Qualcosa che viene prima. «L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove», di don Luigi Giussani
Riprendiamo sul nostro sito un testo di don Luigi Giussani tratto dall’intervento da lui tenuto all’Assemblea responsabili, nel gennaio 1993 e ripubblicato l’1/11/2008 sul sito CLonline (https://it.clonline.org/tracce/pagina-uno/qualcosa-che-viene-prima). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)
Vorrei brevemente accennare ora ai fattori determinanti e costitutivi di un “movimento”. Il primo fattore costitutivo di un movimento è l’imbattersi della persona in una diversità umana, in una realtà umana diversa.
Il movimento è il dilatarsi di un avvenimento, dell’avvenimento di Cristo. Ma come si dilata tale avvenimento? Qual è, cioè, il fenomeno iniziale, originale, per cui della gente rimane colpita e attratta e si coagula? È una catechesi - quello che noi chiamiamo “Scuola di comunità” -? No, ogni catechesi viene dopo, è strumento di sviluppo di qualcosa che viene prima.
La modalità con cui il movimento - l’avvenimento cristiano - diventa presente è l’imbattersi in una diversità umana, in una realtà umana diversa, che ci colpisce e ci attrae perché - sotterraneamente, confusamente, oppure chiaramente - corrisponde a un’attesa costitutiva del nostro essere, alle esigenze originali del cuore umano.
L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita, qualcosa che aumenta la sua possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità nel vivere e lo muove a seguire.
Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela, diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di una umanità diversa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove. La diversità umana in cui Cristo diventa presente sta propriamente nella maggior corrispondenza, nell’impensabile e impensata maggiore corrispondenza di questa umanità in cui ci imbattiamo alle esigenze del cuore - alle esigenze della ragione -.
Quest’imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare, che viene prima di tutto, di ogni catechesi, riflessione e sviluppo: è qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto, intercettato, che suscita uno stupore, desta una emozione, costituisce un richiamo, muove a seguire, in forza della sua corrispondenza all’attesa strutturale del cuore. «Poiché in realtà - come dice il cardinal Ratzinger - noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza» (Il Sabato, 30.1.93).
È nella corrispondenza il criterio del vero. L’imbattersi in una presenza di umanità diversa viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio: un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale - l’impatto con una diversità umana, lo stupore che ne nasce - è destinato a essere il fenomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo.
Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo. O si rinnova, oppure nulla procede, e subito si teorizza l’avvenimento accaduto, e si brancica alla ricerca di appoggi sostitutivi di Ciò che è veramente all’origine della diversità.
Il fattore originante è, permanentemente, l’impatto con una realtà umana diversa. Se dunque non riaccade e si rinnova quello che è avvenuto in principio, non si realizza vera continuità: se uno non vive ora l’impatto con una realtà umana nuova, non capisce ciò che gli è accaduto allora. Solo se l’avvenimento riaccade ora, si illumina e si approfondisce l’avvenimento iniziale e si stabilisce così una continuità, uno sviluppo.
Questo primo fattore accenna al fatto che «tutto è grazia». L’imbattersi in una realtà umana nuova è una grazia, è sempre una grazia - altrimenti diventa la scoperta tentata dei propri pensieri o l’affermarsi presuntuoso delle proprie capacità critiche -. La diversità che si nota, l’origine della diversità umana in cui ci si imbatte, è gratuità assoluta.
L’avvenimento iniziale prosegue solo se continuamente si parte dall’imbattersi in una realtà umana nuova: «Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi», diceva l’invito contenuto in uno dei documenti della cristianità primitiva, la Didaché. La continuità con quello che è avvenuto al principio si avvera perciò solo attraverso la grazia di un impatto sempre nuovo e stupito come se fosse la prima volta.
Altrimenti, in luogo di tale stupore, dominano i pensieri che la propria evoluzione culturale rende capaci di organizzare, le critiche che la propria sensibilità formula a quello che si è vissuto e che si vede vivere, l’alternativa che si pretenderebbe imporre, eccetera.
L’impatto con una diversità umana è fondamentale anche eticamente. La registrazione di questo impatto esige l’atteggiamento originale con cui il Creatore ci fa, vale a dire l’atteggiamento del bambino che si abbandona e segue: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Salmo 131). Per poter ammettere quel fenomeno di diversità umana occorre lo sguardo del bambino: una umiltà, una disponibilità, una semplicità di cuore, una povertà di spirito, che degli adulti, cui pure è già accaduto il primo impatto, possono aver smarrito.
E allora l’avvenimento originale, che ha iniziato (in loro) la memoria, diventa un fatto del passato, rimane solo come un “devoto ricordo”. Mentre, con questa semplicità o disponibilità, un uomo può anche aver sbagliato per anni, ma riprende meglio di chi sia stato impavido e non abbia avuto di che essere rimproverato.
In questa “povertà di spirito” e “semplicità di cuore” è il gioco dell’umana libertà. Come è detto in Tracce d’esperienza cristiana: «Anche nell’esperienza cristiana, anzi massimamente in essa, appare chiaro come in un’autentica esperienza sia impegnata l’autocoscienza e la capacità critica (la capacità di verifica!) dell’uomo, e come un’autentica esperienza sia ben lontana dall’identificarsi con una impressione avuta o dal ridursi a una ripercussione sentimentale. È in questa “verifica” che nell’esperienza cristiana il mistero dell’iniziativa divina valorizza esistenzialmente la “ragione” dell’uomo. Ed è in questa “verifica” che si dimostra l’umana “libertà”: perché la registrazione e il riconoscimento della corrispondenza esaltante tra il mistero presente e il proprio dinamismo d’uomo non possono avvenire se non nella misura in cui è presente e viva quella accettazione della propria fondamentale dipendenza, del proprio essenziale “essere fatti”, nella quale consiste la semplicità, la “purità di cuore”, la “povertà di spirito”. Tutto il dramma della libertà è in questa “povertà di spirito”: ed è dramma tanto profondo da accadere solitamente quasi senza che l’uomo se ne accorga» (il testo si trova oggi pubblicato in L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006; ndr).
Chi perciò, colpito da una diversità, partisse per il suo destino a cercare di “fare” lui, perderebbe tutto: deve seguire. Quella presenza umana diversa in cui si è imbattuto è qualcosa d’altro, cui obbedire. Attraverso un impatto sempre nuovo, nella sequela e nell’obbedienza si stabilisce una continuità con il primo incontro.
Vorrei fare un esempio in proposito. Formuliamo l’ipotesi che si riuniscano oggi alcuni che abbiano già vissuto l’esperienza di cui abbiamo parlato e avendo il ricordo impressionante di un avvenimento da cui sono stati colpiti - che ha fatto loro del bene, che ha addirittura qualificato la loro vita -, vogliono riprenderlo, colmando una “discontinuità” che si è venuta a creare nel corso degli anni.
Ciò per cui essi ancora si sentono amici è un’esperienza passata, un fatto accaduto, che nel presente è diventato però - come dicevamo - un “devoto ricordo”. Ora, come è possibile per loro riprendere una continuità con l’avvenimento iniziale che li ha investiti? Se per esempio dicessero: «Mettiamoci insieme a fare un gruppo di catechesi, oppure a sviluppare una nuova iniziativa politica, o, ancora, a sostenere una attività caritativa, a creare un’opera, eccetera», nessuna di queste risposte sarebbe adeguata a coprire la discontinuità.
Occorre “qualcosa che viene prima”, di cui tutto questo non è che strumento di sviluppo. Occorre che riaccada cioè quello che è accaduto loro in principio: non “come” è accaduto in principio, ma “quello che” è accaduto in principio: l’impatto con una diversità umana in cui lo stesso avvenimento che li ha mossi all’origine si rinnova.
Lì ci si coagula e, seguendo qualcuno, ci si raccorda con quello che è avvenuto all’inizio. E tutti i fattori principali dell’esperienza passata riemergono più maturi e più chiari. Nel rinnovarsi del primo impatto - e perciò della sorpresa della corrispondenza tra una presenza umana diversa e le esigenze strutturali del cuore - si sente il riverbero dello stesso avvenimento capitato dieci o vent’anni prima, fra i banchi di scuola o nel gruppo della propria università.
Senza la presenza di questa esperienza - l’incontro con una realtà umana diversa - qualsiasi “aggancio” con cui si tentasse di riprendere ciò che è stato interrotto, non ricostituirebbe una continuità. La continuità con “l’allora” si ristabilisce solo per il riaccadere dello stesso avvenimento, dello stesso impatto ora. Dieci o vent’ anni dopo, la stessa esperienza prosegue se uno parte dall’imbattersi in una realtà nuova e, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre», si abbandona, segue, obbedisce. Perché quella diversità non sorge dalla sua fantasia o dal suo pensiero, dalla sua abilità dialettica od ostinazione, da tutto ciò che, insomma, lo ha tenuto lontano per anni: è qualcosa d’altro, di irriducibilmente nuovo - un avvenimento - cui obbedire.
Possiamo a questo punto delineare il secondo fattore.
Come, nell’impatto che sempre si rinnova con una presenza di umanità diversa, la sorpresa, la speranza e il presentimento che ne nascono e muovono a seguire, possono essere educati, “tratti fuori”?
Lo strumento principale di questa educazione è ciò che noi chiamiamo “Scuola di comunità”; ed è principale perché sistematico e coerente, e perciò esplicativo e unificante. La “Scuola di comunità” è lo strumento di sviluppo - come coscienza, come affezione e come istigazione mobilitante nell’uso dei rapporti - di quel “qualcosa che viene prima”, dell’esperienza di incontro con una realtà umana diversa.
Nello svolgimento del lavoro implicato dalla “Scuola di comunità”, l’aspetto essenziale è allora il rendersi “ragione” delle parole che si usano. E “ragione” significa: esperienza della corrispondenza tra la realtà in cui ci si impatta e le esigenze strutturali del cuore.
Ma allora l’aspetto innanzitutto importante della “Scuola di comunità” è qualcuno che “insegni”: qualcuno - o alcuni - in cui l’impatto iniziale si rinnovi e si dilati, offrendosi come spunto per il ripetersi in altri della prima sorpresa. Occorre che chi guida la “Scuola di comunità” comunichi una esperienza nella quale si rinnovi lo stupore iniziale e non invece svolga un ruolo o un “compito”. Non può essere comunicazione di un’esperienza quella che parte da una coscienza di se stessi come ruolo, che muove da una visione di sé come padronanza e superiorità, con la pretesa di insegnare. Perché chi insegna è soltanto lo Spirito di Dio: è lo Spirito che dà il primo sussulto e che lo rinnova.
Chi, guidando la “Scuola di comunità”, comunica un’esperienza nella quale riaccade la sorpresa iniziale, svolge questa comunicazione dando ragione delle parole che vengono usate. Dar ragione delle parole che si usano vuol dire infatti comunicare l’esperienza della corrispondenza tra l’avvenimento di una Presenza e quello che il cuore originalmente attende, con la luce e il calore che quelle parole proiettano e offrono. Così la ragione data di ogni parola fa, come dice san Paolo, «passare di luce in luce», introduce alla scoperta sempre più chiara del vero, perché ogni parola usata chiarisce una risposta a un bisogno del cuore che è alla ricerca del proprio destino.
La povertà di spirito implicata dal primo fattore ritorna qui nuovamente. Senza povertà di spirito non si ascolta infatti ciò che viene comunicato: prevale l’obiezione dei pensieri soliti, quello cui si è più attaccati o che si pretende. Perciò dicevano al cieco nato: «Ma che cosa vuoi imparare da un ignorante che non ha studiato la legge!» - che non ha studiato psicologia, filosofia e teologia, diremmo oggi -. Chi invece segue e obbedisce si sviluppa, e quanto più segue tanto più desidera seguire.
Vi è un corollario a questo secondo fattore.
La posizione migliore per poter capire quello che ci viene detto è, paradossalmente, la passione di comunicarlo agli altri - la passione di comunicare ad altri quello che ci è dato di sperimentare -.
Lo documenta in modo semplice e bello una lettera scritta da un nostro amico del Canada. Vi si racconta che nella piccola comunità del movimento di Montreal lo scorso anno è entrato un giovane medico, di nome Mark, una persona intensa e drammatica, piena di interrogativi e di dubbi.
Dopo un anno travagliato di convivenza «era come se non avesse mai aderito» - scrive John, l’autore della lettera -. Alla fine dell’anno giunge a Mark l’invito dell’Università di Buffalo per un importante stage di due anni. «Io non vado», è stata la risposta immediata di Mark. «Perché non vai?», gli chiede John. «Se accettassi dovrei abbandonarvi. E io non posso abbandonarvi». Ma a questo punto John gli suggerisce: «Accetta! Va a Buffalo, e cerca di comunicare agli altri quello in cui ti sei imbattuto qui». Ha accettato, e dopo pochi mesi si è ritrovato attorno più gente di quella che aveva lasciato.
Ma non è tutto. Due mesi dopo la sua partenza una ragazza del gruppo di Montreal - un’infermiera - entra nell’ospedale in cui Mark aveva lavorato fino a due mesi prima. Dopo appena qualche giorno la capo-infermiera dell’ospedale le va incontro, punta il dito verso di lei e le dice: «Mark Basik!». E lei domanda stupita: «Che cosa intende dire? Certo, conosco Mark Basik, è uno dei miei più cari amici...». «Lo immaginavo», riprende la capo-infermiera. «Tu e Mark fate le cose nello stesso modo». Quella donna si è imbattuta in un fenomeno di umanità diversa, è avvenuto cioè per lei il primo impatto.
Ho inteso citare l’episodio soprattutto con riguardo alla prima parte, perché lì appare chiaro come, in una tensione missionaria, quello che era stato comunicato a quel giovane medico non ha più trovato in lui il pullulare di “ma”, di “se”, di “però”, in cui prima si sarebbe impigliato.
Veniamo ora al terzo fattore, ma solo con un accenno.
Il terzo fattore è, come dire, “tutto il resto”. Vale a dire: è impossibile che dall’esperienza descritta sin qui non nasca un soggetto nuovo, un protagonismo nuovo nel mondo, una compagnia impegnata nella realtà in modo diverso - cioè più umano, più corrispondente all’attesa del cuore -; è impossibile che non nascano tentativi di condivisione del bisogno emergente - gesti e iniziative di carità -, che non sorga un gruppo che voglia rinnovare veramente l’unità dei cattolici in politica con tutta la pazienza necessaria, che non si creino attività nuove per chi non ha lavoro, eccetera.
L’avvenimento che la “Scuola di comunità” illumina nel suo nesso profondo col cuore diventa inevitabilmente soggetto che agisce sul mondo. Da qui nasce l’opera - l’opus Dei - perché l’opera non è nient’altro che un io in rapporto con l’Ideale, che nel suo rapporto con l’Ideale cerca di mobilitare la realtà secondo quell’Ideale, in qualunque situazione si trovi: costruendo una famiglia o aderendo alla vocazione alla verginità, lavorando o visitando i vecchi all’ospizio del proprio quartiere.