Il genio di Canova per il bello. Lo scultore seppe fondere lo splendore dell'idea con il calore della carne, di Antonio Paolucci
Riprendiamo da Luoghi dell’Infinito un articolo scritto da Antonio Paolucci e pubblicato sul numero 240, giugno 2019, pp. 64-69. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte: Settecento e Ottocento.
Centro culturale Gli scritti (27/3/2023)
Antonio Canova, Venere Italica
Nel 1802 papa Pio VII Chiaramonti nomina Antonio Canova Soprintendente Generale del patrimonio archeologico e artistico dello Stato Vaticano e direttore dei Musei.
Lo fa ancorando l'iperbole laudativa a una comparazione storica che proclama - potremmo dire ex cathedra - l'equivalenza fra lo scultore di Possagno e il "divino" Raffaello.
«La Santità di N.S. ha dichiarato che volendo contestarle la sua speciale ammirazione, non ha saputo manifestargliela che seguendo le tracce medesime di Leone X verso l’incomparabile Raffaello d’Urbino, collocandola nel più sublime grado di tutti gli artisti».
Così Papa Chiaramonti e non si poteva dire meglio. La deliberazione di Pio VII è il consapevole calco del celebre "breve" del 1515 con il quale Leone X nominava Raffaello Soprintendente alle Antichità di Roma [N.B. de Gli scritti. Per una precisazione di tale affermazione, cfr. Raffaello Sanzio. Santità, non ruiniamo Roma! Al grande pittore si deve l’appassionata difesa delle rovine e l’ardente desiderio di conservarle, misurarle, trasmetterle alle generazioni future, di Salvatore Settis e La Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassarre Castiglione nell’analisi di Salvatore Settis. “Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana”. Una presentazione di Andrea Lonardo]. Come papa Medici aveva riconosciuto, con un atto ufficiale, il primato di Raffaello così, tre secoli dopo, brillando alto nel ciclo d'Europa l’astro di Napoleone, papa Chiaramonti tributava ad Antonio Canova un analogo omaggio di eccezionalità e di eccellenza.
La fortuna dello scultore è ultimamente cresciuta e ai tempi nostri si è rafforzata. Non è servita ad offuscarla la memorabile stroncatura di Roberto Longhi che, nel 1946, nel Viatico di cinque secoli di pittura veneziana giudicava Canova un artista «nato morto il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all'Accademia e il resto non so dove». Nonostante questo, per uno di quei moti pendolari non infrequenti nella critica, il nostro secolo ha visto il recupero impetuoso, smagliante dell’immagine di Antonio Canova. Oggi egli è tornato a essere, dopo Michelangelo, lo scultore più ammirato e apprezzato a livello internazionale. L'ultima mostra napoletana a lui dedicata ne è la felice conferma. Oggi la nostra opinione su di lui non è diversa da quella espressa, due secoli fa, da papa Chiaramonti.
Ma in cosa consiste, oggi, il fascino di Canova? Il "miracolo" di Antonio Canova sta nell'essersi egli saputo mantenere in mirabile equilibrio, allo spartiacque di due secoli, fra "idea" e "natura", fra il classicismo di Winckelmann e la nascente sensibilità romantica di Foscolo, di Byron, di Keats.
Da una parte i modelli, dall'altra i sentimenti (l'amore, gli affetti, la malinconia, la mestizia) che inteneriscono i modelli e li rendono nuovi e moderni.
Questo, in sintesi, nei tempi drammatici e calamitosi che videro la fine dell'Antico Regime, la Rivoluzione, l'Impero, la Restaurazione, fu il sogno artistico di Antonio Canova, il suo carisma e il suo destino. La sua idea di un'arte accarezzata dai sentimenti e intiepidita dalla vita, affascinò l'Europa divisa dalla politica, dalle ideologie e dalle guerre e ancora, dopo due secoli, ci rasserena e ci scalda il cuore.
Di fronte ai marmi fidiaci di lord Elgin tratti dal Partenone di Atene, Canova scrive:
«Tutto spira vita con una evidenza, con un artifizio squisito [...]. I nudi sono vera bellissima carne».
Affascinato dalle sculture di Canova, Stendhal affidava la sua ammirazione a un giudizio rimasto proverbiale:
«Canova ha avuto il coraggio di non copiare i greci e di inventare una bellezza come avevano fatto i greci» (1816).
«Sempre sono stati gli uomini composti di carne flessibile e non di bronzo».
Questo diceva Canova e questo dimostrava nelle sue sculture costantemente accarezzate dalla "bella natura".
Bella natura è lo splendore di un giovane corpo femminile, è la sensazione di immortalità che la giovinezza ci regala per un attimo; bella natura sono i sentimenti di amore, di tenerezza, di mestizia che attraversano i pensieri e le azioni degli uomini.
Ed ecco le opere celebri dello scultore, la glorificazione dell’Amore declinato nelle varianti del Mito (Eros e Psyche, Adone incoronato da Venere), consegnato alla dolce contemplazione di giovani nudi femminili (la Venere italica, le Grazie, Ebe, Paolina Borghese).
La pura forma classica obbliga i corpi al luminoso dominio dell’idea ma, sotto quel levigato splendore, noi avvertiamo il tepore della carne. Tutto questo lo aveva capito molto bene Ugo Foscolo il quale, di fronte alla Venere italica di Canova chiamata a sostituire agli Uffizi la Venere dei Medici portata via da Napoleone, scrive:
«Canova abbellì la sua nuova dea di tutte quelle grazie che ispirano un non so che di tenero ma che muovono più facilmente il cuore [...]. Insomma se la Venere dei Medici è bellissima dea, questa che io guardo è bellissima donna; l’una mi faceva sperare il Paradiso fuori di questo mondo e questa mi lusinga del Paradiso in questa valle di lacrime».
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La biografia di Antonio Canova viene delineata con tratti vigorosi da Rudolf Wittkower nelle sue lezioni sulla scultura pubblicate postume nel 1977. Canova era nato nel 1757 a Possagno, Treviso, ma già a diciassette anni possedeva un proprio studio a Venezia. Nel 1781 si stabilì a Roma e vi rimase fino alla morte nel 1822. «I suoi inizi risentono ancora della tradizione tardo-barocca - afferma Wittkower -, ed è divertente che uno dei suoi bozzetti per lungo tempo sia stato attribuito a Bernini. Ancor prima di stabilirsi a Roma, si convertì alla pratica del Neoclassicismo». Ed è il letterato e pittore tedesco Karl Ludwig Fernow a descriverci lo studio romano dello scultore, simile ai «laboratori degli antichi, ove vennero forgiate le immagini degli dei e degli eroi dei Greci». […]