Essere cristiani in Turchia fra accoglienza, dialogo e disagi. Dall'impossibilità di costruire una cappella all'attenzione ai migranti. Il vescovo Bizzeti, vicario apostolico dell'Anatolia: parte dal basso l'incontro con l'islam, di Giacomo Gambassi
Riprendiamo da Avvenire del 24/1/2022 un’intervista al vescovo Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell'Anatolia, in Turchia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Islam: la questione della libertà religiosa.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)
Il vescovo Paolo Bizzeti
con alcuni neo-battezzati in Turchia
Versa l’acqua sulle loro teste e li unge con l’olio. Il vescovo Paolo Bizzeti battezza gli «adulti fuggiti in Turchia a causa della fede in Gesù», come lui stesso racconta. Sono profughi cristiani dell’Iran che hanno trovato “casa” nel sud del Paese, nelle terre che rientrano nel vicariato apostolico dell’Anatolia. Esteso su un’area che equivale a quella della Germania, ha come sede la città di Iskenderun che in italiano mutua il nome dal greco diventando Alessandretta.
Per cinque anni il vicariato apostolico è rimasto vacante dopo l’uccisione del vescovo Luigi Padovese, assassinato il 3 giugno 2010 dal suo autista al grido di Allahu Akbar («Allah è grande»). Fino al 2015 quando papa Francesco ha voluto come successore del “pastore del sorriso” il gesuita d’origine fiorentina. «Qui la Chiesa cattolica – racconta il vescovo 74enne – è costituita anzitutto da turchi e in tutte le nostre parrocchie abbiamo persone locali che si preparano a ricevere il Battesimo: piccolissimi numeri, ma ci sono. Quindi la situazione in Turchia è molto diversa da quella di altri Paesi vicini, grazie anche a una saggia politica che non ostacola le conversioni. Poi ci sono molti rifugiati cristiani: loro invece sono di fatto emarginati e spesso anche in modo pesante».
Si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio il secondo incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che porterà in Toscana i vescovi delle Chiese affacciate sul grande mare in rappresentanza di tre continenti (Europa, Asia e Africa). Al centro dell’incontro, ispirato alle intuizioni del "profeta di pace" Giorgio La Pira, il tema della cittadinanza letta alla luce della fraternità fra i popoli in un'area segnata da guerre, persecuzioni, emigrazioni, sperequazioni. Assieme ai vescovi, arriveranno a Firenze i sindaci delle città del Mediterraneo per un forum “parallelo”. Il doppio appuntamento sarà concluso da papa Francesco domenica 27 febbraio con la sua visita a Firenze
In una piccola teca della cappella all’interno dell’episcopio sono conservate la stola, un messale, la stilografica e un paio di occhiali appartenuti al presule “martire”. E nel vicariato apostolico dell’Anatolia è morto don Andrea Santoro, il fidei donum laziale ucciso in chiesa nel 2006. «La nostra – afferma Bizzeti riferendosi ai cristiani perseguitati o che hanno perso la vita – è una religione che oggi difende la libertà e il rispetto della coscienza altrui, come ci insegnano i Papi. Per questo non ha vita facile, come non hanno vita facile altre minoranze che credono negli stessi valori. È così in tutto il mondo». Il presule parteciperà all’Incontro dei vescovi del Mediterraneo che si terrà dal 23 al 27 febbraio nella sua città natale, Firenze, e che sarà concluso da papa Francesco. Un appuntamento ispirato alla profezia di pace di Giorgio La Pira che vedrà, accanto ai pastori in arrivo da venti nazioni del bacino, i sindaci delle città della regione.
Eccellenza, come valuta questo appuntamento “doppio”?
L’idea di fare incontrare vescovi e sindaci è significativa perché finalmente si va oltre la divisione tra vita civile e vita ecclesiale. Una separazione che, se da una parte, è stata utile per garantire l’autonomia ad ambedue le realtà, dall’altra parte, sui lunghi tempi, è negativa in quanto ciascuno finisce per coltivare il proprio punto di vista senza aprirsi al confronto. In Occidente è prevalsa una visione liberale di Chiesa e di Stato che procedono paralleli a scapito del bene comune, mentre in alcuni Paesi del Medio Oriente sopravvive, anzi si accentua, un uso strumentale della fede che non contempla il fatto che tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti, non solo quelli della religione maggioritaria. Le due visioni non accettano la complessità di una società multireligiosa e la vera uguaglianza tra le esigenze di tutti. Aggiungo che le autorità civili devono confrontarsi con le domande spirituali della gente; e le autorità religiose sono chiamate ad avere uno sguardo ampio che non miri solo alla difesa dei diritti per i loro fedeli. Il bene comune, se è tale, deve comporre le istanze di una società multiculturale, multietnica e multireligiosa. Perciò condanno una politica laicista che ignora Dio e una politica che fa leva su Dio solo per perseguire i suoi interessi.
In Turchia la Chiesa cattolica è piccolissima. Nel 1914 i cristiani erano il 20%; oggi lo 0,2%. C’è il rischio che i luoghi della Chiesa delle origini non abbiano più una presenza cristiana?
Non è più un rischio, è una realtà di fatto. Dipende da molti fattori storici, tra cui una certa debolezza di quei cristiani che preferiscono fuggire anziché essere lievito. Come diceva il patriarca emerito latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, la vocazione a essere cristiano in Medio Oriente comprende il martirio nella vita ordinaria. Non mi spaventa però la piccolezza del numero, ma la scarsa formazione del clero e dei fedeli, così come la poca testimonianza evangelica. Anche da noi l’invito a essere Chiesa “in uscita” è quanto mai attuale e necessario. Nei primi secoli i cristiani erano pochi ma capaci di offrire modelli di vita fraterna e religiosa alternativa a quella pagana ed erano pieni di fervore nell’annunciare la novità del Vangelo.
A Firenze si parlerà della cittadinanza e del rapporto fra Chiesa, società e istituzioni politiche. C’è libertà religiosa in Turchia?
Rispondo con qualche domanda: si può parlare di libertà religiosa quando non si possono costruire una cappella, un centro giovanile, una scuola cattolica? Quando un cristiano non riceve il permesso di andare in un’altra città per celebrare il Natale o la Pasqua perché dove abita non ci sono né chiese né pastori?
Come il fattore religioso è sfruttato dalla politica turca?
Alla nascita della Repubblica nel 1923 vi erano circa 3mila moschee: una ogni 5mila abitanti. Oggi sono più di 80mila: una ogni mille residenti, di cui 11mila costruite negli ultimi undici anni. Il Diyanet, il ministero per gli Affari religiosi, ha un budget superiore a qualunque altro dicastero; controlla tutte le facoltà di teologia islamica i cui professori sono dipendenti del governo; nomina e stipendia gli imam del Paese; abbozza i sermoni del venerdì che vengono scritti dai funzionari del ministero. All’inizio del governo Akp, che ha come leader Erdogan, il 2% dei giovani frequentava le Imam hatip, le scuole di formazione del “buon musulmano”; nel 2017 erano il 10%; oggi si stima che la percentuale sia raddoppiata.
Il Documento di Abu Dhabi è un richiamo alla fratellanza universale, oltre le appartenenze religiose. Come costruire un rapporto “cordiale” con il mondo islamico?
Qui l’islam è moderato rispetto a certi Paesi arabi o di lingua farsi. E grazie alla bontà e alla gentilezza del popolo turco ci sono buoni rapporti. Credo molto nell’incontro e nella conoscenza dal basso che permette di cancellare stereotipi e falsità di cui sono pieni anche alcuni libri scolastici. L’amicizia e la frequentazione cordiale, la comune battaglia contro un liberismo economico disumano, la ricerca della pace e la custodia del Creato sono mattoni per costruire insieme un futuro nuovo.
Resta ancora aperta la ferita del genocidio degli armeni.
Il governo turco sta cercando nuovi rapporti con l’Armenia. Se si riaprono le frontiere, è probabile che si faccia un bel passo in avanti.
Il Paese ha accolto oltre tre milioni di profughi. Però l’Europa ha “pagato” il governo per fermarli.
La Turchia è stata molto generosa nell’accoglienza, anche se oggi la vita dei rifugiati è davvero difficile. Ma bisogna distinguere tra le provenienze. I siriani hanno diverse possibilità su cui invece non possono contare gli iracheni, gli afghani o gli iraniani. L’Europa purtroppo non è capace di affrontare questa catastrofe in modo lucido, corretto, umanamente credibile.
Come si vive l’emergenza coronavirus?
Il Paese sta affrontando la pandemia con efficienza anche per le vaccinazioni. Non ci sono state contestazioni e la gente è attenta al bene comune. Tuttavia la crisi economica connessa al Covid ha fatto aumentare anche qui le disuguaglianze.