Gesù Cristo via della speranza (tpfs*), di d.Rino Fisichella (relazione presso il Vicariato di Roma nell'anno pastorale 1994/95)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /11 /2022 - 12:16 pm | Permalink | Homepage
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Premessa

“Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea”. E' con queste parole che viene dato l'annuncio pasquale. La sequenza, che ripercorre i grandi temi del triduo pasquale, si conclude con un annuncio di speranza che è, insieme, richiamo alla responsabilità ed elezione per una missione. E' interessante notare che nei racconti dei Sinottici l'annuncio della risurrezione è dato da un angelo. Il significato teologico sottostante è chiaro: il mistero della risurrezione è tale che può essere rivelato solo da Dio. Ancora una volta, fino alla fine, il credente è posto all'ombra del primato della Parola di Dio che indica non solo il fatto, ma anche la strada adeguata per poterlo raggiungere.

Mai nella storia dell'umanità vi fu annuncio più sconvolgente di quello che è preludio del mattino di Pasqua. Cristo è veramente risorto. L'identità tra il crocifisso e il risorto è il centro del kerigma apostolico e noi, da duemila anni, percorriamo le strade di questo mondo ripetendo in modo immutato lo stesso, identico, annuncio. Qui si scontrano le diverse concezioni della vita umana; qui devono convergere le differenti visioni religiose che esprimono il mistero; qui si risolve l'originalità della fede cristiana. Fuori da questo orizzonte Gesù di Nazareth sarebbe un grande evento della storia con un forte messaggio sapienziale, ma niente di più; lontano da questo scenario, la Chiesa sarebbe una grande società - per alcuni versi, forse, anche perfetta - ma non potrebbe più qualificarsi “sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano” (LG 1). La speranza che Pasqua esprime ha nulla in comune con l'utopia e niente da spartire con il mito. Per la prima volta viene posto nella storia dell'umanità il criterio che abilita ognuno ad uscire dalle
tenebre della disperazione e della morte per entrare nel sereno della speranza e della vita.

1. La speranza cristiana

In che cosa consiste la speranza cristiana? In una battuta, tanto semplice quanto densa di significato, lo dice l'apostolo Paolo: “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27; 1 Tim 1,1: “Cristo Gesù nostra speranza). La presenza di Cristo nella vita di ogni credente - per Paolo il credente e la Chiesa sono spesso usati in modo intercambiabile senza distinzione alcuna - è il mistero pieno e totale che Dio ha voluto rivelare e questo è fonte e oggetto della speranza. All'origine della speranza cristiana, in altre parole, vi è un atto pieno e totale, quanto gratuito, dell'amore di Dio; esso consiste nella chiamata alla salvezza mediante la partecipazione alla sua stessa vita.

La speranza, quindi, nella prospettiva cristiana non nasce dall'uomo. Essa non è primariamente intesa come un desiderio che si apre al futuro, frutto della coscienza che tende ad andare sempre oltre se stessa in attesa di un compimento; al contrario, è intesa come una chiamata gratuita che parte dalla rivelazione di Dio. E' qui che si percepisce la novità della nostra concezione e si compie il discernimento su ogni altra forma di speranza che appartiene all'umanità come suo sforzo peculiare di tendere verso il futuro. Nella misura in cui si recepisce la ricchezza del nostro patrimonio di fede e lo si valorizza, si sarà in grado di compiere un passo in avanti sia nella conoscenza del mistero e, quindi, nell'approfondimento della fede, della preghiera e della testimonianza, sia, nello stesso tempo, nel contribuire in modo originale alla storia del pensiero.

Tutti possono sperare, ma è il contenuto della speranza che qualifica l'atto e lo fa comprendere diverso dal sentimento o dall'utopia. Anche il suicida - scriveva il filosofo Kierkegaard nei suoi Diari - spera in una vita migliore e in forza di questa speranza compie la follia del suo gesto; ma è davvero speranza quell'atto? La speranza cristiana non sorge nel momento del bisogno, della sofferenza o dello sconforto determinato da diverse motivazioni; se così fosse in nulla si distinguerebbe dal generico sentimento o dal desiderio di aggrapparsi a qualcosa come soluzione estrema al male. La speranza cristiana, al contrario, ha come compagne di viaggio che non l'abbandonano mai la fede e la carità. Essa sorge dalla fede e si nutre dell'amore. Senza questa circolarità non sarebbe possibile comprendere la specificità del sperare credente che vive di certezza e non di delusione.
La teologia paolina è estremamente chiara su questo punto; nei momenti cruciali in cui l'apostolo deve descrivere l'esistenza cristiana pone sempre insieme la triade di fede, speranza e carità. E' sufficiente il richiamo ai tre testi in cui esplicitamente ritorna questo insegnamento: “Memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra fatica nella carità e della vostra pazienza nella speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1 Ts 1,3); “Rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza” (1 Ts 5,8); “Queste, dunque, le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor 13,13).

Essendo certezza del compimento della promessa, la speranza cristiana “non delude” perché affonda le sue radici nell'amore (Rm 5,5); e non potrà mai essere separata dall'amore: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Uno sguardo più attento a questo testo, permetterà di comprendere ulteriormente le caratteristiche della speranza cristiana che Paolo descrive nonostante non appaia esplicitamente il termine. Alcuni versetti prima, l'apostolo aveva detto che per coloro che vivono della fede e della speranza la condizione di sofferenza del presente, pur con tutte le tribolazioni e malvagità, non è paragonabile alla gloria che sarà loro concessa. Questa gloria, non è altro che la rivelazione del Figlio di Dio, la conoscenza del suo volto o, se si vuole, la rivelazione piena del mistero che rapirà in una contemplazione senza fine. Il futuro che attende coloro che oggi sperano e credono, non solo compenserà il presente ma, soprattutto, lo supererà nell'intensità della felicità. Qui, però, sorge la domanda che accompagna ancora oggi molti di noi: chi potrà garantire tutto questo? Chi mai potrà dare garanzia del compimento di questa attesa e della soddisfazione di questa speranza? L'apostolo, per rispondere, introduce il concetto di libertà.

Sia la creazione che l'uomo attendono la liberazione dalla “schiavitù della corruzione” (Rm 8,21). Anche i cristiani, che già sono salvati nella morte di Cristo, attendono ugualmente la pienezza della loro salvezza. Questo tempo che viviamo, quindi, diventa il tempo della attesa paziente. “La pazienza - ricorda sempre Paolo - alberga in sé la speranza, la custodisce, la rafforza e la conduce ad un nuovo sperare” (Schlier). Ciò che dà certezza al nostro sperare e costituisce la garanzia della correttezza del nostro attendere, è il fatto che il credente, proprio perché tale, percepisce e “sente” dentro di sé che attende ancora qualcosa. La presenza dello Spirito di Cristo in noi, poi, non fa che confermare questa prospettiva. Poiché non sappiamo neppure che cosa sia importante chiedere per il nostro compimento, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza. C'è pertanto una duplice garanzia per la certezza della nostra speranza, quella soggettiva, che è il “sentire” di ognuno che tende al compimento; quella oggettiva, la presenza dello Spirito che dà forza nell'attesa.

Ritorniamo di nuovo al nostro testo, dove Paolo ripropone la stessa domanda che, in modo implicito, era stata rivolta precedentemente: chi dà garanzia della nostra speranza e della vittoria sulla sofferenza del presente? Chi o che cosa rende sicuro il cristiano che la sofferenza attuale non sarà definitiva, e deve sperare nella gloria che gli verrà data? La risposta è talmente chiara da non dare adito a equivoci di sorta: l'amore di Dio per noi è fondamento, garanzia e sostegno del nostro sperare. E' il suo amore che ci tiene saldi e legati strettamente a lui. E' in forza dell'amore che viene superato tutto ciò che è motivo di sofferenza. E Paolo ha ben diritto di parlare così, enucleando perfino le sette esperienze di sofferenza che abbiamo ascoltato. Sarebbe utile rileggere il brano di 2 Corinzi per capire fino in fondo che l'apostolo non parla di sofferenze immaginarie, ma di ciò che lui stesso ha provato: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso una notte e un giorno in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2 Cor 11,23-27).

Su tutte queste sofferenze, non c'è solo vittoria, ma “trionfo” (õðåñíéêùìåí); per quanto forti e potenti possano essere le forze del male, l'apostolo - e con lui ogni credente - “è persuaso” cioè vive della certezza indiscussa che niente potrà far crollare la speranza della fede nel presente. In una parola, si potrebbe dire che in questa prospettiva tutta la sofferenza che è presente nel mondo, rappresenta per il cristiano non il dolore dell'agonia, ma quello della partoriente! Questa è la certezza dell'amore.

L'atto della speranza cristiano, pertanto, si condensa intorno ad alcuni elementi che la esplicitano e definiscono: l'attesa, anzitutto, della rivelazione piena e definitiva del Signore; la fiducia nella sua promessa che verrà e dove è lui, là saremo anche noi; la pazienza, inoltre, che non cede allo scoraggiamento e che sa perseverare nella sofferenza; la libertà, infine, di agire con e nello Spirito che consente di muoversi in questo modo anticipando la liberazione totale del futuro.

Un'ultima connotazione merita di essere considerata: il carattere comunitario della speranza. Non c'è nulla di privato nella Chiesa. Ricevere il battesimo equivale ad inserirsi nella fede della Chiesa e, quindi, a divenire un soggetto ecclesiale. La speranza cristiana non è un fatto privato, ma azione di tutta la comunità credente che in questo modo si pone come segno per l'umanità intera. Ancora un testo di Paolo permette di fondare questa prospettiva. “Vi esorto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,1- 6). Il tema di fondo di questo testo, come si vede subito, è quello dell'unità. La pace che i cristiani devono mantenere salda, indica nel linguaggio paolino la salvezza che si è ottenuta con la riconciliazione con Dio. Ciò che sostiene e promuove questa “pace”, viene elencato dall'apostolo: in primo luogo, egli pone l'unità della Chiesa di cui Cristo è il capo e che è sostenuta dallo Spirito Santo. Questa unità è fondamento della sola speranza che i credenti sono chiamati a vivere e testimoniare come loro vocazione peculiare. L'unità e l'unicità della speranza, appartengono all'unità della Chiesa, hanno lo stesso fondamento e non possono essere frammentate. La speranza, pertanto, può essere per i credenti solamente ecclesiale; sia perché è prima di tutto la Chiesa che spera e in essa ogni credente, sia perché è segno di unità dei credenti stessi tra di loro. Una conferma la si ritrova in un significativo testo di LG dove il concilio descrive la Chiesa: “Cristo unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità” (LG 8). La dimensione comunitaria della speranza è anche ciò che permette di affermare che il credente spera per tutti e per la salvezza di tutti. E' Tommaso d'Aquino che ha avuto la grande intuizione di sostenere che a fondamento della speranza per la salvezza universale vi è l'amore del prossimo. Ciò che speriamo per noi stessi, amando lo dobbiamo sperare per tutti (STh II-II,17,3). E' qui, alla fine, che diventa chiaro il paolino “sperare contro ogni speranza”, perché la speranza rimanda all'amore che tutto comprende e perdona.

2. C'è ancora speranza?

In quanto la speranza è sempre stata collegata al futuro, essa ha affascinato non poco la mente e la fantasia degli uomini. Alcuni esempi non stoneranno; consentiranno, invece, di evidenziare ulteriormente la peculiarità della speranza cristiana.

Un primo esempio lo troviamo nell'antichità. Il mito del vaso di Pandora è ben conosciuto. Fuggita dalla presenza di Zeus, Pandora aprì il vaso sulla terra e ne uscirono disgrazie, malattie e pestilenze, insieme ad ogni sorta di malvagità. Alla fine, Zeus rinchiuse all'ultimo momento il vaso e vi rimase imprigionata la speranza, ultimo dono fatto agli uomini per consolarli di tante miserie. Per chi va a visitare il battistero di Firenze, una ulteriore immagine lo colpirà, permettendogli di avere un ulteriore visione della concezione della speranza. Andrea Pisano ha ritratto la speranza come una giovane donna seduta, con le ali, che nonostante queste, tende le mani verso un frutto che non raggiunge mai. Il significato sottostante è anch'esso chiaro: la speranza rimane prigioniera dell'utopia; il suo tendere rimane tale, ma non può pensare di raggiungere il frutto che resta, per sempre, irraggiungibile. Un ultimo esempio può essere preso da alcune pagine di un autore contemporaneo, Cesare Marotta, che scrive un interessante Intervista con la speranza.

“Riconobbi subito la speranza, era lei. Silenziosa ed assorta, sedeva al capezzale di un giovane suicida. Costui non aveva ancora vent'anni: si era sdraiato sul lettino e come uno che si faccia una fotografia con 1'autoscatto aveva contato fino a dieci... La speranza sembrava vegliarlo, ed era indiscutibilmente la speranza: un volto bianco lunare, capelli lisci e quieti come l'acqua nelle vasche, sulle labbra il sorriso gelido e bruciante della Gioconda, le mani in grembo, se non erano serpi, celate dalle pieghe della veste. Non si sa, è inutile, che cosa abbia in mano la speranza. Magari nasconde tutto il piacere del mondo, nei suoi pugni chiusi, oppure l'antico trucco finirà un giorno, la vedremo agitare nell'aria due rossi moncherini e ridere definitivamente di noi. Le dissi, indicando il povero giovinetto: “Eccone uno che non vi appartiene più. Forse avreste potuto aiutarlo, ma siete arrivata tardi?” La speranza disse: “Al contrario. Non l'ho mai abbandonato. Ero con lui quando ha irreparabilmente agito; anzi, vedete, sono ancora qui”. A partire da qui inizia un dialogo tra l'autore e la speranza fatto da reciproche incomprensioni, fino a quando di nuovo rivolgendosi alla speranza viene detto: “E voi.., qualsiasi imbecille, qualsiasi pezzente vi chiami, voi gli date retta. Non negatelo siete stata vista con un mendicante, con un gobbo, con un negro”. “Era un negro?” “Vorreste farmi credere che non lo sapevate?”. La speranza non rispose.... “I miei occhi, li avete veduti?”... Cercai lo sguardo della speranza, ma non c'era: lontani e vuoti, i suoi occhi di un tenue azzurro non ricevevano né immagini né colori; mi resi conto che la speranza è cieca. Continuò a sorridere, mi salutò dicendo: “Hanno commesso un gravissimo errore i vostri artisti di ogni tempo. Non la fortuna dovevano raffigurare bendata. La fortuna trova sempre, a colpo sicuro, gli individui più immeritevoli dei suoi doni. Non sbaglia mai, è ben raro che si comprometta, come me, con mendicanti e negri. Rettificate, vi prego: diffondete la notizia che la speranza è cieca: la speranza non sa di chi siano, ditelo, le braccia che le si tendono; chiunque può ingannarla e chiunque lo fa”.

Questa esemplificazione permette di verificare le grandi differenze che intercorrono tra la visione pagana della speranza e quella cristiana. La prima la vede come ultimo appiglio concesso all'umanità per non naufragare nel mare delle difficoltà e dei disastri - si pensi al vaso di Pandora - la seconda la vede, invece, come provocatrice e sorgente di senso. Per la prima, la speranza si collega spesso e volentieri all'utopia come un qualcosa di irraggiungibile e costitutivamente esposta all'incertezza e alla delusione, perché rimane un tendere senza avere certezza di poter raggiungere; per la seconda, la speranza è legata al presente e chiede di rimanere fedele ad essa nella certezza della fede.

Uno dei problemi fondamentali che il cristianesimo oggi vive, è certamente quello della comunicazione. Abbiamo vissuto per secoli all'ombra dell'imperativo petrino: “Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza presente in voi a chiunque ve lo domandi” (1 Pt 3,15) e oggi dobbiamo costatare che, nell'indifferenza generale, siamo nella condizione che più nessuno chiede della nostra speranza, obbligandoci così a provocare la stessa domanda. E' in questo orizzonte che sorgono i problemi più urgenti per l'evangelizzazione. Abbiamo un linguaggio capace di comunicare la verità della fede, perché vicino al linguaggio del nostro contemporaneo? Ho timore a rispondere, conoscendo già il contenuto negativo della risposta. Abbiamo anzitutto bisogno di conoscere il nostro contemporaneo - senza dimenticare che il cristiano stesso è il nostro contemporaneo perché respira la stessa aria culturale - e di porlo davanti a noi con tutta la crudezza dell'analisi possibile.

Vi è una scritta che campeggia sulla riva destra del Tevere all'altezza di Ponte Garibaldi: Keine Schönheit ohne Gefahr! Senza pericolo non c'e bellezza alcuna. Vorrei tentare di descrivere il nostro contemporaneo, nella sua attesa di speranza, proprio a partire da questa scritta. Fino ad alcuni decenni fa per provare i brividi del pericolo e, quindi, l'ebbrezza della bellezza, bisognava trasmigrare in terra straniera, verso popoli e culture diverse dalla nostra. Oggi, invece, la paura e il pericolo sono entrati a pieno titolo nel centro delle nostre città e nel mezzo della nostra vita, senza consegnarci, in cambio, bellezza alcuna. Venendosi a modificare il rapporto con la “vita” ne è derivato, conseguentemente, un modificato rapporto con la speranza.

Non è retorica affermare che il nostro contemporaneo vive una situazione paradossale e per molti versi contraddittoria nei confronti della speranza. Da una parte, caduto nella trappola dell'efficientismo, egli rincorre solo l'immediato senza più avere progetti per il futuro; dall'altra, se appena è in grado di alzare i propri occhi per guardare al di là dell'efficienza, scopre che ha una sete immensa di speranza. E' necessario fare dei passi indietro per capire Io stato di questa crisi, perché i movimenti culturali che oggi viviamo hanno sempre radici più profonde di quanto pensiamo. Le delusioni per la speranza iniziano per noi all'inizio di questo secolo. Come inizio di ogni secolo, anche il nostro si presentava foriero di buoni auspici. Il progresso, soprattutto, appariva come la vera conquista che avrebbe fatto compiere un salto nella qualità della vita. Ma non sono passati che pochi anni e il 1914 ricorda a tutti lo scoppio della prima guerra mondiale. Al di là delle interpretazioni, essa indica che la società, pur avanzata, non riesce a trovare forme di convivenza internazionale che sappiano rispettare le peculiarità di ognuno. Ciò che emerge è il predominio dell'una sull'altra. La seconda guerra mondiale non farà che radicalizzare questa prospettiva. Non è un caso che i] marxismo come ideologia, prima, e come sistema politico, poi, si sia costruito proprio sulla volontà di creare ed attuare un progetto che fondasse la sua consistenza sulle relazioni sociali come perno per il cambio della società. L'internazionale socialista non era che il preludio per una visione mondiale che abbandonati gli schemi borghesi delle classi, attuava l'unicità della classe.

Se Auschwitz aveva rappresentato il sogno folle di esaltare la razza, il Gulag diventava nei decenni successivi il segno della follia del dogmatismo autoritario marxista. Si era puntato tutto sul collettivismo e ci si ritrova a fare i conti con l'individualismo che ha in Nietzsche il suo maestro più rappresentativo. A tutto questo si aggiunga l'evoluzione avvenuta nelle scienze. Fino alla fine della seconda guerra mondiale la certezza era la parola d'ordine della scienza. Ciò che la scienza raggiunge e produce è sicuro, certo e vero. Dovevano sorgere le teorie di K. Popper per mostrare che anche la scienza, anzi soprattutto la scienza, non ha carattere di certezza, ma solo di provvisorietà e probabilità. L'unica certezza che si può raggiungere è quella probabilistica e coloro che ne sono più sicuri sono proprio gli scienziati! Ai problemi nazionali, subentrano oggi quelli mondiali e planetari. I fallimenti delle diverse organizzazioni delle Nazioni Unite sono sotto gli occhi di tutti e mostrano l'incapacità a risolvere problemi che spaziano da quelli economici a quelli armamentari e della sicurezza. Un ultimo riferimento in questo orizzonte, va fatto obbligatoriamente sulla situazione internazionale attuale che vede conflitti sempre più profondi a livello delle determinazioni etiche del vivere sociale. La speranza per la vita e per diverse forme di vita che partirebbero dalle determinazioni degli individui, ha aperto lo spazio alla ricerca biogenetica e non sappiamo ancora dove essa andrà a parare; dall'altra parte la sfiducia nella continuazione della vita in uno stato di sofferenza, porta a valutare la determinazione della propria morte. E' falso affermare che vi è neutralità nelle scienze e, pertanto, tutto è lecito. Non solo si deve giudicare l'uso che viene fatto della scienza, ma insieme ad esso si deve considerare il fatto che ogni scoperta, persa la neutralità, ha alle sue spalle una particolare antropologia o visione del mondo. La conseguenza che ne deriva, nell'ordine pratico legislativo e sociale-politico è quella di una mancanza di normatività etica che obbliga a rinchiudere il tutto nella sfera del privato. Al soggettivismo culturale si aggiunge l'individualismo della determinazione etica senza rendersi conto della micidiale miscela che si viene ad innescare.

Sembriamo persone che stanno sognando a occhi aperti e confondiamo tutto non distinguendo più tra realtà e fantasia, tra il bene e il male, tra ciò che è frutto della fede e ciò che è solo prodotto ideologico. Più lo sguardo si affaccia sul futuro e più sembrano crescere i dubbi e la confusione. Dovremo pur chiederci perché l'occidente mostra con sempre più accentuazione i segni di una follia generale. C'è in molti una situazione patologica di angoscia che nasce dal dubbio e sfocia nella disperazione. Ciò che viene vissuto non è più dramma, ma tragedia che impedisce di vedere una soluzione positiva.

Ciò che sta davanti ai nostri occhi è, comunque, una società vecchia. Non solo per il problema della natalità, ma perché incapace di progettare il futuro. I segni di una Società vecchia sono facilmente riconoscibili: si percepiscono nella paura che accompagna ogni decisione e nell'incapacità a saper scegliere il rinnovamento. Il timore del generare è essenzialmente paura del futuro e di ciò che esso riserva, perché non si è più in grado di guidarlo e progettarlo a partire da noi. Solo la coscienza che si sta mentendo è in grado di definire “progresso” ciò che è invece decadenza. In quelli che vivono solo di nostalgia - puntando tutto sul passato e rompendo quindi la relazione passato-presente - e sono tanti, la paura ha il sopravvento sulla speranza e questa viene combattuta in nome della tradizione, senza rendersi conto che la tradizione o è viva e produttrice di futuro o non è tradizione. Parliamo di crisi, ma con onestà dobbiamo ammettere che più che altro noi fotografiamo la crisi senza avere molta determinazione per uscirne né molta forza per contrastarla. Qui entra di nuovo in gioco la missione dei credenti come testimoni di speranza. In questo orizzonte diventa maggiormente comprensibile l'esperienza dell'uomo biblico che non riusciva più a credere agli annunci di speranza che gli venivano rivolti dai profeti. Per l'uomo veterotestamentario, la promessa della terra e di un popolo erano condizione di vita. Jhwh era stato conosciuto come il Dio della promessa. Ora, però, loro non hanno più né patria né famiglia, né tempio né desiderio di credere ancora... Come è possibile sperare se nel presente vedo solo deportazione ed esilio? E' qui che si gioca la grande sfida della fede biblica e il profeta pone la sua credibilità. Sorgeranno allora Isaia, Geremia ed Ezechiele per ridare speranza ad un popolo in piena crisi di fede. Questa, analogicamente, è la stessa condizione che vive il cristiano nel mondo contemporaneo. In un periodo in cui nel nostro vocabolario sono entrate con impeto parole come: precarietà, degradazione... come si potrà di nuovo porre fede alla parola di salvezza? Il sorgere di nuovi profeti che, nella Chiesa e a nome della Chiesa annunciano un rinnovato esodo e l'entusiasmo per la terra promessa è ciò che serve per rinforzare la speranza.

Conclusione

A partire dalla ristrutturazione urbanistica del Settecento, quando i pellegrini arrivavano a Roma, la prima vista che avevano della città erano i quattro obelischi che indicavano loro la collocazione delle quattro basiliche maggiori. Allo sguardo affaticato del pellegrino l'obelisco indicava che la meta era stata raggiunta, nonostante la fatica e i mille pericoli che il viaggio comportava. Nei giorni successivi si sarebbe messo di nuovo in viaggio, attraversando la città eterna, per raggiungere la meta del suo pellegrinaggio; la speranza che lo aveva accompagnato, ora diventava realtà. Era giunto a Roma, alla tomba di Pietro, per professare la fede e celebrare l'anno Santo. Il sogno che lo aveva guidato gli permetteva adesso di godere della sua presenza a Roma come di un'oasi in mezzo al deserto.

Nella grande città del mondo, vedo oggi diversi obelischi che dovrebbero riportare alla mente di questo uomo affaticato e affannato, tanto da non avere più neppure il tempo per pensare a se stesso, uno spazio di silenzio e di contemplazione. Questi obelischi potrebbero essere i diversi santuari che si ergono ancora come spazi di speranza per quanti hanno ancora forza per sognare e coraggio per testimoniare.

Non si dimentichi, che la speranza oggi, per molti che non credono, potrebbe essere il nuovo nome della fede e, in ogni caso, una speranza vera non è altro che un cammino verso la professione della fede. Mi fa compiere questa considerazione il romanzo postumo di I.Silone, l'uomo che fino alla fine ha voluto esprimere la sua ricerca di Dio senza poter arrivare a professare la fede ecclesiale. Nel suo ultimo romanzo autobiografico, Severina, narra di una suora che in preda ad una crisi di fede lascia il convento. La sua vita è una continua ricerca di Dio; questi, però, poco alla volta diventa solo un'idea e non le dice più nulla. Severina partecipa a diverse attività, si mostra utile agli altri e un giorno, intervenendo a una manifestazione, per sbaglio viene colpita a morte. E' portata in ospedale. Al suo capezzale accorre immediatamente una consorella di un tempo, presa dalla preoccupazione di farle professare la fede. A Severina ormai morente, la suora chiede con insistenza:

“Severina, Severina, credi?” E Severina rivolgendole lo sguardo risponde: “No, però, spero”. Ecco il dramma della nostra epoca e, nello stesso tempo, l'offerta di una mediazione per poter continuare a comunicare e ad annunciare il vangelo. Non trovo conclusione migliore del rimando a due espressioni che tutti conoscono e che potrebbero facilmente divenire i pilastri che aiutano nella comprensione di un progetto di evangelizzazione che accompagna la Chiesa in questo pontificato di Giovanni Paolo Il. Il santo Padre iniziava il suo servizio petrino nell'ottobre del 1978 con le parole: “Non abbiate paura, aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo”. Era un invito pressante al coraggio della fede nel Signore risorto. Sotto la forza della fede e la costanza della testimonianza le porte si sono aperte e perfino dei muri sono caduti. Molte porte, purtroppo rimangono ancora chiuse perché non c'è limite all'egoismo e la gelosia per un riduttivo concetto di libertà vieta di saper guardare al di là di noi stessi. Ecco che in questi giorni viene di nuovo l'invito pressante a saper “Varcare le soglie della speranza”. Vi è tanta poesia e tanto realismo in questa espressione che si coglie intuitivamente. Varcare la soglia dice tutto: coraggio per non rimanere fermi in sé; entusiasmo per sapere che la soglia è il luogo dell'ingresso verso un mondo che permetterà di gustare in pienezza i frutti della promessa; libertà di compiere un gesto, il primo passo che compete a noi e a nessun altro in prima persona... Ritornano alla mente le parole dell'Apocalisse: “lo sto alla porta e busso”. Nel coraggio di aprire quella porta e varcare la soglia per mettersi alla sua sequela vi è il senso di tutta una vita e una missione ecclesiale che, nei diversi ministeri. ci rende tutti responsabili per la salvezza di questo mondo.

Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it 

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