i poveri non fossero sfruttati. Ma non lo fa certamente per quello! Lo fa per dichiarare finita ormai la liturgia, con un gesto profetico, la liturgia del Tempio! E' sostanzialmente conclusa. Conclusa perché? La giustificazione è data dopo. “Quale segno fai per scacciare questi venditori e per ripulire il Tempio in modo che non si possano fare più sacrifici, non ci sono più animali, venditori ecc. tutto questo ordine di celebrazioni non c'è più?” La giustificazione: “Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro e uno nuovo e non manufatto”. E i discepoli non capirono, ma capirono soltanto dopo che alludeva al Tempio del suo corpo. Allora il nuovo Tempio! Il Tempio non è distrutto, il Tempio è sostituito. Nessuna delle realtà dell'Antico Testamento è distrutta, sono tutte sostituite Tutte sostituite, tutti i sacramenta “veteris Legis” sono ripresi nei sacramenti “novae Legis” altrimenti sarebbe un impoverimento colossale invece non è così. Tutto, tutto! E il Tempio stesso è ripreso perché c'è un luogo solo donde salgono a Dio le preghiere gradite, l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'unico luogo sul quale è aperto il cielo, l'unico luogo sul quale si posa lo sguardo compiaciuto di Dio, il luogo anzi in cui dimora corporalmente la pienezza della divinità che è il corpo del Cristo. Il corpo del Cristo è il nuovo Tempio. Ugualmente essenziale tanto l'antico, anzi ancor più essenziale, perché nessuna preghiera può innalzarsi a Dio se non per Dominum nostrum Jesum Christum, Tempio. E questo nuovo Tempio è il Tempio messianico, è il corpo stesso glorificato del Cristo, verificato come Tempio nuovo anche da ciò che Giovanni per esempio fa osservare sull'acqua che scaturisce dal fianco trafitto del Cristo, che è l'acqua che sgorga dal lato destro del tempio di Ezechiele, il Tempio messianico, ed è l'acqua del sacrificio che sgorga continuamente dal Tempio, come già in Zaccaria 12–13.

Segue subito dopo la splendida pericope di Mc 11, 27-33. E' il terzo giorno, ed è la terza volta che Gesù va diritto al Tempio e “si aggirava” in esso. Non solo ne ha cacciato gli altri, ma egli vi “resta”. E' il suo luogo, è il “suo” Tempio. Chi cerca Dio deve ora passare attraverso di Lui. Subito “i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani” si accorgono – a differenza di commentatori moderni! – che Gesù sta affermando la sua “autorità”, che Gesù sta chiedendo che sia riconosciuto il suo essere da Dio.
“Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l'autorità di farlo?”. Come puoi dichiarare decaduto ciò che Dio ha stabilito?

Il tempo che viene dopo la Pasqua

La Pasqua non è così solo preparata, annunciata, fin dai primordi della storia della salvezza, ma si proietta in ogni epoca a venire, fino alla parusia, fino al ritorno del Cristo nella gloria. E' luogo di nascita della novità cristiana. E' solo la dimenticanza della rilevanza del tema della Chiesa che porta talvolta ad affermazioni come: “Nulla è cambiato dalla Pasqua nella storia degli uomini, tutto procede come prima!” L'annuncio pasquale, invece, dà vita alla primizia, al pegno, alla Chiesa. Essa è voluta e amata, come splendidamente dicono i primi capitoli della Lumen Gentium, non solo dal Figlio e dallo Spirito Santo, ma è pensata dal Padre stesso, prima della creazione del mondo.
Ci soccorre, a livello iconografico, la rappresentazione medioevale del Crocifisso, che bene interpreta la fede cattolica. Nelle Croci medioevali è manifesto che la salvezza giunga a noi attraverso la Chiesa. Maria e Giovanni sono sempre ai lati del Cristo in croce, a rappresentare tutta la Chiesa. Al loro fianco la figura di una seconda donna, nuovamente la Chiesa stessa, che raccoglie in una coppa il sangue (è l'ordine dei sacramenti, che nasce dal costato trafitto del Cristo, da cui sgorgano sangue e acqua, eucarestia e battesimo). E solo quando il simbolismo passa in secondo piano, che, nell'evoluzione della rappresentazione pittorica, il sangue viene raccolto da coppe tenute da angeli e portato verso il cielo oppure scende semplicemente sul corpo del Trafitto e sul legno della croce. Senza questa coscienza ognuno sembra accogliere singolarmente lo zampillo del sangue che sgorga e Maria e Giovanni divengono solo memoria di un dolore. In un Crocifisso di Lucas Cranach a Wittenberg, ad esempio, il sangue cade direttamente sulla testa del pittore, fra Giovanni Battista e Lutero.
La Pasqua è centro perché è il momento della nascita della Chiesa, che rende presente l'opera del Risorto in ogni luogo ed ogni tempo.

L'eternità come comunione con il Risorto e con i suoi santi

Anche l'eternità è nuova, dopo l'evento pasquale. L'uomo, nei secoli e nelle differenti culture, aveva sognato o temuto l'eternità, l'aveva immaginata come prolungamento della vita di questa terra o come dissolvimento della realtà individuale.
Solo ora, dopo la Pasqua, essa si manifesta come comunione con il Risorto ed, in Lui, con la Trinità. Quel vino “che sarà bevuto nuovo nel regno di Dio” rimanda all'immagine del banchetto eterno del Cristo e dei suoi eletti.
L'Inferno appare nella sua spaventosa e gelida solitudine come estremo ed eterno rifiuto di qualsiasi comunione e amore, come totale isolamento di chi si chiude all'amore di Dio e del fratello e non vuole nemmeno sentire la parola del perdono – e la Chiesa prega, su invito dello stesso Signore, perché nessuno vi possa avere dimora eterna.
Il Purgatorio manifesta la serietà dello svelamento operato dalla rivelazione della pienezza dell'amore del Cristo. Dinanzi al suo totale e perfetto amore saranno un giorno manifeste tutte le mancanze, i peccati, le occasioni di bene rifiutate e trascurate – ed in terra nascoste agli occhi altrui – ma il dolore provocato dalla loro manifestazione, punizione redentiva e purificatrice, sarà trasfigurato nell'abbraccio dell'amore del Cristo che, con gli immensi meriti del sacrificio della croce, salverà.
Il Paradiso sarà la celebrazione piena della comunione di Cristo con gli uomini. Non ci sarà più matrimonio, non perché l'amore scomparirà, ma perché la carità stessa di Dio sarà tutta in tutti. Il Signore e l'Agnello stessi (Ap 21, 22) saranno il Tempio.
Ecco la Pasqua, non evento isolato ed erratico, ma senso e pienezza del mistero umano e divino del vivere.

d.Andrea Lonardo

Note

[Nota 1] I testi integrali di quelle meditazioni, unitamente a quelle di d.Giuseppe Dossetti che si alternarono alle prime, sono on-line con il titolo Irremovibili dalla speranza del Vangelo, nella sezione I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 12:14 pm | | Default

Omelia della Veglia della notte di Pasqua 2004 (tpfs*), di don Andrea Lonardo

Veramente la notte di Pasqua è il momento in cui capire finalmente tutta la nostra vita. La possiamo amare di più, perché la poniamo dinanzi alla vita di Dio. Come poniamo la vita dei bambini che fra poco battezzeremo nelle mani di Dio, così facciamo di tutta la nostra esistenza. Nelle due letture dei profeti abbiamo ascoltato che è il Signore che ha creato le stelle, che ha creato il mondo, che ha creato gli animali e che le stelle gioiscono alla sua voce, alla sua presenza. Dio innanzitutto noi lo contempliamo in questa notte come Colui che è l'amante della vita.
E' perché, innanzitutto, Dio ha creato la vita che ci ha invitato, già per questo fatto, insieme a tutti gli uomini, a credere nell'eternità. Vedete questi bambini non potrebbero essere eterni, se Dio non li avesse creati! Noi non preghiamo per loro perché abbiamo paura che muoiano, ma preghiamo per loro perché hanno origine da Dio. Perché se non nascessero da Dio, se la loro origine non fosse Dio, perché dovrebbero vivere per sempre? Il materialismo è proprio la convinzione che tutto è materia, che tutto è caos, tutto è cellule, molecole, ormoni, senza desiderio, senza volontà, senza libertà, soprattutto senza la creazione di un Creatore amante della vita. Ma ciò che non nasce da Dio, come può vivere per sempre? Ciò che è frutto del caso, ha vita eterna? E' perché Dio è all'origine di tutto che i libri della Scrittura lo chiamano “Dio, l'amante della vita”. Già a Natale riflettevamo insieme su come noi non possiamo non comprendere Dio come il Dio felice di essere Dio e di creare la vita. La Scrittura ci parla della varietà degli animali, della natura, delle piante. Questa infinità di specie che esistono, è Dio che l'ha voluta. Dio ha fatto sorgere nell'uomo l'idea di eternità, lo ha preparato all'eternità, dichiarandosi il creatore della sua vita. Nessuna vita umana è un caso! Sapete noi diciamo spesso che una persona che veramente ama è capace di partecipare alla sofferenza di un altro. Certo questo è vero, ma una persona ama veramente un altro soprattutto se è capace di partecipare alla sua gioia. Chi non è capace di partecipare alla vita e alla gioia di un altro non sa amare. Ma non perché è cattivo: perché non ha compreso il Dio della vita e della gioia. Che bella la vita di persone che stanno bene, solo perché vedono un altro stare bene! La caratteristica del credente è di avere talmente nel cuore questo Dio della creazione, della vita e della gioia, da essere felice dell'esplosione della vita. Essere felici di questi bambini, di voi genitori, della vita, del mondo, delle persone, del cosmo, del creato. Perché la vita non è frutto del caso. Realmente nella Resurrezione di Cristo noi vediamo non un meteorite estraneo alla nostra vita, ma il compimento dell'opera che Dio ha cominciato.
La tragedia dell'uomo è la sua pretesa di essere felice senza volere e sapere partecipare alla gioia del fratello ed alla gioia di Dio! Noi non siamo felici non perché ci manchi qualcosa, ma perché pretendiamo di essere felici senza gli uomini e senza Dio! Non appena partecipiamo alla gioia dell'uomo, del creato, e soprattutto, del Creatore, ecco che nella vita sgorga il ringraziamento. Essere nella gioia ed essere nella gratitudine, in fondo, è la stessa cosa!
Ma prima ancora di essere Dio il Creatore, Dio è il Dio della vita perché Dio è amore in se stesso. Dio è già nella gioia prima ancora che esistessero questi bambini ed i loro genitori ed i loro nonni. Perché sono il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo che si amano. E' il mistero della Trinità. Noi sulla terra abbiamo capito questo, noi comprendiamo la croce di Cristo come il mistero del Padre che dice al Figlio: “Tu amerai”. Ed il Figlio che dice: “Sì Padre, io ti amo, chiedimi qualunque cosa e nell'amore la donerò”. E la Resurrezione è il mistero del Padre che richiama il Figlio alla vita, che lo ridesta. E lo Spirito è il dono di questa vita donata agli uomini. Questo Dio della vita, prima ancora che il mondo esistesse. L'incarnazione e poi la croce e poi la resurrezione rivelano a noi uomini ciò che Dio è da sempre e come è la sua vita nell'amore delle tre Persone!
Ed è per questo che nella lettura di Ezechiele abbiamo ascoltato che Dio “fa le cose per amore del suo nome”. Sapete, chi di noi fa le cose per amore del proprio nome è un imbecille. Chiunque di noi è infastidito da uno che dice sempre “io”. Chi dice: “Io ho fatto questo, io ho sofferto questo, io ho fatto quest'altro, ecc.”. Io, io e sempre io! A Roma diciamo: “Chi si loda, si sbroda!” Per una creatura fare le cose a lode della propria gloria è il disastro più grande. Quando uno chiede l'attenzione per sé ecco che gli altri gliela rifiutano. E giustamente! Dio è l'unico che può dire: “Io faccio le cose per la mia gloria”. Perché è il bene dell'uomo lodare Dio. L'uomo che non arriva a ringraziare Dio, ha fallito la sua vita. Dio “deve” chiedere all'uomo di lodarLo, perché l'uomo non sarà mai felice se non arriverà a ringraziare Dio.
In questa notte noi ascoltiamo tutta la storia della Salvezza: la Creazione, il passaggio dell'Esodo, attraverso i profeti l'annunzio della Salvezza e poi il battesimo, proprio perché noi ringraziamo Dio dell'opera che Lui ha fatto. Dio deve chiedere a noi di lodarlo. Ce lo deve chiedere per amore perché è la nostra stessa identità, è la nostra vita.
Vedete, noi comprendiamo in questa notte anche - sarebbero dei discorsi lunghissimi – come la Chiesa annunzi che in Dio non c'è il Male, anzi come Egli sia il nemico del male e sia il “vittorioso sul male”. L'uomo lo aveva già intuito in qualche modo. Un filosofo dell'antichità, Plotino, aveva detto: “La natura del Bene era già ciò che è, prima delle altre cose, quando il male ancora non c'era” (Enneadi , VI, 7, 23).
Ma è questa notte che ci fa comprendere e vivere la lotta di Dio contro il male. “Il male non è in Dio, né ha in sé nulla di divino, né viene da Dio” ha scritto lo PseudoDionigi Areopagita, autore cristiano, nel Trattato sui nomi divini, quasi parafrasando 1Gv 1,5: “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre”.
Dio è il Bene ed è il Creatore del bene. Il bene, nelle creature, è forzatamente limitato – questo lo avevano già compreso i pensatori non cristiani, avevano capito un aspetto del male come mancanza di bene, come bene non perfetto, dal momento che ogni creatura è limitata e soggetta alla morte. Dio dando la libertà agli angeli e agli uomini è andato molto oltre! Dio ha creato la possibilità di essere rifiutato. Il Male non è solo assenza di Bene, ma è opporsi ad esso, opporsi a Dio Creatore, rifiutarsi di lodarlo, di seguirlo, rifiutare la Sapienza che Dio ci ha donato. Ecco allora il grande dramma dell'uomo! Ed ecco l'Incarnazione, la Risurrezione, la liberazione dal peccato. E' l'opera di Dio dove l'uomo, per il peccato d'origine e per tutti i peccati che l'hanno seguito, ha sciupato questa bellezza della creazione, della propria vita e della vita degli altri. E prima ancora dell'uomo l'hanno sciupata gli angeli decaduti.
Vedete questa notte è una notte di speranza. Ma perché l'uomo ha bisogno di sperare, eppure non spera? Pensate a quanto è facile che accada – e forse questo tempo si caratterizza proprio per questo - una miopia verso il futuro. Quante persone non riescono ad avere un progetto che vada al di là di un anno? Lavorare per qualcosa che duri tutta la vita, vincere la paura di sposarsi, di rifiutare un bambino, diventando padri o madri, rinunciare al sorgere di una vocazione al sacerdozio od alla vita religiosa.
Perché è solo per la speranza che si ha nel cuore che si chiama un altro a vivere, che si progetta un futuro di servizio. Pensate a quanto disagio mentale, che non nasce dalla cattiveria, ma nasce proprio da una mancanza di speranza, di persone che danno coraggio, di punti di riferimento. Questa ansia che l'uomo ha per il peccato, perché ha perso la fiducia in Dio, ha perso questa comunione che dice a lui: “La tua vita è amata, tu puoi fare il bene. Tu lo farai”. Ecco anche la tragedia del terrorismo, così simile a tante altre realtà, con la sua idea del “tanto peggio, tanto meglio”! Sappiamo tragicamente che, se anche l'ONU intervenisse - e magari lo facesse, anzi dobbiamo lavorare perché questo avvenga - sarebbe a sua volta attaccato, come già è avvenuto mesi fa, come è stata attaccata la Croce Rossa, perché il fine del terrorismo non è quello di costruire, ma quello di distruggere. Il suo fine è proprio quello di distruggere ogni possibilità di dialogo. Guai a confondere il terrorismo con la difesa dei poveri. Sono due discorsi distanti anni luce tra loro. L'uomo che vuole uccidere il futuro! Il terrorismo è veramente nemico dei poveri, ed è ciò che più ancora di qualsiasi altra cosa deprime la possibilità dei popoli di crescere e crea problemi su problemi alle generazioni che verranno. Il difficile è costruire, non distruggere. L'opera della speranza non è devastare, ma proporre ipotesi di soluzione che possano essere accettate dalle varie parti e che indichino vie di cultura, di libertà religiosa, di crescita delle persone, degli uomini e delle donne e di ogni etnia.
Così la paura di prendere una decisione! Vediamo quanto è difficile trovare una persona che dinanzi ad un problema abbia il coraggio di dire: “Prendiamo una decisione, costruiamo, facciamo questo”. Però, nei disastri che il peccato degli angeli e dell'uomo hanno combinato, Dio non ha mai lasciato l'uomo. In tutto questo disastro del peccato, in questo non voler mai fidarsi di Dio e del suo futuro, l'uomo, per altri aspetti, ha continuato a credere, per la Grazia di Dio Creatore, nel futuro. La meraviglia dei bambini - guardate, anche quelli delle famiglie non cristiane! La grandezza della gioia del cristianesimo è questa capacità che Dio ha dato a qualsiasi uomo di fare una famiglia, di far nascere la vita, di commuoversi per un povero e di condividere la sua fatica, di scegliere di aiutare gli altri, di costruire, di lavorare, di pensare, di progettare.
Dinanzi a noi, dinanzi all'uomo che è sempre a rischio, lasciato a se stesso, di perdere la speranza, il futuro, Dio non ha mai smesso di creare la “natura” stessa, la vita stessa, il cuore, l'intelligenza, perché l'uomo comunque avesse forza e internamente si accorgesse di desiderare la speranza. Mi colpiva, durante il viaggio in Turchia, in un Paese lontano per certi aspetti dal mondo cristiano, vedere la meraviglia della primavera. Pensavo con quale profonda unità Dio ha pensato il genere umano. C'è la stessa primavera dappertutto, gli stessi alberi - o anche di specie diversissime - che fanno fiori e frutti. Dio, anche non accolto da nessuno, dà la meraviglia della sua opera, della sua Grazia.
Ma questa notte annunzia, vedete, che questo nostro desiderio di speranza, di futuro - perché chi pensa solo al presente perde tutta la vita, chi non sa dove andrà, chi non guarda lontano, sta perdendo anche il suo presente e il suo passato - viene radicato però nella Resurrezione di Gesù. Non siamo noi a dire cos'è il futuro, ma è Gesù a dire che il futuro è nelle sue mani. Vedete, il fatto che siano gli angeli ad annunziare la Resurrezione, è proprio la forza con la quale il Vangelo dice che la Resurrezione non la facciamo noi. Nessuno di noi può dare la Resurrezione ad un altro, né a se stesso, né a nessun'altra persona su questa Terra. Sono gli angeli che dicono: “Il Padre ha donato la vita al Figlio suo Gesù Cristo” o, che è la stessa cosa, “Il Figlio è resuscitato ed è salito al Padre”. E' l'annunzio che viene solamente da Dio. Dinanzi all'uomo che costruisce il futuro come lotta tra i popoli, le etnie, le classi sociali – così l'uomo ha pensato il futuro o l'utopia di esso nei secoli – dinanzi all'uomo che pensa al proprio futuro come se fosse solo nelle sue mani, questa notte annunzia che è Gesù il cuore del futuro, il cuore della speranza. Vedete la speranza è - tante volte ne abbiamo parlato - come la fede. Non basta dire “io credo”, perché la domanda forte è: “In chi credo?” Perché la fede ha un contenuto. Se tu non sai dire in chi credi, quella fede è una pura emozione, è un sentimento vuoto, non significa nulla. Così nell'amore, io amo una persona, ma poi mi accorgo che amo uno che tradisce, che non è fedele, che è stupido, sciocco. Per amare una persona devo davvero conoscerla. Così è per la speranza. La speranza ha senso in relazione al contenuto di questa speranza. S.Tommaso d'Aquino diceva che l'atto è specificato dall'oggetto, l'atto di sperare dipende da chi è la persona nella quale io spero. Vedete questa speranza che è fortissima, che è l'origine di ogni speranza, la speranza di questa notte, è quella che abbiamo cantato venerdì santo: “Niente potrà, da questa notte in poi, mai più separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore”. Qualsiasi cosa accada a noi, agli angeli, agli uomini, alle generazioni, nessuno potrà mai più toglierci l'amore di Cristo, perché l'amore di Dio è Cristo. Niente potrà mai strapparci questa comunione con Dio, nessuno potrà mai più separarci da questo. Ieri, sabato santo, sembrava che per un attimo il Signore Gesù fosse lontano da noi; sembrava non dicesse più niente, per il suo essere nella tomba. Ma da questo giorno in poi, da questa notte, è la certezza della sua presenza sempre con noi.
Comprendiamo così come la fede, la speranza e la carità, le tre grandi virtù che solo da Dio possono venire all'uomo - la Chiesa le chiama virtù teologali - nascono tutte da Gesù. Come si può sperare senza credere? Tanti autori hanno parlato della speranza, ma da atei. Mons. Fisichella ha raccontato in una sua conferenza di uno scrittore che parlava della speranza come di una donna che non vede niente, una donna che è cieca ed accoglie chiunque si rivolga a lei. Lei non sa, brancola nel buio, sta vicino ad un suicida che si è appena suicidato e anche il suicida in qualche modo crede che il domani sarà migliore, ma non sa niente di quel domani. Invece la speranza è sorella della fede, perché la fede sa che Cristo è il cuore del mondo e la speranza crede e si affida e dice: “Io ho speranza in te, in Cristo risorto”.
Ma anche la fede senza la speranza è niente, perché la fede invecchia, smette di attendere, di gustare il giorno che passa, il domani che verrà, il costruire qualcosa di nuovo, senza la speranza. La fede senza speranza muore, come la speranza senza fede diventa insignificante. E' poiché credo nella Trinità che la mia speranza si rinnova continuamente e rinnova la mia fede ed il mio sguardo sulla vita. Ma la speranza e la fede senza l'amore sono vuote, sono nulla. Perché la Chiesa spera la Salvezza del mondo intero? La Chiesa ci invita, a differenza delle altre religioni, a differenza dell'ateismo, a credere alla possibilità che Dio salvi il mondo intero. Questo è possibile solo con l'amore. Solamente chi ama Dio stesso ed ama che Dio stesso ama gli uomini, acquista questa speranza che diventa amore per tutta l'umanità.
Ed ora veniamo a questi battesimi che tra poco si compiranno. Vedete, questa speranza che Dio ha dato ad ognuno di noi, l'ha data anche a tutta la Chiesa insieme. S.Paolo dice: “Una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati”, come una è la fede, è la Chiesa, una è l'Eucarestia, uno è il Battesimo, così una sola è la speranza. E' la stessa dei nostri nonni, dei nostri bisnonni, dei nostri trisnonni, degli antenati, del Papa, dei Santi, dei martiri, del popolo, di ogni persona. E' una sola la speranza, è la speranza che il Signore ha dato a tutti quanti noi. Uno potrebbe dire: “Cosa è cambiato con la resurrezione di Cristo? Il mondo è peccatore come prima, dov'è la speranza? Gesù è risorto e le persone fanno le stesse sciocchezze che hanno sempre fatto, hanno la stessa indifferenza, la stessa difficoltà a perdonare, si deprimono come prima. Ma il Signore annunzia che in questa notte nasce la Chiesa. La Chiesa è veramente l'opera di Dio che cammina in questo mondo, è l'opera di Dio che si realizza ed è questa speranza che diventa realtà. Per questo è sciocco chi dice: “Io scelgo Cristo, ma rifiuto la Chiesa”, perché perde proprio quel segno che Cristo ha posto come germe. Se non fosse vero questo, che senso avrebbe il battesimo dei vostri figli? Vedete la Chiesa è la madre che dà il dono di Cristo a noi. Amiamo questa espressione bellissima che questa notte risuona della “Chiesa che è madre”.
Torno a ripeterlo, se c'è una cosa che accomuna tutti i sacramenti, è che nessuno se li può dare da solo. Il perdono della confessione che tanti di voi hanno ricevuto durante la Quaresima, l'Eucarestia, il battesimo, la cresima, il matrimonio, il sacerdozio che riceverà Andrea, la forza per chi è nella malattia, è sempre un altro, è la Chiesa madre, che ti dona queste realtà perché tu la abbia. Ma la Chiesa, dandoti i sacramenti, dandoti la forza di Cristo, ti rende corpo di Cristo. Da questo momento in poi questi bambini non saranno mai più separati da Cristo, perché la Chiesa veramente non è solo fatta dalle famiglie che si amano, che si vogliono bene, non è solo un popolo, una città, una parrocchia, ma è la presenza di Dio sulla terra. I bambini diventano corpo di Cristo, e dovunque c'è un cristiano, un battezzato, il Signore è lì con lui. Niente appare cambiato, ma in realtà tutto è cambiato perché realmente Cristo è legato alla nostra vita, è legato alla vita dei vostri figli. Ecco celebriamo ancora la gioia di questa realtà che diventa vita, diventa sacramento, diventa chiesa, diventa speranza e futuro, diventa desiderio di costruire, di donare la vita a nuovi bambini, di aiutare ogni bambino a diventare grande, ad essere libero, a diventare protagonista della propria vita ed a trasmettere a sua volta il dono ricevuto. E' il Cristo che risorge ma in Lui è la nostra vita che diventa nuova, è realmente la possibilità di vivere la vita come vita nuova perché niente ormai ci potrà più separare dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore. E così sia.


Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 12:13 pm | | Default

Foglio informativo sul processo di nullità matrimoniale, a cura della XXVII prefettura (tpfs*)

N.B. Il presente testo informativo è nato al solo scopo di rendere più facilmente reperibili informazioni necessarie a persone che vogliano accedere al processo di nullità matrimoniale.Volutamente il testo non entra nel merito delle motivazioni e del senso della nullità, perché, per questo, esistono documenti del Magistero ecclesiale, oltre a testi di commento e approfondimento teologico, morale e canonico. Come è evidente e come il nostro testo indica esplicitamente ogni sacerdote è naturalmente a disposizione per colloqui personali in merito alla questione dei motivi e del significato della nullità matrimoniale ed ogni Diocesi ha persone competenti per gli approfondimenti successivi. Il testo è aggiornato al marzo 2004.

 

Verificatasi, in prima ipotesi, con un sacerdote della parrocchia la fondatezza dell'ipotesi di un caso di nullità matrimoniale, qual è l'iter normale da percorrere dall'inizio alla fine?
Dal momento che le cause che rendono nullo il matrimonio possono a volte non essere palesi, credo sia importante invitare le persone che hanno situazioni matrimoniali irregolari a porre all'attenzione della Chiesa il discernimento sulla loro vicenda coniugale. Ciò sarà più facile quando eventuali motivi di nullità siano palesi, anche se da dimostrare e verificare, e quindi noi stessi sacerdoti in grado di farne un primo discernimento; sarà invece più difficile quando ad una prima lettura di una vicenda coniugale sembri che il matrimonio sia valido. Non essendo noi sacerdoti dei tecnici del diritto processuale matrimoniale, al di là anche di eventuali studi che sono poi cosa diversa dall'agire concretamente “sul campo”, è bene anche in questi casi, senza mai illudere la gente, ma semplicemente come atto doveroso verso la loro coscienza, comunque invitarli a prendere in considerazione tale doverosità.

A chi rivolgersi, in Vicariato, per il primo passo da compiere?
Bisogna intanto precisare che ogni Regione Ecclesiastica ha il suo Tribunale competente per le cause di nullità matrimoniale. Questo significa che qui a Roma si potranno fare le cause di quei matrimoni celebrati nel Lazio o quando la parte convenuta (ossia l'altro coniuge) risiede nel Lazio.
Il referente in Vicariato è la Cancelleria Generale del Tribunale di Prima Istanza, al terzo piano, nella persona del cancelliere generale, Don Luca Maffione (0669893754). La cancelleria è aperta tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 13.00.
Quindi, ravvisato un possibile caso, possiamo inviare la persona interessata in Tribunale: sarà il cancelliere generale ad ascoltarla e ad indicarle i passi da compiere.
Poiché normalmente il Cancelliere generale invia le persone ad un centro di consulenza, forse conviene a questo punto mandare direttamente le persone a tale centro di consulenza.
Diverso è il caso invece in cui noi stessi siamo certi dell'esistenza dei presupposti per introdurre la causa: in tal caso si inviti la persona interessata

  1. a fare un promemoria sulle vicende prematrimoniali e matrimoniali;
  2. produrre la fotocopia o copia dell'Atto integrale di matrimonio religioso, nelle due facciate (ante e retro) da richiedersi nella Parrocchia in cui fu celebrato;
  3. certificato di residenza della parte convenuta (dell'altro coniuge), oppure indirizzo esatto;
  4. fotocopia di tutta la documentazione relativa alla separazione legale e al divorzio, se avvenuti;
  5. eventuali certificati medici che possono essere utili per la causa;
  6. elenco di possibili testimoni, cioè persone che dovranno essere ascoltate dal Giudice nel corso dell'istruttoria della causa.

Con questi documenti si può mandare la persona in Tribunale nella Cancelleria generale: si provvederà a fare una consulenza con un avvocato del Tribunale.
Tutti questi documenti saranno comunque richiesti anche quando la persona andrà a fare la consulenza presso un centro.

Esiste un centro di consulenza e consiglio per approfondire la fondatezza di nullità, prima di imbarcarsi nella causa?
Dopo aver parlato con una persona, possiamo indirizzarla al Centro di assistenza legale ASSOCIAZIONE FAMIGLIA INSIEME c/o Basilica SS.Cosma e Damiano, Via in Mirando 1 – 00186 Roma, tel/fax 06.6788403. Su appuntamento (venerdì pomeriggio e sabato mattina) si può fare una consulenza. Detto centro è in collegamento con il Tribunale: significa che se ravvisano gli estremi per una causa di nullità aprono un fascicolo, raccolgono i documenti necessari ed inviano il tutto in Tribunale. Le persone verranno poi contattate dal Tribunale.

È necessario trovare un avvocato e come lo si può trovare?
Per introdurre una causa di nullità matrimoniale è necessario avvalersi di un avvocato. Non può essere un semplice avvocato, ma deve trattarsi di un Avvocato Rotale.
A questo punto due sono le strade che si possono seguire:

  1. scegliersi un proprio avvocato, chiamato appunto Patrono di fiducia, nell'albo degli avvocati rotali. Tale albo può essere reperito presso la cancelleria del Tribunale. Tale avvocato dovrà essere pagato dalla persona interessata (sui costi vedi domande successive). Praticamente lo si contatta, farà lui una consulenza (sempre a pagamento) e poi provvederà all'intera causa, come avviene anche nei giudizi civili;
  2. fare domanda per l'assegnazione di un Patrono Stabile, cioè un avvocato del Tribunale, che pertanto non deve essere pagato dalla persona che fa la causa. In tal caso diciamo che la cosa avviene automaticamente quando si va al centro di consulenza: quando il centro trasmette il fascicolo al Tribunale, la parte viene chiamata appunto per compilare un modulo di richiesta di tale Patrono Stabile. Lo stesso accade se la persona va già con tutti i documenti in Tribunale dal Cancelliere: sarà quest'ultimo a spiegarle cosa dovrò fare a riguardo.

Cos'è un avvocato d'ufficio?
Quando si parla di avvocato di ufficio per lo più si fa riferimento al Patrono Stabile di cui sopra, quindi un avvocato del Tribunale che non deve essere pagato.

In che maniera sarà informata l'altra parte ed in quale maniera sarà richiesta la sua collaborazione?
Normalmente sarà l'avvocato a contattare l'altra parte: dal momento che il processo mira a ricercare la verità, è utile ascoltare entrambi i coniugi prima di introdurre la causa. Se poi le parti hanno un buon rapporto tra di loro, potrà farlo la stessa persona che introduce la causa, e sarebbe opportuno per evitare che arrivi all'altra parte una “fredda” telefonata di un avvocato.
Il processo comunque si fa a prescindere dalla collaborazione dell'altro coniuge il quale potrà decidere anche di non partecipare alla causa, così come potrebbe decidere di costituirsi in giudizio con un proprio avvocato.

È necessario individuare dei testimoni?
Certo, perché il processo si base su un'istruttoria. Possono essere ovviamente anche i famigliari, normalmente anzi i genitori vengono comunque citati dal Tribunale. Ne servono 4 o 5 ma comunque dipende dalla causa. L'importante è che siano persone informate delle vicende prenuziali e coniugali, e che non siano di “tempo sospetto”, cioè persone informate dei fatti solo in occasione della causa da fare.

Quali sono i gradi per cui deve passare il processo?
Sono due: dopo la sentenza di primo grado affermativa, la causa andrà d'ufficio in Appello dove altri tre giudici esamineranno gli atti processuali. Se confermeranno la sentenza di primo grado il matrimonio è dichiarato nullo e le parti potranno risposarsi anche in chiesa. Se in Appello ci fosse una sentenza Negativa, allora ci sarà bisogno di un terzo grado di giudizio che si svolgerà presso il Tribunale della Rota Romana, in Piazza della Cancelleria.

Quanto tempo può durare?
Considerando che comunque ogni causa è un caso a parte, tra primo e secondo grado ci vogliono circa tre anni. Ma può accadere che passi anche più tempo.

Quanto costa un processo e quali sono i motivi della spesa?
Cosa deve fare chi non ha possibilità economiche?
Innanzitutto c'è un contributo obbligatorio imposto dalla CEI nella misura di 450 euro per la parte attrice, cioè colei che inizia il processo; se però anche l'altra parte vuole costituirsi in giudizio con un proprio avvocato, dovrà pagare 225 euro, altrimenti nulla.
Chi abbia scelto di avvalersi di un Patrono Stabile a questo punto non avrà altre spese.
Chi invece abbia scelto un Patrono di fiducia, dovrà dare all'avvocato un onorario stabilito dai Giudici nella sentenza e che sempre dalla CEI è fissato da un minimo di 1330 euro ad un massimo di 2660, onorario non comprensivo dell'IVA. A tale onorario possono eventualmente aggiungersi spese documentate sostenute dall'avvocato e la cui entità è sempre decisa dal Collegio giudicante in sede di decisione della causa. C'è da dire che molti avvocati al di là dell'onorario, e del minimo tra l'altro, non richiedono altro, per cui la causa si può fare con un costo totale di 1780 euro (costituzione in giudizio + onorario dell'avvocato).
Le cifre di cui sopra riguardano entrambi i gradi di giudizio (il primo e l'appello), non l'eventuale terzo grado però. Ugualmente non riguardano l'eventuale procedimento di delibazione presso la Corte d'Appello dello stato italiano (ossia quel procedimento con il quale si fa riconoscere la sentenza civile dalla giustizia civile italiana).
Qualora infine una persona (che abbia scelto il Patrono Stabile) non possa sostenere neanche la spesa dei 450 euro per costituirsi in giudizio potrà fare richiesta (con documentazione) per essere esonerata da ogni spesa.

Il processo è pubblico?
Assolutamente no, il processo è segreto. Significa che nessuno potrà avere accesso agli atti di causa se non le parti interessate tramite gli avvocati; all'udienza non può assistere nessuno se non l'avvocato. Tutti gli operatori del Tribunale hanno l'obbligo di segretezza sulle cause matrimoniali.

A cosa servono le informazioni sulle persone che il Tribunale richiede alle Parrocchie?
Nelle nostre cause di nullità matrimoniale gran parte della causa si basa sulla credibilità delle parti e dei testimoni: per questo motivo, oltre al giuramento che essi prestano di dire la verità, è utile per i Giudici avere notizie sulla credibilità di dette persone dai loro rispettivi Parroci. Quando si prendono le generalità all'inizio dell'udienza si chiede pertanto alle persone se sono credenti e praticanti ed il nome della parrocchia dove sono conosciute. Sulla base delle loro indicazioni poi il Tribunale invia una lettera al Parroco. Certo, spesso sono persone che non frequentano o pur frequentando non sono tuttavia conosciute dal presbiterio parrocchiale né personalmente né per interposta persona: non fa niente, comunque laddove siano conosciute è importante avere un giudizio su di loro dal Parroco e quindi sapere quanto ci si possa fidare della loro onestà e sincerità.

La sentenza di nullità modifica lo stato giuridico dei figli già nati?
Assolutamente no, i figli non perderanno alcun diritto (ereditario o altro). È come se per essi il matrimonio dei loro genitori sia comunque valido.

Dopo la sentenza di nullità ecclesiastica è necessario fare anche il divorzio civile?
C'è da premettere intanto che per introdurre una causa è necessario che i coniugi non vivano più sotto lo stesso tetto, che ci sia dunque almeno la separazione di fatto. Non è pertanto necessaria la separazione legale.
Se alla fine del processo canonico le parti ancora non hanno il divorzio civile, ma solo una separazione di fatto o separazione legale, con il procedimento di delibazione possono chiedere allo stato italiano di riconoscere la nostra sentenza ecclesiastica. Sarà la Corte d'Appello ad occuparsi del procedimento: se la sentenza viene delibata, i coniugi verranno considerati come mai sposati anche per lo stato italiano.
Ovviamente se c'è il divorzio prima della sentenza ecclesiastica non occorre fare la delibazione.

Cosa accade riguardo agli impegni economici stabiliti dalla separazione legale dovuti da un coniuge all'altro?
La materia è alquanto complessa. Ritengo sia utile sapere che intanto gli obblighi economici verso i figli non vengono intaccati in alcun modo.
Se tra i coniugi già c'è stata sentenza di divorzio, la causa di nullità non tocca ugualmente gli aspetti patrimoniali già decisi in via definitiva dal giudice civile.
Se tra le parti c'è solo la separazione in tal caso una sentenza di nullità potrebbe travolgere gli impegni economici civili dovuti da un coniuge all'altro: dico potrebbe perché non è una cosa automatica, di volta in volta sarà la Corta d'Appello (civile) a decidere sulla questione, ma in molti casi accade. Per questo spesso avviene che ci sono persone che fanno la causa solo per non dover più pagare gli alimenti al coniuge (per lo più si tratta della moglie). Per il diritto la motivazione per la quale si adisce il Tribunale canonico è irrilevante, anche se moralmente non condivisibile: in altre parole se un matrimonio è nullo lo sarà a prescindere dalla motivazione anche moralmente illecita di chi abbia introdotto una causa. Rimane tuttavia importante la motivazione per cui si fa la causa (ed infatti il Giudice pone sempre questa domanda alle parti) per valutare la credibilità delle parti e dei testimoni. Per questo motivo sarà senz'altro utile anche per la Chiesa l'approvazione di un progetto di legge di cui si discute in Parlamento per giungere ad un testo che colmi il vuoto legislativo.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 12:13 pm | | Default

“Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?”(tpfs*). Uno sguardo d’insieme sul Qoèlet, di Carlo Ancona

Il Prologo del Qoèlet apre con una domanda:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.
Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno
per cui fatica sotto il sole? (Qo 1,2-3)

Tale domanda ritornerà nello scritto varie volte, come la questione che non dà pace a Qoèlet, a causa della quale non smette di ricercare, osservare e considerare la realtà della vita per trovare una risposta.
Ora Qoèlet è un saggio (12,9) e come tale, secondo la concezione sapienziale ebraica, è capace di uno sguardo lucido sulla realtà, di uno sguardo che sa cogliere il punto di vista di Dio sulla vita e di trarne degli insegnamenti. Ebbene Qoèlet dopo aver posto tale sguardo sul mondo afferma con forza: che vantaggio ne viene da tutta la fatica spesa per essere saggio (1,17), per fuggire l’empietà (8,10ss), ricercare la gioia (2,2), comportarmi bene (6,8)? Non ne viene niente in cambio, non c'è alcun vantaggio/profitto, gli empi spesso guadagnano di più, sembrano vivere meglio (8,14), l’egoista e l’avaro prosperano, il saggio fa la stessa fine dello stolto (2,15), non tutti gli uomini giusti hanno una vita piena o in pace (7,15; 9,2), alla fine nessuna fatica che l'uomo compie sotto il sole è in grado di cambiare il corso delle cose (1,15) poiché tutto è vanità.
Ecco che, quindi, come un ritornello viene ripetutamente affermato:

Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche (cfr. Qo 2,24-25; 3,12; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7; 9,9; 11,9).

Una risposta di questo tipo appare scandalosa presa così come suona, sembra quasi indirizzare l'uomo ad una ricerca del piacere come fuga da un destino ineluttabile nei confronti del quale non ha armi, una visione estranea al messaggio biblico ed evangelico; eppure il testo è chiaro e questa specie di ritornello viene più volte ribadito all'interno del libro che resta comunque un libro canonico, contenente la Parola di Dio.
Come affrontare il problema? Conviene ricordare che nei testi sacri le contraddizioni e/o le incongruenze, lungi dall'essere semplici errori o sviste, ad una lettura approfondita risultano spesso gravide di significato.
Nel caso in questione il cardine attorno a cui far ruotare la nostra discussione è proprio la domanda posta da Qoèlet:

Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?

Più avanti nel testo pone la stessa domanda utilizzando le categorie del vantaggio (Qo 2,15; 3,9; 5,15; 6,8), a volte si chiede quale profitto ne ha l’uomo (Qo 2,22) o ancora, riferito alla ricerca della gioia: a che giova? (Qo 2,2)
Il punto di rottura con la realtà nel libro non sembra essere nelle risposte (che sono in gran parte difficilmente confutabili) ma nella domanda.
La domanda così formulata fa riferimento ad un rapporto Dio-uomo alterato e falso e ad una visione distorta della realtà. Vantaggio, utilità, profitto sono categorie che svelano un'idea di Dio come di un padre-padrone che possiede le cose buone, sono Sue e le elargisce solo a chi vuole, anzi a chi si comporta secondo le regole da Lui imposte che vengono così a configurare un sistema di vita competitivo in cui alcuni sono in vantaggio, più buoni, più meritevoli rispetto ad altri. In questa visione Dio possiede tali cose e gli uomini devono comportarsi in un determinato modo (essere buoni), chiedere insistentemente con la preghiera con offerte e promesse tali doni per sperare di riceverne alcuni.
Alla base di questo rapporto con Dio c’è una mentalità "commerciale", di scambio tipo "do ut des" in cui l'uomo cerca di comprare favori da Dio con buone azioni (non è questo il meccanismo che sottende talvolta la comprensione dei fioretti o di una certa impostazione dell'ascesi in generale?). Quindi l’uomo per avere la salute, la gioia, il successo, la pace, per riuscire nelle sue imprese, per avere una discendenza, ecc, deve osservare i comandamenti, deve pregare, fare sacrifici ed offerte (pensiamo alla nostra preghiera se non è in radice spesso intrisa di questa mentalità pagana!).
Questa sembra essere la visione del rapporto Dio-uomo nella quale nasce il libro del Qoélet.
In tale contesto, una domanda del genere non può che avere una risposta consona con quella che da l'Autore: se cerchi un vantaggio non lo avrai! D'altronde tale affermazione ha le caratteristiche evangeliche che Gesù proclama quando descrive il rapporto tra il Padre e l'uomo con le "scandalose" parabole del figliuol prodigo (Lc 15,11ss) o degli operai dell'ultima ora (Mt 20,1ss): né il figlio maggiore né gli operai della “prima” ora avranno un vantaggio per la loro fatica rispetto al figlio minore o a gli operai dell' “ultima” ora appunto (ma non per questo non avranno tutto comunque, anche se non è un tutto che li porrà in vantaggio rispetto ai fratelli).
Se già nell’AT tale mentalità “commerciale” nei riguardi di Dio, che vede un punto nodale nel sacrificio (il sacrificio di animali da compiersi al Tempio) viene criticata, essa viene completamente scardinata da Gesù che mostra di non essere venuto nel mondo a modificare l'oggetto di questo rapporto sacrificale con Dio (nel senso che prima si sacrificava qualcuno o qualcosa e da Gesù in poi sono io a sacrificarmi, compiendo determinate azioni o "buone azioni"), ma ad abolire il sacrificio, a dichiarare nullo questo rapporto di scambio con il Padre e riportarlo alla verità primordiale già affermata fin dalla creazione in Genesi (Gen 3), la gratuità dell’Amore (Giovanni mostra bene tale concetto quando nella purificazione del Tempio descrive Gesù che caccia non solo i mercanti ed i cambiavalute ma anche tutti gli animali che servivano per i sacrifici, cfr.Gv 2,14-16).
Il problema serio è di capire che con Dio non si può avere questo atteggiamento, non possiamo cercare di rubargli l’amore che Lui vuole donarci, dobbiamo invece renderci conto della realtà di questo mondo (che la Bibbia proclama contro la mentalità di questo mondo): che tutto proviene da Dio, che la realtà è una benedizione di Dio, che noi viviamo perché investiti continuamente e costantemente (con una fedeltà a noi sconosciuta) da questa benedizione piena che ci permette di vivere (a tutti, buoni e cattivi, cfr. Mt 5,45ss), tutto riceviamo da Dio e gratuitamente (cfr Rm 11,33ss) solo per amore, un amore che ci previene e sorpassa. Questo amore gratuito che è alla base della realtà in cui viviamo scardina dalle fondamenta qualsiasi mentalità commerciale nel rapporto con Dio e determina una inevitabile, cruda ma vera risposta negativa alla domanda di Qoèlet: quale vantaggio ne ho? Nessuno! Non possiamo pensare di faticare (leggi amare) per averne un profitto; l’amore o è libero e gratuito o non è amore!
Se Qoèlet nel porre le domande è influenzato da una mentalità che distorce la realtà, tuttavia nella visione critica della vita mostra la sua saggezza ed anche riconoscendo con una enorme sincerità intellettuale che non vengono particolari vantaggi sugli altri dalle fatiche che l'uomo compie sotto il sole, sapientemente afferma che questa fatica è riconosciuta da Dio, è fatta davanti a Dio e gradita a Dio, in questa fatica ci sono già i suoi doni, c'è già la benedizione di Dio (e non contro gli altri o rispetto agli altri) e soprattutto che dobbiamo saperne godere appieno oggi, concretamente, è un dono, una benedizione per la nostra vita e deve essere accolta per renderla bella e piacevole (2,24ss; 3,13; 5,18; 9,7ss):

Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui? (Qo 2,24-25)

Così tra le righe del Qoèlet emerge un inno alla gioia con un ammonimento per coloro che non sapranno goderne appieno:

Stà lieto, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù.
Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi.
E sappi (però) che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio (Qo 11,9)
(La traduzione CEI vede la presenza di un avversativo - "però" - che manca in traduzioni più recenti, cfr L. Mazzinghi. La Sapienza di Israele, Oscar Mondadori, Milano 2000).

Questa gioia nasce dal riconoscere i doni di Dio sulla nostra vita e pone l'uomo nella dimensione che più gli è propria, quella della festa e del ringraziamento:

Và, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha gia gradito le tue opere.
In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo.
Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole (Qo 9,7-9).

Se Qoèlet tiene costantemente un occhio fisso sulla terra, ai beni materiali che dobbiamo imparare a godere sotto il sole, l'altro occhio è sempre rivolto al cielo, a Dio. La cifra teologica che usa il Qoèlet per rendere questo saper godere alla presenza di Dio, sotto il suo sguardo, è quella del Timore di Dio che non è mai il terrore ma semplicemente la percezione della Sua presenza accanto a noi, del Suo sguardo benevolo su di noi (Qo 3,14; 5,6; 7,18; 8,12; 12,13).

Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto. (Qo 12,13)

Con queste precisazioni le affermazioni che dà il Qoèlet appaiono meno scandalose ed anzi ci ricordano che il saper godere della vita davanti a Dio, dei doni che continuamente riceviamo da Lui, ci avvicinerà alle leggi che la sua Sapienza ha imposto a questo mondo e non potrà che farci compiere un passo in più nella Verità.

In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo.

Per altri articoli e studi sulla Bibbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici

Redazione de Gliscritti | Lunedì 21 Novembre 2022 - 12:12 pm | | Default

Qual è l'origine del terrorismo di matrice religiosa? Introduzione di Camille Eid, giornalista di Avvenire, al volume Osama ed i suoi fratelli (tpfs*)

Per introdurre il dibattito su “La sfida del terrorismo di matrice religiosa”, che si è tenuto venerdì 23 aprile, alle ore 21.00, presso L'Areopago, con la partecipazione di Camille Eid, libanese, giornalista esperto del mondo arabo del quotidiano Avvenire, e Fabrizio Falconi, giornalista e scrittore, autore del libro “Bin Laden, terrore dell'Occidente”, abbiamo proposto l'Introduzione del libro di C.Eid, “Osama e i suoi fratelli”, Pimedit, Milano 2001.

L'Areopago

L'islam si presenta come una religione globale. La legge religiosa è tutt'uno con la legge civile e gestisce tutti gli aspetti della vita di un musulmano, privata, sociale e politica. Nel mondo islamico, è molto nota l'espressione araba che presenta l'islam come “din wa dunya”, cioè religione e società, oppure come “din wa dunya wa dawla”: religione, società e Stato. Nulla di strano. L'islam, infatti, è nato come un progetto socio-politico-culturale-religioso. L'aspetto politico indica come bisogna agire con gli altri popoli e le diverse religioni, come rapportarsi in questioni di guerre e di pace, come relazionarsi agli stranieri. A differenza di molte religioni che, confrontandosi con nuove realtà socio-culturali o con altre religioni, hanno visto evolversi il loro punto di vista, l'islam si è mantenuto immutabile. Fino a qualche anno fa, pochi si sono chiesti se sarà mai possibile scindere, nell'islam, la religione dalla politica, Cesare da Dio. Oggi questa domanda torna alla ribalta in presenza del moltiplicarsi e propagarsi di movimenti integralisti che hanno presentato le loro credenziali in Occidente con clamorose azioni di terrorismo.
Ma sarebbe più opportuno, a questo punto, chiedersi se l' “islam politico” debba necessariamente essere “radicale”. Senza voler togliere nulla all'importante presenza di partiti e movimenti riformatori nei Paesi islamici (vedi il movimento di Khatami in Iran) che rappresentano il volto moderato dell'islam, registriamo il fatto che è piuttosto l'islam radicale a far oggi notizia. All'origine di questo conflitto, la presenza di due letture diverse del messaggio islamico. Mentre, infatti, i promotori di un islam aperto al dialogo e liberale privilegiano il primo periodo della predicazione maomettana alla Mecca, nel quale il Profeta richiamava la sua gente ai valori della giustizia e della tolleranza, gli ideologi della corrente integralista preferiscono riferirsi al secondo periodo, quello in cui Maometto stabilisce lo Stato islamico a Medina, e di lì attingere il modello perfetto da perseguire. I versetti coranici discesi in questo periodo diventano, per costoro, la base giuridica per giustificare il ricorso alla violenza nel jihâd contro i propri “governanti ipocriti”, ma anche contro “infedeli” e “crociati”: “Combattete contro quelli che non credono in Dio, né nel Giorno estremo... ossia coloro ai quali è stato dato il Libro, finché non paghino il tributo ad uno ad uno, con umiliazione” (sura della Conversione IX, 290), o anche “Pensate forse di entrare in Paradiso senza che Allah vi veda combattere la guerra santa con fede salda e sicura?” (sura della Famiglia di Imran III, 142), o ancora la raccomandazione del versetto 39 della sura del Bottino “Combatteteli finché non ci sia più scandalo e la religione sia tutta per Allah”.
Il fondamentalismo islamico moderno ha comunque i suoi “padri fondatori”: si tratta di Hassan al-Banna, ideatore nel 1928 dei Fratelli musulmani in Egitto, e di Abu al-A'la al-Maududi, fondatore nel 1941 della Jamaat-e-Islami nel subcontinente indiano. I due movimenti introdussero una rottura con l'islam tradizionale degli ulema proponendo un islam militante più affine all'ideologia politica. Per loro, le società musulmane contemporanee non avevano più nulla di islamico in quanto i relativi Stati avevano abbandonato i principi islamici. La soluzione era, dunque, un ritorno alle radici, ai fondamenti, individuati nel modello autentico creato in Arabia da Maometto e dai suoi primi successori. Piuttosto che semplici partiti politici, i movimenti fondamentalisti risultarono essere delle confraternite religiose poste sotto la guida di un “amir” e, insieme, delle organizzazioni socio-politiche centrate sulla mobilitazione dei diversi settori della società attraverso l'infiltrazione nei sindacati professionali e nei movimenti giovanili e femminili, in vista del controllo del potere, abbinata ad un'azione caritativa che si concretizza con prestiti senza interesse, borse di studio e altro.
I movimenti fondamentalisti diventarono negli anni Settanta la principale forza di contestazione nel Medio Oriente, approfittando dell'usura delle ideologie nazionali o socialiste dei vari regimi: il nasserismo in Egitto, il Fronte di liberazione nazionale (Fln) in Algeria, il kemalismo in Turchia. L'irruzione del fondamentalismo sulla scena mondiale avvenne tuttavia in ambiente sciita, in Iran, con la vittoria, nel febbraio 1979, della rivoluzione khomeinista sul regime filo-occidentale dello scià. Fra tutte le minoranze sciite del mondo, dall'Iraq al Libano e al Pakistan, nacquero movimenti radicali che si ispiravano agli ideali islamici iraniani. Nel mondo sunnita, intanto, la volontà di integrazione dei movimenti fondamentalisti nel sistema politico si scontrava con una forte repressione governativa portando allo sviluppo di movimenti radicali orientati verso il terrorismo. Questi movimenti facevano riferimento al pensiero di Sayyed Qutb, un egiziano condannato a morte da Nasser nel 1966, che deplorava ogni tentativo di compromesso con il potere. L'obiettivo principale diventa, a quel punto, l'eliminazione dei regimi “infedeli” e la lotta armata. Questi gruppi si caratterizzarono, inoltre, dall'abbandono dell'azione sociale dei loro precursori e dall'uso frequente del “takfir”, ossia l'anatema contro ogni musulmano che non la pensava come loro. In quasi tutti gli Stati del Medio Oriente si verificò una polarizzazione tra, da una parte, i gruppi radicali che passarono all'azione armata e, dall'altra, i movimenti moderati, in generale legati ai Fratelli musulmani. Solo in Siria, la filiale dei Fratelli ha dichiarato guerra al regime del partito Baath guidato da Hafez al-Assad, subendo una dura repressione militare (rivolta della città di Hama nel 1982). Bisogna aspettare la guerra in Afghanistan per assistere al salto di qualità. La guerriglia anti-sovietica dei mujâhidîn afghani ha, infatti, prodotto migliaia di volontari, arabi e non, che, a conflitto concluso, portano la loro esperienza militare nei rispettivi Paesi. Tra questi volontari, uno in particolare monopolizza l'attenzione dei mass media internazionali. Si tratta di Osama Bin Laden, miliardario di origine saudita, considerato il finanziatore dei movimenti integralisti islamici di mezzo mondo e la mente degli attentati terroristici più clamorosi, da quelli contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar as-Salam (1998) a quelli dell'11 settembre scorso. Sebbene sia una mera semplificazione della realtà parlare di una “centrale internazionale del fondamentalismo”, va ammesso che con Bin Laden la militanza radicale islamica ha scoperto anch'essa la globalizzazione. A lui, infatti, fanno ormai riferimento molti gruppi islamici che vedono nel jihâd in Palestina, in Cecenia, nel Kashmir o nelle Filippine, i tanti volti dell'unica lotta di tutta la Umma islamica. Le azioni di questi gruppi non sono più compiute, come negli anni Settanta, in nome di una causa “nazionale” precisa, ma di un insieme di rivendicazioni: l'uscita delle truppe americane dall'Arabia Saudita, la fine dell'embargo contro l'Iraq, il ritiro indiano dal Kashmir, l'instaurazione di un regime islamico ad Algeri, la creazione di una repubblica caucasica musulmana. L'influenza che questi partiti e movimenti islamici esercitano sui propri connazionali immigrati in Europa è immensa, basti citare il Refah all'interno della consistente comunità turca che vive in Germania (attraverso il Milli Görüs), il tunisino Ennahda e gli algerini Fis e Gia sulle comunità maghrebine in Francia e nel Belgio, la Jamaat-e-Islami pachistana sugli immigrati del subcontinente indiano presenti in Gran Bretagna. Senza parlare delle diverse lotte inter-musulmane sul controllo delle moschee e associazioni all'estero. Pochi anni fa, anche i capi dei più moderati Fratelli musulmani hanno ammesso, per la prima volta, di avere ormai una struttura internazionale. Ogni “fratello” che lascia l'Egitto, dicevano, crea una filiale nel Paese di accoglienza: in Germania, in Gran Bretagna o altrove in Europa.
Di sicuro, tra i motivi di questa espansione vanno annoverate le restrizioni alle libertà nel mondo islamico, che colpiscono in primo luogo gli stessi movimenti musulmani. Nessuna meraviglia, quindi, se una città come Londra diventa la meta preferita degli esuli, “integralisti” e non. E' da questa capitale, infatti, che lo sceicco Omar Bakri Mohammed, capo dei Muhajirun (gli Emigranti), elogia oggi i mujâhidîn di tutto il mondo e chiama i musulmani a rovesciare i “burattini” e i “tiranni” che governano i Paesi islamici per restaurare il califfato. Anche la Francia ne sa qualcosa. A dispetto del mito dell'integrazione, Parigi ha constatato sulla sua pelle che molte delle oltre duemila associazioni islamiche – al 95 per cento identificabili solo attraverso una casella postale – che dichiarano scopi religiosi o impegni educativo e sportivi, reclutano invece adepti per la causa integralista. Imam provenienti dal Pakistan e dall'Egitto svolgono spesso un'opera di indottrinamento politico presso dei giovani che non avevano conosciuto fino ad allora alcuna religione. Li si convince che i loro delitti non possono essere classificati come delinquenza, ma come “guerra santa” contro gli infedeli per instaurare un giorno la repubblica islamica nel Paese. Da lì a diventare soldati di Dio il passo è breve.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:41 am | | Default

Parola-Liturgia-Carità: un trinomio “da superare” (tpfs*), un'intervista a mons. Sergio Lanza

Molti documenti ecclesiali sono ispirati ad un trinomio che sembra essere sempre più diffuso nella pastorale italiana, il trinomio che classifica la pastorale cristiana secondo la tripartizione in Parola, Liturgia, Carità. Altre realtà ecclesiali si orientano con altre classificazioni. Ad esempio, all'interno del cammino neocatecumenale questa triade viene, invece, sostituita da un “tripode” – è l'espressione caratteristica usata – comprendente sempre la Parola e la Liturgia, ma con la Comunità, come terza gamba, terza colonna di sostegno del cammino, al posto della Carità.
Per orientarci in un'analisi più approfondita che permetta di avere una visione della pastorale teologicamente ed ecclesiologicamente fondata, abbiamo intervistato mons.Sergio Lanza, docente di Teologia pastorale presso la Pontificia Università Lateranense. Vi presentiamo la trascrizione del suo intervento.

 

Assistiamo al fatto che la triade Parola-Liturgia-Carità sembra essersi imposta come un punto di riferimento per la pastorale a tutti i livelli.
Ma appartiene essa alla tradizione della Chiesa? Da dove deriva, dove ha la sua origine storica?

Dal punto di vista della vicenda ecclesiale e pastorale, non si può certo dire che il trinomio Parola-Liturgia-Carità sia un riferimento tradizionale. Essa è documentata, fin dall'antichità, come categoria cristologia: non l'unica, ma certamente attestata negli scritti dei Padri della Chiesa. Gesù è, infatti, interpretato attraverso i “titoli” di re, sacerdote e profeta [1] . Questi tre titoli vengono a costituire una identificazione cristologica senz'altro pertinente. Ma questa sistematizzazione, appunto, è una fra le molte che concorrono a presentare l'identità del Cristo, Messia, Figlio di Dio, Redentore dell'uomo e del cosmo. Ve ne sono altre, come lo stesso Nuovo Testamento attesta.
Nel corso dei secoli, e in particolare nella teologia medievale, questa triade non ha particolare rilievo. La suddivisione del messianismo in regale, sacerdotale, profetico viene ripresa, in ambito protestante, soprattutto dal filone calvinista, per sostenere la “nuova” teologia del sacerdozio comune. Relativamente nuova, perché per altri versi essa è antica quanto la Chiesa; nuova quindi non nel senso che non sia esistita fin dall'origine, ma nel senso che viene contrapposta al sacerdozio ministeriale, che è ritenuto abusivo. Allora si tratta, per Calvino e per l'area protestante, di identificare, di dare i contorni a questa idea del sacerdozio comune, o battesimale. Questo viene trovato nel trinomio sacerdote, profeta, re. Questo trinomio, che identifica la figura di Cristo, la identifica sufficientemente; nel battesimo, poi, è il cristiano che è assimilato a Cristo, che diventa figlio adottivo di Dio. Sotto questo profilo lo svolgimento teologico protestante è corretto, salvo l'antagonismo che elide il sacerdozio ministeriale di cui si è già detto.
Dal protestantesimo questo trinomio passa ad essere utilizzato abbastanza presto, anche in ambito cattolico - in opere non numerose, ma già nel contesto post-tridentino - quando cominciano ad essere pubblicate alcune opere di carattere pastorale di carattere molto pratico per sostenere il ministero del parroco, rimarcato nella riforma tridentina. Nel presentare la figura del pastore, soprattutto del parroco, si fa riferimento a tre competenze fondamentali che vengono perlopiù espresse con il trinomio: magisterium verbi, ministerium gratiae, regimen animarum (magistero della Parola, ministero della Grazia e governo delle anime). Questo trinomio passa poi a caratterizzare anche il mondo laicale, quando si comincia, anche in ambito cattolico, a partire dalla metà del '900, a parlare di sacerdozio comune dei fedeli, il sacerdozio battesimale. Naturalmente con qualche modifica: non sarà più magisterium verbi, ma ministero della Parola, non sarà più ministero della grazia o dei sacramenti, ma partecipazione liturgica ed il goveno delle anime diventerà vita della carità. Per cui nella formula più usata diverrà: catechesi, liturgia e carità.
A mio parere, quello che ho detto sin qui trova riscontro abbastanza facile nei documenti, dai testi, ecc.
Dobbiamo aggiungere che il crescente ricorso al trinomio parola, liturgia carità si verifica anche per una ragione più di fondo: il progressivo differenziarsi della Chiesa dalla società, a partire certo già dal Rinascimento, ma soprattutto dall'Illuminismo. Avviene, in parole povere, il fatto che la cristianità va destrutturandosi; non c'è più la coincidenza Chiesa-società, e questo comporta - è riscontrabile sotto vario e diverso profilo - comporta l'esigenza per la Chiesa di definire se stessa, mentre prima aveva avuto soltanto l'esigenza di definire le proprie parti, che sono le parti stesse della società. Adesso la Chiesa deve definire la propria presenza nella società. Quindi: in che cosa consiste l'azione pastorale? (analogamente nasce la Dottrina sociale come ambito tematico specifico, con l'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII). Nel passato, nel mondo unitario, la pastorale si trova ad essere di fatto coestesa a tutto ciò che riguarda la vita del paese, del villaggio, della città, perché tutto è segnato dal punto di vista cristiano, dalla fiera del bestiame alla processione del Santissimo, ecc. Specifiche certo sono le azioni liturgico-sacramentali, che sono quelle che caratterizzano il ministero presbiterale, inteso soprattutto nella sua funzione sacerdotale, ma all'interno di una società che è tutta una società sacrale. La differenziazione avviata dall'illuminismo (secolarizzazione) comporta una revisione e, certamente, l'esigenza di non ridurre tutto e soltanto all'atto liturgico, la necessità di ricomporre, in maniera più persuasiva, un intero “pastorale”. Questo intento, lodevole e corretto, viene però, di fatto, realizzato, purtroppo - questo è il mio parere – in chiave remissiva; in altri termini, cedendo a quella spinta socioculturale che delimita il campo della religione al privato e il senso pubblico della Chiesa a ruoli di supplenza socioassistenziale: dove cioè non c'è solo la differenziazione, ma la ritirata pratica della nostra pastorale ordinaria, dai luoghi, appunto, della vita quotidiana della gente, ritenuta profana, laica, secolare, e quindi non appartenente al proprium dell'azione pastorale. Per cui la pastorale viene da allora vista come quell'insieme di attività che si svolgono dentro la comunità, dentro la chiesa, dentro le mura dell'edificio parrocchiale. Così, secondo l'interpretazione restrittiva di quel trinomio, trova auto-copertura e, in qualche modo, auto-giustificazione il ritrarsi circoscritto e intraecclesiale dell'azione pastorale. Il trinomio viene messo immediatamente in crisi però dalle esigenze della nuova evangelizzazione. L'idea della “nuova evangelizzazione” mostra categoricamente - non solo e non tanto dal punto di vista teoretico, ma dal punto di vista pratico - che la pastorale reale, quella che comunque si deve cercare di fare, dentro quello schema non ci sta. E quello schema scoppia. Bastava ascoltare la parola del Papa ai Parroci di Roma (Quaresima 1986): “La parrocchia deve cercare se stessa al di fuori di se stessa”.
Riassumendo l'iter teoretico possiamo concludere che quel trinomio ha pertinenza cristologica, ha pertinenza per indicare l'identità del cristiano. Non è l'unico modo, ma è un modo corretto. Non ha invece pertinenza quando passa a identificare la mappa, gli ambiti, dell'azione ecclesiale.

Un suo studente ha preparato una tesi su questo argomento. Qual è l'ambito della ricerca?

Don Bazzichetto, sacerdote della Diocesi di Vittorio Veneto, ha già scritto una tesi di licenza su questo argomento. Ha cercato di esplorare la letteratura in ambito europeo, quindi allargando i confini. Per quello che riguarda la lingua tedesca, dove esistono un paio di opere significative, sta cercando adesso per il dottorato di approfondire ulteriormente.
La letteratura specifica in materia conferma quello sono venuto esponendo, cioè chiaramente identifica l'itinerario storico e mette in evidenza soprattutto, da un lato la pertinenza dogmatica dell'affermazione, dall'altro, la non percorribilità pastorale come definizione degli ambiti nell'azione ecclesiale (anche se questa seconda tematica non è ancora sufficientemente approfondita negli studi). Naturalmente il problema è dare poi una prospettiva, perché non basta criticare un modello. Ora il primo punto di un discorso positivo – e non solo critico - è questo, che non si può definire in maniera apodittica...

Affrontiamo ulteriormente la pars construens, dopo la pars destruens Come possiamo ricostruire un quadro della pastorale se lasciamo cadere il trinomio Parola-Liturgia-Carità?

Il primo punto è che un quadro d'insieme, un salto di qualità nella descrizione della topografia della pastorale, non può derivare immediatamente da una motivazione dogmatica da cui discendano perentoriamente gli ambiti determinati dall'azione ecclesiale. Certamente alcuni di essi sono pre-scritti, in particolare la liturgia. Questo è ovvio, questo è il primo punto.
Il secondo punto è questo: il trinomio che è stato criticato, manifesta in fondo più che tre territori, tre dimensioni, tre componenti. Facciamo un esempio concreto, prendiamo la pastorale giovanile di cui tanto si parla. La pastorale giovanile non si fa senza ministero della Parola, senza la presenza della fede nelle sue motivazioni, nelle sue espressioni, nei suoi contenuti, nelle sue argomentazioni, ecc. Non si fa senza investire la vita concreta, in tutti i suoi ambiti, per investirla dal principio fontale che è lo Spirito Santo, che riversa l'amore nel cuore del credente, del cristiano. Quindi abbiamo la dimensione della Parola e della Carità. Non si può fare nulla senza che tutto non venga invocato e riportato a Dio – e questo è la liturgia. Però tutto questo avviene dentro un'unica area. Sono componenti, che stanno dentro tutte le più diversificate azioni ecclesiali.
Un altro punto importante è questo. La liturgia non può essere affiancata agli altri ambiti, agli altri territori dell'agire ecclesiale. La liturgia è fonte e culmine, ciò da cui tutto promana e a cui tutto viene ricondotto. Non è un settore accanto agli altri. E' la ragione, l'anima, il punto di partenza, e il punto di arrivo. Gli altri due aspetti in fondo, a ben guardare, non fanno altro che indicare l'ambito della parola e l'ambito dell'azione (il dire e il fare). Sono i due ambiti fondamentali dell'agire umano che si intrecciano nei vari territori dove in concreto tale agire di esprime.
Ma, soprattutto, al nostro scopo, è importante rilevare che una buona impostazione è quella di distinguere tutto ciò che serve ad edificare la comunità nel proprio vissuto interno, ad intra, e le azioni che servono invece ad extra, cioè quelle che riguardano l'evangelizzazione, la missione, l'animazione delle realtà temporali, ecc.
Questo serve - perché se una topografia non serve alla vita di una comunità non serve a niente - a verificare, per esempio, l'equilibrio di un'impostazione pastorale. Io credo che tutta la nostra pastorale sia fortemente squilibrata. Dedica molto alla parte ad intra e fatica molto ad organizzare il resto.
Diciamo che ciò che è la pastorale ad extra, cioè rivolta all'esterno, è più una pastorale di iniziative che una pastorale strutturata organicamente. Mentre ad intra, pur con difetti, abbiamo una pastorale strutturata organicamente - le celebrazioni, i sacramenti, i vari momenti della vita interna di una comunità, ecc. ecc. - per quello che riguarda la pastorale ad extra abbiamo perlopiù delle iniziative. Siamo lontani dal realizzare quella frase del Papa della Quaresima del 1986: “La parrocchia deve cercare se stessa al di fuori di se stessa”. Ed ecco che lì si identificano 3-4 grandi campi del vissuto umano, che sono: il campo della famiglia, con la sua crescita interna, l'educazione dei figli, il campo del lavoro, il campo della salute e l'ambito del tempo libero. Sono dimensioni che appartengono al vissuto ed al vissuto cristiano, collocate quindi dentro l'ottica del Vangelo o, se si vuole, abitate dalla luce del Vangelo. Che in realtà, tuttavia, sono perlopiù emigrate dall'agenda pastorale ordinaria e quindi non rientrano nel suddetto trinomio e allargano la mappatura pastorale che poi si differenzia sempre più.... Si pensi alla pastorale dello sport, la pastorale dei mezzi di comunicazione, ecc. ecc.
C'è tutto un ventaglio molto ampio, ma non bisogna neanche rincorrere tutti i frammenti di un mondo che è divenuto più complesso. Bisogna identificare alcune priorità - questa è un'altra norma, insieme a quella della mappatura più aperta - distinte nell'equilibrio dell'ad intra e ad extra. E' la norma delle priorità pastorali.
Ci troviamo di fronte quindi a una riapertura, dopo il tentativo di codificare, un po' maldestramente, solo ciò che era “dentro”. Ci troviamo a riaprire il ventaglio, con il rischio grosso della dispersione. Allora bisogna fare, da un lato, una mappatura secondo una visione ampia e comprensiva della vita reale delle persone e dei loro problemi; dall'altro però, senza disperdere le energie inseguendo tutte le questioni, ma attivando un discernimento sapiente e una progettualità, mirata. Questa è la differenza. Se io in teoria devo dire quali sono i campi della pastorale, posso aprire il ventaglio in maniera estremamente dilatata. Ma se un parroco mi chiede quali sono le decisioni concrete da prendere, io dico che non lo so a priori, si può sapere solo all'interno di una vita diocesana e parrocchiale. Però certamente so che un criterio è quello delle priorità. La progettualità identificherà allora quegli ambiti - senza dimenticare gli altri - su cui va portata in maniera più attenta, più sistematica, più organica, l'attenzione pastorale, ecclesiale.
E' importante però, per concludere, è importante proprio non fidarsi di slanci emotivi, ma affrontare la fatica della progettualità, perché questa apertura della topografia pastorale non significhi un vagare senza orizzonte e senza meta, ma significhi invece rendersi conto di quel “duc in altum”, quel prendere il largo a cui ci invita il Papa: con la sapienza pastorale che si misura inesorabilmente con il concreto, cioè con le forze che ci sono, con i tempi che sono necessari. Guai alla pastorale che mette in progetto tutto e subito, perché finisce per scrivere le pagine inutili del libro delle buone intenzioni. Invece la progettualità è fatta anche di modestia, di umiltà concreta, del sapere ciò che si può realizzare oggi, ciò che si tenterà di fare domani. Ha sempre un traguardo che va un tantino oltre, perché non poggia mai soltanto sulle proprie forze, ma sempre crede nell'intervento di Dio, nella Grazia dello Spirito. Però non fa progetti che non hanno un senso concreto e una dimensione operativamente significativa.

Note

[Nota 1] (N.d.R.) Per un primo approccio alla questione storica, vedi i due articoli di J.Fuchs, con introduzione di Y. Congar, Origines d'une trilogie ecclésiastique a l'époque rationaliste de la théologie, Rev. Sc. ph. th., 1969, 185-211 e dello stesso Y.Congar, Sur la trilogie: prophète-roi-pretre, Rev. Sc. ph. th., 67 (1983) 97-115.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:39 am | | Default

Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37-50) (tpfs*), della prof.ssa Bruna Costacurta

Il nostro sito www.gliscritti.it ha già messo a disposizione on-line "Appunti per una lettura della storia di Giuseppe", un breve commento alla storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, nella sezione Brani di difficile interpretazione della Bibbia. Presentiamo ora una splendida meditazione della prof.ssa Costacurta che fornisce una lettura globale dell'intero racconto. Questa riflessione è stata tenuta ai preti del settore Sud della Diocesi di Roma, su invito di S.E.mons. Paolo Schiavon, il 27 maggio 2004. Il testo, trascritto da mons. Luciamo Pascucci, non è stata rivisto dall'autrice. Conserva, quindi, lo stile di testo parlato.

L'Areopago

Ho pensato di ripercorrere con voi una storia biblica, che è una storia di famiglia e di una famiglia problematica, in conflitto. E' la storia della famiglia di Giuseppe e la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, dove il problema che si pone è, innanzitutto, un problema di fratellanza. Conoscete la storia. Giacobbe, il padre di questi dodici fratelli, ha un amore di preferenza per Giuseppe. Non si sa bene perché, nel senso che in genere si dà la spiegazione che Giuseppe era nato nella sua vecchiaia. Però lo stesso vale anche per Beniamino, il fratello di Giuseppe, tutti e due i figli della moglie amata da Giacobbe, Rachele.

Dunque: Giacobbe ama Giuseppe con un amore di preferenza. Fondamentalmente senza motivo, perché sempre l'amore di preferenza è senza motivo. L'amore di preferenza dipende dal fatto che una persona ama un'altra più di tutte. Perché? Perché di sì! E' il problema che c'è alla base della scelta di Israele. Perché mai Dio ha scelto Israele e l'ha preferito rispetto a tutti gli altri popoli? Perché era il più grande? No! Perché era il migliore? No! Perché allora? Perché di sì! Perché ha scelto quello!
Le preferenze non hanno spiegazioni, però ci sono e nelle famiglie spesso è presente questo problema. Nelle famiglie, quando ci sono dei fratelli, inevitabilmente ci sono delle situazioni di differenza tra questi fratelli, che poi possono essere lette da ciascuno di questi fratelli come situazioni di preferenze di amore da parte dei genitori.

Se volete questo è anche il problema di Caino e di Abele. Anche quella è una famiglia, la famiglia dell'origine e anche quella è una famiglia segnata dalla tragedia, proprio a motivo di una preferenza non accettata. Lì la preferenza era quella di Dio nei confronti di Abele, che Caino non accetta. E anche quella era una preferenza non motivata. Non c'è nessun motivo che il testo dà per giustificare il fatto che Abele appaia come preferito da Dio rispetto a Caino. Non è vero che Caino era più cattivo di Abele, almeno fino all'omicidio. Sì, si vede poi che questo c'era, ma non che facesse sacrifici peggiori di quelli di Abele, non che avesse fatto cose particolari… C'è che l'amore di preferenza, come ogni amore, è gratuito e l'amore di preferenza non vuol dire che non si ami anche l'altro, ma vuol semplicemente dire che si amano le persone in modo diverso. Ora, chi non è capace di accettare questa diversità, legge la diversità come preferenza ingiusta nei confronti dell'altro. E questo vuol dire mancata accettazione dell'altro come diverso, quindi mancata accettazione del fratello, ma soprattutto perché c'è alla base una mancata accettazione del padre come padre, nel senso che Caino odia Abele, perché non è capace di accettare il modo con cui Dio lo ama; non solo il modo con cui ama Abele, ma anche il modo con cui ama Caino stesso. Se Caino fosse stato felice e contento del modo con cui Dio lo amava, non avrebbe avuto nessun problema nel fatto che anche Abele fosse amato in un modo diverso, che sembra persino migliore, ma questo non crea problemi. Se io sono contento di come mi ama Dio, poi non mi fa problema se Dio ama un altro in un altro modo, se quell'altro riesce meglio di me. Io sono contento di come sono, perché sono il risultato dell'amore di Dio. Quando dunque comincia la gelosia, l'invidia, la rivalità tra fratelli, c'è sì un problema di fratelli, ma c'è fondamentalmente un problema di padre e di accettazione del suo amore.

Allora, per Caino e Abele, il padre di riferimento era Dio, qui, per questi fratelli della storia di Giuseppe, il padre di riferimento è invece il padre carnale, Giacobbe, che ama in un modo particolare Giuseppe. Il testo – in questo senso – è molto raffinato anche da un punto di vista psicologico. Queste sono situazioni che si ritrovano continuamente nelle nostre famiglie. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza con suo padre Isacco… Il padre preferiva Esaù e Giacobbe era invece il preferito dalla madre, Rebecca. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza e adesso, come avviene spesso inconsciamente, li riproduce nella sua famiglia con i suoi figli. Così si pone questa situazione di una figliolanza mal vissuta, che è quindi anche una fratellanza mal vissuta.
Ricordate la storia: Giuseppe, amato dal padre, riceve in dono la tunica particolare. C'è tutta una serie di segni che dicono che lui è il preferito e lui, non si sa bene se, ingenuamente o meno, sembra non tentare di diminuire le tensioni, ma anzi addirittura le provoca, andandosene in giro a raccontare i suoi sogni, soprattutto quello dei covoni che si inchinano e quindi dei fratelli che dovrebbero rendergli omaggio. E allora, già questo era il preferito del padre, poi va in giro a dire che i fratelli dovranno omaggiarlo! Di per sé non è che questo aiuti molto le relazioni fraterne. Tanto non aiuta le relazioni fraterne, che i fratelli smettono definitivamente di essere fratelli di Giuseppe. Per cui Giuseppe viene inviato dal padre dove stavano i fratelli, che appunto non sono più fratelli, non lo salutano neppure e loro, invece di accoglierlo come fratello mandato dal padre, decidono di ucciderlo. Un po' perché non ne possono più - e quindi l'omicidio come manifestazione del rifiuto e della rabbia - un po' anche probabilmente per cercare di sfuggire a quest'ombra che incombe su di loro e cioè il rischio che i sogni di Giuseppe si avverino. C'è dunque una volontà di morte che è rifiuto dell'amore del padre e tentativo di mettersi in qualche modo in salvo. Vi ricordate che Ruben e Giuda intervengono. Non vogliono che il fratello sia ucciso e dicono: buttiamolo nella cisterna! Non è un granché come soluzione, però è un modo per tenerlo vivo e per prendere tempo, se non che passa la carovana e Giuseppe viene venduto. La vendita è una specie di trasposizione simbolica dell'omicidio. In realtà Giuseppe in questo modo è stato eliminato e quindi per i fratelli lui è definitivamente morto.
A questo punto c'è un'annotazione interessante che fa il testo: dopo averlo gettato nella cisterna, dopo aver compiuto un fatto veramente agghiacciante – questi che sono dei fratelli – si mettono a mangiare. Questo è un bel modo con cui il testo sottolinea l'assoluta crudeltà di questi fratelli e anche l'esasperazione radicale a cui ormai erano arrivati, per cui questi si mettono a mangiare tranquillamente. Ma questo crea anche un gioco perché loro lo gettano nella cisterna e mangiano e poi quando non ci sarà proprio più niente da mangiare, essi dovranno andare in Egitto e lì se lo ritroveranno davanti, vivo, senza saperlo, loro che pensavano in questo modo di essersene liberati per sempre. C'è dunque il cibo che fa da filo conduttore.
Non bisogna dimenticarsi che, quando Giacobbe, il padre di questi fratelli, aveva ingannato il fratello e il padre, anche lui aveva ingannato il padre con una questione di cibo, portandogli la cacciagione che il padre amava. Siamo davanti ad una famiglia divisa ed in realtà come famiglia è distrutta.
Nelle nostre famiglie non ci sono tanto figli e fratelli gettati nelle cisterne, però di famiglie distrutte ce ne sono tante e questa storia di Giuseppe può diventare una specie di paradigma, da assumere non nella sua materialità, ma per il senso che rivela. Qui noi siamo davanti ad una famiglia che non ha più nessun punto di coesione, perché la situazione è quella di fratelli che hanno la loro unità tutta basata solo sulla complicità in un delitto e, dall'altra parte, c'è un padre ingannato e disperato. Dunque, la famiglia non c'è più! C'è un padre che non è più capace di essere tale e che viene in qualche modo ridotto all'impotenza dai suoi stessi figli e questi figli che rifiutano il padre e non sono più fratelli, perché sono fratelli, solo perché complici. E la complicità non è fraternità.
E allora: ecco che si dipana tutta la nostra storia. Tra l'altro la notizia della morte di Giuseppe al padre viene data mandando la tunica di Giuseppe intrisa di sangue, così che lui pensi che Giuseppe è stato divorato da una belva feroce. Ed è significativo ancora una volta tutto il gioco, perché prendono del sangue di capretto per ingannare il padre e Giacobbe per ingannare suo padre Isacco aveva ugualmente usato il capretto. C'è questa specie di cicli che ritornano e che ritroviamo nella nostra storia e nelle nostre famiglie di uomini, proprio perché ciò che i padri hanno vissuto, poi comunque, in qualche modo, tendono a riprodurlo con i figli e questa è una dimensione che bisogna tenere d'occhio.
Giuseppe viene dunque venduto e portato in Egitto. Sappiamo lì di varie vicende; ci sono ancora di mezzo i sogni e proprio per l'interpretazione dei sogni Giuseppe diventa secondo solo a Faraone nel paese d'Egitto per tutta la nota faccenda del grano messo da parte che poi serve per il tempo della carestia. Carestia che tocca anche il paese di Canaan, cosicché a un certo punto Giacobbe deve inviare i suoi figli in Egitto a cercare il grano e li invia, però, tenendosi con sè Beniamino. Lui è l'unico altro figlio di Rachele, la moglie amata da Giacobbe… Giacobbe ha già perso Giuseppe, è chiaro che non vuole perdere anche Beniamino e se lo tiene a casa, perché è il più piccolo, e così gli altri fratelli partono. Arrivano in Egitto, si incontrano con Giuseppe, si inchinano davanti a lui e – questo è significativo – i sogni cominciano ad avverarsi - ma loro non lo sanno, perché loro non riescono a riconoscere Giuseppe. Ormai è passato del tempo, lui si è “egizianizzato”. Ma, soprattutto, l'impossibilità di Giuseppe di riconoscere i fratelli è simbolicamente l'impossibilità per questi fratelli di accettarlo come fratello. Essi lo hanno voluto morto e per loro è morto e quindi, quando se lo ritrovano davanti vivo, non riescono a riconoscerlo.
Ciò è simbolicamente molto significativo. Giuseppe decide di recuperare questi fratelli lui, che è ancora fratello, mentre loro non sono più fratelli di lui. E così decide di aiutare i suoi fratelli a ridiventare tali. E comincia allora il cammino di presa di coscienza che Giuseppe fa fare loro e che comincia con il mettere i fratelli in una situazione di difficoltà; non tanto per vendicarsi e per ripagarli con la loro stessa moneta, ma perché è necessario che il cammino di peccato che questi fratelli hanno percorso sia ripercorso a ritroso, sia recuperato e per trasformare il male in bene bisogna passare inevitabilmente attraverso la sofferenza. Allora Giuseppe crea una situazione di difficoltà e di sofferenza per i suoi fratelli, non per vendetta, ma per amore, perché vuole che i suoi fratelli facciano un cammino di conversione.
Così li accusa di essere spie ed essi davanti a questa accusa sono costretti a rivelarsi e a dire chi sono. Sono pieni di paura, perché sono davanti ad uomo straniero, che non conoscono, che parla una lingua diversa dalla loro, potente. Sanno che la vita è nelle sue mani e si sentono improvvisamente dire: voi siete spie! Come fare a dimostrare che non è vero? E allora dicono chi sono, dicendo più di quello che dovrebbero dire. Dicono: noi siamo figli di un solo padre; eravamo dodici, adesso un fratello non c'è più, l'altro è rimasto con il padre… No! Noi non siamo spie! Giuseppe li sta accusando di essere spie e loro dicono di non esserlo! Non siamo spie, perché siamo figli di un solo uomo! Non si vede bene perché mai l'essere figli di un solo uomo sia in contraddizione con il fatto di essere spie. Loro probabilmente stanno cercando di portare la cosa su un piano familiare; perché dunque sono accusati su un piano nazionale? Però il loro parlare non è pertinente e soprattutto che c'entra il fatto che un fratello non c'è più e che c'entra il fatto che l'altro fratello è rimasto in Canaan? Perché mai questo dovrebbe essere una prova della loro onestà? La loro risposta non è pertinente nei confronti dell'accusa di Giuseppe, ma è perfettamente pertinente, invece, nella misura in cui si capisce che, quando uno si porta dietro il peso del peccato, quando poi si trova in difficoltà e ha paura, in qualche modo cerca di confessarlo, in qualche modo il peccato ritorna su, in qualche modo si rivela, anche se uno non vuole. E questi cominciano a rivelare che un fratello non c'è più! Giuseppe coglie la palla al balzo e, prima li sconcerta, mettendoli in prigione, lasciandoli lì nel loro brodo per tre giorni, poi, operando un cambiamento di decisione, che li sconcerta ancora di più. Infatti prima aveva detto: uno di voi andrà a prendere l'altro fratello e voi rimanete qui. Poi li lascia in prigione e poi dice ancora: andate via tutti, uno solo di voi rimane qui! Essi capiscono sempre di meno e sempre più vivono il fatto di essere in balia di questo che, oltretutto, sembra uno che cambia idea continuamente, mezzo matto. Vai a capire questo cosa fa! Dunque cresce l'angoscia nei fratelli, questo sentirsi in balia di Giuseppe; uno allora viene tenuto e tutti gli altri vengono inviati ad andare a prendere Beniamino per portarlo da Giuseppe, con questo discorso che va nella linea dei fratelli, ma che è appunto del tutto non pertinente e che è quello di Giuseppe che dice: se voi mi riportate qui il fratello che avete lasciato in Canaan, io saprò che voi non siete spie. Giuseppe va nella linea tracciata dai fratelli, dove il fatto delle spie è molto chiaramente solo un modo perché questi si rendano conto. E loro si rendono conto. Perché loro a questo punto sanno di essere completamente in mano di questo potentissimo sconosciuto. “E allora si dissero l'un l'altro: certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato, per questo ci è venuta addosso questa angoscia!” Il sangue del fratello pesa addosso e quello che sta avvenendo viene da loro percepito come una punizione, perché l'angoscia che stanno provando adesso ricorda loro l'angoscia di Giuseppe. E questo essere completamente in balia di questo qui ricorda quell'essere totalmente in balia di Giuseppe, gettato in fondo alla cisterna e poi addirittura venduto come se fosse un oggetto.
Giuseppe sta cominciando a ottenere i primi risultati, perché sta cominciando a far emergere la coscienza della colpa in questi suoi fratelli e contemporaneamente si prende cura di loro, perché gli dà il grano e consente quindi a loro di tornare in patria e di dare vita alle loro famiglie e quindi al padre Giacobbe. Allora: questi ritornano, ritornano da Giacobbe. Vi ricordate che c'è la strana scena, ripetuta due volte, di loro che aprono il sacco e trovano dentro il denaro. Così si spaventano ancora di più, perché quello là, mezzo matto, gli aveva detto: voi siete spie! Adesso avrà l'occasione per dire: voi siete anche ladri! Infatti si ritrovano con il denaro, come se avessero portato via il grano senza pagare. Non capiscono e hanno paura! Comunque tornano da Giacobbe e adesso in qualche modo loro si ritrovano nella stessa situazione dei tempi di Giuseppe, perché ancora una volta tornano dal padre e ancora una volta c'è un fratello in meno. A quei tempi c'era in meno Giuseppe e hanno detto: un leone lo ha sbranato! Adesso non c'è Simeone e se l'è sbranato un altro leone, cioè il potente, folle d'Egitto. Tornano senza uno e questo tornare senza uno, a motivo di quell'altro uno che è lì adesso, condiziona tutto. Perché loro tornano dicendo: se vogliamo riavere Simeone, dobbiamo tornare lì con Beniamino. E Giacobbe, davanti a questa prospettiva dice: no! Io Beniamino non lo lascio andare; anzi ancora di più! Giacobbe dice: voi mi avete privato dei figli. Lo dice solo perché è angosciato, addolorato e amareggiato, ma sta dicendo la verità senza saperlo! Voi mi avete privato dei figli, Giuseppe non c'è più! Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere! No! Perché tutto questo ricade su di me! Allora c'è Ruben che dice: mi faccio garante e lui dice: no! Il mio figlio non verrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo! Se gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere la mia canizie negli inferi! Allora: vedete che cosa è riuscito a fare Giuseppe! Giuseppe, che è vivo, sta guidando il gioco, perché è lui che ha tenuto lì Simeone, è lui che ha chiesto che gli riportino Beniamino! E' lui, dunque, che tira le file del gioco, perché è vivo, ma in realtà sta condizionando tutto, perché è creduto morto. Giacobbe non vuole mandare Beniamino, perché è convinto che Giuseppe sia morto e allora, avendo perso Giuseppe, non vuole perdere anche l'unico altro figlio di Rachele. Se Giacobbe sapesse che Giuseppe è vivo potrebbe mandare Beniamino, ma invece, siccome lui sa che Giuseppe è morto, allora non manda Beniamino; ma se non manda Beniamino, allora non riesce neanche a riprendere Simeone. Questo fatto che Giuseppe è morto impedisce la liberazione di Simeone, ma tutto questo sta avvenendo perché in realtà lui è vivo e sta facendo questo suo gioco. Allora, questo essere contemporaneamente vivo e morto di Giuseppe è ciò che condiziona tutto quanto e, d'altra parte, questo suo essere contemporaneamente vivo e morto è determinato dal fatto che i fratelli hanno commesso il loro peccato e non lo hanno confessato. Giuseppe è contemporaneamente vivo e morto, perché i fratelli hanno mentito, dicendo che è morto! Non hanno saputo confessare il fatto di averlo venduto e allora questo peccato non confessato dei fratelli, adesso fa' sì che Giuseppe sia contemporaneamente vivo e morto e che di fatto tutta la storia venga bloccata.
Beniamino non parte, Simeone rimane laggiù, loro rimangono lì e aspettano di morire, perché, quando poi il grano finisce, non resta che morire. Solo che poi, davanti alla morte, l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento e poiché finisce il grano Giacobbe cede e manda Beniamino. Questi devono necessariamente tornare in Egitto per prendere altro grano. I fratelli si rimettono in marcia e ritornano in Egitto; hanno il problema di quel denaro nei sacchi, si ingraziano il vice di Giuseppe. Questi li rassicura, ma loro non capiscono cosa sta succedendo, non sanno se credere o non credere a queste rassicurazioni, poi però vengono invitati al banchetto. Quindi prima sono lì che pensano: chissà adesso questi che cosa ci fanno per questa faccenda del denaro! Poi invece vengono invitati al banchetto e quindi cominciano a pensare che tutto sommato è vero; le parole che gli hanno detto sono vere, non devono temere nulla! Lì, nel banchetto, però cominciano a succedere cose strane: viene data una porzione doppia a Beniamino. Perché? Che cosa sta succedendo? Questi poi parlano un'altra lingua; quindi non riescono a capire cosa succede. Il pazzo là dovrebbe restituire Simeone, però dà la doppia razione a Beniamino. Che cosa sta succedendo? Si volesse tenere Beniamino! E l'angoscia cresce, finché vengono rimandati, partono… gran sospiro di sollievo! Non c'è più da avere paura e nel momento in cui la tensione si abbassa, nel momento in cui non sono più sulla difensiva, in cui si è più vulnerabili, Giuseppe dà l'ultima mazzata! Perché? Mentre loro sono tranquilli, perché finalmente è andata, e sono nel viaggio di ritorno, li fa inseguire, bloccare da quello stesso suo vice che li aveva rassicurati e che adesso invece è diventato una belva. E quindi ancora una volta questo sconcerta i fratelli, e vengono accusati di aver rubato la coppa di Giuseppe, che non è una coppa qualsiasi, ma che è la coppa attraverso cui Giuseppe fa le divinazioni e interpreta i sogni. I fratelli si sanno innocenti di questa colpa, come si sapevano innocenti del fatto di essere spie. Dunque, ancora una volta dicono: non è vero! E allora: aprite pure i sacchi e se trovate la coppa, chi ha la coppa sarà nostro prigioniero! Loro sono tranquilli, tanto non hanno commesso questa colpa. Ne hanno commessa un'altra molto peggiore, ma quella tanto non la sa nessuno! E allora: aprite pure i sacchi! Aprono i sacchi e la coppa viene trovata nel sacco di Beniamino e quindi ora Beniamino deve essere tenuto in ostaggio; ora è Beniamino quello che deve morire.
Davanti a questo i fratelli finalmente non sono più complici, ma diventano solidali e davanti alla prospettiva che Beniamino debba pagare, loro dicono: allora no! Paghiamo tutti insieme! La complicità è diventata solidarietà! Ora i fratelli sono ritornati ad essere fratelli, pronti a pagare insieme. Con una frase molto significativa che dice Giuda: che diremo al mio signore, come parlare, come giustificarci? Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi. Ed eccoci schiavi del mio signore noi e colui che è stato trovato in possesso della coppa. Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi, solo che la colpa di cui lui sta parlando non è quella della coppa, è quella di aver venduto il fratello, ma Giuda pensa che tanto colui a cui sta dicendo questa frase non possa saper nulla di quello che è avvenuto, lui non sa che quello è Giuseppe! E lui parla a Giuseppe di quello che hanno fatto a Giuseppe, convinto che tanto Giuseppe non possa capire e che Giuseppe avrebbe interpretato come la colpa della coppa. E invece Giuseppe capisce ed era lì che li voleva portare. E allora Giuseppe interviene e offre la libertà a tutti in cambio di Beniamino. A questo punto Giuda di nuovo interviene raccontando tutta la storia, gli incontri precedenti, di come loro avevano convinto il padre a lasciare Beniamino, del fatto che lui si era fatto garante, perché Beniamino potesse partire e dice Giuda: e adesso, se noi torniamo senza nostro fratello, per nostro padre è la fine, perché nostro padre ama Beniamino più di tutti. E c'è la frase: l'amore del padre per Beniamino è troppo grande, la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro. Questo Giuda non lo può dire di se stesso e infatti può dire tranquillamente: tieni me, ma rimanda Beniamino! Perché, se Beniamino non torna, nostro padre muore. Se invece non torno io, nostro padre continua a vivere. Dunque, Giuda sta dicendo: Beniamino è amato più di me! Beniamino è amato più di tutti noi fratelli messi insieme. Ebbene, proprio a motivo di questo, Giuda dice: prendi me! Allora, l'amore del padre che, ai tempi di Giuseppe, era stata proprio la causa della decisione di uccidere Giuseppe, l'amore del padre, che era stato il motivo per quella decisione, adesso quello stesso amore di preferenza diventa invece il motivo per offrire la propria vita. L'amore di preferenza del padre era stato il motivo per uccidere, adesso diventa il motivo per consegnare la propria vita e morire al posto del fratello amato. Non si tratta più di uccidere il fratello amato dal padre, ma di morire al suo posto. E proprio a motivo del fatto che il padre lo ama di più!
La gelosia è completamente riassorbita ed è diventata amore fraterno ed è diventata anche amore filiale, perché è l'amore fraterno nei confronti di Beniamino, ma è soprattutto l'amore filiale nei confronti del padre. Giuda, per amore del padre, accetta di morire e per amore di un padre che ama Beniamino più di tutti gli altri; accetta di morire per amore di un padre che ama un altro più di lui.
Questo è il vero amore filiale; questa è la vera accoglienza del Padre e questo è anche il vero amore fraterno. E questo è, per i fratelli di Giuseppe, il compimento del cammino che Giuseppe voleva far fare loro. Voleva farli ritornare ad essere fratelli, perché voleva che tornassero ad essere figli ed ora questo è avvenuto. Il peccato è stato completamente riassorbito, perché quello che era motivo di peccato, adesso è diventato motivo dell'amore più grande, che è dare la vita per gli amici. La conversione ora è totale. Chi ha ucciso è diventato invece capace di morire per gli altri. Il peccato è stato completamente riassorbito e allora adesso Giuseppe può anche manifestarsi. Giuseppe si manifesta, i fratelli possono finalmente riconoscerlo, perché avendo finalmente riconosciuto il padre si possono anche riconoscere come fratelli e questo ricrea la famiglia. Ma questo è possibile solo perché Giuseppe ha perdonato! Non c'era cammino possibile per i fratelli, per convertirsi e non c'era cammino possibile perché la famiglia potesse ritornare ad essere tale, se non perché c'è stato qualcuno che ha subito l'ingiustizia, la violenza, qualcuno che è stato vittima e che invece di rispondere al male con il male, ha risposto al male con il bene, ha perdonato. Ed è solo su questo perdono di Giuseppe che si basa tutta la storia. Poiché Giuseppe ha perdonato, ha potuto aiutare i fratelli a fare il cammino della figliolanza e della fratellanza. E poiché Giuseppe ha perdonato, la famiglia è tornata ad essere famiglia.
E questo è paradigmatico, dove paradigma vuol dire che non è la materialità che è significativa, ma il senso che il testo rivela. Il senso che il testo rivela e che è significativo per le nostre famiglie è che, perché le famiglie siano tali, perché possano restare unite e perché possano eventualmente ricomporsi dopo la frattura, bisogna che ci sia qualcuno che perdona! Bisogna che ci sia qualcuno che rinuncia alle proprie rivendicazioni per far prevalere il bene dell'altro e il bene comune. Bisogna che ci sia qualcuno che cede, ma non per debolezza, quanto perché portatore di una forza più grande. Bisogna che il più forte, quello cioè che è capace di amare di più, perché quella è la vera forza, accetti di cedere. Il più forte accetti di difendere la debolezza, accetti di perdonare, di rinunciare anche ai propri diritti per salvaguardare invece il bene comune.
Questo è vero delle famiglie, ma questo è vero anche di quella grande famiglia che è la chiesa. E allora adesso, quando si è capito questo, i fratelli ridiventano fratelli, ridiventano figli e compare allora, a questo punto, il vero protagonista che è Dio. Dio che, da Giuseppe, viene proclamato come colui che si inserisce nella storia degli uomini per cambiarla. Dio come Colui che trasforma la storia di morte in storia di vita. “Dio che è Colui che mi ha mandato qui prima di voi, perché io potessi farvi vivere e se voi avevate pensato il male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire al bene per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso!” Il Dio della vita che entra dentro la storia di morte degli uomini per trasformarla. Ma questo è possibile perché il perdono di Dio si incarna nel perdono di un uomo. Dio può perdonare perché Giuseppe ha perdonato. Allora, cambiano le prospettive: il male è cambiato in bene e i sogni di Giuseppe si avverano, ma non come pensavano i fratelli. Perché effettivamente i fratelli si prostrano davanti a Giuseppe, ma non è per l'umiliazione, quanto perché l'hanno ritrovato. E il sole, cioè il padre, non si prostra. Il padre, Giacobbe, invece abbraccia Giuseppe. Ecco il compimento dei sogni di Giuseppe; il compimento dei sogni non è la prostrazione, ma è che finalmente Giuseppe entra nel suo ruolo di figlio e, da fratello, consente anche ai fratelli di entrare pienamente nella loro verità di fratelli e di figli capaci di lasciarsi amare come il padre vuole amare e come Dio vuole amarci.
Così la famiglia si ricompone e Dio può rivelarsi e può farsi presente dentro questa famiglia e può allora veramente ricolmarla del suo amore, che si incarna poi nell'amore del Padre, nell'amore dei fratelli, facendo definitivamente trionfare la vita, perché la vita – quella vera – è possibile solo quando è una vita perdonata.

Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it 

Il matrimonio nella Sacra Scrittura
Genesi 1-4: creazione, peccato e redenzione 

Per altri articoli e studi della prof.ssa Bruna Costacurta o sul libro della Genesi presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:37 am | | Default

Unde malum? Da dove viene il male? Per una riflessione teologica. Pensieri da condividere, leggendo insieme testi dei teologi Joseph Ratzinger e Walter Kasper e del filosofo Vittorio Possenti (tpfs*), di d. Andrea Lonardo

La domanda sul male e sulla sua origine, si pone dinanzi a Dio, al suo cospetto. E' evidente come il sole che, se Dio non fosse, neanche il male sarebbe. Se avesse ragione il materialismo, né la colpa morale, né il lutto sarebbero realmente male, ma sarebbero semplicemente eventi che “appaiono” all'uomo, in una realtà non dotata di radicale libertà e senso, in una natura né buona, né cattiva. Come le idee di Dio, di anima e di libertà sono correlativa (e la non verità della prima porterebbe alla insensatezza delle altre) così possiamo affermare del male.
La lettura recente di alcuni contributi che si pongono volutamente e coscientemente da un punto di vista teologico, da una prospettiva che considera il male non solo come evento morale intra-umano, ma lo valuta al cospetto di Dio, ci ha spinto a voler condividere alcuni pensieri. Il titolo “Pensieri da condividere” vuole esprimere proprio questo: non che essi debbano necessariamente essere condivisi, ma che le parole di questo articolo sono scritte proprio perché possano essere lette e lo scrittore di essi possa condividerli.
I tre approcci che proponiamo ci sono sembrati straordinariamente in consonanza e potrebbero esser letti quasi come un testo unitario, pur nelle diverse sfumature.
E' in gioco innanzitutto che cosa sia il male o chi sia il male. E la sfumatura chi/che cosa - come vedremo - è questione centrale. Non solo per l'origine del male. E' questione che vuole identificare, nominare, ciò che il male stesso sia (e non si può definire l'origine di qualcosa, se non si ha il coraggio di identificarlo). E' questione che determina in conseguenza anche come il male si manifesti e quali siano le sue espressioni più proprie.
Il card. J.Ratzinger, in un suo saggio che vi proponiamo, ha acutamente asserito il carattere personale/non personale del male. Il maligno/il male è veramente nemico di Dio, è veramente nemico dell'uomo – con linguaggio popolare potremmo dire che “ce l'ha con l'uomo, se la prende con l'uomo, ce l'ha liberamente con lui” – con una libertà che non è la necessità degli eventi naturali. Ma questa inimicizia è proprio nella forma della non personalità. Non ha forse il pensiero cristiano – ed è uno dei suoi contributi più significativi – mostrato che si è persona, proprio perché si hanno relazioni e che queste relazioni sono intessute di amore, di responsabilità, di fiducia, di fecondità, ecc. ecc.? Eppure il male è proprio colui che non ha queste relazioni, colui che ha scelto e sceglie di rifuggire da ogni relazione di amore, anzi di insidiare quelle che esistono, colui che si è tagliato fuori da ogni fiducia da prestare a Dio e all'uomo. Il male è rabbia, amarezza, tristezza, è il ghiaccio di una immobilità glaciale (come lo ha ben descritto Dante). Ad una analisi precisa il male si rivela tutt'altro che goduria, piacere, passione per la vita, ma piuttosto come l'incapacità di gioire, di prendere parte. Il rifiuto di ogni relazione di bene diviene, infine, anche incapacità dell'amore di sé: Il male si rivela così come essere personale, nella forma della non persona.
E tutto questo perché non è semplicemente assenza di bene, come, pur acutamente, talune posizioni filosofiche sono arrivate a definire, ma, più radicalmente, assenza di quel bene che è Dio stesso, anzi opposizione decisa e determinata a Dio stesso, il cosciente volgergli le spalle. E' rifiuto, non solo assenza di Dio. Il rifiuto di Dio è così rifiuto dell'Origine della dignità personale umana, lotta contro il Creatore stesso che diviene tentativo di dissoluzione della stessa personalità umana, a motivo del legame di ogni persona con Colui che è l'Amante delle sue creature.
Ma seguiamo da presso il card.Ratzinger nelle sue considerazioni [1] . Esse prendono avvio dalla valutazione critica di un intervento dell'esegeta H.Haag che, negli anni sessanta, si era espresso contro l'idea dell'esistenza del Maligno.
 
Il vangelo della prima domenica di quaresima, che riferisce la tentazione di Gesù ad opera di «Satana», dà occasione di anno in anno di meditare su quella misteriosa potenza, che si nasconde dietro il nome di «Satana». Un ulteriore impulso a questo problema venne alcuni anni fa da Tubinga; nel 1969 Herbert Haag, professore di Antico Testamento, vi aveva pubblicato un libretto con il significativo titolo di La liquidazione del diavolo?. Questo libretto culmina nella frase: «Noi abbiamo già compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di 'diavolo' sta semplicemente al posto del concetto di 'peccato'» (p. 52). Al papa, che aveva sottolineato la reale esistenza di Satana e si era dichiarato contrario alla sua dissoluzione in qualcosa di astratto, Haag ha di recente rimproverato di ricadere nella visione del mondo giudaica dei primi tempi; Paolo VI farebbe confusione, nella Sacra Scrittura, tra visione del mondo ed espressione della fede. Cosa si può dire di ciò? E' importante qui, anzitutto, una precisazione metodologica. Neppure Haag può negare che nel Nuovo Testamento Satana e i demoni giochino un ruolo importante. Non può contestare nemmeno il fatto che nel Nuovo Testamento il termine «diavolo» non rappresenta affatto un sinonimo di peccato, ma allude ad una potenza esistente; l'uomo è abbandonato ad essa e ne viene liberato per opera di Cristo, perché solo lui, nella sua qualità di «più forte» può legare l'uomo «forte» (Lc11,22; cfr. Mc. 3,27). La supposizione che si avrebbe conosciuto la possibilità di sostituire diavolo con peccato sorge in Haag per via induttiva, senza un vero e proprio fondamento; il «fondamento» si nasconde in una formulazione, che per la sua ovvietà potrebbe indurre a rinunciare ad un esame più preciso: «Nel significato delle forme di pensiero giudaiche di allora il diavolo appare nel Nuovo Testamento come l'esponente del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo del loro ambiente» (p. 47). Qui si ammette — come il testo afferma indiscutibilmente — che Gesù e gli apostoli fossero convinti dell'esistenza di potenze demoniache; nello stesso tempo, però, si presuppone come del tutto evidente che essi fossero vittime «delle forme di pensiero giudaiche di allora». Da qui non è difficile derivare la conclusione seguente, che cioè «questa concezione non è più conciliabile con la nostra immagine del mondo» (p. 27). Ciò significa che il motivo per il «commiato dal diavolo» non poggia sulle affermazioni bibliche, le quali sostengono il contrario, ma sulla nostra visione del mondo, con la quale esso sarebbe «inconciliabile». In altre parole, Haag congeda il diavolo non come esegeta, come interprete della Scrittura, ma come persona del nostro tempo, che ritiene improponibile l'esistenza di un diavolo. L'autorità in forza della quale egli asserisce il suo giudizio non è, dunque, quella di interprete della Bibbia, ma la visione del mondo a lui contemporanea.
Si potrebbe pensare di aver così eliminato il problema, perché è chiaro ormai che Haag giudica quello che è «conciliabile» con il pensiero moderno, contro il testo della Bibbia, sulla base della sua concezione. Ma la questione non è così semplice perché, in realtà, ci sono delle espressioni nella Bibbia, che non si possono reputare come testimonianza della fede, ma devono venir considerate come struttura della visione dei mondo, nella quale quell'idea particolare si esprime. Questo vale ad esempio per la visione del mondo geocentrica, che venne difesa in un primo momento, contro Copernico e Galilei, come dottrina biblica, finché si riconobbe che la Bibbia non è competente per problemi di astronomia; ciò vale per l'interrogativo sull'origine del mondo; per un certo tempo si volle vederla descritta letteralmente nel primo capitolo della Genesi, finché si ritrovò la strada per dar ragione di nuovo alla chiesa antica nell'ammettere che qui si tratta di affermazioni della potenza di Dio e del compito dell'uomo, ma non di informazioni scientifiche. Si dovrà dichiarare pure che non è affatto sempre chiaro fin dove arrivi l'affermazione di fede della Bibbia e cosa sia soltanto una strumentalizzazione del suo tema peculiare, determinata dal tempo. Nel medioevo l'idea della terra come centro dell'universo si era fusa così strettamente con la fede nell'incarnazione di Dio, con la speranza in un nuovo cielo e una nuova terra, che la visione del mondo eliocentrica apparve come un attacco al nucleo stesso della fede. Perché Dio infatti dovrebbe essersi fatto uomo su un pianeta privo di importanza dal punto di vista astronomico, posto in mezzo ad un gigantesco universo? La decisiva azione salvifica non era stata privata di una degna sede? Solo con una faticosa lotta si poté arrivare a capire cosa è necessario, e cosa non lo è, per credere nella «discesa» di Dio. Per questo parla a sfavore di Haag la semplicità con cui egli stabilisce ciò che è conciliabile o meno con la visione moderna del mondo; parla contro di lui la falsa pretesa di decidere in qualità di esegeta, benché egli parli come filosofo e la sua unica filosofia consista evidentemente in una irriflessiva modernità. Ma non è ancora stato deciso in senso univoco il problema se qui, forse, non ci si trovi realmente davanti solo ad un modo di vedere determinato dalla visione del mondo, il cui contenuto reale si debba separare dalla forma.
Sorge perciò l'interrogativo: come si può chiarire ciò? Come si può evitare che vengano qui ripetuti degli scontri falsi e dannosi come la disputa con Galileo? Come si può impedire, viceversa, che la modernità venga amputata per amore della fede stessa? Anche questo è accaduto, da Reimarus fino ai cristiani tedeschi del Terzo Reich; nel mettere in guardia da nuovi casi Galileo, si tace in genere su questo fatto, benché gli effetti di cristianesimi così conformistici fossero probabilmente molto più catastrofici del processo a Galilei, che non fu soltanto un prodotto dell'ostinatezza ecclesiastica, ma la lotta di un'intera società, la quale doveva imparare a superare la scossa ricevuta dai principi spirituali della storia fin'allora vissuta ed a distinguere di nuovo, nel cambiamento dei tempi, tra «stelle fisse» e «pianeti», tra orientamento persistente e movimento transitorio. Non esistono criteri che si possano impiegare subito, e senza tema d'errare, in ogni caso che si presenti; il tracciare dei confini rimane un compito, che richiede anche un continuo sforzo spirituale; si potrà comprendere così una lotta per i confini della fede, finché, per un verso, rimane la disponibilità alla correzione sulla base di un sapere dimostrato e, dall'altra parte, si riconosce che una fede può venir realizzata soltanto nella fede comune con la chiesa; quello che di volta in volta viene considerato sostenibile o meno, non è soggetto alle disposizioni di decisioni private. Anche se non esiste criterio alcuno, che in tutti i singoli casi indichi automaticamente, volta per volta, dove termina la fede e dove inizia la visione del mondo, esistono tuttavia una serie di aiuti per giudicare, i quali indicano la strada da seguire nella ricerca di delucidazioni. Io ne nomino quattro. Un primo criterio deriva dal rapporto dei due Testamenti. La Bibbia non esiste in uniformità, ma nell'accordo tra Antico e Nuovo Testamento, che nel loro porsi di fronte e nella loro unità si commentano a vicenda. Si deve affermare anzitutto che l'Antico Testamento ha valore soltanto in unione col Nuovo, sotto i suoi segni, per mezzo della sua rapportabilità, come pure che il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto solo grazie al suo continuo riferirsi all'Antico. Questo dato di fatto è generalmente riconosciuto per quanto riguarda le prescrizioni legislative dell'Antico Testamento; esse non hanno valore di legge nella loro letteralità, ma valgono in quanto sono una parte della storia che porta a Cristo, che è terminata in lui. La stessa regola di base, che Paolo ha chiaramente formulato per la questione della legge, determina in generale la relazione dei Testamenti. Se nell'ultimo secolo la si avesse avuta così chiaramente davanti agli occhi come l'ebbero i padri della chiesa, si sarebbe evitata tutta la disputa sul racconto della creazione. In base ad essa, infatti, il racconto della creazione della Genesi non ha valore diretto, come testo veterotestamentario, nella sua nuda letteralità, ma in quanto viene accolto nella prospettiva del Nuovo Testamento, nell'ambito della cristologia. Se si usa questo criterio, si vede che Gv. 1,1 è l'assunzione neotestamentaria del testo della Genesi, la cui vivace descrizione viene riassunta nell'unica affermazione: in principio era il Verbo. Tutto il resto viene così rimandato nel mondo delle immagini. Ciò che rimane è la provenienza della creazione dalla parola, la quale si rispecchia nell'Antico Testamento in molte parole. Che senso ha questo criterio per le nostre questioni? Chi lo usa va incontro ad un risultato sconcertante. Mentre noi nel problema della creazione e nella questione della legge trovavamo, nel porre il Nuovo Testamento di fronte all'Antico, la tendenza alla concentrazione, al riassunto in un semplice punto centrale, qui appare esattamente il contrario, la tendenza cioè all'espansione; la presentazione di potenze demoniache appare nell'Antico Testamento soltanto gradualmente; nella vita di Gesù invece possiede un peso incredibile, che rimane immutato in Paolo e si mantiene fino agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, nelle lettere della prigionia e nel vangelo di Giovanni. Questo processo di intensificazione, di estrema cristallizzazione del demoniaco — che avviene nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento, proprio in contrapposizione alla figura di Gesù — e la persistenza del tema nell'intera testimonianza neotestamentaria possiedono una notevole forza espressiva. A partire da qui si potrà dire che nella storia iniziale della fede veterotestamentaria l'affermazione di potenze demoniache doveva rimanere in disparte, perché si doveva far accettare, in primo luogo, contro ogni dualità, la fede nel Dio uno ed unico. In un ambiente saturo di dei, che osservava incerto i cambiamenti tra dei buoni e cattivi, il richiamo a Satana avrebbe tolto la sua chiarezza alla decisiva professione religiosa. Solo quando la tesi dell'unico Dio, con tutte le sue conseguenze, era divenuta possesso imperturbabile di Israele, fu possibile allargare lo sguardo a delle potenze che superavano la dimensione dell'uomo, senza poter mettere in discussione Dio, nella sua unicità. Questo processo storico rimane importante in quanto anche oggi dà un parere vincolante sull'ordine gerarchico della conoscenza di fede. Al primissimo posto sta l'essere Dio di Dio, la sua unicità. La fede cristiana va verso Dio e, a partire da lui, vede il mondo; il cristiano, come dice Gregorio di Nissa a proposito del libro di Qohelet (2,14), ha i suoi occhi nella testa, cioè in alto, non in basso. Egli sa che colui che teme Dio non deve temere niente e nessuno e il timore di Dio è fede, qualcosa di molto diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Ma esso è anche qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore, che non vuol vedere la serietà della realtà. E' proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo, ma essere in grado di percepire la realtà nel suo insieme. E ciò chiarifica anche il fenomeno dell'intensificazione: quanto più l'uomo sta dalla parte di Dio, tanto più egli diventa realistico; quanto più chiari si mostrano i confini della realtà, tanto più chiara diventa anche la contrapposizione a ciò che è santo: le belle maschere del demonio non ingannano più colui che le osserva partendo da Dio. Questo porta già ad un secondo criterio. Si deve indagare di volta in volta in quale rapporto sta un'asserzione con la realizzazione interiore della fede e della vita del credente. Delle affermazioni che rimangono soltanto modi di vedere teoretici, ma non entrano nel vero e proprio svolgersi dell'esistenza, in via normale non potranno venir annoverate tra ciò che è essenzialmente cristiano. Viceversa ciò che non si presenta come un puro modo di vedere teoretico, ma sta nello spazio dell'esperienza di fede, appare nella vita di fede come dato dell'esperienza, ha una posizione del tutto diversa. L'idea del sorgere e del tramontare del sole, della posizione centrale della terra, poteva essere quindi un modo di vedere naturale e variamente interpretabile della fede, non apparteneva alle sue specifiche esperienze. La mistica, con la sua via dell'unione, portava piuttosto alla relativizzazione di tutti gli schemi di visione del mondo. In questa questione mi sembra di straordinaria importanza il fatto che la lotta con la potenza dei demoni appartiene allo specifico cammino religioso di Gesù stesso. La Bibbia è a conoscenza delle sue tentazioni (Lc. 22,28), non soltanto di quelle che vengono esplicitamente descritte; essa va così avanti da poter affermare che Gesù è venuto nel mondo per distruggere le opere del diavolo (1Gv 3,8). Questa formula compendia ciò che Gesù stesso dice — nella serie di detti sull'uomo più forte e sull'uomo forte — della potenza dei demoni, il cui regno egli, nella forza dello Spirito Santo, porta alla rovina (Mc. 3,20-30). Sorprende che egli, che non voleva lasciarsi trasformare in uomo del miracolo, ritenesse la lotta contro i demoni la parte centrale del suo incarico (vedi ad esempio Mc 1,35-39) e che, di conseguenza, i pieni poteri su di essi costituiscano il nucleo del potere, che egli conferisce ai suoi discepoli: essi vengono mandati «a predicare col potere di cacciare i demoni» (Mc. 3,14s). La lotta spirituale contro le potenze che rendono schiavi, l'esorcismo su un mondo abbacinato da demoni è una componente inseparabile dell'iter spirituale di Gesù e sta al centro sia della sua particolare missione che di quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non cambia se il sole gira attorno alla terra oppure se la terra si muove attorno aI sole, se il mondo si è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni. A questo secondo criterio è strettamente collegato il terzo. Una Bibbia senza chiesa sarebbe soltanto una raccolta letteraria. Perciò quando, al di là della necessaria ricerca scientifica di ciò che è strettamente storico, la Bibbia viene esaminata come libro della fede, quando viene cercata la distinzione tra fede e non fede, deve venir in ballo questa unità di Bibbia e chiesa. Come già dicemmo, la fede può venir realizzata soltanto nel credere insieme con tutti; essa svanisce dove viene superata dalla volontà del singolo individuo. Come ulteriore criterio è necessario quindi ricercare in che misura le affermazioni sono state accolte nella fede della chiesa. Ma la fede della chiesa non è un qualcosa del tutto univoco e circoscrivibile, altrimenti la questione sarebbe semplice. Si deve dunque discernere con più esattezza ed adoperarsi per scoprire in quale misura qualcosa è entrato a far parte della vera ed interiore realizzazione della fede, nella forma di base della preghiera e della vita stessa, al di là delle deviazioni della tradizione. Così, ad esempio, la disputa sulla filiazione divina di Gesù, sulla divinità dello Spirito Santo, sulla unità e trinità di Dio, è stata portata avanti a motivo delle conseguenze per la liturgia battesimale, per la liturgia eucaristica e quindi per il significato della conversione cristiana, quale si presenta nel battesimo. Basilio, ad esempio, che portò a conclusione l'ultima disputa sulla divinità dello Spirito Santo, ha discusso questo problema con molta rigorosità, partendo dall'intima pretesa del battesimo e della sua forma liturgica. Lui sostenne che il battesimo non è un trastullo liturgico, ma la solenne forma ecclesiale della decisione esistenziale, supposta dall'essere cristiano. Si deve poter prenderla alla lettera, soprattutto nel suo avvenimento centrale. Essa specifica cosa avviene nel divenire cristiani e cosa non avviene. Ma, per ritornare alla nostra questione, l'esorcismo e la rinuncia a Satana fanno parte dell'avvenimento centrale del battesimo; quest'ultima, assieme alla promessa a Gesù Cristo, costituisce l'essenziale porta d'ingresso al sacramento. Il battesimo introduce così l'uomo nel modello di esistenza di Gesù Cristo, nella sua lotta e nella sua libertà. Viene a contatto con la sua esperienza spirituale e la trasferisce in colui, che inizia ad imitare Cristo. Quando l'uomo cammina nella luce di Gesù Cristo il demonio viene trasportato dall'altra parte e diventa così superabile. Ritorna con pieno valore l'affermazione che se si volesse annullare la realtà della potenza demoniaca, si cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana. Nella ricerca sulla chiesa, d'altronde, si dovrebbe includere l'esperienza dei santi, di coloro che credono in forma esemplare; parlo della loro esperienza, non di tutte le loro idee. Questa esperienza corrisponde all'esperienza di Gesù; con quanta maggior forza diventa visibile e potente ciò che è santo, tanto meno il demonio può nascondersi. Per questo si potrebbe dire senz'altro che lo scomparire dei demoni, il presunto divenire innocuo del mondo vanno di pari passo con lo scomparire di ciò che è santo. Infine, come ultimo criterio, deve venir ricordato il problema della «visione del mondo», della conciliabilità con una conoscenza scientifica. La fede diventerà di continuo la critica di ciò che di volta in volta ha valore di certezza in quanto moderno e nuovo; però essa non può contraddire una conoscenza scientifica garantita, anche se questa deve stabilire dei segni negativi così notevoli. Si sarebbe curiosi di sapere in base a quali ragioni Haag decide «che questa concezione non è più conciliabile col nostro mondo». E' evidente che essa si oppone al gusto medio della gente; è altrettanto palese che essa non trova nessun appoggio in un mondo considerato funzionalisticamente. Ma in un puro funzionalismo non c'è posto neppure per Dio né per l'uomo come uomo, ma soltanto per l'uomo come funzione; qui dunque crolla molto di più della sola idea del «diavolo». Rimane difficile cercar di sapere in nome di quale filosofia Haag esprima il suo verdetto; secondo le apparenze egli parte da uno schema personalistico fortemente semplificato. Ma le forme del personalismo più approfondite hanno riconosciuto senz'altro che con le sole categorie di io e tu non è possibile spiegare l'intera realtà; proprio il «rapporto» che unisce l'un l'altro i due poli è una realtà caratteristica ed autonoma. Alcuni suggerimenti tratti dal pensiero asiatico fanno oggi risaltare ancor di più questa coesione. Una malattia psichica, così dicono ad esempio, non è un semplice modo di sentirsi dell'io, ma si basa proprio su una perturbazione del «rapporto»; dal momento che il rapporto non è in ordine, è spezzato, sviato, rovesciato, anche l'io stesso è fuori fase. Il rapporto è una forza decisiva del destino della quale il nostro io non può affatto disporre completamente. Il ritenere questo è un razionalismo di una sincerità quasi fantastica. Qui il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12).Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
Un teologo così «libero da pregiudizi» come H. Cox ha di recente affermato che i mass-media, nei modelli di comportamento da loro elogiati, farebbero appello «ai demoni non esorcizzati»; sarebbe perciò molto necessaria «una chiara parola di esorcismo» (Stadt ohne Gott, 1967, p. 210;trad. it.: La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968). Forse egli lo pensa solo in termini allegorici, non lo so. Ma chi come cristiano vede i baratri dell'era moderna, vede operare la potenza dei sette demoni, che sono tornati nella casa pulita e vuota e mettono in moto il loro non-essere, costui sa che il compito di esorcista del credente inizia oggi a riacquistare quella necessità, che possedette all'inizio del cristianesimo. Egli sa che in questo campo è debitore di un servizio al mondo e che trascura il suo incarico, se egli aiuta i demoni ad avvilupparsi in quella anonimità, che è il loro elemento prediletto.

Un secondo testo che vogliamo condividere è del teologo W.Kasper. Identica, rispetto alla riflessione di J.Ratzinger (e da lui dipendente, come asserito dallo stesso Kasper nelle note del testo) è la caratterizzazione del Maligno come colui che “esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale”. Proprio questo, originante dalla sua opposizione a Dio, nella volontà di fare di se stesso dio, rinunciando alla realtà di Dio e distorcendo la propria realtà creaturale, conduce il male ad essere “nulla”, nel senso che Kasper specifica ulteriormente nel seguente brano, tratto dal suo saggio Il problema teologico del male[2].

Punto di partenza delle nostre riflessioni potrà essere soltanto il cuore della testimonianza biblica: l'atto universale ed escatologico di salvezza di Dio in Gesù Cristo. E' attraverso esso che i principati e potestà malvagi si sono mostrati, in ultima analisi, come un nulla. Ed è per tale motivo che la Scrittura ci offre una vera determinazione ontologica del male qualificando i demoni come dei niente [3] . Ora cercheremo anche noi, dunque, d'interpretare la realtà del male come dei niente al cospetto di Dio [4] . La filosofia e teologia tradizionali ci consentono di avvicinarci soltanto in parte a questo modo d'intendere il male. Come è noto, esse distinguono fra il nulla assoluto, fra ciò che è semplicemente nulla, e il nulla relativo, il nulla di qualcosa. Se con questo nulla s'intende la mancanza di qualcosa che spetta ad una 'cosa' di per se stesso e necessariamente, avremo il concetto tradizionale del malum concepito come una privatio boni debiti (mancanza di un bene che spetta per natura) [5] . Ma questo concetto tradizionale di male non basta a comprendere, nemmeno in modo approssimativo, il fenomeno del male così come l'abbiamo individuato (...) Infatti non è possibile spiegare l'imponenza del male richiamandoci semplicemente ad una mancanza. Rimane infatti da chiedersi in che modo risulti giustificata la mancanza di qualcosa che spetta ad una 'cosa' di per sé, per sua stessa natura. Entrambe le questioni c'inducono a riconoscere il carattere posizionale del male. Non meno importante è un secondo approfondimento critico della definizione tradizionale del male. Il bene e il male, dal punto di vista teologico, non possono venir definiti in termini puramente ontologici come mancanza di bene ma soltanto a partire dalla relazione con Dio, cioè come mancanza al cospetto di Dio, o pervertimento della relazione a Dio. Malvagia è quella creatura dotata di libertà che non riconosce il senso del suo essere-creata e vuole essere essa stessa pari a Dio. Cercando il senso del proprio essere contro Dio, lo potrà trovare soltanto nel nulla, per cui essa stessa dovrà diventare niente. È un niente che si distingue dal nulla: il male è niente, non però nulla [Traduciamo das Nichts = il nulla e das Nichtige = il niente. Das Nichtige in tedesco implica l'idea di nocività, di potenza negativa ma attiva].
In termini positivi possiamo esprimere una triplice caratterizzazione del 'niente'.

  1. È la libera negazione di Dio. Non si tratta, quindi, di una qualche mancanza d'essere ma piuttosto di un nulla estremamente determinato, il 'no' che si profferisce a Dio e che si concretizza nel 'no' alla sua volontà salvifica e universale in Gesù Cristo, e nel peccato contro lo Spirito Santo, contro l'offerta concreta della salvezza fattaci in Gesù Cristo. Questo niente è nullità nel duplice senso del termine: è qualcosa che si ritiene esageratamente importante, che si gonfia, s'ingigantisce e, appunto per questo, si rivela vuoto, nullo.
  2. La negazione dell'essere divino di Dio e del suo piano salvifico in Gesù Cristo conduce alla privazione della sua grazia. E questo rifiuto della grazia porta ad un'esistenza senza grazia, ad un essere che si condanna, si maledice e che comunque non può salvarsi nel puro nulla, ma anzi si smarrisce e deforma nella vuotezza della sua propria nullità. Il 'no' creaturale profferito contro Dio ha per conseguenza il 'no' di Dio, il giudizio e l'ira divina. La realtà del male è dunque il nulla giudicato da Dio, la libertà finita sotto il no che si è scelto del giudizio di Dio.
  3. Determinare il male come una negazione e privazione di Dio ci permette poi di concludere che il male stesso è una perversione di sé. Se cioè la creatura vuol essere pari a Dio, allora, in quanto creatura, essa esiste nella condizione del pervertimento totale. Essa realizza il proprio essere alla luce di Dio e in riferimento a Lui nel modo di un essere contro Dio e senza di Lui. Per questo il male è ciò che in se stesso è contraddittorio, perverso, schizofrenico, totalmente alienante, assurdo, disorganizzato, distruttivo e caotico. Secondo il Nuovo Testamento il diabolico è caratterizzato appunto dalla confusione continua del sì e no, di posizione e negazione, dal non permettere che il sì sia sempre sì e il no sempre no. Ed è ciò che viene appunto dal diavolo [6] . L'ordine del mondo si fonda invece proprio sulla distinzione tra il sì e il no. Nel folle e assurdo tentativo di porre la negazione a fondamento della propria posizione, il diavolo è il «padre della menzogna» [7] , deformazione e confusione in persona. E' la potenza inquietante del caos nel cosmos creato da Dio.

Una simile perversione di posizione e negazione può derivare soltanto da un essere dotato di conoscenza spirituale e di libero volere. Ed entrambi appartengono all'essenza della persona. Questa si distingue da altri esistenti per il fatto che l'essere le è stato affidato in coscienza e libertà. Soltanto la persona, quindi, potrà realizzare o pervertire il senso del proprio essere. Se s'intende il concetto di persona in questo senso formale non ancora riempito di un più preciso contenuto, non si potrà fare a meno di caratterizzare le potenze malvagie come esseri strutturati in modo personale, cioè come entità fornite d'intelligenza e capaci d'affermarsi attraverso la volontà. Ovviamente, dando una simile caratterizzazione, si dovrà tener presente anche che un simile concetto formale di persona può venir impiegato per qualificare gli angeli e i demoni soltanto in modo alquanto analogico, tenendo conto dell'uso ben più preciso che si fa nell'ambito umano. Il diavolo non è una figura personale bensì una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona [8] . Non lo si può 'chiarire' ma soltanto riconoscere nella sua dissociazione per essenza. Per cui non potremo né dovremo delinearci nemmeno una qualche raffigurazione concreta del diavolo, questo supporrebbe, infatti, una distinzione chiara, appunto quella cui il diavolo sfugge. Egli esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale. E' la distruzione progressiva di se stesso e al medesimo tempo la distruzione dell'intero ordine cosmico. Egli potrà sprigionare e scatenare le possibilità escluse nella realtà della creazione ma non potrà rimanere loro signore. Queste lo sopraffanno, lo rendono una specie di apprendista stregone che non è più in grado di scacciare gli spiriti che ha evocato. Si trova sotto la maledizione e il destino della sua stessa opera. E ciò significa che non è più un lui soltanto ma anche un esso, anzi è il sinonimo delle potenze impersonali e distruttive, del negativo e caotico presente nel mondo. Non per nulla la Scrittura parla di 'principati e potestà' del male7 [9] . Con questo essa sta ad indicare che la realtà del male è un potere strutturato sia in chiave personale, incentrato su Dio, come pure un potere che ruota attorno all'Esso e che si manifesta in sistemi e processi anonimi ma anche in strutture di tipo apersonale.
Non è dunque possibile ricondurre il mistero del male ad un unico concetto. In definitiva qui non ci troviamo di fronte a delle speculazioni ontologiche ma ad enunciati di tipo soteriologico. Non si tratta di asserti che si fanno su un determinato oggetto ma di enunciati che aprono un orizzonte al centro della fede cristiana: il messaggio della nuova creazione in Gesù Cristo, attraverso la quale Dio ha ristabilito la pace e la riconciliazione degli inizi non soltanto nell'uomo ma nel mondo intero. Con questo nuovo inizio i poteri e principati del male si sono rivelati una nullità, hanno subito la derisione e la vergogna. Per tale ragione il diavolo, di fatto, è in certo senso una figura 'ridicola'. Il vero obiettivo della demonologia neotestamentaria è quello di fondare la libertà cristiana8 [10] . I demoni, che presumevano di essere i signori del mondo, si sono dimostrati, alla luce di Dio, dei 'niente', per cui il cristiano non è debitore in nulla nei loro confronti: esso è libero da tutte le idolatrie cosmiche, libero da ogni osservanza di precetti e divieti fondati su basi cosmiche, libero da ogni possibile tabù, libero dalla paura di fronte a tutto ciò che di orrendo esiste al mondo. Purtroppo, nella storia, questa funzione critico-liberatoria della demonologia cristiana si è tramutata spesso nel suo esatto contrario. Oggi abbiamo tutte le nostre buone ragioni per riaffermare, sia all'interno che all'esterno, questi motivi critici.

Infine vi invitiamo a seguire il ricchissimo, anche se non facile, intervento del filosofo Vittorio Possenti che, nel suo recente saggio Essere e libertà [11] , titola un capitolo: Dio e il male. Due citazioni aprono le sue riflessioni. Innanzitutto lo PseudoDionigi Areopagita che, nel Trattato sui nomi divini ha scritto:

Il male non è in Dio, né ha in sé nulla di divino, né viene da Dio.

Poi Plotino che, in Enneadi VI, 7, 23, aveva dichiarato:

La natura del Bene era già ciò che è,
prima delle altre cose, quando il male
ancora non c'era.

Queste due splendide affermazioni orientano già alla chiara consapevolezza del fatto che il pensiero cristiano non è dualistico. Non riconosce cioè due principi, egualmente divini ed eterni, del bene e del male. Il male ed il bene, pur essendo ovviamente antitetici e, quindi, correlativi, non hanno eguale dignità e, soprattutto, parità ontologica e temporale. Il cristianesimo dichiara la sua estraneità da espressioni filosofiche e religiose come quelle del Manicheismo e del Tao estremo-orientale ed, a maggior ragione, dalle loro banalizzazioni New Age. Il Bene, Dio, è ontologicamente primo ed eterno. Il male è secondario e temporale, non esistente dall'eternità.
Vittorio Possenti inizia difendendo la centralità della questione filosofica del male.

La sfida

Un retaggio si diparte dal XX secolo, forse il più oscuro e sanguinoso della storia umana, e sta nella lacerante domanda sul male. Se il pensiero antico iniziò la gigantomachia sull'essere e sul divenire che dura tuttora, forse nel nostro tempo si annuncia una gigantomachia sul male. Sono famose le parole di san Girolamo a proposito di Giobbe, libro che vale come scrigno per la meditazione e la cui scoperta è eterna quanto nell'uomo la sofferenza: “Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un'anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano”, e questo nonostante lo splendore dei simboli e la profondità del discorso. Quasi lo stesso si potrebbe dire dell'interrogativo sul male: più cerchi di comprenderne il mistero, più questo sembra farsi fitto. Eppure abbandonare l'impresa sarebbe vile, oltre che impossibile: se anche l'uomo volesse abbandonare il male, questo non abbandonerà l'uomo.
Il male costituisce un'inesorabile possibilità dell'esistenza umana. Come suggerisce la riflessione contemplativa, che sarebbe stoltezza mettere da parte, la possibilità del male è necessaria, dal momento che la limitazione è inerente a tutte le cose finite. Non potendo Dio fare l'assurdo, egli non potrebbe chiamare all'esistenza una creazione che fosse ad un tempo finita e perfetta, e dunque senza male (assunto che va lontano, implicando che, a differenza dal manicheismo, non è richiesto un Principio malvagio per render conto dell'esistenza del male). A chi perseveri nella meditazione si farà chiaro che la domanda più radicale tra tutte, quella che potrebbe denominarsi la “domanda delle domande”, la più saettante e misteriosa, quella dove l'uomo lasciato solo incontra il buio più fitto, non suona “Perché c'è il male?”, ma “perché Dio ha creato?” A tale interrogativo non può assegnare risposta nessuna gigantomachia sull'essere o sul male, perché occorrerebbe porsi nell'Assoluto e nessuna ragione umana, per quanto acuta e risplendente, può farlo. La risposta può venire dalla Trascendenza ed il suo araldo è la rivelazione, non la ragione. Nessuna astuzia del pensiero, nessuna saggezza intramondana sembra alla misura di quella dismisura che è il male: se l'intellectus mundi da solo è impari, può cercare un'alleanza con l'intellectus fìdei.
Nel porre il problema dinanzi al Trascendente, è imperativo che lo scandalo del male rimanga in tutta la sua forza. Non dalle dialettiche “speculative”, che riducono il male ad apparenza, ci si può attendere la vittoria sul male, ma dall'unione di contemplazione e azione, preghiera e lotta, compresa quella con Dio, in cui si inoltrarono Giacobbe e Giobbe. Sarà sempre possibile negare la legittimità dell'atteggiamento che sul male si colloca dinanzi a Dio. Essa rimane però dentro un paradosso ineludibile: la negazione di Dio è nutrita dalla contestazione che l'enigma del male gli indirizza; ma tale enigma non fa un solo passo avanti, al contrario, con la soppressione di Dio. Con questa la sofferenza si pone come ancor più insensata, non si sgomina né il dolore né il male. Viene anzi persa la speranza in una finale vittoria su di loro. Al di là della infeconda risposta atea, la meditazione umana ha posto il problema del male dinanzi a Dio secondo tre fondamentali forme:

  • quella per cui Dio non può impedire il male, essendo egli buono ma debole, ma non onnipotente, ma diveniente in una coappartenenza col mondo e l'uomo. Una concezione finitista e diveniente di Dio, che si ritrova in H. Jonas ma che è pure di S. Alexander, J. S. Mill, J. Royce, A. D. Whitehead, forse anche in F. H. Bradley. Poiché Dio è quasi il correlato dialettico del mondo, anche l'hegeliano Ohne Welt kein Gott (senza il mondo non c'è Dio) potrebbe appartenere a tale versante. Esso, a prendere le cose dal lato dell'ottimismo, può condurre ad una evoluzione emergente, in cui Dio e uomo, entrambi finiti, cooperano in un'asintotica, mai terminata vittoria sul male; mentre Dio passa dallo stadio del Deus implicitus a quello del Deus explicitus;
  • quella per cui Dio ospita in sé l'oscurità e una traccia del male. In lui vi sarebbero luce e ombra, una mano destra e una sinistra, per cui il male sarebbe parte (magari vinta, ma sempre parte) della sua natura, sarebbe la sua mano sinistra. Spesso questa posizione si richiama ad uno schema bipolare-dialettico. dove in ogni processo, compresa la vita intradivina, si dà coesistenza dei contrari, i quali sono correlativi e interdipendenti in modo che nessuno dei due può essere descritto come reale, se è per sé stante. Si assume che la perfezione non stia nell'atto, ma nel movimento, nel processo; non nell'identità ma nella attiva sintesi dei contrari. All'assunto dialettico-bipolare si collega anche l'idea che Dio non sia completamente innocente nella produzione del male di colpa; l'oscurità che viene supposta in lui sembra diventare la base di una generale sollecitazione al male. Una concezione del genere circola nella intensa e quasi travolgente meditazione che segna il cammino dell'ultimo Pareyson: essa mostra elementi comuni con le posizioni dell'idealismo tedesco, in cui il male, l'errore, il dolore, intesi come facenti parte dell'essenza dell'essere, non sono avvertiti come argomenti contro la divinità;
  • quella per cui Dio permette il male (morale), che di per sé origina solo dall'atto della libertà finita. In quanto totalmente indenne dal male, infinito, trascendente, atto puro, Dio può salvarne. Qui egli è necessario al mondo, non il mondo a Dio; il primo è reale in modo eminente, il secondo solo in modo derivato. In tale assunto prendono alto rilievo le questioni del bene, della legge morale e soprattutto quella della libertà finita: abisso del male e abisso della libertà si richiamano mutuamente. Potrebbe darsi che la nuova meditazione sul male già avviatasi, individui il suo centro nella capacità nientificante della libertà finita. Essa è in grado da sola di colpire al cuore l'Assoluto: un infinitesimale movimento della volontà, e un bene che avrebbe potuto essere, non è.

Nel corso delle epoche la coscienza umana ha elaborato una fenomenologia del male, tanto più intensa quanto più nasceva da un'esperienza dolorosa e assillante. Colpa, peccato, sofferenza, infermità, morte, disarmonia e ferita dell'esistenza, male commesso e male subito: non è qui nostro intento ripercorrere la multiforme fenomenologia del male e della coscienza infelice, quanto interrogare sulla natura del male morale e sulla sua produzione da parte della libertà. Ma senza nutrire una visione esclusivamente morale del male, che lo assimili solo a quello di colpa, che anzi un problema altrettanto complesso è costituito dal male di natura (malattia, morte, cataclismi, dolore, miseria).
Può darsi che qualche lettore attribuisca questo capitolo al versante della teodicea, il cui concetto tuttavia non ci attira. Oltre ad appartenere ad un'epoca storica ormai lontana, la teodicea aveva l'aria di mettere in campo ambiguamente delle attenuanti per Dio. Di essa Kant, che pur la riteneva votata alla sconfitta, diceva: “Per teodicea si intende la difesa della somma saggezza del Creatore dell'universo contro le accuse che le vengono mosse dalla ragione sull'assurdo corso del mondo. Questo si chiama sostenere la causa di Dio” [12] . Più che di sostenere solo la sua causa, più che di difendere o giustificare Dio, l'uomo ha bisogno di comprendere il mistero del male e di stringere un patto con l'assoluto per lottare con lui contro il male: in ciò si concentra forse l'esistenziale fondamentale nel dramma del male. E possibile lottare contro qualcosa che ci attanaglia, ma di cui ignoriamo natura e origine? Per questo ogni lotta contro il male ha bisogno di abitare nello spazio di una sempre rinnovata meditazione su di esso, là dove intellectus mundi e intellectus fidei si danno la mano e cercano di collaborare. Il metodo che seguiremo è ontoteologico. Ontoteologia: parola venerabile e, nel contempo, non priva di rischi se intesa di traverso. Conosciamo la folla d'obiezioni che da tempo le vengono elevate contro, non di rado lanciate come omaggio alla moda dell'ora. Nel discorso sul male entrano in campo più strati, a partire dal simbolo e dalla fenomenologia del male. E se ci sembra che non vi siano speranze di raggiungere un po' di luce se il livello tipicamente ontoteologico viene cassato, l'approccio non si limita a questo ambito. Cerca piuttosto di intessere un fecondo rapporto con la religione e il “mito”. Il pensiero mitico non appartiene al passato, ma ci riguarda e ci interpella perennemente: esso, al di là del pensiero concettuale-universale, racconta una storia secondo idee ed immagini, ed è latore di significati che, portati e vestiti dal simbolo, non sono agevolmente traducibili in altri linguaggi. Non possiamo intendere il mito come un insieme di racconti e immagini privi di senso. Nell'intuizione mitica si esprime una facoltà specifica dello spirito, su cui solo un razionalismo oltranzista può gettare il discredito. Nella meditazione sul male e sul suo legame con l'uomo e con Dio l'ontoteologia tocca il punto più alto e arduo. Essa, su cui ha puntato gli strali Heidegger con dubbie ragioni, non è un pensiero sistematico, logico, astratto e indifferente al dolore del mondo (come potrebbe forse essere la Scienza della logica di Hegel). Essa si tiene in contatto con le grandi manifestazioni del male, e con le risposte dovunque avanzate: quella della tragedia greca (cfr. il ciclo di Edipo), quella biblica, quella di altre culture. L'ontoteologia sta accanto alla condizione umana, dove si esprime la dialettica vissuta di peccato, colpa, sofferenza e morte. Essa cerca di imparare dappertutto, per poter dire qualcosa sulle eterne domande sul male...

Qui Vittorio Possenti propone di suddividere in tre parti la sua analisi, riflettendo in primo luogo sulla filosofia interpellata dal male, in secondo luogo sulla risposta di L.Pareyson e di H.Jonas ed, infine giungendo ad un approccio di carattere etico e religioso. Noi seguiremo la prima e la terza parte, lasciando da parte le suggestioni proposte dai due autori Pareyson e Jonas, il primo cristiano ed il secondo ebreo, che indagano il tema del male, rigettando, conformemente alla posizione dello stesso Possenti e nostra, una lettura solamente secolarizzata e non religiosa del negativo.
La prima parte del saggio di Possenti allarga ulteriormente l'impostazione del problema, la terza indica una proposta di lettura proprio a partire dalla rivelazione biblica ebraico-cristiana e non solo della “pura” ragione. Ecco la prima tappa ed, a seguire, l'ultima della sua riflessione sempre nel saggio Essere e libertà.

La filosofia dinanzi al problema del male

Il primo compito dell'uomo è di non arretrare di fronte al male, bensì di guardarlo in faccia; non però nel senso hegeliano secondo cui la dimora presso il negativo muti quest'ultimo in essere, in virtù di una trasformazione dialettica in cui si esprime un punto alto del razionalismo (e forse anche per questo è oggi necessario rinnovare il nostro requiem per la dialettica). Dimorare senza connivenza presso il male tempra la persona, se questa è capace di separarlo dal bene, di non confonderlo con quest'ultimo, di mantenersi libera. Secondo Berdjaev “il fatto di non vedere il male rende l'uomo superficiale, gli impedisce di attingere alle profondità della vita: la forza della sua coscienza è legata alla denuncia del male e, quando si aboliscono i limiti, l'uomo si trova in uno stato di confusione o d'indifferenza, la sua personalità comincia a disgregarsi: nella confusione e nell'indifferenza, nella perdita della nozione del male, l'uomo è sprovvisto della libertà dello spirito” [13] . Con ciò viene individuato un compito estremamente impegnativo per il pensiero, di fronte al quale una larga parte della filosofia e della teologia contemporanee si è mostrata colpevolmente timida. In modo persuasivo L. Pareyson... ha dato voce all'estremo stupore di chi, dopo l'abisso di male e di sofferenza della seconda guerra mondiale e dell'Olocausto, ha visto la filosofia portarsi, come se nulla fosse accaduto, su pensieri sofisticati ed astratti, nell'oblio del senso tragico di quegli eventi: “Mi ha sempre stupito il fatto che nell'immediato dopoguerra abbiano avuto grande diffusione filosofie esclusivamente dedite a problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, mentre l'umanità stava appena uscendo dall'abisso del male e del dolore in cui era precipitata. Com'è possibile, mi chiedevo, che la filosofia chiuda gli occhi di fronte al trionfo del male, alla natura assolutamente diabolica di certe forme di malvagità?”. Su sponde vicine nel rilevare lo scandalo di un'assenza si colloca O. Höffe. Invitando la filosofia a recuperare il tema del male, egli osserva che è davvero sorprendente che essa non rifletta più sul male e che anzi ne abbia smarrito il tema [14] .
A ridosso di tali questioni si colloca la richiesta dell'ebraismo contemporaneo di non dimenticare l'Olocausto. Non dimenticare, perché Auschwitz è diventato un luogo centrale per la comprensione dell'uomo e di Dio, del bene e del male. [15] L'enigma dell'Olocausto si pone come un crocevia da investigare religiosamente: l'abisso del male (mysterium iniquitatis) richiama quello del bene. In entrambi i casi occorre accettare la lotta: quella lotta ingaggiata con lo Sconosciuto da Giacobbe al calar della sera al guado dello Jabbok, e proseguita sino all'alba. Quella lotta necessaria per intendere la natura e il dramma del male e il loro rapporto con Dio. “Lotta inuguale, il cui esito può essere vittorioso o micidiale, o anche indeciso, con la doppia traccia di una ferita o di una benedizione” [16] .
Quando, dopo il primo razionalismo, la questione del negativo e del male radicale esplose con la massima forza nel pensiero moderno, gli autori che non la lasciarono cadere, cercarono attraverso vari cammini di riprendere il tema massimo lasciato insoluto dai greci: ossia come osserva Hans Blumenberg, la questione dell'origine del male nel mondo [17] . I grandi tragici greci del VI e V secolo avevano messo in opera un eccezionale lavoro di scavo sulla colpa, l'espiazione, la responsabilità, il fato e il destino, senza ultimamente riuscire ad un esito stabile e almeno parzialmente chiarificante. Uno dei più alti punti raggiunti dalla sapienza tragica greca è posto da Sofocle sulla bocca del coro nell'Edipo a Colono, ed è parola dove vibra il senso di una sconfitta, e che ha il suono di una terminale disperazione: “Non esser nati, è condizione / che tutte supera; ma poi, una volta apparsi, / tornare al più presto colà donde si venne, / è certo il secondo bene”. Archiloco scriveva: “Tutto è fatica, tutto per l'uomo è travaglio di morte”.
Più innanzi giunse forse Plotino, ma per altro e assai diverso cammino, quello non della concezione tragica ma di un sapere speculativo sull'uno e sul cosmo. Per primo egli comprese la necessità di elaborare una scienza del male, di cui intuì l'impossibilità se non si fosse prima scandagliata quella del bene: “Ma come si potrebbe concepire il male come una forma se esso appare solo nell'assenza del bene? Ma siccome dei contrari una sola la scienza e il male è contrario al bene, la scienza del bene sarà quella del male e perciò è necessario che coloro che vogliono conoscere il male speculino intorno al bene, poiché le specie superiori precedono quelle inferiori e queste non sono quelle, ma privazioni di quelle. E si deve ancora ricercare in che senso il bene sia contrario al male; se sia contrario come l'inizio alla fine, o come la forma alla privazione” (Enneadi, I, 8, 1).
Il pensiero greco ha così lasciato in eredità, nonostante le aporie e l'impossibilità di addivenire ad un'adeguata comprensione del male e della sua origine, due eccezionali lasciti: l'idea plotiniana del male come privazione del bene, che comporta l'anteriorità ontologica e gnoseologica della scienza del bene su quella del male; e la grande parola di Eschilo nel coro dell'Agamennone: “Conoscenza attraverso dolore”, quale valida legge fissata dagli dèi per avviare a saggezza i mortali. Ciò che l'uomo apprende attraverso la sofferenza sono soprattutto i limiti dell'umano, l'invalicabile distanza dal divino. Ora, risalendo all'indietro dalla filosofia contemporanea alla moderna, sembra doversi riconoscere che il tema del male non sia stato particolarmente frequentato. La kantiana dottrina sul male radicale, che pur rimane come termine di confronto ineludibile, le ricerche di Schelling sull'essenza della libertà umana, le pagine di Schopenhauer e gli scomodi aforismi di Nietzsche veicolano spunti e intuizioni grandiosi, ma anche incompleti e manchevoli. Tanto più che insieme ad essi si incontra la sostanziale elusione del problema in Spinoza e poi nel razionalismo moderno, che fondamentalmente hanno considerato il male o qualcosa di apparente o il negativo dialettico necessario alla vicenda del positivo. Oggi un ostacolo si annuncia attraverso la temperie largamente empiristica e utilitaristica della cultura, che tende a togliere l'opposizione assoluta tra bene e male, e a stemperare quest'ultimo in disadattamenti sociologici e psicologici. Sicché anche per le più recenti filosofie vale, a conferma della diagnosi di Pareyson, l'assunto secondo cui esse allontanano l'interrogativo sul male. Eppure non si potrebbe sostenere che la battaglia per non dissipare in una piatta indifferenza nichilistica la sua tragicità o il suo enigma sia persa. Sorel e Maritain hanno più volte espresso l'opinione che l'interrogativo sul male sarebbe nuovamente divenuto centrale per i filosofi, e il secondo autore ha offerto un contributo di prim'ordine in proposito [18] . C'è inoltre la grande tragedia greca, e la straordinaria potenza dei romanzi di Dostoevskij, e l'intera storia della salvezza come espressa nel messaggio biblico a ricordare ad una cultura distratta e confusa lo scandalo del male. Nella nostra epoca sono stati un certo esistenzialismo, il pensiero metafisico e quello tragico, la sensibilità ebraica e quella cristiana a mantenere in vario modo desto il suo pungiglione senza banalizzarlo. Tuttavia il pensiero cristiano sembra meno attento in proposito, avendo patito più l'accusa rivoluzionaria e “laica” secondo la quale il cristianesimo è l'oppio dei popoli, che non la protesta tragica della coscienza individuale smarrita di fronte al male della vita. Di conseguenza l'atteggiamento in senso lato apologetico della teologia come pure l'orientamento della prassi cristiana si sono dispiegati con ampiezza per contrastare quell'accusa. Oggi è plausibile attendersi che la fine delle grandi ideologie intramondane che avevano alimentato l'enfasi sull'azione sociale, comporterà un rinnovato interrogarsi esistenziale sul male. La tradizione teologica e metafisica cristiana potrà in proposito esprimere una nuova vitalità, se eviterà un atteggiamento ridu ttivo consistente nel riportare la questione del male nell'ambito della sola etica. Questa è luogo troppo ristretto per una domanda tanto immane come quella che riguarda il peccato, la colpa, l'espiazione, la libertà, il dolore dell'uomo e quello di Dio. Prima dell'etica sono chiamate in causa la metafisica e la religione per la loro pretesa di determinare un senso ultimo.
In un approccio metodologicamente puristico e forse alquanto deesistenzializzato, è possibile compiere un tratto di cammino riflettendo sul male senza collegare questo tema con quello della Trascendenza. Possiamo elaborare una complessa fenomenologia del male su base storica e razionale. Si tratta di un compito utile eppure insufficiente, perché da sempre il soggetto umano domanda sul male e il dolore riportando il problema sulle spalle di Dio: di questi con quanta ampiezza l'uomo si porrebbe il problema, se non vi fosse il male? Sin dal più remoto passato sembra che la maggiore obiezione contro Dio scaturisca proprio dall'esistenza del male. Si dice: se c'è tanto male nel mondo e nella vita è perché Dio non esiste. Se egli fosse un vivente, non lo consentirebbe: altrimenti dobbiamo pensarlo come incurante nella sua felicità delle vicende umane, oppure come un demiurgo malvagio che si compiace del dolore dell'uomo. Né è detto che si accetti il mondo, se accade che non si rifiuti Dio. È la condizione di Ivan Karamazov nel suo dialogo con Alèsa: Questo mondo creato da Dio io non lo accetto... Non è che io non accetti Dio, ma è questo mondo da Lui creato, che io non accetto e non posso rassegnarmi ad accettare” (P II, l. V), perché è un mondo cattivo che ospita la sofferenza innocente, specialmente quella dei bambini. Da questi angosciati interrogativi prendono origine i tentativi di mostrare che Dio non è responsabile del male, e che i due concetti di Dio e di male non si escludono, ma per quanto sorprendente possa apparire a prima vista, si richiamano necessariamente. L'apporto forse più prezioso della meditazione metafisica e religiosa sul male e su Dio è in primo luogo la loro “indissolubiità”: solo pensando Dio si può pensare adeguatamente il male. Questo col suo corteo di sofferenza, di colpa, di espiazione, di morte, di negazione che sempre l'accompagna, può esser visto in tutta la sua sanguinosa realtà, se e solo se Dio esiste; se e solo se è considerato in rapporto a Dio. Si dà infatti una negazione più radicale di quella che cerca di inferire dall'esistenza del male l'inesistenza o la problematicità dell'esistenza di Dio; ed è la negazione che sopprime il problema o l'interrogativo stesso sul male. Questo è l'estremo ateismo, il nichilismo assoluto, che non addebita a Dio il male ma ne cancella il pungolo. Il nichilista coerente non può che minimizzare il male, pensarlo come apparenza, come qualcosa che è storicamente toglibile. Quando si tratta di Dio e del male, o si prendono entrambi i termini, oppure incombe il pericolo che si cancellino
entrambi. Là dove l'uomo è attanagliato dalla forza del negativo, potrà rivoltarsi contro Dio, forse maledirlo e negarlo, ma non cancellarne il problema. A Boezio che poneva l'eterna domanda “Si Deus est, unde malum?” (collegata all'altra: “et si non est, unde bonum ?”), Tommaso d'Aquino con originale forza contemplativa rispondeva ribaltando i termini della questione e stabilendo: “Si malum est, Deus est”, dove l'esistenza di Dio è argomentata a partire dalla realtà del male [19]
 . Pensando il male, si può ascendere alla conoscenza di Dio, e inversamente solo pensando Dio si può conoscere nel modo più intimo il male.
Che si debbano assumere entrambi i poli (non perciò solo Dio senza il male, o solo il male senza Dio), lo conferma l'esperienza di Nietzsche, che ha inteso cancellare con un unico atto l'esistenza di Dio e quella del male, ed è difficile stabilire quale delle due negazioni sia in lui stata la più profonda. Proprio in quanto non ci sono né bene né male, egli può volere un “aldilà del bene e del male”, che è la divisa propria dell'oltreuomo. Egli è oltre l'umano, perché ha valicato il confine che separa bene e male, cancellandoli.

Qui si innesta nel saggio di Possenti la riflessione su Jonas e Pareyson che tralasciamo, pur consci della sua importanza, per giungere direttamente alla terza parte, la pars construens:

Destino della teodicea

Prima di volgerci a un'altra meditazione su Dio e il male... è saggio riconoscere che il compito di una dottrina non si esaurisce solo nella sua coerenza intelligibile e nella sua verità, poiché essa è come uno specchio in cui si riflette qualcosa dell'epoca. Sotto questo profilo le concezioni di Jonas e di Pareyson valgono come una critica della falsa coscienza utopica, che facilmente sfocia in quella totalitaria. In esse si fa avanti la massima lontananza dalla posizione che ritiene il male superabile in un nuovo ordine sociale, e possibile secondo una modalità atea o secolarizzata la costituzione del “regno di Dio” in terra. La voce ebraica di Jonas e quella cristiana di Pareyson rimangono consapevoli della limitatezza dell'uomo. Lontane da quel nichilismo che è lo sbocco coerente dell'utopia, in cui il male appare come qualcosa di esterno all'uomo e perciò di dominabile con mezzi “tecnici”, pungolano la filosofia a non rinchiudersi in angusti orizzonti e oltrepassano il quadro della teodicea, la cui vicenda può venire scandita in tre fasi:

  1. L'epoca delle grandi teodicee razionalistiche (tipica fra tutte quella di Leibniz), in cui Dio è giustificato perché ha creato il migliore dei mondi possibili, e l'uomo appare ugualmente giustificato in se stesso: quasi sempre una teodicea implica una antropodicea. Qui il problema della teodicea veniva assunto entro il quadro della coerenza logica e della totalità sistematica, onde tenere insieme senza contraddizione le seguenti tre proposizioni: Dio è onnipotente; Dio è assolutamente buono; il male esiste. Nonostante l'indubbia legittimità della domanda, la forma di quelle teodicee sembra ormai alle nostre spalle. Non presumevano esse di avere un po' troppa confidenza con Dio? Non è un esempio di ciò il modo alquanto facile con cui Leibniz nel Discours de métaphysique parla di Dio quasi da pari a pari, presentandolo come “le plus juste et le plus débonnaire des monarques”? Secondo Maritain “il tempo delle teodicee alla Leibniz o delle giustificazioni di Dio, che hanno l'aria di far appello alle attenuanti, è decisamente passato. Ci vuoi altro per far fronte all'ateismo contemporaneo...” [20] .
  2. Anche l'era della sola antropodicea o dell'antropocentrismo ateo moderno, riassumibile nell'asserto marxiano homo homini deus, sembra definitivamente conclusa. In essa la teodicea venne colpita a morte, perché si riteneva che Dio dovesse scomparire affinché l'uomo vivesse. Annunziando l'avvento del regno dell'uomo, Feuerbach riconduceva ad esso ogni attributo divino, alla luce del concetto secondo cui il segreto della teologia è l'antropologia. Il problema del male non può tuttavia compiere passi avanti perché, riportando tutto all'uomo. Feuerbach, senza dichiararlo, vi ha riportato anche l'intera produzione del male. Non essendovi più l'Avversario, a cui imputare la tentazione, e neppure Dio, l'uomo si trova completamente solo dinanzi ad esso e rischia di soccombervi. Si dà forse in tale evento una premessa celata, su cui hanno fatto leva alcune correnti successive per annunciare la morte del soggetto.
  3. Nell'epoca presente la questione del male ha assunto un rilievo tragico per l'uomo, nonostante le dimissioni e le gravi debolezze della filosofia. Sono stati grandi scrittori, poeti, profeti assai più dei filosofi a sentire profondamente la domanda sul male: in specie Dostoevskij ma anche Bloy, Lautréamont, ed altri. Tentativo necessario di richiamare la filosofia alla sua responsabilità, le riflessioni di Pareyson e di Jonas si collocano dopo la fine delle teodicee razionalistiche e lo scacco dell'antropodicea dell'umanesimo ateo assoluto. Le une e le altre avevano di fronte un male più limitato rispetto all'abisso che si è scatenato nel XX secolo, e di cui i nostri autori tengono manifestamente conto. Dinanzi alla dimissione del problema da parte della teologia speculativa, essi possono rivendicare il merito di riaprire la riflessione sul male, sull'uomo, su Dio entro un quadro spirituale e antropologico diverso da quelli del '600 e dell'800. Se è chiusa l'epoca della teodicea, si apre quella di un'adeguata antropodicea affinché non si disperi dell'uomo, perché così vasta è la produzione del male morale da lui operata nella storia, che può sorgere la tentazione di equiparare l'uomo a Satana. Dio e l'uomo spiegano il bene e il male, ma diversamente. Senza l'uomo non si spiega il male morale; senza Dio non si spiega il bene.

Etica e religione

Libertà e legge morale: una dialettica interrotta. Un processo viene interrotto quando il suo movimento risulti bloccato. Sembra che nei pensatori di cui ci siamo occupati la domanda sulla libertà conduca ad una dialettica interrotta, nel senso che non si inoltra sino all'estremo limite nel pensare l'abisso della libertà finita e il suo legame col male. Nel fatto che numerose riflessioni contemporanee sul male non esplorino sino in fondo la sfera della libertà, non potrebbe celarsi l'idea che questa sia ritenuta incapace di produrre da sola la tragica messe di male che fluisce nella storia? E che di conseguenza occorra in qualche modo fare appello ad altri livelli, e coinvolgere Dio stesso nella storia del male? Se questa diagnosi fosse fondata, si comprenderebbe il rischio corso da Pareyson e da Jonas nel concentrare l'attenzione su Dio, trovandosi poi nella necessità di riformulare radicalmente la sua natura. Noi dobbiamo ora porre a tema l'interrogativo sull'origine del male morale. Come si potrebbe nutrire la speranza nella liberazione dal male morale, se la riflessione umana, applicandosi con tutta la forza di cui è capace e quasi con disperazione dinanzi al baratro, non cercasse di comprendere la sua origine, attingendo dove possibile indizi e tracce? Kant ha percorso un tratto di strada in tale direzione, legando la colpa all'infrazione della legge morale per cui essa è la difformità dell'arbitrio rispetto alla legge. Non si dà in lui peraltro un principio del male nel senso di un'origine storica, quale sarebbe ad esempio la dottrina del peccato originale. Il principio del male sta nella massima suprema che serve da fondamento soggettivo a tutte le massime cattive (e perciò contrarie alla legge morale) del nostro libero arbitrio, e che stabilisce la propensione al male nell'uomo. Egli è corrotto nel fondamento delle sue massime, e per passare dal vizio alla virtù ha bisogno di un cambiamento di cuore che lo conduca alla santità delle massime nel compimento del proprio dovere, nell'effettuazione del dovere per il dovere, per cui l'uomo accoglie l'integralità della legge morale come movente sufficiente del suo arbitrio. Questo insieme di riflessioni compongono un quadro degno della più accurata attenzione. Tuttavia Kant non sembra aver percorso sino in fondo tale cammino, concludendo anzi con una annotazione di grande riserbo: “Qui non v'è dunque alcun fondamento, per noi comprensibile, da cui, per la prima volta, il male morale possa essere venuto in noi” [21]. Alla domanda se esista una causa comprensibile del male morale, Tommaso d'Aquino ha risposto affermativamente. Potrebbe anzi darsi che egli sia stato l'unico a considerare l'interrogativo in tutta la sua difficoltà e a tentarne una risposta ultima, in una dialettica non interrotta. Il riserbo dell'Aquinate è noto: è ben raro che prorompa in esclamazioni, altrettanto raro che impieghi le risorse di una scaltra retorica per far breccia nell'interlocutore. Il caso di cui ci occupiamo non fa eccezione: la brevità con cui egli svolge l'indagine sulla causa del male morale, potrebbe mascherare l'importanza della scoperta compiuta e del colpo di sonda gettato entro l'abisso della libertà creata. Cercando di porsi dinanzi al problema della produzione del male in tutta la sua difficoltà, l'Aquinate ha sottoposto ad analisi il movimento che si instaura nella libertà finita, nell'atto del volere da cui emana un'azione malvagia. Che cosa accade quando una persona si volge verso un atto cattivo? Quale ne è la causa o l'origine? Riassumendo la sua posizione, la causa prima e unica della produzione del male morale è individuata nella libera non-considerazione della regola da parte della volontà nel momento in cui essa procede all'azione: “Ciò che costituisce formalmente la colpa o il male morale proviene dal fatto che, senza la considerazione attuale della regola, la volontà procede all'atto della scelta” [22] . Il male dell'azione proviene da un certo difetto della volontà dell'agente, che deve essere volontario, se deve essere all'origine di un atto libero cattivo. Ora tale difetto, che va preconsiderato nella volontà, consiste appunto nel passare all'azione lasciando da parte la sua regola, la legge morale: questa possibilità esiste in generale per l'uomo in ragione della differenza tra regola della libertà e libertà stessa (non esiste invece per la libertà divina che è identicamente la sua propria regola). Il risultato dell'azione sarà cattivo, quando essa sarà stata posta senza la sua regola interna, e perciò privata di un bene che avrebbe dovuto esserci e che non c'è. Per rendere ragione di questa libera deficienza non c'è bisogno di risalire oltre: ad hoc sufficit ipsa libertas voluntatis [23] . Di modo che si può dire che la volontà, distogliendo lo sguardo dalla regola, che è santa e pura, negandola, fa il male: introduce una privazione di bene o una ferita nell'esistenza. Essa, distruggendo il bene che avrebbe dovuto esservi, “nullifica”. Inaudita potenza della libertà finita che, agendo da sola contro la legge e senza cooperare con la Causa prima, non può che inserire il nulla nell'esistenza. Essa vale come causa efficiente di una privazione, ossia come causa deficiente. Agendo da sola, è causa prima ed unica del male morale. Mentre, in rapporto alla già segnalata dissimmetria fra linea del bene e linea del male, nella prima la libertà divina e quella umana cooperano producendo atti buoni, che provengono da Dio come causa prima e dall'uomo come causa seconda. Anteriorità del male e concezione retributiva del dolore. In queste pagine che fanno riferimento all'etica e alla religione, si è finora dato, conformemente allo scopo, il maggior rilievo alla questione dell'etica, della legge, della sua trasgressione. E' la religione riducibile all'etica? Piuttosto essa va oltre la concezione morale del mondo e la limitazione al solo ambito umano. La meditazione di Tommaso sull'origine del male di colpa non ne comporta una completa eticizzazione. Il male mostra un volto ancipite: è qualcosa che l'uomo inaugura; ed è qualcosa che egli trova fuori di sé, che in certo modo ha già avuto luogo, che possiede una storia, una tradizione. La caduta dell'angelo, l'Avversario, la tentazione, la colpa originale costituiscono le fasi di una tale storia. L'uomo vi appare ad un tempo come iniziatore ma anche come prosecutore di un male anteriore. Tra il libero arbitrio e il servo arbitrio esiste la libertà indebolita. Nei grandi racconti sul male, su cui la filosofia non può non meditare perché quando essa inizia quasi tutto è già stato detto in merito, si distinguono quelli che ne riconducono l'origine a qualcosa di anteriore all'uomo e quelli che la riportano all'uomo stesso. Il racconto della Genesi, pur stando a cavallo tra le due tradizioni, si colloca più vicino alla seconda. Esso non vale però come racconto esclusivamente ma solo parzialmente antropologico, poiché l'origine del male di colpa non viene attribuita soltanto ad Adamo ed Eva: al suo centro sta infatti la figura del serpente, che inganna e seduce l'uomo. Dunque il male c'è già quando Adamo entra nell'esistenza: “Il serpente insomma significa che l'uomo non dà inizio al male, ma lo trova: per lui cominciare è in realtà continuare. Così, al di là della proiezione della nostra concupiscenza, il serpente raffigura la tradizione di un male più antico di lui [dell'uomo]: il serpente è l'Altro del male umano” [24]. Per Adamo l'anteriorità del male (il suo “esservi già”) è il serpente, mentre per ogni uomo è Adamo. Nel racconto biblico sono contemperati lo schema dell'ereditarietà, e perciò della necessità del male, e quello della sua contingenza, del suo esser prodotto dalla libertà umana. In proposito Ricoeur ha parlato del male come di un involontario in seno al volontario; altrettanto bene si potrebbe parlarne come di un volontario in seno all'involontario. Egli ha anche osservato che nella Bibbia il racconto dell'Inizio non è adeguatamente compreso se separato dal rinvio a quello della Fine, se il primo Adamo non rinvia al secondo Adamo e alla storia della salvezza che in lui si compie. Con l'avvento del Verbo il dramma del male è compreso in una luce nuova.
Col cristianesimo il problema del male si illumina nel discorso, si risolve nella vita e nella lotta verso una soluzione. Ciò che fa la differenza cristiana in proposito è che la vita è intesa come dramma, non come tragedia. Vi è tragedia quando l'esistenza è rinchiusa in una “contraddizione non dialettica”, ossia in una contraddizione senza esito, senza soluzione, senza sbocco. Edipo è l'eterno prototipo del personaggio assolutamente tragico, Adamo invece drammatico, perché la storia segnata dal negativo a cui egli ha dato inizio, rinviando alle cose ultime attraverso la promessa di un salvatore, non è assediata da un buio senza fine.
La concezione morale del male, presente nella tradizione biblica, forte nel pensiero dei grandi teologi (si pensi tra tutti ad Agostino), è fortissima in Kant, dove l'intera radice del male è posta nella libertà, ossia nell'inversione della gerarchia delle massime in base a cui si muove l'arbitrio. Tuttavia l'eticizzazione kantiana rischia di offuscare la solidarietà nel male e la sua “preesistenza”, che Agostino invece coglieva contro Pelagio. Mentre quest'ultimo si esprime a favore di una concezione puramente etica del male, che è prodotto contingente della libertà (intesa come libertas ad peccandum et ad non peccandum); e mentre Mani scivola verso un'idea necessitaria del male, per cui esso s'impone all'uomo provenendogli dal principio malvagio; Agostino sceglie una via mediana, dove la tesi della contingenza del male quale prodotto della libertà è attenuata dalla generale compartecipazione umana ad una condizione ferita. Il tentativo di restaurare, sia pure parzialmente, la visione manichea si scontra con l'assunto gnostico dell'esteriorità del male, con la correlativa negazione del male morale come catastrofe della libertà finita. La meditazione dell'Aquinate sulla volontaria non-considerazione della regola quale causa del male di colpa va prolungata con un cenno alla non coincidenza tra visione puramente morale e visione religiosa del male e della colpa, e al rapporto colpa e punizione. Per gli amici di Giobbe Dio è un Signore esclusivamente etico, che segue una rigorosa legge di equilibrio tra colpa e punizione, di modo che il male di colpa viene retribuito col male di pena, con la sofferenza. Elifaz, Bildad, Zofar sono teologi che adottano ad un tempo una teodicea e una “duolodicea”: mentre con la prima intendono giustificare Dio dinanzi al male del mondo, riportato esclusivamente alla colpa, nello stesso tempo giustificano il dolore e la sofferenza come esito necessario del male agire. L'eticizzazione dell'uomo, di Dio e del loro rapporto muove verso una visione morale del mondo, secondo la quale la storia è un tribunale, i piaceri e i dolori una retribuzione, Dio un giudice. La totalità dell'esperienza umana assume carattere giuridico-penale, il cui luogo proprio è il dibattimento, come si mostra nel lungo contendere tra gli amici e Giobbe, tra accusa e difesa, e perfino nella chiamata in giudizio di Dio da parte di Giobbe. Si può certo obiettare: dove sta in tutto ciò la dimensione propriamente religiosa del perdono, della speranza, della grazia? Non è la concezione puramente etico-retributiva messa in crisi dalla sofferenza innocente? Mentre la sofferenza vicaria, assunta volontariamente, può rimanere entro il quadro della retribuzione riequilibrante e manifesta la fede nel governo divino del mondo; e la sofferenza accolta come purificazione e innalzamento sta un gradino più su del semplice schema retributivo, quella innocente ne è al di fuori: per quale colpa dovrebbe essere chiamata a pagare l'innocenza? Ammettiamo senza reticenze tutto ciò, contribuendo così ad allargare le strette maglie del paradigma etico-retributivo. Ed è Giobbe stesso che, sperimentandola sulla propria pelle e relativizzandola, rinuncia ad ogni totalizzante visione morale del mondo. L'origine del male morale quale produzione della libertà non ne viene però scalfita: io sono l'autore del male, esso è l'opera della mia libertà. Ammettendo che avrei potuto agire diversamente, riconosco la mia responsabilità, l'esistenza della legge morale e di una obbligazione nei suoi confronti. Mi riconosco reo attraverso la confessione della colpa, evento che ricorre nella letteratura penitenziale di tutte le epoche, e di cui è vertice il salmo di David: “Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto” (Salmo 50). L'uomo, consapevole di incontrare in se stesso un tribunale che giudica e condanna, e aspirando nella speranza alla liberazione dalla colpa, trova un passaggio verso la dimensione religiosa che integra quella puramente etica. Mentre l'etica dice che il male, scaturente da un'infrazione di un'impersonale legge morale, dipende dal mistero individuale e insondabile dell'atto libero, la religione considera il male dinanzi a Dio, entro un rapporto personale con lui: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. Il limite di una concezione esclusivamente morale del mondo non risiede nel richiamo alla responsabilità personale; consiste nel fermarsi ad esso, nel volgere l'occhio quasi solo al divieto che proibisce e infine schiaccia senza allargare lo sguardo alla speranza nella liberazione dal male. L'invocazione davidica è voce del pentimento, attesa di perdono e di salvezza, accettazione dell'espiazione. In quest'ultimo aspetto si manifesta un elemento della condizione umana, che costituisce anche una base della concezione morale del mondo e della pena. L'uomo non si sentirebbe in pari con se stesso e con la legge, se sfuggisse all'espiazione, ma tale movimento è insidiato dal suo contrario. Si incontra qui una difficile dialettica della coscienza, presa fra l'esigenza dell'espiare e il suo rifiuto. L'uomo può negare di essere colpevole, pur essendolo; e può voler sfuggire alla pena. Ma in tutta verità, può l'uomo sottrarsi all'espiazione? Egli non è in grado di sottrarvisi, perché non gli è dato di sfuggire al proprio io neppure col suicidio. L'essere un io è un fatto eterno. Sfuggire in qualsiasi modo al proprio io è un'impossibilità metafisica. La concezione esclusivamente morale del mondo, se assunta senza la speranza in un salvatore, è intimamente tragica: l'uomo colpevole non puòsfuggire alla sanzione della legge morale, più di quanto possa sfuggire al proprio io eterno. Contra malum cum Deo. L'uomo difficilmente può aspettarsi dalla filosofia quel nutrimento di cui più di tutto ha bisogno: nutrirsi di liberazione dal male e di redenzione dal negativo. La riflessione filosofica risulta di limitata utilità nell'individuare la risposta all'essenziale domanda: donde la liberazione dal male? La sapienza dei concetti non può essere alla misura di quella dismisura che è il male. Bastano i Seneca pagani e i Pelagio cristiani dinanzi a un tale eccesso? Vale qui un celebre detto dell'oracolo di Delfi: “Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente”. Che cosa significa questo se non che occorre portare l'interrogativo sul male dinanzi a Dio, non solo dinanzi all'uomo? In tale prospettiva due posizioni appaiono in vario modo insufficienti: quella che dall'esistenza del male argomenta contro quella di Dio; e la posizione giustificazionista e “apologetica” della teodicea. Nell'Alleanza emerge invece come posizione adeguata il contra malum cum Deo et in Deo, che supera sia la posizione atea del contra malum sine Deo, sia quella antiteista del contra malum, contra Deum, sia l'atteggiamento giustificazionistico del pro Deo, in cui ci si preoccupa più di Dio e della sua innocenza, che dell'uomo e del suo male [25] .
La lotta contro il male richiede l'alleanza con il Trascendente in ragione dell'infinito potere negante della libertà finita. Nella concezione 'tradizionale' il male morale è riportato alla causalità della libertà finita, che sembra gravata di un peso immenso, che sarebbe forse più congruo compartire con altri. Non si trascuri però di meditare un elemento della teologia, che sembra idoneo a diradare un poco quell'enigma. Alludo all'Angelo decaduto, un tema di alto rilievo nonostante il disinteresse da cui appare circondato. Nel peccato dell'Angelo si è di fronte al mistero della libertà allo stato puro e della colpa allo stato puro, almeno nel senso che la colpa della volontà non preesige né l'errore né l'ignoranza come condizione dell'atto cattivo del libero arbitrio. L'Angelo conosceva allo scoperto l'esistenza di Dio e la divisione tra bene e male, eppure ha liberamente e consapevolmente voluto se stesso contro Dio, preferendo l'amore verso la propria natura spirituale risplendente invece che l'amore per Dio. Ha peccato, volendo peccare e sapendo di peccare: l'ha voluto con una libera opzione in cui ha posto tutto se stesso, perché la sua volontà era intensamente volta verso se stesso, amandosi di un amore in certo modo infinito e al di sopra di ogni altra cosa. Nella sua radice più profonda il male (morale) sembra scaturire dalla violenza di un falso amore, di un desiderio intimamente e tragicamente disordinato. Col peccato dell'Angelo viene a svelamento l'erroneità dell'intellettualismo etico o del “socratismo morale” che fa della virtù un effetto della conoscenza e del vizio un risultato dell'ignoranza. Ma emergono pure l'innocenza di Dio nei confronti del male e la possibilità intrinseca alla libertà creata di introdurre il male nell'essere, attraverso un atto nientificante: il maremoto della libertà. Solo una libertà altra, divina, può rifare quello che il soggetto finito disfa.
Col loro ottimismo storico Razionalismo e Illuminismo credevano in una progressiva vittoria del bene sul male e nella liberazione umana, che le esperienze più salienti del XX secolo, quali il deserto dell'ateismo e il dilagare dell'oppressione dell'uomo sull'uomo, hanno frustrato. Vi è oggi bisogno più che dell'aria e dell'acqua di una nuova esperienza religiosa, nel cui fuoco riprendere contatto con l'itinerario provvidenziale di prevalenza del bene sul male. Una tale esperienza non parlerà del male di Dio, piuttosto del suo “dolore” (per quella modestissima misura in cui possiamo avere accesso ad un tema tanto carico di mistero) e in generale del valore redentivo del soffrire. E se è assurdo introdurre la minima ombra di male in Dio, non è assurdo scorgervi un misterioso riflesso del dolore, di quello che quando è accettato come riscatto e rivelazione del senso segreto delle cose, è una perfezione umana di cui non può non cercarsi un qualche analogo nell'Assoluto.

Note

[Nota 1] E' il testo dal titolo Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione,Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197.

[Nota 2] W.Kasper, Il problema teologico del male, in W.Kasper-K.Lehmann (edd.), Diavolo-Demoni-Possessione. Sulla realtà del male, Queriniana, Brescia, GdT 149, pp.45-78.

[Nota 3] Ciò deriva da quanto leggiamo in Sal 96,5 e 1Cr 16.26, che cioè gli idoli dei pagani sono niente (elilim; cf. Is 44,9 ss); nei Settanta e nella Volgata si dice che gli idoli dei pagani sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 106,37). Che i demoni siano degli idoli inesistenti ci viene suggerito anche da 1Cor 8,4 e 10,19. Cf. l'art. éidolon, in ThWNT II, 374 s.; H.CONZELMANN, Der erste Brief an die Korinther (Krit. exeget. Kommentar), Göttingen 1969, 168 s.

[Nota 4] Riprendo così una definizione che K.BARTH ha dato, ed ampiamente evoluta, nella sua Kirchliche Dogmatik III/3, 327-425. Pur rimanendo debitore di tanti stimoli che Barth mi ha offerto, qui mi differenzio fondamentalmente dalla sua posizione. Per Barth quello del 'niente' è il terzo modo dell'essere: né come Dio, né come creatura, bensì come reale rispondenza al non volere di Dio, come opposto dell'elezione e conferma di Dio (cf. spec. 402 ss). Partendo da questo punto di vista Barth potrà dunque contestare che gli angeli e i demoni traggano la loro origine da una comune radice (cf. 608 ss). Invece di questo terzo modo d'essere, insostenibile dal punto di vista teologico, a me interessa determinare la creaturalità del male pervertita mediante la propria decisione. Mi rendo tuttavia conto che il concetto di negazione o negatività da me impiegato esige un più preciso chiarimento filosofico.

[Nota 5] Cf. TOMMASO d'AQUINO. Summa theologiae I q.48 a.l; Contra gentiles III, 7 ss.; De malo q.1 a.1. Per la storia di questa concezione, cf. F. BILLICSICH, Das Problem des Übels in der Philosophie des Abendlands, 3 vol., Wien 1952-59; critico nei confronti della definizione tradizionale del malum è L.OEING-HANHOFF, Die Philosophie und das Phänomen des Bösen , in Realität und Wirklichkeit des Bösen (Studien und Berichte d. kath. Akad. in Bayern, 34), Wurzburg 1965, 1-30.

[Nota 6] Per questa interpretazione di Mt 5,37, cf. E.JÜNGEL, Geistesgegenwart. Predigten, München 1974, 39-47.

[Nota 7] Cf. Gv 8,44.

[Nota 8] Cf. al proposito J.RATZINGER, Abschied vom Teufel? , in Id., Dogma und Verkündigung, München-Freiburg 1973, 225-234, qui 233 s. [trad. it., Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia]. Dubito comunque che la categoria del 'fra', che in tale contesto Ratzinger introduce, risulti sufficiente. Questa categoria, desunta da M.Buber, è più adatta ad interpretare la realtà qualificata con il concetto di peccato originale che a definire in modo categoriale il diavolo o i demoni.

[Nota 9] Cf. Rom 8,38; 1Cor 15,24; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10-15.

[Nota 10] Ciò risulta soprattutto dalle discussioni sul problema della carne sacrificata agli idoli a Corinto (cf. 1Cor 8,1 ss.) e pure dalle polemiche sulla libertà dalla legge (cf. Gal. 4,8 ss.) e con le correnti (probabilmente) gnostiche (cf. Col 2,8 ss.).

[Nota 11] Vittorio Possenti, Essere e libertà , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.

[Nota 12] Sull'insuccesso di ogni tentativo di teodicea , trad. di A. Massolo, Studi Urbinati, n. 29, 1955. p.6
 

[Nota 13] Spirito e Libertà , Ed. di Comunità, Milano 1947, p.235.

[Nota 14] L.Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico in AA.VV., Dove va la filosofìa italiana? , a cura di J.Jacobelli, Laterza, Bari 1986, p.137s. Di Höffe si veda Recuperare un tema: Kant sul ma le, in F.W.J.Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana , commentario a cura di A.Pieper e O.Höffe, Guerini, Milano 1997. pp.113-115.

[Nota 15] Soprattutto Auschwitz, presentando l'abisso del male, chiama in causa Dio: o per negarlo e annunciarne la morte, nel senso che la creazione è un dramma in cui Dio infine è sconfitto (in Dopo Auschwitz, 1966, il rabbino americano Richard Rubinstein domanda che si accetti il fatto bruto della pura e semplice morte o fine di Dio ad Auschwitz); oppure per ripensare e alterare la natura di Dio, come propone Hans Jonas. per il quale la bontà divina si accompagna ad una sua assoluta impotenza ad intervenire nella storia del mondo; o infine attraverso una più approfondita riflessione sul male che si appoggi ai dati biblici e alle più sicure tradizioni teologico-filosofiche.

[Nota 16] A.Neher, Chiavi per l'ebraismo , Marietti, Genova 1988, p.124.

[Nota 17] H.Blumenberg, La legittimità dell'epoca moderna , Marietti, Genova 1992, p.133.

[Nota 18] Cfr. Da Bergson a Tommaso d'Aquino , Vita e Pensiero, Milano, 1980; Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente , Morcelliana, Brescia, 1965; Dio e la permissione del male , Morcelliana, Brescia, 1973; Le péché de l'Ange , in AA.VV. Le péché de l'Ange , Beauchesne, Paris, 1961, pp.43-86.

[Nota 19] Cfr. Contra Gentiles , 1. III, c.71.

[Nota 20] G.Leibniz, Discours de métaphysique , Vrin, Paris 1975, p. 92 ; J.Maritain, Dio e la permissione del male , p.14.

[Nota 21] La religione entro i limiti della sola ragione , Laterza, Roma-Bari 1980, p.45s.

[Nota 22] De Malo , q.I, a.3.

[Nota 23] Ivi.

[Nota 24] P.Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni , Jaca Book, Milano 1986, p. 311.

[Nota 25] In queste riflessioni ci siamo ispirati al bel libro di A.Gesché, Le mal , Cerf, Paris, 1993. Dal canto suo Ricoeur avalla la posizione del contra malum: “Prima di accusare Dio o di speculare su un'origine demonica del male in Dio stesso. agiamo eticamente e politicamente contro il male”, Il male , Morcelliana, Brescia 1993, p.49.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:36 am | | Default

L'Impero Romano da Augusto alla caduta dell'Impero d'Occidente ed i principali sviluppi monumentali ed urbanistici della Roma imperiale. Due lezioni dell'archeologo Antongiulio Granelli, tenute presso il Centro culturale L'Areopago della parrocchia di S.Melania il 17 ed il 24 maggio 2004

Don Andrea Lonardo

Ho la gioia di presentarvi l'archeologo Antongiulio Granelli. L'abbiamo conosciuto ed imparato ad apprezzare perché spesso guida le visite archeologiche in Roma della nostra parrocchia di S.Melania. Mi è sempre piaciuta di lui la capacità di rispondere alle domande più disparate, una grande padronanza della materia che gli permette di spaziare dalla storia, alla letteratura, all'archeologia.
Avremo, fra poco, le due visite by night di Roma per conoscere meglio la storia della Chiesa e gli abbiamo chiesto di aiutarci a ricostruire a grandi linee la storia dell'Impero Romano nel periodo che riguarda gli autori della Chiesa che incontreremo in queste due escursioni, da Cesare Augusto fino alla caduta dell'Impero Romano d'occidente.
Lo facciamo anche come atto di amore alla nostra città, al tesoro di storia ed anche di storia cristiana che questa città ci consegna. Sono le nostre radici. Anche ai bambini cerchiamo di far amare la nostra città, ricostruendone la storia. Abbiamo, soprattutto, come cristiani questo legame grandissimo con Roma. A me piace sempre chiedere ai vostri bambini: “Sapete sotto quale imperatore è nato Gesù? Sotto quale imperatore è morto e risorto?” E' un modo di provocare ad una conoscenza maggiore della propria fede, di stimolare le persone che si dicono cristiane, ma non sono in grado di collocarne gli eventi fondamentali nel tempo! Sapete che già nel Vangelo di Luca, ogni volta che si racconta qualcosa, si dà una collocazione storica. Si dice per esempio: “La parola di Dio scese su Giovanni Battista nell'anno..., sotto l'imperatore...” e lascio a voi, se la conoscete, la continuazione. O ancora: “Si compirono per Maria i giorni del parto nei giorni nei quali un decreto di... ordinò che si facesse il censimento di tutto l'Impero”. Quindi Gesù nacque sotto l'imperatore...? Luca ci dice chi era l'imperatore, chi il governatore della Giudea dell'epoca e così via, mostrando così il radicamento del cristianesimo in quella storia concreta. Ringraziamo perciò fin da ora Antongiulio Granelli per essere venuto a guidarci in queste due lezioni di storia romana.

Antongiulio Granelli

Faremo un discorso per chiarire a grandi linee la cronologia imperiale e soprattutto le dinamiche politiche all'interno del potere imperiale ed i riflessi che si hanno nella struttura urbanistica di Roma che è quasi sempre stata una palestra ed uno sfogo per la politica dell'imperatore e l'affermazione del potere da parte dello stesso.

Ottaviano Augusto

Direi di partire dal passaggio cruciale che è appunto quello dalla Repubblica all'Impero. Un passaggio che per noi, che abbiamo studiato la storia a scuola e sui libri, è un passaggio piuttosto netto e chiaro. Cesare viene ucciso perché si riteneva che volesse farsi re - e quindi formalmente siamo ancora nella Repubblica. Con Augusto nasce l'Impero. Quindi Cesare e tutto quello che c'è prima è Repubblica, Augusto e tutto quello che viene dopo è Impero. In realtà invece, nella situazione politica di allora a Roma, le cose sono molto più sfumate e la grandezza di Augusto è stata proprio quella di riuscire in una vera e propria rivoluzione politica epocale per la storia di Roma, facendola praticamente passare, da un punto di vista ufficiale, sotto silenzio. Fu una trasformazione enorme, ma se uno avesse voluto non vederla non l'avrebbe vista. Era una trasformazione politica fatta passare addirittura come una restaurazione delle antiche libertà. Augusto raggiunse definitivamente il potere, dopo avere combattuto dapprima contro Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare, poi contro Marco Antonio che dopo essere stato suo alleato gli si era opposto con la nota alleanza con Cleopatra d'Egitto.

Alla fine di questi scontri Ottaviano, o meglio Gaio Ottavio, riuscì vincitore e quindi rimase unico padrone del dominio romano, al termine di un secolo nel quale il dominio romano era stato travagliato da guerre civili che lo avevano dissanguato, a cominciare da Mario e Silla, 60 anni prima, continuando con Cesare e Pompeo e, ancora dopo, con tutte le battaglie tra Cesare e i seguaci di Pompeo, anche dopo la morte di questo, e, ancora dopo, con le guerre civili che aveva dovuto affrontare Gaio Ottavio, contro Bruto e Cassio prima, e contro Marco Antonio dopo. Guerre civili che non significavano soltanto battaglie con conseguenti carneficine di soldati, ma anche liste di proscrizione, e quindi decimazione della classe dirigente e dei proprietari terrieri, perché, già a partire da Mario e Silla, a seconda di chi prevaleva, tutti i nobili amici dell'uno o dell'altro, venivano fatti fuori e le loro terre venivano confiscate e ridistribuite ai soldati dell'esercito vincitore. Il I secolo a.C. fu veramente un periodo traumatico per l'Italia e, come spesso avviene in questi casi, in periodi di grande confusione e grande conflitto, innanzitutto ben venga la pace e chiunque riesca a garantire la pace. La trasformazione politica di Augusto fu quindi innanzitutto un ritorno alla pace. Indubbiamente iniziava un'ennesima dittatura, perché alla fine a comandare era sempre una sola persona, però questa trasformazione in senso monarchico dello Stato romano fu intanto ben accolta perché riportava finalmente alla pace. Con una sola persona a comandare, poneva termine alle guerre civili, alle campagne svuotate di uomini che andavano a combattere, alle liste di proscrizione tra i senatori e i cavalieri, ossia tra le classi dirigenti dello Stato. In più, la grande abilità di Augusto fu quella di fare passare questa trasformazione in senso monarchico come se si trattasse invece della restaurazione, del ritorno alle antiche libertà della Repubblica che erano state sconvolte e minacciate dai successivi tentativi di vari personaggi di scavalcare le antiche magistrature repubblicane, appunto Mario, Silla, Cesare e Pompeo, Marco Antonio. Augusto apparentemente restituiva una repubblica, che era morente, a nuova vita.

Augusto fu celebrato dopo la sua morte, ricevette onori divini, perché era considerato il nuovo fondatore di Roma, colui che le aveva restituito la pace, padre della patria, come poi venne celebrato in uno dei monumenti più smaccatamente propagandistici realizzati nel periodo del suo potere, l'Ara pacis, questo altare eretto alla pace restituita a Roma da Augusto, al quale ora si sta lavorando (sul lungotevere) per risistemare tutto l'allestimento conservativo. Augusto formalmente non era nessuno, era semplicemente un princeps, una persona di prestigio tra le tante, perché formalmente restavano in vigore tutte le magistrature repubblicane. Quindi, apparentemente, nulla cambiava rispetto al periodo della repubblica: restavano i consoli, restavano tutti i vari magistrati dell'ordinamento repubblicano. Restava ovviamente il Senato. Però tutto questo era una facciata, perché a reggere le fila era una persona sola, attraverso due magistrature che Augusto assunse per giustificare la posizione assolutamente anomala e anormale che lui manteneva nello Stato Romano. Queste due magistrature erano la potestà tribunizia (tribunicia potestas), che era una magistratura repubblicana, cioè quella dei tribuni della plebe, una istituzione antichissima, che risaliva agli inizi della Repubblica e permetteva ai rappresentanti (tribuni) della plebe di contrapporre il loro punto di vista all'aristocrazia. L'altra magistratura fondamentale che Augusto si vide attribuita, perché tutti volentieri gliela riconobbero, era l'imperium proconsolare, cioè, sostanzialmente, il comando dell'esercito. Il comando straordinario dell'esercito nelle province non pacificate, quelle di confine, dove risiedevano le legioni, veniva attribuito ad Augusto in quanto gli veniva riconosciuto come necessità. Augusto, colui che aveva restituito la pace, doveva controllare il maggior numero delle legioni che si trovavano appunto nelle province in cui era necessaria la presenza dell'esercito. L'imperio proconsolare era un comando straordinario delle truppe che derivava dal comando degli eserciti che, in età repubblicana, avevano appunto i consoli. Quando i romani andavano in guerra, soprattutto quando il dominio romano non si era ancora esteso nelle province di tutto il Mediterraneo, erano i consoli che guidavano l'esercito. La somma di queste due magistrature, la tribunicia potestas e l'imperio proconsolare, consentiva ad Augusto di mantenere una posizione di potere eccezionale, del tutto anomala, senza una giustificazione istituzionale nell'ordinamento, che, appunto, formalmente restava quello repubblicano, e gli permettevano di comandare senza darlo a vedere. Lui inoltre si curò particolarmente di mantenere buoni rapporti con il Senato che poi era quello che nominava, ad esempio, i governatori delle province e i consoli, era quello dal quale erano estratte le magistrature che erano elette ogni anno nell'ordinamento romano. Ovviamente però, difficilmente il Senato faceva qualcosa che potesse andare contro la volontà politica di Ottaviano Augusto. Quindi questa rivoluzione è praticamente indolore, trasforma la repubblica in impero senza darlo a vedere. Questa operazione fu facilitata dai consigli di uno staff veramente all'altezza, nel quale spiccavano, per esempio, Mecenate e Marco Vipsanio Agrippa. Mecenate favorì quello che potremmo definire un vero battage culturale, una propaganda politica e culturale che tendeva a presentare Augusto come il salvatore della patria, l'uomo atteso da generazioni e generazioni, travagliate dalla guerra civile. Formò un circolo di letterati tra i quali spiccavano Virgilio ed Orazio, tanto per citarne due, che avevano il compito di elogiare l'opera di Augusto, ovviamente non in maniera smaccata e palese, ma attraverso le loro opere - che poi grazie alla capacità dei loro autori sono rimaste come dei capolavori - ma nelle quali si leggeva, tra le righe, che si era finalmente giunti ad una nuova età dell'oro, grazie all'avvento di un nuovo Romolo, un nuovo fondatore di Roma, una persona da sempre attesa per porre fine alla tragedia delle guerre civili. Quando infatti le guerre civili durano 60, 70, 80 anni - considerata anche la durata della vita media di allora, tutti erano praticamente nati in un contesto in cui la guerra civile era la normalità – è quindi ovvio che la pace sia vista come una meta idilliaca da raggiungere. Chi era stato in grado di garantire questo ritorno alla pace era equiparabile ad un dio. Nel 14 d.C. infatti, quando Augusto morì, gli vennero tributati onori divini e dopo di lui a gran parte degli imperatori. Noi li chiamiamo imperatori, ma loro non si chiamavano così. Era un attributo che loro avevano e che poi è diventato un modo di definirli successivamente. Era l'imperator, un'acclamazione militare che l'esercito rivolgeva al comandante vittorioso, e quindi imperator veniva definito il capo dell'esercito vittorioso, ma Augusto era un privato cittadino, un princeps, un po' al di sopra degli altri per prestigio, ma non ricopriva, a parte queste due magistrature straordinarie che gli venivano rinnovate di anno in anno, la tribunicia potestas e l'imperio proconsolare, una carica istituzionale nello Stato.

La propaganda, che aveva il compito di far accettare nel modo più indolore possibile questa trasformazione, si esplicava non solo attraverso la cultura, ma anche attraverso l'urbanistica. I Fori imperiali sono la manifestazione più esplicita di questo aspetto, la realizzazione di una serie di grandi piazze monumentali, sempre dominate da un tempio che manifestava in maniera esplicita, a tutta la popolazione, la grandezza di chi aveva favorito queste costruzioni e rappresentava al contempo un gigantesco cantiere che dava lavoro a tantissime persone - quindi anche ben accetto dal punto di vista sociale - dando l'immagine concreta della preminenza dell'imperatore nell'ambito dello Stato romano.
Già Cesare si era messo su questa strada, perché il primo dei fori imperiali è il suo. Cesare aveva affidato addirittura a Cicerone il compito di espropriare una parte dei terreni compresi tra il Campidoglio e il Quirinale - terreni tra l'altro costruiti, per cui le case vennero demolite. Al loro posto fu costruita una piazza porticata in cui dominava il tempio di Venere genitrice, cioè della dea alla quale la propaganda di Cesare faceva risalire l'origine della gens Iulia, della sua famiglia. Questo modo di monumentalizzare la propaganda politica era già iniziato con Cesare, e forse in modo ancora più clamoroso perché il foro di Cesare era in realtà la prima nuova piazza monumentale che veniva aggiunta all'unica vera piazza monumentale che esisteva fino a quel momento, il foro romano, l'antico foro repubblicano, già abbellito da una grande Basilica, la Basilica Giulia e da altri interventi come la ripavimentazione stessa della piazza. Addirittura ora viene aggiunta una nuova piazza. E quindi la prima di queste, il foro di Cesare, divenne un fatto importantissimo, perché fino a quel momento il centro dell'attività politica e dell'attività, potremmo dire, sociale, era il foro romano. Il fatto che venga aggiunta un'appendice al foro romano era sicuramente un evento urbanisticamente rilevante.
Augusto segue questa strada, occupando un altro settore della valle che si stendeva tra il Palatino, a sud, e il Quirinale e il Viminale, a nord, realizzando il suo foro, il foro di Augusto, dominato dal tempio di Marte Ultore, cioè Marte vendicatore. E qui subito un aspetto di propaganda politica: Marte vendicatore di chi? Di Cesare, mediante la celebrazione della vittoria su Bruto e Cassio che a Filippi erano stati sconfitti. Per cui l'uccisione di Cesare veniva vendicata e Augusto, pronipote di Giulio Cesare, si proponeva di portare avanti la sua opera, che era stata, ed è proprio il caso di dirlo, brutalmente interrotta. Attorno al tempio di Marte vendicatore, venne costruita una piazza contornata di colonne e di statue, che da un lato erano quelle degli antenati anche mitologici e divini della gens Iulia, e da un lato erano quelle dei personaggi più illustri di tutta la storia regia e repubblicana di Roma. In questa piazza si riassumeva tutta la storia più bella, più illustre, più positiva di Roma. Si trattava di un monumento alla storia di Roma che culminava nel tempio di Marte vendicatore della morte di Cesare. Il tutto promosso da Augusto, la celebrazione quindi dell'autorità politica che si era conquistato.

Possediamo anche statue di Augusto in veste di Pontefice, perché naturalmente un aspetto fondamentale della propaganda politica era quello di legarsi alle più antiche, genuine e sane tradizioni dello Stato romano, cioè quelle religiose. Augusto interpretava la carica di Pontefice Massimo, potremmo dire di gran sacerdote, e si faceva ritrarre in statue in atto di sacrificare con libagioni, garantendo quindi la piena adesione alla religione tradizionale dello Stato. Tale adesione fu un motivo ricorrente dell'Impero fino, praticamente, a Costantino, nel senso che i Romani furono sempre più che tolleranti nei confronti di tutte le religioni, ognuno poteva professare la religione che voleva, però era necessario comunque aderire anche alla religione tradizionale degli avi, quella di Giove, Giunone, Minerva e degli imperatori divinizzati, perché questo significava esattamente aderire allo Stato. Lo Stato era per certi aspetti uno Stato religioso. Si poteva, quindi, professare qualsiasi religione, ma si aveva comunque l'obbligo di rendere omaggio alle antiche divinità patrie, perché non farlo significava non essere in pratica cittadini. Questo è un discorso che avrà una grande importanza nei rapporti con il cristianesimo. La tradizione religiosa aveva un ruolo importantissimo nella propaganda politica di Augusto.

Grande sviluppo ebbe, con Augusto, il Palazzo sul colle Palatino. Al di là del Circo Massimo vediamo anche oggi la facciata del palazzo imperiale che nasce e si sviluppa dalla casa privata di Augusto che si trovava proprio sulle pendici meridionali del Palatino. Poi successivi imperatori procederanno a nuove costruzioni e ampliamenti, basti pensare alla Domus tiberiana. Tiberio costruì un palazzo su tutta la parte oggi occupata dagli orti farnesiani, la parte verso il Velabro e il Foro romano. Nerone e più di lui gli imperatori Flavi, Vespasiano, Tito e Domiziano, amplieranno molto la parte verso il Celio e ulteriori ampliamenti verranno fatti all'epoca di Settimio Severo fino a che il palazzo imperiale, tra ali vecchie e padiglioni nuovi raggiunse una dimensione tale da occupare tutto il Palatino. Ed ecco che - la radice del termine palazzo, il palatium , dal colle Palatino - praticamente il colle Palatino corrispondeva in tutta la sua estensione alla residenza imperiale.

Un aspetto fondamentale nella rivoluzione politica di Augusto fu quella di rassicurare il popolo romano sul fatto che dal momento in cui aveva sconfitto Marco Antonio, avrebbe assicurato al popolo pace, stabilità e posizione preminente nell'ambito del mondo romano. La propaganda di Ottaviano Augusto contro Marco Antonio aveva giocato molto sul fatto che Antonio si era alleato per vari motivi, politici e sentimentali, con Cleopatra regina d'Egitto e minacciava, forse, di voler in qualche modo spostare il cuore pulsante del dominio romano nelle province orientali e creare una specie di Stato egizio-romano di stampo ellenistico, grecizzato, che avrebbe messo in secondo piano Roma. Che poi Marco Antonio volesse veramente realizzare questo è tutto da vedere, ma sicuramente la propaganda di Ottaviano contro di lui metteva in risalto questo ambiguo rapporto tra Marco Antonio e Cleopatra. Ottaviano, appena dopo la battaglia di Azio, nella quale risultò vincitore, iniziò a costruirsi la tomba, una tomba dinastica. Scelse un'area ovviamente fuori dalle mura, le mura non erano quelle che conosciamo noi, quelle aureliane che verranno molto più tardi, ma le antiche mura repubblicane che noi oggi chiamiamo mura serviane, da Servio Tullio, ma in realtà erano le mura costruite dopo l'episodio dei Galli di Brenno, agli inizi del IV secolo, in età repubblicana. Queste mura che racchiudono una parte molto più piccola della città rispetto alle successive mura aureliane, oggi le possiamo vedere in alcuni brevi tratti che si sono conservati. Uno dei più lunghi si trova a piazza dei Cinquecento, poi ve ne sono dei tratti a piazza Albania, tra viale Aventino e via della Piramide Cestia. Alcune zone della città conservano le porte che si aprivano nelle mura serviane, come ad esempio tra via Merulana e via Principe Amedeo, c'è l'arco di Gallieno, vicino a piazza Vittorio. Questo arco è dedicato ad un imperatore, ma in realtà è l'abbellimento di un precedente arco che corrispondeva ad una porta aperta nel giro delle mura repubblicane. Anche l'arco di Dolabella, di fronte all'ospedale militare del Celio, su cui poi è passato anche un acquedotto che andava verso il Palatino, era una porta delle mura serviane. Quindi il Campo Marzio cioè la zona di piazza di Augusto imperatore, dove si trova il Mausoleo di Augusto, era una zona al di fuori delle mura repubblicane, e quindi adibita a zona funeraria, perché i romani per antichissima legge non potevano seppellire all'interno delle mura. C'era una separazione netta tra spazio dei vivi e spazio dei morti.
Se consideriamo l'aspetto attuale del mausoleo di Augusto, vediamo tutto intorno i sono i palazzi piacentiniani di piazza Augusto imperatore, per cui il mausoleo è oggi inserito all'interno del progetto urbanistico fatto durante il ventennio fascista per valorizzare il monumento anche qui nell'ambito di un'operazione culturale e propagandistica di richiamo alla romanità. Paralleli a distanza di 2000 anni nell'associazione tra urbanistica, edilizia e propaganda.
Torniamo ad Augusto. Augusto aveva trent'anni quando iniziò questo progetto di costruzione del mausoleo, della sua tomba. Fu la prima cosa che fece appena risultò padrone del mondo romano. Decidendo di costruirsi una tomba dinastica diceva in pratica al popolo romano: “Io stabilisco una continuità nel potere, lascerò un'eredità. Io sono il pacificatore di Roma, dopo di me verranno altri della mia famiglia - addirittura discendente dalla dea Venere e quindi una famiglia DOC - che continueranno dopo di me a garantire la pace al mondo romano e la sede del potere resterà sempre Roma perché sia io che i miei discendenti verremo sepolti in questo mausoleo che viene costruito a Roma”. Era una garanzia di preminenza del popolo romano rispetto a tutto il resto del mondo mediterraneo che era venuto in potere di Roma. La risposta più evidente alla minaccia di impero romano-egizio con Cleopatra e Marco Antonio. Tra l'altro questa tomba rientrava in un complesso urbanistico molto più articolato e complicato, con dei significati ancora più raffinati, quasi esoterici potremmo dire, in cui rientravano non soltanto l'Ara pacis, questo altare alla pace che Augusto aveva donato di nuovo a Roma, ma anche e soprattutto la meridiana, cioè l'obelisco fatto portare dall'Egitto che diventava lo gnomone, l'ago della meridiana che si trovava in prossimità del mausoleo di Augusto. Per cui c'era un gioco di ombre ed il calendario che metteva in risalto il giorno della nascita di Augusto e quindi l'avvento di una nuova era di pace e di gloria per Roma. L'obelisco venne ritrovato in età rinascimentale, caduto a non molta distanza dal mausoleo, e poi spostato di poco per essere infine eretto nella piazza di Montecitorio, dove tuttora si trova. In una cantina di una casa del campo Marzio si conserva ancora una piccola parte della meridiana che appunto si giovava dell'ombra dell'obelisco nell'ambito di questo progetto minutamente studiato a tavolino dallo staff di esperti di cui Augusto si avvaleva.

Ma come funzionava la propaganda? Possiamo approfondire ora ulteriormente questo aspetto. Naturalmente il circolo letterario produceva per un establishement, per le classi dirigenti, gli unici alfabetizzati, in grado di comprendere e apprezzare queste opere. Intorno ad essi ruotava una massa di “clientes”, persone che dipendevano socialmente da senatori, da cavalieri, dall'aristocrazia romana e questi clientes, di riflesso, anche nei discorsi politici, nelle riunioni politiche o sociali, riflettevano e rimbalzavano i concetti della propaganda augustea. Augusto si guardava bene dall'intervenire per celebrare se stesso, lo faceva sempre tramite altri. I monumenti, anche lo stesso foro di Augusto, venivano dedicati ad Augusto. Ma poi erano personaggi dell'aristocrazia senatoria che si occupavano materialmente di costruire, di finanziare, di pubblicizzare le varie opere dell'edilizia imperiale. Viene costruito un nuovo teatro in muratura? Ovviamente tutto rientra nel gioco culturale di Augusto, però il teatro lo costruisce un tale Balbo nella zona delle Botteghe Oscure. Un nuovo tempio dedicato ad Apollo? Lo costruisce un tale Gaio Sosio. Si costruisce un ennesimo e più grande teatro nella zona del rione Sant'Angelo? Il teatro è dedicato a Marcello che fa parte della famiglia Giulia, ma non è Augusto direttamente. Augusto non compare quasi mai ufficialmente, ma comunica a partire dal circolo culturale, dall'influenza un po' mafiosa che ha sui principali membri dell'aristocrazia romana, a cascata, i suoi concetti di propaganda sia urbanistica che culturale che poi si diffondono in tutta la popolazione. L'ultimo terminale è la plebe del proletariato e sottoproletariato che va a teatro gratuitamente ed è contenta di andare a godersi gli spettacoli in un nuovo edificio costruito da qualcuno che lo ha dedicato ad Augusto e quindi a lui gradito. E' un modo, forse non facilissimo da comprendere, per diffondere la propaganda attraverso la complessità dei rapporti sociali che legava le classi più alte alle classi più basse.

Lo sviluppo dei fori imperiali

La prima delle nuove piazze è il foro di Cesare. Possiamo vedere tuttora la Basilica Emilia, una delle due grandi basiliche repubblicane che si trovavano sui lati lunghi del foro romano. Cesare fa allora espropriare una zona adiacente al Foro Romano ed alle sue due basiliche, fa demolire il quartiere ed al suo posto ecco una bellissima piazza monumentale, il tempio di Venere genitrice e la Basilica Argentaria dove c'erano botteghe, attività commerciali che in qualche modo si affacciavano sulla piazza del foro di Cesare.
Al Foro di Cesare si aggiunge il Foro di Augusto, nuovamente una piazza porticata, con due esedre e al centro il grande tempio di Marte vendicatore. Alle spalle del tempio un gigantesco muro in blocchi di tufo peperino lungo la salita del Grillo che ancora oggi si vede perfettamente e che stava a separare nettamente il foro di Augusto dalla retrostante suburra e delle pendici del Quirinale. Nel foro si entrava da un arco - oggi c'è invece un grosso dislivello – da cui non è più possibile passare, ma in origine era uno degli ingressi, quasi di servizio al foro di Augusto.
Andiamo avanti nel tempo e si aggiunge, ai primi due, il Foro della Pace. Siamo ora all'epoca degli imperatori Flavi, all'epoca di Vespasiano. Nel Foro della Pace, un Tempio della pace, una piazza porticata, giardini e probabilmente anche una specie di museo, di galleria di arte classica all'aperto, delle biblioteche. All'interno del Tempio, era conservata, fra le altre cose, la menorah, il candelabro a sette braccia del Tempio di Gerusalemme che il figlio di Vespasiano, Tito, aveva portato via nel 70 d.C. dopo aver distrutto Gerusalemme e aver sedato la prima grande rivolta giudaica. Successivamente qui gli spazi cominciavano a scarseggiare e allora Domiziano, altro figlio di Vespasiano, si trovò a riempire lo spazio che si trovava tra il Foro di Augusto e il Foro della Pace. Ecco allora che abbiamo il Foro transitorio. Transitorio perché era una piazza molto stretta, perché era appunto di passaggio sia tra il Foro della Pace e il Foro di Augusto, sia tra la suburra e il Foro romano. Era una via colonnata, monumentale, che permetteva di passare dal quartiere della suburra al foro romano. La piazza era dominata dal tempio dedicato a Minerva, dea particolarmente onorata da Domiziano, e lo spazio era così stretto che ai lati della piazza non c'era un vero portico, ma le colonne erano direttamente unite al muro perimetrale con una breve architrave - quindi non c'era un vero tetto. Le famose Colonnacce sono le superstiti di questo portico a largo Corrado Ricci e si vede bene come erano direttamente collegate con il muro senza una zona di porticato. In realtà il Foro transitorio noi lo conosciamo meglio come Foro di Nerva, perché Domiziano morì in odio al Senato e gli successe proprio un senatore - uno dei rari casi in cui un imperatore fu scelto dal Senato. Questo imperatore era Nerva che, come primo gesto, attribuì a sé il nuovo Foro costruito da Domiziano. Ultimo passo: l'aggiunta del complesso del Foro di Traiano. Qui lo spazio era praticamente finito, tanto è vero che per realizzare questo gigantesco complesso che comprendeva la piazza, la Basilica, due biblioteche, un tempio che non si trovava dove lo pone il famoso plastico di Roma che è al Museo della Civiltà Romana all'EUR, ma probabilmente nella parte opposta, in base agli scavi più recenti, e tutto il fabbricato dei mercati di Traiano, si dovettero sbancare le pendici del Quirinale che originariamente formavano una sella che le collegava al Campidoglio. Abbassando il terreno in questa zona si riuscì a creare lo spazio necessario a completare questo grande complesso costruito per celebrare l'ultima grande conquista dell'impero romano, la Dacia (Transilvania), ricchissima di miniere d'oro, che permise di reperire le risorse finanziarie necessarie per questo monumento di celebrazione dell'autorità imperiale.

Da Augusto a Nerone

Augusto riuscì a fondare una dinastia, anche se tutti gli eredi che lui aveva scelto fecero una brutta fine. Lui aveva una sola figlia, Giulia, che non poteva essere erede del nuovo Stato che Augusto aveva creato. Inoltre, mentre Augusto, sempre per motivi di richiamo alla tradizione, di recupero dei sani principi dei bei tempi della Repubblica, promuoveva una campagna di moralizzazione dei costumi, la prima che contravveniva a questa campagna era proprio la figlia che lui infatti si trovò costretto ad esiliare. Tutti i suoi nipoti che, uno dopo l'altro, gli erano sembrati adatti a raccogliere la sua eredità, fecero una brutta fine, a cominciare da Marcello, quello a cui fu dedicato il teatro, per proseguire poi con Lucio e Gaio che morirono nel 4 a.C. e nel 2 d.C. Alla fine Augusto si trovò con l'unica possibilità di designare Tiberio, da lui adottato, figlio di sua moglie e del precedente marito. La moglie di Augusto, Livia, aveva avuto due figli, Tiberio e Druso, dal precedente marito. Druso morì abbastanza giovane dopo una caduta da cavallo mentre combatteva in Germania. Tiberio che aveva anche lui combattuto a lungo in Germania e in Pannonia (l'Ungheria più o meno), riuscì tra varie vicissitudini, a proporsi come l'unica persona adatta a raccogliere l'eredità dell'Impero.
Quindi nel 14 d.C. quando Augusto morì, l'Impero passò a Tiberio. Tiberio allargò il palazzo imperiale sul Palatino. Sotto Tiberio avvenne la passione di Gesù.
A Tiberio successe Caligola. Caligola era in realtà un soprannome che derivava da un calzare militare, il suo vero nome era Gaio. Era nato in Germania, potremmo dire “al fronte”, aveva frequentato fin da piccolo i militari e amava indossare queste calzature dalle quali deriva il suo soprannome. Apparteneva alla famiglia Giulio-Claudia, in quanto discendente della famiglia Giulia e, tramite Tiberio, anche della famiglia Claudia alla quale apparteneva il primo marito di Livia.
Caligola era probabilmente un po' squilibrato, stando a quello che ci raccontano le cronache e le storie che ci sono rimaste da parte di Tacito e Svetonio, sempre da prendere con beneficio di inventario, perché gli storici ai quali noi ci rifacciamo sono spesso senatori e quindi influenzati dalla qualità dei rapporti che ogni singolo imperatore manteneva con il Senato. In ogni caso Caligola fu ucciso dopo solo quattro anni di regno, probabilmente nell'ambito di una congiura di palazzo. Dopo Caligola (37-41), abbiamo Claudio, zio di Caligola (41-54), un intellettuale, sicuramente una persona non aitante - gli storici ci dicono che era claudicante e balbettava, aveva dei tic, ma era uomo di cultura, era uno dei primi etruscologi. A Claudio dobbiamo un acquedotto. Sicuramente dobbiamo Porta Maggiore, che è divenuta porta quando sono state costruite le mura aureliane, ma in origine era semplicemente un attraversamento da parte dell'acquedotto della via Labicana e della via Prenestina, nel punto in cui si biforcavano. Poi, per riferirci al territorio in cui viviamo, a Claudio dobbiamo il progetto del primo porto imperiale che doveva risolvere il problema dell'approvvigionamento delle merci che arrivavano a Roma che non potevano più essere sbarcate solo sulle banchine fluviali di Ostia. Claudio ordinò ai suoi ingegneri di progettare un nuovo grande porto, un progetto che si rivelò poi sbagliato perché questo porto si insabbiava continuamente ed era praticamente inutilizzabile. Con Traiano si salvò questo porto attraverso lo scavo di un bacino più interno che ne permise l'utilizzo.
A Claudio successe infine Nerone (54-68). Nerone era figlio della seconda moglie di Claudio, da un precedente suo matrimonio con Gneo Domizio Enobarbo. A quel che sembra ebbe due distinte fasi politiche. Il suo vero nome era Lucio Domizio Enobarbo, cambiato poi in Nerone Claudio Cesare, dopo che fu adottato da Claudio. Divenne imperatore a diciassette anni. Nei primi tempi fu sotto la tutela della madre, Agrippina minore e, in questa fase fu filosenatorio, sia per l'influenza della madre, sia per quella culturale di Seneca e del prefetto del Pretorio Sesto Afranio Burro. L'aristocrazia senatoria cercò insomma di pilotare il giovane Nerone. In una seconda fase del suo regno Nerone fa di testa propria, fa uccidere sua madre, induce al suicidio vari personaggi che avevano avuto influenza su di lui e si lancia in grandi progetti sia edilizi che sociali. Nerone infatti, che è passato alla storia come quello che ha perseguitato i cristiani (ed è vero che sotto Nerone c'è stata la prima persecuzione dei cristiani, ma sicuramente non è stato il momento saliente del suo regno), è passato alla storia come quello che ha bruciato Roma (ma probabilmente non è stato lui a incendiare Roma; incendi scoppiavano di continuo e i vigiles erano sempre in azione per spegnerli, la città era caotica, fatta in gran parte di legno e con fiamme libere ad ogni angolo). Nerone è passato alla storia per la sua megalomania, ma questo aspetto va visto attraverso i due interventi che maggiormente qualificarono il suo regno. Uno è di natura economica, il più importante e forse il più sconosciuto: per sua volontà venne modificato il rapporto di cambio tra la moneta d'oro e quella d'argento, a favore della moneta d'argento. Nerone entrando in contrasto con l'aristocrazia senatoria tendeva ad appoggiarsi al popolo e alle classi medie, la piccola borghesia e la plebe potremmo dire. Questo ceto medio-basso difficilmente possedeva monete d'oro ma possedeva monete d'argento. Quindi un cambio più favorevole all'argento contribuì alla crescita economica delle classi sociali meno abbienti. Questo fatto fu di grandissima rilevanza per l'economia romana. Intanto contribuì ad inasprire i rapporti tra il Senato e Nerone, fino a condurre alla rivoluzione e al colpo di Stato che portò alla morte di Nerone. I suoi successori compresero però il risultato positivo che questa riforma monetaria aveva prodotto e la difesero sempre, finché fu possibile, nonostante la sempre maggiore crisi economica generale dell'Impero. Anche quando, alla fine del II e nel III secolo diventò evidente la crisi economica dell'Impero romano, l'inflazione che cresceva, gli imperatori cercarono in ogni modo di mantenere inalterato questo rapporto tra l'oro e l'argento fino a Costantino che tornò ad avvantaggiare la moneta d'oro, penalizzando fortemente le classi meno abbienti. Questo causò la sparizione dei ceti medi che caratterizzò la fine dell'antichità romana e gli inizi del Medio Evo, con aristocratici ricchissimi e la gran massa della popolazione poverissima, senza un ceto intermedio.
Nerone, grazie a questa riforma, aveva aiutato le classi popolari alle quali si appoggiava, ma così facendo favorì anche l'economia romana e lo sviluppo che nel secolo successivo portò ad un rinnovamento sociale dell'Impero, all'arricchimento di tante persone di umili origini, basti pensare a tutti gli ex-schiavi che nel II secolo si arricchirono. La popolazione di Ostia e quella di Portus nel II secolo d.C. erano formate perlopiù da ex-schiavi che si erano arricchiti grazie ai commerci ed al nuovo cambio. I senatori ne erano danneggiati in un certo senso. E' vero che i ricchi restavano ricchi, ma non potendo diventare ulteriormente ricchi, entrarono in attrito con l'imperatore e questo portò al colpo di Stato e alla fine di Nerone.
L'altro grande intervento di Nerone, urbanistico, è la costruzione della Domus Aurea che comporterà l'occupazione di una spropositata parte di suolo pubblico per la costruzione di quella che è una sorta di Villa Adriana, piazzata nel cuore della città.

Breve intervento di don Andrea sulla cronologia neotestamentaria

Mi permetto di aggiungere, al termine di questa prima lezione, alcuni raffronti cronologici con il cristianesimo.

  • Sotto Augusto nasce Gesù Cristo
  • Sotto Tiberio, suo successore, inizia la predicazione di Giovanni Battista e la morte di Gesù. Ponzio Pilato è procuratore romano della Giudea sotto Tiberio.
  • Sotto Nerone c'è la prima persecuzione pubblica dei cristiani, con la morte di Pietro e Paolo e dei Protomartiri Romani.
  • Sotto Caligola avviene il famoso episodio del pogrom contro gli ebrei di Alessandria d'Egitto e Filone viene a Roma a perorare la causa degli ebrei di Alessandria.
  • Sotto Claudio conosciamo l'espulsione di ebrei da Roma, “impulsore Chresto”, “a causa di Cresto/Cristo”, giustamente interpretato come segno di disordini causati già da uan presenza significativa cristiana nelle sinagoghe di Roma. E' collegato a questo evento il famoso episodio di Aquila e Priscilla, la coppia che viene espulsa da Roma, di cui si parla negli Atti degli Apostoli.
  • Sempre sotto Claudio, abbiamo i primi scritti del Nuovo Testamento, la 1Tessalonicesi, negli anni 51/52. Ricordiamo l'incontro di Paolo con il proconsole dell'Acaia Gallione – sappiamo da un'iscrizione, che Gallione, fratello di Seneca, fu proconsole in Acaia nel 51/52 o 52/53 – momento importante per ogni datazione della storia neotestamentaria.
  • Sotto Vespasiano e Tito c'è la distruzione del Tempio. Finisce l'ebraismo così come lo conosce la Sacra Scrittura, perché, con la fine del culto templare, molte cose saranno, necessariamente, modificate: pensate a cosa vuol dire, ad esempio, la fine dei sacrifici animali.
  • Sotto Domiziano, secondo la tradizione, Giovanni l'evangelista viene esiliato a Patmos; sotto Nerva, sarà invece, liberato.
  • Sotto Traiano c'è il primo documento ufficiale sulla persecuzione dei cristiani – il famoso Rescritto traianeo - e avviene il viaggio di Ignazio, vescovo di Antiochia, da Antiochia, passando per Smirne, a Roma, dove morirà poi martire, forse al Colosseo.
  • Il Vangelo di Marco, primo vangelo ad essere redatto in forma definitiva, dovrebbe essere stato scritto prima del 70, sotto l'impero di Nerone o immediatamente dopo, secondo gli studiosi, poiché non parla in modo preciso della distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta appunto in quella data.

II lezione dell'archeologo Antongiulio Granelli

Nerone

Riprendiamo il discorso da dove l'avevamo lasciato.
Nerone ha lasciato un segno per due cose particolari: una grande riforma monetaria ed un importante intervento urbanistico in città. La riforma economica ha avuto un'importanza capitale nella storia di buona parte dell'Impero, perché era una riforma che veniva incontro ad un rinnovamento sociale dell'Impero. Il periodo di pace, che all'epoca di Nerone aveva ormai raggiunto la durata di circa un secolo da quando Augusto aveva posto fine alle guerre civili, questo periodo di pace aveva cominciato a favorire una crescita economica nell'Impero e quindi anche l'emergere di nuovo classi sociali che si contrapponevano sempre di più all'aristocrazia senatoria, che era portatrice di un'economia non produttiva, perché l'aristocrazia senatoria era latifondista, sfruttava sostanzialmente la terra per far pascolare i propri greggi. Invece le nuove classi sociali erano quelle che potremmo definire la “borghesia”, quindi mercanti e piccoli proprietari, soprattutto mercanti e artigiani, che si arricchiscono rapidamente. Spesso si trattava di persone di umili origini, in particolare liberti. Già con il predecessore di Nerone, Claudio, alcuni liberti (ex-schiavi), erano saliti alle più alte magistrature burocratiche dell'Impero. Callisto, Narciso e Pallante, tre liberti, erano in pratica i veri controllori dell'Impero al tempo di Claudio. Erano l'espressione di una spinta sociale che veniva dal basso. Questa spinta sociale venne favorita ancor di più dall'intervento di Nerone che assecondò questa spinta. Dopo i primi anni in cui Nerone, sotto il controllo di Seneca, aveva cercato di mantenere buoni rapporti con il senato e di favorire l'aristocrazia senatoria, poi piano piano cambia radicalmente rotta, fa uccidere la madre, allontana Seneca che, coinvolto in una congiura di palazzo, si suiciderà. In questo secondo momento Nerone rifiuta i suoi tutori e comincia a fare di testa sua, appoggiandosi alla plebe di Roma e appoggiandosi alle classi inferiori. La riforma economica va in questa direzione: diminuisce il peso sia della moneta d'oro che di quella d'argento, mantenendone invariato il rapporto di cambio. In questo modo, come abbiamo già detto, si favorisce chi possiede molte monete d'argento, le classi inferiori, e si contribuisce all'ascesa di una cosiddetta “borghesia” che assurgerà addirittura al potere imperiale. Perché, dopo la morte di Nerone e un anno e mezzo di guerre civili nel periodo 68-69, Vespasiano, iniziatore della dinastia Flavia sarà proprio un uomo proveniente da questa “borghesia mercantile”. Sarà sì un senatore, ma non di antica aristocrazia, bensì un “uomo nuovo”, proveniente dalla classe equestre. Questa riforma di Nerone, un segno dei tempi, fu mantenuta per due secoli e mezzo, fino a Costantino, finché fu possibile mantenerla, cioè fino a che le condizioni economiche dell'Impero furono in grado di mantenere questo rapporto tra la moneta d'oro e quella d'argento. All'epoca di Costantino la situazione è completamente mutata. Per la continua mancanza di risorse, lo Stato è costretto ad emettere monete che sono soltanto verniciate d'argento, perché in realtà sono di bronzo con una minima copertura. La gente sapeva che le monete d'argento avevano un valore nominale molto superiore al valore reale. All'epoca di Costantino la gente e lo Stato stesso ricorrevano sempre più spesso a pagamenti in natura, perché un bue è sempre un bue, ma una moneta non più d'argento non vale quasi nulla.
Diocleziano è l'ultimo strenuo difensore della riforma di Nerone; cerca di porre un calmiere ai prezzi, frenando così l'inflazione dovuta al fatto che queste monete valevano pochissimo. Ne occorrevano sempre di più ed i prezzi salivano a dismisura.
Costantino invece, di fronte alla situazione completamente diversa che si trova a fronteggiare, prende atto delle mutate condizioni e torna ad emettere una moneta d'oro (“solidus”, da cui verrà poi la parola moderna “soldo”) che ha un rapporto di cambio favorevole rispetto a quella d'argento, favorendo così i molto ricchi possessori d'oro.
Anche la riforma di Costantino sarà un momento epocale, perché darà il colpo di grazia alle classi medie e ancora una volta favorirà gli scambi in natura rispetto ai pagamenti in contanti. Inizia un processo che potremmo definire medievale, la sparizione delle classi medie e l'abisso che viene a crearsi tra i molto ricchi e i servi della gleba, la plebe. E' appunto l'inizio, dal punto di vista economico, del Medio Evo.
Nerone, oltre a questa riforma monetaria, realizza un importante intervento urbanistico. Approfittando del fatto che nel 64 un incendio devastante aveva distrutto i due terzi della città, Nerone pensò di ristrutturare completamente il palazzo imperiale, che già allora constava della primitiva casa di Augusto, sul Palatino, della Domus tiberiana (il palazzo di Tiberio, ingrandito da Caligola, Claudio e dallo stesso Nerone, oggi occupato dagli Horti farnesiani). Nerone, visto che questi palazzi erano stati danneggiati dall'incendio, decise di rinnovare tutto e creare la Domus Aurea, più che un palazzo imperiale, una villa sul genere di quella che sarà poi Villa Adriana, un'area vastissima all'interno della quale c'erano edifici residenziali, zone a verde, un lago, parchi e giardini. La Domus Aurea si estendeva dal Palatino, comprendeva il Colle Oppio (dove ancora oggi si può visitare una parte della struttura), la zona del Celio con il tempio di Claudio, il lacus, un bacino alimentato soprattutto da un ruscello che scorreva nella valle di via Labicana e che ancora oggi scorre sotto il livello più basso della basilica di S.Clemente. Una villa gigantesca, tanto è vero che gli storici successivi a Nerone ironizzavano su questo dicendo ai Romani: “Fuggite fino a Veio, se la casa di Nerone non è già arrivata fino a lì”. Una grande parte della città era stata occupata dalla Domus Aurea. Nerone entra in conflitto con i senatori, ma anche con i governatori di province, soprattutto militari, che si facevano portavoce della protesta delle province per la pressione fiscale che andava aumentando, anche a causa di questi giganteschi lavori oltre che per la riforma monetaria. Nel 68 la situazione degenera con un paio di rivolte militari lungo il Reno. Il Senato dichiara Nerone nemico pubblico e lui si fa uccidere dal suo schiavo.

La dinastia Flavia

C'è il regno molto breve di Servio Sulpicio Galba proveniente dal Senato. Poi c'è la guerra, viene deposto anche lui e a quel punto non c'è più nessuno, la dinastia Giulio-Claudia è estinta. I comandanti più importanti dell'Impero cominciano così a disputarsi la successione. Otone, comandante delle truppe sul Reno, Vitellio, comandante delle truppe sul Danubio, Vespasiano, comandante delle truppe in Oriente. Vitellio vince Otone, Vespasiano vince Vitellio e nel 69 inizia la dinastia Flavia. Dopo Vespasiano verranno, infatti, i suoi due figli Tito e Domiziano. E' una fase in cui è ascesa al potere una borghesia mercantile cittadina, una classe equestre, diversa dall'antica aristocrazia senatoria. Forse proprio per questo i Flavi, consapevoli di non appartenere alla classe senatoria, cercano di avere buoni rapporti con il Senato. E' un periodo di intesa tra l'imperatore e il senato, salvo una rottura che si verificherà verso la fine del regno di Domiziano.
Con la dinastia Flavia abbiamo nuovi interventi monumentali, in modo particolare nei Fori imperiali. Nella valle adiacente alla valle del Foro, come già abbiamo visto, c'erano ormai il Foro di Cesare, poi il Foro di Augusto. Con i Flavi viene costruito il Foro della pace, adiacente alla basilica di Massenzio, dove c'è ora la Chiesa dei SS.Cosma e Damiano. Il Foro della pace, con il porticato ed il tempio della pace, è il luogo nel quale venne portata la menorah, cioè il candelabro proveniente dal Tempio di Gerusalemme che nel 70, con la fine della rivolta giudaica, Tito aveva portato a Roma.

don Andrea sul 70 d.C.

Questo candelabro non era in realtà un oggetto importante. Era solo un arredo del Tempio. Nell'ebraismo non aveva un ruolo particolare, ma poiché era famoso divenne come un simbolo.
Il 70, anno in cui viene presa Gerusalemme, è un anno decisivo per la datazione degli scritti del Nuovo Testamento, perché Tito, oltre a prendere Gerusalemme, rase al suolo il Tempio e, da quel momento in poi, non si fanno più sacrifici in Israele. Pensate che, fino a quel momento, gli Ebrei, come tutti gli altri popoli antichi, praticavano il sacrificio di agnelli o di altri animali per ricevere il perdono di Dio. Dal 70 in poi comincia, al posto del giudaismo del Tempio, il giudaismo rabbinico. Questa data è importante così anche per le datazioni neotestamentarie. Se uno scritto parla del Tempio ancora in attività è evidentemente precedente al 70. Per esempio nella lettera agli Ebrei si dice: “Quando il sommo sacerdote fa questo e questo...” Allora la lettera agli Ebrei è precedente al 70. Gesù aveva detto che Gerusalemme sarebbe stata rasa al suolo, ma solo quando i testi raccontano l'evento in modo circostanziato sono evidentemente successivi al 70. Nel Vangelo di Luca per esempio si dice: “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti”. Non solo si annuncia cioè un evento, ma lo si descrive anche: gli eserciti cingeranno Gerusalemme e ci sarà l'assedio”. Gli storici dicono allora che l'evangelista non conosce solo l'avvenimento come profezia, ma sa esattamente come è avvenuto. Quindi l'ultima redazione del Vangelo di Luca è successiva al 70. Lui ricollega la profezia al fatto di cui è stato realmente testimone.

Antongiulio Granelli

All'interno del Foro della Pace dovevano esserci giardini con un museo all'aperto, come è stato appurato da scavi recenti, con originali e copie di capolavori della Grecia classica, che dovevano costituire la maggiore attrattiva di questa piazza monumentale. Con i Flavi arriva anche il riempimento dello spazio rimasto vuoto, con Domiziano (tra l'81 e il 96 d.C.). Questo stretto spazio che era rimasto tra il Foro della pace, il Foro di Augusto e il Foro di Cesare, era in realtà uno spazio occupato da una strada, l'Argiletum, che collegava la zona della Suburra, con il Foro romano. Domiziano monumentalizza questa strada con un tempio dedicato a Minerva e due porticati molto stretti, visto il poco spazio disponibile. In realtà si tratta di un colonnato le cui colonne sono unite da brevi architravi per dare l'idea del portico, ma in realtà non è un portico. C'è un fregio ornamentale con immagini di Minerva.

Il Colosseo è un altro importante intervento Flavio. Già iniziato da Vespasiano nell'ambito di un'operazione che comportava l'unione di edilizia e propaganda. Vespasiano è arrivato al potere al termine di una sanguinosa guerra civile. Non era neanche un nobile, ma un cavaliere, quindi doveva instaurare da subito buoni rapporti con tutti, con il Senato ma anche e soprattutto con il popolo, che era rimasto legato alla figura di Nerone che aveva favorito, come abbiamo detto, i ceti più bassi. Vespasiano allora inizia a demolire la Domus Aurea e restituire al popolo lo spazio pubblico che Nerone aveva occupato con la sua casa. Fa di più. Non solo lo restituisce al popolo, ma costruisce proprio lì il più grande, il più spettacolare edificio adibito a giochi e spettacoli che a Roma era mai esistito. Anzi il primo in assoluto, perché a Roma anfiteatri in muratura non ce n'erano mai stati. Erano sempre stati fatti di legno, eventualmente poi smontati dopo i giochi, anche con i rischi del caso, perché un anfiteatro di legno a Fidene, costruito all'epoca di Tiberio, crollò mentre c'erano gli spettatori dentro, uccidendo molte persone, come ci racconta Tacito negli Annali. Quindi iniziò la costruzione dell'anfiteatro Flavio e fu una grande opera propagandistica. Si restituiva alla città uno spazio che Nerone aveva occupato per sé e si usava questo spazio per il divertimento del popolo con la realizzazione di questo edificio che doveva stupire Roma e il mondo romano intero. Si prosciugò così il lago, si riempì con un deposito di calcestruzzo e sopra questa area si costruì l'anfiteatro.

La dinastia Flavia finisce tragicamente perché Domiziano, negli ultimi tempi, rompe con il Senato e con un certo circolo intellettuale che aveva al suo interno anche una componente cristiana che era quella del console Flavio Clemente. Si isola e finisce per morire in una congiura di palazzo.

Traiano

A Domiziano succede per due anni un vecchio senatore, Marco Cocceio Nerva che pensa al futuro e chiama a collaborare al governo, adottandolo e nominandolo come successore Traiano. Traiano è nato in Spagna, ad Italica, ed è discendente di una famiglia che era andata a vivere in Spagna ed era arrivata a far parte dell'aristocrazia senatoria. L'ascesa al trono di Traiano, quindi del primo imperatore non italico, significa un ulteriore passo avanti nel processo di rinnovamento sociale dell'Impero. Un rinnovamento che ha portato alla trasformazione della composizione del Senato, dove ormai la maggior parte dei senatori fa parte della nuova aristocrazia, in parte proveniente dalla borghesia e in gran parte dalle province di antica romanizzazione come appunto la Spagna. Alcuni membri di questo nuovo Senato cominciano ad affacciarsi alla vita politica ed uno spagnolo diventa addirittura imperatore. Tra l'altro questo significa anche un altro fatto importantissimo: diventa sempre più evidente la perdita del predominio economico dell'Italia sul resto dell'Impero. La generale pacificazione del mondo romano e la progressiva romanizzazione delle province conquistate dai romani fa sì che l'economia di queste province – le odierne Spagna, Tunisia, Egitto, Turchia, Grecia, la Gallia, ecc. - diventino sempre più ricche e competitive rispetto all'Italia che invece si impoverisce, dove i contadini e i piccoli artigiani abbandonano le loro attività per spostarsi a Roma che si ingrossa sempre di più. Queste persone poi a Roma non svolgevano più le loro originarie attività, ma affluivano nel proletariato urbano che, sempre più frequentemente, veniva assistito dallo Stato. Quindi l'economia italica si isterilisce sempre di più e questo è documentato dall'archeologia in quanto mentre, fino ad Augusto e alla prima parte della dinastia Giulio-Claudia, le anfore che trasportavano il vino italiano si trovano un po' in tutto il Mediterraneo (soprattutto occidentale), a partire dal II secolo le anfore italiche non si trovano quasi più, il vasellame pregiato che veniva dalla Toscana sparisce e al suo posto compare sul mercato una produzione che imita quella di Arezzo ma viene dall'Africa, dalla Tunisia. Arrivavano contenitori di grano, di olio, ecc. ecc. che venivano da Cartagine, dalla Spagna e così via.
In questa fase il predominio delle province è solo economico, ma successivamente diventerà anche politico, fino ad arrivare al momento in cui addirittura Roma non sarà più la capitale effettiva politica dell'Impero. Le capitali saranno altre: Costantinopoli, Nicomedia, Treviri, ecc.
Traiano sale al potere nel 98. Resta sul trono per diciannove anni, durante i quali anche lui cerca di mantenere questo trend di crescita sociale nelle classi meno abbienti e quindi mantiene il cambio tra moneta d'oro e d'argento favorevole a queste classi. Questo risultato si ottiene solo se c'è tanto oro, perché in questo caso l'oro vale di meno. Occorre conquistare nuove province ricche di miniere d'oro, perciò l'interesse si concentra sulla Dacia (l'odierna Transilvania), quindi due guerre daciche, nel 101-102 e nel 105-106, che comporteranno la definitiva conquista di queste terre. D'altra parte le risorse acquisite con le guerre daciche verranno impiegate per l'ultima manifestazione della propaganda edilizia imperiale, nella valle dei Fori con la costruzione del Foro di Traiano, l'ultimo, il più imponente, il più spettacolare, con un complesso monumentale in cui la storia delle guerre daciche era ampiamente celebrata e rappresentata.

Traiano, come continuatore dell'opera di Vespasiano, volle restituire anche lui lo spazio pubblico al popolo. Fa seppellire la Domus Aurea di Nerone e sopra di essa fa costruire il gigantesco impianto delle Terme di Traiano che è il primo dei tre grandi impianti termali imperiali equidistanti tra loro e posti in modo da servire tutte le zone della città. Naturalmente si pensa prima di tutto alla zona centrale di Roma dove appunto sorgono le terme di Traiano. Successivamente saranno costruite le terme di Caracalla e quelle di Diocleziano. Lo schema è sempre lo stesso, con qualche modifica: un grandioso recinto perimetrale con vari ambienti usati come auditori, sale di lettura, di massaggio, teatri, una esedra usata per spettacoli di ginnastica e recitazione, giardino e, al centro, il vero e proprio impianto termale con il calidarium, le saune e poi il frigidarium, due palestre e, all'interno del porticato, la piscina.

Veniamo ad accennare ancora allo sviluppo del Foro di Traiano.
I mercati di Traiano erano un complesso polifunzionale, in parte commerciale, in parte di rappresentanza, in parte di gestione dell'organizzazione annonaria che era servito da strade interne. Un progetto dunque anche architettonicamente molto ardito, che si legava al complesso del Foro, ma ne era nettamente separato grazie ad un muro. Il Foro era costituito dalla piazza monumentale, la basilica Ulpia, le due biblioteche, in mezzo il cortiletto dove si trovava la colonna traiana con le raffigurazioni della guerra dacica, e il tempio al divo Traiano (Traiano divinizzato dopo la morte e, quindi, completato dal suo successore Adriano). Gli scavi più recenti effettuati in occasione del Giubileo hanno un po' rivoluzionato la concezione precedente della sistemazione di questa area, sembra che in realtà la disposizione fosse diversa da come si pensava.

Il Foro doveva avere la statua equestre dell'imperatore, nella basilica Ulpia (dalla gens Ulpia, la famiglia di Traiano), le statue dei prigionieri daci alcune delle quali sono finite sull'arco di Costantino molto tempo dopo. Dentro la colonna di Traiano fu sepolto, dopo la morte, lo stesso imperatore, un fatto eccezionale perché contravveniva alle leggi antiche per le quali non si poteva seppellire all'interno della città, anche se la colonna traiana era in realtà in una zona ai limiti del circuito delle antiche mura.
Il Foro doveva avere due biblioteche che stavano ai lati della colonna traiana, delle quali non resta nulla se non, sotto i giardini attuali, i muri perimetrali e le nicchie dove c'erano gli armadi per i libri. Oggi c'è un magazzino di marmi della sovrintendenza.

Il principato elettivo

Traiano muore dopo aver fallito in qualche modo il colpo decisivo contro il grande nemico dei romani, il regno dei Parti. Nel 115 organizza una spedizione in Oriente che arriva fino all'odierna Baghdad, potremmo dire. Traiano giunge fino all'antica Ctesifonte, capitale del regno dei Parti, ma gli ebrei iniziano diverse rivolte ad Alessandria d'Egitto, a Cipro, nella stessa Palestina. I romani sono costretti a tornare indietro per sedare queste rivolte. Traiano poi muore e il suo successore Adriano rinuncia ad occupare stabilmente la provincia mesopotamica. Adriano viene adottato da Traiano, così come questo era stato a sua volta adottato da Nerva, anche se era imparentato solo molto alla lontana con Traiano. Siamo nel periodo del cosiddetto principato elettivo: non c'è una dinastia, ma l'imperatore in carica sceglie nella cerchia di persone di sua fiducia colui che sembra più adatto a succedergli. Gli imperatori che salgono al trono in questo modo - Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio - regnano una media di 19-20 anni, nel periodo di maggior stabilità dell'impero e mantenendo un quasi pieno accordo con il Senato (tranne Adriano nell'ultimo periodo). Appena finito questo circolo virtuoso ricominciano le guerre civili e ci sarà poi una crisi militare ed economica nel secolo successivo.

don Andrea: sul Rescritto di Traiano

Nel 70 Tito è in Oriente e Vespasiano imperatore a Roma.
Dopo di loro, sotto Domiziano, è ancora vivo, secondo la tradizione, l'ultimo degli apostoli, san Giovanni. San Giovanni sarebbe stato portato addirittura prigioniero a Roma. La tradizione vuole che sia stato condotto nel luogo dove è ora la chiesa di S.Giovanni a Porta Latina, che ha vicino la Chiesetta appunto di S.Giovanni in Oleo, sorta dove Giovanni sarebbe stato messo nell'olio bollente. Da questo “martirio” però si sarebbe salvato. In conseguenza di questo episodio, la tradizione pone talvolta l'esilio a Patmos. E di sicuro l'Apocalisse è stata scritta durante un esilio a Patmos (“Io, Giovanni... vostro compagno nella tribolazione... mi trovavo a Patmos, a causa della testimonianza resa al Signore Gesù”).
Nerva, sempre secondo la tradizione, è quello che libera S.Giovanni evangelista, che poi muore molto vecchio.
Con Traiano abbiamo il primo documento giuridico sulla persecuzione dei cristiani, il famoso “Rescritto di Traiano”. Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, nella attuale Turchia, sta perseguitando i cristiani e vuole sapere da Traiano se fa bene. Traiano risponde che i cristiani sono pericolosi, ma che lui non deve cercarli; può, anzi deve perseguitarli solo se esiste a loro carico una denuncia scritta e non anonima.

Antongiulio Granelli

Questo che dice don Andrea è in realtà la situazione normale dei rapporti dei Romani con il cristianesimo. Ufficialmente i cristiani sono perseguibili, perché si rifiutano di sacrificare all'imperatore e agli dei della tradizione e sono considerati perciò atei - e in questo sembrano rifiutare l'appartenenza allo Stato romano, pur essendo romani a tutti gli effetti. Questo loro rifiutare l'adesione alla religione tradizionale, che è un fatto di militanza politica, quindi di adesione politica all'impero, fa dimenticare ai romani tutta la loro tolleranza religiosa. Nella realtà dei fatti succede quello che dice Traiano: si procede solo a seguito di denunce firmate, altrimenti c'è tolleranza. Succede che, in qualche provincia, alcuni governatori particolarmente zelanti, tenendo conto di problemi locali per i quali la comunità cristiana è malvista dalla popolazione per qualsivoglia motivo, fanno scattare la persecuzione. E' il caso di Lione dove c'è un episodio piuttosto grave di persecuzione nel II secolo, o del martirio di S.Policarpo. Poi ci sono nel corso della storia dell'impero romano dei singoli momenti di persecuzione generalizzata, ma sono periodi circoscritti. Il primo è quello di Nerone, poi c'è questo rescritto di Traiano che però, come abbiamo visto, limita le possibilità di perseguire i cristiani. Dobbiamo poi arrivare a Decio, metà del III secolo, per avere una vera forte persecuzione nei confronti dei cristiani, peraltro rivolta soprattutto ai capi delle comunità. Dopo Decio nuovo episodio sotto Valeriano, poi ancora con Diocleziano e Galerio, ma siamo già agli inizi del IV secolo. In due secoli e mezzo di storia cristiana all'interno dell'Impero, gli episodi di persecuzione generalizzata su precisa iniziativa dell'imperatore si contano sulle dita di una mano. Adriano tra l'altro ha un atteggiamento ancora più morbido di quello di Traiano nei confronti dei cristiani.

Adriano ed i suoi successori

Veniamo ad Adriano ed ai suoi interventi urbanistici. Ormai nel mausoleo di Augusto non c'era più spazio, l'ultimo ad esservi stato seppellito era Nerva. Traiano, come abbiamo visto, era stato sepolto nel basamento della colonna trionfale del suo Foro, quindi Adriano aveva bisogno di una nuova tomba, che poi diverrà anche la tomba di diversi suoi successori. Viene costruita nella zona periferica della città, sulla sponda trasteverina e veniva messa in collegamento diretto con la città tramite un ponte.
Vediamo oggi Castel S.Angelo al termine di tutte le trasformazioni medievali e rinascimentali che ne hanno fatto la fortezza dei papi. Tuttora possiamo percorrere la rampa elicoidale che portava dalla base alla camera funeraria del mausoleo.
Nel Foro romano, invece, è ancora visibile il grande monumento realizzato da Adriano, il tempio dedicato a Venere e Roma. Oggi ne sono rimasti il basamento, alcune colonne, le celle del tempio (era composto da due templi che si davano le spalle). Una parte è divenuta la chiesa di S.Francesca Romana, l'altra cella è ancora visibile ed è quella dell'abside nella quale viene posta la croce fiammeggiante durante la via crucis del Papa il venerdì santo. Siamo vicinissimi al “colosso”, la statua di Nerone poi trasformata nella statua del dio Sole.
Nel campo Marzio Adriano si occupa della ricostruzione del Pantheon, monumento eretto da Marco Vipsanio Agrippa già al tempo di Augusto, distrutto poi nell'incendio dell'anno 80. Viene così costruito questo tempio che è completamente diverso da quello originario, tranne la facciata. La cupola del Pantheon, con un diametro di 42 metri, rimase la più ampia mai realizzata fino all'avvento del cemento armato.

Adriano nomina suo successore, adottandolo, Tito Aurelio Antonino, italico, anche se di origini galliche per parte di madre. Quindi continua questo avvento di provinciali al trono imperiale. Antonino Pio regna in un periodo di pace pressoché completa come Adriano (sotto il quale c'era anzi stata l'ultima gravissima rivolta giudaica che si conclude nel 135 con la distruzione di Gerusalemme e l'inizio della diaspora). Sotto il regno di Antonino Pio c'è anche un periodo di relativa stasi dal punto di vista edilizio. Non costruisce grandi monumenti tranne il tempio dedicato al suo predecessore.

Nel Foro romano c'è anche il tempio dedicato inizialmente alla moglie Faustina, che morì quasi subito, e poi dedicato anche a lui, dopo la sua morte, avvenuta nel 161. Il tempio di Antonino Pio è stato poi riutilizzato dalla chiesa di S.Lorenzo in Miranda. E' un monumento significativo per vedere l'evoluzione edilizia di Roma con queste chiese che utilizzano i monumenti antichi. Il livello della porta della chiesa è rimasto altissimo; è quello al quale si camminava nel 1400, quando venne costruita la facciata. In un edificio come questo c'è tutta la storia millenaria di Roma.

Il periodo di pace di Antonino Pio termina con Marco Aurelio che è costretto a fare il soldato. Lui interrompe la tradizione del principato elettivo e nomina suo successore il figlio Commodo, che era personaggio diverso dal padre. Commodo si giova del fatto che, terminate le guerre intraprese dal padre, non ci sono pericoli imminenti, ma pensa più ai propri interessi che alla cura dello Stato. Commodo viene ucciso e si scatenano di nuovo le guerre civili.

I Severi

Alla fine di una serie di personaggi, emerge Settimio Severo, un africano addirittura. Inizia una nuova dinastia che cerca di porsi il più possibile in continuità con il periodo precedente. Settimio Severo si proclama nipote di Marco Aurelio, pronipote di Antonino Pio, artifizio utile per far capire che lui rappresenta la continuità con le epoche precedenti. In realtà lui era un militare, un senatore che si era guadagnato il potere al termine di sanguinose guerre civili.
Al tempo di Settimio Severo però si acuisce la crisi economica dell'Impero, dovuta in primo luogo alla crisi economica dell'Italia e in secondo luogo all'aumento dei prezzi, alla fatica dello Stato a reperire nuove risorse, perché le continue guerre obbligavano ad aumentare le paghe dei soldati. Le risorse dello Stato vanno sempre di più all'esercito, così bisognava aumentare le tasse, i prezzi aumentano, le monete d'argento contengono sempre meno argento, la gente perde fiducia nei pagamenti in contanti ed inizia questo processo di graduale introduzione di un'economia basata sugli scambi in natura, tanto è vero che, mentre nel I e nel II secolo c'era un erario militare - quindi per l'esercito si pagavano delle tasse, l'esercito raccoglieva denaro contante - nel periodo più tardo dell'Impero l'esercito veniva sostenuto con le requisizioni in natura. Si requisivano mandrie, raccolti di grano, perché si sapeva che i soldi non valevano più nulla. Questo processo inizia a farsi sentirsi in tutta la sua gravità durante la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla e dopo un breve intermezzo con Macrino e poi alcuni parenti di Caracalla, Eliogabalo e Severo Alessandro. Siamo ormai nel 235, alla morte di Severo Alessandro.

Dopo i Severi

Alla metà del III secolo si aggiunge alla crisi economica anche una crisi politica e militare che vede lo scoppiare di guerre civili tra generali per la conquista del potere. Tutte queste guerre comportano spese enormi, aggravamento della crisi finanziaria e coincidono con un inasprimento delle guerre ai confini. Ad est ai Parti si sono sostituiti i persiani che sono ancora più pericolosi. Arrivano i Goti dalle steppe della Russia. Si verifica una vera e propria frammentazione dell'impero in tre segmenti. Alla metà del III secolo c'è l'oriente che sotto la regina Zenobia si mette per conto suo, la Gallia che si separa sotto il comando di Postumo, al povero Gallieno era rimasta solo la parte centrale dell'impero. Il padre di Gallieno, Valeriano, che aveva organizzato una spedizione contro i persiani era stato fatto addirittura prigioniero.
Lo stesso Gallieno cerca di porre le basi per una ripresa attraverso due provvedimenti: una riforma militare - la formazione di un corpo di cavalleria mobile, una forza mobile di intervento - ed un secondo intervento politico, che toglie ai senatori il comando delle legioni, gli incarichi militari, cercando così di combattere il fenomeno delle usurpazioni. Un senatore che può pagare delle truppe a lui fedeli può ambire ad usurpare il trono, mentre un cavaliere che ha minori disponibilità economiche è più facilmente fedele all'imperatore.
L'impero si riprende poi partendo da queste basi con l'opera di Aureliano e dei suoi successori fino all'organizzazione tetrarchica.
Aureliano è un grande soldato che si sposta dall'Oriente all'Occidente per ricompattare l'impero. L'opera di risanamento prosegue poi con il suo successore, Probo, che tra l'altro completa il progetto delle mura difensive di Roma (mura aureliane) e poi con Diocleziano.
Diocleziano decide di progettare una nuova soluzione per la grande crisi di autorità politica che c'era stata nel III secolo. L'impero è troppo grande per essere governato da uno solo, ci vogliono due imperatori, due Augusti, uno per l'Oriente e uno per l'Occidente. Ogni Augusto ha sotto di sé un Cesare, un sottoimperatore, un assistente dell'imperatore. Ognuno di questi quattro governa un quarto dell'impero. A Oriente c'è un Augusto che governa un quarto ed il suo Cesare che governa l'altro quarto; lo stesso succede per l'Occidente. Se muore un Augusto il suo Cesare diventa Augusto e nomina un altro Cesare. Questa sistemazione dovrebbe, nel progetto di Diocleziano, garantire continuità: abbiamo Diocleziano che governa in Oriente e Massimiano in Occidente. Diocleziano ha un suo Cesare, Galerio. Massimiano ha Costanzo Cloro che governa una parte dell'Occidente. Diocleziano e Massimiano abdicano, sicuri che questo sistema funzionerà alla perfezione, ma in realtà dopo un anno uno dei nuovi Augusti, Costanzo Cloro, muore subito e siccome il suo Cesare non era ben visto dai militari, allora subito spuntano altri personaggi, non a caso figli naturali dei tetrarchi che subito vengono a usurpare il trono. Massenzio è figlio di Massimiano, Costantino è figlio di Costanzo Cloro. Nessuno dei due avrebbe diritto alla successione, ma saranno proprio loro due a combattersi per avere il dominio. Massenzio regnava in Italia, Costantino in Britannia e Gallia. Costantino prevarrà nella battaglia di Ponte Milvio. Poi si impadronirà anche dell'Oriente e riunificherà l'Impero. Costantino, come avevo già accennato, pone termine alla riforma monetaria iniziata da Nerone. Si torna a privilegiare l'oro, le classi medie praticamente spariscono, si crea un abisso tra i ricchissimi possessori d'oro e i poverissimi che l'oro non se lo possono permettere. Inizia così la società medievale. Costantino divide alla sua morte l'impero tra i suoi figli: Costantino II, Costante e Costanzo II. A Costantino II l'Occidente, a Costante l'Italia e l'Africa, a Costanzo II l'Oriente. Costantino II cerca di prevaricare il fratello minore, Costante, invadendo l'Italia, ma rimane ucciso. Dopo pochi anni rimangono perciò in due. Costante subisce poi un'usurpazione e alla fine rimane solo Costanzo II padrone di tutto l'Impero, nel 361. Dopo di lui abbiamo due significativi anni di Giuliano l'Apostata e poi ci avviamo verso la parabola finale con Valentiniano I e soprattutto con Teodosio, l'ultimo momento in cui l'impero è unificato. In precedenza alcuni avvenimenti epocali: con Costantino l'editto che permette di praticare il cristianesimo e di conseguenza la realizzazione di numerose chiese in tutto l'Impero. Costantino fa costruire per Papa Silvestro la cattedrale di Roma su una sua proprietà, perché Roma è ancora in gran parte pagana e quindi non si azzarda a trasformare in chiesa una basilica del foro romano. Nasce così S.Giovanni. Poi Roma si cristianizzerà e le chiese verranno costruite nel centro monumentale della città. Secondo avvenimento epocale, la battaglia di Adrianopoli, 378, quando l'imperatore Valente muore. Da quel momento i goti, che erano entrati nei confini dell'Impero, non possono più essere cacciati. Questi visigoti rimangono dentro i confini dell'Impero e arriveranno a Roma nel 410, sotto il re Alarico. Terzo avvenimento epocale, l'editto di Teodosio che capovolge la situazione rispetto al cristianesimo: lo Stato diventa cristiano, il cristianesimo diventa religione di Stato. C'è un'ultima reazione dei pagani, da parte della più antica aristocrazia che si concretizza nell'usurpazione di un certo Eugenio, con una battaglia che Teodosio deve combattere contro di lui a Lubiana e con questa battaglia si conclude questo estremo tentativo di reazione pagana contro la svolta in senso cristiano dell'Impero. Teodosio si avvale della collaborazione di un personaggio, Ambrogio, in un certo senso tutore di Teodosio, in grado di costringere l'imperatore a chiedere perdono per la strage compiuta a Tessalonica. Inizia un rapporto un po' ricattatorio che caratterizzerà nel Medio Evo i rapporti tra papa e imperatore. Il potere viene da Dio, è amministrato in terra dal papa e, quindi, è il papa che lo concede all'imperatore.
Il V secolo è un periodo nel quale l'Impero romano, soprattutto in Occidente, ormai è un Impero formale, nel senso che le province vengono occupate da barbari che creano loro stati, in Gallia, in Africa. E questi regni riconoscono formalmente l'autorità dell'imperatore, ma in realtà sono indipendenti. Con Onorio e Arcadio si ufficializza la divisione tra Oriente ed Occidente, una divisione definitiva e molto netta, senza collaborazione tra i due imperatori e addirittura l'uso di eserciti barbarici per danneggiare l'altra parte.
Il 476 è una data del tutto formale, è una data casuale nell'ambito del processo che ormai vedeva una serie di stati pressoché indipendenti. I capi degli eserciti romani erano gli stessi barbari, gli eserciti romani erano le varie popolazioni barbare che di volta in volta si dichiaravano fedeli all'imperatore. Quando il re degli Eruli, Odoacre, non si riconosce più vassallo dell'Imperatore d'Oriente, e non vuole nominare un senatore romano come imperatore, a quel punto - è il 476 - si dichiara finito l'impero romano d'Occidente. In realtà questo avvenimento del 476 è un fatto indolore, perché la situazione ormai era assodata da 20-30 anni.

Per altri articoli e studi su Roma presenti su questo sito, vedi la pagina Roma (itinerari artistici, archeologici, di storia della chiesa e di pellegrinaggio) nella sezione Percorsi tematici

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:33 am | | Default

Federico II, imperatore cristiano, in un breve scritto di Franco Cardini (tpfs*)

Le frequenti visite alla cattedrale romanica di Civita Castellana – i campi dei bambini di S.Melania degli anni 2003 e 2004 si sono svolti a Pian Paradiso, a pochi chilometri da Civita Castellana, e numerose sono state le passeggiate per far loro conoscere questo tesoro dell'arte medioevale – nella quale Innocenzo IV si rifugiò nel 1244, meditando di fuggire a Lione, in Francia, per indire un Concilio che deponesse l'imperatore Federico II, ci hanno permesso di riandare sovente con il pensiero alla storia dell'imperatore della Casa di Svevia. Il I Concilio di Lione fu poi, di fatto, celebrato l'anno successivo, nel 1245.
Vogliamo per questo ripresentare una Postfazione scritta dal grande medioevalista italiano Franco Cardini per il volume di Bianca Tragni, Il mitico Federico II di Svevia, edito da Mario Adda Editore, Bari, 1994, nell'ottavo centenario della nascita di Federico II. Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione, se la messa a disposizione on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L'Areopago

Federico, imperatore romano e re di Germania, d'Italia, di Sicilia e di Gerusalemme, dorme da quasi sette secoli e mezzo nel sepolcro tagliato nella pietra imperiale – il porfido, dal colore della porpora cesarea – nella navata destra della cattedrale della sua Palermo. Attorno a lui, sembra non esserci pace: fin dal Duecento, ci si accapiglia sul senso da conferire alla sua esperienza di uomo di governo e di cultura. Se la leggenda gli attribuisce il ruolo di colui che vivit et non vivit e che tornerà dopo un lungo sonno a guidare il popolo cristiano nella suprema battaglia della Fine dei Tempi, cronisti medievali, eruditi rinascimentali e storici moderni hanno fatto a gara nel prestargli i volti più diversi e talvolta più inquietanti. Lo hanno chiamato “sultano battezzato” e addirittura Anticristo; hanno insinuato sia la sua paternità di un libello prelibertino dove s'inveisce contro i “tre impostori” (Mosè, Gesù, Muhammad); lo hanno chiamato mago ed astrologo; gli hanno attribuito le più mirabili e le più atroci curiosità, hanno detto che spedisse nuotatori esperti a indagare gli abissi marini (Cola Pesce e la sua storia), che facesse sventrare uomini vivi per studiare i meccanismi della digestione, che allevasse bambini in torri solitarie, lontane dal contatto umano, per scoprire quale lingua avrebbero parlato “secondo natura”; gli hanno rimproverato di aver le mani lorde del sangue di familiari e di amici.
Ma chi era davvero, Federico II? Il 1994, ottavo centenario della sua nascita (a Jesi, nel 1194), sta proseguendo il lavoro medievistico di recupero alla storia dell'immagine del grande sovrano tedesco - burgundo e normanno per sangue, greco e arabo – in parte ebraico – per educazione, italofrancese per gusti e cultura “volgare”. Ma insieme con la riappropriazione storica e la riconsegna alla verità del passato, riemergono vecchie e nuove incomprensioni, vecchi e nuovi abusi. Si ricorda troppo spesso come venisse sepolto avvolto in un manto arabo ricamato con versi del Corano, e si dimentica come – sotto quel ricco manto – egli portasse indosso la ruvida veste di oblato cistercense; si parla con troppa frequenza del carattere “moderno” del suo stato e della sua legislazione, e si tralascia il fatto che esso fu un'applicazione del diritto romano in relazione ai caratteri specifici del regno di Sicilia del tutto comprensibile alla luce del suo tempo e impossibile da interpretarsi come un anticipo del modo di vedere “laico” (necessario presupposto del quale è la secolarizzazione); si presentano i suoi interessi scientifici e la sua tolleranza nei confronti dell'Islam quasi fossero anticipazioni di un sentire modernamente teso al superamento del “medioevo cristiano”, e si dimentica che essi facevano parte di un modo profondamente ecumenico (nel senso originario del termine) di avvertire i rapporti fra uomo e cosmo e quelli fra le diverse civiltà nell'ambito d'una visione cristiana all'interno della quale la natura aveva un suo ruolo gerarchicamente ordinato ed era sottomessa per volontà divina all'uomo, mentre ai popoli ancora ignari del messaggio evangelico era destinato l'amore fondato sulla consapevolezza profetica della loro futura appartenenza all'unico gregge guidato dal solo Vero Pastore.
Lo “stato laico” di Federico II è frutto di un equivoco non innocente, di una maldestra ma anzitutto strumentale manipolazione della storia. Non c'è una riga, in tutta l'attività di statista e di legislatore di Federico, che contraddica al suo ruolo di sovrano cristiano: le frequenti e anche dure tensioni con il pontefice, se talora lo conducono a scontrarsi con i privilegi del clero, mai lo portano ad abbandonare l'ortodossia cattolica e a venire meno al suo senso del dovere di re cristiano. Filoeretico secondo una perfida propaganda guelfa, egli combatté duramente l'eresia nella quale ravvisava anche un fattore di sociale disordine; traditore dell'ideale crociato e filoislamico a detta delle calunnie dei suoi detrattori, egli portò invece correttamente a termine lo scopo vero della crociata (ch'era semplicemente il controllo dei Luoghi Santi, non certo la lotta contro l'Islam in quanto tale). Vi sono certo molte ombre, sul cammino storico dell'imperatore come statista e come essere umano. Svanite ormai nel nulla le polemiche – figlie del loro tempo, tra Risorgimento e nazionalismo – sul suo ruolo nei confronti dell'unità italiana, altre ne avanzano oggi, anch'esse figlie del nostro tempo e come tali anch'esse destinate a venir dimenticate. Fu davvero “moderna”, oppure ancor “medievale”, la sua concezione del potere? In che misura la sua pesante politica fiscale e il favore da lui accordato ai mercanti italosettentrionali nei confini del regno posero le basi dell'arretramento storico del Meridione? E che rapporto va istituito tra la triste ferocia dei suoi ultimi giorni terreni, la sua concezione della monarchia, il “dispotismo orientale” e la tirannide moderna?
Tuttavia Machiavelli e Hobbes, il giurisdizionalismo e la schmittiana “teologia politica”, insomma tutti i valori e le realtà giuridico-politiche moderne alla luce o sulla base dei quali l'imperatore è stato giudicato, sono destinati a vanificarsi dinanzi al perentorio peso della storia. Uomo universale, Federico lo fu solo nella misura in cui seppe interpretare perfettamente il suo tempo; nessuna attualizzazione è possibile per lui, se non quella sulla base della quale è stato detto che “tutta la storia è storia contemporanea”.
Resta però, limpida e netta, la sua testimonianza di monarca cristiano, che ha ben chiaro come dovere del sovrano sia il guidare il popolo al bene e alla felicità nella misura in cui l'uno e l'altra sono conseguibili in terra e di lasciare quae sunt Dei Deo. Ad esso, Federico è rimasto fedele anche nei monumenti di maggior tensione col papato; mentre il suo Liber Augustalis, splendido documento di saggezza legislativa, dimostra come suo scopo costante fosse l'equità e sua cura fondamentale il principio secondo il quale non esiste nessun retto potere che non sia anzitutto servizio. Questa è l'esemplarità della lezione del passato, che rispettare ed accogliere non è segno di spirito reazionario ma – al contrario – di coscienza di come sul passato si fondi il futuro, e non esista oggi senza memoria dello ieri.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:32 am | | Default

Il Piccolo Principe e la sua rosa. Appunti su Antoine de Saint-Exupéry, nel sessantesimo anniversario della sua morte (31 luglio 1944-2004) (tpfs*), di d. Andrea Lonardo

Antoine de saint-Exupéry è scomparso il 31 luglio 1944, durante quella che sarebbe stata comunque la sua ultima missione di guerra (nonostante la sua età avanzata aveva ottenuto di poter compiere cinque voli, prima di essere destinato definitivamente al servizio a terra ed il volo del 31 luglio era ormai il quinto di questi). Volava su di un ricognitore. La sua squadriglia aveva, in quei giorni, compiti di rilevazione dei movimenti delle truppe naziste in Francia.
Nella primavera del 2004 sono stati ritrovati, al largo di Marsiglia sui fondali marini, i resti del suo Lightning P 38. Aveva da poco pubblicato il Piccolo principe, scritto a New York ed apparso il 6 aprile 1943 (il 13 aprile 1943 Saint-Exupéry sarebbe partito in piroscafo per unirsi alle truppe alleate e riprendere a volare, nonostante avesse ormai 42 anni). Alla sua morte furono rinvenuti in una valigetta i manoscritti di quella che sarà l'ultima sua opera, Cittadella, che vide la luce postuma (il testo non era ancora completamente terminato). Raccontava la storia di un re che, prossimo alla morte, istruisce il figlio su cosa significhi regnare sugli uomini, costruendo con loro una cultura che possa “dare un senso” alla vita.
Con questo nostro testo vogliamo indicare alcuni brani di altre opere di Saint-Exupéry, spesso sconosciute ai suoi lettori, che si rivelano illuminanti per meglio comprendere alcuni dei simboli del Piccolo Principe [1] .

Indice:

  • La dedica a Léon Werth
  • Guillaumet e Saint-Exupéry caduti sulle Ande e nel deserto: dinanzi alla morte, la scoperta della responsabilità
  • La rosa ed i roseti
  • Tu muori se muoiono le tue divinità, poiché tu vivi di esse
  • Il cristianesimo di Saint-Exupéry

La dedica a Léon Werth

Il piccolo principe, pubblicato nel 1943, quindi in piena seconda guerra mondiale, è dedicato a Léon Werth, ebreo francese, carissimo amico dell'autore. Werth non era riuscito a fuggire dalla Francia, prima dell'invasione nazista e si era dovuto nascondere. Saint-Exupéry non aveva così alcun modo di avere notizie dell'amico.
Di lui, in maniera esplicita, doveva parlare la prima versione di Lettera ad un ostaggio . Nella versione definitiva, del giugno 1943, il riferimento è meno personale. Lo scritto è un invito a tutti i francesi a trovare la forza di liberare la Francia, con i suoi cittadini, tenuti in “ ostaggio ” dall'occupante tedesco.

Colui che questa notte ossessiona la mia memoria ha cinquant'anni. E' malato. Ed è ebreo. Come potrà sopravvivere al terrore tedesco? Per immaginare che respira ancora ho bisogno di crederlo ignorato dall'invasore, riparato in segreto dal bel baluardo di silenzio dei contadini del villaggio. Allora soltanto credo che viva ancora.

La situazione senza scampo è descritta, pur da lontano, con incredibile precisione.
Dinanzi ad essa emerge il tema della responsabilità così centrale nell'opera dello scrittore francese.

Se combatto ancora, combatterò un po' per te. Ho bisogno di te per credere meglio nell'avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere. Ti vedo così debole, così minacciato, che trascini i tuoi cinquant'anni sul marciapiede davanti a qualche povera salumeria, ore e ore, per sussistere un giorno di più tremando di freddo, nel precario riparo di un cappotto logoro. Tu così francese, ti sento due volte in pericolo di morte, perché francese e perché ebreo. Sento tutto il valore di una comunità che non autorizza più diverbi. Siamo tutti di Francia come di un albero, e io servirò la tua verità come tu avresti servito la mia.

Saint-Exupéry scrisse Pilota di guerra, come una difesa della Francia, descrivendo i voli senza speranza di una squadriglia - la sua - di aerei da ricognizione dinanzi all'avanzata nazista in terra francese. Il libro fu ritenuto da molti la sola propaganda capace di riscattare l'immagine del paese. In America, dove fu pubblicato nel febbraio 1942, venne letto come una testimonianza della resistenza che i francesi avevano cercato di opporre ai tedeschi. L'edizione francese uscì il 27 novembre 1942, con una riga censurata, quella in cui Saint-Exupéry dichiarava che erano “tutti degli idioti, l'attendente che aveva perso i suoi guanti come Hitler che aveva scatenato la guerra”. Il libro suscitò moltissimi plausi e moltissimo scalpore. Presentava, fra l'altro, volutamente, in maniera estremamente positiva, la figura di un aviatore francese ebreo così descritto:

Israel, quando lo scorsi dalla finestra, camminava rapidamente. Aveva il naso rosso. Un grande naso molto ebraico e molto rosso. Il naso rosso di Israel mi colpì in modo singolare.
Per Israel di cui consideravo il naso, avevo un'amicizia profonda. Era uno dei piloti più coraggiosi del Gruppo. Uno dei più coraggiosi e dei più
 modesti. Gli avevano talmente parlato della prudenza ebraica che lui il suo coraggio doveva scambiarlo per prudenza...
E sì, certo, m'è tornato in mente la sera, quando abbiamo smesso di aspettare il ritorno di Israel.

L'editore Gallimard ritirò il libro, pur senza una esplicita proibizione dell'occupante tedesco. Nel dicembre 1942 fu proibito dalle autorità di Vichy, insieme a tutte le altre opere di Saint-Exupéry .
Nel campo di prigionia in cui era internato Jean Israel riuscì a procurarsi una copia clandestina di Pilota di guerra. Fu orgoglioso di essere grande amico dello scrittore francese pronto, in quegli anni, a compromettersi per un aviatore di nome Israel. In realtà il solo nome era ebraico. Il naso di Jean Israel era del tutto normale. Saint-Exupéry citò il naso 14 volte, in due pagine, in modo chiaramente provocatorio, andando a stuzzicare l'immaginario somatico usato dalla propaganda antisemita.

Guillaumet e Saint-Exupéry caduti sulle Ande e nel deserto: dinanzi alla morte, la scoperta della responsabilità

Saint-Exupéry si trovò, nella sua storia di aviatore, più di una volta a faccia a faccia con la morte. Ma il racconto dell'aviatore caduto nel deserto nei primi capitoli del Piccolo Principe è la trascrizione letteraria autobiografica che trae origine dall'incidente che lo fece precipitare nel deserto libico il 29 dicembre 1935, durante il tentativo di battere il record di volo lungo la tratta Parigi-Saigon. Possiamo leggere il resoconto completo nel volume di Saint-Exupéry Terra degli uomini. In questo straordinario testo, leggiamo, prima il racconto di un altro pilota, amico dell'autore del Piccolo Principe, l'aviatore Guillaumet. I due episodi si illuminano a vicenda nel dischiudere la riflessione che sarà filo conduttore di tutte le opere dell'autore francese.
Guillaumet, pilota a quel tempo dell'Aeroposta Argentina, compagnia incaricata del servizio postale, cade, nell'inverno 1930, il 13 giugno (le stagioni sono invertite rispetto al nostro emisfero), sulle Ande, durante il tragitto da Santiago a Buenos Aires [2] . Per sei giorni gli unici due aerei a disposizione nel piccolo aeroporto di Mendoza si levano incessantemente alla sua ricerca. Uno di essi è pilotato da Saint-Exupèry. Quando le speranze sono ormai perse, improvvisa la notizia che Guillaumet è vivo. Saint-Exupéry si leva in volo e riconosce dall'alto la macchina che lo sta conducendo sano e salvo. Atterra sulla strada e lo conduce in volo a Mendoza. A sera Guillaumet racconta la sua avventura. Ecco le parole di Terra degli uomini che la riferiscono [3] :

Pugile vincente, ma segnato dai duri colpi ricevuti, rivivevi la tua strana avventura. Te ne sgravavi a brandelli. E nel corso del tuo racconto notturno, io ti scorgevo, in cammino, senza piccozza, senza corde, senza viveri, mentre scalavi valichi di quattromilacinquecento metri o avanzavi lungo pareti verticali, con piedi, ginocchia e mani sanguinanti, a quaranta gradi sotto zero.
Svuotato a poco a poco di sangue, di forze, di ragione, procedevi con una cocciutaggine da formica, tornando sui tuoi passi per aggirare l'ostacolo, rimettendoti in piedi dopo i capitomboli, o risalendo le discese che portavano solo a un abisso, senza concederti, insomma, alcun riposo, poiché dal letto di neve non ti saresti rialzato.
Quando scivolavi, infatti, dovevi affrettarti a rimetterti in piedi, per non essere tramutato in pietra. Il freddo ti pietrificava d'istante in istante, e un attimo di riposo in più assaporato dopo una caduta ti costringeva a far funzionare muscoli inerti, per rialzarti.
Resistevi alle tentazioni. “Nella neve”, mi dicesti, “si perde totalmente l'istinto di conservazione. Dopo due, tre, quattro giorni che si cammina, non si desidera più altro che il sonno. Lo desideravo. Ma mi dicevo: mia moglie, se mi crede vivo, mi crede in cammino; i compagni mi credono in cammino; hanno fiducia in me, tutti quanti; e se non cammino sono un mascalzone.”
E camminavi. E, con la punta del temperino, allargavi ogni giorno un po' più lo sdrucio delle scarpe affinché i tuoi piedi, che gelavano e si gonfiavano, ci potessero stare...
Una volta, però, steso bocconi nella neve dopo una caduta, rinunciasti a rialzarti. Eri come il pugile che, svuotato ad un tratto d'ogni passione, ode i secondi cadere in un mondo estraneo, ad uno ad uno, fino al decimo ch'è senza appello.
“Ho fatto ciò che potevo e non ho speranze, perché ostinarmi in questo martirio?”. Non avevi che da chiudere gli occhi e la pace sarebbe scesa sull'universo. Rocce, ghiacci e nevi si sarebbero cancellati. Appena chiuse quelle palpebre miracolose, niente più colpi, cadute, strappi muscolari, ustioni del gelo, né quel peso di dover trascinare la vita, quando si è costretti ad andare avanti come un bue ed essa diventa più pesante di un carro. Ne sentivi già il sapore, di quel freddo divenuto veleno e che, simile alla morfina, ti colmava ora di beatitudine...
I rimorsi sorsero dal sottofondo della coscienza. Certi particolari precisi si mescolarono improvvisamente al sogno. “Pensavo a mia moglie. La mia polizza di assicurazione le avrebbe risparmiato la miseria. Sì, ma le assicurazioni...”
In caso di scomparsa, c'è una mora di quattro anni per la morte legale. Questo particolare ti si presentò abbagliante, cancellando le altre immagini. Ora, tu eri steso bocconi su un ripido pendio di neve. Il tuo corpo, col sopraggiungere dell'estate, sarebbe rotolato assieme alla fanghiglia verso uno dei mille crepacci delle Ande. Lo sapevi. Ma sapevi pure che una roccia emergeva, davanti a te, a cinquanta metri: “Ho pensato: se mi rialzo, forse posso raggiungerla: e, se addosso il mio corpo contro la pietra, in estate lo ritroveranno”.
Una volta in piedi, camminasti per due notti e tre giorni...
“La salvezza sta nel fare un passo. Ancora uno. Il passo è sempre quello, ripetuto...”
“Ti giuro, non c'è bestia che sarebbe mai riuscita a fare quel che ho fatto”. Questa frase, la più nobile ch'io conosca, questa frase, che dà all'uomo il suo posto, che lo onora, che ristabilisce le vere gerarchie, mi tornava in mente...

Finivi coll'addormentarti in un sonno affannoso, nella camera di Mendoza in cui ti vegliavo. Ed io pensavo: Guillaumet farebbe un'alzata di spalle, a parlargli del suo coraggio; ma lo si tradirebbe anche celebrando la sua modestia. Egli sta molto più in là di questa virtù mediocre. Alza le spalle, ma per saggezza. Sa che gli uomini non hanno più paura delle cose, una volta che sono accadute e li hanno tirati in ballo. Solo l'ignoto spaventa gli uomini. Ma, per chiunque, cessa di essere ignoto, nell'attimo in cui egli l'affronta. Specialmente se lo considera con tale lucida serietà. Il coraggio di Guillaumet è conseguenza, in primo luogo, della sua rettitudine.
La sua virtù vera non è in questo. La sua grandezza è di sentirsi responsabile. Responsabile di se stesso, del corriere. E dei compagni che sperano, poiché la loro gioia o il loro dolore sono nelle sue mani. Si sente responsabile nei confronti di quanto si va edificando di nuovo laggiù, nel mondo dei vivi, avendo egli il dovere di prendervi parte; e, nei limiti del suo lavoro, si sente un poco responsabile del destino degli uomini.
Appartiene al novero di quegli esseri d'ampia levatura che consentono a coprire col loro fogliame ampi orizzonti. Essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d'una miserie che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d'una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo.
Si vuol confondere uomini simili con i toreri o i giocatori. Si loda il loro disprezzo della morte. Ma del disprezzo della morte non so che farmene. Se esso non ha radice in una responsabilità consapevolmente accettata, è indice unicamente di povertà o d'eccesso giovanile. Ho conosciuto un giovane suicida. Fu spinto, da non so più qual pena d'amore, a spararsi con cura una pallottola nel cuore. S'era infilato un paio di guanti bianchi, e non so a qual tentazione letteraria avesse ceduto; ma ricordo d'aver provato, di fronte a quella triste esibizione, un'impressione non di nobiltà ma di miseria. Dietro quel viso simpatico, sotto quel cranio d'uomo, non c'era stato dunque niente, proprio un ben niente. Tranne l'immagine di non so qual sciocchina simile ad altre.

Solo dell'uomo è la responsabilità. Nessun animale la conosce. Non per salvare se stesso, Guillaumet ha camminato, ma per la responsabilità che lo legava alle persone con le quali aveva intessuto le relazioni della sua vita. Il piccolo principe ricorderà le parole della volpe: “Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato” [4] .
Quando nel 1935, Saint-Exupéry cadrà nel deserto, insieme al navigatore Prévot, la memoria della salvezza di Guillaumet sarà il motivo che li porterà in salvo. Sia perché, seguendo un sentimento non razionale, porterà l'autore francese ad incamminarsi infine nella stessa direzione geografica che aveva portato alla salvezza l'amico Guillaumet, sia perché sarà incentivo alla tenacia nella decisione di camminare ancora, fino all'ultima possibilità, poiché si deve “salvare” chi li sta cercando..
Ecco di seguito il racconto [5] :

Che si sia vivi è inspiegabile. Tenendo in mano la torcia elettrica ripercorro la traccia lasciata sul suolo dall'aeroplano. Lungo tutto il suo percorso ha disseminato la sabbia di ferraglie contorte e pezzi di lamiera; ne troviamo fino a duecentocinquanta metri dal punto in cui si è fermato. Vedremo poi, quando farà giorno, che abbiamo investito quasi tangenzialmente un dolce pendio in cima a un tavoliere deserto. Nel punto dell'urto lo scavo del terreno sembra fatto da un vomere d'aratro. L'apparecchio, senza cappottare, è avanzato sul ventre con una furia e dei movimenti di coda da rettile. Ha strisciato a duecentosettanta chilometri all'ora. Dobbiamo la vita, senza dubbio, a queste pietre nere e rotonde che rotolano liberamente sulla sabbia e che hanno fatto da cuscinetto a sfere...
Valuto dunque la mia posizione entro un quadrato di quattrocento chilometri di lato.
Prévot viene a sedersi accanto a me, e mi dice: “Che cosa straordinaria, esser vivi...”
Non gli rispondo niente e non provo nessuna gioia. Mi si è presentato un certo pensierino, che va facendosi strada nel mio cervello e già mi rode leggermente. Chiedo a Prévot di accendere la sua lampada, per fare da punto di riferimento, e mi allontano, dritto davanti a me, con la torcia elettrica in mano. Guardo il suolo con attenzione. Avanzo lentamente, compio un ampio semicerchio, cambio più volte l'orientamento. Continuo a scrutare in terra come se cercassi un anello smarrito. Allo stesso modo, poco fa, cercavo la brace. Avanzo sempre, nell'oscurità, chino sul disco bianco che faccio scorrere qua e là. Proprio così...proprio così...Risalgo a passo lento verso l'aereo. Mi siedo accanto alla cabina e medito. Cercavo un motivo di speranza, e non l'ho trovato. Cercavo un cenno offerto dalla vita, e la vita non mi ha fatto cenno.
- Prévot, non ho veduto un solo filo d'erba...
Prévot rimane zitto, non so se mi ha capito. Ne riparleremo al levarsi del sipario, quando farà giorno. Io provo solo una grande spossatezza; penso: “Più o meno a quattrocento chilometri, in deserto...”. Improvvisamente salto in piedi:
-   L'acqua!
I serbatoi del carburante, i serbatoi dell'olio sono sfondati. Così pure le nostre riserve d'acqua. La sabbia ha bevuto tutto. Ritroviamo un mezzo litro di caffè in fondo a un termos in frantumi, un quarto di litro di vino bianco in fondo a un altro. Filtriamo questi liquidi e li mescoliamo insieme. Ritroviamo anche un po' d'uva, e un'arancia. Ma io calcolo: “In cinque ore di marcia, nel deserto, sotto il sole, tutto ciò è bell'e finito...”.
Ci sistemiamo nella cabina ad aspettare l'alba. Mi stendo, sto per addormentarmi. Nel prender sonno traccio il bilancio della nostra disavventura: non sappiamo un bel niente della nostra posizione. Non abbiamo neanche un litro di liquido. Se siamo all'incirca sulla linea retta, ci ritroveranno entro otto giorni, né possiamo sperare di meglio, e sarà troppo tardi. Se siamo andati in deriva lateralmente, ci ritroveranno tra sei mesi. Non è il caso di fare assegnamento sugli aerei: ci cercheranno su tremila chilometri.
-   Ah, che peccato!... – mi dice Prévot.
-   Perché?
-   C'era un'ottima possibilità di farla finita in un colpo solo!...
Ma non bisogna essere così solleciti nell'abdicare. Prévot ed io ci riprendiamo. Non bisogna sprecare l'eventualità di un miracoloso salvataggio dalle vie dell'aria, per quanto labile essa sia. Né bisogna restar fermi sul posto, mancando magari un'oasi vicina. Oggi cammineremo, tutto il giorno. E torneremo al nostro apparecchio. E prima di partire faremo un'iscrizione a grandi lettere maiuscole, sulla sabbia, col nostro programma.
Mi sono dunque raggomitolato, preparandomi a dormire fino all'alba, e sono felicissimo di addormentarmi. La stanchezza mi avvolge in una presenza molteplice. Non sono solo nel deserto, il mio dormiveglia è popolato di voci, di ricordi e di confidenze sussurrate. Non ho ancora sete, mi sento bene, mi affido al sonno quasi alla ventura. La realtà recede dinanzi al sogno... Ah, fu molto diverso, quando si fece giorno!
Io ho amato il Sahara. Ho trascorso nottate in terra ribelle. Al risveglio mi sono trovato nella distesa bionda in cui il vento ha impresso la sua onda lunga, come sul mare. Là ho atteso i soccorsi dormendo sotto la mia ala, ma era stata tutt'altra cosa.
Ora camminiamo sul versante di colline falcate. Il suolo è composto di una sabbia interamente ricoperta d'un solo strato di ciottoli brillanti e neri. Si direbbero scaglie di metallo, e tutte le cupole che abbiamo intorno brillano a guisa di armature. Siamo caduti in un mondo minerale. Siamo imprigionati in un paesaggio di ferro.
Valicato il primo crinale, più innanzi se ne annuncia un altro uguale, brillante e nero. Noi camminiamo raschiando con i piedi la terra per tracciarvi un filo conduttore che ci servirà a tornare sui nostri passi in seguito. Avanziamo col sole in faccia. Il fatto di aver deciso di dirigere dritto per est è contrario ad ogni logica, poiché tutto, previsioni meteorologiche, tempo di volo, mi spinge a credere di avere oltrepassato il Nilo. Ma, avendo abbozzato un tentativo verso ovest, ho sentito un disagio che non sono riuscito a spiegarmi. Perciò ho rinviato l'ovest a domani. E per il momento ho rinunciato al nord, benché conduca al mare. Anche tre giorni dopo, quando in un semidelirio decideremo di abbandonare l'apparecchio e camminare dritto innanzi a noi fino a cadere, ci avvieremo ad est. Più esattamente, ad est-nord-est. Ed anche questo sarà in contrasto con ogni ragionevolezza, con ogni speranza. Ma, tratti in salvo, scopriremo che nessun'altra direzione ci avrebbe riportato tra i vivi, poiché verso nord, troppo sfiniti, non avremmo comunque raggiunto il mare. Per quanto assurdo ciò possa apparire, oggi mi sembra che, in assenza di una qualsiasi indicazione che potesse influire sulla nostra scelta, io ho scelto tale direzione per l'unico motivo ch'era quella che aveva salvato il mio amico Guillaumet nelle Ande, dove l'avevo tanto cercato. Oscuramente, era divenuta per me la direzione della vita.
Dopo cinque ore di marcia, il paesaggio cambia. Un fiume di sabbia sembra scorrere in una valle e noi prendiamo lungo quel fondo di valle. Camminiamo a grandi passi, occorre arrivare più lontano che si può e ritornare prima di notte, se non si è scoperto nulla...

Ci siamo coricati accanto all'aeroplano. Abbiamo percorso più di sessanta chilometri. Abbiamo esaurito i nostri liquidi. Ad est non abbiamo avvistato niente e nessun compagno ha sorvolato questa zona. Quanto tempo resisteremo? Abbiamo già tanta sete...
Abbiamo costruito un grande rogo servendoci di qualche rottame dell'ala frantumata. Abbiamo preparato la benzina e le lastre di magnesio che producono un crudo splendore bianco. Abbiamo atteso che la notte fosse completamente nera prima di appiccare il nostro incendio...Ma dove sono, gli uomini?
Ora la fiamma sale. Religiosamente, guardiamo ardere il nostro fanale nel deserto. Guardiamo risplendere nella notte il nostro messaggio splendente e silenzioso. Ed io penso che se esso porta con sé un appello già patetico, porta anche con sé molto amore. Chiediamo da bere, ma chiediamo anche di comunicare. Si accenda un altro fuoco nella notte, poiché solo gli uomini hanno a disposizione il fuoco; ci rispondano!
Rivedo gli occhi di mia moglie. Non potrò vedere nulla che sia più di quegli occhi. Interrogano. Rivedo gli occhi di tutti coloro che, forse, hanno affetto per me. E quegli occhi interrogano. Tutta un'adunata di sguardi mi rimprovera il mio silenzio. Io rispondo! Io rispondo! Io rispondo con tutte le mie forze, non posso lanciare, nella notte, una fiamma più splendente!
Ho fatto quel che ho potuto. Abbiamo fatto quel che abbiamo potuto: quasi sessanta chilometri senza bere. Adesso non berremo più. E' colpa nostra se non possiamo aspettare molto a lungo? Come saremmo rimasti qui, da bravi, a poppare le nostre fiasche! Ma nell'attimo stesso in cui ho aspirato il fondo del bicchiere di stagno, un orologio si è messo in movimento. Nell'attimo stesso in cui ho succhiato l'ultima goccia, ho cominciato a discendere una china. Che ci posso fare se il tempo mi porta via con sé come un fiume? Prévot piange. Gli batto sulla spalla. Gli dico, per consolarlo:
-   Se si è fregati, si è fregati...
Mi risponde:
-   Se lei crede che io pianga per me...
E ho già scoperto, s'intende, questo assioma. Nulla è intollerabile. Imparerò domani, e dopodomani, che nulla, in definitiva, è intollerabile. Credo solo in parte alla tortura. E' una riflessione che mi si è già presentata. Un giorno credetti di annegare, imprigionato in una cabina, e non ho sofferto molto. Ho creduto talvolta di spaccarmi la faccia, e non mi è sembrato che fosse un avvenimento considerevole. Anche qui, non conoscerò affatto l'angoscia. Domani imparerò, in proposito, cose ancora più strane. E lo sa Iddio se, nonostante quel gran fuoco che ho acceso, ho rinunciato a farmi udire dagli uomini!...
“Se crede che io pianga per me...” Sì, sì, questo è intollerabile. Ogni volta che rivedo quegli occhi in attesa mi sento bruciare. Mi assale la voglia improvvisa di alzarmi e mettermi a correre, dritto dinanzi a me. Laggiù qualcuno grida aiuto, sta naufragando!
Questo capovolgimento delle parti è strano, ma ho sempre pensato che le cose stessero così. Tuttavia doveva esserci Prévot per rendermene completamente sicuro. Ebbene, anche Prévot non conoscerà affatto quell'angoscia di fronte alla morte, di cui tutti ci rintronano le orecchie; però esiste una cosa ch'egli non sopporta, ed io neppure.
Ah, accetto senz'altro di addormentarmi, di addormentarmi per una notte o per secoli. Se mi addormento non conosco la differenza. E poi, che pace! Ma quelle grida che verranno lanciate, laggiù, quelle grandi esplosioni di disperazione... non ne sopporto l'immagine. Non posso incrociare le braccia di fronte a quei naufraghi! Ogni minuto secondo di silenzio uccide un poco coloro ch'io amo. Ed una gran rabbia si fa strada in me: perché queste catene che m'impediscono di arrivare in tempo a soccorrere quelli che vanno a fondo? Perché il nostro incendio non porta il nostro grido in capo al mondo? Aspettate!... Arriviamo!... Arriviamo!... Siamo i salvatori!... [6]

Allora sbrighiamoci. Fa giorno. In cammino! Fuggiremo da questo pianoro maledetto e cammineremo a grandi passi in linea retta fino a cadere. Seguo l'esempio di Guillaumet nelle Ande: da ieri penso moltissimo a lui. Infrango la consegna categorica di rimanere accanto al relitto. Non verranno più a cercarci qui. Ancora una volta scopriamo che non siamo noi i naufraghi, bensì quelli che aspettano. Coloro che sono minacciati, dal nostro silenzio, già straziati da un atroce terrore. Non si può non correre verso di loro. Anche Guillaumet, tornando dalle Ande, mi ha raccontato che correva verso i naufraghi! Si tratta di una verità universale. – Se fossi solo al mondo, - mi dice Prévot, - mi coricherei.
E camminiamo in linea retta verso est-nord-est. Se siamo già al di là del Nilo, ad ogni passo penetriamo più profondamente nello spessore del deserto d'Arabia...

O voi che ho amato, addio. Non è affatto colpa mia se il corpo umano non può resistere tre giorni senza bere. Non credevo di essere così prigioniero delle fonti. Non sospettavo un'autonomia così corta. Si crede che l'uomo possa marciare dritto innanzi a sé. Si crede che l'uomo sia libero... Non si vede la corda che lo lega al pozzo, che lo lega come un cordone ombelicale al ventre della terra. Se egli fa un passo di più, muore...

E quando, allo stremo delle forze, dopo aver camminato forse per 200 chilometri, incontrano una carovana di beduini che li salva:

All'arabo è bastato guardarci. Ha premuto, con le mani, sulle nostre spalle e gli abbiamo obbedito. Ci siamo sdraiati. Qui non esistono più né razze, né lingue, né divisioni... C'è questo nomade povero che ha posato sulle nostre spalle delle mani da arcangelo. Abbiamo atteso, con la fronte nella sabbia. E adesso beviamo, bocconi, con la testa nel catino, come vitelli. Il beduino se ne preoccupa e ci costringe continuamente a interromperci. Ma appena ci molla torniamo a tuffare l'intero viso nell'acqua. L'acqua! Non hai sapore, acqua, né colore, né aroma, non ti si può definire, ti si assapora senza conoscerti. Non sei necessaria alla vita: sei la vita stessa. Ci impregni di un piacere che non si spiega solo con i sensi. Con te, rientrano in noi tutte le facoltà alle quali avevamo già rinunciato. Grazie a te si riaprono in noi tutte le fonti inaridite del nostro cuore.
Sei la massima ricchezza che esista al mondo, e sei anche la più delicata, tu così pura nel ventre della terra. Si può morire su una sorgente d'acqua magnesiaca. Si può morire a due passi da un lago d'acqua salata. Si può morire nonostante due litri di rugiada in cui siano, in sospensione, alcuni sali. Tu non accetti la mescolanza, non tolleri l'alterazione, sei una divinità ombrosa... Ma diffondi in noi una felicità infinitamente semplice. Quanto a te che ci salvi, beduino di Libia, ti cancellerai tuttavia per sempre dalla mia memoria. Non ricorderò mai il tuo volto. Sei l'Uomo, e mi appari col volto di tutti gli uomini insieme. Non ci hai nemmeno guardati in faccia e ci hai già riconosciuti. Sei il fratello beneamato. E, a mia volta, ti riconoscerò in tutti gli uomini. Mi appari illuminato di nobiltà e di benevolenza, gran signore che hai il potere di dare da bere. In te, tutti i miei amici e i miei nemici camminano verso di me, e non ho più un solo nemico al mondo.

La rosa ed i roseti

L'immagine della rosa non appare la prima volta con Il piccolo principe, ma accompagna l'intera opera di Saint-Exupèry. La troviamo già in Terra degli uomini, ma soprattutto l'ultimo brano di Cittadella, quasi a conchiudere tutta l'opera di Saint-Exupéry, la riprende in un testo che vive di una commozione straordinaria. Il re della Cittadella riassume tutto il suo insegnamento nella tenerezza di due giardinieri che si sono amati nell'essere ognuno fedele al proprio compito, all'amore per la bellezza dei roseti che erano stati loro affidati [7] :

Ho conosciuto un vecchio giardiniere che mi parlava del suo amico. Erano entrambi vissuti a lungo come fratelli prima che la vita li separasse, bevendo il tè serale insieme, celebrando le medesime feste, e cercandosi l'un l'altro per chiedersi qualche consiglio o per farsi delle confidenze. Evidentemente avevano ben poco da dirsi e tuttavia, terminato il lavoro, li si vedeva passeggiare insieme ed osservare in silenzio i fiori, i giardini, il cielo e gli alberi. Ma se uno di essi scuoteva il capo tastando col dito qualche pianta, l'altro si chinava a sua volta e scoprendo le tracce dei bruchi, scuoteva il capo anche lui. E i fiori sbocciati procuravano a entrambi la stessa gioia. Ora avvenne che un mercante, avendo assunto uno di essi, lo aggregò per qualche settimana alla propria carovana. Ma i predoni di carovane, poi le vicende della vita, e le guerre tra gli imperi, e le tempeste, e i naufragi, e le disavventure, e i lutti, e i mestieri per vivere sballottarono costui per molti anni come una botte sul mare, respingendolo di giardino in giardino fino ai confini del mondo.
Or ecco che un giorno il mio giardiniere, dopo una vecchiaia di silenzio, ricevette una lettera dal suo amico. Dio solo sa quanti anni avesse navigato. Dio solo sa quali diligenze, quali cavalieri, quali navi, quali carovane l'avessero di volta in volta istradata fino al suo giardino. E quella mattina, siccome era raggiante di felicità e la voleva condividere con qualcuno, mi pregò di leggere, così come si prega di leggere una poesia, la lettera che aveva ricevuto. E spiava sul mio viso l'emozione che mi procurava la lettura. Evidentemente non si trattava che di qualche parola poiché i due giardinieri erano più abili nel maneggiar la vanga che la penna. Lessi semplicemente: “Questa mattina ho potato i miei roseti...”. Poi meditando sull'essenziale, che mi pareva informulabile, scossi il capo come avrebbero fatto loro.
Ecco dunque che il mio giardiniere non ebbe più pace. L'avresti potuto sentire che s'informava sulla geografia, la navigazione, i corrieri, le carovane e le guerre tra gli imperi. E tre anni più tardi dovetti per caso spedire un messaggero dall'altra parte della terra. Feci perciò chiamare il giardiniere: “Puoi scrivere al tuo amico”, gli dissi. I miei alberi ne soffersero un poco e così pure gli ortaggi nell'orto, e i bruchi regnarono indisturbati, poiché egli passava le giornate tappato in casa a scarabocchiare, a cancellare, a ricominciare il lavoro da capo, sudando come uno scolaretto sul suo compito, perché sentiva qualcosa d'urgente da dire e doveva trasportare tutto se stesso, con la propria verità, dal suo amico. Doveva costruire la propria passerella sull'abisso raggiungere l'altra parte di sé attraverso lo spazio e il tempo. Doveva dire il suo amore. Arrossendo, venne a sottopormi la sua risposta per spiare anche questa volta sul mio volto il riflesso della gioia che avrebbe illuminato il volto del destinatario e per provare così su me il potere delle sue confidenze. E (poiché effettivamente non v'era nulla di più importante da far sapere, giacché per lui si trattava di un bene col quale barattare se stesso, alla maniera delle vecchie che si consumano gli occhi sui ricami per infiorare il loro dio) io lessi che confidava all'amico, con la sua scrittura forzata e maldestra, come una preghiera fervente ma espressa con parole semplici: “Anch'io questa mattina ho potato i miei roseti...”. E letto questo tacqui, meditando sull'essenziale che cominciava ad apparirmi più chiaro, perché essi senza saperlo ti celebravano, o Signore, unendosi in te al di sopra dei roseti.  

La tesi di Saint-Exupéry, monito radicato nella sua comprensione della vita, è che la relazione abbia sempre una triplice polarità. Mai l'amore consiste semplicemente nello scegliersi l'un l'altro. Esso piuttosto vive di una fecondità condivisa, di un dono che supera l'incontro di due vite. Troviamo in Terra degli uomini questa affermazione semplice ed incisiva che lo testimonia [8] :

Legati ai nostri fratelli da un fine comune e situato fuori di noi, solo allora respiriamo, e l'esperienza ci mostra che amare non significa affatto guardarci l'un l'altro ma guardare insieme nella stessa direzione. Non si è compagni che essendo uniti nella stessa cordata, verso la stessa vetta in cui ci si ritrova...

Tu muori se muoiono le tue divinità, poiché tu vivi di esse

Questo è il luogo, nel pensiero di Saint-Exupéry, per la domanda di senso del vivere, per la ricerca che non esitiamo a definire religiosa. Il re di Cittadella sa che il suo compito non è tanto sfamare un popolo, dare sicurezza o sviluppo economico. Egli è posto a reggere la tensione verso il motivo del vivere che abbracci tutti i suoi sudditi e tutti i momenti del loro vivere.
L'uomo non può trattenere la sua vita. La può solo donare. Ma, perché ciò sia possibile, è necessario un motivo per il quale valga la pena dare la propria vita.

“Signore, un tempo abitavo in un villaggio costruito sul dorso rassicurante di una collina, abbarbicato al terreno e al suo cielo, un villaggio fondato per durare a lungo, ed infatti durava. Un'usura meravigliosa brillava sull'orlo dei nostri pozzi, sulla pietra delle nostre soglie, sulla curva spalletta delle nostre fontane. Ma ecco che una notte qualche cosa si svegliò negli strati sotterranei. Capimmo che sotto i nostri piedi la terra ricominciava a vivere e a impastarsi. Ciò che era fatto ridiventava lavoro. E noi avevamo paura. Avevamo paura non tanto per noi stessi quanto piuttosto per l'oggetto dei nostri sforzi, per quelle cose con le quali ci scambiavamo nel corso della vita. Io ero cesellatore ed avevo paura per la grande brocca d'argento, alla quale lavoravo già da due anni. Per essa avevo dato in cambio due anni di veglie. Un altro tremava per i suoi tappeti di lana pregiata che aveva tessuto nella gioia. Ogni giorno li sciorinava al sole. Era fiero di aver barattato un po' della sua carne raggrinzita con quell'onda che pareva profonda. Un altro remava per gli olivi che aveva piantato. Posso dire che nessuno di noi temeva la morte, però tutti tremavano per dei miseri oggetti senza importanza. Scoprivamo che la vita non ha senso se non la si offre in cambio di qualcosa a poco a poco. La morte del giardiniere non lede un albero, ma se tu minacci l'albero allora il giardiniere muore due volte. Fra noi c'era anche un vecchio cantastorie che conosceva i più bei racconti del deserto. Egli li aveva abbelliti ed era il solo a conoscerli poiché non aveva alcun figlio. E mentre la terra cominciava a scivolare egli tremava per delle povere storie che mai più nessuno avrebbe raccontate... “Dove ci conduci? Questa nave affonderà col frutto dei nostri sforzi. Io sento che fuori il tempo scorre invano. Sento il tempo che scorre. Non dovrebbe scorrere in modo così sensibile, ma consolidare, far maturare e invecchiare. Dovrebbe raccogliere a poco a poco il lavoro. Ma che cosa rimarrà ormai di tutto quello che abbiamo fatto?” [9]

L'uomo “scambia” la sua esistenza, la dona a servizio non di sé, ma di ciò che lo supera. Se non esistesse niente di più importante dell'uomo a niente varrebbe il suo dono ed il suo esistere:

Tu muori se muoiono le tue divinità, poiché tu vivi di esse. E tu puoi vivere solo di quello per il quale puoi morire [10] .

Questa responsabilità che si fa dono, richiede la permanenza di un sistema di valori, di un mondo di simboli e di contenuti che debbono essere sì continuamente fecondi di nuova creazione, ma non possono mai essere semplicemente dimenticati ed accantonati:

E me ne andai tra il mio popolo pensando che lo scambio non è più possibile quando nulla di stabile dura attraverso le generazioni, e che il tempo allora fluisce inutilmente come una clessidra. Pensavo: “Questa dimora non è abbastanza vasta e l'opera in cambio della quale il mio popolo offre se stesso non è ancora abbastanza duratura”. Pensavo ai faraoni che si fecero costruire grandi mausolei indistruttibili e angolosi, i quali avanzano nell'oceano del tempo che li riduce lentamente in polvere. Pensavo alle grandi distese di sabbie vergini delle carovane da cui talvolta emerge un tempio antichissimo semisommerso e come disalberato dall'invisibile tempesta azzurra, ancora semigalleggiante, ma ormai condannato. Pensavo: non è abbastanza duraturo questo tempio pieno di dorature, di oggetti preziosi che sono costati lunghe vite umane, con quel miele custodito da tante generazioni, con quelle filigrane dorate, quegli ornamenti sacerdotali, per i quali vecchi artigiani avevano, giorno per giorno, dato la loro vita; e quelle tovaglie ricamate su cui vecchie donne durante tutta la loro esistenza si sono lentamente consumate la vista, e, ormai rattrappite, tossicchianti, scosse già dalla morte, hanno lasciato dietro di sé questo strascico regale, questa distesa di prateria. E quelli che oggi lo vedono esclamano: “Com'è bello questo ricamo! Oh! com'è bello...”. Io scopro che quelle vecchie hanno filato la seta nella loro metamorfosi, senza sapere di essere così meravigliose. Ma occorre costruire la grande cassa per accogliere tutto quello che di essi rimarrà, e il veicolo per trasportarla. Perché io rispetto innanzi tutto quello che dura più degli uomini, e salvo così il significato dei loro scambi. Fondo il grande tabernacolo al quale gli uomini affideranno tutto se stessi.
In tal modo posso ancora ritrovarle, quelle lente navi nel deserto mentre proseguono il loro viaggio. Ho imparato qualcosa di essenziale: e cioè, prima si deve costruire la nave, equipaggiare la carovana ed erigere il tempio che duri più dell'uomo. Solo allora gli uomini offriranno con gioia la loro vita in cambio di un bene più prezioso. E nasceranno i pittori, gli scultori, gli incisori e i cesellatori. Ma non sperare nulla dall'uomo se lavora per la propria vita e non per la propria eternità Perché allora sarebbe proprio inutile che io insegni loro l'architettura e le sue regole. Se essi si costruiscono delle case per viverci dentro a che serva dare la propria vita in cambio della casa, dal momento che quella casa dove servire la loro vita e nient'altro?. Gli uomini ritengono inutile la loro casa e la considerano non per quello che essa è, ma soltanto per la sua comodità. La casa è al loro servizio ed essi pensano ad arricchirsi. Ma muoiono spiantati perché non lasciano dietro di sé né la tovaglia ricamata né l'ornamento sacerdotale al riparo dentro una nave di pietra. Sollecitati a dare se stessi in cambio di qualcosa hanno voluto essere serviti. E quando se ne vanno non rimane più nulla [11] .

Perciò io odio l'ironia che non è degna dell'uomo, ma dell'ignorante. Infatti l'ignorante dice loro: “In altri luoghi le usanze sono diverse dalle vostre. Perché non cambiarle?”. Così come se avesse detto: “Chi vi obbliga a mettere le messi nel granaio e gli armenti nelle stalle?”. Ma è lui la vittima delle parole, poiché ignora quello che le parole non possono esprimere. Ignora che gli uomini abitano una casa. E le sue vittime che non sanno più riconoscerla cominciano a demolirla. Gli uomini dilapidano in tal modo il loro bene più prezioso: il senso delle cose. E si vantano, nei giorni di festa, di non cedere alle usanze, di non rispettare le loro tradizioni, di festeggiare il loro nemico. E mentre compiono i loro sacrilegi, provano certamente qualche movimento interiore. Ma fin tanto che si tratta di un sacrilegio, fin tanto che insorgono contro qualche cosa che grava ancora su loro. E vivono di questo, che il loro nemico respira ancora. Ma l'ombra delle leggi li infastidisce ancora abbastanza perché si sentano contro di esse. Ma ben presto anche l'ombra svanirà. Allora non proveranno più nulla, poiché anche il sapore della vittoria verrà dimenticato. E sbadiglieranno [12] .

C'è un legame divino che lega il tempo all'eternità. Esso è trasmesso dalla tradizione che rende un cumulo di pietre un palazzo od un luogo di culto, di preghiera e di mistero:

Dimora degli uomini, chi potrebbe fondarti sul ragionamento? Chi sarebbe in grado di costruirti secondo la logica? Tu esisti e non esisti. Sei e non sei. Sei fatta di materiali disparati, ma bisogna inventarti per scoprirti. Così come quel tale che ha distrutto la sua casa con la pretesa di conoscerla, non possiede altro che un cumulo di pietre, di mattoni e di tegole, non ritrova né l'ombra né il silenzio né l'intimità a cui essi servivano, e non sa quale giovamento possa trarre da questo cumulo di mattoni, di pietre e di tegole, poiché manca loro l'idea geniale che li domini, l'anima e il cuore dell'architetto. Perché alla pietra manca l'anima e il cuore dell'uomo [13] .

“L'essenziale è invisibile agli occhi”, “Non si vede bene che con il cuore” ripeterà il piccolo principe, cercando di fare tesoro delle parole della volpe. La “serietà” del dono, che richiede chi/Chi lo accolga e lo riceva non lascia alcuno spazio al narcisismo, che cerca, invece, di esaltare la persona senza che essa arrivi a donarsi:

Mi vennero in mente alcune considerazioni sulla vanità, poiché essa non mi è mai sembrata un vizio ma una malattia. Quella donna sensibile all'opinione della folla, quella donna che ho visto dimenarsi e scalmanarsi poiché tutti l'ammiravano, traendo un godimento straordinario dalle parole pronunciate al suo indirizzo, quella donna il cui volto s'infiammava quando tutti la guardavano, non mi sembrava soltanto stupida: mi sembrava malata. Perché come si può trarre le proprie gioie dagli altri se non attraverso l'amore e il dono di sé? Eppure la gioia che costei traeva dalla sua vanità le sembrava più intensa di quella che procurano i beni materiali, poiché per questo piacere avrebbe dato tutto a scapito di altri piaceri.
Che cos'è che commuove uno e che cos'è che commuove l'altro? E in che cosa differiscono?
Voi non potrete conoscere il movimento del fiore che sparge al vento tutti i suoi semi che non gli saranno più restituiti.
Non potrete conoscere il movimento dell'albero che offre i suoi frutti che non gli saranno più restituiti.
Non potrete conoscere l'esultanza dell'uomo che consegna la sua opera che non gli sarà più restituita.
Non potrete conoscere il fervore della danzatrice che esegue una danza che non le sarà più restituita.
La stessa cosa avviene del guerriero che offre la propria vita. Se io mi congratulo con lui è perché ha costruito la sua passerella. Gli comunico che egli ha rinunciato a se stesso in favore di tutti gli uomini. Ed eccolo contento non di sé ma degli uomini.
Ma il vanitoso è una caricatura. Io non ti chiedo di essere modesto poiché mi piace l'orgoglio che è resistenza e stabilità. Se sei modesto cedi al vento come la banderuola, poiché il nemico è più forte di te. Io ti chiedo di vivere non di quello che ricevi ma di quello che dai, poiché solo questo ti accresce. Ciò non ti autorizza a disprezzare quello che dai. Tu devi formare il tuo frutto. Ed è l'orgoglio che lo rende permanente. Altrimenti potresti mutare, a seconda di come il vento spira, di colore, di sapore e di odore!
Ma che cos'è un frutto per te? Il tuo frutto ha valore soltanto se non può esserti restituito [14] .
 
E' così importante il dono che, per esso, bisogna imparare a scegliere e, quindi, anche a rinunciare ad altre possibilità. Chi vuole tenere aperta ogni possibilità, non arriverà mai veramente a far dono di sé:

Così alla sera io cammino a passi lenti tra il mio popolo e tacitamente lo circondo del mio amore. Sono soltanto inquieto per coloro che ardono di una vana luce, per il poeta pieno d'amore per la poesia ma che non scrive il suo poema, per la donna innamorata dell'amore ma che, non sapendo scegliere, non può divenire; tutti pieni di angoscia, poiché sanno che io li potrei guarire di questa angoscia se permettessi loro di fare quell'offerta che esige sacrificio, scelta e dimenticanza dell'universo. Perché il tal fiore esclude innanzi tutto ogni altro fiore. E tuttavia solo a questa condizione esso è bello. Così avviene per l'oggetto dello scambio. E lo stolto che va a rimproverare a quella vecchia il suo ricamo col pretesto che avrebbe potuto tessere qualcos'altro, preferisce dunque il nulla alla creazione. Così cammino e sento salire la preghiera nell'odore dell'accampamento nel quale tutto matura e si forma in silenzio, lentamente, senza quasi che ci si pensi. Il frutto, il ricamo o il fiore, per divenire, è nel tempo che sono immersi.
Durante le mie lunghe passeggiate ho capito che il valore della civiltà del mio impero non riposa sulla qualità dei cibi ma sulla qualità delle esigenze e sul fervore del lavoro. Questo valore non è dato dal possesso, ma dal dono di sé. E' civilizzato innanzi tutto quell'artigiano che si ricrea nell'oggetto; in compenso egli diviene eterno, in quanto non teme più di morire. Ma quest'altro che si circonda di oggetti di lusso comperati dai mercanti, non ne trae alcun vantaggio se non ha creato nulla, anche se nutre il suo sguardo di cose perfette. Conosco quelle razze imbastardite che non scrivono più i loro poemi ma li leggono, che non coltivano più la loro terra ma si fondano anzitutto sugli schiavi. Contro di loro le sabbie del Sud preparano incessantemente nella loro miseria creatrice le tribù vive che saliranno alla conquista delle loro provviste morte. Non amo chi è sedentario nel cuore. Quelli che non offrono nulla non divengono nulla. La vita non servirà a maturarli, e il tempo per loro fluisce come una manciata di sabbia disperdendoli. Che cosa offrirò a Dio in loro nome?

Nemmeno la paura di sbagliare, di fallire, deve essere un ostacolo. E', infatti, un popolo intero che cammina verso il suo Dio. E, in questo cammino comune, sono necessari tanto gli errori, quanto i successi. Gli uni e gli altri si illuminano a vicenda di senso:

Mio padre rispose loro: “Creare, forse significa sbagliare quel passo nella danza. Significa dare di traverso quel colpo di scalpello nella pietra. Poco importa il fine di un'azione. Questo sforzo ti sembra sterile perché sei cieco e guardi troppo da vicino. Ma allontanati un po'; osserva da maggior distanza il movimento di quel quartiere di città. Non vedrai più che un grande fervore e la polvere dorata del lavoro. I colpi falliti non li noti più. Perché quel popolo curvo sul lavoro, voglia o non voglia, edifica i suoi palazzi o le sue cisterne o i suoi ampi giardini pensili. Le sue opere nascono necessariamente, come d'incanto, dalle sue dita. Ed io ti dico: quelle opere nascono sia da coloro che falliscono i loro colpi che da coloro che li azzeccano, perché non puoi separare gli uomini. Se tu salvi solo i grandi scultori sarai privo di grandi scultori. Chi sarebbe così pazzo da scegliere un mestiere che offre così poche possibilità di vivere? Il grande scultore nasce dal terriccio composto di cattivi scultori. Essi gli servono da scala e lo innalzano. La bella danza nasce dalla passione per la danza. E questa passione per la danza richiede che tutti danzino – anche quelli che danzano male – altrimenti non c'è passione, ma solo accademia pietrificata e spettacolo senza significato” [15] .

Veramente il delirio del possesso ed il dono appaiono come le due logiche antitetiche fra le quali l'uomo è chiamato a scegliere. Gli abitanti dei sei pianeti (cioè i terrestri che abitano il settimo pianeta del Piccolo principe, la Terra) vivono il dramma dell'insignificanza, proprio perché non accedono al dono. Solo il “lampionaio” non appare ridicolo al Piccolo principe. “Forse perché si occupa di altro che di se stesso”. Ma il suo mondo è troppo piccolo. “Decisamente i grandi sono ben bizzarri” ripete il Piccolo principe, dinanzi ad ogni vita che non divenga dono. Il re di Cittadella così spiega:

Non confondere l'amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l'amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l'istinto della proprietà, che è il contrario dell'amore. Perché se amo Dio me ne vado a piedi sulla strada zoppicando per portarlo agli altri uomini. Non riduco il mio Dio in schiavitù. Io mi nutro di tutto ciò che egli concede agli altri. In tal modo so riconoscere chi ama veramente dal fatto che egli non può essere danneggiato...
Il vostro amore è basato sull'odio poiché fate della donna o dell'uomo i vostri schiavi considerandoli dei beni di cui solo voi dovete godere e cominciate a odiare, come i cani quando girano attorno al truogolo, chiunque adocchia il vostro pasto. Voi chiamate amore questo pasto da egoista. Appena l'amore vi è concesso, di questo dono spontaneo, come nelle false amicizie, fate una servitù e una schiavitù, e dal momento in cui siete amati cominciate a scoprirvi danneggiati e a infliggere agli altri, per meglio asservirli, il triste spettacolo della vostra sofferenza. Voi soffrite veramente ed è proprio questa sofferenza che mi disgusta. Per quale motivo secondo voi dovrei ammirarla?
Certo anch'io quand'ero giovane ho camminato su e giù sulla mia terrazza per via di qualche schiava fuggita nella quale leggevo la mia guarigione. Avrei sollevato eserciti interi per riconquistarla. E per possederla avrei gettato ai suoi piedi intere province, ma Dio mi è testimone che non ho mai confuso il senso delle cose e che non ho mai definito amore, anche se metteva in gioco la mia vita, questa ricerca della preda.
L'amicizia io la riconosco dal fatto che non può essere delusa e riconosco l'amore vero dal fatto che non può essere oltraggiato.
Se qualcuno viene a dirti: “Ripudia, quella donna perché ti disonora...”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché chi ha il potere di disonorarti?
E se qualcuno viene a dirti: “Ripudiala, tanto tutte le tue cure sono inutili...”, ascoltalo con indulgenza ma non mutare il tuo comportamento, poiché un giorno hai fatto la tua scelta. Se ti possono rubare ciò che ricevi, chi ha il potere di rubarti quello che offri?
E se qualcun altro viene a dirti: “Qui hai dei debiti. Qui non ne hai. Qui si riconoscono i tuoi meriti. Qui sono beffeggiati”, tappati le orecchie per non sentire simili calcoli.
A tutti costoro dovrai rispondere: “Amarmi significa anzitutto collaborare con me” [16] .

Il cristianesimo di Saint-Exupéry

Se i suoi Diari ci testimoniano perplessità su singoli punti della dottrina e della prassi ecclesiale, la vita di Saint-Exupéry non si allontanò dalla professione di fede cattolica. Il 24 luglio 1944 [17] , pochi giorni prima della sua morte, fu padrino di battesimo a La Marsa, nei pressi di Tunisi, del figlio di tre mesi di Gavoille, il responsabile della squadriglia francese dei Lightning P 38 con i quali volava. Nel viaggio dagli Stai Uniti al fronte, per riprendere le armi, dichiarava ad Henry Elkin, psicoanalista junghiano, che, non appena la guerra fosse finita, sarebbe entrato nel monastero di Solesmes e, per avvalorare la tesi, concludeva le conversazioni cantando in gregoriano (era rimasto ammirato dal canto liturgico monastico dell'abbazia di Solesmes, ma è evidente a chiunque che mai, comunque, si sarebbe deciso ad entrare realmente nella vita monastica e che quelle parole erano solo una esagerazione!). Nel dicembre 1942 lo troviamo arrivare tardi per una cena a casa propria, alla quale aveva invitato cinque coppie di amici per essere andato a messa nella cattedrale per l'ultimo dell'anno, con la moglie Consuelo. Al ritorno, trovando gli invitati in attesa, esclama: “Per l'amore del cielo! Se non ti prendi la polmonite in Chiesa, non puoi dire di avere veramente assistito alla messa di mezzanotte!”. Ma, come ne sia di queste cose, è la responsabilità, è la serietà del legame che unisce e deve unire gli uomini, che fa sorgere continuamente nell'opera di Saint-Exupéry l'esigenza di un orizzonte che trascenda l'uomo, impedendogli di perdersi nel nulla. Nel dialogo con il serpente, con la morte, nel Piccolo principe per due volte scrive: “E rimasero in silenzio”. Nelle righe finali troviamo scritto:

E' tutto un grande mistero. Per voi che pure volete bene al piccolo principe, come per me, tutto cambia nell'universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, si o no, mangiato una rosa. Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia... [18]

E l'ultima espressione di Cittadella, quella con cui termina il manoscritto del libro - dopo che il re, avendo raccontato dei due giardinieri, riflette sul misteri di due re che, pur essendo nemici, “abbelliscono l'anima del loro popolo” - è, ancora, una ammissione di mistero, di presenza divina, di un essenziale non visibile, ma necessario:

Perché tu, o Signore, sei la comune misura di entrambi. Sei il nodo essenziale di azioni diverse [19] .

Per altri articoli e studi sui classici e la letteratura presenti su questo sito, vedi la pagina Letteratura nella sezione Percorsi tematici

Note

[Nota 1] La nostra proposta di lettura si allontana volutamente da altre possibili che cercano lo spunto immediato di singoli riferimenti, ma non ne collocano il significato nell'orizzonte di senso che l'autore francese cerca di dischiudere (anche se non sempre, con la sua vita “privata”, personale, ne è stato all'altezza). Per queste differenti ipotesi di lettura vedi, ad esempio, S.Schiff, Antoine de Saint-Exupéry. Biografia , Bompiani, Milano, 1994. La Schiff, cercando di risalire all'origine prima dei temi e delle immagini del Piccolo Principe, riporta episodi degli anni 1942-1943 che riguardano Silvia Reinhardt, probabilmente una delle amanti dell'autore ai tempi della scrittura del libro (conosciamo anche il nome di Nathalie Paley che nello stesso periodo corrispondeva amorosamente con Saint-Exupéry) e che riguardano Consuelo, legittima consorte del romanziere francese. Così scrive: “Silvia Reinhardt gli fornì lo spunto per il discorso più memorabile, quello messo in bocca a una volpe... quando si lagnò per lui per l'angoscia provocatagli dai suoi ritardi. Ma che cosa importa, protestò lo scrittore... “Il mio cuore comincia a danzare quando sei in arrivo” spiegò Silvia... Una bambola di Silvia fece da modello per il piccolo principe, ed è a lei che si deve la ricciuta chioma bionda... Mocha, il barboncino di Silvia, fece da modello per il montone; un boxer che Silvia gli aveva regalato in agosto, ritenendo che Saint-Exupéry avesse bisogno di un animale da compagnia e che era stato da lui battezzato Hannibal, divenne la tigre... Consuelo non era l'autrice dei disegni, come è stato talvolta affermato, ma indubbiamente si deve a lei, almeno in parte, l'atmosfera fantastica della storia. Il clima da lei creato, indubbiamente non sereno, era tuttavia fertile; nulla, nelle sue mani, era o restava prosaico. A New York, soffriva di attacchi di asma; era sensibile all'aria che respirava proprio come il fiore protetto dalla campana di vetro del piccolo principe. Come la rosa, celava le sue menzogne con una tosse inquietante. Poche persone si sarebbero vantate di essere state la fonte d'ispirazione della rosa... Consuelo invece non esitò a farlo... L'aereo su cui vola Bernis in Corriere del Sud reca lo stesso numero dell'asteroide del piccolo principe, B 612. Il peggior insulto che il piccolo principe lancia a un uomo è lo stesso con cui l'autore in gioventù aggrediva le persone piene di boria: uomini simili sono “funghi”. A Mosca, Saint-Exupéry – in un contesto altrettanto assurdo quanto quello in cui si trova il piccolo principe quando fa la sua richiesta – aveva chiesto a un amico di disegnargli una pecora su un angolo di un tavolo. Confessò ad Adèle Breaux che l'elefante inghiottito dal boa assomigliava a un disegno che aveva fatto da bambino” (pagg. 418-419, 421, 424).
Vedi, invece, per una lettura che indaghi il senso del testo e della riflessione dell'autore francese, i due articoli di p.Ferdinando Castelli S.I., Antoine de Saint-Exupéry. “Bisogna dare un senso alla vita degli uomini” , in Civ. Catt. 132 (1981), 236-249 e La cittadella spirituale di Saint-Exupéry in Civ. Catt. 132 (1981), 448-463.

[Nota 2] Guillaumet rimase per due giorni in un buco che si era scavato nella neve, sotto le ali dell'aeroplano, che era un Potez 25 – nelle ultime 48 ore, prima della sua partenza erano caduti 5 metri di neve sulle Ande. La seconda notte vide una stella ed il terzo giorno, essendosi rasserenato il tempo, uscì dal suo rifugio. Scrisse sulla carlinga dell'aereo: “Ultimo pensiero a mia moglie, con un bacio. Costretto ad atterrare qui dalla tempesta, non sono stato avvistato dall'alto. Vado ad est. Addio a tutti”. Poi si incamminò verso est (cfr. S.Schiff, Antoine de Saint-Exupéry. Biografia, Bompiani, Milano, 1994, pagg.206-207).

[Nota 3] A.de Saint-Exupéry, Terra degli uomini , Mursia, Milano, 1993, pp. 55-60.

[Nota 4] La traduzione italiana rende il francese “apprivoiser” con “addomesticare”. La sfumatura è, comunque, nell'ordine del “render familiare”, dello “scoprire che una persona diviene molto cara”, del “creare un rapporto unico, irripetibile, proprio”.

[Nota 5] Non abbiamo potuto riportare il racconto in forma completa, per la sua lunghezza. I tre puntini indicano i luoghi delle parti omesse. Il testo completo in A.de Saint-Exupéry, Terra degli uomini , Mursia, Milano, 1993, pp.126-158.

[Nota 6] Mentre il pilota cammina nel deserto, una deviazione lo conduce a cercare di capire come vivono le volpi del deserto (e sarà proprio una volpe a spiegare al Piccolo Principe nel deserto il perché dell'importanza della sua rosa). Il suo immediato desiderio è di cacciarle per poter bere i loro liquidi, ma pian piano si perde col pensiero dietro alla loro vita:
Si tratta senza dubbio di “fenech” o volpi del deserto, piccoli carnivori della grossezza d'un coniglio e muniti di orecchie enormi. Non resisto alla voglia di seguirne una traccia. Mi conduce verso uno stretto fiumicello di sabbia su cui tutti i passi rimangono nettamente impressi. Ammiro la graziosa palma formata da tre dita a ventaglio. Immagino l'amico che trotterella, all'alba, leccando la rugiada sulle pietre. Qui le impronte sono più distanziate: il mio fenech si è messo a correre. Qui un compagno si è unito a lui ed hanno trottato a fianco a fianco. Assisto così, con un bizzarro senso di gioia, a quella passeggiata mattutina. Mi piacciono questi segni di vita. E dimentico un po' di aver sete... Infine arrivo alla dispensa delle mie volpi di sabbia, spunta ogni cento metri un minuscolo arbusto secco grande come una zuppiera e dallo stelo carico di chioccioline dorate. Il fenech, all'alba, va per provviste. E m'imbatto in un grande mistero naturale. Il mio fenech non si ferma a tutti gli arbusti. Ce ne sono alcuni, carichi di chioccioline, ch'egli disdegna. Ce ne sono altri di cui fa il giro con circospezione visibile. Ad altri si avvicina, ma senza saccheggiarli. Ne porta via due o tre conchiglie, poi cambia ristorante. Gioca a non calmare la sua fame in un sol colpo, per godere più a lungo della sua passeggiata mattutina? Non credo. Il suo gioco è troppo simile a una tattica indispensabile. Se il fenech si saziasse con i prodotti di un solo arbusto, in due o tre pasti lo spoglierebbe del suo carico vivente, e così, di arbusto in arbusto, annienterebbe il proprio allevamento. Ma il fenech si guarda bene dal turbare la riproduzione. Non solo si rivolge, per un solo pasto, a un centinaio di questi ciuffi bruni, ma anche non preleva mai due conchiglie vicine sullo stesso ramo. Tutto si svolge come se avesse consapevolezza del rischio. Se si saziasse senza cautela, non ci sarebbero più chioccioline. Se non ci fossero chioccioline, non ci sarebbero fenech. Le impronte mi riconducono alla tana. Indubbiamente là c'è il fenech che mi ascolta, spaventato dal rombo del mio passo. E gli dico: “Mia piccola volpe, sono spacciato, ma è curioso, questo fatto non mi ha impedito di interessarmi ai tuoi umori”.

[Nota 7] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.326-329.

[Nota 8] A.de Saint-Exupéry, Terra degli uomini , Mursia, Milano, 1993, p.169.

[Nota 9] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.33-34.

[Nota 10] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.308.

[Nota 11] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.35-36.

[Nota 12] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, p.27.

[Nota 13] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.29.

[Nota 14] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.161-162.

[Nota 15] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.51.

[Nota 16] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.150-151.

[Nota 17] Per le tre brevi notizie seguenti vedi S.Schiff, Antoine de Saint-Exupéry. Biografia , Bompiani, Milano, 1994, pagg. 435, 442 e 475.

[Nota 18] A.de Saint-Exupéry., Il piccolo principe, Bompiani, Milano, 1989, p.122.

[Nota 19] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.331.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 17 Novembre 2022 - 09:15 am | | Default

A Meghiddo scoperta forse la più antica chiesa cristiana conosciuta. Prigione costruita su una delle più antiche chiese della Terra Santa lascia spazio a un parco archeologico, di Zelda Caldwell

Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Zelda Caldwell pubblicato il 7/3/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte paleocristiana e I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa: Israele.

Il Centro culturale Gli scritti (14/11/2022)

James Emery | CC BY 2.0

N.B. de Gli scritti
Il mosaico che reca l’iscrizione “a Gesù Cristo come Dio” potrebbe essere anche di qualche decennio successivo e la sua datazione oscilla secondo gli studiosi fra il III e il IV secolo: è comunque un ritrovamento di grande interesse. Quanto l’articolo afferma sull’esistenza di chiese solo a partire da Costantino è stato da noi ampiamente smentito in Dalle domus ecclesiae alle basiliche. L’utilizzo delle fonti letterarie, di Andrea Lonardo. Quanto alle persecuzioni è noto come il cristianesimo non fosse una religio licita, ma come le persecuzioni non siano state continue, bensì episodiche: è noto della conversione alla nuova fede di legionari romani ben prima di Costantino e si conosce un solo caso di "obiezione di coscienza tout court, quella di Massimiliano di Tebessa, studiato dal porf. Paolo Siniscalco. 

Quella che potrebbe essere la chiesa cristiana più antica del mondo giace sotto una prigione nel nord di Israele, costruita dagli inglesi negli anni Quaranta del Novecento. I funzionari israeliani hanno annunciato che il carcere di Megiddo verrà svuotato per diventare un parco archeologico, secondo Haaretz.com. I reclusi verranno trasferiti in una nuova prigione che soddisfa gli standard adottati recentemente da Israele per permettere uno spazio per prigioniero pari agli standard europei.

Gli archeologi hanno scoperto le rovine dell’antica chiesa cristiana durante alcuni scavi iniziati nel 2003, ai quali hanno preso parte gli stessi prigionieri. Sembra che un recluso abbia scoperto un mosaico ben conservato risalente all’anno 230, che definiva Gesù una divinità.

Il mosaico riporta l’iscrizione, in greco antico, “Akeptous, che ama Dio, ha offerto la tavola a Dio Gesù Cristo come memoriale”.

Secondo l’articolo di Haaretz.com, si ritiene che Akeptous fosse una donna che aveva sovvenzionato la tavola, che funzionava da altare per l’Eucaristia.

Il pavimento di mosaico, ornato con il simbolo cristiano del pesce, faceva parte di una casa piuttosto che di una chiesa o di una basilica. Le chiese come le conosciamo vennero costruite solo dopo che l’imperatore romano Costantino abbracciò il cristianesimo quasi un secolo dopo.

Secondo il dottor Yotam Tepper, dell’Università di Haifa, i romani probabilmente vivevano nella casa, ma la stanza che ospitava il mosaico doveva essere una sala di preghiera.

Il sito storico include anche i resti di un antico villaggio ebraico e di un insediamento romano. È questa scoperta che ha fatto sì che gli studiosi riconsiderassero quello che sapevano sull’atteggiamento dei romani nei confronti dei primi cristiani.

L’accampamento, situato fuori Gerusalemme e che era stato la base della Legio VI Ferrata, ospitava circa 5.000 soldati.

“Pensiamo che alcuni dei soldati romani della legione fossero cristiani”, ha detto Tepper ad Haaretz.

Colui che donò il mosaico era un centurione romano di nome Gainus, chiamato anche “Porophrius, nostro fratello”. Il fatto che ci fossero dei soldati romani apertamente cristiani contraddice l’idea generale per la quale i cristiani delle origini venivano perseguitati.

“Qui i romani avevano ufficiali cristiani”, ha spiegato Tepper. “La persecuzione può essere stata esagerata in seguito nei racconti, ma i resoconti non riflettono sicuramente la complessità della realtà, ovvero che ci fossero dei cristiani nell’esercito romano”.

Quando il parco archeologico aprirà al pubblico, i visitatori potranno visitare la struttura di adorazione cristiana delle origini, le vicine rovine della città bizantina del IV secolo di Maximianopolis, i resti dell’insediamento militare romano e l’antico villaggio ebraico, attualmente tutti sotto un tetto recintato con filo spinato.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:50 am | | Default

Perché non funziona una parrocchia affidata a laici o a diaconi, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Catechesi e pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (14/11/2022)

Un bravissimo prete di una diocesi con molti piccoli paesi mi racconta delle sue perplessità sull’affidamento di parrocchie a laici o diaconi, in particolare di parrocchie piccole di montagna o di piccoli paesi (ma, attenzione, le ragioni riguardano anche altri casi).

Ha due serissime obiezioni.

1/

La prima è pratica e gli deriva dall’esperienza.

Una parrocchia affidata a qualche laico del paese o ad una famiglia diviene ben presto asfittica.

Più il paese o il quartiere è piccolo e più diviene asfittica.

La famiglia che la guida tende a costruirsela a propria immagine e a non essere equanime con le altre famiglie.

Se poi subentra qualche lite, è la disgregazione, per cui chi non è legato alla famiglia che presiede se ne allontana.

Ancor più se subentra qualche motivo politico, se ad esempio nel piccolo paese si crea un antagonismo politico fra famiglie che appoggiano candidati a sindaco diversi.

Da un punto di vista pratico il grande vantaggio, invece, della presenza di un prete è che è una figura esterna, che viene da fuori e non è implicato in beghe familiari. Venendo da fuori può essere più giusto nei giudizi, senza lasciarsi condizionare affettivamente da questa o quella famiglia.

Il suo permanere poi è solo di una decina d’anni o più, poi ne subentra un altro. Questo permette a chi viene dopo di avere uno sguardo più distaccato e di dire quei no che servono a crescere e che chi è del posto non ha più il coraggio di dire per paura di inimicarsi questo o quello.

2/

La seconda ragione è teologica.

È l’eucarestia che raduna la chiesa e non sono i cristiani da soli a scegliersi l’un l’altro e non è nemmeno la semplice appartenenza ad un determinato posto a generare la chiesa.

Solo la celebrazione dell’eucarestia fonda in senso teologico la chiesa.

Per questo è bene che ci sia una messa domenicale in un solo luogo, se è possibile raggiungerla anche dagli altri paesi.

Di solito è bene celebrarla nel paese più grande, dove comunque tutti si recano perché ci sono i negozi o la banca o altri uffici.

Nei paesi più piccoli il mio amico suggerisce di fare la messa solo nei giorni feriali, per i più anziani.

È bene fare anche la catechesi dei bambini se in quel paese vi sono le scuole elementari.

L’oratorio, invece, è bene che sia in un solo luogo per avere un numero di persone sufficienti a farlo funzionare bene e a portare allegria a tutti.

3/

Anche qui interviene una ragione pratica: dove si è troppo pochi, dove non si respira a pieni polmoni, le dinamiche interpersonali tendono a irrigidire ciascuno nel proprio ruolo e questo ben al di là del ruolo del presbitero.

Ascoltandolo, comprendo bene come abbia ragione.

Non basta che siano i laici a guidare al posto di un prete perché una parrocchia sia più sinodale.

La sociologia insegna che ovunque si instaura una società umana, lì si crea una gerarchia e lì si esercita l’autorità.

Non è assolutamente vero che dove manca il prete ci sia più sinodalità o maggiore responsabilizzazione.

Semplicemente al posto del prete è un laico che guida e quel laico può essere più autocentrato di un prete.

Si scherza spesso dicendo che esistono le vice-parroche o laici clericali.

È esattamente così.

Alcuni amici sacerdoti che hanno esercitato il ministero in Svizzera mi raccontarono precisamente questo: che dove è il consiglio pastorale che guida, in realtà sono le famiglie al potere da anni che detengono il potere e chi non è d’accordo con loro non può nulla.

Non c’è per niente una maggiore “democrazia”, bensì il “potere” è esercitato da qualcuno che non è prete, ma sempre “potere” resta, anzi può essere ancora più escludente.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:49 am | | Default

Camminare affondando nella sabbia o immobili nel traffico: una metafora di ciò che si deve superare nei cammini ecclesiali e nella riforma sinodale, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Ecclesiologia e Teologia pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (14/11/2022)

Esercizi spirituali in una casa in riva al mare. Su suggerimento della predicatrice cammino. Ma, non appena i passi si posano sulla sabbia il cammino diventa lentissimo. E pesante. E stancante, estenuante. Non si può avanzare tutta la vita a quel passo.

Gli uomini, però, vi costruiscono sopra percorsi con mattonelle o con assi di legno, per rendere più agevole la strada. L’esperienza permette così non solo di sostare sulla sabbia, ma anche di camminare più velocemente, senza che i percorsi più veloci offuschino la bellezza del mare.

Mi torna in mente l’angosciante traffico della città. Certo non lo si può evitare, ma chi è intelligente approfitta delle ore del mattino per dirigersi nei luoghi dove lavorare o incontrare persone, altrimenti la stasi è quasi totale.

Chi presiede al cambiamento deve accogliere ogni suggerimento per costruire nuovi percorsi e modalità e itinerari, ma guai se persone e comunità venissero immobilizzate, come costrette a camminare eternamente sulla sabbia o nel traffico.

I momenti di verifica, di revisione, di trasformazione anche radicale, debbono avere dei tempi stabiliti, dei tempi non eterni, al fine di generare passaggi che permettano di “sorpassare” la sabbia e di “evitare” il traffico.

Guai se si camminasse sempre sulla sabbia e nel traffico.

Il discutere porterebbe allora non ad avere “ospedali da campo” che si possono allestire e spostare velocemente per venire incontro ai bisogni dell’uomo, bensì diverrebbe struttura pesante che mortificherebbe ogni libertà, ogni creatività.

La riflessione e la discussione deve condensarsi in esperienza, perché è ciò che è solido e non “sabbioso” che permette a tutti di percorrere una strada buona, senza dover aspettare mesi e anni per poter fare un passo.

Anzi proprio il crescere di una scioltezza nei processi decisionali comunitari, diocesani, nazionali e globali dovrebbe essere il segno che il processo sinodale sta andando a buon termine.

Proprio la snellezza di un’approvazione della bontà di un cammino, di un’iniziativa, di un gesto coraggioso, divengono il segno di un cammino sinodale vero e non all’opposto mortificante.

Quando si cammina in montagna si dice che un sentiero è segnato, per indicare che non ti farà perdere nella boscaglia. Si dice che un sentiero è consolidato, cioè è comprovato nella sua solidità dall’esperienza. Si dice che è un sentiero è battuto, per dire che i tanti che lo hanno percorso ne assicurano la percorribilità e la bellezza proprio perché il loro passo ha schiacciato le erbacce, ha strappato i pericoli, ha eliminato i tronchi trasversali. Resta un sentiero da percorrere, è in alta montagna, è immerso nel creato, ma è anche battuto.

Ecco, dopo un percorso sinodale bisogna arrivare a questo. Bisogna percorrere tutto il cammino sinodale ed esserlo sempre, ma per arrivare non troppo tardi a sentieri battuti che si possano percorrere speditamente.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:42 am | | Default

Negli Emirati ritorna alla luce un pezzo di storia dei cristiani dell’Arabia preislamica. Scoperto sull’isola di Siniyah un monastero risalente al periodo preislamico. L'annuncio arrivato mentre in Papa era in Bahrein. Per gli emiri è «un esempio di tolleranza religiosa», di Amedeo Lascaris

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Amedeo Lascaris, pubblicato il 7/11/2022 (https://www.tempi.it/monastero-negli-emirati-cristiani-arabia-preislamica/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni I luoghi della storia della chiesa e Islam e cristianesimo. Cfr., in particolare, Emirati, terra di monaci cristiani, di Gioia Reffo [Gli scavi archeologici del monastero sull’isola di Sir Bani Yas che rimase attivo fino al 750 d.C.].

Il Centro culturale Gli scritti (14/11/2022)

Il monastero di Siniyah

In Occidente la Penisola araba, in particolare la parte che affaccia sul Golfo Persico, è solitamente associata alla religione islamica. La presenza cristiana precedente alla predicazione di Maometto tra il VI e il VI secolo dopo Cristo resta spesso confinata a un paragrafo dei manuali di storia medioevale nella parte dedicata all’espansione islamica oppure al lungo scontro (363-628 d.C.) tra Impero romano – poi Bizantino – e l’Impero sassanide di Persia.

Un monastero cristiano preislamico sull’isola di Siniyah

Solo appassionati o studiosi conoscono la storia del regno dei Lakhmidi (300-602 d.C.), vassalli dell’Impero sassanide, la cui capitale Al Hirah (nell’Iraq meridionale) fu un importante centro della Chiesa d’Oriente (i cosiddetti nestoriani) le cui origini risalirebbero alla predicazione di San Tommaso Apostolo. Le testimonianze del passato cristiano della Penisola araba, in particolare nell’area del Golfo Persico sono concentrate nei testi della tradizione siriaca, mentre le vestigia sono poco conosciute e spesso mal conservate.

Solo di recente alcuni Paesi del Golfo hanno iniziato un dialogo aperto con il cristianesimo – come testimoniato dallo storico viaggio di Papa Francesco nel febbraio del 2019 negli Emirati e da quello recentissimo nel regno del Bahrein – che ha portato le stesse autorità a “sponsorizzare” anche la storia cristiana preislamica nel tentativo di fornire un’immagine tollerante e non più associata solamente all’integralismo islamico. Proprio mentre il Pontefice si trovava in Bahrein, il 3 novembre la stampa emiratina ha dato ampio spazio alla notizia di un’importante scoperta di un monastero cristiano risalente al periodo preislamico sull’isola di Siniyah nell’emirato di Umm al Quwain, il più piccolo dei sette che compongono la confederazione degli Emirati Arabi Uniti.

Un villaggio accanto al monastero

La scoperta del monastero dell’Isola di Siniyah è la seconda negli Emirati dopo quella fatta nel 1992 sull’Isola di Sir Bani Yas, oggi riserva naturale e sede di hotel di lusso, situata al largo della costa di Abu Dhabi, vicino al confine saudita. L’annuncio del ritrovamento del monastero di Siniyah, è stato fatto il 3 novembre dallo sceicco Majid bin Saud bin Rashid Al Mualla, capo del Dipartimento del Turismo e delle Antichità di Umm al Quwain, alla presenza del ministro della Cultura, l’imprenditrice Noura bint Muhammad Al Kaabi, simbolo del nuovo corso di “tolleranza e inclusione” iniziato negli Emirati. L’isola, il cui nome significa “luci lampeggianti” probabilmente a causa dell’effetto del sole rovente sopra la sua testa, ha una serie di banchi di sabbia che escono da essa come dita storte. Su uno di questi banchi, a nord-est dell’isola, gli archeologi hanno scoperto il monastero.

La datazione al carbonio di alcuni dei campioni prelevati dagli archeologi data la fondazione del monastero tra il 534 e il 656 d.C. In base a quanto si evince dalle fotografie aeree il nucleo si sviluppava intorno a una chiesa a navata unica. I vari ambienti suggeriscono inoltre la presenza di una fonte battesimale e di un forno per preparare il pane impiegato per l’Eucarestia. Accanto al monastero si trova un secondo edificio con quattro stanze, probabilmente intorno a un cortile, forse la casa di un abate o di un vescovo. Il ministero della Cultura degli Emirati Arabi Uniti ha in parte sponsorizzato lo scavo, che continua nel sito. A poche centinaia di metri dalla chiesa, si trova un insieme di edifici che gli archeologi ritengono siano i resti di un villaggio preislamico sorto insieme al monastero.

Una terra cristiana prima dell’islam

Come sottolineato dallo sceicco Majid, citato dall’agenzia di stampa emiratina Wam «la scoperta aiuta a comprendere la nostra storia antica, una storia ricca di esempi di tolleranza religiosa e di accettazione della diversità umana e culturale, e il monastero è un’altra testimonianza dell’esistenza di confessioni cristiane che hanno vissuto in passato fianco a fianco con la comunità islamica sulla costa degli Emirati». In base a quanto emerso dagli scavi il monastero è stato costruito con le rocce che si trovano nell’isola e le pareti e i pavimenti sono stati ricoperti con intonaco di calce. La ceramica e il vetro estratti dal sito indicano che gli abitanti del monastero avessero rapporti commerciali anche al di fuori dell’area, estendendosi fino all’Iraq e all’India, area in cui tra il V e il VI si estendeva il Cristianesimo orientale.

Altri siti religiosi sono stati scoperti negli anni anche in Bahrein, Kuwait e Arabia Saudita. Proprio nel regno in cui vive il Custode dei luoghi sacri dell’Islam sorge una delle testimonianze più antiche della Chiesa orientale, la Chiesa di Jubail, risalente al IV secolo. Situata nel deserto a sud di Jubail, uno dei centri petroliferi del Regno saudita sul Golfo Persico, la chiesa era ricoperta dalla sabbia quando nel 1986 venne scoperta in modo del tutto fortuito a causa dello schianto di una dune buggy contro una delle strutture in muratura. In seguito, una serie di scavi rivelò un antico luogo di culto decorato con croci. L’edificio è stato per anni in stato di degrado e ha subito anche atti vandalici, mentre le croci sarebbero state ricoperte con il cemento.

Chiesa di Jubail in Arabia Saudita

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:39 am | | Default

Un anello con un frammento del terremoto dell’Aquila come segno della promessa di matrimonio. Luca e Lucia Vespasiano raccontano del terremoto dell’Aquila, quando avevano 17 anni, e del loro cammino universitario fino alle nozze

Riprendiamo sul nostro sito il file audio dell’intervento di Luca e Lucia Vespasiano nella basilica di Collemaggio in occasione del pellegrinaggio degli universitari romani del 5/11/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Università.

Il Centro culturale Gli scritti (14/11/2022)

L’intervento di Luca e Lucia Vespasiano è, nel file audio accluso, dal minuto 18.41 in poi, dopo la relazione agli universitari di don Andrea Lonardo.

Nella foto è l’anello di cui Luca parla nel corso dell’intervento, ora alla mano di Lucia che lo porta al dito.

Lonardo e Luca-Lucia Vespasiano l'Aquila universitari 2022

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:38 am | | Default

1/ Addio a John P. Meier, una vita dedicata al Gesù storico. Il sacerdote e biblista newyorkese dal 1991 al 2016 ha scritto un’opera monumentale in cinque volumi sul Nazareno come «ebreo marginale». Benedetto XVI ne lodò l’accuratezza scientifica, di Lorenzo Fazzini 2/ Cercare Gesù nella Storia, di Gianfranco Ravasi

1/ Addio a John P. Meier, una vita dedicata al Gesù storico. Il sacerdote e biblista newyorkese dal 1991 al 2016 ha scritto un’opera monumentale in cinque volumi sul Nazareno come «ebreo marginale». Benedetto XVI ne lodò l’accuratezza scientifica, di Lorenzo Fazzini 

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Avvenire scritto da Lorenzo Fazzini il 20/10/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Il Gesù storico. Cfr, in particolare:

Il Centro culturale Gli scritti (17/11/2022)

N.B. de Gli scritti
Il metodo precipuo utilizzato nella sua ricerca da J.P. Meier è stato quello di analizzare con criteri che non potessero essere discussi da nessuno il Gesù storico, di modo che quel minimo che si fosse individuato dovesse necessariamente essere accolto anche da chi non ritenesse di farsi cristiano. Egli ragionava così, escludendo da questo nucleo, ad esempio, la Parabola del figliol prodigo perché esistente in un'unica fonte, e cioè il Vangelo di Luca. Con questo egli non intendeva dire che quella parabola non fosse di Gesù, ma che si doveva sospendere il giudizio su di essa quanto a storicità, perché non era possibile provarne l'origine. Nei suoi primi cinque volumi si era occupato delle parole di Gesù e intendeva giungere infine agli eventi della passione e resurrezione, ma non ha potuto terminare il suo lavoro. Sulla questione dei criteri di storicità, cfr. su questo sito l'ottimo Criteri di storicità e storia di Gesù oggi, di Ermenegildo Manicardi.

È morto il 18 ottobre 2022 John Paul Meier, teologo americano, docente di teologia alla Notre Dame University, considerato uno dei più grandi studiosi del Gesù storico a livello internazionale. Di lui sono ben noti i cinque, monumentali volumi su Gesù, un ebreo marginale pubblicati nel corso di ben 16 anni dall’editrice Queriniana.

Iniziata nel 1991 e terminata nel 2016 nell’edizione originaria in inglese, questa indagine scientifica sulla realtà del Gesù storico consta in italiano di ben 3.735 pagine: un lavoro immenso per questo studioso di teologia biblica, già lodato da Benedetto XVI in più occasioni per l’accuratezza della sua ricerca scientifica, definendola «eccellente».

Cinque volumi, quelli di Meier, che hanno scandagliato in profondità tutte le dimensioni umane e storiche di Gesù, come recitano i rispettivi sottotitoli: Le radici del problema e della persona, Mentore, messaggio e miracoli, Compagni e antagonisti, Legge e amore, L’autenticità delle parabole

Originario di New York, dove era nato nel 1942, Meier, prete diocesano, aveva ottenuto un baccalaureato in filosofia in patria, una licenzia in teologia alla Gregoriana e un dottorato in Sacra Scrittura all’Istituto biblico a Roma: curiosità, era stato ordinato prete proprio nella basilica di San Pietro.

Ha insegnato nel St. Joseph Seminary di Dunwoodie, dove si era formato, quindi alla Catholic University di Washington e in seguito per ben 20 anni alla Notre Dame University. I suoi campi di interesse accademico sono stati, in particolare, i Vangeli di Matteo e quello di Giovanni, oltre alla cristologia neotestamentaria e al giudaismo palestinese, e ovviamente la ricerca sul Gesù storico.

Sul sito della Notre Dame University, dove era docente emerito della cattedra William K. Warren, si legge che, nonostante l’emeritato, Meier stava lavorando al sesto volume della sua monumentale opera teologica. Da parte sua l’editrice Queriniana ha fatto presente che «da molte parti ci giungono richieste dei suoi affezionati lettori e lettrici in merito alla continuazione della sua imprescindibile ricerca sul Gesù storico», auspicando di poterle dar seguito con il sesto volume, che probabilmente potrà essere pubblicato postumo.

Il cardinal Ravasi, recensendo i volumi di Meier, li ha definiti «una cattedrale teologica», evidenziando che ci sono voluti sei traduttori per completarne la pubblicazione in italiano. Si diceva dell’apprezzamento di Benedetto XVI all’opera di Meier. Nel suo libro Gesù di Nazareth. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione (Lev), nella fine del quarto capitolo dedicato all’Ultima cena, Joseph Ratzinger sposa la ricerca di Meier su un punto controverso, ovvero la cronologia della passione e morte di Gesù Cristo: «La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l’ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù – annota Benedetto XVI –. Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all’insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni. Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali».

2/ Cercare Gesù nella Storia, di Gianfranco Ravasi

Riprendiamo sul nostro sito un articolo de Il Sole 24 Ore scritto da Gianfranco Ravasi il 5/12/2010. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Il Gesù storico. Cfr, in particolare:

Il Centro culturale Gli scritti (17/11/2022)

Secondo un calcolo per difetto, nel Novecento sono usciti centomila libri su Gesù, con una media quindi di un migliaio ogni anno. Di lui ci si interessa persino in Giappone, come ha dimostrato in un suo saggio – pubblicato però in tedesco nel 2006 – lo studioso Takashi Onuki.

Lo scorso anno a Montréal in Canada è uscita un'indagine sulla figura del «Gesù storico» negli ultimi 25 anni e le rassegne bibliografiche elencate erano ben 23 distribuite per aree geografiche (4 nelle Americhe, 8 in Europa, 3 in Africa, 6 in Oriente, 2 nel Pacifico). E che dire poi della galassia internet? Non cliccate Jesus o Christ perché perdereste subito il conto dei milioni di occorrenze: c'è persino un Jesus Project che riunisce 50 esperti internazionali che si sono programmati sul tema fino al 2012 (dal 2007) per rispondere fondatamente a una sola domanda, quella sull'esistenza di Gesù.

Sì, perché il soggetto che più conquista studiosi e ciarlatani è il cosiddetto «Gesù storico»: esiste addirittura un quadrimestrale intitolato «Journal for the Study of the Historical Jesus» che esce dal 2003. I manuali al riguardo si sprecano, tant'è vero che una prestigiosa editrice come la Brill di Leida ha pensato di metterne in cantiere uno di taglio sintetico che, però, avrà bisogno di ben quattro volumi attualmente in preparazione sotto il titolo generale The Handbook for the Historical Jesus. In questa foresta bibliografica ben pochi riescono a inoltrarsi senza smarrirsi. Uno di questi è un italiano, il padovano Giuseppe Segalla, docente emerito della facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, e dobbiamo essergli grati per il fatto che – accanto alla buona dose di pagine "tecniche" da lui dedicate al tema – ha voluto ora approntare una mappa che ci guidi almeno lungo i sentieri più ampi di questa selva lussureggiante ove alligna ogni tipo di vegetazione, rara e comune, eccezionale e banale, sofisticata e insulsa.

Si deve, comunque, già in partenza badare a un «circolo ermeneutico» a duplice traiettoria: il Gesù della storia ci costringe a un movimento centripeto, di risalita alle fonti genetiche storiche; il Gesù nella storia (così s'intitolava anche un notissimo testo del 1985 di Jaroslav Pelikan) ci invita, invece, a un moto centrifugo inverso che procede dal passato inseguendo il Gesù "ricostruito" e "ricreato" nel successivo flusso dei secoli che recano il suo nome. Così, per fare il primo percorso – tanto per esemplificare – lo studioso americano John P. Meier ha avuto bisogno finora di quattro tomi che nella traduzione italiana totalizzano qualcosa come 3.282 pagine, dedicate a un personaggio che merita solo il titolo di Un ebreo marginale (edizioni Queriniana)...! Ma ritorniamo alla nostra metafora "silvestre". Tre sono i percorsi disboscati da Segalla in questa densa foresta bibliografica.

Il primo reca il tradizionale cartello con la scritta Old Quest, è la «Prima Ricerca» che si aprì in Germania con la pubblicazione nel 1778 del celebre «settimo frammento» dello studioso tedesco Hermann S. Reimarus. È l'ingresso del sospetto e della critica razionalistica, tant'è vero che Segalla classifica questa ricerca come «il paradigma illuministico»: apostoli ed evangelisti «con astuta invenzione», come dirà Reimarus, dopo aver trafugato la salma di Gesù lo fecero «risorgere», così da fondare un nuovo movimento nel suo nome, distanziandosi dal Gesù storico, che aveva predicato solo una dottrina morale elevata, sognando di essere il Messia definitivo, ma che di definitivo ebbe solo la sua tragica condanna a morte.

Elaborata in forme ben più raffinate e sofisticate dal protestantesimo liberale, dalle teorie "mitiche" di Strauss, dal famoso Renan, dalla teoria del Gesù apocalittico di Weiss e Schweitzer, questa «Prima Ricerca» fu surclassata ai primi del Novecento da una nuova strada, denominata appunto New Quest, e da Segalla rubricata come «paradigma kerygmatico» proprio perché al centro si poneva il kérygma, ossia l'«annunzio» del Cristo Salvatore. Secondo questa impostazione, i Vangeli non sono documenti storici informativi sul Gesù della storia, sono invece testimonianze performative di fede che provocano il lettore alla conversione esistenziale. Brilla su questo viale l'astro del famoso teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976). Detto in altri termini, più che offrirci una figura storica e una vicenda, i Vangeli dipingono il ritratto di una persona spirituale e un messaggio. Anche su questo percorso si registrarono molte variazioni, rettifiche e deviazioni: un esempio è quello espresso dal saggio The Real Jesus dell'americano Luke T. Johnson che preparava la transizione a un nuovo itinerario. Egli criticava soprattutto l'ultima e radicale formulazione dell'impianto antistorico incarnata dal cosiddetto "Jesus Seminar", un curioso sistema di tabulazione di 1.500 detti e di 176 atti del Gesù evangelico, sottoposto a votazione da parte di un'équipe di studiosi, con esiti sconcertanti per quanto riguarda la loro autenticità storica.

Siamo giunti, così, alla Third Quest, il terzo sentiero aperto nel 1985 e ancora in cantiere: è «il paradigma giudaico postmoderno», come lo definisce Segalla, inaugurato da Ed Parish col suo Gesù e il giudaismo, tradotto da Marietti nel 1992. Alla base c'era la fiducia di conoscere il Gesù storico collocandolo all'interno dell'alveo del giudaismo in cui egli era sorto e vissuto, ma col quale aveva anche segnato discontinuità e originalità. Questo nuovo modello storiografico e teologico, accuratamente presentato da Segalla, ha subito alcune ramificazioni interessanti attraverso il «Gesù ricordato» nella tradizione orale (James D.G. Dunn) e il «Gesù testimoniato» (Richard Bauckham).

Ma fermiamoci qui per non disperdere i nostri lettori che comunque rimangono avvertiti della complessità attuale della ricerca, dell'alto livello degli studi storico-critici condotti dagli esegeti, della conseguente volgarità di chi pensa che "cristiano" sia sinonimo di "cretino", ma anche dei rischi di offuscamento che una simile galassia di analisi può generare. Il modo più trasparente per guidare il lettore non "tecnico" in questa selva rimane forse quello narrativo adottato in Spagna da due studiosi, Armand Puig i Tàrrech (Gesù. Risposta agli enigmi, San Paolo) e José Antonio Pagola (Gesù. Un approccio storico, Borla). Certo è che rimane sempre viva quella domanda che Cristo aveva lasciato serpeggiare nel suo uditorio e che Mario Pomilio aveva posto al centro del suo Quinto Evangelio (1975): «Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?».

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:34 am | | Default

Del camminare e del passeggiare come esercizio spirituale, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Maestri nello Spirito.

Il Centro culturale Gli scritti (14/11/2022)

Una guida spirituale spiega che bisogna camminare molto per pregare bene. Glielo aveva raccomandato padre Tomáš Špidlík.

L’aveva chiamata per dirle: “Debbo dirle una cosa importante. Mi raccomando, cammini molto. Perché per pregare anche il corpo deve partecipare. La vita spirituale cristiana è incarnata, è nella carne. Non dimentichi di camminare per pregare”.

E padre Špidlík – racconta – ha voluto camminare fino alla fine. Prima con un bastone, poi con due bastoni. Ma sentiva che camminare non era solo un esercizio fisico, era un esercizio spirituale. Che lo aiutava nel raccoglimento e nella preghiera.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 14 Novembre 2022 - 12:33 am | | Default

La Danza della morte a Pinzolo e Carisolo, all’esterno delle chiese di San Vigilio e di Santo Stefano, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (30/10/2022)

1/ Le Danze della morte dei Baschenis a Carisolo e Pinzolo e il loro “meccanismo” teologico differente

La rappresentazione in affresco della Danza della morte da parte dei Baschenis nelle chiese di San Viglio a Pinzolo e di Santo Stefano a Carisolo non aveva assolutamente il compito di spaventare, dato che tali chiese erano cimiteriali e vi si andava – e vi si va – a pregare per i defunti. Invece, tali affreschi avevano ed hanno il compito di offrire parole e immagini all’esperienza della morte.

L’affresco di Carisolo è il più antico, recando la data del 1519: Simon De Baschenis Pingebat Die 12 Mensis Julii 1519.

La Danza è eseguita immaginando la morte che esegue una musica ed, infatti, le prime tre figure scheletriche suonano zampogna e tromba, aprendo la danza: proprio il forte contrasto della morte che è immobile e immobilizza e della danza che, invece, la segue, mostra subito uno stridente contrasto.

Ma subito è chiaro il senso teologico del corteo che non ha solo il compito di ricordare che tutti moriremo – il classico Memento mori –, ma anche quello di attestare che la morte stessa è sottomessa a Cristo e, quindi, destinata a cedergli il passo.

Infatti, l’iscrizione che accompagna le figure recita innanzitutto le parole della morte stessa:

«Io sonte la morte che porto corona
sonte signora de ognia persona
».

La morte è, insomma, signora apparentemente onnipotente e onnipresente.

Ma subito è il Cristo che si rivolge a chi guarda l’affresco e dice:

«O tu che guardi pensa de costei,
la me a morto mi, che son signor de lei
» - “Lei ha ucciso me che sono signora di lei!”.

Ecco che esiste un signore della stessa signora morte: come lei sconfigge tutti, così il Cristo sconfigge lei e riporta tutti alla vita.

Questa è la chiave di lettura della Danza della morte di Carisolo. Essa comincia sì in fondo a destra con il cavaliere della morte che scaglia frecce e trafigge chiunque, conducendolo alla morte, ma si chiude infine con il “dialogo” sulla signoria finale, fra la morte e il Signore.

L’affresco della Danza della morte di Pinzolo, datato da un cartiglio che è subito dopo il cavallo della morte al 25 ottobre 1539 e firmato da Simone II Baschenis – posteriore quindi di venti anni a quello di Carisolo -, ha, invece, una modalità teologica e spirituale differente per annunciare lo stesso messaggio: la sconfitta della morte.

È sempre la morte a parlare per prima, con parole ancora più altere e forti di quella di Carisolo:

«Io sont la morte che porto corona / Sonte signora de ognia persona / Et cossì son fiera e dura / Che trapaso le porte et ultra le mura / Et son quela che fa tremar el mondo / Revolzendo mia falze atondo atondo.
Ov’io tocco col mio strale / Sapienza, beleza forteza niente vale. / Non è signor, madona nè vassallo / Bisogna che lor entri in questo ballo / Mia figura o peccator contemplarai / Sinche a mi tu diverrai
».

Anche qui la morte si presenta implacabile, annunciando che, nella sua fierezza e durezza, fa tremare il mondo e che dinanzi a lei nulla vale, né sapienza, né bellezza, né fortezza. Tutti debbono entrare nel ballo della morte e tutti verranno a lei.

Ma ecco che qui, a differenza di Carisolo, non è il Cristo che si rivolge allo spettatore, bensì la morte stessa che invita a guardare al Salvatore:

«Non ofender a Dio per tal sorte / Che al transire non temi la morte, / Che più oltre no me impazo in be’ nè in male, / Che l’anima lasso al giudice eternale. / E come tu avrai lavorato / Lassù hanc sarai pagato.
O peccator più no peccar no più
/ Che ‘l tempo fuge et tu no te n’ avedi / Dela tua morte che certeza ai tu? / Tu sei forse alo extremo et no lo credi / De ricorri col core al bon Jesu / Et del tuo fallo perdonanza chiedi.
Vedi che in croce la sua testa inchina / Per abrazar l’anima tua meschina
».

Qui è la morte che invita il peccatore a convertirsi, poiché egli non sa quale sarà il giorno della propria morte, ma deve avere certezza del perdono, mentre cerca di non peccare più.

Qui la signoria di Cristo è riconosciuta dalla stessa morte, prima che il Cristo dica, come a Carisolo anche a Pinzolo:

«O peccatore pensa de costei / La me à morto mi che son signor di ley».

Anche qui il corteo segue poi, a partire dagli ecclesiastici (papa, cardinale, vescovo, sacerdote, frate), per passare alle autorità laiche (imperatore, re, regina, duca, medico, guerriero, mercante avaro, giovane vanesio, mendicante storpio), per giungere alle donne (monaca, dama, vecchia) e, infine, al bambino.

A Pinzolo, poi, la fine del corteo non è dato dal cavaliere mortifero che scaglia le sue frecce uccidendo tutti, ma dalla disputa fra il diavolo e l’arcangelo per la salvezza delle anime: Michele intende salvare le anime, gettando sul piatto della bilancia la grazia di Cristo, per controbilanciare i peccati.

È da notare che l’affresco di Pinzolo dipende dal testo di una Danza della morte che si ritiene essergli precedente: una Lauda nota a Simone II Baschenis e al committente è la fonte che il pittore mette poi in immagini. Si capisce così perché manchino personaggi tipici del luogo, come i contadini: l’affresco dà figura al testo e non si preoccupa di completarlo.

Qui, a differenza di Carisolo dove è molto rovinata, l’intera iscrizione si è conservata, poiché il tetto ha meglio protetto la parte alta della facciata pittorica, dove è appunto la danza della morte.

2/ Il testo integrale della Danza macabra di Carisolo

MORTE

Io sonte la morte che porto corona
sonte signora de ognia persona

GESÙ CRISTO, CON IL VESSILLO DELLA FEDE, SIMBOLO DELLA RISURREZIONE

Anco mi Iesus Xps (in alto)
O tu che guardi pensa de costei,
la me a morto mi, che son signor de lei.

PONTEFICE

O sumo pontefice de la christiana fede
balar te conven mecho como se vede

CARDINALE

Mecho balla o cardinale
chel cessar in dreto a ti no vale

VESCOVO

O episcopo mio iocondo
le giunto el tempo da abandonar el mondo

SACERDOTE

Sacerdote mio reverendo
da morte scapar no poi ch io te prendo

MONACO

O padre spirituale
tu et altri meno guale

IMPERATORE

O Cesario imperatore
fenito ai tu le tue hore

RE

O potente corona regale
altro techo no porti chil bene el male

GENTILUOMO (duca)

Non ti giova esser signor o ducha
ch alfine la morte ti trabucha

GUERRIERO

O tu homo gagliardo e forte
niente vale l’arme tue contra la morte

AVARO

O empio rico nel numero de li avari
ch in tuo cambio la morte no vol denari

ZERBINOTTO (giovane galante)

De le vostre zoventu fidar no se vole
giache la morte chi lei vole tole

MENDICO

No dimandar misericordia o poverel e zopo
ala morte ch pieta no ha ge dara intopo

FANCIULLO

O fantolin de prima etade
como sei ingenerato sei in mia libertade

MONACA

Per fuzer li piacer mondani monicha facta sei
ma da la morte scapar no poi da lei

GENTILDONNA

Che giova a te vanagloria pompe o beleze
perho che morte te fara puzar e perdere le treze

VECCHIA

Credevi tu vecchia el mondo reditare
che no pensasti quelo ch morte sa fare

All’inizio del corteo, a sinistra, stanno tre scheletri, che suonano zampogna e trombe e aprono la danza.

Al termine sta uno scheletro a cavallo che scaglia con l’arco le sue frecce mortali su tutti coloro che compongono la danza, ma in particolare gli sono vicine persone che si incamminano al ballo e fra di esse un papa, un imperatore, un cardinale, mentre altri sono già al suolo e vengono calpestati dal cavallo bianco (richiamo all’Apocalisse, dove però il cavallo bianco è il Cristo vincitore, mentre qui cavallo e cavaliere sono immagine della morte).

3/ Il testo integrale della danza macabra di Pinzolo

Io sont la morte che porto corona / Sonte signora de ognia persona / Et cossì son fiera e dura / Che trapaso le porte et ultra le mura / Et son quela che fa tremar el mondo / Revolzendo mia falze atondo atondo.

Ov’io tocco col mio strale / Sapienza, beleza, forteza niente vale. / Non è signor, madona nè vassallo / Bisogna che lor entri in questo ballo / Mia figura o peccator contemplarai / Sinche a mi tu diverrai.

Non ofender a Dio per tal sorte / Che al transire non temi la morte, / Che più oltre no me impazo in be’ nè in male, / Che l’anima lasso al giudice eternale. / E come tu avrai lavorato / Lassù hanc sarai pagato.

O peccator più no peccar no più / Che ‘l tempo fuge et tu no te n’avedi / Dela tua morte che certeza ai tu? / Tu sei forse alo extremo et no lo credi / De ricorri col core al bon Jesu / Et del tuo fallo perdonanza chiedi.

Vedi che in croce la sua testa inchina / Per abrazar l’anima tua meschina / O peccatore pensa de costei / La me à morto mi che son signor di ley.

O sumo pontifice de la cristiana fede / Christo è morto come se vede / a ben che tu abia de san Piero al manto / acceptar bisogna de la morte il guanto.

In questo ballo ti cone intrare / Li antecessor seguire et li succesor lasare, / Poi che ‘l nostro prim parente Adam è morto / Sì che a te cardinale no le fazo torto.

Morte cossì fu ordinata / In ogni persona far la intrata / Sì che episcopo mio jocondo / È giunto il tempo de abandonar el mondo.

O Sacerdote mio riverendo / Danzar teco io me intendo / A ben che di Christo sei vicario / Mai la morte fa divario.

Buon partito pilgiasti o patre spirituale / A fuzer del mondo el pericoloso strale / Per l’anima tua può esser alla sicura / Ma contra di me non avrai scriptura.

O cesario imperator vedi che li altri jace / Che a creatura umana la morte non à pace. / Tu sei signor de gente e de paesi o corona regale / Ne altro teco porti che il bene el male.

In pace portarai gentil regina / Che ho per comandamento di non cambiar farina. / O duca signor gentile / Gionta a te son col bref sottile.

Non ti vale scientia ne dotrina / Contra de la morte non val medicina. / O tu homo gagliardo e forte / Niente vale l’arme tue contra la morte.

O tu ricco nel numero deli avari / Che in tuo cambio la morte non vuol danari. / De le vostre zoventù fidar no te vole / Però la morte chi lei vole tole.

Non dimandar misericordia o poveretto zoppo / A la morte, che pietà non li dà intopo. / Per fuzer li piazer mondani monica facta sei / Ma da la sicura morte scapar no poi da lei.

Non giova ponpe o belese / Che morte te farà puzar e perdere le treze. / Credi tu vecchia el mondo abbandonare / Che no pe(s?)a… cu(elo?)… ch (morte?) fa fare.

O fantolino de prima etade / Come sei igenerato tu sei in libertade. / Fate bene tanto che siete in vita / Che come lombra tornerete in sepoltura / De li nostri deliti penitenza fate / Presto…

4/ Ulteriori iscrizioni presenti nella Danza della morte di Pinzolo

Oltre il testo interamente conservato e più lungo di quello di Carisolo, gli affreschi della chiesa cimiteriale di San Vigilio a Pinzolo conservano ulteriori iscrizioni e dettagli.

Dopo la morte che suona la danza, si vede Gesù crocifisso che ha anch’egli, come tutti, il petto passato dalla freccia della morte. Ed è proprio per questo che la Morte indica a tutti il crocifisso: «Vedi che in croce la sua testa inchina / Per abrazar l’anima tua meschina».

Tutte le figure che seguono sono condotte al ballo da uno scheletro. Lo scheletro che conduce il sacerdote porta una clessidra con l’iscrizione: “ala hora tertia”.

Il cartiglio, poi, portato da un ulteriore scheletro segna il passaggio alle autorità civili. Infatti lo scheletro che conduce l’imperatore lo porta e vi è scritto sopra: “pensa la fine”.

Lo scheletro che conduce il re porta un cartiglio col motto mors est ultima finis”, mentre quello che invita alla danza la regina reca la sentenza “memorare novissima tua et in aeternum non peccabis”.

Quello invece che fa danzare il duca reca scritto “Memento homo qui cinis es et in cinerem reverteris”.

Dopo un cartiglio illeggibile, quello che conduce il medico recita invece: “Est comune mori”. Nemmeno la medicina salva dalla morte, che è comune.

Il guerriero ha la freccia nel cranio, unico con tale ferita, perché il petto dove sono conficcate le frecce di tutti è qui protetto dall’armatura.

Vicino al ricco che offre invano un bacile di monete d’oro è il cartiglio che recita “O dives dives, non longo tempores vives. Fac bene dum vivis si post mortem vivere velis”.

Il giovane, vestito elegantemente, ha scritto vicino: “semper transire paratus”.

Lo scheletro che accompagna il mendicante storpio porta un cartiglio con scritto “Tuti torniamo ala nostra madre antiqua che apena el nostro nome se ritrova”, reminiscenza di versi del Petrarca.

Vicino alla badessa sta scritto invece “Est nostrae sortis transire per hostia mortis”. Segue il cartiglio illeggibile di una gentildonna.

Quello della vecchia recita: “Omnia fert aetas perficit omnia tempus”.

Vicino al bambino è posta un’asta a sonagli con due cartigli “Dum tempus habemus operemur bonum” e “A far bene non dimora che in breve tempo passa lora”.

Segue poi uno scheletro alato che colpisce con le frecce i gruppi fin qui esposti, a somiglianza dell’affresco di Carisolo che ha il cavaliere su cavallo bianco.

Viene infine l’Arcangelo Michele con la bilancia e la spada sguainata sul quale sta uno scudo pendente con su scritto: “Arcangelo Michel de l anime difensore intercede pro nobis al Creatore”. Vicino è un angelo che ha scritto su di velo: “Morte struzer non pol chi sempre vive”. Entrambi si contrappongono “vincitori”, al diavolo che ha un libro aperto su cui sono scritti i sette peccati capitali, che erano dipinti nella fascia inferiore dell’affresco e sono ora molto rovinati. Sopra il diavolo un’iscrizione reca scritto: “Io seguito la morte e questo mio guardeano, d’onde è scripto, li mali oprator che meno al inferno”.

Dinanzi alle Danze della morte di Carisolo e Pinzolo tutti sono soliti ricordare che le prime battute della morte sono riprese da Angelo Branduardi nella canzone Ballo In Fa Diesis Minore, la cui melodia proviene, invece, da Schiarazula marazule tratta da Il primo libro de’ balli accomodati per cantar et sonar d’ogni sorte de instromenti, di Giorgio Mainerio Parmeggiano Maestro di Capella della S. Chiesa d’Aquilegia che fu stampato da Angelo Gardano a Venezia nel 1578.

Il testo di Branduardi cancella ogni riferimento cristologico, quasi che solo la danza bastasse a vincere la rigidezza finale della morte:

Sono io la morte e porto corona / Io son di tutti voi signora e padrona / E così sono crudele, così forte sono e dura / Che non mi fermeranno le tue mura

Sono io la morte e porto corona / Io son di tutti voi signora e padrona / E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare / E dell’oscura morte al passo andare

Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo / Posa la falce e danza tondo a tondo / Il giro di una danza e poi un altro ancora / E tu del tempo non sei più signora.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:53 pm | | Default

L’amicizia, la famiglia e l’educazione in Harry Potter, di Roberta Tosi

Riprendiamo sul nostro sito i tre interventi di Roberta Tosi, tenuti in occasione del ciclo Ascoltando i maestri nell’incontro su Harry Potter tenuto in dialogo con Andrea Lonardo (qui il file audio dell’intera serata https://soundcloud.com/gliscritti/220331_0725a ). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Educazione. Cfr. in particolare:

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022)

1/ L’amicizia. Brano introduttorio, cui segue il commento di Roberta Tosi

Da J.K. Rowling, Harry Potter e l’ordine della fenice, Milano, Salani, 2011, pp. 326-331

Davanti c’erano Neville, Dean e Lavanda, seguiti da Call e Padma Patil con (lo stomaco di Harry fece un salto mortale all’indietro) Cho e una delle sua amiche ridoline, poi (da sola, e con aria così svagata che pareva fosse capitata lì per caso) Luna Lovegood; poi Katie Bell, Alicia Spinnet e Angelina Johnson, Colin Dennis e una ragazza di Tassorosso con una lunga treccia di cui Harry non sapeva il nome; tre ragazzi di Corvonero che era abbastanza sicuro si chiamassero Anthony Goldstein, Michael Corner e Terry Steeval; Ginny, seguita da un ragazzo alto, biondo e magro con il naso all’insù che Harry  riconobbe vagamente come un membro della squadra di Quidditch di Tassorosso, e a chiudere la fila Freud e George Weasley con il loro amico Lee Jordan, tutti e tre muniti di grossi sacchetti di carta gonfi della mercanzia di Zonko.

«Un paio?» disse Harry a Hermione, in un sussurro roco. «Un paio?»

«Be’, sì, l’idea ha avuto un certo successo» rispose allegramente Hermione.  «Ron, ti va di prendere qualche altra sedia?»

Il barista era rimasto paralizzato nell’atto di pulire un bicchiere con uno straccio tanto sporco che pareva non essere mai stato lavato. Probabilmente non aveva mai visto il locale così pieno.

«Buondì» disse Fred avvicinandosi al bancone e contando rapidamente i suoi compagni, «possiamo avere …venticinque Burrobirre, per cortesia?»

Harry rimase a guardare stordito mentre il folto e ciarliero gruppo prendeva le Burrobirre da Fred e rovistava nelle tasche in cerca di monete. Non riusciva a immaginare perché fosse venuta tutta quella gente, finché non ebbe l’orribile idea che potessero aspettarsi una qualche specie di discorso, e a quel punto si voltò verso Hermione.

«Ma cosa hai raccontato?» bisbigliò. «Cosa si aspettano da me?»

«Niente, vogliono solo sentire che cos’hai da dire» rispose Hermione cercando di tranquillizzarlo; ma poiché Harry continuava a guardarla furibondo aggiunse in fretta: «Tu non devi fare niente, adesso, parlerò prima io».

[…]

«Ecco…ehm …bene, sapete tutti perché siamo qui. Dunque, Harry ha avuto l’idea...» - Harry le lanciò un’occhiataccia - «cioè io ho avuto l’idea …che sarebbe stato meglio per chi voleva imparare Difesa contro le Arti Oscure, e intendo dire impararla davvero, non quella spazzatura che ci fa studiare la Umbridge …» - la voce di Hermione si fece all’improvviso più forte e sicura - «perché nessuno potrebbe definire quella roba Difesa contro le Arti Oscure» («Giusto!» disse Anthony Goldstein, e Hermione parve rincuorata), « …be’, ho pensato che avremmo fatto meglio, insomma, a prendere in mano la situazione».

Fece una pausa, guardò di traverso Harry e proseguì: «E con questo intendo dire imparare a difenderci sul serio, ma solo in teoria, ma con veri incantesimi …».

«Certo» rispose prontamente Hermione. «Ma ancora di più voglio essere ben addestrata nella Difesa, perché …perché …» respirò a fondo e concluse, «perché Lord Voldermort è tornato».

La reazione fu immediata e prevedibile. L’amica di Cho strillò e si versò la Burrobirra addosso; Terry Steeval ebbe una specie di spasmo involontario; Padma Patil rabbrividì, e Neville emise uno strano suono che riuscì a trasformare in un colpo di tosse. Tutti comunque fissarono intensamente, quasi avidamente, Harry.

«Be’ … il progetto è questo» continuò Hermione. «Se volete unirvi a noi, dobbiamo decidere come …»

«Dove sono le prove che Tu-Sai-Chi è tornato?» chiese il giocatore biondo di Tassorosso in tono aggressivo.

1B/ Commento di Roberta Tosi su Harry Potter e l’amicizia

La storia di Harry Potter si presenta come un vero e proprio Bildungsroman ovvero un romanzo di formazione, ovvero una forma di romanzo antichissima. Romanzi come il Perceval di Chrétien de Troyes, il poema incompiuto scritto all’epoca delle crociate o più recentemente, il giovane Holden e così via. Protagonisti sono sempre dei giovani, quando non bambini come Harry, che partono da situazioni svantaggiose in cui si percepiscono soli, inadeguati, a volte perfino disadattati, in un mondo che non comprendono così come non comprendono loro stessi… Chi è il ragazzo o la ragazza che non si è sentito o non si sente così?

Ma quello che i giovani cercano (e mi verrebbe da dire non solo i giovani) è che queste situazioni non siano permanenti, che nella vita ce la si possa fare, che le difficoltà si possano superare e che la nostra storia abbia un senso.

Un grande scrittore inglese come Chesteron diceva: “Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, i bambini lo sanno già che i draghi esistono, le fiabe insegnano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti!”

Ma nessuno “si costruisce” da solo. Per sconfiggere i draghi bisogna che qualcuno ti sia accanto per indicarti la strada. E ci vogliono anche degli amici con cui condividere il cammino…

La Rowling, in questo, più che seguire il romanzo di formazione “tradizionale” si accosta infatti a due giganti della narrativa del fantastico. C.S. Lewis, autore delle Cronache di Narnia (non per niente la storia di HP si snoda per sette libri come sette sono quelli di Narnia) e J.R.R. Tolkien sia con Lo Hobbit ma ancor di più con Il Signore degli Anelli. Ciò che infatti viene posto in risalto in questi romanzi, al di là dell’evolversi appassionante della narrazione, è proprio la compagnia in cui si vengono a formare e a trovare i loro protagonisti.

Nelle avventure di HP, scrive l’amico e saggista Paolo Gulisano, l’autrice “descrive il contesto attuale post moderno portando il lettore da una visione di uomo individualista verso una visione di uomo guidato da valori morali, quali la scelta del bene, il dono, il sacrificio, l’amicizia, l’amore. È così messo in risalto che il successo ottenuto senza fatica, la ricchezza, una vita eterna su questa terra, sono solo illusioni: ciò che veramente conta sono l’impegno, l’amicizia, l’amore”.

La parola amore è forse una delle più ricorrenti nella saga potteriana, è la parola portante di tutta la storia. Sarà grazie all’amore di sua madre che Harry potrà camminare nel mondo ma sarà anche grazie all’amore di quelli che diventeranno poi suoi amici che Harry giungerà a sconfiggere Voldemort. Ma che tipo di “amore” è quello tra amici? L’amicizia infatti è un tipo di affetto, di sentimento, non indispensabile ed è anche, volendo, il meno istintivo.

L’amicizia che si crea a Hogwarts nasce innanzitutto all’interno della casa di appartenenza, e dunque tra i Grifondoro, i Tassorosso, i Corvonero… ma questo fatto non preclude l’apertura ad altri gruppi. Il due infatti, aveva scritto proprio Lewis, non è il numero distintivo dell’amicizia, e neppure il più congeniale. Quindi non un élite ma un gruppo aperto. Il brano che abbiamo ascoltato poc’anzi, parla proprio di questo. Si può essere amici anche al di fuori del proprio gruppo di appartenenza quando si condividono gli stessi interessi, valori, obiettivi, quando si è uniti da uno scopo. Questo vuol dire che si deve essere sempre d’accordo su tutto? Assolutamente no, le voci possono essere dissonanti e perfino contrapposte. Il dialogo che si viene a creare, quando basato sul buon senso e il reciproco rispetto, diviene sempre un momento di crescita, di piacere, di riflessione. Un’infinità di volte, nel corso della storia, vediamo momenti di scontro tra Harry, Ron, Hermione. Ma questo non precluderà mai il rapporto tra loro. Uno dei primi segni della vera amicizia è anche quello di saper fronteggiare una persona cara quando si pensa che questa sia nel torto. Pensiamo a Neville, in quella scena topica proprio al primo anno di scuola quando vorrebbe impedire agli amici di compiere la loro ultima scorribanda. Proprio aver fronteggiato i suoi più cari amici gli farà meritare la menzione da parte di Silente.

E che dire di Luna, la più stravagante amica di Harry, capace però di dire la cosa giusta al momento giusto? Ma gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Harry però non instaurerà rapporti d’amicizia solo con i suoi “pari”. Anche alcune figure adulte costituiranno per lui un riferimento importante, alcune le vedremo fra poco ma tra queste ce n’è uno col quale stringe un legame fortissimo ed è Sirius Black. Amico fraterno del papà di Harry, James, Sirius sarà disposto a subire la condanna di ben 12 anni nella prigione di Azkaban pur di non tradire il suo più caro amico. E, una volta ritrovato, riverserà lo stesso affetto nei confronti di Harry. Anzi, potremmo dire che lo vedrà come un vero e proprio figlio e anche lui, per salvarlo, non esiterà a intervenire in suo soccorso morendo per proteggerlo.

Se avete notato prima, nel citare le varie case, non ho però nominato la casa di Serpeverde. Che tipo di amicizia si trova tra i Serpeverde? Di sicuro ben diversa da quella delle altre case. È un’amicizia basata sulla subalternità o al più sul cameratismo. Si sta insieme per convenienza, per sentirsi migliori o più forti. Si segue, per esempio, un capo: vedi Malfoy che è ricco, è un purosangue e dunque fa sentire chi gli sta accanto dalla parte “giusta”. Non ci si mischia con gli altri considerati inferiori. Una delle conseguenze però di questo stare insieme non basato su un vero affetto è, per esempio, la codardia. Ci si muove sempre “in branco”, non si affronta mai l’avversario, o presunto tale, da soli. E quando succede, non si ha il coraggio di arrivare fino in fondo. Anzi, se la situazione volge al peggio non si resta al fianco del presunto capo ma si fugge.

Anche nello scontro finale Voldemort è attorniato dai suoi Mangiamorte. Sono forse amici? No, sono seguaci, come capita a tutti i dittatori e spesso agli uomini di potere.

E quando la situazione non appare più così favorevole al loro “amico”, seppure di fronte a dei ragazzi, a un gruppo di adulti malandato e un castello in rovina, non esitano ad abbandonarlo o comunque a non intervenire per difenderlo. Non basta dunque avere le armate a propria disposizione: Voldemort le ha ed è anche il mago più potente di tutti ma viene fermato da Harry e dai suoi amici. Sì perché la vera amicizia si vede anche nelle difficoltà. E cosa c’è di più difficile, terribile dell’affrontare la morte?

I libri di Harry Potter, così come anche la trilogia del Signore degli Anelli, parlano di temi universali (Tolkien diceva che le fiabe parlano di cose permanenti: non di lampadine elettriche ma di fulmini) ovvero parlano di Morte e Immortalità.

Trovarsi di fronte a un pericolo così grande che mette a rischio la tua vita, anche se in quel momento sai che lo stai facendo per il tuo più caro amico, non è scontato né facile.

Nel brano che abbiamo sentito Harry ammette che di fronte a tutti i rischi che ha dovuto affrontare è stato molto aiutato dalle persone che erano accanto a lui, che gli volevano bene, dagli amici, dagli insegnanti. Anche se poi le ha dovute affrontare da solo, contava sulla loro vicinanza. Sapeva che c’erano. Nel film “l’Ordine della Fenice” che comunque hanno sempre avuto tutti la supervisione della Rowling) c’è un passaggio molto significativo in cui Harry afferma:

“Affrontare queste cose nella vita reale, non è come come a scuola. A scuola quando commetti un errore puoi sempre riprovare il giorno dopo, ma lì fuori quando sei a un istante dall’essere ucciso o vedi un amico morire davanti ai tuoi occhi, non sapete cos’è”.

E lo scopriranno cos’è, ciascuno di loro lo scoprirà, ma non si tiranno indietro. Ne avranno la possibilità. Ron, a un certo punto, durante la ricerca degli horcrux, se ne andrà. In uno scontro acceso con Harry, lo lascerà, andrà via e sembrerà voltare le spalle a tutta quella sfida impossibile e agli amici. Ma se ne pentirà. Subito dopo. E, anzi, sarà poi Ron a salvare Harry in un momento di grande difficoltà. Lui stesso a distruggere un Horcrux. Ecco infatti quello che faranno poi le persone più care per Harry. Lo aiuteranno nella sua ultima e definitiva missione e arriveranno a distruggere quasi tutti gli horcrux al suo posto. Nonostante Harry abbia visto in faccia la morte più di una volta, nonostante siano morte le persone a cui teneva di più, anzi proprio per questo, proprio perché tutte in qualche modo sono state capaci del dono più grande, ovvero dare la propria vita per amore, per salvarlo e per salvare non solo lui, che Harry capisce, comprende come la morte non sia l’ultima definitiva parola (Molto significativa, in questo senso, la storia dei fratelli Peverell descritta nel settimo libro).

Nella Pietra Filosofale, il primo libro, quando ancora non si poteva intuire l’evoluzione che avrebbe preso l’intera storia, per bocca di Silente sentiamo questa frase:

“In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova grande avventura.”

Qualcosa di simile l’aveva detto anche il Peter Pan di Barry, ricordate?

La morte non è la fine: “l’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” è la frase che si legge sulla tomba di Lily e James Potter (dalla prima lettera di san Paolo ai Corinzi).

Ed è nella certezza che il suo sacrificio ha un senso, grazie a chi gli è stato accanto fino a quel momento, grazie al dono di sua madre, che Harry si consegnerà volontariamente alla morte e per questo supererà la prova.

Come dirà infatti in quel bellissimo dialogo con Silente, alla fine del 7° libro: “Avrei dovuto morire… non mi sono difeso! Volevo che mi uccidesse!”

E Silente risponde: “E questo deve aver fatto, credo, tutta la differenza”.

Chi invece ha paura della morte, nonostante tutto, è proprio Voldemort che non ha bisogno di amici, non ha bisogno di amore se non per i propri fini utilitaristici e che rappresenta in qualche modo l’uomo che vuol farsi da se stesso, l’uomo autodeterminato, che non contempla una realtà che lo trascende, che vive schiacciato sul presente e sul proprio Io. Ricorda il superuomo profetizzato da Nietzsche. Ma proprio perché il suo orizzonte è piatto e la sua visione limitata che teme la morte e cerca in tutti i modi di esserne il signore (si fa già chiamare Lord), dando così al suo nome un’aura di sacralità, autoinvestendosi di un potere che non ha: quello di essere Signore, appunto. Questa la sua più grande debolezza e da qui il suo fallimento, perché non può comprendere come una persona possa deliberatamente scegliere di morire per salvare i suoi amici.

2A/ La famiglia. Brano introduttorio, cui segue il commento di Roberta Tosi

Da J.K. Rowling, Harry Potter e l’ordine della fenice, Milano, Salani, 2011, pp. 122-126

Quel giorno Harry si svegliò alle cinque e mezza, di colpo e completamente, come se qualcuno gli avesse urlato in un orecchio. Per qualche istante rimase disteso e immobile, mentre la prospettiva dell’udienza disciplinare riempiva ogni piccola parte del suo cervello, poi, incapace di sopportarlo, balzò fuori dal letto e inforcò gli occhiali. La signora Weasley aveva disposto i suoi jeans e la T-shirt appena lavati ai piedi del letto. Harry se li infilò. Il quadro vuoto sulla parete ridacchiò.

Ron era disteso sulla schiena, a braccia aperte, con la bocca spalancata, profondamente addormentato. Non si mosse nemmeno quando Harry attraversò la stanza, uscì sul pianerottolo e richiuse piano la porta. Cercando di non pensare alla prossima volta in cui avrebbe visto Ron, se non fossero più stati compagni di scuola a Hogwarts, Harry discese piano le scale, passò sotto le teste degli antenati di Kreacher e scese in cucina.

Si era aspettato di trovarla vuota, ma giunto davanti alla porta sentì un quieto borbottio. La aprì e vedi il signore e la signora Weasley, Sirius, Lupin e Tonks seduti, come se lo stessero aspettando. Erano vestiti di tutto punto tranne la signora Weasley, che indossava una vestaglia trapuntata viola e balzò in piedi all’ingresso di Harry.

«La colazione» disse sfoderando la bacchetta, e corse verso il camino.

«Buo-buo-buongiorno, Harry» sbadigliò Tonks. Quella mattina aveva i capelli biondi e ricci. «Hai dormito bene?»

«Sì» rispose Harry.

«Sono sta-sta-stata su tutta la notte» disse, con un altro sbadiglio che la scosse tutta. «Vieni a sederti…»

Prese una sedia e rovesciò quella accanto.

«Che cosa vuoi, Harry?» domandò la signora Weasley. «Porridge? Muffin? Aringhe? Uova e pancetta? Pane tostato?»

«Solo… Solo pane tostato, grazie» rispose Harry.

Lupin gli lanciò un’occhiata e poi disse a Tonks: «Che cosa stavi dicendo a proposito di Scrimgeour?»

«Oh… sì… be’, dobbiamo stare un po’ più attenti, ha fatto strane domande a me e a Kingsley …»

Harry si sentì vagamente grato che non gli fosse richiesto di unirsi alla conversazione. Aveva le budella attorcigliate. La signora Weasley gli mise davanti due fette di pane tostato con la marmellata d’arance; lui cercò di mangiare, ma era come masticare moquette. La signora Weasley sedette al suo fianco e cominciò a sistemargli la T-shirt, infilando l’etichetta dentro il collo e lisciando le pieghe sulle spalle. Harry avrebbe preferito che non lo facesse.

«…e dovrò dire a Silente che domani non posso fare il turno di notte. Sono t-t-troppo stanca» concluse Tonks, con un nuovo enorme sbadiglio.

Il signor Weasley si rivolse a Harry.

«Come ti senti?»

Harry scrollò le spalle.

«Presto sarà tutto finito» gli disse il signor Weasley in tono incoraggiante. «Tempo poche ore sarai scagionato».

Harry non rispose.

«L’udienza è al mio piano, nell’ufficio di Amelia Bones. È il direttore dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, ed è lei che condurrà l’interrogatorio».

«Amelia Bones è a posto, Harry» disse Tonks con fervore.  «È una persona onesta, ti ascolterà fino in fondo».

Harry annuì, sempre incapace di pensare a qualcosa da dire.

«Non perdere il controllo» intervenne Sirius all’improvviso. «Sii educato e attieniti ai fatti».

Harry annuì di nuovo.

«La legge è dalla tua» aggiunse Lupin tranquillamente. «Anche i maghi minorenni sono autorizzati usare la magia in pericolo di morte».

Qualcosa di molto freddo colò lungo il collo di Harry; per un attimo pensò che qualcuno gli stesse scagliando un Incantesimo di Disillusione, poi capì che la signora Weasley stava attaccando i suoi capelli con un pettine bagnato.

«Ma non stanno mai giù?» Chiese in tono disperato.

Harry scosse il capo.

Il signor Weasley guardò l’orologio e poi Harry.

«Andiamo» disse. «Siamo un po’ in anticipo, ma starai meglio al Ministero che qui a ciondolare» …

«D’accordo» rispose Harry automaticamente; lasciò il pane tostato e si alzò.

«Andrà una meraviglia, Harry» disse Tonks, dandogli delle pacche sul braccio.

«Buona fortuna» aggiunse Lupin.

«Sono sicuro che andrà bene».

«E se non va bene» disse Sirius cupo, «ci penso io ad Amelia Bones…»

Harry fece un debole sorriso. La signora Weasley lo abbracciò.

«Teniamo tutti le dita incrociate».

«Bene» rispose Harry. «Be’… Ci vediamo dopo».

2B/ Commento di Roberta Tosi su Harry Potter e la famiglia

Sullo sfondo della saga, ma che ne permeano il tessuto e la trama, ci sono le famiglie. Harry Potter è una storia che parla anche di famiglie. Famiglie come le nostre: imperfette, bellissime, struggenti ma anche, tristi, meschine e ambiziose. È fortissimo il senso della famiglia in questi romanzi. A J.K. Rowling il giusto riconoscimento per aver messo in risalto un tema di grande grandissima attualità, soprattutto in questi ultimi anni e di averne portato un modello, per quanto imperfetto, che riporta al centro questo fondamento della società, di quella di noi babbani e perfino di quella dei maghi.

A partire dalla prima famiglia che funge da fil rouge per tutti e sette i libri ovvero la famiglia Potter che il ragazzo non conosce affatto ma che imparerà a conoscere un pò alla volta attraverso il racconto che ne faranno gli altri, e attraverso quel racconto imparerà a conoscere meglio anche sé stesso. Anzi imparerà a ri-conoscersi: in certi gesti, in certi atteggiamenti, sia fisicamente che nel carattere. E in questo riconoscimento inizierà anche la sua crescita, imparando ad apprezzare i lati buoni e meno buoni di sè. Un cammino non facile e anche estremamente doloroso. Soprattutto il ragazzo dovrà imparare ad accettare dentro di sé, senza sentirsi in colpa, il fatto che i suoi genitori si siano sacrificati per lui. Prima il padre James e subito dopo la madre Lily, anche perché quest’ultima avrebbe avuto la possibilità di salvarsi dato che Voldemort, probabilmente l’avrebbe risparmiata avendolo promesso a Piton. Ed è proprio il suo sacrificio che garantirà a Harry una protezione speciale fino al raggiungimento della maggiore età. Allo stesso tempo, seppur inconsapevolmente, il gesto di Lily salverà anche Piton il quale, vedendo la donna che amava uccisa da chi in realtà credeva un grande uomo, lo porterà a rinnegarlo e a tradirlo diventando protettore, a sua volta e decisamente a modo suo, del figlio di Lily. Grazie all’amore di Lily, Harry alla fine sarà capace di donare la sua vita e lo stesso farà Piton, senza esitare, fino all’atto estremo.

Ma se da un lato abbiamo l’esempio della famiglia Potter, dall’altro abbiamo la famiglia Dursley: la famiglia della sorella di Lily ovvero Petunia, Vernon e Dudley. I Dursely accoglieranno infatti Harry come una vera e propria sciagura. Essi rappresentano la perfetta antitesi rispetto alla famiglia in cui il bambino è venuto al mondo. Su di Harry riversano tutto il loro astio, l’indifferenza e il fastidio di averlo e di doverlo tenere nella loro casa poiché questa gli garantisce quella protezione di “sangue” di cui ha bisogno. E Petunia, suo malgrado, aveva accettato l’ordine impartito da Silente di aver cura di Harry. Ma a casa Dursley l’aver cura assume semplicemente il significato di “farlo sopravvivere”.

Ed è quello che accadrà. Harry sopravvivrà. Non conoscendo nulla della sua storia, costantemente angariato dal cugino e dagli zii ma ce la farà, imparando a cavarsela, anche nelle situazioni difficili come quella di vivere in un sottoscala. Harry in fondo cresce in una famiglia dove vede che una forma d’amore, o più di egoismo, fluisce attraverso gli zii e il loro figlio ma non tocca Harry che vive in quella famiglia come l’orfano che è.

Alla famiglia di babbani fa da contrappeso una famiglia di maghi cosiddetti purosangue. Una delle casate più antiche e nobili nel mondo di Harry Potter ovvero la famiglia Malfoy (dal francese mal foi: ovvero cattiva fede) Lucius, Narcissa e Draco. È una famiglia dove lo status sociale conta più di tutto. Una famiglia ricchissima, all’apparenza perfetta ma talmente superba da guardare dall’alto in basso perfino gli altri maghi, tranne quelli utili al proprio tornaconto e disprezzando, senza se e senza ma, i cosiddetti nati babbani e dunque non degni di appartenere alla loro comunità. La loro famiglia, anche con la sorella di Narcissa ovvero Bellatrix, sarà una delle più devote al Signore Oscuro. Il figlio Draco cresce così in un ambiente più che protetto, coccolato e viziato, sapendo di far parte di una delle più importanti famiglie di maghi. A scuola si permetterà di bullizzare i compagni senza temere di essere punito e mostrandosi poco rispettoso perfino nei confronti degli insegnanti, sicuro della protezione del padre che riveste un ruolo significativo al ministero della magia. Draco si presenta come l’alter ego di Harry fin dall’inizio. Gli scontri tra loro non mancheranno, si perpetueranno fino alla fine ma anche la famiglia di Malfoy ha qualcosa che lega l’uno all’altra più del loro orgoglio di essere dei purosangue, più del loro essere fedelissimi di Voldemort, ovvero l’amore. Certo non un amore aperto come quello dei Potter ma pur sempre amore, almeno tra di loro. Voldemort infatti non riuscirà a prevedere, neanche questa volta, che il legame di sangue che lega un madre al proprio figlio è più forte della devozione nei suoi confronti. Sarà Narcissa infatti, quando si giungerà all’epilogo della storia, a salvare Harry appena saprà che anche suo figlio, alla fine di tutto, si è salvato grazie proprio a lui. Come se, con l’istinto della madre, Narcissa lo intuisse decidendo di risparmiare così il ragazzo.

Ho lasciato in ultimo, ma non per ultimo, la famiglia che abbiamo incontrato nel brano letto poc’anzi, ovvero la famiglia Weasley. È una famiglia di purosangue anch’essa ma, a differenza della famiglia Malfoy, oggi diremo che è una famiglia “inclusiva” ma più che usare questo termine, io direi che è una famiglia aperta. A cosa? Prima di tutto alla vita! Molly e Arthur Weasley non sono ricchi, anzi, più di una volta ci viene sottolineato questo particolare non trascurabile riguardante l’economia domestica eppure hanno ben 7 figli! (Ricorre il numero sette…). Ma tra loro, nonostante come tutte le famiglie incontrino difficoltà non da poco (essere dei maghi non vuol dire avere una vita più facile), si respira un’aria di “casa” e di vera famiglia dove ciò che s’insegna è l’amore reciproco, il rispetto, la dignità in ciò che si fa seppur piccolo o modesto, l’amicizia e la generosità. La loro casa è un porto sicuro per Harry e la loro è quella famiglia che il ragazzo non ha mai avuto. Lo accoglieranno fin da subito come un figlio, soffrendo in silenzio quando magari non ne condivideranno le scelte, ma schierandosi sempre al suo fianco nel momento del bisogno. Ciascuno dei suoi componenti ha un ruolo significativo nell’intera saga, a partire dal migliore amico di Harry, Ron, col quale condividerà ogni impresa anche quando a separarli saranno le vicende che coinvolgono Harry in prima persona.

Molly (ma bisognerebbe parlare di ciascun componente della famiglia), rappresenta quella madre affettuosa e premurosa che Harry non ha mai conosciuto. Il brano che abbiamo ascoltato poco fa ci restituisce proprio uno spaccato di vita in un momento complicato. Il preparare i vestiti stirati e puliti, la colazione, pettinare il figlio per renderlo con il suo miglior aspetto possibile rappresentano quei gesti semplici, quotidiani ma commoventi e significativi che la rendono davvero madre per Harry. Ma se Molly sembra il personaggio meno incisivo nel mondo dei maghi, è bellissimo il riscatto che proprio la Rowling le ha voluto assegnare alla fine. Nel momento in cui Bellatrix minaccia uno dei suoi figli, Molly diventerà quella tigre pronta a difendere i suoi cuccioli. Un momento davvero epico: mai dubitare delle potenzialità di una madre.

Alla fine i Weasley costituiranno anche quel punto di partenza per la famiglia che formerà Harry stesso sposando l’ultimogenita, Ginny, e che, nel percorso narrativo, si svela solo un poco per volta giungendo solamente nel sesto libro a diventare quel riferimento che poi rappresenterà per Harry.

E che dire della famiglia originaria di Voldemort? La famiglia dunque di Tom Riddle?

Tom non nasce da una relazione d’amore ma da un’infatuazione da parte della madre purosangue nei confronti del padre babbano e da un inganno, perpetrano all’insaputa di quest’ultimo che altrimenti non avrebbe mai sposato la donna. La conseguenza di questa fatto sarà che la madre non sopravvivrà al dolore di venire in seguito lasciata dal marito, una volta scoperto l’inganno, e nonostante abbia avuto un figlio da lui si lascerà morire. Il figlio nato non basterà a salvarla. La madre di Tom muore. Così come muore la mamma di Harry ma quest’ultima per una scelta di vita, l’altra per una scelta di morte. Harry Potter e Tom Riddle vivono una situazione molto simile in partenza. Entrambi sono stati abbandonati e non crescono in una situazione idilliaca. Tom in un orfanotrofio ma neanche uno dei peggiori, Harry nella situazione che abbiamo già visto. I bambini, come confermano gli studi, non concepiscono che i loro genitori non siano onnipotenti, non possano tutto, non possano, per esempio, fermare la morte e quando viene a “rompersi” questo patto, il dolore che ne deriva è lacerante. La Rowling, nel pensare al personaggio di Voldemort, disse che da un certo punto di vista Tom Riddle era una vittima: delle circostanze, di quanto era accaduto prima di lui, così come lo era anche Harry ma che poi aveva fatto le sue scelte.

La responsabilità, come ben risulta in tutta la saga, è personale. È sempre personale. Ciò che ci determina non è da dove proveniamo ma le scelte che facciamo. Il dono più grande che è stato concesso all’essere umano è il libero arbitrio. E nella saga di Harry Potter ciò che viene sottolineato è proprio l’importanza fondamentale di questa capacità, che è concessa a tutti.

Come ben ricorda Albus Silente, nella Camera dei Segreti:

“Le nostre scelte, Harry, mostrano ciò che siamo veramente, molto più delle nostre capacità”.

Voldemort sceglie di operare il male. Non ci sono finti buonismi nella saga potteriana, il male ha un nome e bisogna riconoscerlo per affrontarlo e anche questa è una questione di scelta perché, come dice ancora Silente:

“Tempi scuri e difficili ci attendono. Presto dovremo scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile”.

3A/ L’educazione. Brano introduttorio, cui segue il commento di Roberta Tosi

Da J.K. Rowling, Harry Potter e l’ordine della fenice, Milano, Salani, 2011, pp. 241-243

«Zitto!»

Una porta alla sua sinistra si aprì di colpo e la professoressa McGranitt uscì dal suo ufficio con aria cupa e un po’ infastidita.

«Si può sapere perché diamine urli, Potter?»

Scattò, «Perché non sei a lezione?»

Le tese il messaggio della Professoressa Umbridge. La professoressa McGranitt lo prese, accigliata, lo aprì con un colpo di bacchetta, lo strotolò e cominciò a leggere. I suoi occhi si spostavano da un lato all’altro del foglio dietro gli occhiali quadrati mentre scorreva le parole della Umbridge, e a ogni riga si stringevano di più.

«Entra, Potter». Harry la seguì nell’ufficio. La porta si chiuse da sola dietro di lui.

«Allora?» chiese la professoressa McGranitt, voltandosi. «È vero?»

«È vero che cosa?» chiese Harry, più aggressivo di quanto non volesse. «Professoressa?» Aggiunse, nel tentativo di sembrare più educato.

«È vero che hai urlato contro la professoressa Umbridge?»

«Sì» rispose Harry.

«E le hai dato della bugiarda?»

«Sì».

«Le hai detto che Colui-che-non-deve-essere-nominato è tornato?»

«Sì».

La professoressa McGranitt si sedette alla sua scrivania e osservò Harry, accigliata. Poi disse: «Prendi un biscotto, Potter».

«Prendo… Che cosa?»

«Prendi un biscotto» ripeté lei impaziente, indicando una scatola di latta stampata con un disegno scozzese in cima a una pila di documenti sulla scrivania. «E siediti».

Già in un’altra occasione Harry si era aspettato di venire bacchettato dalla professoressa McGranitt e invece si era visto assegnare alla squadra di Quidditch di Grifondoro. Sprofondò in una sedia di fronte a lei e preso uno Zenzerotto, confuso e spiazzato come quella volta.

La professoressa McGranitt posò il biglietto della Professoressa Umbridge e guardo Harry con molta serietà.

«Potter, devi stare attento».

Harry la fissò.

Il suo tono di voce non era affatto quello a cui era abituato; non era sbrigativo asciutto e severo; era basso e ansioso e in qualche modo molto più umano del solito.

«Una cattiva condotta della classe della professoressa Umbridge potrebbe costarti molto di più di qualche punto sottratto alla Casa e un castigo».

Suonò la campana che segnalava la fine della lezione. Sopra di loro e tutto attorno risuonarono i rumori elefantiaci di centinaia di studenti in movimento.

«Qui c’è scritto che ti ha assegnato una punizione per tutte le sere di questa settimana, a partire da domani» disse la professoressa McGranitt, guardando di nuovo il biglietto della Umbridge.

«Tutte le sere della settimana!» ripeté Harry, orripilato. «Ma professoressa, non può…?»

«No, non posso» rispose la professoressa McGranitt in tono piatto.

«Ma…»

«È una tua insegnante e ha tutti i diritti di infliggerti punizioni.

Andrai nel suo ufficio domani alle cinque per primo. Ricorda solo questo: stai attento a Dolores Umbridge».

«Ma ho detto la verità!» Esclamò Harry, offeso. «Voldemort è tornato, lei lo sa; e il professor Silente sa che…» «Per l’amor del cielo, Potter!» inveì la McGranitt raddrizzandosi gli occhiali con rabbia (aveva fatto una smorfia terribile al nome di Voldemort). «Credi davvero che c’entra la verità o le bugie? Il problema è che devi stare tranquillo e controllarti!»

«Prendi un altro biscotto» disse lei in tono irritato, spingendo la scatola verso di lui.

«No, grazie» rispose Harry freddamente.

«Non hai sentito il discorso di Dolores Umbridge al banchetto di inizio anno, Potter?»

«Sì… ha detto… che il progresso verrà proibito o… be’, voleva dire che… che il Ministero della Magia sta cercando di interferire a Hogwarts».

La professoressa McGranitt lo scrutò per un attimo, poi tirò su col naso, fece il giro della scrivania e gli apri la porta.

«Be’, sono felice che almeno ascolti Hermione Granger» disse, e gli fece segno di uscire dal suo ufficio.

3B/ Commento di Roberta Tosi su Harry Potter e l’educazione

Mi verrebbe da dire che nessun romanzo prima d’ora aveva posto così al centro il ruolo della scuola nella storia dei suoi protagonisti. Eppure, se ci pensiamo, nella prima parte della nostra vita (per alcuni anche dopo), è il luogo in cui trascorriamo la maggior parte del tempo e che occupa la maggior parte del nostro tempo anche al di fuori dell’edificio scolastico. Da qui il ruolo prezioso e fondamentale che ricopre nell’esistenza di ciascuno.

Hogwarts è una vera e propria comunità in cui seguiamo Harry all’inizio del suo viaggio, nel mondo magico, fino all’età adulta. Qui è dove il primo passo da compiere è venire assegnati in una delle case presenti ovvero le già citate Grifondoro, Corvonero, Tassorosso e Serpeverde. Una vera e propria chiamata in cui un cappello (parlante in questo caso) indica un’assegnazione precisa, un’appartenenza oserei dire secondo caratteristiche ben delineate, secondo carismi che appartengono a ciascuno dei membri di una tale casa e che noi sappiamo essere il coraggio per Grifondoro, l’intelligenza per Corvonero, la diligenza per Tassorosso e l’ambizione per Serpeverde.

Inizia così il percorso di ciascun studente a Hogwarts: una scuola per di più fondata, fin dall’inizio della sua istituzione, sull’uguaglianza di tutti i ragazzi ammessi, sia i giovani provenienti da famiglie di maghi purosangue, sia i ragazzi provenienti da quelle come la famiglia di Harry ma perfino da famiglie di babbani, per un atto di fiducia da parte dei fondatori stessi (sebbene Salazar Serpeverde non fosse per niente d’accordo su quest’ultimo punto, vinsero gli altri). Il fatto poi che gli studenti indossino tutti una divisa che caratterizza l’appartenenza alla scuola (com’è nei college inglesi), previene i possibili disagi che potrebbero scaturire da difficoltà economiche delle varie famiglie. La divisa che indossano è infatti uguale per tutti dai più ricchi ai più poveri e per questi ultimi esiste anche un fondo per sostenere chiunque ne abbia bisogno. Hogwarts è casa e protezione, finché i ragazzi si trovano lì. Lo sarà perfino per Voldemort, la scuola costituirà infatti l’unica casa che abbia davvero conosciuto, e lo sarà poi anche per Harry con esiti ovviamente molto diversi.

A Hogwarts i protagonisti si confrontano, come tutti i ragazzi, con lezioni più o meno interessanti, con professori che ne mettono alla prova sia le capacità che la sopportazione. Imparano che ci sono delle regole che vanno sempre e comunque rispettate, anche se a volte vengono infrante dal nostro protagonista e dai suoi amici. Ma i ragazzi imparano anche a rapportarsi col mondo degli adulti, vivendo così una realtà totalmente differente rispetto a quella di casa. Si vengono così a creare dei rapporti unici con tutti i protagonisti dei vari eventi che accadono e con alcuni insegnanti in particolare.

A partire dal preside, il quale non è direttamente un insegnante di Harry ma lo era stato all’inizio della sua carriera, e che costituisce quella guida, quel mentore, al fianco del ragazzo negli episodi più cruciali della storia, senza però sostituirsi a lui. Non lo farà mai. Vediamo infatti che nei momenti clou, Silente non c’è e sembra far mancare la sua presenza proprio negli episodi più importanti dove invece sarebbe richiesta. Eppure, proprio questo fatto aiuterà Harry ad aver sempre più fiducia in sé stesso, a capire che ce la può fare e che in lui, per rammentare una frase di Tolkien nel romanzo Lo Hobbit, c’è più di quanto lui stesso creda. Ma è una figura totalmente positiva quella di Silente? In realtà l’autrice svela le sue carte un pò per volta e col tempo ci rivela che anche il preside ha le sue debolezze e i suoi lati oscuri. Ma per questo vuole meno bene a Harry o è meno degno di fare il preside? Silente aveva imparato dai suoi errori e anche se non riusciva a perdonarsi forse totalmente, li aveva accettati e attraverso Harry vedeva perfino una parte migliore di sé stesso. Alla fine anche Silente deciderà di sacrificarsi, per mano di Piton, affinché Harry possa compiere la sua missione fino in fondo.

Un’altra figura importante e di riferimento per Harry e che, credo, tutti adoriamo, è quella della professoressa McGrannit, capo della casa di Grifondoro. Abbiamo appena ascoltato il dialogo che riguarda lei e Harry. La McGrannit è quel tipo di insegnante all’apparenza tutta d’un pezzo, totalmente dedita alla scuola e ai suoi studenti, che non risparmia loro nulla. Severa e giusta quando si tratta del lavoro a scuola ma anche attenta e, a suo modo, affettuosa nei confronti di chi se lo merita. Ai suoi occhi tutti gli studenti sono meritevoli ma quando qualcuno eccelle è giusto che venga valorizzato anche se non esattamente nella propria materia, così come accade a Harry divenuto fin dal primo anno un fenomeno nello sport del Quidditch, grazie proprio all’intuizione della McGrannit. Minerva sarà l’insegnate che non risparmierà neppure le proprie considerazioni nei confronti degli altri insegnanti, ma sempre cercando di essere rispettosa di fronte ai suoi studenti come quando criticherà la prof.ssa di Divinazione oppure quando si schiererà apertamente contro la professoressa Umbridge tentando, ancora una volta di tutelare la scuola da ingerenze esterne.

Ma se la McGrannit cercherà sempre di essere equa nei confronti degli studenti altrettanto non si può dire del prof. Piton. Severus Piton infatti, come precisa Ron all’inizio è il direttore della casa dei Serpeverde “e quelli della sua casa dicono che li favorisce sempre”. Ed è davvero così. Piton, a differenza degli altri insegnanti, non riuscirà mai a mettersi in gioco veramente, non si metterà in ascolto degli studenti che frequentano la sua aula, ma li tratterà tutti (eccetto quelli della sua casa appunto) con particolare fastidio (vediamo i numerosi momenti in cui, per esempio se la prende con il povero Neville). Con Harry però raggiungerà l’apice. Ogni occasione sarà buona per riprenderlo, punirlo, umiliarlo: in un rapporto che non è paritario e non può esserlo ma esercitando tutta la sua autorità, avendo in più, dalla sua, la tutela da parte di Silente che lo difende da ogni possibile attacco. Certo Piton, un pò come Silente, si svelerà solo alla fine e solo alla fine riusciamo a comprendere il combattimento che sempre lo dilaniava nei confronti di Harry e, apprendiamo come vigilasse, seppur a modo suo, affinché restasse incolume. Solo alla fine anche Harry comprenderà il valore dell’uomo che aveva avuto come insegnante. Ma anche questo fa parte di quegli insegnamenti della vita, forse i più duri, in cui spesso ci rendiamo conto del valore di certe situazioni o di certe persone, soltanto a distanza di tempo o quando le abbiamo perdute.

Tra questi nomi di educatori non possiamo non citare una delle figure più care a Harry e poi ai suoi amici ovvero quella di Rubeus Hagrid, custode delle chiavi e guardiacaccia di Hogwarts, ma poi anche insegnante di Cura delle Creature Magiche, quando dovrà sostituire un’insegnante andata in pensione (sì, si va in pensione anche a Hogwarts). Hagrid è più un amico che un insegnante per Harry, Ron e Hermione. È grazie a lui che il giovane Potter fa il suo ingresso nel mondo magico e di fronte a qualunque preoccupazione o difficoltà è nella sua capanna che Harry va a rifugiarsi per risolvere i suoi problemi. Tra loro non c’è un rapporto di subalternità. Hagrid pur essendo più vecchio, più grande e con un ruolo ben preciso, si confiderà a sua volta con loro come fossero vecchi amici. Potremmo dire che come insegnante, per Harry, non era un granché, anzi, appena ne avrà l’occasione abbandonerà le sue lezioni a causa della predilezione sconsiderata di Hagrid per le creature un pò troppo pericolose, ma come amico lo considererà uno dei più cari.

Così come diventa un vero amico anche il prof. Lupin, un insegnante di Difesa contro le arti oscure, passato solo per un anno nella Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. A volte non serve trascorrere troppo tempo insieme a una persona per rendersi conto che quella è una persona di cui fidarsi, una persona con la quale stringere un legame che si protrae poi nel tempo.

Lupin si presenta come un insegnante che sa trasmettere con passione la sua materia, coinvolgendo gli studenti in sfide sempre più interessanti e con lezioni a cui i ragazzi partecipano volentieri. Certo poi veniamo a conoscenza della sua storia e di quell’affetto speciale che nutre per Harry che lo farà restare al suo fianco fino alla fine della storia. Ma già durante l’anno scolastico, capiamo che è in grado di mostrare a Harry le sue vere potenzialità e lo aiuterà a credere di più in sé stesso anche svelandogli particolari della sua storia e di quella dei suoi genitori. Una volta cresciuto, Harry diventerà il padrino del figlio di Lupin a indicare quel legame che andava ben al di là del periodo scolastico.

E Voldemort? Anche Voldemort avrebbe voluto diventare un insegnante a Hogwarts. Avrebbe infatti voluto insegnare Difesa contro le arti oscure, richiesta sistematicamente respinta da Silente, perché qui anche Voldemort aveva stretto dei legami, non certo con gli insegnanti o gli altri allievi ma proprio con l’istituzione stessa e magari, un giorno, sognava di diventarne il preside. Non per niente, appena Silente muore, è la scuola il suo primo obiettivo: poter forgiare nuove menti, assoggettarle al proprio credo, creando una nuova generazione di maghi a lui devoti. È qui che si scaglierà con tutte le sue forze nel duello finale, e qui morirà.

Un ultimo accenno alla scuola di Hogwarts lo merita l’antico motto sullo stemma della scuola che si presenta in latino. Non una lingua corrente dunque ma una lingua antica: Draco dormiens numquam titullandus (“mai solleticare un drago che dorme”). Tutti gli incantesimi sono in latino, ci avete pensato?

E forse è questa anche un’ultima magia di Hogwarts. “Le parole - dirà Silente - sono, nella mia non modesta opinione, la nostra massima e inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo”.

A Hogwarts si riscopre anche questa lingua, dagli studenti magari non del tutto compresa o accettata, sottolineando, una volta in più, l’importanza dell’origine delle parole e del loro significato. La potenza e la bellezza che in esse si cela e il potere straordinario che, appunto, racchiudono: “Expecto Patronum”.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:25 pm | | Default

L’opera del lutto. L’Occidente ha “disneyficato” la morte, di Roger Scruton

Riprendiamo sul nostro sito brani da un saggio di Roger Scruton, pubblicati da Pangea. Rivista avventuriera di culture & idee (https://www.pangea.news/lutto-morte-occidente-roger-scruton/), il 18/10/2022. La rivista on-line spiega che Il testo di Roger Scruton, “The Work of Mourning”, riprodotto in parte, è pubblicato in anteprima su “Firts Things” e che sarà raccolto in “The Meaning of Mourning”, libro collettivo, curato da Mikołaj Sławkowski-Rode, in uscita nel dicembre del 2022 per Lexington Books. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Filosofia e Del morire.

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022)

In un saggio intitolato Lutto e melanconia, Freud si sofferma sull’“opera del lutto”, il processo psichico grazie al quale la cosa cara, perduta, viene finalmente messa a riposo, sepolta nell’inconscio, liberando l’ego dalla sua presa. Finché l’opera del lutto non è compiuta, sostiene Freud, è difficile, se non impossibile, intraprendere una nuova vita, un nuovo amore, un nuovo impegno nel mondo. Questa è la spiegazione di ciò che gli antichi chiamavano melanconia: una sorta di impotenza volontaria, in cui i morti giacciono insepolti sulla superficie della nostra coscienza, replicando a ogni richiesta di libertà con sguardi vuoti e privi di gioia.

In genere, la psicologia freudiana non mi persuade. In questo caso, però, Freud percorre una via corretta. Perdiamo molte cose nella nostra vita; alcune perdite sono radicali. Ci sottraggono una parte di noi. Dopo tali perdite, ci scopriamo in un mondo nuovo e sconosciuto, in cui ciò a cui eravamo abituati, quel sostegno caro, necessario, manca. La perdita di un genitore subita nei primi anni di vita è un’esperienza che può segnare per sempre. La perdita di un coniuge o di un figlio è traumatica, porta in dote un vuoto.

Eppure, per quanto grave sia il colpo, il lutto è una terapia che permette la sopravvivenza. Nel lutto seppelliamo i morti. Nel lutto, risuscitiamo i morti, non più come esseri viventi ma come immagini purificate, lavate da ogni colpa, trasfigurate dal perdono reciproco. Il primo effetto del dolore, infatti, è un rimprovero: al morto che è morto, a noi che siamo sopravvissuti. A poco a poco, il lutto assume la forma del dialogo, in cui chi soffre cerca e offre perdono: dimentichiamo gli errori, restiamo insieme, in pace.

Questo dialogo non è facile: si tratta di un faccia a faccia di tipo nuovo, magari dopo anni di ritrosie. Il dialogo, dicono gli psicoterapeuti, è spesso anticipato da un periodo di rabbia, di amaro rimprovero. La rabbia può diventare ossessiva, svelando, nella morte dell’altro, un piano segreto, un complotto: ti è stato sottratto proprio ciò di cui avevi bisogno. A volte il morto può riposare soltanto se lo uccidi una seconda volta, come nella poesia di Sylvia Plath, Daddy:

Papà, ho dovuto ucciderti.
Sei morto prima che ne avessi il tempo –
pesante come il marmo, sacca piena di Dio…

Il lutto è un rituale e, in certe circostanze, un dovere. Il lutto è qualcosa che dobbiamo ai morti, perché il processo del perdono reciproco deve essere eseguito affinché i morti non continuino a perseguitarci. Quando Ulisse visita l’Ade, incontra Elpenore, caduto dal tetto del palazzo di Circe, che gli chiede di essere pianto, che per lui siano espletati i riti funebri, che non sia abbandonato insepolto. Invocando la famiglia di Ulisse, Elpenore trasmette il senso del dovere, obbligo inestricabile nel tessuto d’onore dell’eroe. Elpenore ricorda la possibilità dell’ira divina: finché il dovere di pietà non sarà risolto, il cosmo è lacerato da un difetto metafisico.

Lo stesso concetto pervade l’Antigone di Sofocle, che si regge sul conflitto tra i doveri della pietà e quelli del governo, del potere. Antigone obbedisce alla necessità di seppellire il fratello morto, Polinice, che lo zio, Creonte, ha condannato a restare insepolto, fuori dalle mura della città. L’obbligo di piangere e seppellire il fratello è assoluto per Antigone, nonostante adempierlo significhi per lei procedere verso altra morte. Il punto decisivo nella tragedia di Sofocle è che Antigone deve qualcosa al fratello morto: se non risolverà quel compito, dovrà capitolare, passare dall’estasi delle anime libere, eroiche, alla fossa degli esseri spregevoli, privi di obblighi, che si lasciano semplicemente vivere.

Obblighi di questo tipo sono sempre meno riconosciuti nelle società moderne. È molto più probabile che siamo interessati a ciò che un morto ci deve, alla sua eredità, più che al lutto che gli dobbiamo. Naturalmente, ci adoperiamo ancora per i funerali dei nostri morti – ma ci attendiamo, tuttavia, che ci abbiano pensato anche loro, in vita, lasciando per quell’evento un certo budget. Certo, ci addoloriamo per loro, ma è sempre più raro erigere monumenti in memoria dei morti; ormai, è raro perfino deporre i morti in una tomba, per far loro visita. L’abitudine della cremazione, il gesto di spargere le ceneri dei morti, riflettono la concezione post religiosa sulla morte e sui morti, considerati mero nulla. Afferriamo quel nulla per lasciarlo svanire tra le nostre mani vuote. Ogni dovere, pensiamo, termina con la fine della vita.

I rituali funebri sono dunque inclini a una sorta di “disneyficazione”: poiché l’obbligo è irreale, il suo adempimento è una specie di finzione ritualizzata, opportunità per emozioni kitsch. Anche questo è un gesto terapeutico: getta sulla vita perduta una luce corrusca, la rimodella, come fosse un falso. Questa vita, questo amore, non sono stati più reali degli artefatti sentimenti mostrati nel momento ultimo: andiamo in scena, dunque, andiamo avanti.

In questo modo, tuttavia, dimentichiamo qualcosa. Chi ci è stato accanto durante la vita, non si disperde come cenere. I morti rimuginano dentro di noi, in attesa del resto che dobbiamo offrire loro. Questo è il motivo per cui, anche nell’era della cremazione, il lutto resta un rito, un carattere oggettivo e pubblico, un imperativo che ricade sulla comunità ed eleva il defunto in un luogo sicuro, da cui non fuggirà. Per quanto “disneyficato”, il rito resiste come un’urgenza morale: senza di esso saremmo perseguitati e fuggiaschi, come Ulisse è braccato dall’ostinato spettro di Elpenore.

Ma il rituale non basta. Abbiamo bisogno anche di piangere, e questa è la parte più difficile del rito perché riguarda la cura della tomba interiore, rivedere il perduto, riconoscere un attaccamento radicale e cose sradicate, che non possiamo mutare. Il pianto è un patto con la perdita, incorporandola nel nostro futuro, di modo da saldare una continuità tra ciò che siamo e ciò che siamo stati. Non piangere è scegliere di vivere a un livello inferiore, distaccati da ciò che per noi è importante, negando il passato, l’identità sorta da esso.

La religione consente di sopportare le perdite non tanto perché instilla la speranza di invertire l’ordine della morte, ma perché accoglie le perdite, le racchiude, le sigilla in un rituale protettivo: l’ostrica fa nascere una perla da un granello di sabbia. Che la religione offra o meno una dottrina consolatoria dell’aldilà – e quella dei greci era tutt’altro che consolante – essa permette un modo diretto per affrontare la perdita, inaugura un rito di passaggio a cui partecipa l’intera comunità.

La perdita è la condizione fondamentale della natura umana; le civiltà differiscono nel modo in cui la accolgono. Le Upanishad esortano a liberarci da ogni attaccamento, a elevarci in quello stato di beatitudine in cui non possiamo più perdere nulla perché nulla più possediamo. Da quell’esortazione nascono un’arte e una filosofia che immiseriscono la sofferenza e disprezzano le perdite che ci opprimono in questo mondo.

Al contrario, la civiltà occidentale ha fatto della perdita il tema principale della sua arte. Scene di lutto e di dolore abbondano nella scultura medioevale; la lirica ha per tema principale la perdita dell’amore, la scomparsa dell’amato. Non è il cristianesimo a darci questa prospettiva: l’Eneide, all’apparenza un poema della speranza, è costellato di sconfitte. Il terribile sacco di Troia, la perdita della moglie, l’orribile sorte di Didone, la morte di Anchise, la visita agli Inferi, il rovinoso conflitto contro Turno: tutto esplora i parametri della perdita e mostra che le nostre più alte speranze si accordano con la tragedia. L’Eneide è un testo religioso tanto quanto le Upanishad: il mondo di Enea è un mondo retto dal rito, fitto di luoghi sacri.

Questo atteggiamento verso la perdita riflette lo spirito interrogativo e inquieto della civiltà occidentale. La risposta occidentale alla perdita non è rimuoverla, ma sopportarla, piangerla, superarla come una forma di dolore consacrato. La religione è alla radice di questo atteggiamento. La religione ci permette di sopportare la perdita non perché promette un guadagno compensativo, ma perché la scorge in una prospettiva trascendente. La perdita concepita come sacrificio la consacra a qualcosa di più alto da sé. Soltanto in questo senso è possibile far fronte, per dire, alla perdita di un figlio: riconoscere nella perdita un esempio supremo della transizione verso un altro regno. Tuo figlio è morto in quanto offerta sacrificale, ora è un angelo che accenna alla più alta sfera, santifica la vita che ancora conduci nel mondo della materia. Questo pensiero è ovviamente rozzo. Per fortuna esistono tre grandi opere d’arte che lo trasmettono con compiutezza: Pearl, il poema medioevale di Sir Gawain; i Kindertotenlieder di Gustan Mahler; Curlew River di Benjamin Britten.

Nella nostra civiltà, la religione è la forza che ha permesso di sopportare le nostre perdite, e quindi di affrontarle come realmente nostre. La perdita della religione rende difficile sopportare la vera perdita: da qui, la fuga dalla morte, gli ornamenti, la “disneyficazione” della morte. L’uomo moderno usa droghe, eccitanti, sesso virtuale per prevenire l’amore e la morte. Rinunciare all’amore, come professano le Upanishad, è possibile soltanto se si sa amare; liberarsi del mondo richiede un immenso lavoro spirituale. In una società privata del religioso, emerge una cupa durezza del cuore, il sogno crudele che non esista dolore né lutto, che non ci sia nulla da piangere. Non esiste amore, ma divertimento. La perdita della religione, potremmo dire, è la perdita della perdita.

Tuttavia, la civiltà occidentale ha un’altra risposta per accettare la perdita. Questa risposta è l’arte. La perdita è un aspetto così centrale della nostra esperienza che le più grandi opere d’arte sono, di fatto, meditazioni sulla perdita – ogni perdita, compresa quella del Paradiso, compresa quella di Dio. Le opere d’arte trasmettono in immagini ciò che chi è fortunato ha acquisito tramite le forme elementari della vita religiosa: il concetto del sacro. Lo scienziato può aver scrutato fino in fondo la verità della nostra condizione, ma questa resta soltanto una parte della verità: la verità della vita morale, della forma umana divina, il bisogno di permanere nel sacramento, sono cose che si recuperano in altro modo. Per questo, poeti come Rainer Maria Rilke o Thomas S. Eliot sono tanto importanti per noi. Ci offrono una serie di esercizi spirituali tramite i quali i vecchi concetti del trascendente e del sacro si salvano, scossi dal loro inspessimento, resi flessibili e vitali, autentici tendini della vita interiore. Così, pur in un’era priva di fede, possiamo riscoprire le cose sacre, e percepire

una condizione di semplicità compiuta
(che costa non meno di ogni cosa)
e tutto sarà nel bene e
ogni genere di cosa sarà nel bene
quando le lingue di fuoco si piegano
nel nodo di fuoco coronato
e fuoco e rosa sono uno.

Il riferimento cristiano nel finale dei Quattro quartetti di Eliot è soltanto un’eco – richiamo a esperienze che non chiedono un credo, ma soltanto immaginazione, estro che conferisce un dono morale. Esprimono la condizione di un’anima che ha cessato di piangere non perché fuggita dall’opera del lutto, ma perché l’ha realizzata, emersa in una condizione di nuova libertà, di nuovo libera di amare.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:20 pm | | Default

Da qui passò Paolo. Tre Taverne e Foro di Appio, due località laziali attraversate dall’apostolo delle genti in catene durante il suo viaggio verso Roma, di Oreste Paliotti

Riprendiamo dal sito Città nuova un articolo di Oreste Paliotti, pubblicato il 3/5/2019 (https://www.cittanuova.it/da-qui-passo-paolo/?ms=005&se=003). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche e I luoghi della Bibbia; cfr. in particolare Itinerari dell'apostolo Paolo (tutti i luoghi antichi e moderni), di Lorenzo De Lorenzi.

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022)

«I fratelli di là [Roma], avendo avute notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre taverne. Paolo, a vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio». Di somma importanza per la storia del cristianesimo a Roma è questo passo degli Atti degli apostoli. Vi si narra l’incontro, avvenuto probabilmente nella primavera dell’anno 61 d. C., tra alcuni christifideles romani e l’apostolo Paolo, condotto prigioniero nella capitale dell’Impero con l’accusa di aver provocato gravi disordini a Gerusalemme: la più antica testimonianza della presenza, nell’Urbe, di una comunità cristiana appena pochi decenni dopo la morte di Gesù. Una comunità che doveva essere già numerosa, se appena tre anni dopo, nel 64, epoca della persecuzione seguita all’incendio neroniano, veniva descritta dallo storico Tacito come una multitudo ingens.

Nel citato brano di Luca, cui si attribuisce la redazione degli Atti, Foro di Appio e Tre taverne erano un importante luogo di sosta per quanti, provenendo da Sud (era appunto il caso di Paolo, sbarcato a Pozzuoli, e della sua scorta militare), risalivano la via Appia imboccata a Capua: la prima località era situata al XLIII miglio della regina viarum, la seconda al XXXIII, ossia circa cinquanta chilometri prima di Roma.

Il nome Tres tabernae, contrassegnato dalla vignetta di un edificio termale – e ciò dice la rilevanza del sito – compare come mansio nella famosa Tabula Peutingeriana, copia medievale di un itinerario stradale dell’Impero romano disegnato verso la metà del IV secolo d.C. Con questo termine mansio (da manere = fermarsi, rimanere) venivano definite, in età imperiale, le stazioni di sosta distribuite lungo le vie consolari per il riposo di dignitari, ufficiali o di chi viaggiasse per ragioni di Stato (lo stesso imperatore poteva alloggiarvi nei suoi spostamenti). Erano strutture di ospitalità, di solito fornite di ogni comfort, compresi i bagni termali, il presidio medico e il mercato. E tale doveva essere Tre taverne, dove il termine taberna, più che “taverna” come la pensiamo oggi, va inteso nel senso di “ostello”.

Queste anticipazioni delle moderne stazioni di servizio sulle nostre autostrade distavano in media 40 chilometri l’una dall’altra, intervallate ogni 17 chilometri da punti di sosta minori per il cambio dei cavalli. Durante l’Impero esse costituirono un importante strumento di colonizzazione e controllo delle nuove province. Col tempo, infatti, attorno ad una mansio poteva svilupparsi un vero e proprio centro residenziale. E proprio questo accadde a Tre taverne, importante incrocio della via Appia con l’asse trasversale tra i Monti Lepini e la costa. Se a ciò si aggiunge il prestigio derivante dal passaggio dell’apostolo Paolo, si comprende meglio come già all’indomani della pace religiosa sancita da Costantino nel 313 il piccolo borgo diventasse sede vescovile: ciò che suppone la presenza di un complesso ecclesiastico le cui tracce saranno forse rivelate da futuri scavi. Del primo vescovo ci è stato tramandato anche il nome: Felice.

A causa dell’impaludamento dell’area pontina attraversata dall’Appia, che determinò il progressivo abbandono dell’abitato, facendo preferire a chi viaggiava un percorso alternativo, la diocesi non sopravvisse oltre la metà del IX secolo, con un intervallo di due secoli e mezzo in cui fu trasferita a Velletri in seguito alle distruzioni longobarde della fine del VI.

Scavi recenti hanno identificato il sito di Tre Taverne al chilometro 51,1 della piana, in un’area di circa due ettari a sud di Cisterna di Latina. Qui, lungo il margine destro della moderna statale Appia, perfettamente sovrapposta al tracciato romano tra due filari di bellissimi pini marittimi, è stata rinvenuta parte di un più vasto insediamento che si estendeva su entrambi i lati della via pubblica: resti di epoche diverse e scarsamente conservati in elevato, che hanno restituito tuttavia numerosi mosaici con motivi geometrici e vegetali, insieme a frammenti di affreschi.

Chiaramente riconoscibili sono alcuni edifici di carattere commerciale, un piccolo impianto termale dai tipici pavimenti rialzati su pilastrini per la circolazione dell’aria calda, un pozzo e una cisterna per l’acqua; non mancano spazi aperti che dovevano essere sistemati a orto. È stato rimesso in luce anche un viottolo pavimentato con basoli di calcare che si diparte dall’Appia, dotato di una piazzola per consentire le manovre dei carri.

I ruderi di un grande edificio di lusso che si sviluppava attorno ad un giardino fanno invece pensare ad una funzione alberghiera per viaggiatori importanti. Uno degli ambienti, forse una sala di rappresentanza, ha restituito un mosaico policromo particolarmente raffinato: una scena agreste che vede raffigurati in primo piano due servi mentre caricano sul dorso di un mulo la preda di un cervo, mentre in alto due personaggi mollemente sdraiati sono intenti a conversare dopo la battuta di caccia.

Quanto al Foro di Appio, precedente tappa di Paolo, le prospezioni geofisiche degli archeologi hanno individuato nel sottosuolo una analoga mansio con la presenza di magazzini, di un porto fluviale, di un santuario, di panifici e laboratori per la produzione di ceramiche e metalli. Fondata probabilmente a fine IV-inizio III secolo a. C., contemporaneamente alla costruzione della via Appia, questa stazione di posta descritta da Orazio come brulicante di barcaioli e di osti malandrini rimase abitata fino agli inizi del VI secolo d.C. per venire anch’essa abbandonata nell’Alto Medioevo a causa della malaria che rendeva la vita impossibile.

Sul luogo sorge oggi Borgo Faìti, piccolo centro rurale inaugurato nel 1933 in occasione della bonifica fascista delle paludi pontine, una lapide sulla facciata della chiesa ricorda il passaggio dell’apostolo delle genti e il suo incontro con la delegazione romana. In attesa di scavi che riportino in luce l’antica mansio, ogni anno gli abitanti del posto, discendenti degli assegnatari veneti, friulani e ferraresi dei poderi bonificati, organizzano una rievocazione storico-religiosa dell’evento con costumi e scenografie d’epoca. Di nuovo un san Paolo in catene percorre con la sua scorta militare le vie del piccolo borgo e, incontrati i fratelli di fede, ne trae coraggio per affrontare ciò che lo attende a Roma.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:18 pm | | Default

Preghiera degli studenti universitari, ispirata a san Tommaso d’Aquino

Riprendiamo sul nostro sito una preghiera ispirata a San Tommaso d’Aquino utilizzata da Andrea Lonardo e dall’Ufficio per la cultura e l’università della diocesi di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Università.

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022)

Padre, nella tua Sapienza hai creato gli Angeli
e li hai posti con meraviglioso ordine in cielo;
hai disposto con grandissima armonia
la vita dell’intero universo;
Tu sei la vera sorgente della Luce e della Sapienza
e il Principio dal quale tutto dipende di ogni cosa.

Degnati di infondere nelle tenebre del mio intelletto
un raggio della tua chiarezza
che allontani da me
le tenebre del peccato e dell’ignoranza.

Tu che sciogli e fai parlare le lingue dei bambini,
ingentilisci la mia parola
e dà alle mie labbra la grazia della tua benedizione.

Dammi acutezza per intendere, capacità per ricordare,
misura e facilità nell’imparare,
penetrazione di ciò che leggo, grazia di parola.

Dammi forza per cominciare bene il mio studio,
guidami nel tempo della fatica,
conducimi fino al compimento.

E Tu Cristo Gesù, mio Salvatore,
che sei Provvidenza e grazia,
accompagnami nelle scelte:
fa che lo studio sia amore
per le persone che mi affidi e mi affiderai,
sia cammino per costruire un giorno la mia famiglia
e servire nel lavoro e nella verità questo tempo che ami,

Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:11 pm | | Default

«Ho trovato alcuni studenti di teologia che non sapevano distinguere una grazia da una tentazione». «È vero che c’è la propria Patria, questo è vero, dobbiamo difenderla. Ma andare oltre, oltre a questo: un amore più universale. E la madre Chiesa dev’essere vicina a tutti, a tutte le vittime. Anzi, pregare per il peccato degli aggressori, per questo che viene qui a rovinarmi la patria, a uccidermi i miei». «Dobbiamo fuggire dalla contrapposizione religione/scienza, perché questo è un cattivo spirito, non è lo spirito vero del progresso umano». «Il seminario dev’essere di un certo numero di seminaristi, che insieme facciano dire “la comunità”. “No, noi siamo cinque in diocesi”: questo non è un seminario, questo è un movimento parrocchiale». «I seminaristi debbono avere una seria formazione intellettuale. Questo non vuol dire che siano maestri delle idee, no. Che sappiano ragionare e che sappiano la teologia di base, con questo sono tranquillo, e ci vogliono quattro anni per la teologia di base. Che sappiano questo». «Io non uso computer e cellulari perché sono arrivato tardi. Quando sono stato ordinato vescovo, 30 anni fa, me ne hanno regalato uno. Io dissi: “No, questo non ce la faccio a usarlo”. E alla fine ho detto: “Farò una chiamata”. Ho chiamato mia sorella, l’ho salutata, poi l’ho restituito». «Lo stile di Dio è la vicinanza. Lui stesso lo dice nel Deuteronomio: “Pensa, quale popolo ha i suoi dèi così vicini come tu hai me?”». Papa Francesco ai seminaristi che studiano a Roma

Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco a seminaristi e sacerdoti che studiano a Roma, pronunciato in Aula Paolo VI il 24/10/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, cfr. la sezione Chiesa e catechesi.

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022) 

Signori Cardinali, signori Vescovi, sacerdoti!

Prima di tutto, chiedo scusa per il ritardo: davvero chiedo scusa, ma il problema è che è stata una giornataccia, perché ci sono state le visite di due Presidenti della Repubblica… Perciò questo ritardo. È un momento nel quale non è facile aspettare perché lo stomaco a quest’ora comincia a farsi sentire… Andiamo avanti.

Quando sono entrato ho visto: questo è un monumento allo stato clericale! Perché siete davvero tanti, tanti preti insieme, è un piacere. Così incominciamo.

Domanda

Santo Padre, vorrei chiederLe un consiglio sulla direzione spirituale dei giovani sacerdoti. Per i preti è facile essere guide spirituali per i laici, le religiose e coloro che sono ancora in formazione. A mio avviso, invece, è difficile per i sacerdoti cercare una direzione spirituale da parte di altri confratelli. Come consiglierebbe ai presbiteri, soprattutto a quelli giovani, di cercare questo aiuto spirituale per la loro formazione? Grazie.

Papa Francesco

Prima di tutto vi ringrazio per l’interesse, avete fatto 205 domande! Se c’è tempo, ne faremo dieci, perché questo è un po’ troppo!

Grazie Dominique. Il problema della direzione spirituale - oggi si usa più un termine meno direttivo, “accompagnamento” spirituale, che mi piace -. È obbligatoria la direzione spirituale, l’accompagnamento spirituale? No, non è obbligatorio, ma se tu non hai qualcuno che ti aiuti a camminare, cadrai, e farai rumore. A volte è importante essere accompagnato da qualcuno che conosca la mia vita, e che non è necessario sia il confessore; a volte va, ma l’importante è che siano due ruoli distinti. Tu vai dal confessore perché ti perdoni i peccati e vai preparandoti sui peccati. Vai dal direttore spirituale per dirgli le cose che stanno succedendo nel tuo cuore, le mozioni spirituali, le gioie, le rabbie e cosa succede dentro di te. Se ti relazioni solo con il confessore e non con il direttore spirituale, non saprai crescere, sarà una cosa che non va. Se ti relazioni solo con un direttore spirituale, un accompagnatore, e non vai a confessare i tuoi peccati, questo pure non va. Sono due ruoli diversi, e nelle scuole di spiritualità, per esempio quella gesuitica, Sant’Ignazio dice che è meglio distinguerli, che uno sia il confessore e un altro il direttore spirituale. A volte è lo stesso ma sono due cose diverse, che forse fa una sola persona, ma due cose diverse.

Secondo. La direzione spirituale non è un carisma clericale, è un carisma battesimale. I preti che fanno direzione spirituale hanno il carisma non perché preti, ma perché laici, perché battezzati. So che ci sono alcuni della Curia, forse qualcuno di voi, che fanno direzione spirituale con una suora che è brava, che insegna alla Gregoriana, è brava e lei è la direttrice spirituale. Vai, non c’è problema, è una donna di saggezza spirituale che sa dirigere. Alcuni movimenti hanno forse un laico saggio, una laica saggia. Questo lo dico perché non è un carisma sacerdotale. Può essere un sacerdote, ma non è esclusivamente dei sacerdoti. E per essere direttore spirituale ci vuole un’unzione grande. Per questo, alla tua domanda, direi: prima di tutto essere sicuro che io devo essere accompagnato, sempre. Perché la persona che non è accompagnata nella vita genera “funghi” nell’anima, i funghi che poi ti molestano. Malattie, solitudini sporche, tante cose brutte. Ho bisogno di essere accompagnato. Chiarire le cose. Cercare le emozioni spirituali, che qualcuno mi aiuti a capirle, cosa vuole il Signore con questo, dov’è la tentazione… Ho trovato alcuni studenti di teologia che non sapevano distinguere una grazia da una tentazione; bisogna che qualcuno mi accompagni. E questo non è necessario farlo tutte le settimane, no, tu vai dal direttore spirituale una volta al mese, ogni due mesi, quando hai materia per conferire con lui o con lei. Ma queste cose che siano chiare.

Come fare per trovare uno? State attenti, tu vedi qualcuno che ti attira per il modo in cui parla, che hai sentito da uno, dall’altro… Cerca il direttore spirituale, ma secondo quello che ho detto, credo che è importante: distinguere dal confessore, sono due ruoli diversi; è un carisma laicale, lo può fare un prete, un vescovo, una donna, un uomo laico; e poi trovare la persona che ti suscita fiducia e simpatia spirituale. Questo è molto importante, voi capite bene quello che vuol dire, quella sintonia che aiuta tanto.

Non so se ho risposto. È una cosa importante. Questo che dico adesso serva almeno perché nessuno di voi d’ora in avanti stia senza direzione spirituale, senza accompagnamento spirituale, perché non crescerà bene, lo dico per esperienza. Va bene? È chiaro per tutti? Va bene. Andiamo avanti.

Domanda

Santo Padre, potrebbe aiutarci a capire come possiamo essere nel ministero ponti tra il mondo della fede e quello della scienza? Quale consiglio concreto può dare a noi che nella pratica pastorale abbiamo la responsabilità di promuovere un dialogo, non certo una contrapposizione tra queste due aree. Grazie.

Papa Francesco

È importante non negare il ruolo della scienza, anche della scienza che va avanti, la scienza che fa ricerca, è importante, è molto importante. E le persone che studiano, ma anche se non sono ricercatori per ufficio, ogni persona, pensa agli studenti universitari, tutti dobbiamo essere aperti alle inquietudini che vengono dagli studenti. Prima di tutto, direi, ascoltare, essere aperti alle problematiche. Se vai per la strada della problematica, ti chiedi: come mai? E te lo chiedi più volte. E non dai una di quelle risposte che un tempo si usavano, nei libri fatti per rispondere a tutte le difficoltà contro la Chiesa, contro la nostra fede. Sono risposte che non servono, sono puramente teoriche, e non possiamo proporle come risposte all’altezza di un universitario che sta studiando quella specialità. Dobbiamo dare una risposta all’altezza, degna dell’uomo, e questo credo che sia molto importante: guardare con orizzonti larghi, larghi… E si può dire: “Io non conosco questo, ma tu riflettici…; l’annuncio della fede è questo, su questo punto ci sono questi orizzonti, guarda…”. Sempre aperto, e guidarlo... E puoi anche dire: “Io non so come rispondere, ma vai a trovare questa persona, quest’uomo, questa donna, questo prete, che è specialista in questo e ti può spiegare”. Non chiudere mai la porta, non chiudere. Anche se vengono da te con questioni che tu intuisci che non sono coerenti con la morale; se tu puoi rispondere, rispondi; se non puoi rispondere, cerca qualcuno che può farlo e di’: “Di questo puoi parlare con questo, con quell’altro”. Ma sempre aperto, sempre aperto. Perché un atteggiamento di difesa chiude il dialogo, chiude la porta. Aperto: “Sì, interessante…”.

Alla maggior parte delle cose possiamo rispondere noi perché le sappiamo. Quando gli studenti universitari vengono con un dubbio, vi do un consiglio: quando ti portano un dubbio da parte dell’università, per esempio, gli studenti – forse questo è il settore di maggior lavoro –, se è possibile, rispondere con un altro dubbio, e così tu sei attento e lo stesso gesto che lui fa a te tu lo fai a lui, così che non si senta troppo sicuro. “Tu mi domandi questo, bene, ma per te questo come va?”. Questo, Gesù lo faceva spesso, lo vediamo nel Vangelo. A una domanda che conteneva una trappola, Gesù rispondeva con un’altra domanda, e lasciava l’interlocutore in mezzo alla strada intellettuale. È importante rispondere così, o, se non viene, orientare a una persona che può rispondere su quell’aspetto scientifico, quell’aspetto che va contro la fede e a cui forse io non posso rispondere. Nella maggior parte dei casi, credo che si possa rispondere. Ma – è sempre un consiglio che vi do – non rispondere “all’aria”: rispondo a te, a te che mi fai la domanda. Se tu ti comprometti con questa domanda, io a te dico questo. Gesù lo faceva. Per esempio, quando guariva di sabato, diceva: “E tu? Tu non prendi la mucca per darle da bere, il sabato?” (cfr Lc 13,15). Gli faceva vedere la contraddizione nella stessa domanda. Quando sono cose scientifiche serie, che vanno oltre la nostra possibilità, dire quello che possiamo e quello che non sappiamo; dire: “Su questo devi domandare a uno che capisca di più di questa scienza”. Essere umile, avere la fede non è avere la risposta su tutto. Quel metodo di difesa della fede non va più, è un metodo anacronistico. Avere la fede, avere la grazia di credere in Gesù Cristo è essere in cammino. E che l’altro capisca che tu sei in cammino, che tu non hai tutte le risposte a tutte le domande. C’era un tempo in cui era alla moda una teologia di difesa e c’erano libri con domande per difendere. Quando io ero ragazzo era quello il metodo di difendersi. Sono risposte, alcune buone, altre chiuse ma che non fanno bene al dialogo. “Hai visto? Ti ho risposto, ho vinto io”. No, non va. Il dialogo con la scienza sempre aperto. E dire: questo non so spiegartelo, ma tu devi andare da questi scienziati, da queste persone che forse ti aiuteranno. Fuggire dalla contrapposizione religione/scienza, perché questo è un cattivo spirito, non è lo spirito vero del progresso umano. Il progresso umano farà andare avanti la scienza e anche conservare la fede.

Domanda

Caro Papa Francesco, in questo tempo di preparazione a Roma, come possiamo vivere il nostro ministero senza perdere quell’“odore delle pecore” proprio del nostro ministero sacerdotale? Grazie.

Papa Francesco

Sia per quelli di voi che studiano, sia per quelli che lavorano nella Curia o hanno qualche impiego, non è una cosa buona per la salute spirituale non avere contatto con il popolo santo di Dio, contatto presbiterale. Per questo, consiglio, anzi, dico ai Prefetti di guardare se qualcuno non ha questo ministero il sabato e la domenica, in una parrocchia o dove sia, di stare attenti e di invitare a farlo; e se non lo fa, di stare attenti e che ne parleremo. È importante mantenere il contatto con la gente, con il popolo fedele di Dio, perché c’è l’unzione del popolo di Dio: sono le pecore e, come tu dici, si può perdere l’odore delle pecore. Se tu le allontani, sarai un teorico, un teologo bravo, un filosofo bravo, un curiale bravissimo che fa tutte le cose, ma hai perso la capacità di sentire l’odore delle pecore. Anzi, la tua anima ha perso la capacità di lasciarsi svegliare dall’odore delle pecore. Per questo credo che sia importante – direi necessario, anzi, obbligatorio – che ognuno di voi abbia un’esperienza pastorale settimanale, almeno. In una parrocchia, in una casa di ragazzi o ragazze, o di anziani, qualunque sia, ma il contatto con il popolo di Dio. Mi raccomando. E dico ai Prefetti: vedete se c’è qualcuno che non lo fa: non per punirlo, ma per parlargli, perché è importante, e sta perdendo una grande forza, una grande forza della vita sacerdotale.

A me piace parlare con i preti delle “quattro vicinanze”. Vicinanza con Dio: tu preghi? Vicinanza con il vescovo: com’è la tua vicinanza con il vescovo? Sei uno di quelli che sparla del vescovo o “quanto più lontano tanto meglio”? O sei vicino al vescovo e vai a discutere con il vescovo? Terzo: vicinanza tra voi. È interessante, è una delle cose che si trovano sia nei seminari sia nei presbiteri: la mancanza di vera vicinanza fraterna tra i preti. Sì, tutti con un grande sorriso, ma poi se ne vanno e in piccoli gruppetti si spellano l’un l’altro. Questa non è vicinanza, questo è mancanza di fraternità. E la quarta: vicinanza al popolo di Dio. Se non c’è vicinanza al popolo di Dio, tu non sei un buon prete. E quella vicinanza si mantiene e si esercita con il ministero – in questo caso, settimanale.

Domanda

Buongiorno, Santo Padre. Il sacerdote è un segno dell’amore di Dio per gli uomini. Tuttavia, purtroppo, tante volte tale segno viene sfigurato a causa delle nostre mancanze. Santità, come fare per trovare un equilibrio tra l’esperienza della misericordia per le nostre mancanze e lo sforzo per vivere la virtù e raggiungere la santità? Quali, secondo Lei, sono gli aspetti più urgenti nella formazione dei seminari che vanno sottolineati e presi in considerazione affinché i seminaristi di oggi, ma pure quelli di domani, possano rispondere alla chiamata di Dio?

Papa Francesco

Grazie. Ci sono due cose diverse, in quello che hai detto. Prima hai usato una parola che a me non piace – non ti rimprovero, l’hai usata, ma non mi piace –: la parola “equilibrio”. La vita non è un equilibrio, cari, non è un equilibrio. E se tu trovi uno che pensa: “io sono equilibrato perfetto”, a questo direi: tu non sei niente! Perché l’equilibrio, che lo faccia quello che lavora nel circo, che fa quelle cose, che fa l’equilibrista. Ma la vita è uno squilibrio continuo, perché la vita è camminare e trovare, trovare difficoltà, trovare cose belle che ti portano avanti e queste ti squilibrano, sempre. Anzi, se tu hai delle pratiche da fare, è vero, hai bisogno di un equilibrio nella pratica, ma che non manchi anche quello tuo affettivo, diciamo così, che ti bilancia da una parte e dall’altra, e dire: “Io mi sento di questa parte”. Ma l’equilibrio, nella vita, è anche l’equilibrio con l’esperienza di perdono e di misericordia per il peccato. Ma grazie a Dio che siamo peccatori, caro, e grazie a Dio che abbiamo bisogno di andare tutte le settimane o ogni quindici giorni – io lo faccio ogni quindici giorni – dal confessore perché ci perdoni. E questo è uno squilibrio grande perché ti porta all’umiltà. La vita cristiana è un continuo camminare, cadere e alzarsi. Camminare un po’ solo un po’ con gli altri: non c’è una tabella di marcia. Certo, tu metti lì il navigatore sulla macchina e vai. Ci sono dei consigli di preghiera, di cose che ti aiutano a crescere. Questo è lo squilibrio. Anzi, direi il contrario: come vivere nello squilibrio, nello squilibrio quotidiano. Non avere paura dello squilibrio: siamo umani. E nello squilibrio fare il discernimento. Una persona “equilibrata” non può fare il discernimento, perché non ha mozioni di spirito. Nello squilibrio ci sono delle mozioni di Dio che ti invitano a qualcosa, alla volontà di fare il bene, a rialzarsi dopo la caduta nel peccato… Saper vivere nello squilibrio: lì si porta un equilibrio diverso. Parlerei di un equilibrio dinamico, che non sono io a poterlo reggere: lo regge il Signore. Ti va portando avanti, con l’unzione dello Spirito. Questo riguardo all’equilibrio e allo squilibrio.

Poi, la formazione dei seminari. Io credo che qui il Cardinale [Prefetto del Dicastero per il Clero] può parlare meglio di me dei seminari perché nel Dicastero sono specialisti. Per esempio, incomincio col dire: il seminario dev’essere di un certo numero di seminaristi, che insieme facciano dire “la comunità”. “No, noi siamo cinque in diocesi”: questo non è un seminario, questo è un movimento parrocchiale. Il seminario dev’essere un numero – 25, 30 – un numero moderato. Se sono 200, divisi in piccole comunità: un numero umano di gruppo, di comunità, questo è importante. I seminari grossi – 300, tutti insieme – non vanno più! Erano l’espressione di un’altra epoca. No, piccole comunità dove si lavora, ma piccole comunità inserite in una più grande.

La formazione dei seminaristi: i seminaristi devono avere una buona formazione spirituale. “Io vado al seminario, sto imparando filosofia, teologia…”. Sì, ma lo spirito, che cos’è? Prima di tutto, una buona formazione spirituale. Anche nel propedeutico. Il fine del propedeutico, oggi, è questo: abituare il seminarista al discernimento spirituale, alla formazione spirituale, alla scienza, alle scienze dello spirito. Secondo, una seria formazione intellettuale. Questo non vuol dire che siano maestri delle idee, no. Che sappiano ragionare e che sappiano la teologia di base, con questo sono tranquillo, e ci vogliono quattro anni per la teologia di base. Che sappiano questo. Ma con una bella formazione spirituale. Per questo è necessario, a volte, aggregare piccole comunità seminaristiche in una, perché ci siano professori e formatori adatti. Ho detto spirituale e intellettuale. Adesso: comunitaria. In piccoli gruppi, sì, ma vita comunitaria, devono imparare a vivere comunitariamente, e non cadere dopo nella critica uno dell’altro, nei “partiti” dentro il presbiterio, e tutto questo. Questo si impara, in un seminario. E poi, la vita apostolica. Ogni seminario ha la pratica propria della vita apostolica. Di solito, il fine settimana vanno in parrocchia: questo è molto importante, perché la vita apostolica ti dà anche questa capacità, “l’odore delle pecore” di cui tu parlavi. Ti dà la capacità di situarti nella realtà. E forse ti tocca andare con un parroco nevrotico, in una parrocchia dove ci sono dei problemi, e tu vedrai come gestire questo. E la gente delle parrocchie dove voi andate vi conosce meglio – a volte – dei superiori. La mia esperienza: quando chiedevo informazioni per promuovere uno agli ordini, sia al diaconato sia al presbiterato, quando ero gesuita, chiedevo ai fratelli coadiutori, a tanti ma sempre ai fratelli coadiutori e alla gente della parrocchia; e le migliori informazioni non mi venivano dai professori: erano buone, ma le migliori venivano dai fratelli coadiutori e dalle donne delle parrocchie. È curioso: hanno il fiuto. Ricordo un caso, un bravo ragazzo, intelligente, che doveva essere ordinato diacono, questo lo ricordo bene. Una donna della parrocchia mi disse: “Io lo farei aspettare un po’ perché è bravo, ha tutte le qualità, ma c’è qualcosa che non mi convince”. Basta. E un fratello coadiutore mi ha detto: “Padre, lo faccia aspettare un anno, non gli farà male”. Gli altri, a tutto incenso. Ho seguito quella strada, e dopo quattro mesi se n’è andato di sua volontà: era scoppiata una crisi. Questo è importante. Il popolo di Dio ti capisce bene. Dunque, la formazione in seminario ha quattro cose: la formazione spirituale dev’essere seria, direzione spirituale seria; formazione intellettuale seria, non da manuale; formazione comunitaria tra i seminaristi; e formazione apostolica.

Domanda

Santo Padre, l’odierna generazione di sacerdoti e seminaristi è immersa nel mondo digitale e dei social media. Come possiamo imparare a usare questi strumenti come opportunità per condividere la gioia di essere cristiani, senza dimenticare la nostra identità o essere troppo esposti e arroganti? Grazie.

Papa Francesco

Credo che queste cose si debbano usare, perché è un progresso della scienza, fanno un servizio per poter progredire nella vita. Io non li uso perché sono arrivato tardi, sapete? Quando sono stato ordinato vescovo, 30 anni fa, me ne hanno regalato uno, un telefonino, che era come una scarpa, grande così, no?. Io dissi: “No, questo non ce la faccio a usarlo”. E alla fine ho detto: “Farò una chiamata”. Ho chiamato mia sorella, l’ho salutata, poi l’ho restituito. “Regalami un’altra cosa”. Non sono riuscito a usarlo. Perché la mia psicologia non andava o ero pigro, non si sa. L’unica cosa che sono riuscito a usare è una Olivetti con la memoria, di una riga soltanto, che ho comprato quando ero in Germania in un Angebot, 59 marchi, niente. E questa mi ha aiutato, ed è rimasta a Buenos Aires, l’ho usata fino adesso. Non è il mio mondo. Ma voi dovete usarli, dovete usarli solo per questo, come l’aiuto per andare avanti, per comunicare: questo va bene. Ma non posso tralasciare di parlare qui dei pericoli, i pericoli di stare a guardare le notizie di qua, di là, di là e in giro tutta la giornata; o guardare quel programma che mi interessa o quell’altro, perché tu hai tutto alla mano… O mettere questa musica che mi interessa e che non mi lascia lavorare… Bisogna saper usare bene. E su questo c’è anche un’altra cosa, che voi conoscete bene: la pornografia digitale. Lo dico a chiare lettere. Non dirò: “Alzi la mano chi ha avuto almeno un’esperienza di questo”, non lo dirò. Ma ognuno di voi pensi se ha avuto l’esperienza o ha avuto la tentazione della pornografia nel digitale. È un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche, e anche sacerdoti e suore. Il diavolo entra da lì. E non parlo soltanto della pornografia criminale come quella degli abusi dei bambini, dove tu vedi in vivo casi di abusi: questa è già degenerazione. Ma della pornografia un po’ “normale”. Cari fratelli, state attenti a questo. Il cuore puro, quello che riceve Gesù tutti i giorni, non può ricevere queste informazioni pornografiche. Che oggi sono all’ordine del giorno. E se dal tuo telefonino tu puoi cancellare questo, cancellalo, così non avrai la tentazione alla mano. E se non puoi cancellarlo, difenditi bene per non entrare in questo. Vi dico, è una cosa che indebolisce l’anima. Indebolisce l’anima. Il diavolo entra da lì: indebolisce il cuore sacerdotale. Scusatemi se scendo a questi dettagli sulla pornografia, ma c’è una realtà: una realtà che tocca i sacerdoti, i seminaristi, le suore, le anime consacrate. Avete capito? Va bene. Questo è importante.

Domanda

Papa Francesco, in questi anni a Roma, insieme a un mio confratello, abbiamo seguito un gruppo di ragazzi dopo la Cresima in una parrocchia qui vicino. Tutti e due veniamo da altri Paesi. Un giorno un giovane mi ha detto: “Ma ti sei accorto che lui – riferendosi all’altro confratello – parla meglio di te l’italiano? Tu invece usi meglio le mani e i gesti”. Con questa osservazione di un ragazzo ho capito che nell’evangelizzazione tanto vale il parlare bene quanto accompagnare con le mani il discorso. Tanto importano le parole, quanto i gesti e forse per gli italiani sono i gesti che accompagnano le parole. Nella formazione verso il sacerdozio ci insegnano tanto come parlare, come usare bene le parole e la parola, a fare un discorso filosofico coerente, a interpretare la Scrittura, a fare un bel sermone in Chiesa. Tuttavia Lei, Santo Padre, ci ha fatto vedere l’importanza dei gesti, delle opere, della tenerezza concreta, e quanto sono potenti i gesti, quanto sono eloquenti i nostri gesti. Io vedo come Lei abbraccia i sofferenti, e quanto vorrei farlo pure io. Vedo come bacia i malati, e quanto vorrei farlo pure io. Vedo come tocca i bisognosi, e quanto vorrei farlo pure io. So che non si imparano i gesti dalla notte al giorno, e so che non sarò mai un sacerdote che predica con l’esempio se non imparo il linguaggio dei gesti da oggi. Come ha imparato Lei questi gesti di misericordia? Come possiamo arrivare anche noi nel seminario, come possiamo imparare questo linguaggio così importante?

Papa Francesco

Grazie. Dove ho imparato i gesti… Mah, i gesti, la vita te li insegna. Per esempio, una cosa che ho imparato dall’esperienza personale è che quando vai a visitare un malato, che sta male, non devi parlare troppo. Prendi la mano, guardalo negli occhi, di’ due parole e rimani così. Nell’intervento che hanno fatto a me, in cui mi hanno tolto una parte del polmone quando avevo 21 anni, venivano tutti gli amici, le zie, tutti a parlare: “Vai, vai ti riprenderai presto, parlerai, potrai giocare un’altra volta…”. Mi piaceva, ma mi stufava. Un giorno è venuta la suora che mi aveva preparato per la prima Comunione, suor Dolores, brava vecchia, e mi ha preso la mano, mi guardava negli occhi e mi disse: “Stai imitando Gesù”, e non ha detto niente di più. Quella mi ha consolato. Per favore, quando andate da un ammalato, non riempire di motivazioni di promesse del futuro. Il gesto della vicinanza parla più con la presenza che con le parole.

Un gesto ti ho fatto vedere. I gesti si imparano; i gesti della tenerezza li imparerai con i vecchi, andando dai vecchi. Il primo giorno li saluterai così, a distanza. Dopo due, tre volte che vai, li accarezzerai, i vecchietti. Lascia, lasciati esprimere. Lasciare che l’espressione sia totale. Anche nella predica. Una volta ho chiamato una nipote. “Come stai?” – era una domenica, a volte le domeniche chiamo mia sorella – “Come stai?”. “Bene, bene, ma un po’ annoiata perché siamo andati con il marito e i figli a Messa in quella parrocchia non abituale e ho sentito una bella spiegazione filosofica di 40 minuti, ma della Parola di Dio niente!”. Se tu non sei umano con i gesti, anche la mente si irrigidisce e nella predica dirai cose astratte che nessuno capisce, e qualcuno avrà la tentazione di andare fuori a fumare una sigaretta e tornare, come si fa… Ci sono tre linguaggi che ti fanno vedere la maturità di una persona: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore e linguaggio delle mani. E noi dobbiamo imparare a esprimerci in questi tre linguaggi: che io pensi quello che sento e faccio, senta quello che penso e faccio, faccia quello che sento e penso. Qui uso la parola equilibrio: un equilibrio fra queste cose. A volte ti viene voglia di fare uno scherzo a uno, e ti viene, ma… che sia il gesto con il pensiero e il cuore e le mani.

Quando vedo dei ragazzi malati - “quanto soffrono i bambini”, diceva Dostoevskij - i ragazzi malati, lì, carezzarli… Qualcuno ti può accusare di essere pedofilo, ma no, no, fuori da questa possibile accusa. Come i vecchietti che hanno bisogno di carezze… Ricordo che andavo con frequenza a Buenos Aires alle case di riposo, e a volte celebravo la Messa. I vecchietti sono geniali, perché ti fanno le domande più impegnative… E alla messa poi dicevo: “Chi di voi fa la comunione?”. E passavo, perché non possono camminare tante volte, sono vecchi, vanno con il bastone. E andavo: “Chi vuole comunicarsi alzi la mano”. Tutti alzavano la mano… Do la comunione a una signora, poi lei mi prende la mano: “Grazie, padre, sono ebrea”. “Ma questo che ti ho dato era pure ebreo, vai avanti”. I vecchi vogliono carezze, vogliono che li ascolti, vogliono che li fai parlare dei loro tempi, e tu imparerai tanto.

La tenerezza. Qui cadiamo nello stile di Dio. Lo stile di Dio è la vicinanza. Lui stesso lo dice nel Deuteronomio: “Pensa, quale popolo ha i suoi dèi così vicini come tu hai me?” (cfr cap. 4). La vicinanza è lo stile di Dio. Si è fatto vicino nell’incarnazione di Cristo. È vicino a noi. Sempre la vicinanza. Ma una vicinanza con compassione, perché perdona sempre, e con tenerezza. Un buon prete è vicino, compassionevole e tenero. Sicuramente è più piacevole carezzare una ragazza bella che una vecchietta - state attenti lì! - ma la tenerezza cresce e si esprime meglio negli opposti, sia nei bambini, con i bambini piccolini che ti chiamano, e con gli anziani, ma… si impara...

Una volta un mio professore di filosofia – era un grande padre spirituale, ha pubblicato tanti libri anche sugli esercizi e sono tradotti in italiano, padre Fiorito – un giorno ha dato una conferenza sui comportamenti, i fondamenti filosofici, ma è scivolato subito sulla spiritualità, e una delle sue domande io la farei a tutti voi, seminaristi, teologi: voi giocate con i bambini? Sapete giocare con i bambini? Questa domanda lui la faceva sempre ai genitori, diceva: “Tu, papà, quando torni dal lavoro, o tu mamma, giochi con i tuoi figli?”. La tenerezza si impara con i bambini e con i vecchi. E l’abitudine che c’è di allontanare i vecchi perché disturbano, questo ci allontana da una delle fonti di tenerezza. Lo stile di Dio, non dimenticarti, è sempre vicinanza, compassione e tenerezza. E se tu sei vicino, con compassione e tenerezza, sei sulla strada buona. La tenerezza non è “fare il buono”. A volte nel fare il buono si può scivolare nel fare lo stupido. No. Tenerezza è questo che ho detto.

Domanda

Buongiorno Santo Padre. Vorrei fare la mia domanda partendo da due eventi importanti della Chiesa universale: i 400 anni di Propaganda fide a servizio della missione e dell’evangelizzazione e poi il Sinodo dei Vescovi con il tema “Comunione, partecipazione e missione”. Come noi giovani seminaristi possiamo uscire dal nostro “comodismo” per evangelizzare gli altri giovani? Quali sono le sfide per noi giovani che vogliamo diventare sacerdoti nel mondo di oggi? Grazie.

Papa Francesco

Non c’è un metodo per questo. Tu usi una parola molto clericale, “comodismo”. Cioè, non disturbare il prete, il prete è impegnato, il comodismo porta tante volte i preti a cercare la propria tranquillità: io ricevo dalla tal’ora alla tal’ora… Una volta un bravo parroco di un quartiere mi diceva che voleva fare un muro dove c’era la finestra, perché la gente a qualsiasi ora andava e bussava alla finestra perché aveva bisogno di questo, di quello, di quell’altro, di una preghiera, di una Messa… E io ho detto: “E tu hai fatto il muro sulla finestra?”. Disse: “No, non posso, padre, senza la gente non sono prete”. Bella risposta quella, bella! Il comodismo. C’è una figura che sempre mi ha colpito, il sacerdote comodo, un po’ il “monsieur l’abbé” delle corti francesi, un funzionario – voi che lavorate in curia state attenti! –, il sacerdote funzionario. Il sacerdote funzionario vive il sacerdozio come se fosse un impiego. È comodo, ha i suoi orari, questo spetta a me, questo no… E così con la crescita si trasforma in uno “zitellone”, con tante abitudini maniacali, è un nevrotico quotidiano. Stai attento, stai attento a questo. Non cercare la propria comodità; il sacerdozio è un servizio sacro a Dio, il servizio di cui l’Eucaristia è il più alto grado, è un servizio alla comunità. Se tu non te la senti, parla con il vescovo, forse sarai un buon padre di famiglia, ma per favore non siate funzionari. Questa è la comodità di cui parli.

C’è un’altra cosa che accompagna questa comodità, è la dimensione “arrampicatrice”, i sacerdoti arrampicatori, che fanno carriera. Credo che si vedono… In curia no, in curia non succede! Ma da altre parti succede… Quando stai per fare un cambiamento, lì arrivano, dai, dai, dai… l’arrampicatore. Per favore fermatevi, fermatevi. Perché l’arrampicatore alla fine è un traditore, non è un servitore. Cerca il proprio vantaggio e poi non fa niente per gli altri. Io avevo una nonna a cui piaceva farci “catechesi” normali, era migrante e i migranti, con il tempo, i migranti italiani, venivano in America e facevano la casa e l’educazione dei figli… E la nonna ci insegnava: “Nella vita dovete progredire”, cioè subito i mattoni, la terra, la casa, progredire, cioè fare una posizione, una famiglia e ci insegnava questo. Ma state attenti a non confondere il progredire con l’arrampicarsi, perché l’arrampicatore è uno che sale, sale, sale e quando è su fa vedere il… La nonna diceva la parola! Ti fa vedere, lui è così, ti fa vedere quello. L’unica cosa che gli arrampicatori fanno è il ridicolo, fanno il ridicolo. Questo mi ha fatto bene nella vita. Anzi, quando vengono le informazioni per i vescovi – lei è nella Congregazione dei Vescovi e conosce come vanno le cose –, subito le informazioni dei compagni: questo è un arrampicatore, questo sta cercando il posto… State attenti, cioè la comodità e l’arrampicamento, far carriera. Quando ero giovane si usava nello spagnolo e non so se in italiano si usa: questo ha scelto la “carriera” sacerdotale. La carriera di medico, di avvocato… Oggi non si usa più, grazie a Dio, ma l’arrampicatore fa carriera, state attenti, state attenti; e se voi avete un compagno così, aiutatelo a fermarsi, a non arrampicarsi, perché alla fine farà vedere il peggio di sé stesso. E l’arrampicatore non è mai soddisfatto.

Comunione, partecipazione e missione. Sì, se hai comunione tu pensi agli altri, se hai partecipazione tu condividi con gli altri, se hai missione tu pensi agli altri. Sempre il servizio, servire. Il servizio, anche quello liturgico è un servizio. Servire agli altri, non la comodità propria. Credo che su questo non mi viene altro. Avete capito chiaramente il pericolo di cercare il proprio piacere e la propria tranquillità e il pericolo di arrampicarsi, e purtroppo nella vita ci sono tanti carrieristi. Tanti. Per favore, se qualcuno di voi ha questa tentazione, fermati, chiedi consiglio per fermarla.

Domanda

Buongiorno, Santo Padre. Grazie mille, Santità, per questa meravigliosa occasione di stare insieme a Lei. Il cammino vocazionale di un seminarista è quello che consiste sempre nel discernimento della sua vocazione. Dalla mia esperienza e da quanto so dell’esperienza degli altri, a volte – o il più delle volte – ci si accorge delle proprie debolezze, si sente la paura di non poter soddisfare le esigenze della vocazione sacerdotale, la paura di non essere felice nel ministero. O addirittura, si sente di essere attratto non principalmente dall’amore di Dio, ma da altri dettagli meno importanti che caratterizzano il sacerdozio, eccetera. Tuttavia, allo stesso tempo, si sente fortemente la chiamata di Dio dentro di sé e dalle circostanze che hanno caratterizzato il suo cammino. In questo tipo di situazione, Santità, quale potrebbe essere la strada giusta da seguire per un seminarista nel suo processo di discernimento? Più in generale: in che cosa consiste un giusto discernimento? Grazie mille, Santo Padre.

Papa Francesco

Grazie. Il giusto discernimento – prima di tutto ti dico – non consiste in un equilibrio, non consiste in questo. Quello lo fa la bilancia. Il discernimento sempre è “squilibrato”, scusa, la situazione sulla quale devi discernere è squilibrata, perché hai emozioni da questa parte, emozioni di qua, emozioni di là… Il giusto discernimento è cercare come questo squilibrio trova la strada di Dio – non “trova l’equilibrio” – perché sempre si risolve, lo squilibrio, su un piano superiore, non sullo stesso piano. E questa è una grazia della preghiera, una grazia dell’esperienza spirituale. Vai davanti al Signore con uno squilibrio, aiutato da un fratello se vuoi, e la preghiera, la ricerca di fare la volontà di Dio ti porta a risolvere lo squilibrio, ma su un altro piano. Sempre ti porta avanti, ti toglie dalla contraddizione dello squilibrio – che non è una contraddizione matematica, è una contraddizione umana – e ti porta un passo avanti. Uno squilibrio non si risolve con una delle parti soltanto, no. Ambedue cambiano verso una nuova situazione. E questa è la grazia dell’accompagnamento spirituale, che ci aiuta a trovare questa strada per risolvere gli squilibri.

“In questo tipo di situazione quale potrebbe essere la strada giusta da seguire per un seminarista nel suo processo di discernimento?”. Quello che ho detto sul discernimento. La preghiera e il dialogo con la persona che ti accompagna, che sia un sacerdote, che sia un amico, che sia una suora, che sia un laico, chiunque sia. Preghiera e dialogo.

“Più in generale, in che cosa consiste il giusto discernimento?”. Un giusto discernimento non consiste nel fatto che il risultato sia un equilibrio. Il giusto discernimento lo vedi dopo. La decisione è armonica, non “equilibrata”. Una cosa è l’equilibrio, altra cosa è l’armonia. Sono cose diverse. L’equilibrio è una cosa matematica, fisica; l’armonia è una cosa di bellezza, se vuoi dire così. L’equilibrio è fare un confronto delle parti e trovare un compromesso; l’armonia, nel discernimento, è il dono dello Spirito Santo: l’unico che può fare l’armonia è lo Spirito Santo. È un dono. San Basilio definiva lo Spirito Santo “ipse harmonia est”. Lui è l’armonia. Già entriamo nel discernimento con lo Spirito Santo dentro. Tu non puoi fare un discernimento cristiano senza lo Spirito Santo. E per questo lo squilibrio entra in preghiera, entra nella strada dello Spirito Santo, e Lui ti porta a una nuova situazione armonica. E poi si può entrare in un’altra disarmonia, e sarà lo Spirito a portarti più avanti. Non è una cosa fisica, non è una cosa intellettuale, non è una cosa sentimentale: è la grazia di ricevere lo Spirito Santo, che è armonico. E con la preghiera noi arriviamo a questa grazia di capire l’armonia dello Spirito. Non so se ho risposto bene a questo. Dimmi: hai capito? Non si tratta nel discernimento di equilibrare come una bilancia, no: di pregare, di andare avanti e lasciare che sia lo Spirito con le emozioni interiori ad andare avanti.

E poi, qual è il risultato di un giusto discernimento? La consolazione spirituale. Lo Spirito Santo, quando ti dà l’armonia, ti consola. Invece, quando tu stai con un problema, non sei in consolazione, sei in desolazione. Noi dobbiamo imparare a usare, nella nostra vita, le emozioni dello Spirito, consolazione e desolazione: questo mi fa bene, questo mi fa felice, questo mi toglie la pace… Cosa fa il Signore nel cuore e cosa fa il diavolo. Perché il diavolo esiste! San Pietro dice che gira, gira, gira per cercare chi mangiarsi. È il nostro pericolo. Ma lo Spirito è la guida. E questa è la strada: seguire lo Spirito Santo.

[Rivolto al Cardinale Lazzaro You Heung-sik] Io vorrei rispondere ancora alla decima domanda, perché è di un ucraino, e la sua Patria soffre.

Domanda

Santità, Papa Francesco, sì, sono un sacerdote ucraino. Oggi vediamo come nel mondo contemporaneo ci sono tante guerre e conflitti armati, in particolare la guerra in Ucraina. Vorrei chiederLe: quale è il ruolo che deve svolgere la Chiesa cattolica nei confronti dei territori colpiti dalle guerre, e quale sarebbe il compito dei sacerdoti in quelle regioni? Grazie.

Papa Francesco

Grazie. La Chiesa cattolica – la Chiesa, la santa madre Chiesa – è madre, madre di tutti i popoli. E una madre, quando i figli sono in litigio, soffre. La Chiesa deve soffrire davanti alle guerre, perché le guerre sono la distruzione dei figli. Come una mamma soffre quando i figli non vanno d’accordo o litigano e non si parlano – le piccole guerre domestiche – la Chiesa, la madre Chiesa davanti a una guerra come questa nel tuo Paese, deve soffrire. Deve soffrire, piangere, pregare. Deve assistere le persone che hanno avuto delle conseguenze brutte, che perdono la casa o ferite di guerra, morti… La Chiesa è madre e il ruolo prima di tutto è vicinanza alla gente che soffre. È la madre, è come una madre.

E poi è una madre anche creativa di pace: cerca di fare pace in certi momenti… In questo caso non è molto facile, ma il cuore aperto della madre Chiesa… Voi cristiani non prendete partito in questo. È vero che c’è la propria Patria, questo è vero, dobbiamo difenderla. Ma andare oltre, oltre a questo: un amore più universale. E la madre Chiesa dev’essere vicina a tutti, a tutte le vittime. Anzi, pregare per il peccato degli aggressori, per questo che viene qui a rovinarmi la patria, a uccidermi i miei: io prego per questo? E questo è un atteggiamento cristiano. Voi soffrite tanto, il tuo popolo, lo so, sono vicino. Ma pregate per gli aggressori, perché sono vittime come voi. Non si vedono le ferite che hanno nell’anima, ma pregate, pregate perché il Signore li converta e voglia venire la pace. Questo è importante.

Domanda

Buongiorno. Santo Padre, buongiorno e grazie. Ci ricorda la Ratio fundamentalis che il primo ambito in cui si sviluppa la formazione permanente è la fraternità presbiterale. Infatti, un presbiterio unito in cui i sacerdoti e il loro vescovo si sostengono a vicenda, celebrano le gioie e soffrono per le difficoltà dell’altro, contribuirebbe a rendere il presbiterio uno spazio di formazione e di comunione. Quale consiglio può darci, a partire dalla Sua esperienza di pastore, per creare nel presbiterio relazioni più fraterne e che ci aiutino ad affrontare le sfide del tempo presente? Grazie, Santità.

Papa Francesco

Ci sono tante cose. Prima di tutto, la vicinanza e il parlarsi, non fare distanza. Ai vescovi dico: i preti sono il primo vostro prossimo, state vicini ai preti. Dico loro: “Sento un prete che mi dice: Ho chiamato in episcopio per parlare con il vescovo e la segretaria mi ha detto che questo mese è pieno, forse il prossimo mese…”; penso che questo vescovo sta rovinando i sacerdoti. Vicinanza. Per esempio, l’arcivescovo di Napoli, da poco nominato, cosa ha fatto? Ha dato il numero del telefonino a tutti i preti – i napoletani sono più di mille –. “Ti molestano?” – “No, no, ma quando hanno bisogno mi chiamano, direttamente”. Questa vicinanza vale per il prete con il vescovo e anche per il prete con gli altri. Non so se questo succede qui, ma nella mia Patria succede, che ci sono dei gruppi di preti che sparlano degli altri, e ci sono quelli di destra, quelli di sinistra, quelli di qua e quelli di là... Questo è un veleno. È un veleno, un tarlo che uccide il corpo presbiterale. Unità tra i presbiteri. E se tu non hai i pantaloni per dire le cose in faccia a uno, te la mangi. Ma non vai a toglierti la fame criticando il tuo fratello sacerdote, no. Questo non è da uomini. L’uomo va e dice le cose come stanno. Con carità e con amore. E se non può dirle perché quell’altro è un po’ violento, lo dica al vescovo che è padre di tutti. Ma non dirlo a tutti gli altri. Ci vuole questa vicinanza, per evitare che il corpo sacerdotale finisca male. E il vescovo, sostenerlo a vicenda. Alle volte il vescovo è un po’ “maniaco”, ha le sue cose, perché anche i vescovi sono uomini! E finisco con questo, su come si deve fare con il vescovo, con un racconto, che pure lo raccontava la nonna. C’era una famiglia molto bella, ma il nonno che abitava con loro invecchiò, invecchiò, e incominciava a cadere la bava mentre mangiava e si sporcava. E un giorno il papà disse alla famiglia: “Da domani, il nonno mangerà in cucina. Ho fatto una bella tavola, lì andrà il nonno, e noi possiamo così invitare gente e lui da una parte”. Passano alcuni giorni e il papà torna dal lavoro e vede il figlio di sei anni che lavorava con i chiodi, il legno… “Cosa fai?” – “Un tavolino, papà!” – “Perché?” – “Per te, per quando sarai vecchio!”. I vecchi, così, si mettono da parte. Per favore, cercate di conoscere il vescovo come papà. E se uno ha la possibilità di dirgli i difetti, lo dica, come al papà. È il padre, non è un nemico né il padrone della ditta.

Grazie tante, cari! Adesso preghiamo la Madonna perché ci aiuti tutti.

[Angelus domini …]

[Benedizione]

E forse la prossima volta, vedremo le 198 domande che sono rimaste.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:08 pm | | Default

La storia di Jacques Fesch, uno degli ultimi ghigliottinati, convertitosi in carcere, di Gabriele Vecchione

Riprendiamo sul nostro sito dal suo profilo FB un post di Gabriele Vecchione pubblicato l’1/11/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Maestri nello Spirito.

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022)

Jacques Fesch, 1930-1957, ragazzone francese, ateo, ricco, aveva una compagna, un figlio legittimo e un altro illegittimo e aveva dilapidato tutti i suoi beni con auto di lusso.

Un bel giorno del 1954 entra in un cambiavalute per depredare un po’ d’oro. Colpisce il commesso con il calcio della rivoltella.

Un agente lo insegue, gli intima di alzare le mani e di arrendersi, ma Jacques Fesch si gira, mira al cuore dell’agente, gli spara e lo uccide.

Viene incarcerato a Parigi e sarà una delle ultime vittime della ghigliottina. In carcere si converte e nel suo diario spirituale scrive: “Ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita per le conseguenze del mio delitto; è allora che mi scaturì dal petto un appello di soccorso: Mio Dio, aiutami! Istantaneamente, come un vento violento che passa senza si sappia da dove viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola. Ho creduto e non capivo più come avessi fatto prima a non credere”.

Jacques inizia a vivere nel braccio della morte come fosse in un monastero. Le sue ultime parole prima di mettere la testa sotto la mannaia sono state: “Gesù mi ha promesso di portarmi subito in Paradiso”. Spudorata sfacciataggine!

Nel 1987 la diocesi di Parigi ha iniziato il processo di beatificazione. Morale della storia: un santo non è un pedante perfettino, ma uno che ricomincia sempre.

Redazione de Gliscritti | Domenica 06 Novembre 2022 - 11:06 pm | | Default

Possono i nostri morti amarci? Luigi Pirandello dinanzi alla morte della madre: eternità e temporalità della finzione letteraria e della persona umana (tpfs*), di d. Andrea Lonardo

Tutta l'opera di Pirandello sembra sostenere che l'uomo non ha identità se non quella che le viene attribuita dall'esterno. Al punto che se la società arriva a negare questa identità, ciò significa la stessa morte anticipata della persona (cfr. Il fu Mattia Pascal). Se talvolta una precisa identità viene intravista, essa si manifesta presto, però, inconoscibile all'altro, forse anche a noi stessi, tanto da non avere, appunto, alcuna precisione e “personalità”. La vita diviene così un gioco di specchi, dove ognuno è ciò che l'immaginazione dell'altro tiene in vita. La persona si perde, si identifica, si dissolve, nella maschera che si pone in viso o che da altri viene a lei posta in viso.
Questo lavoro di decostruzione della persona e della vita non viene, però, condotto da Pirandello con disprezzo e sufficienza, ma con una dolente partecipazione alla condizione dell'uomo ed alla sua disperata ricerca di trovare se stesso e di essere trovato nell'amore.
La ricerca letteraria si intreccia con la vicenda autobiografica. Vogliamo presentare uno straordinario testo pirandelliano, tratto dalla Novella Colloquii coi personaggi [1] . Esso pone l'interrogativo lancinante sulla vita eterna e sull'esistenza della persona in sé e non solo nell'altrui ricordo. Tale testo può, a nostro avviso, essere assunto a simbolo della sua intera riflessione. Pirandello ci descrive i suoi sentimenti dinanzi al pensiero della morte della madre. Qui la domanda sulla persona è portata – potremmo dire – a misurarsi con le idee di anima e di vita eterna (ed, infine, con la presenza di Dio). Se la morte sembra non poter distruggere il pensiero che Pirandello conserva, tenero, della madre (e solo la morte dell'autore siciliano “decreterebbe”, da questo punto di vista, la morte di colei che gli ha dato la vita) l'interrogativo esistenziale è se la madre possa ancora amarlo, è se lei possa avere memoria e relazione con lui, una volta lasciata questa vita.
Senza la fede cristiana nella vita eterna, il ricordo dei morti si rivela come forma cangiante, ma insieme non modificabile, del gioco dolente delle apparenze nel quale a nessun essere umano è data vera esistenza e consistenza. La nostalgia della relazione d'amore tra madre e figlio e dell'autenticità eterna di un tale rapporto sola resta ad interrogare e scuotere.

Da Colloquii coi personaggi di Luigi Pirandello [2]

...Non sono io forse viva sempre per te?
- Oh, Mamma, sì! - io le dico. – Viva, viva, sì... ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t'immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t'ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! E' caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com'eri, con la stessa realtà che per tanti anni t'ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com'io ti penso, tu non puoi più sentirmi com'io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l'avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l'avrò più in te. Tu se qui; tu m'hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più...
L'ombra s'è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronte, che per poco m'illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre. Mi alzo; m'accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d'acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s'abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. E' un moto d'onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
“Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle”.

Note

[Nota 1] Colloquii coi personaggi fu pubblicata la prima volta nel “Giornale di Sicilia”, 17-18 agosto 1915, ora in Novelle per un anno, volume terzo, tomo II, Mondadori, Milano, pp.1139-1153. La madre, Caterina Ricci-Gramitto, era morta proprio in quell'anno nella casa di famiglia e casa natale di Pirandello in una località detta “Caos”, nelle vicinanze di Girgenti (dal 1927 Agrigento). La casa è stata ora trasformata in museo, il Museo della Casa natale di Luigi Pirandello. Sotto il grande pino, non lontano dalla casa, sotto il quale Pirandello amava fermarsi per pensare, dipingere, riposarsi, scrivere, riposano ora le ceneri dell'autore siciliano.
Una versione cinematografica della novella è stata girata dai fratelli Taviani, per l'ultimo episodio del film Kaos.

[Nota 2] L.Pirandello, Novelle per un anno , volume terzo, tomo II, Mondadori, Milano, pp.1152-1153.

Per altri articoli e studi sui classici e la letteratura presenti su questo sito, vedi la pagina Letteratura nella sezione Percorsi tematici

Redazione de Gliscritti | Giovedì 03 Novembre 2022 - 4:14 pm | | Default

La ricerca solitaria di Paul Cézanne, di p. Virgilio Fantuzzi s.i.

Ripresentiamo on-line, per gentile concessione dell'autore, un articolo di p.Virgilio Fantuzzi, apparso su Civiltà Cattolica 125 (1974), pp. 554-565. Con la consueta straordinaria attenzione il gesuita italiano indaga l'animo del pittore cristiano francese Paul Cézanne, illuminandone opere e momenti di vita. Il testo traeva spunto – siamo nel 1974 - da una mostra parigina allestita per il centenario della prima esposizione degli impressionisti, ma resta pienamente intelligibile anche oggi. Lo offriamo alla lettura per un approfondimento del senso espresso nell'opera di Cézanne, che si inserisce ed, insieme, radicalmente si distingue nell'alveo dei pittori contemporanei suoi colleghi, gli impressionisti.

L'Areopago

Fra gli artisti, i poeti o i pensatori contemporanei di Paul Cézanne (1839-1906), alcuni hanno lasciato, con le inquietanti vicende della loro esistenza, una traccia indelebile nella mente delle generazioni successive. Van Gogh e Nietzsche colpiti dalla follia nel pieno della loro attività, Gauguin e Rimbaud spinti dall'insofferenza per l'ambiente d'origine verso regioni mitiche e lontane, Toulouse-Lautrec infermo e drogato, non sono che una scelta di esempi atti a confermare lo stereotipo del genio maledetto. Nulla di tutto ciò nella figura di Cézanne, schivo borghese di provincia, eternamente chiuso in una redingote nera, maculata di colore, instancabile nella ricerca di motivi pittorici nel lembo di terra che circonda la sua Aix-en-Provence.
Eppure, questo agiato figlio di un banchiere [1] ha recato una spinta definitiva all'evoluzione dell'arte moderna. La vitalità del suo messaggio è attestata dalla mostra Cézanne dans les musées nationaux allestita a Parigi presso l'Orangerie des Tuileries nel quadro delle manifestazioni per il centenario della prima mostra degli impressionisti [2] .

L'assillo del dubbio

In un celebre saggio dal titolo Le doute de Cézanne Maurice Merleau-Ponty ha messo in evidenza gli aspetti contrastanti, e a volte contraddittori, della personalità del pittore [3] .

“Aveva bisogno di cento sedute di lavoro per una natura morta, di centocinquanta pose per un ritratto. Quella che noi chiamiamo una sua opera, per lui non era che un abbozzo, un tentativo di pittura. Nel 1906, all'età di 67 anni, un mese prima di morire ha scritto:
'Mi trovo in un tale stato di turbamento mentale, in un turbamento tanto grande che temo a volte che la mia debole ragione non regga... Adesso mi pare che vada meglio; vedo più giusto nell'orientamento dei miei studi. Arriverò un giorno allo scopo tanto cercato e così a lungo inseguito? Studio sempre la natura dal vivo e mi pare di fare qualche lento progresso'.
La pittura era tutto il suo mondo, la sua sola maniera di esistere” [4] .

L'incerto peregrinare dalla Provenza a Parigi e viceversa, l'avvicinamento e insieme l'isolamento nei confronti degli impressionisti, la difficoltà nei contatti umani spinta fino alla patologia, la scelta definitiva della solitudine, aprono scarsi spiragli nel mistero che circonda la sua vita. Ciò che si riesce più facilmente ad intuire attraverso le testimonianze sulla sua persona è un grande senso del pudore. Motivi psicologici e di ordine familiare fanno di lui un essere fragile, esposto a tutti i rischi di una suscettibilità acuita dall'incomprensione che lo circonda, in contrasto con la lezione perentoria che emerge dalla sua arte.
I primi passi della ricerca pittorica di Cézanne testimoniano il suo attaccamento ai grandi maestri del Barocco. La collezione di caravaggeschi da lui ammirata nel museo di Aix e l'esempio di Delacroix hanno influenzato alcune delle sue opere giovanili riunite nella prima sala della mostra: La Madeleine pénitente (1866) e La femme étranglée (1867-70). Impeto travolgente nei gesti resi con pennellate nervose, drammatico contrasto nel chiaroscuro. Nel 1861 Cézanne giunge a Parigi e frequenta l'Académie Suisse, il pittoresco ambiente dove prendevano lezioni di disegno i giovani artisti che non erano riusciti a farsi accettare dall' Ecole des Beaux-Arts. Mentre nella scuola e nei Salons ufficiali trionfa il più smaccato stile Pompier, tra i pittori emarginati serpeggia il fuoco di una rivoluzione imminente. Sta per nascere l'impressionismo.
La novità dell'Impressionismo consiste nell'aver privilegiato un elemento della natura, il più impalpabile, ma non per questo il meno reale: la luce che diviene protagonista incontrastata del quadro. Gli oggetti appaiono ai nostri occhi immersi nella luce e nell'aria, non staccati o isolati gli uni dagli altri, ma come fusi in un amalgama di vibrazioni luminose. Per rendere nella sua immediatezza questa sensazione — come ricorda Merleau-Ponty — gli impressionisti hanno escluso dalla loro tavolozza le terre, gli ocra, i neri, utilizzando solo i sette colori del prisma [5] .L'atmosfera cromatica è resa nel quadro dal rapporto tra colore primario e colore complementare; la vibrazione luminosa si realizza nella pennellata “a virgola” e nell'interruzione continua della stesura che da compatta si fa frastagliata, punteggiata da note di colore puro e squillante. Forma e luce si condizionano reciprocamente. Esaltati dalla luce, i colori, pur ricollegandosi alla sensazione immediata, assumono un valore autonomo che non sempre coincide col tono locale. Da queste premesse alcuni, come Van Gogh, trarranno estreme conseguenze.
Al suo contatto con gli impressionisti, ed in particolare con Pissarro, Cézanne deve sia lo schiarimento della tavolozza, sia lo stimolo che lo ha spinto a concepire la pittura non come la proiezione dei suoi sogni fantastici, bensì come lo studio minuzioso delle apparenze sensibili della natura. Nello stesso momento in cui si avvicina agli impressionisti, egli si sente diverso da loro. La preoccupazione, propria del movimento, di captare l'atmosfera che circonda l'oggetto, arriva a far perdere alle cose dipinte il loro volume reale, il loro peso specifico. Cézanne non poteva ritenersi soddisfatto di questi risultati.
Nella sua tavolozza non ci sono soltanto i sette colori del prisma, ma diciotto colori: sei rossi, cinque gialli, tre blu, tre verdi, un nero. L'impiego dei colori caldi e del nero indica che Cézanne vuole rappresentare l'oggetto, ritrovarlo dietro l'atmosfera, ed in ciò il suo scopo si differenzia da quello degli impressionisti. Allo stesso tempo egli rinuncia alla scomposizione del tono in colori complementari, preferisce le misture graduate, uno sviluppo di sfumature cromatiche sull'oggetto, una modulazione di colore che accompagna la forma e l'inclinazione della luce. L'oggetto non è più coperto di riflessi, perduto nel suo rapporto con l'aria, confuso tra le cose che lo circondano, ma come illuminato dal di dentro; la luce emana dal suo interno. Ne risulta un'impressione di solidità riflessa e costruita [6] .
Ad ogni modo, quando nel 1874 un gruppo di pittori rifiutati dalla giuria del Salon espose nello studio del fotografo Nadar una serie di opere in contrasto con la sensibilità estetica dominante, assieme a Degas, Monet, Pissarro, Renoir, Sisley, c'era anche Cézanne, presente con due opere (Une moderne Olympia e La maison du pendu). In quell'occasione un critico coniò, con intento denigratorio, il termine Impressionismo, che da allora denominò il movimento. [7] La bagarre che si scatenò attorno agli adepti delle nuove tendenze visive fu condotta senza risparmio di colpi. Non ci si fermò nemmeno di fronte agli attacchi personali; gli impressionisti furono gratificati di epiteti disonoranti, trattati come ubriachi o schizofrenici. Emile Zola, amico d'infanzia di Cézanne, si buttò con ardore nella mischia [8] . Cézanne non se la sentiva di lavorare in questo clima. Ciò che desiderava era la quiete necessaria per poter riflettere. La mancanza di un riconoscimento autorevole nei confronti della sua arte pesò su di lui per tutto il resto della vita, aggravando i suoi dubbi e la sua pena.
Aveva letto un romanzo di Balzac, Le chef-d'oeuvre inconnu (1850), che descrive la faticosa salita del vecchio pittore Frenhafer verso le vette della perfezione assoluta, inattingibile, e si era sorpreso, di tanto in tanto, a ripetere “Frenhafer sono io”. Quando Zola pubblicò L' oeuvre, un pannello del ciclo naturalista dei Rougon-Macquart, dove sotto le spoglie di un pittore fallito (Claude Lantrier) era possibile ravvisare le sembianze di Cézanne, questi capì che un altro legame si era spezzato. Zola non aveva capito nulla del dramma vissuto in quegli anni dal suo grande amico. Isolato dal mondo, abbandonato dai suoi vecchi compagni di lotta, Cézanne ha potuto pensare per un momento che forse Zola aveva ragione. In fondo, il romanziere non aveva fatto che tradurre in un libro quello che tanti altri pensavano. La tentazione dello scoraggiamento si presentò alla mente di Cézanne nella forma più cruda. Non c'era che lui ad avere fiducia in se stesso.

Trattare la natura attraverso il cilindro e la sfera

Il rapporto tra pittura e percezione implica un processo di selezione e sistematizzazione del dato sensibile che, nell'ambito della tradizione occidentale, è affidato ad alcuni elementi di individuazione, quali la linea, il piano, il volume, il colore. La pittura, come ogni altro genere di linguaggio, non va considerata alla stregua di un calco della realtà. E' stato osservato, a proposito delle lingue parlate o scritte, che a ciascuna di esse corrisponde una particolare organizzazione dei dati dell'esperienza [9] ; lo stesso vale, a maggior ragione, per le forme di espressione e comunicazione dotate di una struttura più complessa di quella delle lingue, come è il caso della pittura. I recenti studi semiologici hanno cercato di estendere al di fuori del campo delle lingue alcuni concetti della linguistica, quali la distinzione tra testo e codice, sincronico e diacronico... L'esperienza ha dimostrato che non è facile applicare questi concetti all'analisi del linguaggio pittorico. D'altra parte risulta evidente, anche sulla base degli studi storico-artistici tradizionali, che ogni pittore ha utilizzato a modo suo i materiali precedentemente accumulati. Ci sono dei codici iconografici, ed è lavorando sui codici del passato, negandoli, trasponendoli, trasformandoli, che il pittore ne produce di nuovi. Da che esiste la pittura, gli artisti che vi si sono applicati hanno svolto attraverso di essa un discorso che riguarda non solo le cose riprodotte, ma anche il modo di riprodurle.
In Europa, dal Rinascimento in poi, il modo di vedere tipico della pittura è stato determinato dalle leggi della prospettiva. La scoperta, o meglio riscoperta, della prospettiva, oltre a rappresentare un capitolo avvincente della vicenda scientifica e artistica che appassionò Firenze nei primi decenni del Quattrocento, è insieme il momento culminante di un processo di razionalizzazione applicato alle arti figurative. Piero della Francesca, che nel suo trattato De prospectiva pingendi ha dato una sistemazione scientifica alla materia che era già stata trattata in maniera empirica da Ghiberti, Brunelleschi e Alberti, dimostra nella maniera più lampante che la realtà non si copia, ma la si ricostruisce architettonicamente, riferendo ciascun solido al modello ideale dei corpi regolari. Sarebbe errato pensare che l'introduzione della prospettiva detta scientifica nell'ambito della pittura abbia rappresentato l'esigenza di una visione neutra e oggettiva della realtà. Al contrario, l'astrazione geometrica conferisce al mondo delle forme le caratteristiche proprie di una concezione intellettualmente raffinata della vita, presente anche in altre espressioni della cultura umanistica, come la filosofia e la letteratura. Nel momento in cui i pittori si rendono conto di agire su degli schemi visivi ereditati dalla tradizione, e di operare nel senso di una evoluzione che li renda atti ad esprimere nuovi aspetti della conoscenza, la pittura acquista una duplice funzione linguistica; da linguaggio si fa metalinguaggio; sviluppa una sua dimensione interna che è la riflessione sulla specificità dei suoi mezzi espressivi. Anche l'Impressionismo, il movimento dal quale trae origine tutta l'arte moderna, si è posto dei problemi sulla natura del linguaggio pittorico. Da una parte vi è il rifiuto di ogni precedente schematismo, ivi compresa la prospettiva di origine umanistico-rinascimentale, dall'altra la valorizzazione della percezione come operazione autonoma della mente e insostituibile esperienza della vita. Per il pittore del Rinascimento il dato sensibile non è che un elemento da elaborare concettualmente; per l'impressionista la pittura tende a restituire alla percezione del dato tutta l'originalità e integrità iniziale. Da principio, questa presa di posizione non fu cosciente. I primi impressionisti sembrano muovere i loro passi indipendentemente gli uni dagli altri, mentre l'unico intento comune, violentemente avvertito, è la reazione contro l'artificiosità dell'accademismo allora imperante.
Quello che mancò agli impressionisti fu il momento intermedio tra sensazione e realizzazione, rappresentato dalla costruzione e dall'ideale geometrico; attraverso il loro procedimento la tela non poteva più riferirsi alla natura punto per punto, mentre la verità generale dell'impressione era affidata all'azione delle diverse parti del dipinto destinate ad agire le une sulle altre. Cézanne, che nel delicato rapporto tra sensazione e realizzazione non riuscì mai a prescindere dal momento costruttivo, fece di questo elemento intermedio il supporto essenziale del suo stile, foggiandolo come uno scheletro per sostenere e ordinare la sua sensibilità. E' a causa di questo scheletro che egli fu capace di dare alle sue emozioni una forma semplificata e una indipendenza dalla natura, sconosciute prima [10] .
L'arte di Cézanne si rivela in tutta la sua pienezza nei paesaggi dipinti a partire dal 1879. Sono le rocce dell'Estaque che chiudono ad occidente il Golfo di Marsiglia, la valle dell'Arc dominata dalla montagna Sainte-Victoire, i tetti aguzzi di Gardanne dove il pittore soggiornò qualche tempo. Talvolta, come nel Pont de Maincy (1879), uno specchio d'acqua dolce accoglie i riflessi della vegetazione circostante. La struttura compositiva si risolve in pennellate dense, cariche di vibrazioni cromatiche, sì che tutto appare come sospeso in un equilibrio immobile e insieme cangiante. Cézanne ha il dono di combinare tra loro le qualità dei contrari. Solido e liquido, fragile e duraturo, caldo e freddo, luminoso e opaco, sono aspetti desunti dalle molteplici apparenze del reale, e combinati attraverso un procedimento mentale dove l'intuizione si associa alla deduzione, la logica al sentimento, la concretezza all'astrazione.
La stessa pienezza di significato che si nota nei quadri, si può riscontrare nei disegni e negli acquarelli. Questi ultimi, vere e proprie opere di sintesi, più che rappresentare una fase intermedia nell'elaborazione di un soggetto, sono la rivelazione di ciò che di più intimo costituisce la visione dell'artista. Qui la semplificazione, la riduzione del “motivo” ai suoi elementi volumetrici essenziali, raggiunge la forma più pura.

“I piatti o le coppe messe di profilo su una tavola dovrebbero essere delle ellissi, ma i due estremi dell'ellissi sono ingranditi e dilatati. La tavola di lavoro nel Portrait de Gustave Geffroy (1895) si allunga verso la parte bassa del quadro contro le leggi della prospettiva [...].
“Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra la sensazione e il pensiero, come tra il caos e l'ordine. Egli non vuole separare le cose immobili che appaiono sotto il nostro sguardo, e la fuggevolezza del loro modo di apparire. Vuole dipingere la natura nell'atto di darsi forma, l'ordine che nasce attraverso una organizzazione spontanea [...].
“Le ricerche di Cézanne in materia di prospettiva anticipano, per via della loro fedeltà ai fenomeni, i dati che la psicologia recente doveva formulare. La prospettiva vissuta, quella della nostra percezione, non è la prospettiva geometrica o fotografica. Dire che un cerchio visto obliquamente appare come un'ellissi, significa sostituire alla percezione effettiva lo schema di quello che dovremmo vedere se avessimo, al posto degli occhi, un apparecchio fotografico: noi vediamo infatti una forma che oscilla attorno all'ellissi senza essere un'ellissi” [11] .

Queste osservazioni di Merleau-Ponty sottolineano l'aspetto più intrinseco dell'arte di Cézanne: la grande innovazione stilistica, frutto della sua intensa riflessione. Non è un caso se a porre l'accento sulla peculiarità del costruttivismo cézanniano è un filosofo che, coll'attenzione prestata alla “struttura del comportamento'' e alla “fenomenologia della percezione”, ha inteso elaborare una nuova ontologia esistenziale fondata sulla interrelazione tra la coscienza e il mondo oggettivo. Al tempo di Cézanne un altro filosofo francese, Bergson, aveva compiuto uno sforzo energico per superare gli schemi positivistici che imbrigliavano la cultura ufficiale. Il suo Essai sur les données immédiates de la conscience (1889), nel quale veniva illustrato il modo di essere della vita interiore, irriducibile a quello delle cose su cui ha presa la scienza, è stato interpretato come una maniera di procedere, sia pure su una linea parallela, nella stessa direzione verso cui si muoveranno gli impressionisti.
Si apre qui il problema dell'influenza di Cézanne sui movimenti artistici succeduti all'Impressionismo, anche se nell'attribuire ai cubisti uno spiccato ascendente cézanniano non sono mancate frettolose generalizzazioni. L'analogia tra alcuni procedimenti di ricerca sviluppati dal maestro e il metodo adottato dai cubisti, se da una parte si basa su un innegabile legame di parentela, dall'altra è caratterizzato da precise ed inequivocabili differenze. Nel suo processo di astrazione applicato alla realtà Cézanne non è mai andato oltre un certo limite, quello che permette agli oggetti di sussistere, attraverso la trasfigurazione pittorica, nella loro concretezza fisica. E' noto il brano di una sua lettera del 1904 a Bernard.

“Bisogna trattare la natura attraverso il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva, in modo che ogni parte di un oggetto, di un piano, sia diretta verso un punto centrale. Le linee parallele all'orizzonte esprimono la larghezza, che è un aspetto della natura, o se preferite dello spettacolo che il Pater Omnipotens Aeterne Deus dispiega davanti ai vostri occhi. Le linee perpendicolari all'orizzonte rappresentano la profondità. Per noi uomini la natura è più in profondità che in superficie; di qui la necessità d'introdurre nelle nostre vibrazioni luminose, rappresentate dai rossi e dai gialli, una certa dose di toni blu per far sentire l'aria” [12] .

Dato che nei quadri di Cézanne, a prima vista, cilindri e sfere non se ne scorgono, appare chiaro che la sua celebre frase, che sarà applicata alla lettera dai cubisti, per lui conserva il valore di una aspirazione ideale, la stessa che gli faceva dire in un'altra occasione:

“Il metodo si manifesta a contatto con la natura, e si sviluppa attraverso le circostanze. Questo metodo consiste nel cercare l'espressione di ciò che uno sente, nell'organizzare la sensazione all'interno di una estetica personale” [13] .

Come ha osservato Dell'Acqua, Cézanne non ha inteso rinnegare il linguaggio impressionistico per far ritorno alla forma plastica ottenuta mediante il disegno e il modellato a chiaroscuro tradizionale, né aveva di mira, come i cubisti, un'analisi integrale dei vari piani degli oggetti e la loro simultanea ed astratta proiezione in superficie. La sua dichiarata volontà di “solidificare” e sottomettere ad una norma geometrica le apparenze visive non significa se non l'ansia di ricreare, fondandosi esclusivamente sul colore puro, un universo pittorico meditato e costruito in ogni giuntura con paziente applicazione [14] .

Dimensione morale della pittura

Sulle pareti rocciose della Sainte-Victoire le nubi, sospinte dal maestrale, proiettano ombre fugaci che si alternano a bagliori improvvisi. La montagna pare avvolta da una spirale vorticosa che esalta il gioco dei volumi pluriformi. Bisogna aver visto le sue creste, nette come il cristallo, stagliarsi nel cielo di Provenza, o trascolorare sotto gli ultimi raggi del sole al tramonto, per capire l'intensità della passione che Cézanne ha nutrito, in tutta la sua vita, per questo magico paesaggio, l'assiduità con la quale ne ha scrutato ogni aspetto.
I rari testimoni della sua attività dicono che cominciava con lo studiare la struttura geologica del paesaggio. Le lunghe camminate a piedi, le escursioni in montagna, gli fornivano un contatto diretto, duro e sofferto, con la natura. Si trattava poi di superare i dati della scienza e i risultati della constatazione empirica per captare la vita stessa del paesaggio inteso come organismo in formazione. Bisognava saldare le une alle altre tutte le visioni parziali che l'occhio coglieva come di sfuggita, riunire ciò che si disperde nella versatilità dello sguardo [15]
L'arte di Cézanne nasce dal rapporto con la natura, meno immediato di quello degli impressionisti, meno istintivo, più meditato e profondo. Egli non può concepire la pittura al di fuori di questo rapporto; tutta la sua opera non è che un dialogo con le cose, nature morte e paesaggi, oggetti nei quali ha cercato di carpire un segreto attraverso ore di solitaria contemplazione.
Non aveva fretta. Attendeva per ore, nascosto come una lucertola, che la luce cambiasse d'inclinazione sulle rocce della montagna, spiava i mutamenti lenti e solenni della natura. Aveva visto come l'acqua corrode le pietre nel greto del fiume, come il vento lima la roccia soffiando nei crepacci, come gli alberi si piegano e resistono nel turbine di un uragano... Col suo modo di dipingere voleva imitare gli stessi procedimenti della natura.

“Se il pittore vuole esprimere il mondo, bisogna che la disposizione dei colori porti in sé questo Tutto indivisibile; altrimenti la sua pittura sarà una allusione alle cose e non le tradurrà nella loro unità imperiosa, nella loro presenza, in quella pienezza insuperabile che, per noi tutti, è la definizione del reale. E' per questo che ogni pennellata deve soddisfare ad una infinità di condizioni; è per questo che Cézanne meditava talvolta per un'ora intera prima di eseguirla; la pennellata, come dice Bemard, 'deve contenere l'aria, la luce, l'oggetto, il piano, il carattere, il disegno, lo stile'. L'espressione di ciò che esiste è un compito infinito” [16] .

E' di nuovo il filosofo della “fenomenologia della percezione” che parla. Come il platonismo fiorentino del Quattrocento può aiutarci a capire l'arte di quei lontani pittori, basata sull'astrazione della prospettiva geometrica, o meglio sulla tensione che tale astrazione provoca entrando in gioco con il realismo che di quella pittura non fu una componente secondaria, così la fenomenologia aiuta a comprendere l'impressionismo e in particolare l'arte di Cézanne. A chi gli faceva notare che per i pittori classici un quadro esige precisione nei contorni, equilibrio nella composizione e distribuzione delle luci, Cézanne rispondeva:

“Essi facevano dei quadri; noi tentiamo dei pezzi di natura”.

Diceva dei maestri che essi

“sostituivano la realtà con l'immaginazione e con l'astrazione che l'accompagna”

e della natura che

“bisogna inchinarsi di fronte a quest'opera perfetta. Da essa tutto deriva, per essa noi esistiamo, dimentichiamo il resto” [17] .

Fenomenologo ante litteram, Cézanne ha analizzato con estrema lucidità il suo rapporto con quel “tutto indivisibile” che è il mondo, ha colto la “definizione del reale” nella sua “pienezza insuperabile”, ha “tradotto le cose” nella loro “unità imperiosa”.
Non c'è chi non veda come i termini impiegati da Merleau-Ponty per definire l'esperienza cézanniana contengono la descrizione di un preciso itinerario spirituale. Si parte dalla percezione del mondo, dall'apertura nei confronti di tutti i suoi aspetti, e si giunge al senso di unità che emana dalla coscienza della propria presenza nel mondo. Qualcuno potrà osservare che il filosofo, preso al laccio dalla sua ammirazione per l'artista, finisce col proiettare sul pittore la sua stessa visione del mondo. La controprova delle affermazioni di Merleau-Ponty la si può avere analizzando una delle tante nature morte di Cézanne, dove la trasformazione della frutta, di un bicchiere, di un boccale in luce e ombra, volume e colore, è così perfetta da suggerire, più che la parvenza degli oggetti, la loro essenza; ognuno di essi è visto come se fosse al centro dell'universo.
Nei ritratti Cézanne attinge una intensa capacità di penetrazione; il suo discorso pittorico si fa più essenziale quando si trova di fronte a fisionomie che gli sono familiari (la moglie, il figlio Paul). Alla mostra parigina si potevano vedere due Ritratti di Madame Cézanne (1879-85) incompiuti; poche pennellate manifestano ciò che il pittore considerava come l'ossatura del dipinto, ombre, vibrazioni di colore blu e verde, che delineano netto il volume, linee arcuate nelle spalle, nelle braccia, che conferiscono alla figura una dimensione monumentale.
Les joueurs de cartes (1892), uno dei pezzi più ammirati della mostra ed uno dei momenti più alti dell'arte di Cézanne, esprime nella scelta del soggetto, nella concentrazione dei due contadini intenti al gioco, nella solida struttura delle loro spalle, delle loro teste coperte da feltri pesanti, nella gamma di marroni e di grigi che modulano le loro giacche, l'intima adesione del pittore agli aspetti quotidiani della realtà. E' la poesia del concreto, un'ispirazione che rifiuta i climi rarefatti, gli schemi di una cultura letteraria, di una riflessione intellettualistica, perché preferisce addentrarsi nella dimensione del corporeo, con tutta la sua sete di verità. Il quadro ci restituisce una porzione di vita, in quanto la vita nel quadro si è fatta pittura. Lionello Venturi ricorda che

“Cézanne una volta disse: 'Ammiro soprattutto l'apparenza di coloro che sono diventati vecchi naturalmente, e che vivono d'accordo con le leggi della loro età. Guardate questo vecchio oste. Che tono! E ora guardate questa commessa di negozio che è assai attraente. Ma nella sua pettinatura e nei suoi vestiti, che falsità!'. Cézanne riconosceva la nobiltà dello stile non nelle convenzionali menzogne della società, chiamate idealizzazioni, ma nella franca sincerità di una volgare realtà che sia vera di fronte alla vita” [18] .

Che attraverso tutto ciò traspaia un senso religioso della realtà, non sfugge agli osservatori più attenti ed in primo luogo agli artisti. Scriveva Ardengo Soffici nel secondo decennio del secolo:

“Per arrivare a suggerire pittoricamente delle immagini tanto solenni, è naturale che Paul Cézanne abbia dovuto sfrondare le sue fantasie e presentarle religiosamente, col solo magistero dello stile. Infatti il suo colore e il suo disegno sono agri, severi e brutali. Nella sua pittura si riscontrano i conflitti cromatici che, per il primo, Masaccio suscitò realisticamente negli affreschi della cappella Brancacci al Carmine” [19] .

Analisi fenomenologica della realtà e introspezione psicologica; autoanalisi che permette all'artista di cogliere il senso della propria percezione; capacità di rendere con lo stile una concezione della vita e dell'uomo. I problemi affrontati dal maestro di Aix per risolvere la composizione de La femme à la cafetière (1894), sono gli stessi che si presentarono a Piero della Francesca nell'affrescare la Madonna del parto presso il cimitero di Monterchi. Si osservi la massa dei volumi che emergono, nei due casi, attraverso le pieghe di una veste blu. Ciò che Piero ha ottenuto con l'applicazione del suo metodo, basato sullo studio della geometria, denota una padronanza dei mezzi pittorici che permette all'artista di andare al di là dei risultati del metodo stesso. La Madonna di Piero si stacca dalla ieraticità della pala d'altare per affacciarsi sulla soglia di una realtà quotidiana e concreta. Il pittore di Borgo San Sepolcro si colloca così, con la sua opera, all'incrocio tra astrazione geometrica e realismo, tra la contemplazione mistica della maternità divina di Maria e la sacralità terrena del mistero umano che si cela nel grembo di una donna incinta. Anche nei ritratti di Cézanne c'è una tensione tra realismo e idealizzazione geometrica, ed è quella che conferisce ad un personaggio della vita di ogni giorno la dimensione del momento, che cala negli oggetti di uso comune l'affiato di un sentimento religioso diffuso nelle cose.
Chi cerchi di personificare la bellezza morale nell'arte moderna, come dice Lionello Venturi, si imbatte in Paul Cézanne. E' infatti difficile trovare in tutta la storia dell'arte un pittore al quale sia più estranea la cosiddetta bellezza fisica e che abbia uno stile che vada tanto oltre ogni esperienza della realtà e nello stesso tempo interpreti così profondamente le cose della natura [20] . All'opera di Cézanne soggiace un ideale di architettura del mondo, di volume cromatico come sintesi di forma e colore. Se l'Impressionismo è nato senza teoria, e a questa mancanza deve alcune delle sue qualità più attraenti, è toccato a Cézanne affermare i diritti dell'intelletto. La spontaneità creativa egli l'ha cercata e trovata al di là della teoria.
Il desiderio di porre nel giusto rapporto “spalle di donne e dorsi di colline” ha occupato la mente e l'attività di Cézanne negli ultimi anni della sua carriera. La frase che gli viene attribuita:

“Rifare (o verificare) Poussin sulla natura”

è all'origine delle innumerevoli versioni dei Baigneurs; opere nelle quali la poetica cézanniana si libera da ogni schematismo per attingere lo slancio di una più disancorata liricità.

Rouault fa dire a Cézanne in un suggestivo epitaffio: “Non ti avvicinare, non toccarmi: porto in me tutte le bellezze che il mondo ignora o disconosce. Non ti avvicinare, non parlarmi: le parole e i gesti sono vani, io sono silenzioso, vecchio e impotente, mi sono proteso con tutte le mie energie verso la Verità e la Bellezza. Soprattutto per questo sono stato costretto a vivere lontano dagli uomini, ho dovuto meditare, soffrire per realizzare quello che dovevo fare quaggiù”.
La religiosità dell'arte di Cézanne non va cercata nella scelta dei suoi temi che non sono sacri. Ai suoi tempi, l'arte sacra versava in tristi frangenti, e nessuno si sarebbe sognato di commissionare un quadro di chiesa a quell'uomo austero, assiduo alla Messa domenicale nella cattedrale Saint Sauveur, incapace di celare il suo malumore per i suoni sgradevoli che provenivano dall'organo suonato da mani inesperte.

Note

[Nota 1] Philippe-Auguste Cézanne, padre di Paul, aveva fondato nel 1848 una banca ad Aix-en-Provence. La fortuna ereditata dal padre permise al pittore di vivere senza dipendere dalla vendita delle sue opere.

[Nota 2] La mostra, comprendente una sessantina di quadri e una ventina di acquarelli e disegni, ha avuto luogo dal 20 luglio al 14 ottobre 1974.

[Nota 3] In Sens et non sens , Paris, Nagel, 1948, 15-44.

[Nota 4] Ivi, 15.

[Nota 5] Cfr ivi, 19

[Nota 6] Cfr ivi, 20 s.

[Nota 7] Si tratta del cronista Louis Leroy; il suo intervento destinato a passare alla storia, apparve nel giornale satirico Charivari del 25 aprile 1874.

[Nota 8] Lo scrittore Zola fu tra i primi sostenitori dell'impressionismo fin dal 1866. Intervenne in quell'anno con una serie di articoli in favore del movimento, firmati con lo pseudonimo Claude, pubblicati dal giornale L'Evénement. L'interpretazione “naturalista”, che Zola forniva di quel nuovo modo di dipingere, oggi risulta criticamente superata.

[Nota 9] Cfr A. MARTINET, É léments de linguistique générale, Paris, Colin, 1970, 11 s.

[Nota 10] Cfr L.VENTURI, La pittura da Giotto a Chagall, Roma, Capriotti, 1947, 175.
Nell'illustrare la differenza che c'è tra un paesaggio di Cézanne e la riproduzione fotografica del luogo che ha fornito al pittore il “motivo”, René Berger osserva: “La composizione, che è un riordinamento dei mezzi plastici, stabilisce i rapporti fondamentali dell'opera, quelli che si riferiscono alla ripartizione della superficie, alla disposizione delle forme, alle loro proporzioni. Risponde ad una delle necessità essenziali della mente: la coerenza; è connessa con una aspirazione profonda del nostro essere, quello di costituire una realtà di cui l'uomo sia l'autore' (Scoperta della pittura, Milano, Il Saggiatore, 1960, 220).

[Nota 11] M.MERLEAU-PONTY, op. cit., 21 s.

[Nota 12] P.CÉZANNE, Correspondence , Paris, Rewald, 1937, 259.

[Nota 13] Ivi, 348.

[Nota 14] Cfr Gli Impressionisti francesi , 1956.

[Nota 15] Cfr. MERLEAU-PONTY, op. cit. 21 s.

[Nota 16] Ivi, 26.

[Nota 17] Cfr. ivi, 21.

[Nota 18] Op. cit., 178.

[Nota 19] Scoperte e massacri , Firenze, Vallecchi, 1919, 52.

[Nota 20] Cfr op. cit., 173.

Per altri articoli e studi sui rapporti tra arte e fede presenti su questo sito, vedi la pagina Arte nella sezione Percorsi tematici

Redazione de Gliscritti | Giovedì 03 Novembre 2022 - 4:13 pm | | Default

Il Codice da Vinci di Dan Brown (tpfs*). Un' accozzaglia di bufale, legate da una voluta avversione al cristianesimo

I tre testi che ripresentiamo on-line, fanno il punto sui presunti fatti storici che fanno da sfondo al romanzo di Dan Brown. Ad una analisi approfondita appare subito la lunga sequenza di luoghi comuni sulla storia del Cristo e della Chiesa che vengono miscelati insieme dallo scrittore, nel voler creare un'aura di sospetto nei confronti del cattolicesimo.
Esemplare risulta già l'omissione, nelle successive edizioni, della nota “Informazioni storiche” che accompagna l'edizione in lingua inglese e le prime cinque edizioni in lingua italiana, ma scompare dalla sesta in poi, nella quale Brown afferma che «tutte le descrizioni [...] di documenti e rituali segreti contenute in questo romanzo rispecchiano la realtà», e si fondano in particolare sul fatto che «nel 1975, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, sono state scoperte alcune pergamene, note come Les Dossiers Secrets» che, come dimostrano ampiamente i testi che seguono sono notoriamente dei falsi.
Per l'interessantissimo problema teorico del rischio ed insieme della necessità che un romanzo si presenti come vero, vedi la sesta conferenza di Umberto Eco, contenuta in Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, 2003, che raccoglie conferenze da lui tenute alla Harvard University nel ciclo delle Norton Lectures negli anni 1992-1993. Lì l'autore italiano analizza, fra gli altri esempi possibili, proprio le leggende sorte intorno ai templari ed ai rosacrociani, per soffermarsi poi ad analizzare i passaggi che hanno condotto a ritenere veri ed autentici i cosiddetti Protocolli dei savi di Sion, uno dei testi, inventati di sana pianta, su cui si fonda l'antisemitismo moderno.
Il testo di Dan Brown è particolarmente scorretto, proprio per la nota summenzionata, che cerca volutamente di dare ad intendere che il resoconto dei fatti antichi a partire dai quali si svolge poi l'intreccio dei personaggi moderni da lui inventati, sia una fedele ricostruzione dovuta a sue ricerche storiche.
Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione dal nostro sito, se la messa a disposizione su www.gliscritti.it non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto

L'Areopago

Indice:

  • Il codice delle bufale di Franco Cardini, da Famiglia Cristiana, n.26 del 27.06.2004
  • "Il Codice Da Vinci": ma la storia è un'altra cosa
  • "Dismantling The Da Vinci Code", di Sandra Miesel, da «Crisis», numero 8, settembre 2003

Il codice delle bufale di Franco Cardini

da Famiglia Cristiana, n.26 del 27.06.2004

Un docente stufo di fare il docente
La cosa più interessante del libro, che ha avuto e sta avendo un successo sconvolgente in un Paese come il nostro, dove la gente legge poco e male, riguarda a mio avviso la fenomenologia della sua genesi. Il suo autore, prima di tutto: uno studioso, un docente di buona competenza, che un bel giorno – come capita a molti di noi insegnanti, nell'invecchiare – dev'essersi stufato del suo stipendio mediocre, della sua scarsa notorietà, di vedersi passar avanti nella corsa al successo tanti più mediocri di lui. E, allora, avanti con la caccia alla fortuna attraverso lo strumento del thriller esoterico. Gli americani ci cascano. E anche gli europei. Negli States , il romanzo è già arrivato a quattro milioni di copie.
Da un assassinio perpetrato nella mirabile ma pur sempre inquietante cornice del museo del Louvre, a Parigi, il racconto del Brown si snoda attraverso una serie di colpi di scena, per la verità nell'ordinario procedimento della letteratura giallistica: ma lo scoop sta tutto nell'oggetto di quella che alla fine si rivela un'affannosa caccia a qualcosa.
A che cosa mai? Ma al Santo Graal, naturalmente! S'è mai cercato altro, nella felice età contemporanea, dal Wagner del Parsifal all'Eco di Il pendolo di Foucault? A questo punto, la comprensibile noia del lettore appena appena un po' meno di bocca buona della media viene ulteriormente messa a dura prova da un'altra avvincente banalità. Che il Graal non è naturalmente il calice dell'ultima Cena, bensì la coppa di carne entro la quale è maturato il vero Sang Réal (da cui Saint Graal, secondo il vecchio gioco di parole d'ascendenza wagneriana): Maria Maddalena, che si sarebbe congiunta con Gesù – il quale non sarebbe infatti morto sulla croce – e ne avrebbe avuto dei figli dalla progenie dei quali alcuni secoli più tardi sarebbero sorti i re franchi della prima dinastia, quella merovingia. Alla diletta Maria il Salvatore, che naturalmente non è Dio ma un saggio profeta, avrebbe lasciato la cura della sua Chiesa: un'istituzione, quindi, "al femminile", che la volontà dell'imperatore Costantino avrebbe tradito, "maschilizzandola" ed eliminando dalle Scritture le tracce della verità (il matrimonio di Gesù, l'allusione si troverebbe nei Vangeli "gnostici") per sostituirle con i più addomesticati quattro Vangeli canonici.
Gli eredi di Gesù e di Maria, i re merovingi, però, la sapevano lunga: per questo la Chiesa li fece eliminare attraverso i suoi sicari, la stirpe degli usurpatori carolingi. C'era comunque un misterioso sodalizio di giusti, vivo nel corso dei secoli, che di generazione in generazione si passava iniziaticamente il segreto della verità su Gesù e sulla sua discendenza. In tempi differenti, esso s'incarnò prima nell'Ordine templare, quindi nella Massoneria: entrambi per questo perseguitati dalla Chiesa costantiniana che aveva divinizzato Gesù, ma che conosceva essa stessa la verità ed era ben decisa a non lasciar che si propagasse. L'ultima e definitiva forma assunta dal sodalizio dei giusti sarebbe quella di un'organizzazione, il "Priorato di Sion", un'occulta azione della quale avrebbe innervato la storia dell'Europa.
Il romanzo trova pertanto la sua soluzione nel disvelamento di un intrigo: la catena dei delitti che ne costituisce il filo conduttore è spiegabile alla luce del conflitto tra gli eredi del "Priorato di Sion" e la punta di diamante della crudele e repressiva Chiesa cattolica, che naturalmente sarebbe l'Opus Dei. La posta in gioco diventa addirittura un fantastico ricatto da organizzarsi contro la Chiesa: un misterioso "Maestro" vorrebbe costringere a pagare una somma immensa minacciando di rivelare altrimenti il mistero dell'amore di Gesù per la Maddalena e della discendenza che di esso sarebbe il frutto. Un mistero che ha lasciato comunque il segno: esso era noto a molti grandi personaggi della nostra storia, fra i quali Leonardo da Vinci (da qui il titolo del romanzo).

Dinanzi a questo cumulo di palesi assurdità, qualcuno ha chiamato in causa le ragioni della fiction . Ma proprio qui sta l'errore. Il Brown si è inventato parecchie cose, ma nell'intrico fantastorico di cui si è servito non ha nemmeno il pregio dell'originalità: egli si è rifatto ai famosi documenti della Bibliothèque Nationale di Parigi noti come Les dossiers sécrets , che in parte si vogliono scoperti nel 1975 (furono introdotti nella Bibliothèque da quelli stessi che li avevano redatti) e in parte sono stati "rivelati" dallo scrittore Gérard de Sède. Il fatto è che l'autore del romanzo ignora, o finge d'ignorare, che è stato ampiamente dimostrato che quei documenti sono dei falsi vergognosi: uno dei redattori di essi, Philippe de Chérisey, è morto nel 1966 lasciando un contenzioso legale ancora aperto, in quanto il suo lavoro di falsario non era stato retribuito dai suoi committenti.
In effetti, oggi esiste un "Priorato di Sion". Si tratta di un'organizzazione fondata nel 1956 da tale Piérre Plantard, il quale lascia capire di essere egli stesso un discendente di Gesù e custode pertanto del "vero Santo Graal". La pretesa realtà del "Priorato di Sion" si regge su un'altra intricata questione: quella riguardante il sacerdote Berenger Saunière, parroco alla fine dell'Ottocento del villaggio di Rennes-le-Château, nella diocesi di Carcassonne, e personaggio dalla dubbia vita e dagli ancora più dubbi affari. Il suo rapido arricchimento, che gli consentì di avviare nella sua parrocchia un'attività edilizia dai connotati stranamente "esoterici", ha fatto colare un fiume d'inchiostro. In realtà la storia del Saunière, riciclata più volte dal de Sède, fino ai giornalisti Baigent, Leigh e Lincoln, a loro volta autori di un best seller (anch'esso: e ti pareva) sul Graal, è lungi dall'essere chiarita: ma ha molto a che vedere con il codice penale alle voci relative alla truffa e ben poco con la vita misteriosa di Gesù.

L'ultimo pregiudizio
Su queste cose sono già autorevolmente intervenuti studiosi dell'esoterismo come Massimo Introvigne e Philip Jekins, che ha parlato di quello anticattolico come dell'unico pregiudizio che, in tempi di politically correct , appare ancora plausibile praticare. Perché non possono esserci dubbi. Dietro l'ennesimo rimaneggiamento di un vecchio capitolo dell'occultismo dell'Ottocento, quello relativo alle attività del Saunière, c'è una pervicace e sistematica volontà di calunnia diretta contro la Chiesa cattolica, descritta come un'organizzazione a delinquere.
Questa spazzatura, purtroppo, continua a circolare anche perché i pregiudizi contro la Chiesa cattolica sono gli unici che si possono manifestare liberamente (insieme, in parte, con quelli relativi all'Islam), e perché i cattolici sono singolarmente ignoranti in fatto di problemi scritturali e di storia della Chiesa; e singolarmente timidi, per usare un eufemismo, quando si tratta di difendere la loro fede e la loro tradizione.


"Il Codice Da Vinci": ma la storia è un'altra cosa

di Massimo Introvigne, dal website del CESNUR Center for Studies on New Religions

1. L'anti-cattolicesimo come «ultimo pregiudizio accettabile»
Immaginiamo questo scenario. Esce un romanzo in cui si afferma che il Buddha, dopo l'illuminazione, non ha condotto la vita di castità che gli si attribuisce, ma ha avuto moglie e figli. Che la comunità buddhista dopo la sua morte ha violato i diritti della moglie, che avrebbe dovuto essere la sua erede. Che per nascondere questa verità i buddhisti nel corso della loro storia hanno assassinato migliaia, anzi milioni di persone. Che un santo buddhista scomparso da pochi anni – che so, un Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966) – era in realtà il capo di una banda di delinquenti. Che il Dalai Lama e altre autorità del buddhismo internazionale operano per mantenere le menzogne sul Buddha servendosi di qualunque mezzo, compreso l'omicidio. Pubblicato, il romanzo non passa inosservato. Autorità di tutte le religioni lo denunciano come un'odiosa mistificazione anti-buddhista e un incitamento allo scontro fra le religioni. In diversi paesi la sua pubblicazione è vietata, fra gli applausi della stampa. Le case cinematografiche, cui è proposta una versione per il grande schermo, cacciano a pedate l'autore e considerano l'intero progetto uno scherzo di cattivo gusto.
Lo scenario non è vero, ma ce n'è uno simile che è del tutto reale. Solo che non si parla di Buddha, ma di Gesù Cristo; non della comunità buddhista, ma della Chiesa cattolica; non di Suzuki e del suo ordine zen ma di san Josemaría Escrivá (1902-1975) e dell'Opus Dei da lui fondata; non del Dalai Lama ma di Papa Giovanni Paolo II. Il romanzo in questione ha venduto tre milioni e mezzo di copie negli Stati Uniti, è sbarcato anche in Italia e la Sony ne sta traendo un film, che sarà diretto da Ron Howard e per cui è già cominciata una propaganda internazionale. Come è stato correttamente osservato dallo storico e sociologo americano Philip Jenkins, il successo di questo prodotto è solo un'altra prova del fatto che l'anti-cattolicesimo è «l'ultimo pregiudizio accettabile»(1).

2. «Il Codice da Vinci» e il Priorato di Sion
Il Codice Da Vinci (2) mette in scena una caccia al Santo Graal. Quest'ultimo – secondo il romanzo – non è, come la tradizione ha sempre creduto, una coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo, ma una persona, Maria Maddalena, la vera «coppa» che ha tenuto in sé il sang réal – in francese antico il «sangue reale», da cui «Santo Graal» –, cioè i figli che Gesù Cristo le aveva dato. La tomba perduta della Maddalena è dunque il vero Santo Graal. Apprendiamo inoltre che Gesù Cristo aveva affidato una Chiesa che avrebbe dovuto proclamare la priorità del principio femminile non a san Pietro ma a sua moglie, Maria Maddalena, e che non aveva mai preteso di essere Dio. Sarebbe stato l'imperatore Costantino (280-337) a reinventare un nuovo cristianesimo sopprimendo l'elemento femminile, proclamando che Gesù Cristo era Dio, e facendo ratificare queste sue idee patriarcali, autoritarie e anti-femministe dal Concilio di Nicea (325). Il progetto presuppone che sia soppressa la verità su Gesù Cristo e sul suo matrimonio, e che la sua discendenza sia soppressa fisicamente. Il primo scopo è conseguito scegliendo quattro vangeli «innocui» fra le decine che esistevano, e proclamando «eretici» gli altri vangeli «gnostici», alcuni dei quali avrebbero messo sulle tracce del matrimonio fra Gesù e la Maddalena. Al secondo, per disgrazia di Costantino e della Chiesa cattolica, i discendenti fisici di Gesù si sottraggono e secoli dopo riescono perfino a impadronirsi del trono di Francia con il nome di merovingi. La Chiesa riesce a fare assassinare un buon numero di merovingi dai carolingi, che li sostituiscono, ma nasce un'organizzazione misteriosa, il Priorato di Sion, per proteggere la discendenza di Gesù e il suo segreto.
Al Priorato sono collegati i templari – per questo perseguitati – e più tardi anche la massoneria. Alcuni fra i maggiori letterati e artisti della storia sono stati Gran Maestri del Priorato di Sion, e alcuni – fra cui Leonardo da Vinci (1452-1519) – hanno lasciato indizi del segreto nelle loro opere. La Chiesa cattolica, nel frattempo, completa la liquidazione del primato del principio femminile con la lotta alle streghe, in cui periscono cinque milioni di donne. Ma tutto è vano: il Priorato di Sion sopravvive, così come i discendenti di Gesù in famiglie che portano i cognomi Plantard e Saint Clair.

3. «Fiction» o storia?
Molti obiettano a qualunque critica del romanzo che si tratta, appunto, di fiction che in quanto tale non è tenuta a rispettare la verità storica. Questi critici hanno semplicemente dimenticato di leggere la pagina Informazioni storiche , dove Brown afferma che «tutte le descrizioni [...] di documenti e rituali segreti contenute in questo romanzo rispecchiano la realtà» (3), e si fondano in particolare sul fatto che «nel 1975, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, sono state scoperte alcune pergamene, note come Les Dossiers Secrets » (4) con la storia del Priorato di Sion.
Forse in risposta alle molte controversie, a partire dalla sesta ristampa la pagina Informazioni storiche, pagina 9 dell'edizione italiana Mondadori, è sparita sostituita da una pagina 9 interamente bianca: ma naturalmente rimane nell'edizione inglese (e nelle prime stampe italiane, per chi ha acquistato il volume nelle prime settimane di diffusione).
La parte che anche l'autore presenta come immaginaria ipotizza che il Priorato oggi si appresti a rivelare il segreto al mondo tramite il suo ultimo Gran Maestro, un curatore del Museo del Louvre che si chiama Jacques Saunière. Per impedire che questo avvenga, Saunière e i suoi principali collaboratori sono assassinati. Uno studioso di simbologia americano, Robert Langdon, è sospettato dei crimini, ma una criptologa che lavora per la polizia di Parigi – Sophie Neveu, la nipote di Saunière – crede nella sua innocenza e lo aiuta a fuggire. Il lettore è indotto a credere che responsabile degli omicidi sia l'Opus Dei, ma le cose sono più complicate. Sul conto di questi istituto si ripetono le più crude «leggende nere», cento volte smentite, ma dure a morire, desunte dalla letteratura internazionale che lo critica, esplicitamente citata. Nel romanzo, un nuovo Papa progressista ha deciso di rescindere i legami fra la Chiesa e l'Opus Dei che risalgono a Papa Giovanni Paolo II, e il prelato dell'Opus Dei accetta la proposta che gli proviene da un misterioso «Maestro»: pagando a questo personaggio una somma immensa, potrà ricattare la Santa Sede impadronendosi delle prove del segreto del Priorato di Sion – cioè della «verità» su Gesù Cristo – e minacciando di rivelarle al mondo. Un ex-criminale, ora numerario dell'Opus Dei, è «prestato» al Maestro, e proprio quest'ultimo lo spinge a commettere una serie di crimini. In realtà, il «Maestro» lavora per sé stesso: è un ricchissimo studioso inglese, anti-cattolico, che vuole rivelare il segreto al mondo e accusa il Priorato di tacere per timore della Chiesa. Fra morti ammazzati, enigmi e inseguimenti Robert Langdon e Sophie – fra i quali nasce anche l'inevitabile storia d'amore – finiscono per scoprire la verità: la tomba della Maddalena è nascosta sotto la piramide del Louvre, voluta dall'esoterista e massone presidente francese François Mitterrand (1916-1996), ma il sang réal scorre nelle vene della stessa Sophie, che è dunque l'ultima discendente di Gesù Cristo.

4. Errori e mistificazioni
Solo la diffusa ignoranza religiosa spiega come qualcuno possa prendere sul serio un tale cumulo di affermazioni a dir poco ridicole. Ci sono testi del primo secolo cristiano dove Gesù Cristo è chiaramente riconosciuto come Dio. All'epoca del Canone Muratoriano – che risale circa al 190 d.C. – il riconoscimento dei quattro Vangeli come canonici e l'esclusione dei testi gnostici era un processo che si era sostanzialmente completato, novant'anni prima che Costantino nascesse. Quanto alla Maddalena, lo gnostico Vangelo di Tomaso , che piace tanto a Brown, ben lungi dall'essere un testo proto-femminista ne fonda la grandezza sul fatto che « [...] si fa maschio» (5). A Simon Pietro che obietta «Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della Vita» (6), Gesù risponde: «Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Perché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli» (7). La cifra di cinque milioni di streghe bruciate dalla Chiesa cattolica è del tutto assurda, e Brown si dimentica del fatto che nei paesi protestanti la caccia alle streghe è stata più lunga e virulenta che in quelli cattolici.
L'idea stessa di un «codice Da Vinci» nascosto nelle opere dell'artista italiano è stata definita «assurda» dalla professoressa Judith Veronica Field, docente alla University of London e presidentessa della Leonardo Da Vinci Society (8). A fronte di questi svarioni, quello del traduttore italiano che chiama la torre dell'orologio del parlamento inglese «ig Bang» (9) invece di Big Ben sembra quasi un peccato veniale. Inoltre, chi conosca un poco la storia delle mistificazioni sul Graal sa che nel Codice Da Vinci vi è ben poco di nuovo: tutto è già stato detto in centinaia di libri su Rennes-le-Château (10), e – benché il nome di questa località francese non sia mai menzionato nel romanzo di Brown – i cognomi Saunière e Plantard fanno chiaramente riferimento alle stesse vicende.

5. Il mito di Rennes-le-Château: una falsificazione già da tempo smascherata
Rennes-le-Château è un paesino francese del dipartimento dell'Aude, ai piedi dei Pirenei orientali, nella zona detta del Razès. La popolazione si è ridotta a una quarantina di abitanti, ma ogni anno i turisti sono decine di migliaia. Dal 1960 a oggi a Rennes-le-Château sono state dedicate oltre cinquecento opere in lingua francese, almeno un paio di best seller in inglese e un buon numero di titoli anche in italiano. Se ne parla anche in film e in fumetti di culto, come Preacher o The Magdalena . Il paesino si trova all'interno di quel «paese cataro», cioè della zona dove l'eresia dei catari ha dominato la regione ed è sopravvissuta fino al secolo XIII, che una sapiente promozione ha reso in anni recenti una delle più ambite mete turistiche francesi. Rennes-le-Château rimarrebbe però una nota a pie' di pagina nel ricco turismo «cataro» contemporaneo se del paese non fosse diventato parroco, nel 1885, don Berenger Saunière (1852-1917). È a lui che fanno riferimento tutte le leggende su Rennes-le-Château.
Il parroco Saunière era soprattutto un personaggio bizzarro. Nel 1909 si rifiuta di trasferirsi in un'altra parrocchia e nel 1910, dopo aver perso un processo ecclesiastico, subisce una sospensione a divinis . Pure privato della parrocchia, rimane fino alla morte nel paese, che aveva arricchito con nuove costruzioni – fra cui una curiosa «torre di Magdala» – e scandalizzato con una serie di scavi nella cripta e nel cimitero, alla ricerca non si sa bene di che cosa. Diventato più ricco di quanto fosse consueto per un parroco di campagna, si favoleggia che abbia trovato un tesoro. Tutto poteva spiegarsi, peraltro – come sospettava il suo vescovo – con un meno romantico traffico di donazioni e di messe. In epoca recente si è sostenuto che Saunière avesse scoperto nella cripta importantissimi manoscritti antichi, ma quelli che sono emersi sono falsi evidenti del secolo XIX se non del XX. È possibile che, nel corso dei lavori per restaurare la chiesa parrocchiale – un'attività che va in ogni caso ascritta a merito dell'originale parroco – don Saunière avesse scoperto qualche reperto di epoca medioevale, ma in ogni caso non in quantità sufficiente da arricchirsi. Si continua a ripetere anche che Saunière sarebbe stato in rapporti con ambienti esoterici di Parigi, ma di questo non vi è nessuna prova. La figura di Saunière non è priva d'interesse, e le sue costruzioni mostrano che si trattava di un uomo singolarmente attento alle allegorie e ai simboli, sulla scia di una tradizione locale. Ma nulla di più ha mai potuto essere provato.
La leggenda di Saunière non sarebbe continuata nel tempo se la sua perpetua, Marie Denarnaud (1868-1953) – cui il sacerdote aveva intestato le proprietà e le costruzioni di Rennes-le-Château, per sottrarle al vescovo con cui era in conflitto – non avesse continuato per anni, anche per incoraggiare eventuali acquirenti, a favoleggiare di tesori nascosti. E se un altro personaggio, Noel Corbu (1912-1968), dopo avere acquistato dalla Denarnaud le proprietà dell'ex-parroco per trasformarle in ristorante, non avesse cominciato, a partire dal 1956, a pubblicare articoli sulla stampa locale dove – animato certo anche dal legittimo desiderio di attirare turisti in un borgo remoto – metteva i presunti «miliardi» di don Saunière in relazione con il tesoro dei catari.
Negli anni 1960 le leggende diffuse da Corbu su scala locale acquistano fama nazionale dopo aver attirato l'attenzione di esoteristi – fra cui Pierre Plantard (1920-2000), che aveva animato in precedenza il gruppo Alpha Galates ed era stato anche condannato per truffe a sfondo esoterico – e di giornalisti interessati ai misteri esoterici come Gérard de Sède, che pubblica nel 1967 L'or de Rennes (11). Tre autori inglesi di esoterismo popolare – Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln – s'incaricheranno di elaborare ulteriormente le sue idee, trasformandole in una vera industria editoriale – grazie anche alla BBC , che batte la grancassa – avviata con la pubblicazione, nel 1979, de Il Santo Graal (12). Secondo de Sède e i suoi continuatori inglesi, il parroco aveva scoperto il segreto di Rennes-le-Château, dove sarebbe depositato non solo un tesoro favoloso – variamente attribuito al tempio di Gerusalemme, ai visigoti, ai catari, ai templari, alla monarchia francese, e cui il sacerdote avrebbe attinto solo per una piccola parte –, ma anche – rivelato dalle presunte pergamene ritrovate da don Saunière, dalle iscrizioni del cimitero, dalle forme stesse degli edifici e di quanto si trova nella chiesa parrocchiale – un tesoro di tipo non materiale, la verità stessa sulla storia del mondo. Nel paesino pirenaico esisterebbero i documenti in grado di provare che Gesù Cristo – verità accuratamente nascosta dalla Chiesa cattolica – aveva avuto figli da Maria Maddalena, che questi figli portano in sé il sangue stesso di Dio e che pertanto hanno il diritto di regnare sulla Francia e sul mondo intero. Che il Santo Graal sarebbe, più propriamente, il sang réal , il «sangue reale» dei discendenti fisici di Gesù Cristo, è affermato da quando Plantard entra nella storia di Rennes-le-Château. Il Codice Da Vinci si limita a ripetere queste affermazioni. Per prudenza, afferma Plantard, la discendenza dei merovingi da Gesù Cristo sarebbe sempre stata mantenuta come un segreto noto a pochi. Ma i catari, i templari, i grandi iniziati – dallo stesso Saunière al pittore Nicolas Poussin (1594-1655), il quale ne avrebbe lasciato una traccia nel suo famoso quadro del Louvre I pastori di Arcadia , che raffigurerebbe precisamente il panorama di Rennes-le-Château – hanno custodito il segreto come cosa preziosissima, lasciando trapelare di tanto in tanto qualche indizio.
Oggi, naturalmente, un Priorato di Sion esiste. È fondato nel 1956 da Pierre Plantard – che si fa chiamare anche «Plantard de Saint Clair», inventandosi un titolo nobiliare di fantasia che è alle origini delle affermazioni de Il Codice Da Vinci secondo cui anche «Saint Clair» sarebbe un cognome merovingio –, con tanto di atto notarile e carte da bollo. Plantard ha lasciato intendere di essere egli stesso un discendente dei merovingi e il custode del Graal. La prova che il Priorato esiste da mille anni dovrebbe consistere nel nome di un piccolo ordine religioso medievale chiamato Priorato di Sion. Questo è effettivamente esistito – e finito –, ma non ha relazioni di sorta né con i merovingi né con presunti discendenti di Gesù Cristo. È difficile non concludere che il collegamento fra Rennes-le-Château, i merovingi e il Priorato di Sion è puramente leggendario, e che il Priorato è un'organizzazione esoterica le cui origini non vanno al di là dell'esperienza di Plantard e dei suoi collaboratori. Non è esistito nessun Priorato di Sion – nel senso in cui oggi se ne parla – prima dell'arrivo di Plantard a Rennes-le-Château. Ora, naturalmente esiste: ma solo dal 1956.
Nella pagina Informazioni storiche de Il Codice Da Vinci si afferma, come ho accennato, che tutta la storia è confermata da documenti inoppugnabili. Si tratta dei famosi documenti in parte «ritrovati» nel 1975 nella Biblioteca Nazionale di Parigi e in parte trasmessi in precedenza allo scrittore Gérard de Sède. I documenti, però, sono stati «ritrovati» dalle stesse persone che li avevano nascosti nella Biblioteca Nazionale di Parigi: Plantard e i suoi amici. Ed è certissimo che non si tratta di documenti antichi ma di falsi moderni. Il principale autore dei falsi, Philippe de Chérisey – morto nel 1985 –, ha confessato di aver partecipato alla loro falsificazione, lamentandosi perfino per la loro utilizzazione avvenuta senza versargli il dovuto compenso, argomento su cui esistono lettere dell'avvocato di Chérisey (13).
Quanto a Poussin, la «prova» del suo collegamento con Rennes-le-Château avrebbe dovuto essere la fotografia di una tomba presente nel territorio del paesino francese, oggi distrutta, ma cui Poussin si sarebbe ispirato per il suo quadro I pastori di Arcadia . Peccato però che della tomba siano stati ritrovati il permesso e i piani di costruzione, datati 1903, ancorché la tomba sia stata completata nel 1933 (14): la tomba è dunque posteriore di quasi trecento anni al quadro di Poussin. Nessun «documento» e nessuna «prova», dunque. Solo fantasie, buone per vendere romanzi più o meno appassionanti, ma che dal punto di vista strettamente storico devono essere considerate autentica spazzatura.

* Articolo sostanzialmente anticipato, in una versione più breve, senza note e con il titolo Il Codice Da Vinci , in il Timone. Mensile di formazione e informazione apologetica , anno VI, n. 31, Fagnano Olona (Varese) marzo 2004, pp. 47-49.

Note

  • (1) Cfr. PHILIP JENKINS, The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice , Oxford University Press, New York 2003; in una comunicazione personale, l'autore ha confermato di ritenere Il Codice Da Vinci un esempio tipico della mentalità descritta nel suo studio.
  • (2) Cfr. DAN BROWN, Il Codice Da Vinci , trad. it., Mondadori, Milano 2003.
  • (3) Ibid ., p. 9.
  • (4) Ibidem .
  • (5) Vangelo di Tomaso , 114, in LUIGI MORALDI (a cura di), I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo , trad. it., Adelphi, Milano 2001, pp. 3- 20 (p. 20).
  • (6) Ibidem .
  • (7) Ibidem .
  • (8) Cfr. GARY STERN, Expert Dismiss Theories in Popular Book , in The Journal News , Westchester (New York) 2-11-2003, p. 1.
  • (9) D. BROWN, op. cit., p. 438.
  • (10) Cfr. un'introduzione all'immensa bibliografia sul tema, nel mio Rennes le Château: mistificatori e mistificazioni sul Graal , in Cristianità , anno XXIV, n. 258, ottobre 1996, pp. 7-9.
  • (11) Cfr. GERARD DE SEDE, L'or de Rennes ou la vie insolite de Bérenger Saunière, Curé de Rennes-le-Château , Julliard, Parigi 1967.
  • (12) Cfr. MICHAEL BAIGENT, RICHARD LEIGH e HENRY LINCOLN, Il Santo Graal , trad. it., Mondadori, Milano 1997.
  • (13) Cfr. lettera dell'avvocato B. Boccon-Gibod a Philippe de Chérisey, dell'8-10-1967, in cui parla di documenti «de votre fabrication et déposés à mon étude» , all'indirizzo http://priory-of-sion.com/psp/id167.html , visitato il 20-5-2004.
  • (14) Cfr. PAUL SMITH, The Tomb at Les Pontils. The Real Truth, all'indirizzo http://priory-of-sion.com/psp/id33.html , visitato il 20-5-2004.

[Il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), fondato in Italia nel 1988 da un gruppo di accademici e studiosi di scienze religiose europei e americani interessati allo studio delle minoranze religiose e spirituali di qualunque genere e tipo e alla costruzione di "mappe" delle appartenenze religiose in tutti i paesi del mondo, è attualmente presieduto dal professor Luigi Berzano, ordinario di Sociologia generale presso l'Università di Torino, e diretto dal professor Massimo Introvigne, autore di una trentina di volumi in tema di minoranze religiose e noto specialista del settore. Il Comitato Scientifico che dà impulso alle sue iniziative comprende, con altri, la professoressa Eileen Barker, ordinario di Sociologia presso la London School of Economics, il dottor J. Gordon Melton, presidente dell'Institute for the Study of American Religion di Santa Barbara (California), il professor Jean-François Mayer, docente di Storia delle religioni presso l'Università di Friburgo (Svizzera), il professor Reender Kranenborg, docente di Religioni comparate presso l'Università Libera di Amsterdam. 

 


"Dismantling The Da Vinci Code"

di Sandra Miesel, da «Crisis», numero 8, settembre 2003

"Il Graal" riprese Langdon "simboleggia la dea perduta. Quando è giunto il cristianesimo, le vecchie religioni pagane non si sono lasciate uccidere facilmente. Le leggende dei cavalieri alla ricerca del Graal perduto erano in realtà storie di ricerche proibite per ritrovare il femminino sacro perduto. I cavalieri che affermavano di "cercare il calice" parlavano in codice per proteggersi da una Chiesa che aveva soggiogato le donne, bandito la dea, bruciato i non credenti e proibito il rispetto pagano per il femminino sacro ". ( Il Codice Da Vinci , trad. it., p. 280) .
Il Santo Graal è la metafora preferita per indicare un obiettivo desiderabile ma difficile da conseguire, dalla mappa del genoma umano alla Stanley's Cup. Sebbene il Graal originale — la coppa che si dice utilizzata da Gesù durante l'Ultima Cena — normalmente occupi le pagine del romanzo arturiano, il recente mega-best seller di Dan Brown, Il Codice Da Vinci , lo strappa dal reame della storia esoterica.
Tuttavia il suo libro è ben più che la storia di una ricerca del Graal. Brown reinterpreta totalmente la leggenda del Graal. Nel fare questo, Brown capovolge l'intuizione che il corpo della donna sia simbolicamente un contenitore e rende un contenitore simbolicamente un corpo di donna. E quel contenitore ha un nome che ogni cristiano riconoscerà, perché Brown afferma che il Sacro Graal era in realtà Maria Maddalena. Essa era il recipiente che conteneva il sangue di Gesù Cristo nell'utero, partorendone il figlio.
Nel corso dei secoli, i custodi del Graal hanno vigilato sulla vera (e continua) discendenza di Cristo e i sui resti della Maddalena, non su un recipiente materiale. Perciò Brown sostiene che "la ricerca del Santo Graal è […] la ricerca del luogo dove inginocchiarsi davanti alle ossa di Maria Maddalena", una conclusione che avrebbe sicuramente sorpreso Sir Galahad e gli altri cavalieri del Graal che pensavano di cercare il calice dell'Ultima Cena.
Il Codice Da Vinci si apre con il macabro omicidio del curatore del Louvre all'interno del museo. Il crimine coinvolge l'eroe Robert Langdon, uno sportivo professore di simbologia proveniente da Harvard, e la nipote della vittima, Sophie Nevue, crittologa dai capelli rossi. Insieme allo storico milionario zoppo Leigh Teabing fuggono da Parigi a Londra un passo in anticipo sulla polizia e su un pazzo "monaco" albino dell'Opus Dei di nome Silas, che non si fermerà di fronte a nulla per impedire loro di trovare il "Graal".
Ma nonostante il ritmo frenetico, in nessun punto all'azione viene permesso di interferire con una buona lezione. Prima che la storia si ritrovi al punto di partenza al Louvre, i lettori affrontano un fuoco di fila di codici, enigmi, misteri, e cospirazioni.
Con il suo principio affermato due volte, "a tutti piacciono i complotti", Brown rievoca la famosa autrice che creava il suo prodotto studiando le caratteristiche dei dieci best-seller precedenti. Sarebbe troppo facile criticarlo per i personaggi sottili come una copertina di plastica, per la prosa indistinta e per l'azione improbabile. Ma Brown non sta tanto scrivendo malamente quanto scrivendo in un modo particolare, calcolato al meglio per attirare il pubblico femminile (le donne, dopo tutto, comprano la maggior parte dei libri della nazione). Ha coniugato una trama da thriller a una tecnica romanzesca. Notate come ogni personaggio sia un tipo estremo… brillante senza sforzo, untuoso, sinistro, o psicotico quando necessario, che si muove su sfondi lussuosi ma curiosamente piatti. Evitando la violenza e la ginnastica da camera da letto, mostra solo un breve bacio e un rito sessuale eseguito da una coppia sposata. Le allusioni spinte sono sfuggenti benché il testo indugi su qualche sanguinosa mortificazione dell'Opus Dei. In breve, Brown ha costruito un romanzo perfetto per un club di libri per signore.
La mancanza di serietà di Brown si rivela nei giochi (1) che fa con i nomi dei suoi personaggi — Robert Langdon, "professore alto di chiara fama" (distinto e virile); Sophie Nevue, "Nuova Eva della sapienza"; l'irascibile e taurino detective Bezu Fache, "collera di zebù". Il servo che guida verso di loro la polizia è Legaludec, "duce legale". Il curatore assassinato trae il cognome, Saunière, da un vero prete cattolico le cui buffonerie esoteriche diffusero l'interesse verso il segreto del Graal. Come scherzo nascosto, Brown inserisce perfino il suo editore nella vita reale (Faukman è Kaufman).
Mentre l'ampio uso delle formule romanzesche può essere il segreto della celebrità di Brown, il suo messaggio anti-cristiano non può avergli fatto male nei circoli editoriali: Il Codice Da Vinci ha debuttato in cima alla lista dei best-seller del New York Times . Manipolando il suo pubblico mediante le convenzioni della scrittura romanzesca, Brown invita i lettori a identificarsi con i suoi personaggi eleganti e fascinosi che hanno visto oltre le imposture dei chierici che nascondono la "verità" su Gesù e sua moglie. La bestemmia viene pronunciata con voce pacata e ridendo sommessamente: "Tutte le religioni del mondo sono basate su falsificazioni".
Ma anche Brown ha i suoi limiti. Per schivare le accuse di fanatismo, include un crescendo di trucchi che assolve la Chiesa dall'assassinio. E benché presenti il cristianesimo come falso in radice, è disposto a tollerarlo per la sua opera caritativa.
(Naturalmente, il cristianesimo cattolico diventerà anche più tollerabile una volta che il nuovo papa liberale eletto nel precedente romanzo di Brown con protagonista Langdon, Angeli & Demoni , abbandonerà gli insegnamenti fuori moda. "Le leggi del terzo secolo non si possono più applicare ai moderni seguaci di Cristo", dice uno dei cardinali progressisti del libro).

Da dove tra tutto questo?
In realtà Brown cita le sue fonti principali all'interno del testo del suo romanzo. Uno è un classico della cultura femminista accademica: I vangeli gnostici di Elaine Pagels. Le altre sono storie esoteriche popolari: La Rivelazione dei templari. Guardiani segreti della vera identità di Cristo di Lynn Picknett e Clive Prince; Il Santo Graal di Michael Baigent, Richard Leigh, e Henry Lincoln; La Dea nei Vangeli. La rivendicazione del femminino sacro e La Donna dalla giara di alabastro. Maria Maddalena e il Santo Graal , entrambi di Margaret Starbird. (i libri della Starbird, che si dice cattolica, sono stati pubblicati da Matthew Fox's outfit, Bear & Co.) Un'altra influenza, almeno in seconda battuta, è L'Enciclopedia Femminile dei Miti e dei Segreti di Barbara G. Walker.
L'uso di fonti talmente inaffidabili pregiudica le pretese intellettuali di Brown. Ma la cosa ha apparentemente ingannato almeno alcuni dei suoi lettori: il revisore dei libri dei New York Daily Newsha strombazzato: "La sua ricerca è impeccabile".
Tuttavia, nonostante le arie da studioso di Brown, uno scrittore che pensa che i Merovingi abbiano fondato Parigi e dimentica che i papi un tempo vivevano ad Avignone, è difficile sia un ricercatore modello. E che affermi che la Chiesa abbia bruciato cinque milioni di donne in quanto streghe mostra un'ignoranza intenzionale — e in malafede — del dato storico. Le ultime cifre delle morti durante la caccia alle streghe in Europa vanno da 30.000 a 50.000 vittime. Non tutte furono eseguite dalla Chiesa, non tutte erano donne, e non tutte furono bruciate. L'affermazione di Brown secondo cui dai cacciatori di streghe venivano scelte le donne istruite, le sacerdotesse e le levatrici non solo è falsa, ma tradisce le sue fonti bendisposte nei confronti della dea.

Una moltitudine di errori
Il Codice Da Vinci è talmente pieno di errori che il lettore istruito applaude in realtà quelle rare occasioni dove Brown (suo malgrado) incespica nella verità. Qualche esempio della sua "impeccabile" ricerca: Brown sostiene che i movimenti del pianeta Venere tracciano un pentacolo (il cosiddetto pentagramma di Ishtar) che simboleggia la dea. Tuttavia esso non è una figura perfetta e nulla ha a che fare con la durata dell'Olimpiade. Gli antichi Giochi Olimpici venivano celebrati in onore di Zeus olimpico, non di Afrodite, e si svolgevano ogni quattro anni.
Erronea è anche l'affermazione di Brown secondo la quale i cinque anelli congiunti dei moderni Giochi Olimpici sono un segreto tributo alla Dea: ad ogni serie dei giochi si supponeva di aggiungere un anello al disegno ma gli organizzatori si fermarono a cinque. E sono semplicemente ridicoli i suoi sforzi di leggere la propaganda in favore della Dea nell'arte, nella letteratura, e anche nei cartoni animati Disney.
Nessun dato è troppo dubbio per essere incluso, e la realtà viene accantonata velocemente. Per esempio, il vescovo dell'Opus Dei incoraggia il suo albino assassino raccontandogli che anche Noè era un albino (una nozione tratta dal non-canonico 1 Enoch 106:2). Tuttavia l'albinismo in qualche modo non interferisce con la vista dell'uomo come dovrebbe fisiologicamente.
Ma un esempio molto più importante è il trattamento di Brown dell'architettura gotica come uno stile pieno di simboli di culto verso la Dea e di messaggi in codice per confondere i non iniziati. Basandosi sull'affermazione di Barbara Walzer che "come un tempio pagano, la cattedrale gotica rappresenta il corpo della Dea", La rivelazione dei Templari afferma: "Il simbolismo sessuale è presente anche nelle grandi cattedrali gotiche, la cui costruzione fu promossa dai Templari. Elementi caratteristici [...] rappresentano elementi anatomici femminili: l'arco, che introduce i visitatori nel corpo della Chiesa Madre, evoca la vulva". Nel Codice Da Vinci, questi sentimenti sono trasformati nella spiegazione da parte di un personaggio di come la "lunga navata vuota della cattedrale fosse un segreto tributo pagano all'utero femminile […] completa di escrescenze labiali incassate e di un clitoride floreale a cinque petali al di sopra del portale".
Queste osservazioni non possono essere accantonate come opinioni del "cattivo"; Langdon, l'eroe del libro, si riferisce alle sue conferenze a Chartres sul simbolismo della Dea.
Questa bizzarra interpretazione tradisce la non conoscenza del reale sviluppo o della costruzione dell'architettura gotica, e correggere gli innumerevoli errori diventa un noioso esercizio: I Templari nulla avevano a che fare con le cattedrali del loro tempo, che furono commissionate dai vescovi e dai loro canonici in tutta Europa. Essi erano uomini illetterati senza alcuna arcana conoscenza della "geometria sacra" tramandata dai costruttori di piramidi. Non dominavano gli stessi strumenti sui loro progetti, né fondarono corporazioni di massoni per costruirne per altri. Non tutte le loro chiese erano rotonde, né la rotondità era un insulto di sfida alla Chiesa. Piuttosto che essere un tributo al divino feminino, le loro chiese circolari onoravano la Chiesa del Santo Sepolcro.
In realtà guardando le chiese gotiche e quelle che le precedettero l'idea del simbolismo femminile si sgonfia. Le grandi chiese medievali tipicamente avevano tre porte frontali a ovest più triple entrate ai loro transetti a nord e a sud (quale parte dell'anatomia femminile rappresenta il transetto? o la volta della navata centrale di Chartres?). Le chiese romaniche — incluse quelle che precedono la fondazione dei Templari — hanno bande decorative simili che si inarcano sopra le entrate. Sia le chiese gotiche che quelle romaniche hanno ereditato dalle basiliche tardoantiche la navata lunga e rettangolare, derivata fondamentalmente dagli edifici pubblici romani. Né Brown né tantomeno le sue fonti considerano quale simbolismo coglievano nello schema di una chiesa ecclesiastici medievali come Suger di St.-Denis o Guillaume Durand. Certamente non culto nei confronti della Dea.

Affermazioni false
Se quanto sopra sembra uno schiacciatesta inflitto a un moscerino, i colpi sono necessari per dimostrare la totale falsità del materiale di Brown.
Le sue volontarie distorsioni della storia documentata si accoppiano più che bene con le sue strambe affermazioni su argomenti controversi. Ma per un postmodernista una costruzione della realtà vale l'altra.
L'approccio di Brown sembra consistere nel raccogliere ampie sezioni delle sue fonti e scuoterle insieme in una insalata di storia. Da Il Santo Graal Brown prende il concetto del Graal come metafora del lignaggio sacro spezzando arbitrariamente un termine francese medievale, Sangraal (Santo Graal), in sang (sangue) e raal (reale). Questo santo sangue, secondo Brown, discendeva direttamente da Gesù e da sua moglie, Maria Maddalena, alla dinastia Merovingia nei tempi bui della Francia, sopravvivendo alla sua caduta per persistere in diverse famiglie francesi moderne, inclusa quella di Pierre Plantard, uno dei capi del misterioso Priorato di Sion. Il Priorato — un'organizzazione reale registrata ufficialmente dal governo francese nel 1956 — fa affermazioni straordinarie riguardo la propria antichità come il "vero" potere dietro i Cavalieri Templari. Con ogni probabilità sorse dopo la seconda guerra mondiale e fu portato per la prima volta a pubblica conoscenza nel 1962. Ad eccezione del regista Jean Cocteau, la sua illustre lista di Gran Maestri — che include Leonardo da Vinci, Isaac Newton, e Victor Hugo — non è credibile, benché presentata come vera da Brown.
Brown non accetta una motivazione politica per le attività del Priorato. Al contrario, accoglie l'idea della Rivelazione dei templari dell'organizzazione come un culto di adoratori segreti della Dea che hanno conservato l'antica saggezza gnostica e i ricordi dell'autentica missione di Cristo, che se resi pubblici rovescerebbero completamente il cristianesimo. In maniera significativa, Brown omette il resto delle tesi del libro che vedono Cristo e Maria Maddalena, partner sessuali senza essere sposati, che eseguono i misteri erotici di Iside. Forse anche un pubblico di massa credulone ha i suoi limiti.
Da Il Santo Graal e dalla Rivelazione dei templari , Brown trae una visione negativa della Bibbia e un'immagine fortemente distorta di Gesù, che non è né il Messia né un umile carpentiere ma un ricco, istruito maestro religioso deciso a riconquistare il trono di Davide. Le sue credenziali sono amplificate dalla sua relazione con la ricca Maddalena che porta il sangue reale di Beniamino: "Quasi tutto ciò che i nostri padri ci hanno insegnato a proposito di Cristo è falso", si lamenta uno dei personaggi di Brown.
Tuttavia è la cristologia di Brown a essere falsa, e lo è ciecamente . Brown pretende che l'attuale Nuovo Testamento sia una falsificazione post-costantiniana che ha soppiantato le vere narrazioni ora rappresentate solo dai sopravviventi testi gnostici. Afferma che Cristo non fu considerato divino fino al Consiglio di Nicea che lo votò in questo modo nel 325 agli ordini dell'imperatore. Poi Costantino — adoratore del sole per tutta una vita — ordinò che tutti i testi scritturistici più antichi fossero distrutti, ed è per questo che nessuna serie completa di Vangeli è anteriore al quarto secolo. I cristiani in qualche modo non riuscirono ad accorgersi dell'improvviso e drastico cambiamento nella loro dottrina.
Ma secondo lo specioso ragionamento di Brown, neanche il vecchio Testamento può essere autentico perché le Scritture ebraiche complete non sono più vecchie di un migliaio di anni. E i testi tuttavia furono trasmessi così accuratamente che si adattano bene ai rotoli del mar Morto anteriori di mille anni. L'analisi delle famiglie testuali, comparazioni di frammenti e citazioni più le correlazioni storiche datano sicuramente i Vangeli ortodossi al primo secolo e indicano come essi siano anteriori rispetto alle contraffazioni gnostiche. (Le Epistole di S. Paolo naturalmente precedono anche i Vangeli).
I documenti della Chiesa Primitiva e la testimonianza dei Padri anteniceani confermano che i cristiani hanno sempre creduto che Gesù fosse il Signore, Dio, e Salvatore, anche quando quella fede significava la morte. I primi canoni parziali delle Scritture risalgono alla fine del secondo secolo e ripudiano già gli scritti gnostici. Per Brown, non è sufficiente attribuire a Costantino la divinizzazione di Gesù. La vecchia adesione dell'imperatore al culto del Sol Invictus si proponeva quindi di riciclare l'adorazione del sole come la nuova fede. Brown ripropone vecchie (e screditate da lungo tempo) accuse da parte di virulenti anticattolici come Alexander Hislop che accusava la Chiesa di perpetuare i misteri babilonesi, e come i razionalisti del XIX secolo che consideravano Cristo solo come un altro dio salvatore morente.
Non sorprende che Brown non perda l'opportunità di criticare il cristianesimo e i suoi patetici seguaci. (La chiesa in questione è sempre la chiesa cattolica, benché il suo "cattivo" in un'occasione si faccia apertamente beffe degli anglicani; di tutte le cose, per il loro aspetto arcigno). Si riferisce in maniera continua e anacronistica alla Chiesa come al "Vaticano", anche quando i papi non vi risiedevano. Rappresenta sistematicamente la Chiesa nel corso della storia come infida, smaniosa di potere, astuta, e omicida: "La Chiesa non può più servirsi dei crociati per ammazzare i non credenti, ma la sua influenza è altrettanto efficace. E altrettanto insidiosa".

Il Culto della Dea e la Maddalena
La cosa peggiore agli occhi di Brown è che l'ostilità della Chiesa nei confronti del piacere, del sesso e della donna abbia soppresso il culto della Dea ed eliminato il femminino sacro. Sostiene che il culto della Dea dominasse universalmente il paganesimo precristiano con lo hieros gamos (matrimonio sacro) come rito centrale. Il suo entusiasmo per i riti di fertilità è l'entusiasmo per la sessualità, non per la procreazione. Cos'altro ci si aspetterebbe da un simpatizzante del catarismo?
In maniera stupefacente, Brown afferma che gli ebrei nel Tempio di Salomone adoravano Yahweh e la sua controparte femminile, la Shekinah, tramite i servigi delle prostitute sacre — probabilmente una versione distorta della corruzione del Tempio dopo Salomone ( 1 Re 14:24 e 2 Re 23:4-15). Inoltre, egli dice che il tetragramma YHWH deriva da "Jehovah, androgina unione fisica tra il maschile Jah e il nome preebraico di Eva, Havah".
Ma come potrebbe dirvi qualunque studente del primo anno del corso di Scrittura, Jehovah è in realtà una interpretazione del XVI secolo di Yahweh usando le vocali di Adonai ("Signore"). Infatti, la Dea non dominava il mondo precristiano: non le religioni di Roma, i suoi sottoposti barbari, l'Egitto, o anche i territori semitici dove lo hieros gamos era un'antica pratica. Nemmeno il culto ellenizzato di Iside pare aver mai incluso il sesso nei suoi riti segreti.
Contrariamente alle affermazioni di Brown, le carte dei Tarocchi non insegnano la dottrina della Dea. Furono inventate per innocenti scopi di gioco nel XV secolo e non acquisirono associazioni occultistiche fino alla fine del XIX secolo. I pacchi di carte da gioco non hanno alcun simbolismo del Graal. L'idea che i diamanti simboleggino i pentacoli è un deliberato stravolgimento dell'occultista britannico A. E. Waite. E il numero cinque — tanto cruciale per gli enigmi di Brown — ha qualche collegamento con la Dea protettrice ma anche con miriadi di altre cose, inclusa la vita umana, i cinque sensi, e le cinque piaghe di Cristo.
Il trattamento di Maria Maddalena da parte di Brown è veramente deludente. Nel Codice Da Vinci , non è una prostituta pentita ma la consorte reale di Cristo e colei che è destinata ad essere il capo della Sua Chiesa, soppiantata da Pietro e diffamata dagli ecclesiastici. Fugge con la sua prole ad ovest verso la Provenza, dove i catari medievali conserverebbero gli insegnamenti originali di Gesù da vivo. Il Priorato di Sion veglia ancora sui suoi resti e sulle sue memorie, portati alla luce dal sotterraneo Santo dei Santi ad opera dei Templari. Il Priorato protegge anche i discendenti di lei, inclusa l'eroina di Brown.
Sebbene molti ancora raffigurino la Maddalena come la peccatrice che unse Gesù e la considerino uguale a Maria di Betania, tale confusione è in realtà opera successiva del Papa S. Gregorio Magno. L'Oriente le ha sempre mantenute separate e ha sempre affermato che la Maddalena, "apostola degli apostoli", morì a Efeso. La leggenda del suo viaggio in Provenza non è anteriore al IX secolo, e i suoi resti non vi furono riportati fino al XIII secolo. I critici cattolici, inclusi i Bollandisti, hanno sfatato la leggenda e distinto le tre donne fin dal XVII secolo.
Brown usa due documenti gnostici, il Vangelo di Filippo e il Vangelo di Maria, per provare che la Maddalena era la "compagna" di Cristo, intendendo la partner sessuale. Gli apostoli erano gelosi che Gesù fosse solito "baciarla sulla bocca" e la favorisse nei loro confronti. Brown cita esattamente gli stessi passaggi citati nel Santo Graal e nella Rivelazione dei Templari e raccoglie persino il secondo riferimento dall' Ultima Tentazione di Cristo . Ciò che questi libri tralasciano di menzionare è l'infamante versetto finale del Vangelo di Tommaso. Quando Pietro sogghigna che le "femmine non sono degne della vita", Gesù risponde: "Ecco io la guiderò in modo da farne un maschio.... Perché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli". (traduzione tratta da L. Moraldi, Vangeli apocrifi , Piemme, Casale Monferrato 1996; ndr)
Questo è certamente uno strano modo di "onorare" la propria sposa o di esaltare lo status delle donne.

I Cavalieri Templari
Brown allo stesso modo travisa la storia dei Cavalieri del Tempio. Il più vecchio degli ordini religiosi militari, i Cavalieri furono fondati nel 1118 per proteggere i pellegrini in Terra Santa. La loro regola, attribuita a S. Bernardo di Chiaravalle, venne approvata nel 1128 e generose donazioni garantirono a loro supporto numerose proprietà in Europa. Resi ridondanti dopo la caduta nel 1291 dell'ultima fortezza crociata, l'orgoglio e la ricchezza dei Templari — erano anche banchieri — attirò loro profonda ostilità.
Brown attribuisce maliziosamente la soppressione dei Templari al "machiavellico" papa Clemente V, che essi stavano ricattando con il segreto del Graal. La sua "ingegnosa operazione lampo" fece sì che i suoi soldati arrestassero improvvisamente tutti i Templari. Accusati di satanismo, sodomia, e blasfemia, essi furono torturati fino alla confessione e bruciati come eretici, i loro resti "gettati nel Tevere senza tante preoccupazioni".
Ma in realtà, l'iniziativa per distruggere i Templari partì da Re Filippo il Bello, i cui ufficiali reali eseguirono gli arresti nel 1307. Circa 120 Templari furono bruciati dalle corti inquisitoriali locali della Francia per non aver confessato o aver ritrattato la confessione, come avvenne con il Gran Maestro Jacques de Molay. Alcuni Templari patirono la morte altrove sebbene il loro ordine venisse abolito nel 1312. Clemente, un francese debole e malaticcio manipolato dal suo Re, non bruciò nessuno a Roma, in quanto era il primo papa a regnare da Avignone (e tanto basta per le ceneri nel Tevere).
Inoltre, il misterioso idolo di pietra che i Templari furono accusati di adorare è associato alla fertilità solo in una delle oltre cento confessioni. Fu la sodomia la scandalosa — e forse vera — accusa verso l'Ordine, non la fornicazione rituale. I Templari sono stati prediletti dall'occultismo da quando il loro mito di maestri della segreta saggezza e di favolosi tesori cominciò a formarsi verso la fine del XVIII secolo. I frammassoni e perfino i nazisti li hanno acclamati come fratelli. Ora è il turno dei neo-gnostici.

Da Vinci travisato
Le interpretazioni revisioniste di Brown riguardo Leonardo da Vinci sono distorte quanto il resto del suo libro. Sostiene di essersi per la prima volta imbattuto in queste visioni "mentre studiavo storia dell'arte a Siviglia", ma queste corrispondono punto per punto al materiale nella Rivelazione dei Templari . Uno scrittore che vede in un dito puntato un gesto di tagliare la gola, che afferma che la Vergine delle Rocce è stata dipinta per delle suore e non per una confraternita laica maschile, che sostiene che Da Vinci ha ricevuto "centinaia di ricche commissioni da parte della Chiesa" (in realtà solo una… e non fu mai eseguita) è semplicemente inaffidabile.
L'analisi di Brown dell'opera di Leonardo Da Vinci è altrettanto ridicola. Presenta la Monna Lisa come un autoritratto androgino quando è ampiamente noto ritragga una donna reale, Madonna Lisa, moglie di Francesco di Bartolomeo del Giocondo. Il nome non è certamente — come sostiene Brown — un derisorio anagramma delle due divinità egizie della fertilità Amon e L'Isa (in italiano per Isis). Chissà come mai si è lasciato sfuggire la teoria, propugnata dagli autori della Rivelazione dei Templari , che la Sindone di Torino sia un autoritratto fotografato di Leonardo Da Vinci!
Molte delle argomentazioni di Brown sono incentrate intorno all' Ultima Cena di da Vinci, un dipinto che l'autore considera un messaggio in codice che rivela la verità su Gesù e il Graal. Brown sottolinea la mancanza del calice centrale sulla tavola come prova che il Graal non è un recipiente materiale. Ma il dipinto di Leonardo da Vinci mette in scena specificamente il momento in cui Gesù avverte: "Uno di voi mi tradirà" (Giovanni 13:21). Non c'è alcuna narrazione nel Vangelo di S. Giovanni. In esso l'Eucaristia non viene mostrata e la persona seduta accanto a Gesù non è Maria Maddalena (come sostiene Brown) ma S. Giovanni, ritratto come al solito come un giovane effeminato da Leonardo da Vinci, paragonabile al suo S. Giovanni Battista. Gesù si trova esattamente al centro del dipinto, con due gruppi piramidali di tre apostoli su ciascun lato. Sebbene Leonardo da Vinci fosse un omosessuale spiritualmente problematico, è insostenibile l'affermazione di Brown secondo cui egli codificò i suoi dipinti con messaggi anti-cristiani.

Il caos di Brown
Insomma, Dan Brown ha composto uno scritto miserevole, un pasticcio ricercato atrocemente. Perciò, perché prendersi la briga di fare una lettura così ravvicinata di un romanzo senza valore? La risposta è semplice: Il Codice Da Vinci segue la corrente esoterica. Può ben darsi faccia per lo Gnosticismo quello che fece I Misteri di Avalon per il paganesimo: ottenergli l'approvazione popolare. Dopo tutto, quanti lettori inesperti scorgeranno le inesattezze e le menzogne propalate come verità nascoste?
In più, facendo false affermazioni di erudizione, il libro di Brown infetta i lettori con una virulenta ostilità nei confronti del cattolicesimo. Dozzine di libri di storie occultistiche, accuratamente collegate da Amazon.com, seguono la sua scia. E gli scaffali dei librai ora sono zeppi di falsità. Se ne venderebbero pochi senza il collegamento con Il Codice Da Vinci. Se pure l'assalto di Brown alla Chiesa cattolica può essere un complimento ambiguo, ne avremmo fatto volentieri a meno.

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Note

  • (1) I giochi di parole di Brown sono spesso difficoltosi da tradurre in lingua italiana. Robert Langdon nell'articolo originale viene reso con "bright fame long don”; in "Sophie Nevue" Sandra Miesel vede “wisdom New Eve” (probabilmente un gioco di parole in francese, così come Bezu Fache). Tuttavia "Langdon" potrebbe essere anche un riferimento a John Langdon, specialista di ambigrammi, cioè parole scritte in modo da essere leggibili allo stesso modo sia dall'alto verso il basso che viceversa. Il sito di Langdon è indicato tra i collegamenti del sito ufficiale di Dan Brown. Anche il nome di uno dei protagonisti, Leigh Teabing, è l'anagramma di Leigh Baigent, cioè i cognomi degli autori de Il Santo Graal , Michael Baigent e Richard Leigh.

Redazione de Gliscritti | Giovedì 03 Novembre 2022 - 4:11 pm | | Default

L'arte di imparare ad amare ed il cristianesimo. Corso di preparazione al matrimonio nella parrocchia di S. Melania. Trascrizione degli incontri tenuti da d. Andrea Lonardo, da sr. Maddalena Longobardi e dal gruppo degli animatori del corso nella primavera 2004 (tpfs*)

Il testo che segue vuole fornire un'idea dell'itinerario proposto ai fidanzati che si preparano al matrimonio nella parrocchia di S.Melania in Roma. E' utile sottolineare che ogni corso segue lo stesso itinerario di fondo, ma si differenzia non solo a seconda delle questioni che vengono direttamente sollevate durante gli incontri, ma soprattutto a seconda del gruppo sempre diverso che si crea all'inizio di ogni corso, con una serie di variabili diverse come diversa è la vita. Nondimeno, poiché la fede cristiana ci insegna che alcuni punti sono imprescindibili e la nostra comprensione della vita ci conferma nella constatazione che esistono questioni decisive, le pagine che seguono riescono a dare un'idea comunque intelligibile della proposta formativa che viene fatta ai fidanzati.
Chiaramente, essendo il testo la trascrizione di riunioni in cui il parlato è l'elemento dominante, ci sono questioni che meriterebbero ben altro approfondimento e temi che potrebbero invece essere sintetizzati più concisamente.
Con tutte queste puntualizzazioni, presentiamo lo stesso il testo di questi incontri on-line, perché possa arricchire la riflessione di persone interessate ad un confronto sulla scelta del matrimonio.
N.B. Sono stati omessi o ridotti al minimo, nella trascrizione, gli interventi dei partecipanti per privilegiare la continuità nella presentazione dell'itinerario proposto. Gli incontri sono stati trascritti da Francesca Menegazzo

Indice

  • I incontro. Una introduzione a modo di provocazione
  • II incontro. Crescere: contro l'infantilismo
  • III incontro. La verità, misura del crescere
  • IV incontro. Educare la coscienza: un apparente paradosso. Innamorarsi, voler bene, sposarsi: equivocità dell' “io ti amo”
  • V e VI incontro. Tre elementi che crescono insieme: il piacere, la relazione, la fecondità
  • VII incontro. Essere cristiani: alle radici dello sposarsi in Chiesa
  • VIII e IX incontro. Cristo ha amato la Chiesa. La Chiesa è nostra madre. L'indissolubilità del sacramento

I incontro
Una introduzione a modo di provocazione

Scoprirete che i temi che affronteremo, pur essendo molto semplici, tragicamente vengono affrontati solo raramente. Penso che viviamo un tempo di grande “analfabetismo affettivo”. Pochi aiutano a capire l'ABC del linguaggio degli affetti. Non è solo causa della TV-spazzatura, di quelle stupidissime trasmissioni sui sentimenti con la loro banalità di discorsi, ma manca proprio una educazione all'amore per cui le persone non sanno parlare degli affetti, non sanno come chiamare le cose, non sanno capire perché succede una cosa, non sanno valutare se una relazione è buona o cattiva, ecc.
Partiamo da alcuni esempi per mettere un po' sul tappeto i problemi che affronteremo.
Mi sono venuti in mente i temi trattati nel convegno organizzato dal Card. Ruini all'inizio di questo anno, quando ha convocato tutte le parrocchie di Roma per riflettere sul tema della famiglia. In quell'occasione ha invitato a parlare una sociologa che ha fatto degli esempi molto interessanti. Eccone alcuni.
Nella famiglia di alcuni decenni fa (o tuttora in alcune culture diverse da quella italiana) la famiglia non era basata essenzialmente sulla scelta libera dell'altra persona. Ad esempio il coniuge veniva scelto dai genitori, dai parenti, dalla famiglia allargata. A volte c'era qualcuno che stabiliva: “La persona che devi sposare è quella”, oppure: “Puoi sceglierla, ma deve far parte di quella famiglia, di quel ceto sociale, di quel paese, ecc.!” Scherzando potremmo dire che questo è un enorme problema tolto a chi deve sposarsi: non dover scegliere! Sapete bene che qualcuno non si sposa mai perché non sa scegliere!
Torniamo al discorso serio: quello che era chiaro invece, diceva la sociologa, era cosa si andava a costruire dando vita ad una famiglia, quali erano i valori. Per esempio era abbastanza evidente per una persona degli anni '30, che sposarsi significava anche avere tanti bambini.
La situazione odierna è capovolta. Da un lato – ed è un grande progresso - è veramente rispettata la libertà della persona di decidere di se stessa. Guai, oggi, se un parente provasse a dire: “Ho scelto per te questa persona!”. Ma, d'altro canto, questo elemento affettivo sembra diventare l'unico motivo della scelta. Perché mi sposo? Perché ho trovato la persona giusta. Non perché sono convinto che sia fondamentale una famiglia. Prescindo dall'idea che la famiglia sia una cosa buona. Posso anche pensare che tutte le famiglie sono destinate a fallire, ma io sono così convinto del “mio” rapporto con la “mia” ragazza, che la garanzia della bontà di quello che vado ad iniziare è dato esclusivamente dalla qualità del “nostro” amore. Ecco che allora può nascere un matrimonio senza che sia chiaro cosa vuol dire essere una famiglia. E' veramente fondamentale dire che una famiglia è per sempre? Non importa – sembrerebbero pensare alcuni - che io creda che la famiglia è importante o no; è sufficiente che con questa persona vada bene. Tutto il peso del rapporto è basato su questo: “Io scelgo te, tu scegli me!” Il resto non importa.
E' corretto questo modo di vedere? Aiuta? Fa crescere? Ha dei limiti? Su cosa si basa un matrimonio? Dove sono le fondamenta? Ho trovato il “pollo giusto”, la “principessa” (perdonatemi se scherzo!)? O c'è qualcosa oltre questo? Ecco una prima pulce nell'orecchio: ci si sposa “perché ci si vuole bene” o questo non è sufficiente?
Un secondo argomento toccato in quella relazione di cui vi parlavo è stato il tema dei figli. Affermava la sociologa: “Quando molti opinionisti dicono che gli italiani non vogliono bambini, non è vero proprio per niente! Il problema è che vogliono solo il loro bambino”. Così questo bambino, spesso unico e rimandato per tanto tempo, viene caricato di tutte le angosce, di tutti i desideri, di tutte le immaginazioni dei genitori. Ma c'è una generazione di adulti che vuole educare una generazione di bambini? Pensate a cosa avviene quando un bambino va nella scuola o in una squadra sportiva per crescere fisicamente. I genitori si accorgono in quel momento che il figlio non cresce solo. Impara le parole, i comportamenti, le mode, dagli altri, nel male e nel bene. Il problema è nuovamente lo stesso: c'è un popolo che educa una nuova generazione o siamo daccapo “io e lei” che educhiamo “il nostro figlio” e basta?
Il tempo in cui viviamo ha dei pregi e dei difetti ed è comunque differente da altri che lo hanno preceduto. Questa diversità è percepibile facilmente almeno in questo: la generazione precedente al sessantotto aveva maggiore coscienza di essere un popolo che educava una nuova generazione in un contesto comunitario condiviso, su dei valori ritenuti veri e certi, più grandi del mio sentimento di voler bene al coniuge ed al figlio.
Con queste prime riflessioni è già evidente che nel parlare del matrimonio è implicito non solo il rapporto fra i due, fra l'uomo e la donna, ma anche il rapporto con una nuova generazione, se il Signore vorrà dare figli alla coppia.
Pensate come sta emergendo questo problema anche a livello sociologico: c'è la questione molto dibattuta delle pensioni. Gli schieramenti politici si dividono su questo grande tema, ma sta pian piano emergendo che, dietro le scelte economiche che debbono essere fatte, c'è il grandissimo problema demografico! Qualunque scelta economica sulle pensioni, nel lungo periodo, sarà insostenibile se non ci sarà un aumento della natalità (in questi giorni si è parlato sui giornali di una leggerissima inversione di tendenza, lo 0,1% in Italia). Il Papa è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dire, durante la sua visita in Parlamento, che il più grande problema italiano odierno è quello demografico. Se non ci saranno bambini, non ci saranno i soldi per le vostre pensioni, le nostre. Pensate cosa vuol dire per un anziano avere un solo figlio, un solo nipote e, a volte, nemmeno un figlio o un nipote. Pensate che cosa vuol dire per uno Stato anche a livello economico, come dovrà essere riprogettato il Welfare (o come non sarà possibile riprogettarlo!). Chi avrà cura degli anziani? Prima – possiamo esemplificare - c'erano quattro fratelli, otto nipoti, ecc. ed era allora chiaro che l'anziano stava un po' con uno, un po' con l'altro. Ma quando resta una sola linea di discendenza in una famiglia… Di chi sarà la responsabilità della cura degli anziani? So bene che il problema dei figli è legato alla convinzione dell'esistenza del senso della vita, alla gioia di vivere – affermiamo con forza che i giovani che non chiamano a vivere bambini, che non sono disponibili per diventare genitori, non sono etichettabili che superficialmente come egoisti, ma, alla radice, il loro blocco, la loro paura deriva dal loro non essere convinti che la vita abbia senso e sia bella, dalla loro mancanza di speranza che gli impedisce di avere i motivi per chiamare un altro ad averla questa vita! – ma questi argomenti sociali e di costume servono ad aprire il problema ed a far riflettere chi ragiona solo in termini politici ed economici!
Altra questione, ancora come provocazione: sapete del diffondersi della realtà della convivenza. Pochissimi sottolineano, dinanzi all'emergere evidente di questo fenomeno, un “piccolo” annesso alla questione: dalle statistiche di alcuni anni fa risulta che le coppie che hanno convissuto prima di sposarsi, sono in realtà più deboli, cioè divorziano più facilmente di quelle che non hanno convissuto. Queste sono statistiche ufficiali, non della Chiesa. E' molto interessante questo dato, perché fa capire che se tutto si basasse sul “te che scegli me ed io che scelgo te”, se fosse vero questo, ne dovrebbe risultare che più le due persone hanno vissuto nella stessa casa prima del matrimonio, più dovrebbe essere forte il legame. In realtà non è così. Il fatto di avere convissuto non mi porta a conoscerti meglio, ma soprattutto non mi conduce a comprendere di più qual è il valore in gioco nel matrimonio per vivere una scelta più felice, duratura e convinta. E' vero anzi il contrario! La convivenza non serve ad avere un matrimonio più riuscito! Prima di dire se la convivenza è moralmente giusta o meno è interessante soffermarsi a vedere quindi le banali argomentazioni con cui la si fa passare per scelta di progresso e di amore più maturo. Se pensate alla mentalità che viene trasmessa ai quindici-sedicenni, continuando a far passare loro il messaggio che adesso tutti andremo verso questo stile di vita, perché questo è il futuro, perché così saremo veramente liberi... In realtà il problema non si risolve, anzi si aggrava. Questa non è una via di soluzione del problema. Non è l' “esperienza” che rende saldo un matrimonio! Ma cos'è allora? Qual è il bandolo della matassa?
Un altro tema che emergerà nei nostri incontri è quello della sessualità. Il nostro tempo ha una cultura per certi versi molto più aperta rispetto al passato. Pensate allo sviluppo sessuale, pensate all'evidente fatto che le nostre bambine hanno la prima mestruazione molto prima di quella delle nostre nonne (1,5 – 2 anni prima) e questo per stimoli psicologici. La realtà così pervasa di richiami sessuali – io contesto profondamente quei parenti che, alla vista del loro nipotino di tre anni gli domandano: “Ma ce l'hai la fidanzatina!” come se dovesse essere quello il suo problema principale all'età di tre anni - cambia il nostro fisico. Tutto viene apparentemente anticipato. Però per altri aspetti non è così: ci sono ragazzi che scoprono l'omosessualità tardissimo. Per alcuni la scoperta, l'accettazione di questo dato, avviene dentro il matrimonio, persone che arrivano a dire: sì è vero, io mi sono sposato per nascondermi. In un contesto di apparente vittoria sui tabù sessuali è in aumento il numero delle coppie che non riescono ad avere bambini per problemi psicologici (si parla addirittura del 10% delle coppie!). E' allora vero che basta una “libertà” nella sessualità, per viverla bene?
Pensate quanto in un paese apparentemente culturalmente molto aperto vive ancora, non mai detta, la famosa mentalità della “doppia morale”: se un maschio ha avuto poche ragazze è una persona che non ci capisce niente di affetti, è un ritardato, ecc. ecc., se una donna ha avuto molti ragazzi è una poco di buono, ecc. ecc. E' molto forte questo atteggiamento. Mi raccontava la sua storia un ragazzo che conosco, che era stato tanti anni con una ragazza e poi, all'età di 34 anni, era stato lasciato. E' rimasto colpito dal fatto che tutti avevano delle amiche da presentargli e lui così commentava gli eventi che gli accadevano, divertito: “Alla mia età i maschi da matrimonio sono pochi, perché la maggior parte sono già in vista del matrimonio o sposati, sono già impegnati, e quelli che non lo sono, non gliene importa niente e allora non sono adatti, per le ragazze che cercano il matrimonio! Mi diverto a vedere che le ragazze che conoscevo da lontano e che sapevo avere avuto molte storie affettive, perché si erano volute “divertire” fino ai trent'anni e fino a poco prima se ne vantavano, ora mi si presentano, dicendo di aver avuto solo due o tre amori e tutti seri, perché ora vogliono sposarsi e pensano che, presentandosi così, hanno più possibilità che io dica loro sì!” Questa terribile doppia morale esiste! Per un uomo a volte vale il contrario. La storia è piena di ragazze che credono ingenuamente a ragazzi che ne hanno combinate di tutti i colori e pensano che, però, con loro sarà tutto diverso: “Adesso con me sarà diverso, sarà eccezionale, perché solo io l'ho capito, ecc. ecc.”
Altro tema di cui parleremo è il rapporto con le figure dei genitori. La loro presenza non solo torna a fare problema perché bisogna mettersi d'accordo riguardo al pranzo del matrimonio: il genitore vuole che sia invitato il parente X che invece io non voglio invitare, oppure l'antipasto deve essere fatto in blu o in giallo, ecc.!
Pensate piuttosto cosa vuol dire riconsiderare ora chi sono i miei genitori, per poter consegnare la mia figura di marito e di padre, di moglie e di madre, in maniera più chiara all'altra persona. A volte quanto fa male sentirsi dire: “Ma sei proprio come tuo padre, quel tratto lì ce l'hai proprio! Se vedo tuo padre o tua madre, io vedo te!” Oppure a volte uno si caratterizza per antitesi: lui è stato così io devo essere diverso. Il matrimonio è uno di quei momenti in cui una persona, rivivendo la sua vita passata, si domanda: come sono adesso io? Cosa porto dentro nel bene e nel male? Ed è bene che sia così, anche se non tutto fosse andato bene. Io sono segnato da una storia che non è una storia neutrale, matematica … ma una storia di relazioni, di rapporti. E porto in me dei tratti non solo fisici ma anche psicologici, spirituali, culturali, in cui si vedono delle cose della mia storia, dei miei genitori, per somiglianza, per opposizione.
Un'altra cosa cui accenneremo è il rapporto con gli amici, il rapporto fra il volersi bene nella coppia e il voler bene ad altre persone. E' un elemento da considerare: che cosa pensano i vostri amici di voi? A me colpisce, per esempio, che tanti ragazzi, tanti maschi, non parlano mai degli affetti, anche prossimi al matrimonio. Hanno tantissimi amici di pallone, di calcetto… però è raro che abbiano un amico che gli dice: “Non vedo l'ora di vederti sposato con quella persona perché da quando ci stai insieme sei più felice, ti vedo cresciuto”. Oppure l'opposto: “Con quella persona non ti ci vedo affatto!” E' difficile che una persona entri nel merito a dare un giudizio che la vera amicizia permetterebbe. In che maniera questa storia viene vissuta sì dalle due persone, ma, insieme, viene accompagnata, aiutata, illuminata dalla parola di altre persone. Queste provocazioni volevano aiutarvi ad aprire problemi che sono tutt'altro che risolti, secondo me, a farvi rendere conto come di scontato c'è poco e quanto abbia senso prendersi del tempo per questi incontri per approfondire e crescere.
Ma veniamo ora al punto decisivo, al punto di vista che vorremmo insinuare in voi e che è la via maestra per affrontare poi tutti gli interrogativi che ci siamo fin qui posti. La prospettiva di cui vorremmo parlarvi, che è una prospettiva un po' particolare, legata profondamente alla nostra comprensione cristiana della vita, è questa: il matrimonio non è basato sulla scelta della persona giusta. Noi non crediamo che il problema più importante del matrimonio sia trovare la persona giusta. Come se il matrimonio fosse la grande caccia. Si apre la caccia e allora finché ci sono volatili in giro bisogna prenderne uno - il più grosso o il più adatto che sia – pensando inconsciamente: a seconda se sono molto bello, molto ricco e molto simpatico allora ho certe possibilità, se lo sono un po' di meno, allora devo tarare il mio target a seconda della possibilità. La Chiesa ritiene, e in questo sa di essere appoggiata anche da qualcuno che cristiano non è, che ci sia un elemento fondamentale, rappresentato da una parola che sentirete riecheggiare più volte nei nostri incontri, la parola “crescere”. Ho la profonda convinzione che a seconda di come una persona cresce, cambia tutta la sua vita e, così, la sua comprensione dell'amore. La Chiesa parla di conversione, crede che le persone possono cambiare vita. Gesù dice: “Convertitevi e credete al Vangelo!” Cioè esistono dei momenti in cui una persona cresce o resta bambina. Cresce perché cambiano i suoi valori, cambia il suo rapporto con la verità, con Dio, con il bene, con la carità, con la fede… Questo è l'elemento che fa vedere il maniera diversa le realtà della vita.
Un famoso psicologo ha scritto “L'arte di amare”. E' un piccolo libro in cui si dice, più o meno, che le persone sono convinte che tutto si debba imparare, sono disposte sul posto di lavoro a fare dei corsi, a volte assolutamente inutili, di convinzione psicologica - fino ad imparare a camminare sui carboni ardenti! - di avere l'idea che se sono vincenti conquisteranno chissà che cosa... Sanno che si deve imparare, sanno che se uno non impara è un carciofo nel mondo lavorativo. Ma la domanda dell'autore è questa: le persone sono convinte che si impara ad amare? Oppure sono convinte che l'amore è un fatto spontaneo? Che se trovo la persona adatta mi viene spontaneo, non devo imparare, non devo riflettere, parlare, confrontarmi con un altro che lo sa fare? Il titolo è provocatorio: “L'arte di amare”. Forse è l'arte più difficile, l'arte in cui bisogna imparare e se uno non impara non riesce ad amare e sbaglia, non perché ha sbagliato la scelta dell'altro o l'altro ha sbagliato scegliendo me, ma perché non ha l'arte, cioè non è padrone dell'arte di amare. Intuite subito che, parlando di “arte”, non intendiamo tanto dei trucchetti, una metodologia sull' “how to do”, delle tecniche possedute le quali tutto va bene, delle indicazioni da “ars amatoria” o similari, ma qualcosa di ben più profondo!
Mi viene in mente un esempio molto semplice, un classico ormai di questi corsi. Conosco un giovane della parrocchia nella quale ero vice-parroco, un ragazzo bellissimo, fichissimo, sportivo, ingegnere, ricco, ecc… Quando l'ho conosciuto è venuto da me e, in queste confessioni di profonda intimità maschile che noi preti subiamo, mi ha detto: “Senti Andrea, io sono contento di venire in parrocchia, mi stai simpatico ecc. ecc. Ma chiariamo subito un punto: io con una “cozza” non mi ci metterò mai! Se una ragazza non mi piace, non mi “tira” non ci potrò stare insieme”. Per chi non è romano chiariamo che “cozza” sta per ragazza molto brutta! Non so perché mi disse questa cosa. Poi lui è diventato catechista, ha seguito i ragazzi della parrocchia, ha fatto un cammino all'interno della comunità nella fede e, dopo tre anni, è tornato da me dicendomi: “Ti ricordi cosa ti avevo detto? Non ho cambiato minimamente idea su quella cosa che ti dissi: con una cozza mai! Però ho capito una cosa in più: se la mia futura ragazza non sarà una donna generosa, io mi annoierò. Non voglio solo una ragazza che mi attiri, ma una che ami l'accoglienza, il servizio, la Chiesa”. Era cresciuto nell'arte di amare! Aveva capito che per la sua vita era fondamentale il rapporto con i piccoli: i bambini, i ragazzi, le persone in difficoltà. Aver vissuto questa esperienza lo aveva portato a scoprire una cosa completamente nuova: lui cercava una persona che condividesse questo stile di vita, questo valore, una persona generosa, con la voglia di aiutare, di incontrare... perché lui era cresciuto. Questo esempio è interessante perché mostra come non è vero che si impara ad amare avendo necessariamente tante esperienze affettive con l'altro sesso. A volte è un inganno dire: “Quello non è preparato per il matrimonio perché è la prima o la seconda persona con cui sta insieme”. Non è vero, anzi a volte si impara proprio ad amare facendo altre esperienze che non sono direttamente affettive. E talvolta non sa amare proprio chi ha avuto tanti rapporti di coppia, perché non si è mai misurato con la generosità, con la gratuità, con la fede, ecc.!
C'è un grande spartiacque in ogni discorso sull'amore e sul matrimonio: devo scegliere l'obiettivo giusto, la persona adatta oppure devo crescere io ? Sono due cose radicalmente diverse (poi vedremo che si incrociano anche). Tutto è basato sul trovare l'altra persona e sul sentimento che mi lega a lei oppure sul fatto che io e l'altra persona dobbiamo crescere? Nel caso di quel giovane è straordinario che sia cresciuto proprio non stando con una ragazza! Ha capito un aspetto fondamentale di una famiglia attraverso un'esperienza diversa, l'esperienza del servizio per i ragazzi di una parrocchia!
Conosco tanti ragazzi e ragazze che hanno avuto tantissime storie affettive, ma sono state tutte come delle fotocopie. Ad esempio, ragazze che hanno avuto sempre ragazzi violenti e poi hanno affermato che tutti i maschi sono farabutti e traditori. In realtà non essendo mai cresciute andavano sempre a cercare la persona che era il corrispettivo psicologico della loro vita. Oppure persone che hanno sempre bisogno di avere vicino persone incapaci, inadatte, non all'altezza. Perché per forza tutte storie simili, analoghe? Una storia non basta viverla ma va capita: non è perché lascio una persona che ho capito una storia, ma dipende quanto cresco dentro quella storia. Come accorgersi che una persona non è onesta, non è sincera, non è fedele, è dura, è indolente, è pigra, non si impegna? Una relazione molto frequente è quella di persone iperattive che stanno con persone moscissime. Uno dei due tiene in piedi tutto il rapporto. Fa tutto lei… e sembra che vada tutto bene perché una delle due fa sempre tutto, l'altra non fa niente e gli va bene tutto… Però così non funziona un rapporto! Il problema però non è solo dire che non sono adatte le persone - per esempio, chi è iperattivo si deve dare una calmata, chi invece è indolente dovrebbe crescere e questo permette poi di vedere. Ma se non avviene una crescita, la situazione non è ancora stata chiarita, il toro non è ancora stato afferrato per le corna!
Un esempio più alto lo traggo dall'esperienza di S Francesco d'Assisi.
Nel suo testamento S.Francesco stesso racconta così la sua conversione: “Quando io ero nei peccati mi sembrava cosa triste stare con i lebbrosi, ma il Signore mi condusse tra di loro e ciò che era amaro mi fu mutato in dolcezza di anima e di corpo”. E' un'espressione bellissima! Scopre che alcune cose che sembravano amare, per questa conversione diventano dolci. Usa questa espressione molto forte: “dolci di anima e di corpo”. Riusciva a sentire la dolcezza non solo nella sua interiorità ma anche nella sua corporeità. Quindi lui comincia ad essere felice di costruire la Chiesa, diviene per lui inconcepibile non amare il Papa, i vescovi, le cattedrali, predicare il Vangelo ecc. Diventa inconcepibile per lui non amare i poveri; una persona che non aiuta i poveri è una persona che non sa vivere, che non ha capito bene la vita. La cosa interessante è che capisce che prima quella cosa lui la odiava, era amara; ha vissuto un periodo della vita in cui queste cose non erano importanti, e solo poi è iniziato un periodo della vita in cui queste cose erano importanti. Secondo me sarebbe sbagliato, riduttivo, pensare che S.Francesco sia stato prima un godurioso, uno che si godeva la vita, e poi dopo sia intervenuto il dovere. Così alcuni leggono il crescere: finché sei un pischello, un adolescente, un vitellone, te la godi... poi subentra il dovere, la moglie, il marito, i bambini, il lavoro e allora diventi uno serio, ossessionato, che si affatica, ecc. Chi dicesse queste cose, non capirebbe niente di S. Francesco. Lui è uno a cui prima piaceva una cosa e poi gliene piace un'altra. Non è passato dal piacere al dovere, ha cambiato quello che gli piace. E' un modo diverso, profondamente diverso, di comprendere dove sta la dolcezza, la bellezza, il piacere. Provate un po' a pensare se voi avete mai sperimentato un momento di conversione del piacere, in cui prima vi piaceva una cosa e poi non vi piace più. Se sapete spiegare come mai succede questo, allora siete pronti per sposarvi. Vuol dire che avete capito come funziona la realtà, come una persona cresce, come mai delle cose che prima riteneva fondamentali, per le quali avrebbe dato l'anima e la vita, divengono poi inutili, stupide, brutte e non danno più piacere. Invece cose che danno veramente piacere, dolcezza, sollievo all'anima, al corpo sono queste altre. Questo è un elemento molto grande, molto importante: è la prospettiva del crescere, dell'apprendere l'arte di amare.
Questa è la prospettiva che cercheremo di approfondire. Quando una persona è pronta per il matrimonio? Non quando ha trovato il tipo giusto (la tipa giusta). La mezza mela che combacia esattamente con te non esiste. La cosa meravigliosa e terribile del matrimonio è che l'altro è una mela intera. Questo è il grande problema! Quando mi accorgo che l'altro è intero e che sta in piedi da solo e che ha i suoi pallini, le sue bellezze e le sue stranezze - e ce le ha tutte, non per metà, ed io altrettanto - allora si comincia a capire che il problema non è riuscire a combaciare perfettamente, ma piuttosto porsi nella prospettiva di cosa si vuole fare della vita, capire cosa vuol dire crescere. Sono proprio due prospettive diverse. Perché mi sposo? Perché quella è la persona adatta? Le persone sono adatte a seconda di come noi cresciamo, di come noi cambiamo!

Gruppetti sulle diverse forme d'amore

Al termine di questo primo incontro, voglio proporvi un semplice lavoro di gruppo. Servirà sia ad iniziare a conoscervi fra di voi, ma soprattutto ad esprimervi ed a toccare con mano quanto siamo analfabeti nel parlare dell'amore!
Le persone che con me guidano questi incontri faranno da segretari e scriveranno le vostre riposte che saranno comunque – non vi preoccupate! – rigorosamente anonime. Vi dividete in gruppetti di quattro coppie e provate a rispondere insieme a due domande, apparentemente facilissime.
La prima: quanti e quali oggetti d'amore conoscete? E' evidente che potete amare il vostro futuro marito o moglie, così come potete voler bene al vostro gatto o cane. Quale altre “categorie” di amore conoscete oltre a queste due?
Seconda domanda, ancora più difficile: una volta messe una dopo l'altra le differenti relazioni d'amore, provate a dire cosa è specifico di ognuna di esse, quale caratteristica è tipica di una forma, ma non di un'altra. Qual è la caratteristica dell'amore per un animale, ad esempio, che è, invece, assente nell'amore per la mia fidanzata (e viceversa)?
Avete solo 15 minuti per rispondere insieme. Prendetelo come un gioco, come un esercizio, che ci servirà poi per parlare insieme, a partire da ciò che, d'istinto, avrete risposto.

II incontro
Crescere: contro l'infantilismo

Partiamo in questo secondo incontro dalle risposte che avete dato e che ho messo per iscritto sul foglio che vi è stato distribuito. Provo a farne una valutazione, per mostrarvi quanti problemi ci sono dietro le vostre risposte (so bene che avevate pochissimo tempo e che, forse, con più tempo, le risposte sarebbero state diverse, ma ritengo ciò che avete scritto comunque significativo).

Vediamo innanzitutto la prima parte delle risposte, quella relativa alla elencazione delle relazioni di amore .

Qualcuno ha scritto che esiste “l'amore per la vita”. Una cosa interessante è accorgersi che, se è vero che l'amore è innanzi tutto per la vita, però è anche vero che va specificato in forme diverse. In realtà, se fossi stato più preciso (ma volutamente non lo sono stato nelle domande, per vedere se vi accorgevate del problema!) l'amore ha delle caratteristiche che sono costanti, immutabili, nelle diverse forme d'amore, mentre altre sono tipiche solo di alcune di esse e, se sono presenti in altre forme, sono addirittura delle negazioni dell'amore!
Per esempio: nelle risposte voi dite che una caratteristica del rapporto uomo-donna è il rispetto. Secondo me il rispetto non è tipico del rapporto uomo-donna, ma è tipico dell'amore in se stesso. Il fatto che una persona che sa amare abbia rispetto, è una caratteristica universale. Questo sembra una banalità, ma è una cosa fondamentale. Guardate per esempio i nostri ragazzi: se non hanno rispetto per l'autobus, per il bene comune, ecc., non sanno amare. Il rispetto è una caratteristica radicale della maturità della persona. Rispetto viene dal latino respicere [1] : guardare, capacità di saper guardare, saper essere di fronte ad un altro, sapendo che hai di fronte un'altra persona. La capacità di rispettare i tempi, la vita, le cose, le persone è qualcosa in cui si cresce (o si decresce a seconda se uno cresce bene o male). Io non credo a chi dice, per esempio: io rispetto la mia fidanzata, ma me ne frego del giardino pubblico. Questo è falso: in realtà la vita dimostrerà che quella persona non rispetta nemmeno la sua fidanzata. Il rispetto è una caratteristica radicale dell'amore. Invece esistono delle caratteristiche che esistono solo in alcune forme d'amore e non in altre.
Ecco, allora, una prima provocazione. Una persona sa o non sa amare, possiede o non possiede quest'arte. Al di là della relazione specifica di coppia o di parentela o di amicizia. Prima di dire se ama me, posso dire se ama.

Vediamo, invece, sempre fermandoci alla prima parte delle vostre riposte, le singole relazioni. Capite subito che, se una persona è persona per la quale l'amore ha valore, questo si manifesterà in relazioni diverse. Ecco allora alcune osservazioni che mi sembrano interessanti, per evidenziare a cosa fate attenzione e cosa trascurate.

Nelle risposte date sono molto presenti le forme d'amore che riguardano i parenti stretti, ma, fra queste relazioni, è un po' meno presente il rapporto di fratellanza. Qualcuno lo ha compreso nell'amore per la famiglia. Siete più attenti ai rapporti genitori-figli che non a quelli, altrettanto decisivi per la vostra formazione, con i vostri fratelli e sorelle. Li sottovalutate!

E' abbastanza evidente dalle vostre risposte che non avete pensato chiaramente all'amore che è quello del cristiano, verso il Signore. Qualcuno ha posto l'amore per Dio, fra le diverse forme d'amore, ma non tutti. E, soprattutto, nessuno ha parlato di amore per Cristo, una cosa fondamentale per i cristiani. Nessuno di voi ha scritto che Cristo può essere amato! Non è sufficiente che una persona voglia amare Dio. Siete cristiani, però non vi viene spontaneo dire che voi amate Gesù Cristo, il Vangelo.

Nessuno di voi ha scritto che ama la Chiesa. Non emerge affatto l'amore per la Chiesa. Non solo la chiesa edificio, ma la comunità cristiana, il popolo che trasmette i sacramenti, la fede, ecc. Ne parleremo meglio, ma fin da ora notate che venite a chiedere di sposarvi in Chiesa (non tanto nell'edificio fisico che sono le Chiese cristiane), ma non sapete dire se amate la Chiesa!

Invece è molto presente nelle vostre risposte – lo è nell'atteggiamento del nostro tempo – l'aspetto naturalistico. Vi siete soffermati a dire che amate la natura, lo sport, gli animali.
E', invece, evidente che non fate parte di una generazione sessantottina: non vi viene spontaneo amare ciò che è pubblico, la politica, il bene comune, la giustizia, lo Stato. Nessuna di queste realtà è stata da voi indicata come oggetto d'amore. C'è poca sensibilità per ciò che è pubblico. Dicevamo nel primo incontro che nel matrimonio le persone basano tutto su: “Io scelgo te, tu scegli me”. Ecco che vi ripongo la domanda a partire dalle vostre risposte: il matrimonio riguarda solo me e lei o ciò avviene in un contesto della trasmissione di valori che sono più grandi di noi, cioè di un popolo che si impegna a trasmettere una cultura di valori a una generazione nuova che nascerà nelle nostre famiglie?

Ancora dalle vostre risposte: non vi viene spontaneo pensare all'amore verso chi è in difficoltà, verso il povero (attenzione, ripeto ancora una volta, non sto dicendo che voi non abbiate questo, non vi sto giudicando! Sto solo dicendo che in questo piccolo lavoro di gruppo non vi è venuto spontaneo l'affermarlo, il rimarcarlo, il notarlo con forza). Solo alcuni di voi hanno aggiunto alle forme di amore familiari ed amicali un generico riferimento all'amore “per il prossimo”.

Abbiamo detto – cerchiamo ora di approfondire – che c'è una capacità dell'uomo di amare, che c'è l'amore in quanto tale, e ci sono delle forme di questo. Io non credo ad una persona che ama senza avere la capacità di amare. Per esempio, vi dicevo che è importante che voi guardiate la disponibilità a rispettare l'altro. Ci sono delle persone che dicono: “Il mio fidanzato è misogino, disprezza tutte le donne, ma a me mi tratta benissimo”. Oppure: “Quello ce l'ha con tutto il mondo, è sempre inviperito, arrabbiato, depresso, però con me è diverso!!!” La vita dimostra che queste sono grandi baggianate. Se io amo la mia donna, ho anche stima della realtà femminile in sé, se io amo il mio uomo, ritengo la realtà maschile capace di valori. Se io amo una persona, non posso odiare o disprezzare ogni altra persona.
C'è, allora, un primo punto fondamentale: che l'amore è rivolto verso l'uomo, verso la vita. Una persona che ama realmente, esprime questo amore in tante “versioni” perché lo ha nel cuore. Non capisco come uno possa amare solo una persona ed essere indifferente agli altri.
Il secondo punto è altrettanto importante: proprio per ciò che stiamo dicendo, se voi avrete più passione, per esempio, per il bene comune, crescerà anche l'amore tra di voi come uomo e donna. L'amore è dimostrato sia dal fatto che esiste un atteggiamento di amore verso la realtà, verso la vita - e verso Dio, non dimentichiamolo! - sia dal fatto che esistono delle forme specifiche. Lo stesso vale se vediamo le diverse “forme” d'amore l'una a fianco dell'altra. Prendiamo, per esempio, l'amicizia: io non credo ad una persona che non abbia amici, non credo ad uno che mi dice: “So amare te, fidanzato/a, ma non credo nell'amicizia”. O, proseguendo il filo dei pensieri, una persona che mi parli di amore per gli amici, ma non di quello per i figli, per i fratelli. Una persona che ama ha delle differenziazioni di amore. Quanti maschi, per esempio, hanno tanti amici, ma non hanno mai un amico che gli darebbe un consiglio sul loro matrimonio, non hanno mai il coraggio di chiedere all'amico: “Che ne pensi della mia vita? Mi vedi bene sposato? Mi vedi bene padre, madre?”
Secondo me questa è una povertà. Una persona che ama non è pronta per il matrimonio solo perché ha trovato la persona con cui sposarsi, ma questa cosa è inserita in un contesto dove ama i suoi amici, ama la natura, ama la Chiesa, ama il Signore.
In un testo di C.S.Lewis, uno scrittore anglicano, amico di Tolkien, l'autore del Signore degli anelli, lui, sposato con bambini, dopo aver perso la moglie dopo 4 anni di matrimonio, scrive [2] :

“Con mia moglie abbiamo provato l'amore in tutte le sue forme: fisica, sessuale, spirituale, culturale, ecc… ed ora posso dire tranquillamente che Dio non è un surrogato dell'amore umano, perché se realmente lo fosse, con tutto quello di bene che ho provato, avrei perso interesse per Dio, invece io e mia moglie non abbiamo mai smesso di cercare Dio. Tanto varrebbe dire ad una persona che siccome ama un uomo o una donna, non ha più bisogno di leggere un libro o di fare una passeggiata in mezzo alla natura, ecc…”

Le forme di amore coesistono insieme ed esprimono la maturità della persona nell'amore. Una persona è matura nell'amore sia perché possiede le qualità dell'amore in sé, ma anche perché le sa vivere, coniugare nei vari aspetti.
Altro esempio: io non credo ad una persona che non sa stare in silenzio. Se è così non sa amare. Uno dei problemi dei nostri bambini è proprio questo: parlano sempre! Hanno bisogno di rumore! Dinanzi ad un cielo stellato, non sanno stare cinque minuti in silenzio, in chiesa non sanno ascoltare uno che parla, anche se dice cose interessanti. O all'opposto una persona può non essere capace di parlare, ha paura di dire cosa pensa. Nell'amore non si sta sempre in silenzio, nell'amore non si parla sempre. Entrambe queste due cose sono qualità dell'amore perché il silenzio vuol dire interesse, attenzione, vuol dire il desiderio dell'ascolto, la parola vuol dire, invece, il desiderio della comunicazione.
Altra considerazione (ma è sempre la stessa, vista diversamente!): per amare te, io devo avere stima di me stesso. Non credo ad una persona che non si stima, che ha un disperato bisogno di complimenti. Tutti abbiamo bisogno di complimenti (soprattutto le donne!). Però questa cosa si deve radicare su una stima profonda che noi abbiamo accresciuto negli anni della nostra vita, nella fede, nel cammino di noi stessi, altrimenti la persona sarà un mendicante, sarà una persona continuamente in crisi, che elemosina, che seduce. E' importante che una persona dica: “Io valgo!”. Anche in un momento di crisi. Una persona che ama veramente, deve essere convinta che l'altro, lasciandoci, sta perdendo qualcosa. Se tu non ti stimi, se non hai una convinzione profonda del valore della tua vita… Questo è molto importante. E questo ha un riflesso nelle cose: gli studi moderni psicologici, ma anche la fede cristiana, insegnano che tante forme anche fisiche, a volte manifestano un malessere nei confronti della nostra stessa vita. Sapete che tante forme a livello somatico a volte manifestano una paura – che non è una colpa morale, non confondiamo il livelli – una fatica di vita. Pensate all'anoressia, alle persone anoressiche. Coloro che non capiscono il problema si limitano a dire: “Devi mangiare!” In realtà tante ragazze (cominciano ad aumentare anche i casi di ragazzi) hanno paura di crescere - a volte dinanzi ad un padre che non le ha mai accarezzate, non ha mai parlato loro, non ha mai valorizzato il loro essere - hanno quasi paura di diventare donne. E quel loro essere magre non è un problema fisico semplicemente, ma porta dietro una paura, una non serenità, una non accettazione. Ed è stupido chi continua a dire solo: “Devi mangiare!” Quella persona è convinta di essere grassa! Diverso è aiutarla dicendo: “Cosa ti manca? Perché non stai bene? Perché soffri?” L'amore di noi stessi si manifesta nella realtà fisica, somatica, riguarda anche le cose. Un esempio ancora: nel fare una famiglia - lo scoprirete, se già non lo sapete - non si può amare se stessi e l'altro se non curando gli oggetti. Non è solo una perdita di tempo la litigata sulle piastrelle rosa o bianche della nuova cucina (spero rosa no!!!), ma è una cura che è la cura della nostra vita – e, in futuro, della vita dei bambini. Chiaramente facendo i conti con la disponibilità di soldi, di tempo, ma, senza mai dimenticare, che non esiste un amore a se stessi o all'altro che non sia anche un'attenzione, per esempio, alla casa, al cibo. Non si possono sposare due persone che non vogliono impegnarsi ad imparare a cucinare. Non è una stupidaggine, questa che dico! Conosco un monaco che si arrabbia moltissimo quando i suoi monaci cucinano male, perché in questo si manifesta che non amano. Anche questo, il cucinare, è un modo di accogliere con amore l'altro. Sottolinea come l'amore abbia una carnalità, una concretezza.

Domanda di un partecipante al corso : Ma tu vuoi dire che dobbiamo essere perfetti su tutti i fronti, per poterci sposare?

Ovviamente il mio è un modo di parlare per esagerazioni. Sto aprendo dei problemi, indicando che c'è un cammino, una meta verso cui noi cresciamo. Nessuno di voi ama il suo fidanzato/a alla perfezione, questo è fondamentale. L'amore esiste sebbene ognuno di voi non sia del tutto capace di amare. Ciò che voglio dire è che c'è una maturazione della persona, che è il cammino che noi facciamo, in cui le varie parti, se sono in armonia, si aiutano fra di loro. Su alcune cose resto irremovibile, per esempio che una persona deve imparare a rispettare. Però è vero che poi esiste il peccato, noi non sempre rispettiamo tutti. Anche la persona più santa, più in gamba, può avere le sue cadute, i suoi peccati. Però c'è un maturare della persona che ti aiuta a vivere questa realtà globale. E poi resta vero che esistono delle profonde differenze, che non ci devono scandalizzare: esistono persone che amano più timidamente, altre che amano in maniera più loquace. Però queste cose maturano nelle persone negli anni.

Vediamo, infine, la seconda parte delle vostre risposte. Passiamo dal generale al particolare. Queste diverse forme di amore – per il fidanzato, per i genitori, per i fratelli, per gli amici, per la Chiesa, per Cristo, ecc, ecc. - hanno delle caratteristiche diverse , oltre ad averne alcune in comune.

Vediamo ancora un altro esempio: qualcuno di voi ha detto che l'amore per gli animali è un amore senza parole. Questa è una cosa molto importante. Sapete che con gli animali c'è un punto fondamentale da avere ben chiaro: noi gli animali li possiamo amare, ma loro non amano noi. Solo una persona molto povera di affetti dice che il cane lo ama. In realtà l'amore ha una caratteristica fondamentale che è la libertà. Perché l'amore sia vero amore, io devo poter non amare. Questa è un'affermazione cristiana fondamentale. Dio ha fatto l'uomo capace di amare, nella libertà che si esprime nella parola. L'animale non è libero ed, in questo, non è simile all'uomo - a differenza di ciò che cerca di affermare una mentalità presente anche in alcuni programmi televisivi divulgativi che tendono sempre più ad avvicinare l'animo umano alla realtà animale. Provate a dare da mangiare per qualche settimana ad un cane e diventerà il vostro migliore “amico”, ma non perché vi ama, non perché ama proprio voi. Con un'altra persona farebbe la stessa cosa. L'uomo è un essere che può essere curato, amato e, comunque, disprezzare chi lo ama. Non è perché voi amate un uomo/donna, che lui vi riama. Voi potete fare di tutto, per una persona, nel bene, ma quella persona può rifiutare il vostro amore. A volte si sentono delle persone dire: “Mi ha lasciato perché ho sbagliato”. Può darsi, però non è detto. Tu puoi anche fare tutto bene, ma l'altro ti lascia. Non è perché tu fai bene che l'altro non ti lascia, ma perché l'altro è talmente grande nella sua libertà! La libertà è l'unico vero motivo per cui si dice: “Grazie”. Chi non dice “grazie”, in realtà non sta amando, perché non riconosce la libertà dell'altro. La profonda gratitudine è segno della libertà. E' una delle cose più belle: la scoperta che l'altro potrebbe non amarmi. E, se mi ama, non è che lo fa perché io sono il più amabile, il più bello, ecc… L'altro sbaglierebbe ad amarmi se io fossi un truffatore, una persona finta, ma non è perché io sono bravo che l'altro mi ama. Se fosse così vuol dire che l'altro non è una persona libera, indipendente, creata da Dio libera. Io non dico grazie ad una persona che è obbligata ad amarmi. Quando percepisco il brivido del fatto che l'altro potrebbe fare tranquillamente una cosa diversa, nasce la gratitudine. La gratitudine è proprio l'esperienza della libertà [3] .
Molte persone scelgono per il loro matrimonio il famoso brano di Genesi 2. La Bibbia è chiarissima in questo. Quando Adamo da' il nome a tutti gli animali (dare nome nella Bibbia vuol dire proprio avere un potere su un altro essere) - dice il testo - Adamo “non trovò nessuno che gli stesse di fronte”, che gli fosse veramente simile, e allora il Signore creò la donna. Il testo sapienziale di Genesi esprime la convinzione che nessun altro rapporto con le realtà create naturali è simile al rapporto che si crea tra gli uomini fra di loro. Solo in questo caso c'è lo stupore di Adamo che dice: “Ma veramente questa qui è come me, è ossa delle mie ossa, carne della mia carne!” Il fatto della costola – come ben sapete - è un fatto simbolico: noi non abbiamo una costola in meno. E' un testo sapienziale che dice che solamente gli uomini fra di loro - gli uomini e le donne - hanno comprensione di essere due esseri che si corrispondono (e si oppongono anche!) nella loro libertà. Hanno una tensione paritaria di rapporto.

Facciamo un passo ulteriore.
Uno dei punti fondamentali che – già ve lo abbiamo detto – vogliamo affrontare con voi è la dimensione del crescere. La chiesa cattolica cristiana difende questa profonda realtà: che l'amore non è l'inizio del cammino dell'uomo, ma ne è il compimento. Io rifiuto profondamente l'idea, data sovente come cosa scontata - ma se uno ci pensa sa che non è vero - che il bambino sappia amare e l'adulto sia cattivo. Quando si parla di un bambino appena nato una delle frasi abituali, ma banali, è: “Questo bambino è un angelo. I bambini sono angeli! Guarda poi come si rovinano diventando grandi” L'idea che passa è che il bambino, man mano che entra nel mondo dei seri, dei grandi, degli adulti, si rovina. In realtà la profonda comprensione della fede cristiana, che è legata, poi lo vedremo, al problema della grazia e del peccato originale, è che l'uomo ha bisogno di un lungo cammino per amare veramente. Il bambino appena nato è una persona adorabile, ma non sa amare. Per esempio non sa dire “grazie”. Questo è vero anche dal punto di vista psicologico. Ed è bene che sia così! Non voglio, infatti, criticare i bambini. Gli studi moderni di psicologia dicono che il bambino, finché è molto piccolo, non riesce a separare il seno della madre dal suo stesso corpo. Lui non ama la madre, non sa che c'è un altro essere che gli da' il latte e che fa una fatica immensa per darglielo. Il bambino sente il corpo della madre come il suo stesso corpo, come se si autonutrisse. Noi insegniamo ai bambini a dire “grazie”. Essi lo fanno all'inizio “per buona educazione” - il bambino pian piano impara a dire “grazie” perché gli viene ripetuto mille volte dalla mamma, dal papà, dalla nonna… In realtà solamente nel cammino che lo farà diventare grande il bambino arriverà ad esprimere la gratitudine. Pensate a cosa vuol dire assumersi una responsabilità: voi siete molto più in grado di amare di quanto lo siano i bambini. Quale bambino potrebbe davvero dire (e poi farlo davvero!): “Io ti prometto di amarti, di essere fedele ai tuoi bisogni. Io cucinerò per te. Io partorirò un altro figlio e ne avrò cura?” Dio ha fatto l'uomo come l'essere che non ha una realtà istintuale, ma come colui che è profondamente segnato dall'educazione, segno della libertà. Il nostro cammino è profondamente segnato dalla storia che noi viviamo. Il cucciolo d'uomo ha bisogno di tantissimo tempo per arrivare ad essere protagonista della sua storia. Deve essere educato, per poter sopravvivere ed aiutare altri a vivere. Non sa queste cose per istinto, a differenza di molte specie animali.

Uno schema che vi può essere utile, per approfondire ulteriormente è questo: ci sono tre parole per descrivere come è il bambino all'inizio del suo cammino. Sono tre aspetti complementari che descrivono la stessa realtà infantile.
Il bambino nella sua infanzia è “egocentrico”, “narcisista”, “instabile”. Premetto che nel dire queste cose, come sempre, esagererò, calcherò i toni per farmi capire. Notate, inoltre, che queste cose non vogliono suddividere il mondo in “buoni” e “cattivi”, ma nascono dalla coscienza che ognuno di noi ha dei tratti che debbono ancora maturare più pienamente perché possiamo crescere nell'amore. Descriviamo un bambino, per poter parlare più liberamente di noi. Ognuno riconoscerà, forse, se stesso in qualcuna di queste caratteristiche.

Egocentrico. Vincere l'egocentrismo vuol dire riconoscere che il centro dell'esistere non sono io, ma è da un'altra parte. Ringraziare la moglie o il marito che sta lì e mi dà un bacio, vuol dire riconoscere che c'è un'altra vita. Per il bambino questo richiede un lungo cammino ed è bene che sia così. Notate che, per come Dio ha fatto la vita, l'essere al centro del mondo è, inizialmente, necessario al piccolo, perché dà sicurezza al bambino. Se il bambino non fosse egocentrico morirebbe. E' bene che i genitori dicano al figlio: “Sei il bambino più bello del mondo” (anche se sappiamo benissimo che non è la verità!).
Sapete quante persone vivono nell'insicurezza perché non sono state accolte come realtà preziose all'inizio della loro vita. Dio vuole che voi siate dei genitori che, quando la vita arriverà, facciano capire al figlio la bellezza della sua esistenza, genitori che non rinfaccino la fatica che fanno. E' importante che un bambino sappia che i genitori sono felici di averlo, che lui è il centro della loro vita. Poi, per fortuna, Dio ha fatto la vita in modo che anche chi non ha sentito questo nella sua casa, nella sua prima infanzia, lo possa poi recuperare in tanti modi, nel fidanzamento, nel lavoro, nell'amicizia… Però è fondamentale l'amore per se stessi, che nasce all'inizio dal fatto che qualcun altro ci ha amati, ci ha messi al centro! Poi, man mano che diventiamo grandi, questa cosa deve modificarsi. Il dramma è se uno a 30 anni è egocentrico! La tragedia è se uno, a cinquanta anni, non ha imparato a dire “grazie” e vive ancora come se l'esistenza dell'intero universo dipendesse da lui! Questa crescita, infatti, non è automatica, non dipende dal passare degli anni. E' necessaria una “conversione”, un cambio di atteggiamento, per cui io mi accorgo che la vita è fatta di tanti centri, di tante libertà, di tante persone. Proprio il non dire mai “grazie” di cuore ad un altro è segno abbastanza univoco di una esistenza autocentrata.

Narcisista. Questa espressione è ormai molto usata anche dalla pedagogia e dalla psicologia e fa riferimento all'antica figura mitologica di Narciso. Egli è il personaggio che si ritiene talmente bello da cercarsi continuamente negli specchi, nell'acqua, ecc..., per rivedere sempre la propria immagine, ma anche per una profonda insicurezza. Narciso arriva ad uno specchio d'acqua, si perde talmente nel contemplare la propria immagine che alla fine ci casca dentro e annega. Nel mito di Narciso c'è un altro aspetto complementare molto interessante che riguarda il mito della ninfa Eco (il riecheggiare delle proprie parole!).
Il bambino ha bisogno di essere continuamente guardato, ha bisogno che gli altri gli dicano: “Sei bellissimo, sei bravo, ecc…”
Come per l'egocentrismo, questo diventa invece problematico, quando questa realtà persiste da grandi. Pensate per esempio alle frasi che spesso diciamo tutti noi. Parliamo, facciamo una cosa, e poi diciamo: “Ma tanto io non sono capace di parlare!” E' un modo indiretto per dire: “Dimmi che non è vero, che invece so parlare!” Nell'insicurezza noi continuamente lanciamo un messaggio che chiede una conferma. Per fare un altro esempio, pensate ad un contesto come questo, il corso di preparazione al matrimonio. Noi abbiamo un atteggiamento narcisista verso la vita, quindi egocentrico, quando non siamo capaci di preoccuparci degli altri. Uno può arrivare qui pensando tra sé e sé: “Chissà che figura ho fatto, cosa penseranno queste persone di me!” Un atteggiamento autocentrato, preoccupato dell'immagine che si è data agli altri. Non mi pongo minimamente il problema di chi sono gli altri, di come stanno. L'atteggiamento narcisista è un atteggiamento che non ha un interesse reale per ciò che avviene, per la vita degli altri. Parlo anche per esperienza. Ricordo quando, da adolescente, entravo in una casa di amici dove c'era una festa e non avevo come prima domanda: “Ma gli altri sono felici? Come stanno? Cosa pensa il festeggiato?”, ma piuttosto se gli altri si erano accorti che ero arrivato, se mi avevano manifestato il loro amore, e così via! Ci ho messo del tempo anche solo a capire che c'era qualcosa che non andava in questa priorità di preoccupazioni. Notate, infine, che il narcisismo può derivare da eccessivo orgoglio, dal fatto di ritenersi i migliori e dal non avere considerazione della bellezza della vita degli altri, ma può nascere anche da qualcosa di opposto, dal non avere a sufficienza stima di sé e dall'avere quindi continuo bisogno di conferme di amore. Vedete atteggiamenti di persone che, pur essendo state amate molto e da molto tempo, ogni volta che si trovano dinanzi ad una non conferma, pongono domande che azzerano tutto il passato: “Ma allora non mi ami più, ma allora non mi hai mai amato?” Sembrano ricominciare ogni volta da zero, dimenticando tutto ciò che già c'è stato di bello, di donato.

Instabile. Il bambino non ha ancora una maturazione, un equilibrio e, proprio per questo, è continuamente preda del momento, dell'emozione. Si può usare l'espressione tecnica “ipertrofia” - che vuol dire “troppo nutrimento” - nel senso psicologico del termine. Quando c'è un pallone gonfiato, che occupa troppo posto, se si buca, scoppia e va tutto per aria. Pensate a come un bambino passa dalla rabbia, dal pianto, alla gioia più totale, al riso. E viceversa. In un istante può cambiare totalmente atteggiamento. Perché è ancora talmente preda della realtà esterna, della critica o del complimento, della cosa che gli manca, che ha un comportamento emotivo simile ad sinusoide molto ampia. Può avere altissime emozioni positive, di piacere, e, un secondo dopo, precipitare nel baratro del pianto dirotto. Basta una cosa storta, una frase detta male, e tutto salta per aria. Basta un complimento od un oggetto comprato e tutto il dolore può passare d'incanto. Questo è anche lo schema del meccanismo di un tipo di depressione. Una persona depressa, alterna dei momenti di stasi, in cui non esce di casa, non fa niente, vuole sempre dormire, rifiuta qualsiasi proposta, a momenti in cui improvvisamente è iperattiva, fa mille pazzie. Si può pensare, in questo secondo momento, che sia guarita, ma è semplicemente nell'altra fase della malattia, che può anche essere più pericolosa.
Invece, una persona che pian piano matura - ed è una cosa molto difficile maturare, crescere - impara ad avere un equilibrio, un'armonia. Viene colpita nel bene e nel male da ciò che avviene, ma non è distrutta o esaltata dai fatti. Mantiene l'equilibrio. Per un bambino questo non è possibile.
Prendete ancora l'esempio dell'essere criticati. Una persona instabile non sopporta le critiche. Va in crisi. Per lei una disapprovazione è segno di un rifiuto totale. Se vengo criticato, ecco che non sono più amato. O tutto o niente! Una persona più matura nell'amore, sa di essere amata anche se l'altro si accorge dei limiti e degli sbagli (e dei peccati). Cerca di capire la critica che riceve, senza mettere in dubbio l'amore. Chi non sa accettare critiche, ma va subito in affanno, è ancora infantile.
Questo terribile meccanismo viene a volte adoperato anche nella forma del ricatto affettivo. In alcune regioni italiane si afferma che “I panni sporchi si lavano in casa”. Se io parlo male di alcuni atteggiamenti della mia famiglia d'origine, ecco che ho tradito per sempre il loro amore, ecco che non amo più i miei genitori e mi sono messo contro di loro, ecco che – addirittura! – li ho rinnegati. Niente di più sbagliato! Un figlio che si accorge dei problemi che ci sono in casa, può avere bisogno di confrontarsi con qualcuno fuori di casa, con amici, con altri, per imparare a capire bene quello che succede nella sua famiglia. Ma questo non vuol dire che non ama più i suoi genitori. Li può amare e criticare insieme. Può avere grande affetto alle loro persone e non condividere alcune loro scelte. La persona stabile sa che coesistono l'amore e la differenza di posizioni. Non pone sempre dinanzi ad un aut aut: o con me o contro di me!
Il bambino per diventare un uomo che ama ed è libero ha una lunga strada da percorrere. E noi portiamo in noi stessi degli atteggiamenti ancora infantili, che sono normali, che esistono, che non sono da drammatizzare, ma che ci rallentano, ci fanno amare di meno, ci fanno creare problemi, fanno diminuire la nostra “arte di amare”. Invece più noi da questa realtà iniziale, infantile - che ci deve essere, da bambini! - cresciamo, più l'amore diventa una cosa possibile, armonica, bella!

III incontro
La verità, misura del crescere

Partiamo in questo terzo incontro da un ulteriore approfondimento delle cose che avete scritto sulle varie forme di amori con le loro caratteristiche.
Avete scritto che una caratteristica tipica dell'amore di coppia è l'esclusività. Questo è vero! Un uomo non può stare con due donne contemporaneamente (naturalmente questo vale anche per la donna) e dire di amarle: non può essere vero.
Accenno qui ad un aspetto della comprensione della vita che è decisivo e verissimo: la distinzione fra sincerità e verità . Forse qualcuno potrebbe usare altre parole per questa distinzione – mi sta benissimo lo stesso – ma quello che mi interessa è la sostanza del problema. Prendete ad esempio quegli uomini che tradiscono la moglie dicendo: “Io amo mia moglie e non tolgo niente alla mia famiglia, se sto anche con un'altra. Le amo entrambe! Quando incontro la seconda, lo faccio sempre in momenti in cui non starei comunque con la mia famiglia!” Non è vero!!! In realtà quell'uomo fa del male alla moglie, tradendola lei e la famiglia – e quando la cosa salterà fuori e scoppierà un macello terribile, come spesso avviene, se ne accorgerà! Ma non bisogna omettere di dire che quell'uomo fa del male anche all'amante, non permettendole di avere una vita normale, un rapporto d'amore vero, esclusivo. Spesso mi è capitato di confessare persone che avevano atteso per anni una decisione dell'altro, già sposato, che continuava ad affermare di voler loro bene, decisione che non era mai arrivata perché la persona continuava a tenere il piede in due scarpe. Così l'amante arrivava all'età di quarant'anni, ormai tardi per fare una propria famiglia , per avere dei bambini, ecc. e si trovava così a vivere da single tutto il resto della sua vita. Nella “verità” l'uomo non le aveva “voluto bene”, non aveva cercato il bene di questa persona, ma, “sinceramente”, le aveva rovinato la vita. Io chiamo “sincerità” – e non le do un eccessivo peso – la rivelazione dei sentimenti di una persona. Questi sentimenti sono spesso contraddittori e altalenanti. Veramente uno “sente” qualcosa, “sente” un emozione, un'attrazione. Penso sia addirittura abbastanza normale che ci siano periodi in cui uno possa sentite “attrazioni” per persone diverse. Un manifesto di Folon, un grafico francese, rappresenta l'uomo come un essere da cui partono moltissime frecce in direzioni opposte ed attorcigliate e tutte compresenti. Alessandro Manzoni usava l'espressione “guazzabuglio” per descrivere il cuore umano, da questo punto di vista. La “verità” è, invece, la coerenza con il bene oggettivo. E' bellissima l'espressione “volere bene” – la commenteremo poi ancora – che indica il sapere cos'è il bene di una persona ed il perseguire questa meta. L'uomo che ha tradito la moglie non ha neanche “voluto il bene” dell'amante, condannandola a perdere il suo futuro (e di certo anche l'altra parte ha le sue colpe!). Nell'illusione di essere “sincero”, di portare avanti tutti i diversi sentimenti che provava, in realtà ha voluto il male di due persone, preparando la strada a due fallimenti esistenziali. La Chiesa sa bene che i sentimenti, le emozioni anche forti che nascono dal nostro intimo, possono essere voce dello Spirito Santo o tentazioni del male. Invita a fare questa distinzione delle mozioni interiori (l'opera di questa distinzione viene chiamata “discernimento degli spiriti”, parola completamente dimenticata nell'analfabetismo degli affetti!).
Quello che prova quell'uomo è solo un'emozione. E' normale che un uomo, sposato da molti anni con una persona ormai di una certa età - e così una donna - provi emozioni di fronte ad una persona bella, giovane, sensibile, ecc… questo non è ancora peccato, per la Chiesa. Diventa peccato quando su quell'emozione comincio a costruirci sopra, comincio ad “indugiare”, a “consentire” (così si esprimeva il linguaggio), invitando la persona ad uscire, a parlare, a stare soli, ecc. ecc.
Ecco che, allora, a partire da un'emozione faccio qualcosa che non fa più il bene, ma fa del male, qualcosa che non è voler bene, ma che è volere il male dell'altro, sotto l'alibi della sincerità del sentimento provato.

Invece l'esclusività non può essere pretesa ad un altro livello dell'amore. Vedrete quante tensioni ci sono riguardo questo! Voi vivetele tranquillamente.
E' chiaro che una persona non può dare il primo posto al lavoro, se vi sposa, però è chiaro che il lavoro sarà anche importante. Una famiglia deve mettere in relazione vari tipi di amore. Deve escluderne per forza alcuni, ma altri non può non prenderli in considerazione. Pensate al rapporto con i famosi suoceri. I “benedetti” suoceri sono, però, i genitori di mio marito/moglie. Conosco degli uomini o donne che dicono al coniuge: “Tu non devi più parlare con tuo padre, perché mi ha offeso profondamente!”. Questo non può esistere! Se anche quel suocero fosse la persona più imbecille del mondo - perché esistono dei padri sbagliati, o solamente rovinati – ma, lo stesso, quello è “mio padre” ed io devo poterlo incontrare. Nostro figlio è suo nipote. Io accetto che a te stia antipatico, però tu devi accettare che ci incontriamo. Questa è una forma diversa di amore. Chiaramente l'uomo/donna deve saper gestire questi rapporti, nella giusta misura. Però non si può pretendere, come alcuni fanno, che siccome quello ha trattato male me, nuora/genero, allora tu non lo vedi più. Anche se mi ha fatto la cosa più brutta di questo mondo, quello è tuo padre o tua madre. E alla fine, se sa amare, l'uomo deve saper gestire questo rapporto. Nessuno può impedire di far incontrare i propri figli con i nonni (che sono poi i “nostri suoceri”). Non è legittimo un ricatto al marito/moglie su questo (a meno che non ne vada di un pericolo reale e grave per i bambini stessi); io devo essere superiore al risentimento che provo e devo capire che due forme diverse di amore devono coesistere.

Questo ci fa capire ulteriormente come certi atteggiamenti in una specifica forma d'amore siano assolutamente necessaria, invece in altre non lo siano. Se in un rapporto affettivo fra uomo e donna non c'è almeno un minimo di gelosia, c'è qualcosa che non va! Io non posso pensare di vedere mio marito, mia moglie, tra le braccia di un altro, restando indifferente! Se due amici, invece, hanno gelosia l'uno dell'altro, questo è un segno che la loro amicizia non è ancora matura. Io sono felice se il mio amico sta con altre persone, se ama anche altre persone. Un amico in più non toglie niente all'amicizia che ho con quella persona.

Ancora: è evidente che certi rapporti di coppia pretendono di uccidere la tua vita. Questo non può esistere. Un rapporto vero di coppia ti apre all'interesse per la vita. Non può essere che una persona, siccome sta con me, non ha più bisogno di nessun altro. Neanche Dio vuole che noi amiamo solo lui. Il Dio dei cristiani dice: “Ama me con tutte le forze, ma ama il prossimo tuo. Se tu ami me, devi amare anche gli altri”. Ogni uomo e ogni donna deve chiedere questo all'altro: “Se tu ami me, cerca di guardare un po' anche agli altri”. Questa è la differenza con il terrorismo suicida! Lì si afferma: “Io amo talmente Dio, che allora posso anche uccidere gli altri!” Questo non può esistere nel cristianesimo. Dio non ti può chiedere di amare solo lui. E' un punto centrale della dottrina cristiana. C'è una esclusività nell'avere una sola donna, un solo uomo, ma non nel voler bene solo a quella persona!

E' interessante anche che, nel dare le risposte, qualcuno di voi ha diviso i vari tipi di amore in rapporti che si scelgono e rapporti che non si scelgono. Senza pretendere che uno sia perfetto, però una persona deve poter stare bene sia con persone che si sceglie, sia con persone che trova, che incontra senza averle scelte. Una persona non è matura nell'amore se gli manca una di queste due categorie. Prendiamo l'esempio di una famiglia, quella di origine: pensate all'importanza del rapporto fra fratelli. E' un rapporto difficilissimo! A parte alcuni casi fortunati in cui i fratelli/sorelle si amano alla follia, in realtà fra fratelli ci sono molte difficoltà. Ed è per questo che è così importante!
E voi amerete molto i vostri bambini se non li lascerete figli unici, se saranno tre o quattro. Guardate che un bambino, se ha dei fratelli, cresce molto meglio. Ma non solo perché va d'accordo! Anche se non dovesse andare d'accordo, si deve misurare con degli altri che non ha scelto lui. Pensate cosa vuol dire che tu non scegli. Tu devi stare con uno che ha un'età diversa dalla tua. Questo è difficile. Ma è fondamentale, perché tu devi dividere la vita, devi metterti d'accordo. Una volta una mamma mi disse una cosa bellissima: “Adesso voglio un terzo figlio, perché fa bene agli altri due che ho, non perché lo desidero io”. Il rapporto fra fratelli non si sceglie, un po' come il rapporto fra fratelli nella chiesa. I parrocchiani di S. Melania non mi hanno scelto, né io ho scelto loro, avendoli prima conosciuti. Abbiamo imparato a volerci bene, quando altri avevano deciso il nostro incontro. Il Cardinal Ruini mi ha detto: “Don Andrea vai lì!” e loro mi devono sorbire!!! Questa però è una prova di maturità. Una persona potrebbe dire: “Non me ne importa niente. E' arrivato don Andrea o don Francesco, io vado avanti lo stesso per la mia strada ignorando la loro presenza”. Oppure può dire: “Questa è un'occasione, qualcosa imparerò”. A volte si impara più da chi è nemico che non da chi è amico. A volte una persona con cui abbiamo delle visioni diverse ci fa molto più crescere – anche se non è detto che sempre sia così. L'esperienza della comunità cristiana, dell'essere fratelli in un gruppo, ha anche questa caratteristica. Devo vivere bene con coloro che non ho scelto uno per uno, ma Dio ha scelto e mandato qui. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”.
Però una persona deve anche saper scegliere. Uno non può dire: “Beh, sto con quella persona da sette anni. Che devo fare oramai? O ci lasciamo o ci sposiamo!” Molti ragionano così. Una persona deve scegliere l'unico uomo/donna della sua vita! Non si può dire: io mi sposo perché stiamo insieme! Serve un po' di affinità, serve di avere gli stessi valori, mi deve piacere come vive, come pensa la vita ecc… Così un amico: uno non può sempre essere scelto dagli altri. Una persona che sa dire: “Quella persona mi piace, voglio avvicinarmi, voglio conoscerla, invitarla…” E' segno di un'intelligenza grande, una persona che si avvicina proprio a quella e non a quell'altra. La capacità di amare non è mai perfetta, però vive sempre nella tensione fra ciò che si deve scegliere e ciò che si deve accettare. Voi vedrete che il matrimonio è fatto anche di questo. Per esempio quando uno diventa vecchio, non è che sceglie tante cose che succedono! Quando avrete dei figli, non ve li sceglierete voi. Così tanti problemi che esistono. Però altre cose sì. Il matrimonio è una realtà dove uno è messo alla prova in alcune cose che non può scegliere e in altre cose che deve scegliere e non può pensare che lo faccia qualcun altro.
Una battuta scherzosa è classica: è la tipica frase che ascoltiamo quando il marito propone varie cose da fare e la donna risponde: “Decidi tu!” Poi appena il marito decide, la moglie mette il muso per una settimana, perché non le va bene! E' importante che uno dica: “Voglio fare questa cosa, lo desidero! E' una cosa bella!” Bisogna avere il coraggio di dire: “Mi piacerebbe questo!” Poi a volte non si può fare, ma che c'è di male a dire che desidero una tale cosa? E poi, se anche non è come dico io, va bene lo stesso.
Questo vi aiuta a capire ancor più come il crescere nell'amore ha più dimensioni. Crescere dicendo: “Io devo amare mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei amici, i professori, il mio prete, la gente che incontro per caso, il mio lavoro, ecc…” E dentro queste cose saper vedere delle cose che si scelgono e delle cose che non si scelgono, delle cose che sono esclusive e delle cose che non lo sono. Noi non saremo mai perfetti in tutto questo, però ci fa bene sapere che l'amore non è un imbuto, ma è una cosa che apre.

Vorrei sottolineare un altro aspetto che mi sembra importante: il discorso del crescere vi fa capire come le scelte belle o brutte non accadono mai all'improvviso. Questo è un elemento fondamentale della morale cristiana. Molti pensano che una persona all'improvviso tradisce il matrimonio o all'improvviso commette un omicidio, o all'improvviso diventa santo. In realtà la chiesa dice che, sia nel bene che nel male, c'è una gradualità: o scendiamo pian piano nel male oppure pian piano impariamo a fare il bene. Partiamo dall'esempio più diretto: la mia esperienza di confessore è che tante persone arrivano a tradire il matrimonio perché in realtà pian piano non lo curano più. E poi arrivano a dire: “Ho sbagliato persona!”, mentre in realtà non hanno il coraggio di dire: “Mi sono comportato male”. Se uno comincia a stare sempre fuori per il lavoro, a tornare a casa quando gli pare, sempre più tardi, a non parlare più... E, per la donna, se c'è un figlio e si comincia a non stare mai soli con il marito a tu per tu, ecc. La realtà della vita va curata! Uno si trova a fare un gesto profondamente grave, ma perché pian piano ha disceso una china. Fromm di cui abbiamo già parlato a proposito de “L'arte di amare”, ha scritto un altro libro, meno famoso, “Il cuore dell'uomo”, dove descrive come un uomo fa il male. Lui dice che una persona è libera di non tradire sua moglie/marito. Se però comincia a dire: “Vado a cena da quell'amica/o da solo, poi resto fino alle undici di notte, poi prendiamo un po' di whisky, poi mettiamo un po' di musica soft… Alla fine, all'una, forse non sarà più libero di non tradire. La fede cristiana parla di una virtù che è la prudenza: sistemare la vita in maniera tale che tu ti accorgi che qualcosa, che di per sé non è una cosa sbagliata, è però qualcosa che mette in pericolo l'armonia della tua vita. Se invece non sistemo la vita in modo che sia in armonia - a volte la vita è come un piano inclinato, in cui si scivola nel male – a volte io mi ritrovo che non ho più la forza di dire di no.
Altro esempio relativo alla storia del nazismo: C'è un libro che si chiama “In quelle tenebre” in cui una giornalista anglosassone è riuscita ad intervistare per settanta ore un uomo che era condannato all'ergastolo, il capo di uno dei campi della morte della Shoah, Treblinka. Il suo nome era Stangl, uno delle SS naziste. Era uno dei peggiori campi di concentramento esistenti, la gente veniva uccisa con il gas poche ore dopo essere arrivata, senza che ci fosse una selezione che ne avrebbe potuto salvare almeno alcuni. Si calcola che in questo posto siano morte tra 700.000 e 1.200.000 persone. Stangl era il comandante di Treblinka. Pensate cosa vuol dire per una persona avere sulla coscienza tutti quei morti. Lui ovviamente diceva di non avere delle responsabilità: “Facevo parte delle SS ed obbedivo semplicemente a degli ordini”. La giornalista, con molta intelligenza, non comincia subito parlando di colpevolezza, ma chiedendogli di raccontarle la sua storia. Lui racconta tutta una serie di progressivi cedimenti di coscienza. Per esempio racconta che era cattolico, ma ad un certo punto per essere SS dovette firmare un esplicito atto di abiura della fede cattolica, rifiutando quindi l'obbedienza al Papa, ai Vescovi. Racconta come lui, che era un poliziotto austriaco, avendo paura di perdere il posto di lavoro, diventato nazista e avendo rinunciato alla fede cattolica, pian piano fu inserito nel programma di sterminio degli handicappati (il cosiddetto “programma T4”)... E' terribile vedere come lui arrivi ad essere il capo di Treblinka attraverso una serie progressiva di cedimenti di coscienza. Alla fine la giornalista gli domanda: “Ma lei si sente colpevole?” e lui risponde: “Se mi sentissi colpevole non potrei vivere. Come può una persona vivere sentendosi colpevole della morte di tanta gente?” Morì d'infarto quella notte stessa, dopo aver implicitamente ammesso la sua responsabilità. Sapeva che in realtà avrebbe potuto chiedere di essere trasferito da quel campo; solo, sarebbe stato mandato in prima linea e questo era più pericoloso! Le SS venivano accontentate se chiedevano di essere spostate, ma rischiavano di essere inviate poi al fronte russo.
Quest'uomo ha fatto una serie di passi di progressiva abiezione. Il suo gravissimo peccato è al culmine di una serie di atti.
Ma è ancor più vero il contrario: se voi cominciate un cammino di bene questo sarà progressivo e sarà sempre più bello. Le persone, per esempio, non si accorgono che il cominciare ad andare a messa insieme è una cosa che sostiene la vita di coppia. Il fatto, ad esempio, di venire qui, non vi aiuta soltanto a sentire quello che dico io, ma l'aiuto enorme è che vi aiuta a parlare tra di voi, a confrontarvi sui temi di cui si discute qui. Ecco un cammino di bene. I sacramenti sono un cammino di bene!

Così è della proposta ecclesiale di vivere la confessione almeno una volta l'anno.
Una persona che si confessa periodicamente, apparentemente non ha alcun cambiamento immediato! Ma pian piano, anno dopo anno, questo ti rende più libero, più misericordioso con l'altro, ti fa diventare migliore, ecc. ecc. Il cammino di bene è un cammino reale che si fa passo dopo passo. All'inizio uno dice: “Non ho voglia di alzarmi per andare a messa. Sono stanco della settimana. Tanto la messa cosa aggiunge?” Invece man mano che si vive la messa ci si accorge di quanto bene porti nella vita: “Che bella questa cosa, questo canto, questa parola, aver incontrato quella persona, ecc. ecc.” Così per tutte le altre cose: se voi cominciate un cammino di carità, per esempio accorgendovi che per il matrimonio non volete pensare solo a voi - vi fate fare dei regali, ma poi volete pensare anche ai poveri - questa cosa pian piano segna nel bene la vostra vita. Se prendete qualcosa ogni mese dal vostro stipendio e lo cominciate a mettere da parte per regalarlo, questa cosa pian piano vi farà arrivare a delle vette molto alte! Non sappiamo esattamente quali, ma... Come l'esempio che facevo di S.Francesco. Lui non cambia di botto: comincia ad avvicinarsi a un povero, ad andare in chiesa, ad ascoltare un prete. Comincia ad amare il Papa, a stare bene con i fratelli… È una crescita graduale. E' raro che nella vita le cose accadano di botto. Sono tanti piccoli passi che poi diventano un tesoro molto grande.

(Intervento di un partecipante al corso sulla morte, per droga, del ciclista Marco Pantani)

Esatto! Tutti parlano di un aspetto, peraltro verissimo, il fatto del doping. Però pochi hanno il coraggio di dire che una persona non può vivere solo perché vince le gare… e se gli si rompeva una gamba? Una persona ha bisogno di un senso della vita e questa cosa si costruisce pian piano… Pensate proprio allo sport: tu non puoi diventare un campione all'improvviso. Devi fare tanti passi. Questo è bellissimo, lo sport è veramente un'immagine della vita. Un campione ha bisogno di tanto allenamento… Così è nel bene: uno deve costruire una famiglia, avere il riferimento a Dio, la speranza, la giustizia. E' chiaro che se tu hai solamente un obiettivo e tutto il resto viene trascurato, se ti crolla quello ti trovi con niente, nel nulla. Alcuni genitori sono convinti che se il figlio entra nella Roma e diviene un grande calciatore, sarà felice! Ma non è vero, non puoi pensare una cosa del genere!

Intervento di un partecipante : Sia nella fase di discesa che in quella di salita hai fatto come delle tappe. C'è una gradualità di cui ci dobbiamo rendere conto facendo il confronto con qualcosa di oggettivo, cioè c'è una visione soggettiva che è quella che mi fa cercare delle giustificazioni e c'è una visione oggettiva che mi fa capire che sto salendo/scendendo di grado?

E' verissimo: noi tendiamo a puntare tutto sul soggettivo, mentre si trascura il misurarsi con l'oggettivo, con i valori, con la realtà, con la fede. E questo non lo si fa mai una volta per tutte! La mia esperienza è che, ad esempio, durante questi corsi di preparazione al matrimonio si crea un po' di stima per il cristianesimo, per la serietà e la bellezza della visione cristiana, ma dopo raramente le persone hanno il coraggio di venirti a parlare di un problema per tempo, di una difficoltà, di un pensiero che non quadra loro, con il desiderio di misurarsi ancora con questa oggettività…. A volte qualcuno viene a parlarti di un problema quando la frittata è già fatta! “Va bene io ti ascolto, ne parliamo. Però perché non me lo hai detto prima?” Gli amici veri dovrebbero essere quelli che non ti dicono: “Ma che te ne importa? Rifatti una vita!” ma piuttosto quelli che ti dicono: “Parliamone, vediamo un po', cerchiamo di capire come si può migliorare, perdonarsi, crescere…” Guardate che la maggior parte delle persone consiglia al minimo problema matrimoniale: “Ma lascia perdere, ma chi te lo fa fare?”

Intervento di un partecipante : Proprio perché capita così di frequente penso che sia difficile fare questa distinzione fra ciò che io vedo, sento e ciò che è. Cos'è che ci può aiutare a capire che questo è quello che io sento e quello invece è ciò che è veramente? Perché in questo camino a volte ci si autoinganna! Come faccio a stabilire ciò che è vero e ciò che è - come tu lo hai definito - sincero?

Provate a rispondere voi: “Come facciamo a capire?” Questo è il punto che mi interessa. Noi sentiamo delle cose. C'è un “sentire”, che è una cosa importante. Però è importante che abbiamo chiaro che ciò che sentiamo può essere anche profondamente cattivo, sbagliato, superficiale. Noi umani non sentiamo solo il bene. Come facciamo a capire se ciò che sentiamo è una cosa soggettiva oppure è proprio una via di bene?

Intervento di un partecipante : Io penso che una persona debba avere anche l'umiltà di chiedere consiglio agli altri. Penso che a volte si è troppo coinvolti in una situazione per vederla oggettivamente. Se hai la fortuna di trovare una persona, un amico, qualcuno che veramente ti vuole bene e che oggettivamente vede la situazione dall'esterno, questa persona ti può anche indirizzare. Molte volte credo che non lo facciamo perché siamo troppo orgogliosi e pensiamo di poter risolvere tutto da soli. Come l'esempio che dicevamo prima, di quelli che parlano di un problema, solo dopo aver divorziato.

Questo è giusto. Il confronto con gli altri è sicuramente un modo per vedere da una prospettiva diversa, da un'altra angolatura, quello che uno già vede o crede di vedere. Però ho paura che uno rischi di cadere in illusione anche in questo. Io sento due persone e mi danno due versioni completamente diverse della stessa realtà che io ho mostrato loro - e mi sembra che noi siamo tendenzialmente portati a scegliere quello che ci fa più comodo! Io vi chiedo come avere un parametro di confronto che non sia relativo, cioè troppo legato a chi sento, a quando lo sento…

Intervento di un partecipante : Io non ho capito se ti riferisci al bene in generale oppure all'esempio dell'innamoramento, che è una cosa molto soggettiva.

Intervento di un partecipante : E' generale. Rientra nel discorso che faceva don Andrea sul fatto che uno può sia fare del male che fare del bene e che comunque c'è una gradualità. Quindi per stabilire se oggi ho fatto in più o ho fatto in meno, vuol dire che sto facendo un confronto con qualcosa… questo confronto ce l'ho nella coscienza... Ma mi sembra troppo poco!

Vi ascolto. E' molto interessante. Vorrei che ci pensaste al problema; è un modo per farvi ragionare. Fate attenzione! Noi usiamo questa parola: “Mi sento”. Questa corre il rischio di essere una espressione troppo soggettiva. Conosco tante persone che “si sentono” una certa cosa, ma quella cosa è profondamente male, a volte proprio perché non sono formati. Mi viene in mente l'esempio di alcune mamme possessive al punto da rischiare di essere mamme castratrici: dicono di amare il proprio figlio come nessun'altra madre fa. Solo loro amano il loro bambino con una intensità vera. In realtà lo imbrigliano, cioè non gli permettono di svilupparsi come persona. Addirittura sono proprio teutonicamente convinte: “Io lo amo talmente! Tutte le altre mamme che conosco non amano il loro figlio con l'intensità con cui lo amo io!” E quell'intensità è, invece, proprio il segno del loro non amore, della loro possessività, della loro incapacità di amare il figlio al punto da aiutarlo a staccarsi da loro, generando in lui la fiducia nella propria capacità di amore! In realtà quel loro sentire, proprio perché non si misura con una verità, con una misura oggettiva, a volte corre il rischio di sviare. Con questo non voglio togliere la bellezza del fatto che una persona, se cresce, ha la capacità con la sua coscienza di dire: questo è bene. Dio ci ha fatti dotati di coscienza. Ma ancora non riuscite a risolvere la domanda che ci stiamo facendo.

Intervento di un partecipante : Io penso che alla base di tutto ci sia il discernimento. La mia esperienza personale è che più una persona possiede discernimento più riesce a capire se una cosa è bene o è male. Ci sono periodi di alti e periodi di bassi. Nei momenti migliori sono più vicino a Dio ed ho più discernimento, riesco a capire meglio cos'è bene e cos'è male. Invece nei periodi bui, quelli nei quali sono più lontano da Dio, il discernimento cala e di conseguenza non riesco più a vedere bene la differenza tra bene e male.

Affronti un aspetto importante con questo intervento. Noi cristiani usiamo una parola che dovreste imparare a capire, ma che la maggior parte delle persone non usa, perché non la conosce: “discernimento”, una parola che ha un'antichissima tradizione cristiana. Discernere vuol dire proprio avere quello sguardo preciso - è di questo che stiamo cercando di riflettere - che non si appoggia tanto e solo su una regola generale, ma - lo vedrete ancora più chiaramente quando avrete un figlio, quando bisognerà capire proprio in quel preciso momento lì che cosa è bene per lui; ed una cosa è che abbia 5 anni ed un'altra che sia adolescente, per discernere quando è il momento di tirare la corda e quando bisogna invece lasciarla - sa che, dati dei valori chiari, non è però stabilito a priori come arrivare ad essi, cosa fare, ma bisogna capire il momento. Il discernimento è quell'atteggiamento per cui tu alla fine dici: “Va bene così. Devo fare così”. Ed è una cosa faticosa, perché appunto, non si trova su un libro. Bisogna avere una tale capacità di ascoltare i valori, la realtà, il figlio, la situazione, i rapporti fra tutte queste cose, da dire: “Oggi questo è importante per te!”. Ma, come vedete, ancora non riuscite a rispondere!

Intervento di un partecipante : Secondo me se uno tiene in considerazione la globalità degli eventi, quello che succede, e non solo quello che tu senti e la tua contingenza, riesci ad essere più obiettivo e anche a capire il bene o il male di un'azione. Il personaggio del libro sulla Shoah, si è trovato angosciato del fatto che poteva perdere il lavoro, avrà avuto dei figli. Ma se tu ti poni nell'ottica: “Se faccio questo, chi coinvolgo? Cosa coinvolgo?”, allora il discorso diventa più ampio. La tua azione non è più scollegata, fine a se stessa. Anche una cosa fatta senza che nessuno ti veda, probabilmente non rimane lì.

Il tema di una sana valutazione dei sentimenti è problema di cui raramente si parla. Già solo per questo è importante porre il problema. E' chiaro poi che dobbiamo anche trovare una soluzione. Ma soffermiamoci ancora sul problema, dato che la soluzione non viene fuori. La fede cristiana dice: “Attenzione! Del sentimento, qualche volta, devi anche dubitare!” Per la Chiesa il “sentimento” non è un assoluto. Questa è anche una affermazione liberante perché a volte persone molto scrupolose possono pensare che solo aver provato un turbamento sia un enorme peccato! Un sentimento cattivo – dice la morale cristiana - di per sé non è ancora un peccato. Tante volte consolo delle persone che sono state trattate male ed hanno avuto un “sentimento” di odio, di ribellione. Dico loro: “State tranquille. E' sacrosanto il fatto che voi sentiate fastidio. E' una cosa bella, sana, altrimenti sareste dei masochisti!” Questione diversa è cosa fare di questo sentimento, come non farlo radicare nel cuore, come non dargli modo di creare una barriera fra me e l'altro, ecc. ecc. Lì si pone il problema serio del peccato, non prima. Il fatto che io provi fastidio dinanzi ad una persona che ha fatto il male, non implica la mia vendetta od il mio serbare rancore. Lì si passa da una dimensione ad un'altra! Lo stesso per i rapporti uomo-donna. Dio ha fatto gli esseri umani sessuati, tali che si accorgano delle diversità sessuali e sentano le provocazioni che questo comporta. Se un uomo di 70 anni vede una ragazza di 30, è chiaro che la sua emozione fisica possa essere per un istante – o anche per più di un istante! - più forte di quella per la moglie anch'essa settantenne.
Il nostro mondo dà, così, troppa importanza all'emozione. Non molti giovani sono educati a non consentire sempre e comunque all'emozione, a saperla relativizzare! L'emozione, il sentimento, divengono così un assoluto, qualcosa di indiscusso ed indiscutibile. Se “sento” e “provo”, in nome della “sincerità” debbo andare avanti. Ma tutto questo è un mito, invece, profondamente falso.
Pensate al grande racconto del peccato originale. E' – questo sì - una cosa di un'importanza assoluta. Anche alcuni autori cosiddetti “laici”, per esempio Kant - che era un cristiano - ha scritto il suo ultimo libro, La religione nei limiti della pura ragione , proprio su questo tema. In esso argomenta a partire dal fatto che è indiscutibile che esista qualcosa di simile a ciò che la Chiesa chiama il peccato originale!
Nel racconto della Genesi, ai capitolo 2 e 3 - penso che voi sappiate che non c'è nessuna mela, ma si tratta invece del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male - in realtà cos'è che fanno Adamo ed Eva? Mangiano il frutto della conoscenza del bene e del male, cioè scelgono di decidere loro stessi cos'è bene, rifiutando quello che pensa Dio. Come fa il serpente a farli mangiare? Dio – possiamo immaginare - aveva detto loro: “Voi fidatevi di me, io sono vostro padre, io vi guido per la via del bene, per la felicità”. Il serpente, quando sono soli, dice loro: “Ma non sarà che Dio ha paura che voi mangiate il frutto di quell'albero, perché se voi lo mangiaste voi diventereste come Dio?” E allora, dice il testo della Genesi, l'albero apparve desiderabile alla donna. Notate l'inganno. L'inganno del peccato è di far sembrare bella la cosa più brutta del mondo. Questo, che è un testo di una profondissima saggezza - anche un ateo dovrebbe avere un profondo rispetto di questi testi e del loro significato - ha al suo interno l'annuncio di un profondo stravolgimento che talvolta si manifesta nella storia e nella vita: ti fa apparire bene il male e male il bene. Questa è la cosa su cui bisogna fare discernimento. E, nel testo di Genesi, Dio ti appare come un nemico. In realtà Dio, dice la fede cristiana, vuole che tu diventi come Lui: tutto il cammino della fede è la divinizzazione dell'uomo. Dio vuole che l'uomo diventi come Lui ed il serpente insinua il contrario.
Pensate al meccanismo della pubblicità: per vendere una cosa che è grassa (come la mozzarella), questa deve sembrare magra. Per vendere una cosa piena di grassi ti mostrano persone in forma che danzano, saltano… La patinatura della realtà! C'è tutto un lavorare sulle immagini perché una cosa appaia bella, solare, piena di passione, mentre in realtà non ha niente di tutto questo.
Noi veniamo da una cultura, nata nel '68, che ha teso a decostruire qualsiasi cosa. Il tentativo di quella cultura fu quello di dire: “La verità non esiste, tutto è soggettivo. Chi ti propone la verità in realtà ti vuole dominare”. Prendiamo il tema dei segni. Ecco l'affermazione che i segni esterni non servono a niente, che conta solo il cuore. Se credi in Dio, lo sa il tuo cuore e non contano né il battesimo, né la messa, né la Chiesa, né la preghiera, né il matrimonio cattolico e così via! E' come una cipolla: togli il matrimonio e la convivenza gli è uguale, sposarsi in chiesa e battezzarsi non contano niente, leggere Dante a scuola, studiare bene l'italiano non serve, l'arte non è importante, è soggettiva... E' un tentativo di dire: “L'oggettivo non esiste!” Questa cosa da un lato ha avuto aspetti positivi, aprendo alla dignità della singola persona, al rispetto per ogni posizione individuale, dall'altra ha veramente decostruito la fiducia nella possibilità di raggiungere una verità che, invece, come dice la Scrittura, non è lontana da ciascuno di noi.
Vedete il gran parlare del problema del crocifisso che si è fatto proprio in questi giorni: è problema, perché è espressione di un atteggiamento globale. Io ritengo che sia fondamentale mantenere il crocifisso nei luoghi come le scuole per dei motivi che vanno espressi semplicemente:

  1. Perché in classe, come negli altri luoghi non di culto, nessuno adora il crocifisso. Non è lì perché gli alunni vi preghino dinanzi. Non è che se io vado in una classe e vedo il crocifisso faccio una preghiera. Faccio un esempio stupido. Anche l'esistenza in ogni città di una via che si chiama via Garibaldi o via Cavour non è a motivo del fatto che io debba necessariamente essere d'accordo con loro, con ciò che hanno detto e fatto. Però sta lì e ci deve stare!
  2. E' importante perché le persone devono conoscere la religione. Molti non sanno che l'Islam rifiuta il crocifisso, non solo perché è un segno cristiano. Questo non sarebbe sufficiente per rifiutarlo, perché, apparentemente, il Corano afferma che Gesù è un profeta e quindi dovrebbe amare ciò che è di Gesù. Il fatto è che per l'Islam Gesù non è mai morto in croce! Il Corano afferma che la crocifissione è un'invenzione di un fatto mai accaduto, perché Gesù, essendo un vero profeta ed essendo veramente giusto, non poteva morire ucciso, ma è, invece, asceso direttamente in cielo, senza prima morire. Il crocifisso deve stare lì perché le persone devono confrontarsi con il fatto che la storia d'Italia dice il contrario. La scuola deve insegnare che Gesù è morto in croce e che questo è stato un evento che ha avuto delle conseguenze culturali decisive. E' un elemento culturalmente fondamentale.
  3. Sapete, inoltre, che la tradizione ebraica ed islamica è aniconica. Siccome Dio è assoluto, è infinitamente più grande dell'uomo e della creazione, non può essere rappresentato. Rappresentarlo è proibito. Sapete che non esiste una storia della pittura figurativa nel mondo islamico. Oltre a Dio, nemmeno l'uomo è rappresentabile. Esistono architetti, intarsiatori, pittori e mosaicisti di elementi vegetali, ma della figura umana e della storia sacra no. Tu puoi restare musulmano o ateo quanto vuoi, però la scuola ti deve insegnare che l'esistenza del cristianesimo, cui tu puoi non credere, ha di fatto generato la storia dell'arte così come noi la conosciamo. Se non ci fosse stato il cristianesimo non sarebbero esistiti Giotto, Michelangelo e Caravaggio. La croce è un elemento di questa tradizione iconografica.
  4. Infine l'eliminazione di quel segno sarebbe semplicemente l'apice di un atteggiamento che sottrae continuamente i riferimenti. Il crocifisso è lì come un riferimento che dice che esiste un amore di questo tipo. Sapete che il crocifisso non rappresenta l'amore per la sofferenza, come dicono gli stupidi, ma è il segno di un Dio che ama quando non è amato. Dio ama una persona anche se quella non va a messa, anche se quella gli sputa in faccia. E' per il crocifisso che noi crediamo che Dio salva anche altri che non sono cristiani, non perché tutte le religioni sono uguali. Questa ultima affermazione è una boiata! Le religioni non sono uguali, non possono essere tutte ugualmente vere. Ma la salvezza può essere donata anche a chi in terra cristiano non è stato, per la misericordia di Dio, perché Dio offre la vita anche per chi lo rinnega! Questo è il punto fondamentale del cristianesimo. L'altro si salva perché Cristo lo ama e, se Cristo non lo amasse, il suo ateismo lo porterebbe ad essere perduto per sempre. Quel crocifisso è espressione di un riferimento con cui si misura chi crede e chi non crede: pone la domanda se esiste e se ha senso un amore che ama, non essendo amato e ricambiato. E la scuola non può non insegnare l'esistenza di questa questione e di come essa nasca a partire da quella storia particolare, di quell'uomo crocifisso.

Il tema della verità è un tema educativo fondamentale. Se io dico: “Ognuno ha la sua verità, ognuno la pensi come vuole” ecco che ho dissolto l'idea di verità. Qual è il dramma che ne consegue? Prendiamo un papà, una mamma ed il loro bambino. Se non c'è la verità ne consegue che esiste solo l'accordo temporaneo delle persone. Se il bambino è d'accordo ecco che una cosa è vera, ma se il bambino non è d'accordo, quella cosa non è più vera. Un genitore che non sa sostenere il pianto di un bambino non può educarlo. Ma lo può sostenere solo perché sa che la verità esiste e resta vera anche se il bambino non la capisce e piange perché vorrebbe avere ragione. L'educatore è sostenuto dalla certezza della verità e può così sostenere il rifiuto infantile del suo bambino. Non aspetta che il bambino gli dia ragione per sapere di averla! Perché un educatore può accettare che il bambino pianga, quando gli dice che una certa cosa non si fa? Perché l'educatore sa che la verità è più grande di lui. Perché un educatore può sostenere il rifiuto dell' “allievo” che non vuole fare i compiti? Perché l'educatore sa che studiare è importante. Anche se in quel momento non ti va di farlo, non per questo non è vera quella realtà. Pensate quanto è forte questo: la verità resta vera. Se voi un giorno farete un grosso peccato, voi non sarete esonerati dall'insegnare la verità a vostro figlio. Perché voi non dite a vostro figlio: “Io sono bravo!”, ma indicate la verità (cercando certo di essere anche coerenti con essa, ma sostenendola anche se qualche volta la vostra coerenza non è stata sufficiente). Prendiamo il caso di un genitore separato. Non è che un genitore separato non ha più il diritto di dire che bisogna studiare o imparare ad amare. E' chiaro che lui ha commesso un errore, ma deve continuare a dire: “Questa è la verità, tu questo cammino lo devi fare! Io ti chiedo perdono perché non ci sono riuscito. Ma non è perché io non ci sono riuscito, che questa non è più la verità!” Non è perché uno divorzia, che il matrimonio non è più indissolubile! Il problema è vedere se il matrimonio è indissolubile. Questa è la grande questione. Di questo parleremo presto. Se la verità c'è - ed è chiaro che c'è - esiste un metro più grande di noi. C'è il Bene, c'è l'oggettività. Se non ci fosse sarebbe un bel problema.

Sono venute fuori tante cose, ma non abbiamo ancora risposto alla domanda! Come facciamo a dare una giusta valutazione di ciò che sentiamo? Come possiamo accorgerci di quando ciò che proviamo è ingannevole e di quando ci conduce, invece, a scelte vere? E' tardi, però. Continueremo ancora la prossima volta.

IV incontro
Educare la coscienza: un apparente paradosso. Innamorarsi, voler bene, sposarsi: equivocità dell' “io ti amo”

Per rispondere alla domanda che abbiamo lasciato aperta nell'ultimo incontro – come dare una giusta valutazione di ciò che “sentiamo”, di ciò che “proviamo”? - prendiamo oggi un brano della Bibbia, dal libro del Siracide. Vi è stata distribuita una Bibbia dai nostri animatori: provate a cercare da soli il capitolo 37, ai versetti 7-15. Vediamo se siete capaci di trovare un brano della Bibbia. E' un brano dell'Antico Testamento. Si abbrevia così: Sir 37,7-15.

(Dinanzi all'evidenza che pochissimi sanno trovare un testo biblico, all'interno della Bibbia...)

Vedete quanta strada abbiamo da fare! Non vi spaventate, ma, almeno, rendetevi conto di quanto momenti formativi come questo che stiamo vivendo insieme, ci aiutano veramente!!!
Dunque, alcune indicazioni per trovare il Siracide.
La Bibbia è divisa in due parti: Antico Testamento (AT) e Nuovo testamento (NT). Il Siracide è un libro dell'Antico Testamento. Sta quindi nella prima parte della Bibbia.
I libri più importanti dell'Antico Testamento sono quelli che sono raggruppati nel Pentateuco, che è all'inizio dell'Antico Testamento - sono i 5 libri che si chiamano, nell'ordine: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Seguitemi sull'indice. Vengono poi i libri storici e sapienziali, poi i libri dei profeti. Ecco, fra i sapienziali potete trovare il Siracide.
Se andate più avanti – seguite sempre l'indice – trovate i libri più importanti del Nuovo Testamento (i più importanti in assoluto!). Sono i 4 Vangeli: Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
“Bibbia” vuol dire, etimologicamente, “i libri”, dal greco “biblios”, “libro” che, al plurale, diviene “ta biblia”, “i libri”.

Leggiamo allora il testo del Siracide:

7 Ogni consigliere suggerisce consigli,
ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio.
8 Guàrdati da un consigliere,
infòrmati quali siano le sue necessità
- egli nel consigliare penserà al suo interesse
- perché non getti la sorte su di te
9 e dica: «La tua via è buona»,
poi si terrà in disparte per vedere quanto ti accadrà.

Il Siracide è un libro che appartiene appunto ai “sapienziali”. Raccoglie tutta la sapienza degli antichi, portandola al cospetto di Dio. Questo libro riflette su come si fa a trovare la verità. Dice che esistono tanti consiglieri, persone che ci consigliano: amici, maestri… Però bisogna fare attenzione perché alcuni consiglieri in realtà sono interessati. Seguono, nel libro, alcuni esempi: se voi chiedete ad una persona che ha un suo interesse, dovete stare attenti, perché quello che dice potrebbe non essere la verità. Poi c'è un altro tipo di consigliere: uno che ti dice cosa devi fare, ma poi si mette in disparte e sta a guardare. Se poi arriva un problema, non ti aiuta. Un vero consigliere è uno che è disposto a dare il suo aiuto, a compromettersi dopo aver dato un parere. Non uno che dice le cose a casaccio e, se poi la via è sbagliata, non ne paga anche lui le conseguenze.
Tante persone, quando gli si chiede un parere, rispondono subito, senza ascoltare, senza meditare … Hanno la risposta pronta ed è una risposta imbecille, a casaccio. Io amo molto le persone che in alcuni momenti hanno il coraggio di dire: “Non lo so! Fammici pensare un po', fammi riflettere. Ci penso un po' su e poi ne parleremo meglio”. Una persona in gamba non ha tutte le risposte sempre pronte (ogni tanto sì, però! Guai a quella persona che è talmente confusa che non ha mai un'idea chiara!). Però, in alcuni momenti, una persona in gamba ci deve pensare, ha bisogno di capire, di ascoltare. Il Siracide dice: alcuni gettano la sorte per dare una risposta e poi si mettono in disparte a vedere che ti capita. Poi, se va male, sono cavoli tuoi. Loro tagliano la corda, se la svignano. Il testo continua:

10 Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco,
nascondi la tua intenzione a quanti ti invidiano.
11 Non consigliarti con una donna sulla sua rivale,
con un pauroso sulla guerra,
con un mercante sul commercio,
con un compratore sulla vendita,
con un invidioso sulla riconoscenza,
con uno spietato sulla bontà di cuore,
con un pigro su un'iniziativa qualsiasi,
con un mercenario annuale sul raccolto,
con uno schiavo pigro su un gran lavoro;
non dipendere da costoro per nessun consiglio.

Sta spiegando una serie di casi… per esempio, quante ragazze sono innamorate dello stesso ragazzo e si danno consigli fra di loro. L'autore, che è molto saggio, dice che questa è una cosa assolutamente stupida. Non ha senso fare una cosa del genere. Oppure consigliarsi con uno che ha paura, se si deve combattere. Addirittura arriva a dire: “Non consigliarti con un pigro, qualsiasi cosa ci sia da fare”. Ovviamente se uno è pigro e tu gli chiedi se vale la pena o no fare un qualsiasi lavoro, lui ti dirà di lasciare perdere. A seconda di come l'altra persona è, tu devi stare attento. Pensate a quello che si può chiamare “il sorriso del commerciante”. Ovviamente uno che ti vuole vendere una cosa deve dirti che quella cosa è la migliore che c'è. Il Siracide dice: “Attenzione: quello non è un consiglio disinteressato, per il bene!” Chi accetta un consiglio deve capire che persona ha davanti, per poter trovare la verità. Il Siracide continua ancora:

12 Invece frequenta spesso un uomo pio,
che tu conosci come osservante dei comandamenti
e la cui anima è come la tua anima;
se tu inciampi, saprà compatirti.

Il libro del Siracide, come tutti i libri sapienziali, dice che nonostante i rischi che tutti i consiglieri hanno, ogni persona intelligente deve avere dei consiglieri. Vi ricordate? Avete detto quanto vi aiuta nel trovare la verità un amico in gamba, una persona che ci dice quello che pensa veramente. I libri sapienziali dicono chi è una persona in gamba. E con chi ti devi consigliare? Con una persona che è buona, che è pia, che osserva i comandamenti. Deve essere, però, anche saggia. La persona deve essere retta, onesta, deve avere dei grandi valori morali.
La parola “pio” non si usa più nel linguaggio odierno, ma vuol dire questo: una persona che ha dei valori morali. Questo è un primo grandissimo elemento per cercare la verità: avere dei bravi consiglieri.
Vi dicevo all'inizio dei nostri incontri proprio questo: i maschi, secondo me, parlano poco tra di loro. E' raro avere delle amicizie così libere dove un amico ti dice veramente: “Ti ci vedo sposato, padre, marito. Ne hai la forza, starai bene, se lo farai”. Oppure dove si abbia il coraggio di dire: “Non è il caso. Non lo fare perché non è la persona adatta. Non sei adatto tu. Non sei ancora maturo”, ecc. Le frasi generiche che si sentono dire - “Ma chi te lo fa fare?” – non significano niente, sono delle frasi con le quali ci si nasconde per non dire cosa si pensa veramente! Quando si sente quell'espressione tremenda: “Non gli posso dire quella cosa, se no rovino l'amicizia”... Quell'amicizia è già rovinata! Un amico è per eccellenza quella persona a cui tu puoi dire tutto quello che pensi. Puoi anche fargli una critica e lui non si arrabbierà, se è un amico.
Con un amico c'è molta libertà - abbiamo visto le caratteristiche di ogni forma d'amore. Con un parente c'è meno libertà (ad esempio, con un fratello) anche se lo si ama, talvolta, di più. Sono forme diverse di amore.
La mia esperienza di prete è che troppo tardi le persone hanno il coraggio di venire a chiedere un consiglio. E' rarissimo che una persona che ha un problema matrimoniale venga per tempo a chiedere un consiglio e dica: “Ho un problema, che posso fare?” Anche perché è molto difficile ammettere di avere un problema. Il nostro mondo tende a farci credere che noi dobbiamo essere perfetti. In realtà i problemi sono la cosa più normale di questo mondo, nessuno è perfetto. Se uno ammettesse di avere un problema sarebbe la cosa più naturale del mondo. Si potrebbero così cercare soluzioni, cercare di dare delle possibilità, cambiare atteggiamento, ecc.
Invece la presenza di un problema viene letta come se fosse una ferita mortale dell'amore: se io mostro un problema allora non amo… Non è vero! Dio ha fatto la vita con tanti problemi. Per risolverli, per andare avanti. L'intelligenza dell'uomo è di non nascondere i problemi. Per trovare la verità questo è molto importante.
Un amico prete faceva questo esempio: “La nostra vita è come una di quelle biglie ricoperte di vernice argentata con cui si gioca al mare. Quando ci giochi, le biglie si urtano. Piano piano la vernice si screpola un po', si scrosta e si comincia a vedere quello che c'è dentro. Quello è un momento di grazia purché non la ripitturiamo subito. Se uno si ferma un attimo a vedere qual è quel problema, a parlarne, è un grande aiuto. Se uno invece vuole subito mostrare la faccia perfetta, mostrare che tutto va bene, questo corre il rischio di coprire tutto. Ma poi quella ferita interna si aggrava, non guarisce”.
Continua il Siracide:

13 Segui il consiglio del tuo cuore,
perché nessuno ti sarà più fedele di lui.
14 La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire
meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare.

Ecco un ulteriore passo avanti che ci fa fare questo testo. Ci dice che ci sono i consiglieri, che chi cerca la verità deve avere buoni consiglieri, però attenzione! C'è la tua coscienza, c'è il consiglio del tuo cuore. Questo è ancora più importante. Non toglie l'importanza dei consiglieri, ma queste due cose – i consiglieri e la coscienza - sono in tensione fra di loro, sono in un dialogo. Una persona che veramente vuole capire la vita, ascolta i consiglieri, però poi non dipende da loro, non è succube del loro punto di vista ma, avendo ascoltato i consiglieri, ascolta poi la propria coscienza.
Vedete questa è una affermazione di grandissima importanza. Noi cattolici diciamo che la coscienza è un principio grande per la conoscenza della verità. La coscienza va seguita, ma per trovare la coscienza serve silenzio, attenzione, perché a volte la voce molto forte del “tutti fanno così”, la voce della moda, della mentalità di un certo tempo storico, sembra più forte della voce della coscienza. Pensate a quanto oggi si ragiona con le statistiche. A me non importa sapere quanti matrimoni si rompono o meno per sapere se il matrimonio è o non è indissolubile.
E' la coscienza che te lo deve dire: ha senso amare un uomo/donna dicendo: “Io ti amo, ma non so se ti amerò domani?” Che cosa vuol dire questo? Questo te lo deve dire la tua coscienza.
Questo è principio di conoscenza. La coscienza è uno dei luoghi dove Dio parla, purché tu la ascolti veramente. Perché tu sai che nel tuo cuore c'è anche il peccato che può parlare. Però, nonostante questo rischio, la coscienza va ascoltata. E' fondamentale.
Vi faccio due esempi su questi temi enormi: le persone bombardano gli adolescenti dicendo che i rapporti sessuali si possono avere quando si vuole, anche se si hanno a 14 anni e non c'è nessun problema. Invece la Chiesa dice che è una boiata enorme, che se noi cresciamo una generazione abituata così, ci saranno dei danni enormi a livello umano e psicologico.
Pensate ad una frase serissima, tipica di quando uno tradisce il marito/moglie: “Ma tu ci sei andato a letto?” Perché noi facciamo questa domanda? Noi sappiamo che c'è un momento in cui il tradimento è diventato totale. Dentro la nostra coscienza c'è una punta di verità che ci dice: “Se tu sei arrivato fino a quel punto, vuol dire che veramente hai rotto l'amore, lo hai tradito” - sebbene l'amore si sia rotto già in altri modi, col pensiero, con il cuore. E' interessante come non sia un portato di una vecchia ed antiquata tradizione il pensare che i rapporti completi sono strettamente legati al dono del matrimonio, alla fedeltà e definitività. Quando noi siamo traditi ci accorgiamo che veramente la sessualità è segno di un dono totale! Noi veramente e giustamente stiamo male a immaginarci il nostro marito/moglie con un altro. Si sta veramente male, è una cosa che non si può pensare. La balla che si dice: “Tanto io non tolgo niente a mio marito/moglie”!!! Ma altro che! Prova a vedere come lo vivresti tu, mentalmente nel tuo cuore, immaginandoti questa cosa, immaginandoti il tradimento dell'altro, immaginandolo a letto con un'altro/a.
La nostra coscienza sa questa cosa. E' una cosa così profonda l'atto coniugale che è donato a quella persona e non è donato a chiunque.
Altro esempio: abbiamo fatto un incontro per presentare la nuova legge sulla fecondazione assistita al nostro centro culturale L'Areopago. Sapete che è stata votata questa legge e che la Chiesa ne ha dato una valutazione globalmente positiva anche se non è una legge cattolica, non è una legge che tiene in conto tutti i punti di vista cattolici, perché la morale cattolica dice altre cose che non sono contemplate nell'attuale legge votata e approvata. Però all'interno della legislazione italiana, rispetto al far west che c'era prima su questa materia, questa legge ha posto dei punti fermi. In gioco c'è questo: l'embrione è o non è portatore di diritti umani? L'embrione è semplicemente una cosa o un essere umano? Si può tenere lì, metterlo in un congelatore per decenni e decidere poi di farne qualsiasi cosa? La Chiesa dice che se noi ci abituiamo a considerare l'embrione come un essere non umano, apriamo una via a delle conseguenze terribili.
Questa dottoressa che ha tenuto la conferenza lavora al Gemelli. Ci raccontava che c'era un papà che aveva fatto la fecondazione artificiale, fatta in provetta. Aveva avuto così 11 embrioni congelati e diceva: “Ogni tanto mi sveglio di notte e penso che ho 11 figli che stanno morendo di freddo!” E' chiaro che questa affermazione non va presa sul serio e che è espressione di una visione ingenua. Ma è altrettanto vero che proprio una persona che fa di tutto per avere un embrione da impiantare - per avere un figlio! - sa esattamente, in maniera ancor più chiara di qualsiasi altro, che quell'embrione è vita umana. E' proprio per quello che attende da una vita! Ecco che la legge dice che, se sono stati concepiti embrioni, bisogna poi impiantarli. E' in accordo con la coscienza! Altrimenti si corre il rischio che rimangano lì. E poi dopo cosa ci si fa? Quando nasce il bambino al primo, al secondo tentativo, cosa si fa con gli altri embrioni?
Questa dottoressa ci diceva che la persona che cerca questo tipo di metodi è esattamente la persona che sa quanto è importante la vita! Sa che fare quell'operazione è esattamente compiere il gesto di originare una vita umana. Perché allora bisogna andargli a dire, con dei “consiglieri dai consigli sbagliati”, che quella non è vita umana e quindi ci si può fare quello che si vuole? Se noi teniamo desta la sua coscienza, se non l'addormentiamo, lui sa che è così.

15 Al di sopra di tutto questo prega l'Altissimo
perché guidi la tua condotta secondo verità.

C'è un elemento ancora più grande che noi cristiani accogliamo e lo proponiamo con forza anche a chi non è credente: è la presenza di Dio e il fatto che Lui si riveli, che parli. La rivelazione di Dio! Egli spiega a noi uomini la verità. Per sapere cos'è il bene, la verità, non pensare che ti basta sentire cosa dicono gli altri e cosa dice la tua coscienza, ma chiedilo a Dio, perché Dio lo sa. Lui ti dirà che cos'è la verità. Questo è un terzo elemento molto grande: cominciare ad ascoltare la parola di Dio, la Chiesa, i comandamenti. La realtà di Dio ti darà luce.
La Chiesa - questo è un punto apparentemente non facile da capire, ma in realtà chiarissimo ed importantissimo - da un lato afferma che la coscienza di una persona va sempre rispettata, dall'altro, con altrettanta forza, dichiara che la coscienza deve essere educata e che, quindi, esiste una coscienza erronea ed una immatura! Se uno di voi, dopo aver fatto una seria riflessione, arriva a dire che deve comportarsi in un certo modo, la Chiesa dice che bisogna seguire ciò che la coscienza detta. Però la Chiesa dice anche: “Attenzione, devi anche ascoltare la voce esterna del Cristo e del Vangelo, come la voce della stessa Chiesa!”. Questo è sempre legato al discorso del crescere. Se non educhi la coscienza, o la educhi male, questa è meno attenta. Essa può addormentarsi e dimenticare la verità.
Pensate a cosa si fa in alcuni sistemi dittatoriali, quando si prende un bambino e fin da piccolo lo si obbliga a crescere senza genitori, con l'ideologia del capo. Si può educare magari a sparare, alla violenza. Vi ricordate l'esempio del capo nazista del campo di sterminio? La sua coscienza invece di crescere è stata pian piano spenta. E lui solo alla fine si accorge che poteva benissimo non uccidere, e che era un meccanismo che cercava di fargli credere di essere solamente una pedina di un gioco deciso da altri, quindi di non essere colpevole.
Che ne pensate?

(Interventi vari)

Noi dobbiamo ascoltare la coscienza. Dobbiamo amare molto questo mondo, ma anche avere coscienza che questo mondo in alcuni momenti ci è molto ostile.
La Chiesa sa bene che appena prova a dire alcune cose viene immediatamente derisa. C'è subito una specie di critica –“Queste cose non sono moderne”, si dice. Coltivare la coscienza vuol dire coltivare una grande libertà di spirito. Ad esempio non fidarsi mai della prima cosa che dice un giornale. Vuol dire avere una profonda passione ed interesse per capire un problema, per informarsi. Vuol dire anche coltivare il silenzio. Per esempio voi dedicate molto tempo a parlare fra di voi, ma c'è un altro aspetto che deve essere coltivato: la bellezza del silenzio e della meditazione. Una delle cose che, se non facciamo attenzione, perdiamo facilmente, è il raccoglimento di cui la coscienza ha bisogno. Abbiamo bisogno di dire delle preghiere, abbiamo bisogno della riflessione e del silenzio.
Siamo in un tempo che ci fa continuamente sentire rumori: musica, televisione. Guardate che in alcune famiglie - questa è una cosa molto grave - in qualsiasi momento una persona arriva in casa, subito accende la televisione, la radio… Non c'è mai un momento in cui uno fa una passeggiata. Dinanzi ad uno spettacolo come un cielo stellato di notte, una persona deve saper stare 10 minuti zitto. E' molto grave che un uomo dinanzi alla meraviglia del mare, dell'oceano, non riesca più a contemplarla, ma solo a farci il bagno dentro.
Molti dicono: “Mi occuperò della mia coscienza o di Dio, quando avrò tempo libero”. In realtà il tempo libero, se non lo cerchi, non lo avrai mai, perché i consiglieri probabilmente sbagliati ti invadono la casa. Pensate a come è cambiato il calcio: fino a 10 anni fa si vedeva solo la domenica pomeriggio. Adesso, siccome il calcio vuol dire anche soldi (possiamo amare molto lo sport, il calcio, ma dobbiamo sapere che dietro c'è anche la pubblicità, ci sono anche i soldi), è suddiviso in maniera tale che ogni spazio possibile sia occupato: martedì e mercoledì la coppa dei campioni, giovedì la coppa uefa ecc…, gli anticipi ed i posticipi del campionato. Se tu non decidi che una sera vuoi fare una cosa diversa, vuoi stare in silenzio, fare una passeggiata da solo con tua moglie, ecc., non ci sarà mai questo momento. Se aspetti che capiti, se una persona non sa dire di no al calcio, non arriverà mai questo momento.
Per altre persone valgono altre cose. Il mondo della pubblicità ti cerca. Il tempo cosiddetto libero, in realtà non è tale. Non è che se tu non lo dedichi a Dio resta libero. In realtà qualcun'altro se lo prende.
Coltivare dei tempi stabiliti di silenzio, di preghiera, di dialogo fra due persone, di passeggiate, non è una cosa semplice. Se voi guardate come sono fatte le vacanze, sono completamente organizzate, piene di attività. Se non ci imponiamo di prenderci del tempo, non ne avremo mai. Coltivare la coscienza non è cosa da poco, richiede una scelta ben precisa. Saper dire di no a certe cose, pur soffrendoci un po'. Poi dopo mi accorgo che vale più la pena.

Da quando sono a S.Melania ho la responsabilità degli adulti, delle famiglie e sto imparando che la tradizione - che è una cosa bellissima mentre il mondo la ritiene una cosa stupida - vuol dire la trasmissione, che è un fatto oggettivo. Perché un bambino abbia un'interiorità, tu gli devi dire delle parole, insegnare dei segni: questo è un punto fondamentale.
Mentre nella nostra cultura - diciamo dal '68 in poi – il messaggio che si è imposto è quello della distruzione dei segni, della tradizione.
Sembra quasi una parola d'ordine, ma, se ci riflettete, è veramente senza senso. Tutti si precipitano ad affermare che conta solo l'intenzione, il cuore, che ciò che è esterno, pubblico, ecclesiale, non conta niente! Si afferma: battezzare o no un bambino non è importante, deciderà da grande, la cresima non serve, la comunione non serve, io in chiesa ci vado da solo, quando non c'è nessuno e solo allora sento Dio, mentre se ci sono gli altri è più difficile, la Bibbia non serve, Dante non serve, il crocifisso non serve, ecc... Togli tutto e alla fine ti illudi che ci sia ancora tutto! Tutti tolgono tutto, dicendo che non serve. Invece, se vi domandate perché conoscete il cristianesimo, voi ricostruite che vi è stato raccontato dai nonni, dai genitori, dal prete, nel camino del gruppo scout, ecc... Vi accorgete che quelle cose – a volte troppo poche! - che conoscete del cristianesimo, vengono dalla catechesi. dalla scuola, dalla tradizione della trasmissione della fede. I nostri bambini oggi sanno il Padre nostro? Chi lo insegna loro? I nonni? Quando un bambino vede un adulto che prega? In alcuni ceppi familiari sono stati così sradicati i segni che alcuni bimbi non sanno l'ABC della fede cristiana. La nostra coscienza – continuiamo a sostenere che la coscienza vada formata e che uno non se la trova bella e fatta fin dall'inizio! - è legata anche ai valori, alle parole, ai comandamenti, ai sacramenti, alla messa