L'identità europea: gli archetipi condivisi e il contributo di mille vite vissute, di E. Andreoni Fontecedro
Riprendiamo dal sito della rivista Logos (http://www.logos-rivista.it/index.php?option=com_content&view=article&id=624&Itemid=526) un articolo pubblicato il 21/12/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Europa.
Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2022)
Thomas Stearns Eliot nel secolo scorso individuò e riassunse “l’identità europea” nei termini congiunti di eredità della cultura greca e romana e di cristianesimo. Eliot era americano ma volle sentirsi europeo naturalizzandosi come cittadino della Gran Bretagna. Noto studioso di Dante e celebre poeta ed anche premio Nobel per la letteratura nel 1948, è forse conosciuto dal grande pubblico come l’autore del testo poetico da cui è stata tratta la trama di Cats, splendido spettacolo di Broadway con altrettante celebri canzoni.
Oggi parliamo di DNA quando vogliamo significare la costituzione intrinseca ed ereditaria di un soggetto. Questo messaggio molecolare di ogni cellula, di ogni fibra di un individuo lo distingue dagli altri. Quando, ampliando, attribuiamo il concetto ad un insieme di uomini, la cui progenie è comune, il suo codice genetico culturale che lo distingue è strutturalmente fissato dalla lingua, dalla storia, da quella cultura che le generazioni hanno svolto nello stesso alveo del tempo e dello spazio. Gli occidentali, diciamo più proficuamente, gli Europei hanno in comune la provenienza delle loro lingue dal ceppo comune dell’indoeuropeo (su questa indicazione d’Oriente torneremo), hanno rimescolato radicali e lemmi nelle reciproche guerre e dominazioni, hanno già demoni e dei, miti, leggende, riti comuni prima ancora del Cristianesimo. Poi è il Cristianesimo che unisce sconfitti ed invasori sul continente, e una volta dilagato e recepito in tutte le terre dà luogo nelle varie contrade a quelle celebri abbazie, quei celebri scriptoria dove appassionatamente si cercava la madre antica comune: la cultura, le parole degli autori latini e greci, la memoria che a tutti appartiene. Con il proprio passato ogni presente instaura uno scambio dialettico ed è questo il magma da cui esce il futuro.
Torniamo indietro finché ci è possibile su queste terre dove, prima ancora che arrivassero dalle steppe gli Indoeuropei (= il popolo ricostruito sulla base della comunanza delle lingue) a più ondate nel corso del V millennio a.C., già fioriva il culto della Grande Dea Madre, la dea cui il maschio può essere solo paredro, poiché la fertilità è femminile, e la dea è come la terra che genera, e la dea - come svelano i vari simboli archeologici che ci restano - dà la vita, determina la morte, fa risorgere, rinascere, perché la vita è un continuum o, come suggerisce Platone, un incessante scambio di fiaccole nella staffetta che corre di padre in figlio. La dea che si rispecchia nelle fasi della luna, quella luna i cui raggi filtrano notturni la terra e la fanno germogliare, la luna che è anche nera, come saranno nere le madonne, cui sacre sono le sorgenti, le acque che sono miracolo, la madre che allatta il figlio (così la cosiddetta Madonna di Gradac, in valle Morava, 5000 a.C.). Gli Indoeuropei apparsi sul cavallo, animale sconosciuto sulle rive del Mediterraneo fecero formulare agli uomini del mare il mito dei centauri (il cavallo tutt’uno con l’uomo), mentre rimanevano essi stessi stupiti di fronte a quei fiori che lì le rive producevano, sicché ne rimase intatto, non conquistato dalla loro lingua, il nome mediterraneo che entrò in tutte le lingue indoeuropee derivate: la rosa (rose, rhodon), la viola (ìon, violet, violette, Veilchen), il giglio (leirion, lily, lis, Lilie). Su queste gocce ancestrali che ci scorrono dentro tante altre vennero in soccorso: una pioggia incessante di singole vite, emozioni, speranze, parole.
Come è lontano e vicino lo schema della doppia elica che ereditiamo! E con gli Indoeuropei - ad Oriente segno della comune madre rimase l’aspetto benefico di Durga, e del lato oscuro, il segno negativo della scomparsa che è della luna, come della vita dei singoli, fu ed è Kālī – venne il pantheon degli dei maschi. Il padrone del Cielo luminoso, Iu (p) – piter (Iu come Zeus ( Dieus) o dius, dies ,il giorno, il dì), il dio del mare Poseidon, come pòsis, il Signore padrone, lo sposo della Dea Terra (il discusso radicale del corrispondente Nettuno forse indica proprio l’elemento umido, l’acqua), Ades, ovvero l‘Invisibile dio degli Inferi. Il principio femminile si distinse nell’aspetto della sposa Era (l’etimo è incerto mentre il nome latino Iuno richiama il senso di uno spirito innato e custode esterno che è della donna, come il Genius è dell’uomo ), della vergine Artemide (anche qui l’etimo è incerto mentre il nome latino della dea corrispondente Diana appartiene al radicale che dice la luminosità, ed è infatti nome altro della Luna) della bellezza sensuale che suscita amore: Afrodite (forse da afròs schiuma del mare che allude anche al mito della nascita della dea, mentre Venere conserva nel radicale il senso del ‘desiderio’ che sopravvive nelle parole europee Wishes e Wünschen).
Il politeismo sbriciolò il principio del divino in mille volti, diede vita e nome alle acque, alle piante, la natura brulicò di anime, la notte di voci, i sogni fantasticarono di un’altra vita, dacché nei sogni i morti tornano a vivere e gli dei appaiono. Queste affermazioni vanno discusse, ampliate, vanno trascritte nel passaggio dal mito al logos della filosofia (che significa amore della conoscenza) perché scendono nei labirinti dell’elica. Gli dei: voglio riemergere per non dimenticarmi di dire che gli Europei ripetono ancora il nome degli dei antichi (già attribuiti ai pianeti) quando quotidianamente dicono i giorni della settimana: non solo le popolazioni neolatine che ricordano Marte, Mercurio, Giove, Venere, ma anche gli Anglosassoni, che configurano gli stessi caratteri di ciascuna divinità greco-latina dentro altri radicali indoeuropei: caratteri che riassumiamo, ricordando solo Thorn il dio del tuono come lo è Giove: Thursday, Donnerstag = giovedì o anche Montag (Mond-tag), Monday (Moon–day), che noi diciamo ‘lune-dì, dove il radicale ‘me’ - vivo nel greco mén , luna, e nel latino mensis rammenta che la Luna ‘misurava’ (il verbo dalla stessa radice è me- tior) stabiliva il ‘mese’ con il suo ciclo. Naturalmente il sincretismo appare anche qui, poiché il nome di domenica (dimanche, domingo) significa dominica dies, cioè il giorno preciso dedicato al Signore .
E così è per il nome d alcuni mesi che portano nomi di dei ma di cui voglio solo sottolineare il nome di Agosto (August, Aoȗt) che continua il ricordo di Cesare Ottaviano Augusto, o anche di Luglio (July, Juli, Juillet) quello di Giulio Cesare. Siamo entrati troppo velocemente dentro la memoria Romana dell’Europa. Prima l’Ellade scrisse le pagine immortali, linfa di ogni cultura, da Omero a Saffo, dai tragici ai sommi filosofi: Platone, Aristotele, Epicuro che dovevano invadere i secoli con Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Seneca, Agostino e determinarne il pensiero e l’immaginario con cui sempre, anche se non ne siamo consapevoli, ci troviamo a metterci in gioco. Quando Goethe – uno degli infiniti esempi- aggiunse , ricavandolo da saghe del Nord, il suo Faust ad Achille, Ulisse, Enea (eroi simbolo di un Continente), inglobò, lungo la tensione del suo rapporto con i miti classici, il mito dell’amore coniugale di Filemone e Bauci e degli dei che scendono tra gli uomini, e lo strapazzò per significare meglio lo stravolgimento dei valori nel suo tempo. Il campo vastissimo degli studi dell’eredità classica è affascinante perché ogni volta si scopre il dialogo a distanza, ricezione e rifiuto, il tempo ‘aggiunto’ che si integra con tutti i rivoli che provengono da tanti contatti , dal contributo di mille vite vissute. Lo scrigno della storia fa comprendere e ci regala la presenza insieme di tutti i tempi, di tutte le genti lungo i secoli, in cui ci immerge, con emozione di eterno.
Proprio Eliot ci dà un più limpido esempio di questa intelligenza o comprensione delle cose attraverso il filtro della cultura ricca di archetipi comuni a tutti gli Europei quando scrive i versi della sua Animula. Con questo titolo il poeta allude alla celebre odicina dell’imperatore Adriano che dà un addio alla sua ‘anima’, alla sua vita con il celebre verso tutto giocato sui diminutivi: Animula vagula blandula (piccola anima che vai vagando languida). Nel ritmo leggero del dimetro giambico l’imperatore sottende la filosofia di Plutarco sulla compagine tripartita dell’uomo che subisce una prima morte quando lascia il suo corpo alla terra, la seconda quando abbandona la sua anima, fonte delle emozioni, sulla Luna, e infine la terza morte quando il suo Nus (o mens, il principio intellettivo) si confonde nel Sole. Questo spessore culturale fa da sottofondo alla ripresa insieme dell’anima semplicetta di Dante (esce di mano a Lui che la vagheggia/prima che sia…. issues from the hand of God, the simple soul) che permette l’ingresso nella fede cristiana. Dopo aver avvertito l’anima nel pulviscolo del raggio che entra in una camera scura (così aveva detto anche Pitagora, contestato poi da Lucrezio che i grani di pulviscolo riduceva solo a atomi di materia), il canto di Eliot si chiude nella speranza, nella fede cristiana: pray for us now and at the hour of our birth. Il giorno della morte, per chi ha fede, è il giorno della vera nascita.
Ma quanto partecipata sia la nostra identità di Europei non lo rivela solo l’intertestualità letteraria, la scrittura musicale che risuona senza confini, i periodi insieme creati e condivisi dalle arti, ma essa vive in ogni contrada. Quando ad esempio ripetiamo ai nostri figli la storia di ‘fate’ (fata = fée, fairy, hada, feja): volti del ‘fato’ o destino, che partecipano e distraggono la vita, rammentiamo insieme le Moire greche, le Parche latine, le Norne del Nord, o quando cantileniamo gli stessi proverbi (il comune sentire di un popolo, la sua medesima riflessione ): “una rondine non fa primavera“, lo annotava anche Aristotele, e ancora tra i mille: “l’amore è cieco”, l’amour a un bandeau sur les yeux, Aficiòn ciega razòn, love is blind (anche Shakespeare lo ripete), Liebe macht blind. O festeggiamo le cadenze dei riti, ormai sincreticamente fusi alla religione del dio che risorge: dall’ortus Solis (la nascita del Sole) al nostro Natale non più reso solo come azione drammatica dalla costruzione anche dei brevi presepi in casa (ricordo con nostalgia quando aiutavo mio nonno nella disposizione dei pastori!), ma affiancata dall’abete nordico (ancestrale culto degli alberi) punteggiato di fiammelle, alle feste di Primavera, la Natura che risorge, fusa con la Pasqua ebraica o la resurrezione di Cristo. L’Europa ha un solo popolo, distinto in regioni, in ‘dialetti’ ma con gli stessi referenti culturali e religiosi, una comunità legata da passaggi anche sotterranei ma di cui siamo in grado di vederne sempre le tracce.
Alla nostra identità contribuirono anche gli arabi dell’Andalus e della Settimania, e lo ricordo non perché nel nostro continente sono rimaste splendide costruzioni monumentali, segno di conquista armata che impone i suoi canoni, ma perché, segno pacifico, influenzarono la sensibilità dell’amore come desiderio che la poetica trobadorica sviluppò, che la Scuola Siciliana trasmise. Il contatto con il diverso può essere fruttuoso, quando avviene in pace.
Ma oggi non si tratta di avere a che fare con Averroè o Ibn Rushd che nato a Cordova, teologo, giurista, matematico, medico, commenta Aristotele conosciuto attraverso le traduzioni in arabo di cristiani siriaci (ma non dimentichiamo che l’estremismo islamico lo esiliò e perseguitò, come sottolineato dal film dell’egiziano Ysuf Shahin del 1997 ‘ll destino’) né con Avicenna o Ibn Sīnā il grande medico persiano ma anche filosofo, matematico, studioso di Aristotele e di Platone che già Al Kindi e Al Farabi avevano per la loro parte diffuso in arabo (consiglio per conoscere Avicenna l’ affascinante biografia che ha il sapore di sabbie del deserto, di amori, di ricerche e scoperte della medicina, di magia dell’anima scritta nel 2002 da quell’ incantevole scrittore franco-egiziano che è Gilbert Sinoué: Avicenne, ou la route d’Ispahan. È anche tradotto in italiano). I grandi che nutriti anche di cultura greca influenzarono il mondo occidentale quando li tradusse in latino. Ma abbiamo a che fare con la Notte della cultura, dell’incomprensione, del fanatismo. Mi sto riferendo alle bande del fondamentalismo, certo. Con cui non è possibile discorso perché ce lo impediscono, perché comprendono selvaggiamente solo il rapporto di forza.
Dobbiamo invece guardare con animo diverso dentro questa invasione dal mare. Sappiamo – è vero- che gli Islamici arrivano con un bagaglio teologico–religioso molto diverso dal nostro, che nella teocrazia sommerge ogni altro spazio, che a questo aggrappano le necessità teoriche identitarie, che sentono il dovere di trasmettere per un comando divino. L’appartenenza per loro ha significato integrale. Sono semmai gli Italiani, gli Europei che abdicano (=rinunciano volontariamente) da molto tempo, da decine di anni, ai loro ricordi, agli archetipi della loro cultura, alla folla dei Grandi che ci hanno plasmato su, su nei secoli fino o lambire questo oggi. Non dico affatto che il nostro ‘credo’ nei nostri valori, laici, religiosi, nella nostra cultura debba essere interpretato come una crociata contro un altro vessillo: sarebbe idiota. Si tratta di riaffermare, di trattenerci la millenaria memoria che ci ha formato, i nostri referenti, i nostri riti che ci confortano nel ritmo dei ritorni, che alimentano lo spirito sulla materia.
L’incontro con l’Altro, invece di essere fruttuoso, può rischiare la sottomissione e l’annullamento se si è abbandonata la consapevolezza della propria identità. Gli Islamici già ci superano, perché per loro stessi lo sanno. Si tratta ora da parte nostra di leggere dentro i nostri millenni per ravvisare ancor meglio la possibilità dell’incontro. Noi siamo sempre disposti ad ascoltare - e lo siamo sempre stati, perché sono vivi per noi gli echi positivi culturali che abbiamo recepito - ma è nostro diritto, sul nostro suolo, pretendere che gli altri si aprano all’ascolto, senza timore di tradimenti.