Animula vagula blandula, piccola anima che andrai vagando languida. L’ode dei diminutivi in morte di Adriano, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Storia romana.
Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)
L’imperatore Adriano pronunciò in punto di morte la famosa ode
Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos (Historia Augusta, Vita di Adriano, XXV, 9)
rivolgendosi alla propria anima e dandole come il proprio congedo[1].
Si deve innanzitutto notare che tale componimento poetico è composto da diminutivi. Già questa scelta è estremamente indicativa: resterà una “piccola anima” dopo la morte, ma appunto tale anima sarà “piccola”, “diminuita”, rispetto alla vita, essa invece grande e piena.
È la visione dell’aldilà tipica del mondo classico, con accenti però tipicamente ellenistici.
Adriano si domanda sull’eternità e la vede in diminuendo, rispetto allo splendore della vita. Anche egli, l’imperatore, deve affrontare la morte come tutti e la morte è un destino languido per l’anima che diviene piccola, che esce dalla morte immiserita.
Come ha ben scritto Andreoni Fontecedro, gli aggettivi che seguono vanno interpretati nella stessa direzione: “vagula”, cioè che “andrà vagando”, che sarà ormai “errante”, “blandula”, cioè “languida”, “senza più quel colore”, quel colore che solo la vita terrena permetteva.
Secondo la latinista e traduttrice si può ben pensare che il terzo verso vada interpretato con l’apposizione di un interrogativo finale (come è noto i testi antichi non avevano punteggiatura ed essa è sempre da ricostruire): “Dove ora te ne andrai piccola anima?”
È la dimensione dell’incertezza, dell’ignoto, che caratterizza il componimento. L’anima sarà ancora viva di una vita indebolita e dove sarà da quel momento in poi? Se prima era “ospite e compagna del corpo”, ora non è dato più sapere dove sarà.
Andreoni Fontecedro[2] sottolinea ancora come la terminologia utilizzata sottende la filosofia di Plutarco che aveva scritto di una tripartizione dell’uomo «che subisce una prima morte quando lascia il suo corpo alla terra, la seconda quando abbandona la sua anima, fonte delle emozioni, sulla Luna, e infine la terza morte quando il suo Nus (o mens, il principio intellettivo) si confonde nel Sole».
Ma certo, è tutto un degradare e non un giungere a pienezza.
E, infatti, i nuovi diminutivi lo confermano: “pallidula”, perché manca ormai la luce, cioè svuotata del colore che dava la vita nella carne, “rigida”, da interpretare secondo Andreoni Fontecedro come “intirizzita”, “fredda”, ormai “senza calore”, “nudula”, cioè “denudata”, “spogliata”, certo nel senso che solo ora senza il corpo si vedono fino in fondo il male e il bene compiuti per il giudizio che si compie alla fine della vita, ma anche “nuda” nel senso di “povera”.
La chiusa conferma tale “diminuendo”: “né, come eri solita fare, darai più giocosità, darai più gioia”.
Se si legge, dunque, con attenzione l’“ultima” ode di Adriano, ci si accorge che vale fino ad un certo punto e in un senso preciso la famosa espressione che la Yourcenar cita dall’epistolario di Flaubert e dichiara essere chiave di lettura del suo Memorie di Adriano: «Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo»[3].
L’ode mostra come Adriano credesse all’eternità dell’anima e, quindi, anche alla presenza delle divinità, ma questo destino era per lui ormai impenetrabile e incapace di riscaldare il cuore. Esisteva sì una continuità di vita, ma lontana, povera rispetto alla vita terrena.
Viene in mente un’iscrizione greca rinvenuta a Roma e risalente al III-IV sec. d.C. scritta per il sepolcro di un fanciullo che i suoi genitori avevano già fatto “sacerdote” di tutti gli dèi: «In loro onore – dice di sé il defunto nell’epigrafe – sempre ho celebrato solennemente i misteri. Ma ora ho lasciato l’augusta e dolce luce del sole; perciò voi, iniziati o compagni d’ogni sorta di vita, dimenticate i sacri misteri, uno dopo l’altro; poiché nessuno può spezzare la trama del destino. E io, l’augusto Antonio, vissi (soltanto) sette anni e dodici giorni»[4].
O ancora l’altare cu fa riferimento Paolo negli Atti degli Apostoli dedicato ad un Dio ignoto, di cui esistono attestazioni in diversi sepolcri e are di età ellenistica, così come a Roma nel famoso altare di Caio Cestio[5].
Non si tratta, insomma, di un “uomo solo”, come aveva scritto Flaubert, bensì di chi si domanda del destino dell’anima dopo la morte, anima di cui l’autore crede l’immortalità, ma la crede “irrigidita”, in mano a divinità con poca vita.
Si comprende bene come, dinanzi a tale incertezza, già prima di Adriano e presso i suoi contemporanei, molti si rivolgessero ai culti misterici o al cristianesimo, per la languidezza del politeismo classico.
Se Adriano era un potente – e tale si riteneva e amava essere considerato, si pensi solo all’enorme mausoleo che pensò per sé e per i suoi discendenti, perché il suo nome permanesse nei secoli – d’altro canto egli avvertiva al contempo che la morte avrebbe toccato lui, come già Antinoo. Il culto che gli decretò indica anch’esso una fede nelle divinità, ma al contempo la fuggevolezza di ogni affetto terreno: non il nulla attendeva gli uomini, ma un “denudamento” misterioso e inconoscibile.
La morte era anche per Adriano il grande problema su cui meditare e su cui poetare.
Note al testo
[1] Come è noto l’ode venne posta da M. Yourcenar in epigrafe al suo Memorie di Adriano.
[2] Si veda E. Andreoni Fontecedro, Animula vagula blandula: Adriano debitore di Plutarco, in “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, New Series, Vol. 55, No. 1 (1997), pp. 59-69, che annunciava anche ulteriori approfondimenti filologici in Atti del Colloquium Didacticum Classicum XV Salmaticense e in “Aufidus” 26, 1995. Cfr. anche E. Andreoni Fontecedro, Animula. I lettori moderni degli antichi, Roma, Kepos, 2008. Il rimando della studiosa è a Plutarco, De facie in orbe lunae.
[3] Nei Taccuini di appunti che seguono le Memorie di Adriano (in Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1988, p. 281), la prima intuizione dell’opera viene legata alla lettura nel 1927 di questo testo di Flaubert.
[4] Il testo è in Sergio Ribichini, Il rito segreto. Antichi culti misterici (disponibile on-line al link La crisi della religione pagane e di quella misterica nel tardo impero (da Sergio Ribichini)).
[5] Cfr. su questo L’altare “al dio ignoto” nel Museo Palatino di Roma.