Qual è l'origine del terrorismo di matrice religiosa? Introduzione di Camille Eid, giornalista di Avvenire, al volume Osama ed i suoi fratelli (tpfs*)
Per introdurre il dibattito su “La sfida del terrorismo di matrice religiosa”, che si è tenuto venerdì 23 aprile, alle ore 21.00, presso L'Areopago, con la partecipazione di Camille Eid, libanese, giornalista esperto del mondo arabo del quotidiano Avvenire, e Fabrizio Falconi, giornalista e scrittore, autore del libro “Bin Laden, terrore dell'Occidente”, abbiamo proposto l'Introduzione del libro di C.Eid, “Osama e i suoi fratelli”, Pimedit, Milano 2001.
L'Areopago
L'islam si presenta come una religione globale. La legge religiosa è tutt'uno con la legge civile e gestisce tutti gli aspetti della vita di un musulmano, privata, sociale e politica. Nel mondo islamico, è molto nota l'espressione araba che presenta l'islam come “din wa dunya”, cioè religione e società, oppure come “din wa dunya wa dawla”: religione, società e Stato. Nulla di strano. L'islam, infatti, è nato come un progetto socio-politico-culturale-religioso. L'aspetto politico indica come bisogna agire con gli altri popoli e le diverse religioni, come rapportarsi in questioni di guerre e di pace, come relazionarsi agli stranieri. A differenza di molte religioni che, confrontandosi con nuove realtà socio-culturali o con altre religioni, hanno visto evolversi il loro punto di vista, l'islam si è mantenuto immutabile. Fino a qualche anno fa, pochi si sono chiesti se sarà mai possibile scindere, nell'islam, la religione dalla politica, Cesare da Dio. Oggi questa domanda torna alla ribalta in presenza del moltiplicarsi e propagarsi di movimenti integralisti che hanno presentato le loro credenziali in Occidente con clamorose azioni di terrorismo.
Ma sarebbe più opportuno, a questo punto, chiedersi se l' “islam politico” debba necessariamente essere “radicale”. Senza voler togliere nulla all'importante presenza di partiti e movimenti riformatori nei Paesi islamici (vedi il movimento di Khatami in Iran) che rappresentano il volto moderato dell'islam, registriamo il fatto che è piuttosto l'islam radicale a far oggi notizia. All'origine di questo conflitto, la presenza di due letture diverse del messaggio islamico. Mentre, infatti, i promotori di un islam aperto al dialogo e liberale privilegiano il primo periodo della predicazione maomettana alla Mecca, nel quale il Profeta richiamava la sua gente ai valori della giustizia e della tolleranza, gli ideologi della corrente integralista preferiscono riferirsi al secondo periodo, quello in cui Maometto stabilisce lo Stato islamico a Medina, e di lì attingere il modello perfetto da perseguire. I versetti coranici discesi in questo periodo diventano, per costoro, la base giuridica per giustificare il ricorso alla violenza nel jihâd contro i propri “governanti ipocriti”, ma anche contro “infedeli” e “crociati”: “Combattete contro quelli che non credono in Dio, né nel Giorno estremo... ossia coloro ai quali è stato dato il Libro, finché non paghino il tributo ad uno ad uno, con umiliazione” (sura della Conversione IX, 290), o anche “Pensate forse di entrare in Paradiso senza che Allah vi veda combattere la guerra santa con fede salda e sicura?” (sura della Famiglia di Imran III, 142), o ancora la raccomandazione del versetto 39 della sura del Bottino “Combatteteli finché non ci sia più scandalo e la religione sia tutta per Allah”.
Il fondamentalismo islamico moderno ha comunque i suoi “padri fondatori”: si tratta di Hassan al-Banna, ideatore nel 1928 dei Fratelli musulmani in Egitto, e di Abu al-A'la al-Maududi, fondatore nel 1941 della Jamaat-e-Islami nel subcontinente indiano. I due movimenti introdussero una rottura con l'islam tradizionale degli ulema proponendo un islam militante più affine all'ideologia politica. Per loro, le società musulmane contemporanee non avevano più nulla di islamico in quanto i relativi Stati avevano abbandonato i principi islamici. La soluzione era, dunque, un ritorno alle radici, ai fondamenti, individuati nel modello autentico creato in Arabia da Maometto e dai suoi primi successori. Piuttosto che semplici partiti politici, i movimenti fondamentalisti risultarono essere delle confraternite religiose poste sotto la guida di un “amir” e, insieme, delle organizzazioni socio-politiche centrate sulla mobilitazione dei diversi settori della società attraverso l'infiltrazione nei sindacati professionali e nei movimenti giovanili e femminili, in vista del controllo del potere, abbinata ad un'azione caritativa che si concretizza con prestiti senza interesse, borse di studio e altro.
I movimenti fondamentalisti diventarono negli anni Settanta la principale forza di contestazione nel Medio Oriente, approfittando dell'usura delle ideologie nazionali o socialiste dei vari regimi: il nasserismo in Egitto, il Fronte di liberazione nazionale (Fln) in Algeria, il kemalismo in Turchia. L'irruzione del fondamentalismo sulla scena mondiale avvenne tuttavia in ambiente sciita, in Iran, con la vittoria, nel febbraio 1979, della rivoluzione khomeinista sul regime filo-occidentale dello scià. Fra tutte le minoranze sciite del mondo, dall'Iraq al Libano e al Pakistan, nacquero movimenti radicali che si ispiravano agli ideali islamici iraniani. Nel mondo sunnita, intanto, la volontà di integrazione dei movimenti fondamentalisti nel sistema politico si scontrava con una forte repressione governativa portando allo sviluppo di movimenti radicali orientati verso il terrorismo. Questi movimenti facevano riferimento al pensiero di Sayyed Qutb, un egiziano condannato a morte da Nasser nel 1966, che deplorava ogni tentativo di compromesso con il potere. L'obiettivo principale diventa, a quel punto, l'eliminazione dei regimi “infedeli” e la lotta armata. Questi gruppi si caratterizzarono, inoltre, dall'abbandono dell'azione sociale dei loro precursori e dall'uso frequente del “takfir”, ossia l'anatema contro ogni musulmano che non la pensava come loro. In quasi tutti gli Stati del Medio Oriente si verificò una polarizzazione tra, da una parte, i gruppi radicali che passarono all'azione armata e, dall'altra, i movimenti moderati, in generale legati ai Fratelli musulmani. Solo in Siria, la filiale dei Fratelli ha dichiarato guerra al regime del partito Baath guidato da Hafez al-Assad, subendo una dura repressione militare (rivolta della città di Hama nel 1982). Bisogna aspettare la guerra in Afghanistan per assistere al salto di qualità. La guerriglia anti-sovietica dei mujâhidîn afghani ha, infatti, prodotto migliaia di volontari, arabi e non, che, a conflitto concluso, portano la loro esperienza militare nei rispettivi Paesi. Tra questi volontari, uno in particolare monopolizza l'attenzione dei mass media internazionali. Si tratta di Osama Bin Laden, miliardario di origine saudita, considerato il finanziatore dei movimenti integralisti islamici di mezzo mondo e la mente degli attentati terroristici più clamorosi, da quelli contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar as-Salam (1998) a quelli dell'11 settembre scorso. Sebbene sia una mera semplificazione della realtà parlare di una “centrale internazionale del fondamentalismo”, va ammesso che con Bin Laden la militanza radicale islamica ha scoperto anch'essa la globalizzazione. A lui, infatti, fanno ormai riferimento molti gruppi islamici che vedono nel jihâd in Palestina, in Cecenia, nel Kashmir o nelle Filippine, i tanti volti dell'unica lotta di tutta la Umma islamica. Le azioni di questi gruppi non sono più compiute, come negli anni Settanta, in nome di una causa “nazionale” precisa, ma di un insieme di rivendicazioni: l'uscita delle truppe americane dall'Arabia Saudita, la fine dell'embargo contro l'Iraq, il ritiro indiano dal Kashmir, l'instaurazione di un regime islamico ad Algeri, la creazione di una repubblica caucasica musulmana. L'influenza che questi partiti e movimenti islamici esercitano sui propri connazionali immigrati in Europa è immensa, basti citare il Refah all'interno della consistente comunità turca che vive in Germania (attraverso il Milli Görüs), il tunisino Ennahda e gli algerini Fis e Gia sulle comunità maghrebine in Francia e nel Belgio, la Jamaat-e-Islami pachistana sugli immigrati del subcontinente indiano presenti in Gran Bretagna. Senza parlare delle diverse lotte inter-musulmane sul controllo delle moschee e associazioni all'estero. Pochi anni fa, anche i capi dei più moderati Fratelli musulmani hanno ammesso, per la prima volta, di avere ormai una struttura internazionale. Ogni “fratello” che lascia l'Egitto, dicevano, crea una filiale nel Paese di accoglienza: in Germania, in Gran Bretagna o altrove in Europa.
Di sicuro, tra i motivi di questa espansione vanno annoverate le restrizioni alle libertà nel mondo islamico, che colpiscono in primo luogo gli stessi movimenti musulmani. Nessuna meraviglia, quindi, se una città come Londra diventa la meta preferita degli esuli, “integralisti” e non. E' da questa capitale, infatti, che lo sceicco Omar Bakri Mohammed, capo dei Muhajirun (gli Emigranti), elogia oggi i mujâhidîn di tutto il mondo e chiama i musulmani a rovesciare i “burattini” e i “tiranni” che governano i Paesi islamici per restaurare il califfato. Anche la Francia ne sa qualcosa. A dispetto del mito dell'integrazione, Parigi ha constatato sulla sua pelle che molte delle oltre duemila associazioni islamiche – al 95 per cento identificabili solo attraverso una casella postale – che dichiarano scopi religiosi o impegni educativo e sportivi, reclutano invece adepti per la causa integralista. Imam provenienti dal Pakistan e dall'Egitto svolgono spesso un'opera di indottrinamento politico presso dei giovani che non avevano conosciuto fino ad allora alcuna religione. Li si convince che i loro delitti non possono essere classificati come delinquenza, ma come “guerra santa” contro gli infedeli per instaurare un giorno la repubblica islamica nel Paese. Da lì a diventare soldati di Dio il passo è breve.