Riprendiamo sul nostro sito l’introduzione scritta da Andrea Lonardo per la mostra sul film Marcellino pane e vino presentata al meeting di Rimini 2017 ed edita nel catalogo pubblicato da Itaca, Castel Bolognese, 2017. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
L’educazione sta aprendo gli occhi sugli errori commessi in campo pedagogico negli ultimi decenni. Infatti, l’attenzione è stata assorbita interamente dai metodi, quasi che questi potessero essere applicati a contenuti secondari e a esperienze insignificanti.
I docenti, i genitori e i catechisti si sono sentiti ripetere per anni che ciò che conta è “far fare” qualcosa ai bambini, che ciò che conta è impegnare i ragazzi in “attività” quasi che queste fossero la chiave per far innamorare le nuove generazioni della cultura, della fede e della vita.
La parola “laboratorio” ha sostituito la parola “esperienza”: ma le due realtà non sono equivalenti perché un laboratorio è costruito ad arte ed è occasionale, mentre l’esperienza si costruisce con l’immissione, inizialmente quasi inconsapevole, in ciò che è abituale e che esiste al di là di momenti prefissati - una cosa, ad esempio, è fare un laboratorio sulla figura del “padre”, una cosa ben diversa è crescere con un “padre”, con una figura maschile significativa in casa, con un prete in parrocchia, con una persona che, di fatto e senza che nessuno lo abbia programmato, sia un punto di riferimento nella vita.
L’esasperazione dell’attenzione metodologica si è unita con un’altra tendenza, quella ad infantilizzare l’educazione. L’“asticella” è stata abbassata eliminando ogni progetto di lungo periodo fondato sulle grandi questioni appassionanti, perché queste sono state ritenute troppo “sensibili” e, quindi, da evitare per non compromettersi e non dover entrare in ambiti “caldi”. Temi più neutrali sono sembrati meno pericolosi, ma appunto al prezzo di spegnere, invece di incentivarla, la riflessione su ciò che conta davvero nella vita. Anche i temi della felicità e del dolore sono stati messi “in sordina” per non “spaventare” i ragazzi.
Nelle scuole e nella catechesi si respira, invece, da qualche anno un’aria nuova e fresca: si vede in tanti una nuova passione, una consapevolezza che dove esiste un “padre” – sia esso un docente, un prete o un adulto significativo – un’intera comunità si raduna per servire e le giovani generazioni ritrovano il coraggio di domandare. Perché è dinanzi ad un “padre” che le domande emergono e non vengono addormentate.
Le reazioni dei ragazzi dinanzi alla visione di Marcellino pane e vino incoraggiano questo mutamento di rotta. La prima cosa che colpisce nelle loro considerazioni, è come essi non solo non si impressionino dinanzi al dramma del protagonista, ma anzi che quella storia li aiuti a verbalizzare le esperienze negative vissute, le paure, per trovare nuova speranza.
Dinanzi a Marcellino che non ha la mamma, i bambini trovano il coraggio di dire il dolore della mancanza materna quando i genitori sono separati, o la sofferenza per l’assenza del padre che ha lasciato sola la madre.
Ma - si noti bene – il film non sembra accrescere nei bambini la tristezza o il ripiegamento sulla propria storia, bensì li rasserena. L’esperienza reale conferma in pieno quando ebbe a scrivere con grande sapienza G.K. Chesterton che difendeva le storie nei quali erano presenti i draghi: «I bambini conoscono già l’esistenza dei draghi prima che gli si raccontino le favole. Le favole servono loro per imparare che esiste San Giorgio che sconfigge il drago». Già qui appare la grandezza delle domande dei bambini. I bambini non sono degli stupidi e non debbono essere trattati da stupidi. Essi conoscono il male e chiedono a noi adulti se siamo convinti che esso possa essere sconfitto e se, quindi, si possa vivere sereni.
Interessantissimo è che essi apprezzino un film in bianco e nero, girato con criteri assolutamente diversi da quelli della cinematografia moderna, abituata alla rapidità del montaggio e agli effetti speciali. I bambini si stupiscono invece di una storia semplicissima e commovente.
Questo è l’effetto che fanno i classici. All’inizio sembrano lontani da noi, perché utilizzano un linguaggio a cui non siamo abituati, ma poi si rivelano molto più vicini di tanti prodotti alla moda che non toccano il cuore.
Ecco emergere nuovamente le domande grandi dei bambini: essi amano un film che parla loro di cose grandi e superano tranquillamente la difficoltà metodologica di un prodotto antico. Avviene lo stesso quando un nonno racconta la storia della famiglia e sfoglia l’album di fotografie ingiallite con i nipoti. Quell’incontro reale con la vita farà stare ore e ore i bambini ad interrogare e ad ascoltare.
Le reazioni dei bambini mostrano poi come essi abbiano domande talmente grandi che non è sbagliato definirle “metafisiche”. Essi vogliono sentir parlare della nascita e della morte, del riso e della tristezza, dell’amore e della nostalgia per chi non c’è più, di Dio e di una speranza che non deluda i cuori.
Va assolutamente rovesciata la posizione di chi pretende che si debba vietare di parlare queste cose ai bambini perché sarebbe un imporre loro qualcosa di più tipicamente adulto. È assolutamente vero l’opposto: astenersi dal parlare di queste grandi cose vorrebbe dire tradire le loro attese. Le loro domande si spengono nella tristezza quando capiscono che l’adulto è imbarazzato a parare di Dio e della felicità e preferisce il silenzio.
La grande catecheta Sofia Cavalletti ha scritto, parlando dei bambini: «[Per loro] il limitato non è attraente, è l'immenso, il mistero che attrae».
I bambini non solo hanno un immenso desiderio di conoscenze sui grandi temi della vita, ma ancor più in loro il desiderio non è meramente teorico, bensì ha a che fare con una sete inesauribile di felicità. Anche le loro reazioni alla storia di Marcellino lo dimostrano. È come se essi scrutassero prima i volti dei frati, poi il volto del protagonista, poi quello del crocifisso, per scorgere se è possibile essere felici.
I bambini sanno – anche quando fingono di dimenticarlo, per ottenere qualcosa di concreto dai loro genitori – che non sono le cose a fare la felicità. Aiutarli a comprendere che qualsiasi cosa li annoia non perché sono cattivi, bensì perché hanno un cuore fatto per l’infinito, li aiuta tantissimo a crescere. Ogni loro giornata è segnata dallo scoprire sempre di nuovo che le cose per cui lottano, non sono in grado di appagarli.
Nelle reazioni al film, si vedono chiaramente i bambini riflettere su come sia più bello dare che ricevere, su come l’amore sia più importante delle cose, su come Dio sia l’unico in grado di rendere l’amore eterno.
Non possiamo tacere loro di questi temi e non vivere dinanzi a loro l’amore e la fede, perché essi vogliono vederli in noi.
Alessandro D’Avenia raccontò una volta che quando gli proposero di girare un film sul suo primo libro Bianca come il latte, rossa come il sangue, gli venne detto che la sua storia affrontava tre temi scabrosi e sarebbe perciò stata interessante per il pubblico: la morte, la felicità, Dio. Ecco i temi “scabrosi” di cui i ragazzi vogliono sentir parlare.
I bambini vogliono vedere nei genitori, nei docenti, nelle comunità cristiane, nella società cosa siano la morte, la felicità, Dio.
Anche i tre volumi de Le domande grandi dei bambini nascono in questa prospettiva. Per un anno con padre Maurizio abbiamo raccolto le domande vere dei bambini, quelle che essi pongono ai genitori, quelle che pongono in classe ai maestri e alle maestre, quelle che pongono ai catechisti in parrocchia. Spesso le domande emergevano non nei momenti di incontro, bensì nella settimana, dinanzi ai fatti, dinanzi alla vita. Leggendole, ci siamo resi conto di come la catechesi fosse lontana dalle loro vere domande. Di come fornisse loro tante piccole nozioncine storiche sul villaggio di Gesù, sulla sua casa, su come si preparasse il cibo a quei tempi e così via, mentre nei loro cuori l’attesa era più grande. Ci siamo resi conto di come tante attività riescano momentaneamente a distrarli e farli stare tranquilli, ma non facciano loro scoprire la grandezza della vita e la novità della fede.
Dinanzi alla loro richiesta bisognava provare a fare qualcosa di diverso: non semplicemente “dire” loro la fede, ma dire perché essa è nuova, grande, diversa, bella più di qualsiasi altra cosa esistente sulla terra. Servivano non solo delle affermazioni, bensì delle comparazioni fra realtà diverse. Servivano ancor più dei superlativi assoluti per capire se ci si trovava dinanzi a qualcosa di ineguagliabile o a qualcosa di superfluo.
La reazione dei bambini dinanzi a Marcellino pane e vino dice che essi sono diversi da come li immagina la pedagogia. Ma questa loro reazione indica anche una strada. Essi sono nutriti da cose grandi, essi cercano chi li aiuti a immaginare la vita. Apprezzano chi ha il coraggio di mostrare loro cosa sia una vita felice nella quale donarsi totalmente. Cercano qualcuno che non faccia loro sconti, ma sia invece disposto a promettere che camminerò con loro perché non abbiano paura dei desideri grandi che portano nel cuore.
Riprendiamo da Avvenire del 25/11/2017 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
N.B. de Gli scritti. È evidente, anche se, a differenza di Camille Eid, gli articolisti dei maggiori quotidiani non lo sottolineano, che esiste anche un motivo politico dell’attentato alla moschea di Bir el-Abed. Ma l’insistenza sul motivo religioso sostenuta dai giornalisti e dallo stesso Eid è comunque corretta. L’islamismo non ha ragioni primariamente politiche ed economiche, bensì religiose e, per questo, non si rivolge innanzitutto contro i cristiani arabi e nemmeno contro il cristianesimo occidentale, bensì contro visioni religiose islamiche che non condivide, come il sufismo e lo sciismo, come, ancor più, contro la laicità e contro il laicismo. L’islamismo ha radici religiose e si richiama ad un passato che non è mai stato chiarito culturalmente dove la volenza contro gli sciiti, contro i sufi e contro i gruppi religiosi non obbedienti alla sunna è stata spesso ritenuta legittima, senza che vi sia mai stato un riconoscimento di colpa di tale violenza perpetrata numerosissime volte nella storia. Una visione di società nella quale sia possibile la libertà, sia possibile la libera discussione dei testi sacri, sia ammessa la libertà della donna, sia possibile convertirsi ad una forma diversa di islam o lasciare l’Islam per una religione diversa, è impossibile per gli islamisti - e non è chiaro cosa pensino di queste questioni gli imam. Proprio per questo l’islam non islamista - e chi intende aiutarlo - deve sostenere chiunque difenda nei paesi islamici in maniera radicale e decisa la cultura, la discussione scientifica dei testi, la libertà della donna e delle scelte religiose, perché senza tale prospettiva nessun cambiamento in chiave di pace è possibile.
Dopo le forze dell’ordine e i membri della comunità copta, ecco che con la strage nella moschea a Bir el-Abed, che ha fatto 305 morti tra cui 27 bambini, negli assalti violenti che imperversano nel nord del Sinai si affaccia un nuovo bersaglio per i terroristi: i sufi, ossia i membri delle confraternite dell’islam mistico che rappresentano una buona parte della popolazione musulmana d’Egitto, pur divisi in varie “tariqa” (ordini).
Cos'è il sufismo
Il sufismo è considerato la via mistica tipica dell’islam. I sufi appartengono a diversi “tariqa” o ordini, comunità guidate da un maestro, i quali si riuniscono per sessioni spirituali in luoghi chiamati “zawiya” o “tekke”. La diffusione del sufismo (in particolare in Turchia, Egitto, Africa nera) non è sempre vista di buon occhio dalle correnti islamiche "ortodosse" che considerano le pratiche sufi (come le danze dei dervisci rotanti) eterodosse. Tra i più noti rappresentanti del sufismo, Jalal al-Din Rumi e il filosofo Ibn Arabi.
Una terra senza controllo
Al-Arish, capoluogo del nord del Sinai, è diventata da circa tre anni il simbolo di un territorio in cui le autorità locali non riescono a ristabilire a pieno il controllo. Non tanto per il tradizionale dominio di clan beduini difficilmente assoggettabili a un potere statale (nello specifico Sawarkah e Riashat), ma per una sempre più radicata presenza della “Wilaya Sinai”, la filiale locale del Daesh che aspira – ora che il Califfato è in fin di vita in Siria e Iraq – a raccoglierne il testimone.
L’autostrada tra al-Arish e Bir el-Abed è percorsa quotidianamente da pick-up e carovane di jihadisti con una libertà di movimento che è un indice della gravità della situazione; nell’entroterra poi, il quadro è ancora più grave dove una fascia di terreno che si estende dalla costa fino a circa 50 chilometri a sud di al-Arish è quasi del tutto fuori dal controllo governativo. Pesante il bilancio degli attentati: nel gennaio 2015, i jihadisti hanno assalito un quartier generale della polizia e un edificio adibito a residenza per le forze dell’ordine tra al-Arish e Rafah uccidendo decine di militari.
Più di recente ci furono 26 militari uccisi nel luglio scorso e altri 20 a settembre quando, non lontano da al-Arish, un convoglio della polizia militare è saltato sugli ordigni esplosivi piazzati ai bordi della strada. L’escalation ha raggiunto livelli inauditi nel febbraio scorso, quando i jihadisti hanno intensificato i loro attentati ai danni della piccola comunità copta (furono 7 le vittime in soli 15 giorni), costringendo decine di famiglie cristiane a lasciare il capoluogo.
Poche settimane dopo, in un’intervista pubblicata dal settimanale del Daesh, «al-Nabaa», un leader del gruppo avvertiva i musulmani a non avvicinarsi ai raduni dei cristiani, oltre che alle sedi governative, militari o della polizia, indicandoli come «obiettivi legittimi» da colpire. All’elenco si aggiungono quindi ora anche le moschee frequentate dai sufi. Il sufismo viene, infatti, associato al regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi essendo l’attuale imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, proveniente da una famiglia di sufi.
Riprendiamo dal sito Gli stati generali (http://www.glistatigenerali.com/nord-africa/se-sei-nero-in-algeria/) la traduzione di un articolo di Kamel Daoud pubblicato il 20/5/2016, tratto dalla versione francese del New York Times. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Immigrazione e intercultura.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
Da qualche anno si possono vedere agli incroci delle strade delle grandi città del nord dell’Algeria delle famiglie di migranti originarie del sud del Sahara. Vengono a mendicare, acconciati con abbigliamenti variopinti: veli smisurati per le donne, anche le ragazzine; djellaba di tela per gli uomini; rosari mostrati in maniera ostentata. Hanno l’«Allah» troppo facile e incespicano facilmente sui versetti del Corano.
Numerosi migranti neri, anche quelli che non sono musulmani, fanno ricorso ai simboli dell’Islam per fare appello alla carità degli algerini. Perché? Perché la miseria permette di decodificare la cultura meglio della riflessione, e i migranti, senza tetto né pane, hanno presto compreso che qui, spesso, non esiste empatia tra gli uomini, ma solo tra correligionari.
Altro esempio. Nell’ottobre scorso, una migrante camerunense è stata vittima di uno stupro collettivo sotto la minaccia di un cane. La donna è andata a sporgere denuncia alla polizia, ma è stata respinta con due pretesti ritenuti giuridicamente più probanti: non aveva documenti e non era musulmana.
L’affaire Marie-Simone è diventato celebre e la vittima, appoggiata dagli algerini, ha finito per ottenere giustizia. Ma è un’eccezione.
Le cose non stanno messe così. La visione del nero in Algeria, segnata da una discreta distanza nel corso degli anni, s’è trasformata in un rigetto violento negli ultimi tempi. Non esistono statistiche ufficiali affidabili, ma spesso i migranti vengono dal Mali, dal Niger e dalla Libia. Ed è chiaro che il numero dei subsahariani qui è aumentato da qualche anno, in parte a causa dell’instabilità dei paesi vicini, soprattutto la Libia, vecchia piattaforma girevole dell’immigrazione dall’Africa all’Europa.
E se in Europa un migrante può tentare di giocare sul registro dell’umanitario e della colpevolizzazione, in Algeria, da qualche anno, l’Altro non è visibile che attraverso il prisma della confessione della religione. In occidente, il razzismo vede la pelle; in terre d’Arabia vede la religione.
Tuttavia questi due razzismi sono connessi. L’occidentale nega l’arabo ( o lo incrimina), e a sua volta l’arabo nega il nero (o lo incrimina). Connessioni casuali? La negazione con effetto domino? Forse. Per adesso, la rassomiglianza, una sorta di mimetismo, colpisce.
Ma poco importa questa complessità: la si ignora facilmente. Ci sono, certamente, degli Algerini musulmani che non sono né settari né razzisti, ma contano poco nell’élite e nel discorso pubblico. Gli integralisti l’hanno vinta sul punto di vista più moderato.
A causa di ciò, in Algeria, come in altri paesi arabi, i discorsi mediatici e intellettuali sono schizoidi. Da una parte, si possono leggere degli articoli violenti contro il razzismo in Europa, che descrivono la «Giungla» di Calais come una specie di campo di concentramento e presentati con tagli menzogneri: «Niente lavoro in Francia se siete arabi o africani» titolava un giornale islamista nel febbraio scorso. D’altra parte, si trovano delle analisi degne del Ku Klux Klan sulla minaccia posta dai neri, con il loro incivismo, e i crimini e malattie che si dice vengono a portarci.
Questo doppio discorso è curioso, ma soprattutto è comodo e devastante. Nello scorso marzo a Ouargla, uno dei più grossi borghi del Sahara algerino, degli scontri hanno avuto luogo tra i locali e i subsahariani in seguito all’assassinio di un algerino, ma soprattutto per mano di un nigeriano. Il fatto di cronaca s’è presto trasformato in una vendetta popolare – con una caccia al migrante nelle strade che ha determinato decine di feriti e un attacco al campo dei rifugiati.
Le autorità hanno disposto il trasferimento massivo dei migranti verso un centro di accoglienza di una città più a sud, preludio consueto a una espulsione dal paese. Fatti simili sono accaduti a Béchar, a ovest.
Questa ondata di xenofobia, di una violenza senza precedenti, ha devastato il Sahara algerino senza sollevare obiezioni diffuse: la denuncia del razzismo è generalmente riservata ai crimini dell’Occidente. Abusi presso gli altri, necessità a casa nostra.
Ma com’è successo che si fa noi ciò che si denuncia altrove, e soprattutto senza sentirsi colpevoli? Com’è che la vittima del razzismo si costruisce a sua volta una coscienza razzista?
In Algeria, le élite laiche e di sinistra si sono rese miopi coltivando il trauma coloniale come sola visione del mondo. I neri, percepiti come decolonizzati o decolonizzatori, sono sia ostracizzati che idealizzati. Non sono una cosa a sé, ma una rappresentazione delle nostre preoccupazioni.
Nei loro discorsi contro l’Occidente, i benpensanti algerini immaginano di proteggere i neri denunciando il razzismo circostante. Ma neanche a parlarne di andare a visitare i tristi campi dei rifugiati, e ancor meno di vivere con i neri, di dare le loro figlie in matrimonio o di stringere loro la mano nella stagione calda. Gli Algerini laici designano i subsahariani con la parola «africani», come se il Maghreb non facesse parte del loro stesso continente.
Gli integralisti religiosi non sono meno razzisti. In occasione di un incontro di calcio tra l’Algeria e il Mali nel novembre 2014, il giornale islamista “Echourouk” pubblicò una foto dei tifosi neri sotto il titolo «Né Buongiorno né Benvenuto. L’AIDS dietro di voi, l’Ebola davanti a voi». Ma i pregiudizi dei religiosi li spingono a un’altra equazione, semplice e mostruosa: l’Altro o è musulmano o non è.
I conservatori religiosi, come le élite laiche, vedono i neri come le vittime delle ingiustizie dei bianchi colonizzatori, ma ai loro occhi la riparazione non è possibile se non con l’aiuto di Allah. La loro propaganda ricorda spesso quell’esempio della mitologia dei primi anni dell’islam: Bilal, la schiava abissina nera liberata in seguito alla sua conversione religiosa.
Solo che per una Bilal vi sono milioni di altri neri, compresi i convertiti, che sono rimasti reclusi in cattività per generazioni. Lo schiavismo arabo è d’altra parte oggi un argomento tabù o schermato dai giudizi indirizzati contro lo schiavismo dell’occidente.
Resta che per il nero aderire all’Islam non è garanzia di sicurezza. Basta il crimine di uno solo che centinaia di altri esperiscano l’espulsione. Le spedizioni punitive a Béchar sono scattare un venerdì, giorno della grande preghiera settimanale, dopo le prediche che incitavano alla purificazione dai costumi dei migranti percepiti come leggeri. Per i conservatori religiosi, la cultura svia i subsahariani dalla stretta ortodossia – e dunque anche i neri musulmani non sono veramente musulmani.
2/ La tratta arabo-islamica e l’odio per gli africani neri, di Antonella Sinopoli
Il termine inglese rende bene, uncomfortable truth. E di verità sgradevoli, scomode ce ne sono a bizzeffe. Soprattutto le verità storiche. Una di queste riguarda la schiavitù, la tratta degli schiavi.
C’è però una sottile e immensa questione, perché della tratta europea non si fa fatica a parlare mentre molto meno accade per quella perpetrata dal mondo arabo/islamico? Sembra – almeno nella memoria di molti – che addirittura non sia mai esistita. Molti ne ignorano l’entità, le motivazioni, i luoghi. E spesso, appunto, che sia mai avvenuta.
Qualcuno dice che c’entri la religione, appunto, passi del libro sacro dell’Islam – che toccherebbe così disconoscere – ma anche la scarsità di gruppi di opinione e di lobby per la sua condanna e, soprattutto, il fatto che ancora venga perpetrata…
Tempo fa John Azumah – religioso e studioso di origini ghanesi, da anni residente e docente negli States – ha pubblicato un libro dal titolo che non lascia spazio a dubbi, The legacy of Arab-Islam in Africa, colmando di fatto un vuoto esistente in materia.
Se centinaia, migliaia di testi sono stati pubblicati e discussi riguardo alla tratta atlantica, molto meno esiste invece sull'”esercizio” della schiavitù a cui il mondo arabo si è dedicato a partire dall’epoca dell’Impero romano e fino al Ventesimo secolo. Quattordici secoli – non 400 anni quanto più o meno durò la schiavizzazione da parte degli europei – e che avrebbe prodotto secondo gli studiosi tra i 20 e i 30 milioni di schiavi. A partire dal Nord Africa, poi verso Occidente e, infine, verso Est, nel momento in cui i mercanti europei presero il controllo delle coste a ovest del continente.
Una storia fatta di abusi, violenze inenarrabili, conversioni forzate. Ovviamente sotto l’egida della fede – e come fanno notare gli studiosi – del libro sacro dell’Islam, che riconosce la presenza degli schiavi e il loro possesso. Del resto accadeva lo stesso per l’altra parte – l’Europa cattolicissima o protestante – che a furia di bolle papali e di diritti presunti di superiorità sui neri primitivi si arrogava le loro vite. Basta andare in uno qualunque dei forti lungo le coste dell’Africa occidentale – ultima tappa per gli schiavi che sarebbero poi stati imbarcati – per vedere le belle e curate chiesette o cappelle all’interno di ognuno di essi. Qui si pregava, forse per il buon esito delle trattative sulla pelle nera.
Del resto la religione ha finito per essere motivo, arma e anche scusa e giustificazione per i crimini più efferati, compreso – appunto – quello di ridurre in schiavitù altri esseri umani e farne oggetti privati. Nonostante le “dimenticanze” di chi preferisce non sapere, i documenti a portata di mano sono infiniti – garantiti, da una certa epoca in poi, anche dalle nuove tecniche di registrazione degli eventi, come macchine fotografiche e cineprese. Su YouTube ne circolano non pochi di docufilm che hanno un grande valore testimoniale.
Una delle domande che gli storici si sono posti è come mai le discendenze degli schiavi sono assai visibili negli USA, in Brasile e – ovviamente – nella Repubblica Dominicana e Haiti – ma lo stesso non è accaduto nei Paesi del Medio Oriente, Iraq, Iran, Arabia Saudita, ect. Nonostante la tratta da parte degli arabi sia durata molti secoli e aveva preceduto di 700 anni quella europea.
Mentre ai “neri d’America” e alle loro donne era consentita in un certo qual modo una vita “privata”, le donne nei regni arabi e orientali venivano utilizzate come concubine per accrescere gli harem – dunque solo a fini sessuali o di servizio – e per gli uomini era largamente praticata l’evirazione. Uno su cinque rimaneva in vita. Quelli che sopravvivevano non avrebbero potuto “nuocere” al loro padrone. Molti poi venivano usati negli eserciti e anche lì la loro vita non durava certo a lungo. Solo una minima parte aveva funzione di forza lavoro in piantagioni.
Il Maafa, l’olocausto africano è durato un tempo infinito e per alcuni – a dire il vero – non è mai veramente terminato. Non è finito perchè generato non da motivi economico-commerciali (che nel caso della tratta da parte degli arabi era un elemento secondario) ma dall’odio, dal disprezzo, dalla convinzione profonda dell’inferiorità degli africani neri.
Basta riflettere sul modo in cui vengono trattati non solo nei Paesi arabi, ma anche in Cina e in India, per esempio. Mentre nulla di nuovo sotto il sole avviene nel Nord Africa – in Libia ad esempio – dove gli africani costretti oggi a transitarci per cercare lavoro o per tentare il passaggio del Mediterraneo, finiscono per diventare vittime di soprusi, stupri, rinchiusi a marcire nelle carceri e trattati come delinquenti. E non si tratta di politiche per frenare l’immigrazione, no, si tratta di odio e disprezzo che continua ad alimentarsi. I neri rimangono Adb, schiavi, inferiori. Nessuna umanità concessa o riconosciuta.
Quindi, non è storia passata, purtroppo. È oggi, adesso, continua. La tratta di esseri umani – dei neri – è ancora in atto, praticata sotto gli occhi di tutti. Ma nel denunciare – nel raccontare la storia – non basta e non serve accusare. John Azumah non ha scritto solo la storia della schiavitù perpetrata tra gli arabi per secoli sul suo continente, ha scritto libri sul dialogo, la conciliazione, l’incontro tra le due religioni.
Salire su un pulpito e proporre la Storia in modo manicheo distoglie dal centro e il centro è questo: chi ha fatto e fa queste cose sono gli uomini, non le loro religioni.
Sono i fatti che contano. Sentirli raccontare da Marcus Gravey è una grande lezione di Storia, elaborata con ironia e ancora ricorrendo alle fonti cartacee, i libri. È una lunga conferenza questa di Garvey, un documento prezioso fatto di competenza, misura e orgoglio. L’odio sarebbe stato di troppo e pare non appartenere a questa “razza inferiore” che sono i neri.
Riprendiamo da La Civiltà Cattolica 166 (2015), n. 3968, pp. 145-156, un articolo di David Neuhaus. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
Nel 2015 ricorre il 500 anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II e della pubblicazione dei documenti che hanno cambiato il volto della Chiesa. Tra i testi che hanno contribuito maggiormente al cambiamento vi era il paragrafo 4 della Nostra aetate, la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, che ha definito anche l'atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei e dell'ebraismo, Questo paragrafo e gli insegnamenti che ne sono derivati hanno trasformato le relazioni ebraico-cristiane. Un «insegnamento del rispetto» per gli ebrei e per l'ebraismo ha sostituito quello che Jules Isaac, storico ebreo francese, ha definito come un «insegnamento del disprezzo», e questo non soltanto rende possibile il dialogo, ma anima anche la collaborazione tra ebrei e cattolici, nel tentativo di restaurare un mondo infranto (tikkun olam).
Il dialogo con gli ebrei e il ruolo di Cristo
Uno dei punti più delicati del dialogo tra ebrei e cattolici riguarda il problema del ruolo di Gesù Cristo nella salvezza dell'umanità. La Chiesa crede che Cristo sia l'unico mediatore di salvezza, mentre gli ebrei sostengono che l'ebraismo è la via corretta che essi devono seguire. Papa Francesco, nella sua esortazione Evangelii gaudium, ha scritto: «Dio continua ad operare nel popolo dell'Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina. Per questo anche la Chiesa si arricchisce quando raccoglie i valori dell'Ebraismo. Sebbene alcune convinzioni cristiane siano inaccettabili per l'Ebraismo, e la Chiesa non possa rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia, esiste una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e di aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure di condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli»[1].
La Chiesa «non può rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia», ma nei confronti del popolo ebraico conosce bene quale sia l'effetto controproducente delle vie concrete attraverso le quali nei secoli scorsi gli ebrei sono stati costretti a ricevere il messaggio cristiano. A partire dal Vaticano II, la Chiesa ha posto in evidenza la posizione unica degli ebrei che, diversamente da altri popoli, hanno sempre creduto nel Dio vero.
Il cardinale Walter Kasper ha affermato: «Come cristiani sappiamo che l'alleanza di Dio con Israele, per la fedeltà di Dio, non è revocata (Rm 11,29; cfr 3,4); la missione intesa come chiamata a convertirsi dalla idolatria al Dio vivo e vero (1 Ts 1,9) - non si applica e non può essere applicata agli ebrei. Essi confessano il Dio vivo e vero, che ha dato e dà loro sostegno, speranza, fiducia e forza in molte situazioni difficili della loro storia. Non ci si può comportare con gli ebrei alla stessa maniera con cui ci si comporta con i non credenti. Questa non è semplicemente un'affermazione teologica astratta, ma un'asserzione che ha delle conseguenze concrete e tangibili, e cioè che nei confronti degli ebrei non vi è un'attività missionaria cattolica pianificata, così come avviene per tutte le altre religioni non cristiane»[2].
Ebrei che credono in Cristo
Ma che cosa accade quando gli ebrei giungono a scoprire nella figura di Gesù Cristo il Messia e il Figlio di Dio? Di fatto, lungo i secoli alcuni ebrei hanno ricevuto il battesimo, confessando Cristo ed entrando a far parte della sua Chiesa. Sebbene si debba ammettere che in alcuni periodi storici una buona parte degli ebrei che furono battezzati erano costretti a farlo (e alcuni furono persino battezzati con la forza) o cercavano di adeguarsi alla cultura dominante e di rendere più facile il loro modo di vivere, ve ne furono anche alcuni che giunsero alla fede vera in Cristo. Nel corso del tempo, ciò avvenne normalmente sul piano individuale, e alcuni raggiunsero anche posizioni ragguardevoli: un esempio moderno è quello di santa Teresa Benedetta della Croce, nata Edith Stein (1891-1942), patrona d'Europa.
Sin dai primi secoli, la Chiesa ha assunto un atteggiamento negativo nei confronti di chi voleva conservare una identità specificamente ebraica all'interno della Chiesa stessa. Gli ebrei che erano giunti alla fede in Cristo e frequentavano la sinagoga, oppure osservavano una qualche pratica ebraica, erano persino minacciati di scomunica, o anche peggio[3].
Negli ultimi due secoli, soprattutto dopo la Shoah, si è reso evidente un fenomeno nuovo: si tratta di ebrei che hanno abbracciato la fede in Gesù Cristo, ma sostengono che questa nuova fede cui aderiscono non li ha resi meno ebrei. Un insigne ebreo cattolico, il cardinale Jean-Marie Lustiger (1926-2007), che è stato arcivescovo di Parigi, ha scritto una volta: «Diventando cristiano, non ho inteso cessare di essere l'ebreo che ero allora. Non fuggivo da una condizione ebraica. L'ho ricevuta dai miei genitori e non la posso perdere mai. L'ho ricevuta da Dio, ed egli non me la farà perdere mai»[4].
In Israele e nella diaspora, cattolici ebrei hanno fondato associazioni che intendono promuovere la permanenza di un'identità ebraica per quegli ebrei che sono divenuti cattolici[5]. Gli ebrei messianici sono però ebrei che confessano la fede in Gesù - o Yeshua, il suo nome ebraico - e formano comunità, per lo più senza aderire a una Chiesa[6]. Alcuni sostengono che la loro vocazione è di restare pienamente ebrei, senza assimilarsi alla maggioranza pagana, in modo da poter conservare la componente ebraica nel «corpo universale del Messia», la Chiesa, che nel Nuovo Testamento viene sempre intesa come unità tra ebrei e gentili.
Gli ebrei messianici fanno notare che, benché credano in Gesù, l'unico modo per conservare l'identità ebraica è quello di coltivare comunità ebraiche dove i credenti ebrei possano trasmettere la loro identità ebraica. Gli ebrei che diventano cristiani e la loro integrazione nella Chiesa universale conducono inevitabilmente all'estinzione degli ebrei come popolo distinto.
Chi sono gli ebrei messianici?
Le radici di questo fenomeno, cioè di comunità di ebrei che giungono alla fede in Cristo ma sostengono di restare ebrei, risalgono al XIX secolo. Nel mondo protestante, un rinnovato interesse per la vocazione e per il destino del popolo ebraico aveva portato a fondare strutture che favorissero i credenti ebrei. Alcuni vedono un tentativo pionieristico in questo senso, ma fallito, nella missione congiunta anglicano-luterana in Terra santa, fondata nel 1840 e guidata da un primo vescovo di Gerusalemme, un ebreo convertito di nome Michael Solomon Alexander. La Hebrew Christian Alliance, fondata nel 1867 in Inghilterra, e la International Hebrew Christian Alliance, fondata nel 1925 negli Stati Uniti, intendevano potenziare l'identità ebraica di coloro che si erano affiliati a Chiese protestanti. L'associazione Israelites of the New Covenant, attiva a Kishinev, in Russia (oggi in Moldavia), dalla fine del XIX secolo, fu un'autentica precorritrice del Movimento messianico e diede vita a un'espressione ebraica della vita corporativa in Gesù, che era dotata anche di una propria liturgia[7].
Senza dubbio non furono soltanto il rinnovato interesse cristiano per l'Antico Testamento e per l'ebraismo e le tendenze della modernità a influenzare la nascita di questi Movimenti ebraici, perché si deve tener conto anche dell’evoluzione del nazionalismo del XIX secolo.
Mentre alcune forme di sionismo cristiano iniziarono a emergere già nel XVII secolo, il sionismo ebraico sorse verso la fine del XIX secolo[8]. Il sionismo cristiano, fortemente escatologico, afferma che la fine dei tempi e il ritorno di Cristo sono imminenti; sostiene che le promesse rivolte alla Chiesa per la fine dei tempi devono essere precedute dall'adempimento delle promesse agli ebrei contenute nell'Antico Testamento.
Il sionismo ebraico è nato in seguito, nel contesto dei movimenti nazionali europei e dello sviluppo dell'antisemitismo moderno. I sionisti ebrei affermavano che gli ebrei erano un popolo come gli altri e avevano il diritto a una terra, la patria biblica. Sostenevano che gli ebrei dovevano conservare la loro identità, e l'unica maniera sicura per raggiungere questo scopo era quella di emigrarein una patria in cui avrebbero dovuto costituire la maggioranza.
Durante la Shoah gli ebrei che credevano in Cristo affrontarono la morte come ebrei, in quanto i nazisti non facevano distinzione tra ebrei che credevano in Cristo ed ebrei che non vi credevano. Nei postumi della Shoah le idee sioniste divennero predominanti nel mondo ebraico, e molti cristiani avallarono il sionismo in quanto lo ritenevano un mezzo adatto a riparare le sofferenze subite dagli ebrei per mano cristiana.
La fondazione dello Stato d'Israele come Stato ebraico nel 1948 rappresentò un trionfo del sionismo, e questo rafforzò ancor più la convinzione che gli ebrei fossero un popolo. Per gli ebrei credenti in Cristo e per i loro sostenitori cristiani, il sionismo cristiano e quello ebraico convergono nel sostenere la continuità del ruolo degli ebrei nella storia della salvezza e le aspirazioni degli ebrei a essere riconosciuti come popolo.
Una nuova ondata di messianismo ebraico pose le sue radici negli anni successivi al 1967. Il Jesus Movement della California e la guerra in Medio Oriente del 1967, che fu considerata come una netta vittoria di Israele, contribuirono ad attrarre alla fede in Gesù diversi ebrei americani. Si intrecciano strettamente tra loro fede carismatica e un rinnovato orgoglio nazionalistico ebraico. Nel 1975 la Hebrew Christian Alliance degli Stati Uniti cambiò nome, diventando la Messianic Jewish Alliance of America (Mjaa): un cambiamento che era anche indice di un nuovo orientamento, in quanto si accentuava di più l'identità ebraica, e meno la tradizione cristiana.
Ciò influì sull'autocomprensione e sull'ecclesiologia, sul culto e sul modo di vivere, sull'esegesi biblica e sulla teologia del Movimento messianico[9]. Gli ebrei messianici sono in continuo movimento, alla ricerca di come vivere strettamente uniti tra loro come discepoli ebrei di Gesù, senza proporsi alcun modello storico da seguire.
Diversità nel Movimento messianico
Vi è oggi una grande diversità nei modi con cui le comunità ebraiche messianiche esprimono la loro identità ebraica, formulano la loro fede in Yeshua HaMashiah, vivono e celebrano il loro culto. Alcune sono molto simili a varie correnti del cristianesimo protestante ed evangelico, mentre altre hanno adottato la prassi e il culto tradizionale ebraico; anzi, alcune hanno scelto persino uno stile di vita conservatore o ispirato al rabbinismo ortodosso.
In tutta questa diversità non esiste un'autorità centrale che assicuri uniformità di lingua, di definizioni e di pratica. Un leader messianico, che si attiene alla tradizione ebraica nel suo modo di vivere, si è espresso così: «Quando definiamo il nostro Movimento un tipo di ebraismo, confermiamo la nostra relazione con il popolo ebraico in quanto tale, come pure il nostro legame con la fede religiosa e con lo stile di vita che quel popolo ha vissuto nel corso della sua storia»[10].
Ebrei messianici si possono ritrovare oggi in una vasta gamma di comunità, specialmente nella diaspora ebraica del mondo anglosassone (Stati Uniti, Inghilterra, Australia, Sudafrica ecc.), nei Paesi dell'ex Unione Sovietica, in Europa e in Israele. Nei vari luoghi della loro residenza essi presentano differenze notevoli nel loro modo di vivere, nelle loro consuetudini e nelle loro prospettive. In tutto il mondo gli ebrei messianici sono quasi certamente attorno ai cinquantamila. E, come è difficile conoscere il loro numero preciso, così è arduo sapere quanti membri siano effettivamente ebrei secondo le definizioni moderne di «ebraismo»[11].
Gli ebrei messianici si distinguono per la loro osservanza del calendario ebraico, del sabato e delle feste ebraiche, invece di assumere la domenica e il calendario cristiano per regolare il ritmo della loro vita. Il contenuto del culto è diversificato: alcune comunità seguono forme ebraiche, mentre altre si conformano allo stile cristiano. Gli ebrei messianici in genere battezzano i loro membri - alcuni praticano soltanto il battesimo degli adulti - e celebrano in qualche sua forma la Cena del Signore. Nell'adottare la prassi cristiana, riconoscono come unica autorità quella del Nuovo Testamento e respingono in genere la tradizione cristiana posteriore.
Alcuni intendono il Movimento messianico in termini di «restaurazione»: una risurrezione della ekklesia originale ebraica che deve coesistere accanto alla ekklesia proveniente dai gentili. Come afferma uno dei leader messianici: «L’ebraismo messianico non è un Movimento completamente nuovo, ma è piuttosto la risurrezione di un Movimento molto antico»[12]. Gran parte di questo Movimento è fortemente sionista, perché crede che la restaurazione della vita ebraica comunitaria nel corpo di Cristo debba avvenire contemporaneamente al «ritorno» nella terra d'Israele. Le due cose - così pensano alcuni - annunciano una «fine dei tempi», che rende il Movimento messianico «un segno escatologico».
L'eminente teologo messianico Mark Kinzer ha scritto: «Come la distruzione della presenza nazionale ebraica nella città santa e nella Terra Santa nel I secolo ha aperto la via a una ecclesiologia supersessionista, così la restaurazione di tale presenza nel XX secolo pone in crisi quella ecclesiologia [...]. La restaurazione di una esistenza ebraica nazionale nella Terra promessa ai patriarchi e alle matriarche ha portato anche alla restaurazione della Chiesa della circoncisione nella terra Santa e nella città santa. Gerusalemme fu il centro della Chiesa; Sion non potrebbe forse avere nuovamente un ruolo centrale da svolgere nella vita della Chiesa?»[13].
I protestanti evangelici conservatori, che sul piano storico avevano sostenuto le missioni agli ebrei, hanno esercitato una grande influenza sull'evoluzione della lingua, della teologia e dei comportamenti del Movimento ebreo-messianico. La grande maggioranza degli ebrei messianici credono che il Dio unico sia Padre, Figlio e Spirito Santo, ma raramente usano il termine «Trinità».
Pur non usando il linguaggio dei Concili, quasi tutti gli ebrei messianici affermerebbero che Yeshua è pienamente divino e pienamente umano. Per loro, i Concili ecumenici che hanno definito le dottrine cristologiche hanno evitato intenzionalmente un linguaggio ebraico.
Essi invece cercano di formulare il loro linguaggio rimanendo nel contesto dell'unica autorità canonica della Bibbia, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, sottolineando la testimonianza permanente dell'Antico. Ed è anche vero che molti ebrei messianici hanno ereditato, nei confronti della Chiesa cattolica, una certa ostilità, che si fonda sulla memoria storica ebraica ed è rafforzata dal sospetto nutrito dai protestanti evangelici nei confronti dei cattolici.
Le relazioni tra gli ebrei messianici e il resto della comunità ebraica spesso sono tese. Gli ebrei praticanti considerano generalmente i messianici come ebrei che sono diventati cristiani. Accusano il Movimento messianico di costituire una nuova strategia cristiana per portare gli ebrei ad abbracciare il cristianesimo. Anche gli ebrei laici spesso sono ostili verso gli ebrei messianici, ritenendo che la fede in Cristo sia un tradimento dell'identità ebraica e delle sofferenze degli ebrei nel corso della storia: «Come potete unirvi a quelli che ci hanno perseguitato?».
Nello Stato d'Israele gli ebrei che hanno abbracciato il cristianesimo, o sono diventati credenti messianici, talvolta sono esposti a discriminazione e ostilità da parte dei loro vicini. L'esempio più chiaro di discriminazione è che un ebreo che confessi apertamente la fede in Gesù – sia cristiana sia messianica – non può ricevere automaticamente la cittadinanza israeliana, come è prevista per tutti gli ebrei dalla «legge del ritorno» (1950).
La Chiesa e il dialogo con gli ebrei che credono in Gesù
Come si comporta la Chiesa nei confronti di questi ebrei, che sono fratelli e sorelle in Cristo? Senza dubbio molti cristiani sono entusiasti di scoprire che vi sono ebrei che credono in Cristo. Inoltre, il Nuovo Testamento ripete più volte che la Chiesa è formata da ebrei e gentili (cfr Rm 11; Ef 2,15-16), e la scoperta di comunità ebraiche che condividono la stessa fede in Cristo ravviva l'immagine fondamentale della Chiesa. Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: «La venuta del Messia glorioso è sospesa in ogni momento della storia al riconoscimento di lui da parte di "tutto Israele" (Rm 11,26; Mt 23,39) a causa dell'“indurimento di una parte” (Rm 11,25) nell'incredulità verso Gesù. […]. San Paolo [scrive]: "Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione se non una risurrezione dai morti?" (Rm 11,15). "La partecipazione totale" degli Ebrei (Rm 11,12) alla salvezza messianica a seguito della partecipazione totale dei pagani permetterà al Popolo di Dio di arrivare "alla piena maturità di Cristo" (Ef 4,13) nella quale "Dio sarà tutto in tutti" (1 Cor 15,28)»[14].
La Chiesa cattolica sa bene però che la comunità ebraica tende a reagire con sofferenza, e anche con ira, quando gli ebrei abbracciano la fede in Cristo. Senza compromettere il rilevante dialogo in corso con gli ebrei della corrente principale e i mutamenti paradigmatici realizzatisi nell'atteggiamento verso l'ebraismo e verso il popolo ebraico, a partire dal Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica ha iniziato un dialogo separato, ma vivace, con gli ebrei messianici.
Nell'anno 2000 si è formato il Roman Catholic - Messianic Jewish Dialogue Group, su iniziativa di p. Georges Cottier, allora teologo della Casa pontificia di Papa Giovanni Paolo II, il quale ha benedetto e incoraggiato l'iniziativa. Papa Giovanni Paolo II, Cottier e il cardinale Josef Ratzinger (poi Papa Benedetto XVI) si riunirono con ebrei messianici negli anni che precedettero l’atto di pentimento del Papa, nel 2000, per i peccati dei cristiani, compresi quelli commessi contro gli ebrei. Quell'anno ci fu anche l'importante visita di Papa Giovanni Paolo II in Terra Santa.
Scopo del dialogo era esplorare il significato del Movimento ebreo-messianico per la Chiesa cattolica e l'importanza della Chiesa cattolica per il Movimento ebreo-messianico. Sin dagli inizi, poiché il Movimento ebreo-messianico rappresenta un fenomeno molto controverso nella più ampia comunità ebraica, questo dialogo si mantenne informale e riservato. Tuttavia, sebbene non sia ufficiale, esso è fondato sull'autorità della Chiesa e non è una semplice iniziativa privata.
Incontri tra cattolici ed ebrei messianici
Il gruppo si è riunito ogni anno, alternativamente in Israele e a Roma. Sotto la guida dapprima di p. Cottier (divenuto poi cardinale) e in seguito, dopo il suo pensionamento, del cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, la parte cattolica era composta di un gruppo di teologi, pastori ed esperti di studi biblici e di relazioni ebraico-cristiane. Ha incluso anche, lungo gli anni, un certo numero di cattolici di origini ebraiche.
La parte messianica era composta di leader messianici aperti al dialogo con la Chiesa cattolica, rappresentanti di una vasta area di prassi e di pensiero all'interno del Movimento. È anche significativo che entrambe le parti abbiano incluso tra i loro membri sia uomini sia donne. Una preoccupazione costante è stata quella di vedere sino a che punto i membri messianici potessero sostenere di rappresentare un Movimento che è molto diversificato e che non possiede alcun organismo centrale.
Due elementi diversi sono stati combinati insieme nelle riunioni, che sono durate circa quattro giorni l'anno: un dibattito teologico-intellettuale e una preghiera profetico-spirituale. In una prima fase del dialogo - dal 2000 al 2006 - le relazioni sono state impostate in modo da creare un'atmosfera di fiducia. Una preoccupazione fondamentale da parte messianica è stata quella di vedere se fosse possibile per la Chiesa cattolica riconoscere il Movimento messianico come opera dello Spirito Santo e come «segno escatologico». I membri messianici facevano notare che essi erano respinti degli ebrei, che li consideravano cristiani, e dai cristiani, che non erano in grado di capire perché non diventassero «cristiani normali».
In questo primo periodo si è scelto un tema per ogni anno, ma le riunioni non erano facili, a causa delle divisioni tra i messianici e della mancanza di esperienza da parte dei cattolici nel trattare con ebrei messianici. Nel 2007 i membri hanno potuto valutare la situazione del dialogo, e si è constatato che da parte messianica vi era una maggiore comprensione e unità, e che la parte cattolica ora era convinta che il Movimento messianico rappresentasse veramente una controparte significativa sul piano teologico e spirituale.
Tra il 2008 e il 2014 il gruppo ha potuto discutere su alcuni punti più controversi: il Battesimo, l'Eucaristia e il sacerdozio. Nel 2008 si è compiuto un importante passo in avanti con il testo di Mark Kinzer, rabbino messianico e teologo, sul documento del Vaticano II Lumen gentium, letto in prospettiva messianica[15]. In questo contributo, preparato a sostegno di tutta la componente ebraica messianica, egli esprimeva apprezzamento per la ricchezza e l'esaustività dell'insegnamento conciliare, e soprattutto per il progresso che si era realizzato da parte cattolica nel comprendere l'elezione del popolo ebraico. Dopo aver rilevato che la Lumen gentium non veniva portata abbastanza avanti, egli affrontava insieme alcuni punti discussi nella prima fase del dialogo: il posto tuttora riservato al popolo ebraico nella storia della salvezza (2002); il significato permanente della distinzione biblica tra Israele e le nazioni (2003); l'elezione d'Israele e il mistero del particolare e dell'universale (2004).
Le due parti si sono impegnate in un dialogo più profondo quando hanno trovato un accordo sul fatto che la costituzione originaria della Chiesa si fonda sull'unità tra la ecclesia ex Iudaeis (la Chiesa proveniente dalla circoncisione) e la ecclesia ex Gentibus (la Chiesa proveniente dalle nazioni). Sebbene persistessero divergenze rilevanti, questa convinzione condivisa ha costituito la base per ulteriori incontri. Partendo perciò dall'ecclesiologia (2008), il gruppo ha affrontato tematiche relative al Battesimo (2009), all'Eucaristia (2011), alla sacramentalità (2012), al sacerdozio e alla successione apostolica (2013). I membri, intensificando le loro relazioni personali e il rispetto reciproco, hanno iniziato a scoprire quanto possa essere ampio l'accordo quando sia la Chiesa sia i credenti messianici tengono veramente conto di quanto la tradizione cristiana più antica sia radicata nell'eredità ebraica.
Conclusione
Mentre il dialogo procede, la parte cattolica continua a comprendere sempre più che, se non si interagisce con l'eredità ebraica della Chiesa, si indebolisce la fede e si scardina ciò che è essenziale per l'identità cristiana. Rifacendosi alla formulazione del Concilio Vaticano II, il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che «la Chiesa, Popolo di Dio nella Nuova Alleanza, scrutando il suo proprio mistero, scopre il proprio legame con gli Ebrei, che Dio “scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola”»[16]. Nonostante le differenze nel modo di esprimersi, la parte cattolica ha scoperto che gli ebrei messianici accolgono le concezioni cristiane più fondamentali sulla cristologia, sulla Trinità e sulla soteriologia, mostrando come possa configurarsi la fede in Cristo in seno al popolo ebraico.
Certo, vi sono anche vivaci discussioni che rivelano modi di intendere diversi e anche disaccordi. Tra questi, assumono una certa rilevanza il dibattito tuttora in corso sull'unità del corpo di Cristo (l'abbattimento del «muro di separazione» tra ebrei e gentili in Cristo, cfr Ef 2,14) e il significato teologico dell'attaccamento ebraico al suo essere popolo e alla terra. Ma entrambe le parti affermano che questo dialogo tocca il cuore delle relazioni tra Israele e la Chiesa, nel piano salvifico dell'unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo[17].
Note al testo
[1] Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 249; il corsivo è nostro.
[2] W. Kasper, «The Commission for Religious Relations with the Jews: A Crucial Endeavour of the Catholic Church», discorso tenuto il 6 novembre 2002 al Boston College, reperibile sul sito www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/card-kasper-docs/
[3] Cfr. il canone VIII del Secondo Concilio di Nicea (787 d.C.), che impone a tutti i cristiani «abbandonare qualsiasi uso ebraico; in caso contrario non debbono essere ammessi [al Battesimo o alla Comunione]».
[4] J.-M. Lustiger, On Christians and Jews, New Jersey, Mahwah, 2010, 6.
[5] Le due più note associazioni potrebbero essere, in Israele, il Saint James Vicariate Jor Hebrew Speaking Catholics (cfr www.catholic.co.il) e, negli Stati Uniti, la Association of Hebrew Catholics (cfr www.ebrewcatholic.net/). Nel 2010 è stata fondata la Helsinki Consultation on Jewish Continuity in the Body of the Messiah, che unisce insieme ebrei ortodossi, cattolici, protestanti ed ebrei messianici (cfr www.helsinkiconsultation.squarespace.com/).
[6] Vi sono però alcune eccezioni: negli Stati Uniti alcune Congregazioni messianiche sono affiliate alla «Southern Baptist Convention» e alle «Assemblies of God», e in Israele vi sono Congregazioni fondate dalle «Missions to the Jews».
[7] Cfr K. Kjaer-Hansen, Joseph Rabinowitz and the Messianic Movement, Edinburgh, Handsel, 1995.
[8] Cfr. D.M. Lewis, The Origins of Christians Zionism, Cambridge, Cambridge University Press, 2010.
[9] Cfr Y. Ariel, Evangelizing the Chosen People. Missions to the Jews in America, 1880-2000, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2000; D. Cohn-Sherbok, Messianic Judaism, London, Cassell, 2000; D. A. Rausch, Messianic Judaism. lts History, Theology, and Polity, New York, Mellen, 1982.
[10] M. Kinzer, The Nature of Messianic Judaism, West Hartford, Hashivenu Archives, 2000, 5.
[11] Una delle questioni più complesse del mondo ebraico di oggi riguarda l'identità. Secondo l'ebraismo tradizionale, è ebreo chi è figlio di madre ebrea o chi si è convertito formalmente all'ebraismo. Alcune correnti dell'ebraismo riconoscono però anche una discendenza patrilineare. Oggi vi sono anche molti discendenti di ebrei che si identificano come ebrei, anche se i loro genitori non si sono mai dichiarati apertamente tali.
[12] D. Juster, Jewish Roots.A Foundation of Biblical Theology, Shippensburg, Destiny Image Publishers, 1995, 148.
[13] M. Kinzer, «“Lumen Gentium” through Messianic Jewish Eyes», in Id., Israel’s Messiah and the People of God, Eugene (Or), Cascade Books, 2011, 168 s.
[17] L'autore è grato a mons. Peter Hocken, i cui scritti sono alla base del presente articolo. Mons. Hocken è stato il coordinatore del dialogo tra cattolici ed ebrei messianici sin da quando esso ha avuto inizio, nel 2000. Per approfondire l'argomento trattato in questo articolo, cfr F. Rossi de Gasperis, «Un nuovo giudeocristianesimo e la sua possibile valenza ecclesiale», in Id., Cominciando da Gerusalemme (Lc 24,47).La sorgente della fede e dell'esistenza cristiana, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997, 140-228; C. Colonna, Gli Ebrei messianici. Un segno dei tempi, Verona, Fede e Cultura, 2009.
Riprendiamo dall’agenzia di stampa Sputnik una nota pubblicata il 20.11.2017 con il titolo “Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill ha affermato che la fine del mondo è tanto vicina da essere visibile ad occhio nudo. Lo riportano i media russi”. Purtoppo la nota non riferisce in quale occasione il patriarca avrebbe riferito tali parole: nonostante questo le parole sembrerebbero essere autentiche. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ortodossia.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
"Tutte quelle persone che amano la Patria dovrebbero stare insieme, perché stiamo entrando in un periodo critico dello sviluppo della civiltà umana… bisogna essere ciechi per non vedere l'avvicinarsi di quei terribili momenti di cui ha parlato l'apostolo ed evangelista Giovanni nel libro dell'Apocalisse", ha detto il capo della Chiesa ortodossa russa.
Kirill ha spiegato che l'avvicinarsi della fine del mondo dipende dalle persone e ha esortato tutti, in particolare i personaggi pubblici, a essere responsabili per la Patria e l'intera umanità.
"Oggi, il peccato non è solo ovvio. Sebbene nel corso della storia, le persone hanno cercato di nascondere il peccato personale, interpersonale. Oggi il peccato è dimostrato nel modo più attraente: attraverso la cinematografia, attraverso il teatro, attraverso altre manifestazioni d'arte. E l'arte, che è progettata per coltivare la personalità umana, arricchirla, elevarla al cielo, diventa un peso che non permette a una persona di volare. Non intendo tutta l'arte, ma quella che negli ultimi anni ha dichiarato un certo ruolo speciale, i diritti speciali di sopportare la tentazione e il peccato verso la gente, di confondere le persone", ha aggiunto il Patriarca.
Egli ha aggiunto che alcuni degli odierni intellettuali russi ripetono l'errore dei loro predecessori, che hanno portato il paese alla morte attraverso le rivoluzioni.
Riprendiamo sul nostro sito il testo e il video/audio di un’invocazione allo Spirito Santo. Per ulteriori proposte di canti, cfr. la sezione Preghiere, canti e proposte di lettura.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
1 Vieni, Spirito del cielo, manda un raggio di tua luce, manda il fuoco del tuo amore.
2 Manda il fuoco che distrugga quanto v’è in noi d’impuro, quanto al mondo v’è di ingiusto.
3 O del Padre dolce mano del Figlio, lo splendore; l’un dell’altro il solo amore.
4 Tu sei il vento sugli abissi, tu il respiro al primo Adamo, ornamento a tutto il cielo.
5 Tu sei il fuoco del roveto, sei la luce dei profeti, sei parola del futuro.
6 Vieni, Padre degli afflitti, o datore di ogni grazia, o divina e sola gioia.
7 Vieni a fare della terra una nuova creazione, un sol tempio del Signore.
8 O glorioso Cristo amico, sempre mandaci il tuo Spirito a rifare tutti nuovi.
Amen! Alleluia!
Altre strofe 3 Vieni, padre degli afflitti, o datore di ogni grazia, o divina e sola gioia.
4 Dona a tutti tenerezza: non v’è nulla di umano senza te, divina pace!
5 Può nessuno dir "Signore!" e gridare "Abba Padre!", se non preghi tu con noi.
6 O tu Dio in Dio Amore, tu la Luce del mistero, tu la Vita di ogni vita.
Riprendiamo dall’Agenzia di stampa Asianews del 22/11/2017 un articolo di Bernardo Cervellera. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
Alle agenzie turistiche è vietato fare pubblicità e programmare viaggi e visite al Vaticano alla basilica di san Pietro. Multe fino a 300mila yuan. Il motivo: non ci sono relazioni diplomatiche fra Pechino e la Santa Sede. Un boicottaggio verso il Vaticano perché accetti le condizioni imposte da Pechino nel dialogo? La inutile psicosi del controllo. Cinesi protestanti e cattolici evangelizzano i turisti.
Roma (AsiaNews) – Il Partito comunista cinese ha dato indicazioni perché nessuna agenzia di viaggio del Paese mandi gruppi di turisti a visitare il Vaticano e la basilica di san Pietro perché “non ci sono relazioni diplomatiche” fra Cina e Santa Sede.
In un articolo di Radio Free Asia di ieri si citano diverse agenzie che confermano di aver ricevuto direttive datate 16 novembre in cui si ordina di cancellare dalle offerte le visite al centro della cristianità. AsiaNews ha ricevuto conferma dai suoi corrispondenti in Cina che il veto sulle visite in Vaticano è effettivo, anche se tutti dubitano che esso verrà osservato.
Rfa cita un impiegato della Phoenix Holidays International Travel Agency che aggiunge: “Ogni agenzia turistica che faccia pubblicità a queste destinazioni nelle sue brochure promozionali o in altre pubblicazioni sarà colpito da multe fino a 300mila yuan [oltre 39mila euro]”.
In questi anni il turismo cinese verso l’Italia è cresciuto in modo enorme. Secondo agenti del settore, “tutti i cinesi che vengono in Italia vengono a visitare il Vaticano, i Musei e la basilica di san Pietro”. Fra i turisti vi sono giovani curiosi come pure cristiani che prendono l’occasione del viaggio in Italia per compiere un vero e proprio pellegrinaggio alle tombe degli apostoli.
La ripresa dei dialoghi fra la Cina e la Santa Sede ha accresciuto il flusso dei turisti-pellegrini e lo stesso papa Francesco, durante le sue udienze, si è volentieri soffermato vicino a gruppi di cinesi che sventolavano la loro bandiera rossa per salutarli personalmente e offrirsi per un selfie.
La presenza di turisti dalla Cina popolare è tale che gruppi di cinesi cristiani, cattolici e protestanti, hanno deciso di pubblicizzare la loro fede ai loro conterranei in visita distribuendo in piazza san Pietro volantini con spiegazioni sulla storia della Chiesa, della basilica, della fede cristiana, corredati dell’indirizzo della comunità e degli orari di messe e servizi liturgici.
Forse il bando è per evitare proprio questa “intrusione” e questo tentativo di evangelizzazione dei turisti, che all’estero trovano più libertà di dialogo e di riflessione.
Gli intervistati da Rfa affermano che il divieto nasce dal fatto che Cina e Vaticano “non hanno relazioni diplomatiche” e che l’ordine “viene da molto in alto”, anzi “dal governo centrale”.
Il fatto è strabiliante perché proprio ieri, nella Sala Stampa della Santa Sede, è stato dato l’annuncio di una doppia mostra in contemporanea da tenersi nei Musei vaticani e nel Palazzo imperiale di Pechino. Le mostre dovrebbero tenersi nel marzo 2018.
Sebbene diverse personalità vaticane siano ottimiste sulla riuscita di accordi fra Pechino e Santa Sede e su un possibile viaggio di papa Francesco in Cina, non mancano le docce fredde. In margine al Congresso del Partito comunista cinese, l’allora direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi, Wang Zuoan ha elogiato la “sincerità” di papa Francesco, ma ha ribadito le condizioni che da decenni la Cina pone come previe ad ogni dialogo: rompere le cosiddette “relazioni diplomatiche” con Taiwan e non interferire negli affari interni della Cina, nemmeno in nome degli affari religiosi.
A prima vista, il boicottaggio del turismo cinese verso il Vaticano sembra essere una penalizzazione economica, forse per spingere la Santa Sede ad accettare le condizioni della Cina nel dialogo. Il paragone è con quanto Pechino ha fatto verso la Corea del Sud, quando Seoul ha approvato l’istallazione del sistema anti-missilistico Thaad: ha bloccato i voli dei turisti cinesi verso la Corea e ha boicottato i negozi coreani in Cina.
Nel caso del boicottaggio verso il Vaticano, a noi sembra che il problema sia nella Cina stessa e nella psicosi governativa di voler controllare la sua popolazione anche quando essa si trova all’estero. Un operatore turistico cinese ha commentato così il bando: “È una cosa che fa ridere. Come pensano di controllare milioni di persone all’estero? E soprattutto i giovani, desiderosi ormai di maggiore libertà rispetto a quella concessa ai loro padri?”.
Luca Teofili: Buonasera e benvenuti a tutti, siamo qui per l’ultimo appuntamento del primo anno di questo ciclo che si chiama “Sulle spalle dei giganti” e stasera i giganti sono davvero giganti: Leopardi e Manzoni in una serata. Non faccio un’introduzione ma vi ricordo che se Dio vorrà questo ciclo avrà un secondo anno di appuntamenti con altri cinque incontri e altre tematiche da affrontare.
Franco Nembrini: […] Stasera mi era proprio venuto in mente di cominciare dicendovi questa cosa incredibile che mi è accaduta in questi giorni. Sono tornato giusto ieri da un lungo tour in America Latina, dove ho visitato sostanzialmente scuole e centri culturali intitolati a Dante Alighieri, invitato dalle comunità di origine italiana presenti in America Latina, soprattutto in Argentina e in Venezuela. In 20 giorni ho visitato istituzioni educative e culturali di Perù, Cile, Paraguay, Colombia e Venezuela. Potete immaginare cosa ho visto e incontrato.
Ma due cose mi hanno segnato in modo particolare: sul fronte della carità e sul fronte della cultura. Sul fronte della carità ho visitato ad Asunción in Paraguay l’opera di Padre Aldo Trento che avevo conosciuto qualche anno fa, sono tornato a trovarlo e ho visto una cosa stupenda. Immaginate nella povertà di queste megalopoli, in un posto che è un deserto che sembra un girone dell’inferno, immaginate di vedere improvvisamente un pezzo di paradiso. Un’opera di una bellezza che veramente in quel contesto parla di un’altra cosa, di un’altra strada, di un’altra vita possibile. Clinica, scuola, panetteria, centro di formazione professionale, malati terminali, insomma, un’opera di carità infinita. Questo Padre Aldo mi ha fatto fare tutto il giro e con una naturalezza assoluta alla fine della visita mi ha detto: “Dai Franco, andiamo insieme a dire una preghiera davanti al Santissimo”.
E io pensavo mi portasse in cappella. Invece mi ha portato in una stanza dell’ospedale dove c’era un bambino idrocefalo, un mostro deforme, una testa gigante su un corpicino intorno. E padre Aldo mi ha fatto recitare l’Angelus davanti a lui dicendo “Recitiamo l’Angelus davanti al Santissimo”. Una cosa così ti segna per la vita. Perché da una parte capisco che o si arriva fino a lì o non è vero neanche tutto quello che viene prima. Non è che quella lì è un’esagerazione, o si arriva fin lì, o quel bambino è la presenza di Cristo, oppure non sta su niente, non è vero niente. È un po’ come guardare il Cristo in croce. Settimana prossima sarà la settimana santa e ci metterà alla prova da questo punto di vista.
L’altra cosa che mi ha colpito tantissimo, e così ci introduciamo all’aspetto culturale della serata, è che sono stato in Venezuela, che in questo momento è al disastro, alla fame vera per ragioni politiche, per il regime. Ad un certo punto mi han fatto conoscere una donna, povera, delle favelas, che è stata l’origine dell’invito per cui sono andato, in Venezuela in particolare, a parlare di Dante alle Case Italia, ai centri dove gli immigrati italiani o i figli di immigrati si ritrovano e con grande coraggio, slancio ed entusiasmo tengono vive un po’ le nostre tradizioni. Fanno incontri culturali e tutta una serie di attività.
Ho conosciuto questa donna che è stata all’origine del mio viaggio lì perché ad un certo punto un amico venezuelano l’ha incontrata ed è rimasto stupito del fatto che questa donna conoscesse la Divina Commedia. Le ha chiesto il perché ed è venuta l’idea di chiamarmi. L’ho finalmente conosciuta di persona, si chiama Diomara, e le ho chiesto: “Ma lei signora che non è andata a scuola, sta Divina Commedia come l’ha conosciuta? Cosa rappresenta per lei?” E mi risponde: “È successo due anni fa, mentre cercavo di fare un esame studiando la sera e lavorando di giorno – un esame per una licenza di non so che tipo – e il professore mi ha assegnato Dante e la Divina Commedia. Io non sapevo nemmeno chi fosse – dice – mi sono fatta aiutare un po’ dai figli, su internet e mi sono veramente appassionata perché fin dall’inizio ho sentito che Dante era importante, diceva qualcosa alla mia vita”.
E io le dicevo: “ma signora mi spieghi, non me lo può dire così, cosa vuol dire?” E lei quasi stupita mi rilanciava la domanda: “Ma come? Non c’è niente da spiegare, l’ho sentito. Io man mano lo leggevo, in spagnolo, capivo che aveva qualcosa di importante da dire alla mia vita”. E con assoluta naturalezza mi racconta: “Adesso quando alle 5 di mattina mi metto in fila per il pane porto sempre con me la Divina Commedia e comincio a leggerla alle signore che ho vicine e così passiamo delle ore insieme. Mentre facciamo la fila per prendere il pane, mangiamo il pane che conta, il pane vero”.
E pensavo: “Quanta fatica a farla capire ai miei alunni! E devo venire in Venezuela, noi che questa cosa la dovremmo avere nel sangue!” Ed è il tema di stasera appunto capire cosa è accaduto perché abbiamo potuto perdere questo. Una donna delle favelas del Venezuela che, come se avesse studiato tutta la letteratura universale, in fila per il pane, tira furori dalla borsa la Divina Commedia e la racconta alle donne che sono lì a fare la fila con lei perché quello è il cibo vero, perché “non di solo pane vive l’uomo”.
Io credo che tornerò in Venezuela per questa donna, per andarla a trovare, per aiutarla. Che esista, che vada abbracciata e che goda della solidarietà del mondo intero, almeno di qualche cristiano del mondo, una donna così per me è un imperativo morale! Mi è successo qualcosa come è stato per Oleg capite? “Quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui”. Viene in mente “fatti non fosti a viver come bruti”. Quella donna vive così, vive una dignità davanti a Dio e ai suoi angeli che è la fine del mondo, io voglio imparare, io vorrei vivere così. Non faccio la fila per il pane ma quando aspetto il mio piatto di pasta vorrei essere consapevole del pane vero di cui la pasta o le lasagne sono solo il segno.
Siamo arrivati con Foscolo, la volta scorsa, a dire che una certa cultura che si è elaborata nei secoli ha detto, a un certo punto, presuntuosamente: “Non abbiamo più bisogno di Dio, possiamo tentare di costruire in noi il paradiso in terra”. L’uomo nuovo, uscito dallo stato di minorità, l’uomo che ha nella sua ragione il punto di forza e sicurezza che invece la religione sembra aver tradito con una storia di guerre e di scontri alle spalle, la ragione sarà la nuova Divinità: il punto di riferimento di uomini saggi che hanno come unica preoccupazione il bene di tutti, così si disse, la felicità di tutti.
Robespierre diceva: “Costringeremo gli uomini ad essere felici”, dicendo una cosa terribile, perché è la porta di ogni dittatura. Se io so cos’è la felicità e sono autorizzato a importela è chiaro che Auschwitz è alle porte. Questo razionalismo con la Rivoluzione Francese tenta di ricostruire il mondo, ricostruire il bene, l’uomo nuovo secondo ideali assolutamente condivisibili: liberté, egalité, fraternité, la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza. Sono gli ideali cristiani che quella cultura pretende di realizzare a prescindere dal cristianesimo, laicizzando questi valori che sono il frutto del cristianesimo. Si pretende insomma che la pianta dia frutti avendone segato le radici: in realtà il frutto già avvelenato è la rivoluzione francese, la dittatura napoleonica, quello che abbiamo visto la volta scorsa.
Alla poesia, al poeta, che è sempre profeta, il compito di dire la verità. Io ho insistito su Foscolo la volta scorsa perché, come vi ho detto, mi pare che Foscolo sia il primo in quella temperie culturale a dire con serietà e con profondità: “Signori, i conti non tornano. In ordine alla felicità, in ordine ai tre grandi problemi della vita che sono il suo significato, il problema della vita e della morte, in ordine al bene comune, al problema politico, all’arte di aiutare gli uomini a vivere meglio e in ordine all’amore, al rapporto costitutivo della persona e della sua vocazione, su queste tre cose non funziona un accidenti di niente. Apriamo gli occhi perché qui i conti non tornano: la Patria, il bene comune è tradito, l’amore è impossibile, la morte è l’ultima parola”. È il sugo del tema affrontato nell’Ortis, nei Sepolcri e nei Sonetti.
Arrivati qui mi aiuto con uno schemino che usavo spesso a scuola per farvi capire questa molto sommaria sintesi (anche stasera vi chiedo scusa per la sintesi un po’ rozza). Potremmo dire così: se il ‘700, il secolo dei lumi, è stato caratterizzato dalla filosofia, dall’Illuminismo per intenderci, a partire dall’800 e cioè dal fallimento (sono date assolutamente indicative) della Rivoluzione Francese e dalla vicenda di Napoleone qualcosa viene messo in crisi, qualcosa si ridiscute. Cosa succede? Che abbiamo una corrente culturale che in letteratura chiamiamo “classicismo”, quello che poi riprenderemo l’anno prossimo, una certa dichiarata fiducia, appunto, nella ragione moderna, fino a diventare una corrente culturale che sarà il cosiddetto positivismo. Cioè: è vero solo ciò che la scienza dimostra. Oggi sembrano parole strane ma in realtà è il modo con cui ragioniamo tutti perché l’abbiamo assorbito pian piano. Quella ragione illuminista diventa una presunzione sconfinata nelle possibilità dell’uomo fino a potersi illudere di creare anche biologicamente l’uomo (l’eugenetica di oggi) al posto di Dio.
Nel frattempo però una certa corrente comincia sotto sotto a brontolare e a bollire. È, in Italia almeno, quello che chiamiamo il fenomeno della Scapigliatura, in letteratura, che è fenomeno che precede e prepara la grande corrente culturale che verrà definita “decadentismo”. Sotto questa etichetta del decadentismo, questi cultori della ragione moderna, condannano come decadenti poeti e scrittori che invece dicono “i conti non tornano”.
La corrente che determinerà la cultura del XX secolo naturalmente è quella partita dall’illuminismo perché da qui poi verranno per esempio un certo modo di intendere le nuove scienze che sono proprio quelle che danno all’uomo moderno l’illusione di farcela. “Forse abbiamo sbagliato, qui abbiamo esagerato, ma ce la possiamo fare”. Tutto può essere ridotto a scienza, tutto può essere ridotto a leggi e a regole assolutamente certe. Date certe premesse avremo certe conseguenze. Quella che abbiamo chiamato anima, il mistero dell’anima, tutte ste fregnacce religiose in realtà non esistono, questa è la grande scoperta. L’anima, attraverso la psicologia, è conoscibile, ha leggi certe, a determinate condizioni corrispondono determinate reazioni, si tratta solo di entrarci bene e capirla ma l’io, il soggetto, la persona umana, è governata da leggi scientifiche e perciò ripetibili e applicabili. Allo stesso modo funziona tutto il meccanismo che regola la società. Non esistono popoli, religioni, sono solo leggi economiche certissime. Il Marxismo ha la pretesa di fare del materialismo scientifico una legge e perciò, secondo meccanismi noti su cui l’uomo può intervenire se a determinate premesse corrispondono determinate conseguenze, anche qui si può farne una legge, un livello della conoscenza per cui i meccanismi sociali possano essere conosciuti, governati e corretti.
Non è più un mistero l’individuo, non è più un mistero la società, tutto può essere scientificamente determinato. Ma vedremo che cosa voglia dire questa scoperta che la scienza arriva fino alla scienza dell’individuo e alla scienza sociale e fino alla pretesa, in letteratura, di poter dire finalmente la verità, mentre prima tutto era solo finzione, allegoria, simbolo, non si capiva niente. Adesso, ho scoperto che addirittura l’autore, l’artista, può fare un passo indietro perché c’è un modo di descrivere la realtà che è assolutamente oggettivo: l’illusione verista. Qui non siamo più in filosofia ma in letteratura, l’illusione e la parabola bellissima prima del realismo e poi del verismo, con il nostro Verga. Bellissima parabola perché sarà lo stesso Verga a sconfessare la teoria di partenza.
Quel che mi interessa è dire questo: mentre in Europa grossomodo la cultura prende questa fisionomia, abbiamo una sorta di parentesi in Italia che arriva fino al 1850, si potrebbe dire 1861 o anche oltre. Abbiamo una letteratura che i critici hanno chiamato una letteratura romantica, storicamente però legata ad un dibattito che è solo italiano. In questa linea in mezzo c’è proprio solo l’Italia perché l’Italia ha tutto il problema dell’unità e quindi tutto il dibattito politico si tira dietro interessi culturali, approfondimenti, tutta una serie di opere di carattere storico, civile, patriottico. Insomma, attorno al tema del Risorgimento in qualche modo si appiattisce la letteratura, per alcuni anni.
Se vogliamo si può datare al 1850 una grossa cesura. Il dibattito sull’unità nel 1861 è terminato: “Fatta l’Italia adesso facciamo gli italiani” (su come sia stata fatta sarebbe un corso a parte). E quindi si ritorna a ragionare di letteratura e una parte rifluisce in questa direzione che è quella capitanata da Carducci, questo vate della letteratura italiana e della patria, di cui un critico che io amo tantissimo Gioanola, docente negli anni buoni dell’Università di Genova, dice in un memorabile saggio “riuscì persino a passare per un grande poeta”. E io la penso esattamente così, forse l’unica cosa leggibile è Pianto antico, perché è l’unica poesia che pesca da un’esperienza vera di carne e di sangue, con il figlio morto e sepolto fuori casa. Da un lato una corrente, capitanata da uno come Carducci, con un pensiero razionalista, illuminato, moderno e quindi necessariamente contro la chiesa e la religione. Dall’altro prende il via tutta una letteratura che ha negli scapigliati i primissimi esempi e il cui inizio io dato con il 1850 perché è l’anno di pubblicazione dei Fiori del maledi Baudelaire.
Perché dico che mi sembra che si possa dire che da qui la poesia ha cominciato a rinascere e a risorgere? Perché i Fiori del male di Baudelaire, dietro a cui vanno, a Parigi, i nostri Scapigliati per capire che aria tira, diventeranno i padri culturali di tutto il nostro decadentismo. Perché Baudelaire? Non so se avete in mente il suo manifesto, la poesia Correspondances, dove c’è una frase secondo me emblematica: “La realtà è una foresta di simboli”. Questi poeti moderni di fronte alla presunzione moderna di guidare l’uomo verso “le magnifiche sorti e progressive”, verso una felicità che in realtà tutto dimostra impossibile, questi hanno il coraggio di denunciare che le cose non funzionano. Hanno il coraggio di riprendere in mano la lingua, inventando anche nuovi linguaggi, per dire quello che la poesia ha sempre detto, per dire quello che dirà il nostro Montale con una frase fondamentale, assolutamente sintetica di tutta una cultura “tutte le cose portano scritto ‘più in là’”. La realtà è una foresta di simboli, la realtà parla, ci urla qualcosa…E quando io dico simboli a tutti voi deve venire in mente il simbolismo medievale. Perché anche quando abbiamo fatto Dante si parlava di simboli, di allegoria. La differenza qual è? Che nel Medioevo Dante ha in mano la chiave per aprire il simbolo, per decifrarlo. La modernità avverte tragicamente che la realtà è fatta di simboli: sente una voce che dietro l’apparenza delle cose esigerebbe una sostanza, una sub-stanzia, qualcosa che sta sotto e che giustifichi l’apparenza e il venir meno delle cose, ma non ha più la chiave per accedere al simbolo.
Il simbolo rimane muto. Si sa che è simbolo, si sa che tutta la realtà è segno ma non si sa più di che cosa. Rinnegata la religione, esautorata la Chiesa, sentita inutile la fede, la realtà resta indecifrabile. Non più segno del mistero ma di un mistero che nell’incarnazione si è reso amico degli uomini e perciò conoscibile, ma di un mistero che torna a essere l’ignoto degli antichi. Un mistero sentito come mistero ma non più amico, sentito spesso come nemico, come devastante.
Perciò in particolare Carducci e poi Croce, con la critica che ha fatto a tutta la letteratura, si sono permessi di definire decadenti gli altri (Scapigliati), perché li hanno sentiti strani. “Ma come? Siamo qui, stiamo per arrivare al punto, stiamo per riuscire a fare il paradiso in terra che tutta l’umanità ha sempre sognato e voi vi permettete ubbie sentimentali, riflessioni tristi, melanconie che nell’era del progresso non dovrebbero esistere”. E perciò Croce li definisce, e definisce così i vari Svevo, Pascoli, li definisce “malati di nervi” “decadenti” e invoca, augura una nuova stagione della letteratura che invece sia piena di quella sicurezza e di quella virilità di cui la religione ci dovrebbe attrezzare. E c’è questo incontro-scontro tra una corrente letteraria che finisce per essere non più letteraria ma filosofica e scientista, che condanna come decadenti i poeti veri, quelli che sentono tutta l’urgenza di questa realtà sentita come simbolica, come evocante un significato che non sappiamo più reperire, se non in termini negativi, se non come esperienza di dolore, di frustrazione, di incomprensione, di un io spezzato che non ritrova più la sua unità. L’io pazzo o folle di Pirandello piuttosto che le immagini di Picasso, per dire l’arte che scompone la figura alla ricerca di un’unità diventata impossibile. Ecco, tutto questo, da una certa cultura, viene definito semplicemente decadente, malato di nervi.
In mezzo ci sta il nostro romanticismo che ha, proprio in quella prima metà dell’800 i due fenomeni più eclatanti, più incredibili: Manzoni e Leopardi. Che chiamiamo romantici perché sono romantici, poi naturalmente c’è tutto il dibattito classicismo-romanticismo, un dibattito assolutamente cretino, su cui non varrebbe la pena spendere tempo se non che ce lo fanno studiare e quindi poi ti tocca leggere dei libri grossi così. Ma né Leopardi né Manzoni hanno avuto il problema. Il problema ce l’hanno quelli che fanno i critici e che devono scrivere qualcosa di originale. Non si sono sentiti divisi in se stessi tra classicismo e romanticismo, categorie che non c’erano ancora, ma hanno vissuto quel che dovevan vivere: il loro tempo e le sue contraddizioni. Da due punti di vista molto diversi.
L’ateo illuminista Manzoni che si converte da una parte e dall’altra il poeta che nasce e cresce in una famiglia religiosissima e che sposa tesi filosoficamente e dichiaratamente materialiste per accedere però a un’esperienza poetica che sembra negare le premesse filosofiche. Questi sono i due personaggi. Si sono anche incontrati, ma non c’è stato verso, hanno litigato dopo cinque minuti e fine dell’incontro. Come spesso accade con i geni. Leopardi doveva avere un caratterino mica da poco, con questa sua malinconia che lo intristiva sempre, quell’altro era malato di nervi, soffriva di nevrastenia pesante, figuratevi.
Due personaggi che per la nostra letteratura diventano però fondamentali. Voi immaginate in questi giorni preparando la serata, cosa posso aver patito all’idea di dovervi parlare di Manzoni e Leopardi in quaranta minuti. Io non so cosa fare, ma ci provo convintamente.
Perché di Manzoni cosa dobbiamo dire? Ci sarebbero da dire almeno tre o quattro cosette veloci. Sulla storia della sua conversione nella Chiesa di San Rocco durante quella famosa giornata a Parigi sono state scritte pagine anche memorabili. A me quel che interessa dire è questo: quando accosto Manzoni, sarà perché ho una sensibilità moderna e la sensibilità dell’uomo moderno è più rappresentata da quella vena scapigliata e decadente dell’uomo in crisi che interroga se stesso e si interroga a partire dal suo rapporto con la realtà, ma lo dirò bene dopo, mi fa sentire sempre più vicino a Leopardi. Manzoni, che pure vive una conversione serissima, decisa, sincera, ma che mi è sempre sembrata segnata da una vena di intellettualismo. Lui ha proprio il problema della verità. La verità da conoscere, da raggiungere con l’atto della conoscenza intellettuale. In una delle lettere scrive uno slogan che facevo sempre imparare ai miei alunni di quinta, lo facevo sempre scrivere sopra la cattedra: “Il bisogno della Verità è l’unica cosa che ci possa far dare importanza a tutto ciò che veniamo a sapere”. Frase straordinaria per definire cosa è lo studio. E dicevo ai ragazzi: “Guardate che ha ragione, potrete provare interesse per qualsiasi disciplina, per qualsiasi cosa dovrete studiare solo a condizione di un grande amore per la verità, solo per l’intuizione di un nesso, di un legame tra quel che studiate e la verità con la V maiuscola, cioè con la Verità anche di voi stessi, la verità della vita, della morte, dell’amore, di quel che vivete. è per un nesso con questa verità che può interessarvi la chimica e la matematica, altrimenti è impossibile, non si può imparare niente. Però appunto la posizione di Manzoni è questa ricerca della verità che lo porta a un certo punto a convertirsi, a rivedere una serie di posizioni che aveva pure espresso e a scrivere quell’opera pazzesca che sono “I promessi sposi”. In merito ai quali diciamo subito una cosa: colpisce veramente il fatto che “I promessi sposi” diventano subito il nuovo manifesto, la nuova grammatica della rinascente lingua italiana.
Manzoni fa lo stesso lavoro che aveva fatto Dante quando la lingua italiana viene per la prima volta fondata, in una situazione in realtà molto simile. L’Italia non ha raggiunto come tutti gli altri stati europei l’unità nazionale alla fine del Medioevo ed è quindi simile a quella del frazionamento comunale dell’età di Dante. E quindi c’era una lingua della classe colta, che è il latino, e una lingua più popolare ma che è incomprensibile al popolo, che è il latino ecclesiastico, della liturgia e delle preghiere. Per cui mia nonna pregava tutto il giorno in latino, non so con quanta consapevolezza della lingua ma ne aveva tanta della fede quindi andava bene così (anche se qualche volta le scappavano cose divertenti). E poi una lingua del popolo frazionata nei diversi dialetti. Era così ai tempi di Dante, il quale dà all’Italia la lingua nazionale, lingua che, dopo Dante, per le ragioni che in parte abbiamo accennato, si riduce a studio o ad appannaggio esclusivo di certe classi colte che la rinchiudono nelle accademie del cinque-sei-settecento e che quindi non serve alla comunicazione e alla vita. E poi i dialetti locali.
In una situazione analoga un altro grande cattolico ridà vita alla lingua nazionale: la lingua di Manzoni diventa l’italiano degli italiani. È interessantissimo notare, cercare di capire perché siano due grandi cattolici della loro epoca a rifondare la lingua perché, credo, per avere una lingua bisogna avere qualcosa da dire e una grande fiducia nell’esistenza della verità. La comunicazione, la parola ha senso se esiste la verità. Perché con la parola l’uomo cerca di afferrare la verità, di dire la verità, per approssimazioni successive certo, per cui c’è tutta l’ambiguità della parola, c’è l’incomprensione, c’è la correzione continua, ma per approssimazioni successive l’uomo cammina verso la verità e perciò il linguaggio descrive sempre un tentativo con cui io e te stiamo camminando verso l’unica verità. Quindi non è che la verità l’ho in tasca io e tu no, è la verità che ci possiede entrambi, ed è più grande della nostra testa, come diceva Benedetto XVI.
In questo senso dico per approssimazioni successive, solo due cattolici potevano avere una fiducia così grande nell’esistenza della verità e nella bontà del linguaggio da poter reinventare fiduciosamente una lingua. Poi ci saranno tante conseguenze da tirar fuori ma questo colpisce tanto. Colpisce tanto perché è uno dei contributi più decisivi alla cultura italiana dati dalla fede cattolica. Una grande fiducia nella verità e perciò nella bontà della realtà e della capacità dell’uomo di dirsi dentro la realtà e di comunicare a un altro uomo quel che vive, quel che capisce, quel che tentativamente afferra. Perciò dico sempre che fino a Leopardi i grandi hanno sempre cercato di dirsi con la fiducia che gli altri potessero capire. Da lì in poi invece non sarà più così. Caduta una fiducia nella verità trascendente, caduta una fiducia nell’esistenza di Dio, abbandonata la religione, gli uomini si trovano spaesati e la lingua comincia a essere messa in dubbio come capacità di comunicazione dell’uomo all’altro uomo.
Manzoni è proprio l’esponente che più chiaramente vive questa tensione verso la verità e intuisce nel cristianesimo la cosa essenziale, cioè la verità che si fa storia. Si potrebbe dire che tutta la vita e l’opera di Manzoni possono essere scritte sotto lo slogan “la verità entra nella storia”. Per Manzoni con il cristianesimo la verità entra nella storia e cioè la storia si rivela da Cristo in poi come provvidenza. È l’idea della Provvidenza che regge tutta la vicenda dei Promessi sposi, il sugo della vicenda messo alla fine.
La verità regge la storia, quindi la storia può essere letta secondo la verità, secondo la sua complessità ma rintracciando l’ordito, il tessuto, le tracce di una divina provvidenza che la guida e che affida alla libertà degli uomini e al loro coraggio la possibilità di aderire o meno, di fare il bene o fare il male, ma è la verità che è entrata nella storia.
La finzione famosa dei Promessi sposi per cui sarebbero la trascrizione da parte dell’autore di un antico manoscritto ha solo questa funzione, quella di dire: “Guardate che sto inventando una storia ma è così verosimile che potrebbe benissimo essere una storia vera. Per farvi capire questo fingo di aver trovato un finto manoscritto in un italiano illeggibile, io lo trascrivo in un italiano più moderno ma la storia l’ho trovata in un antico manoscritto”, solo per dire con forza che l’intento dell’autore è proprio di raccontare la storia, è proprio di renderla interpretabile e la rende interpretabile la fiducia nella provvidenza. Questo è sostanzialmente l’ispirazione di Manzoni. Che poi andrebbe accostato e capito completando la cosa con l’esperienza della scrittura delle tragedie.
Perché le tragedie invece direbbero un’altra cosa: “non resta che far torto o patirlo” come dice un personaggio, e quindi con una visione fondamentalmente pessimistica. Se è vero che la Salvezza c’è, se è vero che Dio esiste, sembra in alcuni tratti, in alcuni passaggi del Manzoni tragico, sembra che la felicità, se c’è, sia attingibile nell’Aldilà, di qua è un bel casino. Di qua resta spesso la vittoria del male. Sto parlando delle tragedie, mentre invece evidentemente i “Promessi sposi” sono un’epopea esattamente come la Divina Commedia. Si parte da una selva oscura, da un amore impossibile, da una tragedia, si fa un percorso, c’è tutta una serie di figure femminili come Lucia (luce, di nuovo, come la Santa Lucia di Dante), c’è un Virgilio, un maestro, uno a cui ti puoi affidare che coraggiosamente difende l’iniziativa e il cammino della verità di ciascuno. Nei Promessi Sposi ovviamente è il nostro Fra Cristoforo. C’è l’aspetto del perdono, di una possibile rinascita, c’è un lavacro a metà della vicenda che somiglia un po’ a quel Dante cui viene lavata la faccia prima di iniziare il cammino del Purgatorio, che è l’attraversamento dell’Adda da parte di Renzo. Insomma, c’è un’analogia perfetta e una perfetta sovrapposizione nell’andamento e nella curva delle due opere, dove entrambi gli autori sono cattolicissimi.
Per le ragioni che vi ho detto a volte c’è un aspetto di affermazione forte, intellettuale, da parte di Manzoni di una verità forse non sentita così esistenzialmente significativa come è invece per Leopardi. Detto questo passeremo delle sere memorabili a leggere Manzoni, lo sto rileggendo ancora adesso per cui, vi prego, non prendetelo come un giudizio negativo su Manzoni. È una sottigliezza finissima di gusti e sensibilità per cui questa Provvidenza a volte, per vederla, occorre proprio un atto di fede che sembra contro ogni evidenza. Per dire che c’è la Provvidenza, che governa il mondo e che Dio non toglie ai suoi piccoli una felicità se non per darne loro una più certa e più grande, ci vuole una grande fede. Oppure se dessimo un’occhiata anche fugace alla “Pentecoste”, per esempio, è un inno che io amo tantissimo dove lui si permette di chiedere “Dov’eri quella notte, quei giorni immediatamente successivi al sacrificio di Cristo? Dov’eri mai Chiesa del Dio vivente quando il tuo Re dai perfidi tratto a morir sul colle imporporò le zolle del suo sublime altar?”. “Dov’eri Chiesa quando Cristo è morto sulla croce?” E poi dice che è nata proprio da lì e si è affermata come realtà storica, determinabile storicamente il giorno di Pentecoste. E quando poi c’è stata la resurrezione, e quando c’è stata l’ascensione, lui chiede “Dov’eri o Chiesa?”.
Sol nell’obblio secura, Stavi in riposte mura, Fino a quel sacro dì, Quando su te lo Spirito Rinnovator discese, E l’inconsunta fiaccola Nella tua destra accese; Quando, segnal de’ popoli, Ti collocò sul monte, E ne’ tuoi labbri il fonte Della parola aprì. Come la luce rapida Piove di cosa in cosa, E i color vari suscita Dovunque si riposa; Tal risonò moltiplice La voce dello Spiro:
Questa è proprio la trascrizione poetica degli Atti degli apostoli.
L’Arabo, il Parto, il Siro In suo sermon l’udì. Adorator degl’idoli, Sparso per ogni lido, Volgi lo sguardo a Solima, Odi quel santo grido: Stanca del vile ossequio, La terra a LUI ritorni:
C’è in questo una bellezza infinita, una sacralità così intensa e profonda della percezione della Chiesa che commuove fino alle lacrime. Nello stesso tempo c’è come un aspetto di atto di volontà che io sento…
E voi che aprite i giorni Di più felice età, Spose, che desta il subito Balzar del pondo ascoso;
La mamma incinta che viene svegliata nella notte da un subitaneo movimento del feto che porta in grembo, che roba questi due versi!
Voi già vicine a sciogliere Il grembo doloroso; Alla bugiarda pronuba Non sollevate il canto:
Non consacrate i vostri figli a Giunone, la dea della maternità e della fertilità.
Cresce serbato al Santo Quel che nel sen vi sta. Perché, baciando i pargoli, La schiava ancor sospira? E il sen che nutre i liberi Invidïando mira? Non sa che al regno i miseri Seco il Signor solleva? Che a tutti i figli d’Eva Nel suo dolor pensò? Nova franchigia annunziano I cieli, e genti nove; Nove conquiste, e gloria Vinta in più belle prove; Nova, ai terrori immobile E alle lusinghe infide, Pace, che il mondo irride, Ma che rapir non può.
Una cosa da pelle d’oca. La sera prima della Pentecoste vi consiglio di leggerla, perché è bellissima. E poi c’è tutta un’invocazione allo spirito che faccia rivivere la terra, faccia rivivere gli uomini, faccia rivivere tutto. Fino alla descrizione di sette momenti, sette età della vita dell’uomo dalla nascita alla morte dove chiede allo spirito di assistere la vita di tutti gli uomini, in un inno di 144 versi, 12 per 12, il numero della salvezza. I 144mila della valle di Josafat, è il numero della salvezza, il quadrato di 12. Sono le 12 tribù, i 12 apostoli, l’umanità redenta. La Pentecoste è il punto della salvezza degli uomini, la Chiesa luogo della salvezza.
Detto ciò passiamo a Leopardi. Molto diverso da Manzoni: uno milanese, l’altro recanatese, due mondi completamente diversi socialmente, culturalmente, storicamente, economicamente. Leopardi viene da una famiglia cattolicissima, ma di un cattolicesimo che è meglio perderlo che trovarlo. Vi consiglio la lettura “Ritratto di una madre”, capirete perché Leopardi non poteva essere cattolico. Si tratta evidentemente del ritratto di sua madre dove lui dice a più riprese che questa madre aveva come caratteristica quella di mettere al mondo i figli ma di, in fondo, augurarsi che morissero prima di fare dei peccati. E descrive che quando un figlio è ammalato, e forse si tratta proprio di lui, all’arrivo del medico “era tutta in sospensione e in ansia in attesa di sentirne il giudizio. Ma in ansia per tema che il medico desse notizie di pronta guarigione, augurandosi lei che, come un angelo candido e immacolato, il figlio morisse per volare in cielo”. Ora, se uno della religione ha questa visione capite che è dura credere. Per di più il padre, sul versante sociale e politico è un integerrimo e durissimo difensore delle antiche tradizioni, del governo pontificio, mettete insieme le due cose e capite bene come Leopardi cercasse di evitare entrambi, alla fine.
Ma la cosa su cui voglio insistere è questa: lui è un genio raro, a undici anni l’istitutore, la persona più colta del regno in quel momento dichiara bandiera bianca dicendo “io non ho più niente da insegnargli”, aveva letto tutta la biblioteca, scriveva cose in greco a sette anni, ma soffre. Soffre di una sofferenza, e questa mi pare sia la questione decisiva, che è la sofferenza di ogni uomo ma genialmente vissuta. Cioè vissuta con una consapevolezza e con una profondità ineguagliabili. La domanda vera è che Leopardi, nel tempo in cui si sta costruendo una cultura che, negando la fede e la religione, negando il senso religioso dell’uomo ha la pretesa di costruire la felicità, di costruire il paradiso, senza fede, senza mistero, tradendo in modo clamoroso la promessa, Leopardi è uno che a un livello di una profondità e di una bellezza incredibili, dice le esigenze del cuore dell’uomo. Descrive, canta, fa cantare il cuore di ogni uomo ad un livello, con una profondità, con una bellezza e drammaticità che non c’è uomo che non lo senta corrispondente. Perché generazioni di studenti continuano e continueranno a leggerlo e ad amarlo? Per questa ragione! E si è voluto costruire ad ogni costo, letteralmente sotterrandolo, perché smettesse di gridare, sotto la lapide pesantissima del pessimista. Siccome è uno sfigato, non poteva che parlar male della vita, ma la ragione per cui parla male non è la denuncia del male di vivere, non è la denuncia della natura dell’uomo che sente drammaticamente l’assenza o la mancanza di Dio, no, è solo uno sfigato. Era malato, aveva la gobba, non ci vedeva, non aveva le donne. E i ragazzi ti dicono così, gli è rimasta in testa così, poi glielo leggi e questi alzano la testa e notano che è tutto il contrario.
Allora chi ha voluto attaccargli questa etichetta di pessimismo? Chi ha ritenuto che quelle domande dovessero essere negate non dalla poesia soltanto ma dall’uomo in quanto tale, identificandolo con la malattia o con l’immaturità. Domande che l’uomo moderno adoratore della ragione non era più legittimato a porsi, domande da adolescente. Si capisce tutto da questa descrizione: “Alle origini la cosiddetta filosofia di Leopardi è un movimento piuttosto affettivo che razionale. Una serie di proposizioni sentimentali per quanto travestite in termini di dottrina. Che cosa è infatti il pessimismo leopardiano se non la condizione psicologica dell’adolescente nell’istante in cui si affaccia all’esistenza reale e la viene scoprendo a poco a poco nei suoi aspetti duri, prosaici, di fronte ai quali si appanna e svanisce il fragile tessuto delle illusioni e dei sogni infantili. Si circoscrive fin quasi ad annullarsi il regno delle favolose speranze, del possente errore, degli ameni inganni. Ogni uomo, se pure in diversa misura, secondo il grado della sua sensibilità, passa ad un certo momento per questo stato psicologico. Conosce per prova questa delusione, questa frattura, questa pausa dolente e quasi sospensione del ritmo dell’esistenza. Senonché per la maggior parte degli uomini si tratta di un breve istante subito superato”. Ma voi un’idiozia così l’avete mai sentita? Che domandarsi il perché della vita e della morte, soffrire perché ti crepa la gente intorno, domandarsi della felicità e del bene e del male dovrebbe essere “un momento subito superato” perché è una crisi da adolescenti, perché sono domande da quattordicenni?
“La ferita si risana nel trapasso dall’adolescenza alla condizione adulta, in una accettazione serena della prosa in cui la vita si assesta e si definisce, uscendo fuori dall’indeterminata e ansiosa tensione della puerizia con l’assegnarsi al fine limiti certi e leggi certe e uno scopo preciso, una funzione ben circoscritta e modesta”. Cioè, io sarei al mondo perché mi viene quella cosa lì quando sono adolescente però poi se guarisco mi passa e da adulto mi scelgo “una funzione ben circoscritta e modesta”, dentro cui finalmente mi accontento. “Ma al Leopardi appunto questa soluzione fu preclusa. Le condizioni dell’ambiente, l’educazione ricevuta, gli avevano creato intorno un’atmosfera di solitudine, di astratto isolamento nell’istante in cui si spegneva nel suo animo la luce delle favole e delle speranze puerili. Gli faceva difetto il solido terreno di una concreta esperienza di vita, di rapporti umani, di doveri sociali, di lavoro. La disperazione dell’adolescente che si affaccia alla vita, che non conosce ancora e che egli solo si immagina confusamente come una serie di tediose fatiche, di sofferenze prosaiche, di inutili miserie. Questa disperazione divenne per lui una condizione durevole, costante, cui non doveva mai sottentrare il beneficio della rassegnazione e cioè della tranquilla accettazione della realtà con il suo orizzonte limitato ma vero e non solamente sognato, di affetti e di opere”.
È la pagina introduttiva a Leopardi di Natalino Sapegno, cioè lo storico della letteratura italiana su cui hanno studiato tutti gli italiani, ma soprattutto i critici. Allora se la scuola di pensiero che ha fatto l’Italia e gli italiani è questa, voi capite che abbiamo patito una avversione culturale all’uomo in quanto tale. Perché perfino per gli antichi pagani paganissimi che scrivevano sull’architrave del tempio “uomo conosci te stesso” valeva che la grandezza dell’uomo è queste domande! No, la critica moderna, italiana, i grandi maestri del pensiero l’hanno relegato e intombato, sepolto con l’etichetta di pessimismo. Un adolescente non cresciuto a cui le condizioni della vita non hanno consentito di passare veramente all’età adulta che sarebbe caratterizzata dalla rassegnazione. Vi rendete conto? Per fortuna, siccome i ragazzi e i giovani ragionano più con il cuore che con la testa, nonostante di Leopardi all’interrogazione ti dicano le solite fasi del pessimismo, alla domanda “ma ti piace Leopardi?” ti rispondono “sì, non so perché, ma mi piace!” Al di là delle etichette per fortuna vince il cuore, vince quella corrispondenza di cuore che con Leopardi, almeno per un momento, scatta sempre.
Quindi chiariamo subito il concetto, poi proviamo a leggere qualcosa. Vero è che Leopardi ha sofferto e ha patito condizioni particolarmente dure, fisiche, familiari. Ma dire che quelle sono le cause della sua poesia è una menzogna. Per quello che sappiamo tutti benissimo: che quel che accade non determina automaticamente un certo sentimento della vita. È una scelta della libertà, è una scelta della maturità, è una virtù stare alle circostanze e cavarne per esempio una nuova bellezza, una nuova saggezza, un nuovo amore. Non è automatico né detto come ultima parola che dalla sofferenza venga la disperazione. Sappiamo tutti che può essere il contrario: che la sofferenza e il dolore siano, come dice “Il Profeta” di Gibran “il rompersi del guscio che racchiude la nostra intelligenza”. Voglio dire, se mi fate l’elenco delle sfortune di Leopardi ci sto, ma se mi dite che perciò non poteva che parlar male della vita dico assolutamente no. Primo perché non ne parla male, secondo perché riuscire a dire, a partire da una sofferenza vissuta, quel che lui dice è la sua grandezza, è il suo merito. Quindi, se proprio vogliamo identificare o motivare il nesso tra la sua biografia e le sue poesie dobbiamo parlare non di causa ma di occasione, di circostanza. La sofferenza diventa per Leopardi l’occasione per una riflessione così acuta, così profonda sul mistero dell’uomo da potergli far dire certe cose. Poteva essere un disperato e basta, come ognuno di noi. Come ognuno di noi davanti al male e al bene reagisce camminando, retrocedendo, disperandosi o edificandosi e fortificandosi. E se vale per ciascuno di noi non doveva valere per lui? No, era sfigato, quindi ha parlato male della vita, quindi è un pessimista e poi ci hanno fatto addirittura una teoria: pessimismo storico prima, cosmico dopo…
Invece è un poeta che ha saputo dire dell’uomo la verità come solo Dante aveva saputo fare, mettiamola così.
Vi accennerei a tre poesie che leggo velocemente solo per godercele insieme.
Vi leggo prima un pensiero che forse ho già avuto occasione di citare ma è così bello che vale la pena comunque, è il famoso Pensiero LXVIII, dove Leopardi definisce la noia, che non è quella che abbiamo in mente noi. Leopardi definisce noia questa cosa meravigliosa, la capacità che l’uomo ha di non accontentarsi perché vorrebbe essere contento e stabilisce una distinzione tra le due cose. Come funziona l’uomo per Leopardi? Funziona che quando viene al mondo, apre gli occhi e vede la realtà che in ogni suo particolare lo attira, promettendogli la felicità (è proprio identica alla piramide del desiderio di Dante, anche come termini), solo che quando arriva a possedere quel pezzo di realtà che tanto ha desiderato e tanto lo ha attirato e tanta felicità gli ha promesso, scopre che quel pezzo di realtà non lo fa felice. E allora si fissa un oggetto più grande, e poi più grande e poi più grande ancora, senza mai trovare un oggetto adeguato alla sete infinita di felicità che lo muove. La noia è il sentimento certo di questa sproporzione tra il desiderio e la capacità di soddisfarlo da parte dell’oggetto che pure lo ha suscitato.
“La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana”.
Il maggior segno di grandezza e nobiltà sarebbe patire mancamento e vuoto, cioè accorgersi di essere bisognosi. Don Giussani nel 1998 davanti a Papa Giovanni Paolo II gridò “il vero protagonista della storia è il cuore dell’uomo mendicante di Cristo e Cristo mendicante dell’uomo”. La lealtà suprema con cui quest’uomo, nelle condizioni in cui è, negata dal punto di vista razionale ogni fede, riesce a dire la verità, riesce a dire che cos’è l’uomo: bisogno, mendicanza dell’assoluto. Perché niente di ciò che esperisce sulla terra corrisponde a tanto bisogno, corrisponde alla sete di infinito e di eterno. Basta leggere “L’infinito”. L’infinito e l’eterno sono ciò per cui siamo venuti al mondo, per meno non si può vivere.
Riprendiamo il testo sulla piramide del desiderio di Dante:
E la ragione è questa: che lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima dalla natura dato, è lo ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé (sì come è scritto: “Facciamo l’uomo ad imagine e simiglianza nostra”), essa anima massimamente desidera di tornare a quello.
E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l’albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza all’altra, e così di casa in casa, tanto che all’albergo viene; così l’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso.
E perché la sua conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre.
Per che vedere si può che l’uno desiderabile sta dinanzi all’altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che ‘l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile, che è Dio.
Questo è Dante, ma è la stessa cosa che dice Leopardi in quel pensiero: la grandezza dell’uomo è desiderare l’infinito.
Volevo leggervi l’altro mio cavallo di battaglia che è “Al Conte Carlo Pepoli”, solitamente non lo conosce nessuno. Ho salvato generazioni di studenti che si sono presentati alla maturità con questa poesia prendendo in castagna il professore. Poesia scritta in occasione del compleanno di un collega conte lì vicino che Leopardi gli ha portato proprio come regalo declamandola durante la festa. Quindi carme epistolare, in forma di lettera.
Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita,
Se la vita dell’uomo o non ha un obiettivo degno dell’attesa che vive, o quell’obiettivo, posto che ci sia, è irraggiungibile, allora tutto il nostro darci da fare, lavorare, faticare, sbattersi tutto il giorno, è tutto tempo buttato via. Ozio nel senso di tempo sprecato. E si permette di passare in rassegna le professioni degli uomini prima di tutto quella del contadino che si spacca la schiena dalla mattina alla sera dicendo “è ozio”.
(…) La schiera industre Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l’alba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita È per campar la vita, e per se sola La vita all’uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai.
Se si tratta di tirare a campare, diciamoci la verità, la vita non vale la pena.
Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne Sudar nelle officine, ozio le vegghie Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Che non a se, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Perché Leopardi ha il coraggio di dire: “ragazzi, lo so che lavorate e faticate ma guardate che è tutto tempo buttato via, perché per tanta fatica che fai la bella felicità, unico oggetto degno dell’uomo, non viene conquistata”.
Pure all’aspro desire onde i mortali Già sempre infin dal dì che il mondo nacque D’esser beati sospiraro indarno,
Da sempre, dal primo uomo, il respiro dell’uomo è stato attesa di beatitudine, di felicità, ma è un desiderio inutile, mai soddisfatto. Allora la natura cosa ha fatto? Ci ha riempito la giornata di cose da fare, così almeno il tempo, la giornata, passasse piena di cose e ci dimenticassimo di quel desiderio che portiamo nel cuore, a furia di far cose.
Di medicina in loco apparecchiate Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opra e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All’umana famiglia;
E così le nostre giornate, non potendo essere felici fossero almeno piene di cose da fare.
onde agitato E confuso il desio, men loco avesse Al travagliarne il cor.
Così il desiderio, agitato e confuso, che pensa di acquietarsi con i soldi o con la donna o con una bevuta, potesse farci travagliare meno.
(…) Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar la vita: improba, invitta Necessità, cui non tesoro accolto, Non di greggi dovizia, o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Sottrar l’umana prole.
Noi invece, che non dobbiamo nemmeno lavorare, sappiamo bene che la necessità vera della vita è vivere, è vivere con un senso. E perciò senza senso, una necessità portata con pena e con dolore ché né i soldi, né le case, né il potere, niente di queste cose, neanche i libri, la saggezza possono alleviare. E sentite cosa dice dei giovani.
(…) Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti Sale, e le piazze romorose, e gli orti, Lui giochi e cene e invidiate danze Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto, Nell’imo petto, grave, salda, immota Come colonna adamantina, siede Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla Dolce parola di rosato labbro, E non lo sguardo tenero, tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale.
Di tutte le cose belle che nella vita ti possono accadere la più bella è di innamorarti e di essere amato, sappi che neppure quel carissimo sguardo vale a sconfiggere questa noia, ci vuole di più.
Altri, quasi a fuggir volto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi L’età spendendo, e mari e poggi errando, Tutto l’orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all’uom negl’infiniti Campi del tutto la natura aperse, Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside Su l’alte prue la negra cura, e sotto Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno Felicità, vive tristezza e regna.
Se tu pensi che cambiare le circostanze e andare a fare il felice dall’altra parte del mondo serva, sappi che la noia ce l’hai sulla nave, te la porti con te, ti seguirà sempre. è un problema dentro, non fuori.
Havvi chi le crudeli opre di marte Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno Sangue la man tinge per ozio; ed havvi Chi d’altrui danni si conforta, e pensa Con far misero altrui far se men tristo, Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
Gente che fa del male per vincere la noia, che pensa di poter essere un po’ più felice se fa del male a qualcuno. Per ammazzare il tempo letteralmente.
Alla fine dice questo, che per trent’anni, a tutti i miei alunni, quando ho regalato un libro, ho messo come dedica e augurio.
(…) Ben mille volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger d’anni;
Fortunato chi invecchiando non perde questa fragile virtù dell’immaginare in grande, del desiderare tanto. Beato chi riesce a rimanere giovane, bambino.
a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, Così come solea nell’età verde,
Perché uno così sia da vecchio ma, prima ancora, da uomo maturo, così come faceva da bambino
In suo chiuso pensier natura abbella, Morte, deserto avviva.
È capace di vedere la bellezza delle cose, della realtà. E poi dice: uno così vince la morte. Non so cosa aveva in mente, cosa gli ha fatto scrivere.
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfodnimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola, famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/11/2017)
Banchi disposti frontalmente, lavagne e gessetti, classi, sono ormai scomparsi dalla catechesi. È emerso invece un nuovo “oggetto “scolastico: il “quaderno attivo”. Esso sembra essere oggi un must, mentre invece è il simbolo della catechesi ad impostazione scolastica.
Anche diverse case editrici che insistono apparentemente da anni sull’abbandono di una visione scolastica della catechesi esigono che si elabori un “quaderno attivo”, se si propone un itinerario di iniziazione cristiana, pena il rifiuto del progetto stesso senza la produzione di tale “quaderno”. Io stesso ho potuto sperimentare tale rifiuto: “O c’è un quaderno attivo o l’itinerario di iniziazione cristiana non può essere pubblicato”.
Il quaderno attivo prevede domande scritte con spazi per le risposte, quiz a risposta multipla, cruciverba, parole da completare, puntini da unire, disegni da colorare.
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Islam e Laicità e diritti umani.
Il Centro culturale Gli scritti (19/11/2017)
Nel rapporto conflittuale che esiste tra islamismo e laicismo l’esperienza italiana può e deve giocare un ruolo che ad altri è più difficile assumere.
Agli islamisti la cultura italiana può e deve ricordare che la vera religione accoglie la laicità e anzi la promuove. Su Dio e sulla religione la nostra tradizione insegna agli islamisti il valore della libera ricerca religiosa, l’importanza di poter discutere sui fondamenti della religione e sui suoi testi, la dignità della donna che deve essere libera nelle amicizie anche maschili per crescere nella cultura e negli studi teologici.
Nel rapporto con il cristianesimo la nostra storia ha imparato a non temere di discutere apertamente di religione, criticando, ove necessario, la storicità dei testi sacri. La nostra storia insegna che dove non esistesse libertà di cambiare religione, Dio non potrebbe che essere temuto: la coercizione in materia religiosa renderebbe la società chiusa, ottusa, incapace di vera ricerca e di vero amore.
Ai laicisti, invece, la storia italiana insegna che la fede non è una subcultura di cui sospettare a priori, bensì che una vera laicità ama discutere di religione e rispetta profondamente chiunque crede, permettendogli di esprimere in pubblico le propri opinioni, pronti addirittura a morire purché egli possa sempre e comunque professare le sue convinzioni, fossero anche sbagliate.
La lunga consuetudine della laicità con la fede ha insegnato al paese che se il pensiero offendesse la religione e i credenti, cesserebbe ipso facto di essere veramente laico, divenendo intollerante e castrante.
Esiste, insomma, una via italiana che sa apprezzare insieme sia la laicità che la religione. Esiste una via italiana che ha stima di ogni fede che apprezzi la laicità e di ogni laicità che apprezzi la religione.
Islamisti e laicisti, invece, sono intolleranti o per rifiuto della laicità o per rifiuto della religione. In questo modo essi si dimostrano incapaci di convivere in un modo inter-culturale e plurale, desiderando la “scomunica” o della laicità o della religione.
Riprendiamo dal Corriere della Sera del 17/11/2017 un’intervista di Rinaldo Frignani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione e scuola.
Il Centro culturale Gli scritti (19/11/2017)
In un mese è successo di tutto: il crollo di un soffitto del Cinquecento, un’occupazione con rave party, un video hard fra studenti postato sui social, bombe carta lanciate durante la ricreazione. Adesso anche la cocaina consumata a scuola. Non c’è pace per il Virgilio, il liceo classico di via Giulia dove l’anno scorso i carabinieri sono entrati per arrestare uno studente spacciatore. Dal primo settembre c’è una nuova dirigente scolastica, Carla Alfano. Oggi rivela senza mezzi termini l’esistenza di un «clima mafioso e intimidatorio all’interno della scuola da parte di un gruppetto di studenti. Con i genitori che li spalleggiano».
Preside, cosa succede?
«Che il 2016 aveva illuso tutti. Dopo la batosta data dai carabinieri, la situazione si era tranquillizzata, ma è durata poco. Prof, segretarie e collaboratori mi dicono che qui è così da anni».
Il clima mafioso?
«Sì, le bombe dei giorni scorsi ne sono un esempio. Come scagliare il pallone con violenza contro altri studenti o fumare in faccia agli insegnanti. Significa: comandiamo noi, controlliamo il territorio».
A chi si riferisce?
«Al fantomatico Collettivo. Ragazzi con i quali il rapporto non è mai cominciato. E pensare che in assemblea, dopo il crollo del tetto, avevo cercato di stimolarli affinché il Virgilio diventasse una guida per gli altri licei nelle rivendicazioni sulla sicurezza».
E come è finita?
«Che non se n’è parlato più. C’è stata l’occupazione, un’iniziativa anormale, strumentalizzata. Una gazzarra: sesso, droga e alcol, altro che impegno politico. Questi qui non sanno nemmeno cosa sia. Sono una minoranza di soggetti che comanda su una maggioranza silenziosa, fin troppo silenziosa».
Sono accuse pesanti.
«La verità è che in ogni classe ci sono loro rappresentanti. È come un vivaio: all’occupazione c’erano ex alunni di 22-23 anni. Adesso però ce ne sono anche di 14 anni. Hanno un atteggiamento di sfida, intimidiscono compagni e adulti. Senza parolacce, perché comunque vengono da famiglie della Roma bene. Sono subdoli e hanno trasformato questa scuola in un porto franco. Ma questa è una scuola pubblica, mica una lobby di studenti e genitori!».
Abbiamo visto che circola droga.
«E tanta. Quando convochiamo padri e madri ci rispondono che gli spinelli servono per calmare i figli, che se consumano stupefacenti a scuola, in fondo non sono preoccupati, perché meglio in classe che per strada. Qualcuno è anche arrivato a rispondermi: “Vuol dire che qui c’è roba buona”».
Ma i prof non reagiscono?
«Alcuni hanno un altissimo profilo culturale, ma sono impauriti. Altri invece affrontano i provocatori, intervengono, rimproverano, mettono note sul registro. Ma è una lotta impari: ci sono genitori che gliele fanno togliere o che ricorrono al Tar contro le bocciature. E vincono. Ma c’è di più: ho il sospetto che ragazzi poco meritevoli ottengano voti alti in condotta. D’ora in poi controllerò di più...».
Si è rivolta alla Procura?
«Ho sempre denunciato quello che accade qui dentro. L’occupazione dell’edificio con effrazione, i danneggiamenti, adesso le bombe carta. Che i genitori minimizzano: vogliono farle passare per petardi. Sono come i loro figli, che manipolano qualsiasi episodio. Prima il crollo, adesso quel video. L’altro giorno qualcuno ha premuto in contemporanea cinque pulsanti d’allarme antincendio costringendoci a far evacuare la scuola. E non era uno scherzo».
Non le viene già voglia di mollare?
«Guardi, non ne posso più di mettere i migliori prof a pattugliare il cortile a ricreazione, né di perdere mesi di insegnamento fra proteste, denunce e dispetti. A volte vorrei andare a insegnare in periferia o nelle scuole dove ci sono i figli dei camorristi. Almeno lì saprei con chi ho a che fare».
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (19/11/2017)
Il virtuale è reale. Conosco moltissime persone che hanno ritrovato amori di gioventù o vecchie amicizie grazie a Facebook. Così è vero che chi utilizza il web per formare le persone, le forma realmente, offre loro veramente occasioni culturali ed esse crescono.
Per questo è profondamente sbagliato pensare che il virtuale sia solo virtuale: il virtuale è reale, ha a che fare con la vita reale delle persone. Il problema è un altro: è che è un tipo di “reale” diverso dal “reale” del bacio, dello sguardo, dell’abbraccio, del sapore del cibo, dell’odore di Eau Sauvage e della fatica del contatto senza distrazioni e del coinvolgimento costante che si vive in una famiglia, gomito a gomito, senza vie di uscita, nella piena complicità (anche alcuni rapporti reali non coinvolgenti possono essere in realtà molto “virtuali”, alcuni/e amanti sono in realtà “virtuali” perché non ti coinvolgono pienamente, corpo e anima).
Per questo il web è reale se accompagnato alla vita reale di cui diviene strumento e aiuto, ma non sostitutivo.
Il dramma è che il web ha il potere di illudere di essere “il” reale, sganciando da quel reale che solo rende poi “reale” anche il contatto web. Il web, insomma, può farsi idolo, divinità, e pretendere di essere il “reale” tout court, distogliendo dal “reale” integrale, che è sia incontro emozionante, sia routine: è l’uno e l’altro.
Il potere di seduzione del “virtuale” è quello datogli dalla sua capacità di attrarre sempre più energie, sempre più tempo, al punto che si possono passare ore ed ore con esso, accumulando stanchezza e divenendo inabili all’incontro.
La maturità di una persona appare dall’equilibrio del tempo che passa nell’incontro reale con le persone, con i libri, con la storia ed il creato, con la preghiera e, dall’altra, da quello che dedica al web, allo smartphone, a Facebook e ad Instagram, per comunicare con le stesse persone reali con cui vive. La maturità emerge nella capacità di distaccarsi dalle connessioni per rivolgersi da solo a solo ad una persona, ad una comunità, a Dio.
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Dialogo fra le religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (19/11/2017)
Una delle immagini elaborate in ambienti anti-clericali a dire che tutte le religioni monoteiste sarebbero violente.
È vero che l’appartenenza religiosa dipende molto dall’ambiente. Molti sono atei semplicemente perché non hanno mai potuto incontrare una comunità cristiana viva o un bravo professore cristiano a scuola o un prete in gamba e sono sempre vissuti in ambienti anti-clericali.
Riprendiamo da La Repubblica del 10/11/2017 un articolo di Andrea Tarquini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Sessualità e gender e Le nuove schiavitù.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
L'attrice svedese Lena Endre
SONO IN TANTE, sono in 456, con il loro grido scuotono la Svezia. Sono tutte attrici di teatro, dell'Opera reale o del cinema. In una lettera aperta, diffusa anche con #metoo, hanno denunciato anni di abusi sessuali e molestie da parte di registi e superiori. È accaduto in Svezia, da ieri sera era la notizia d’apertura della radio pubblica e dei siti. Denunciano quanto hanno subito, e invitano la società a ribellarsi alla “cultura del silenzio”. Denunciano anche “la cultura del mito dell’artista geniale”, che fin dai tempi del bravissimo ma arrogante e autoritario Ingmar Bergman, spinge società, media, politici a tollerare vizi o cattive abitudini dei grandi o presunti grandi dello spettacolo e della cultura. Almeno in due casi, si parla di stupro compiuto.
La lettera aperta delle 456 vittime offre passi agghiaccianti. “Un collega ubriaco mi ha aggredito dopo la fine della rappresentazione di una pièce al teatro nazionale”, “un collega con cui dovevo girare una scena di sesso, in un film cui ho lavorato mentre appena madre allattavo, mi palpeggiava i seni fino a farmi sgorgare il latte, e premeva contro di me il suo membro in erezione”. O ancora: “Un collega che nella pièce teatrale aveva il ruolo di mio padre ha cercato di impormi di baciarlo sulla bocca lingua a lingua”, “un regista non cessava mai di palpeggiarmi violentemente il seno”. Finché gente simile è coperta dall’aureola del valore artistico del loro lavoro, dice ancora il documento, si sente coperta dall’impunità, “attori e registi resi celebri e stimati come geni della professione sono tollerati, qualsiasi cosa facciano subire alle loro colleghe”. Tra le firmatarie della lettera aperta ci sono Lena Endre, protagonista di film derivati da Millennium (la serie di libri gialli del compianto Stieg Larsson) e Sofia Helin, attrice cinematografica e teatrale, o Ruth Vega Fernandez. Il quotidiano Svenska Dagbladet, uno dei maggiori del paese, ha pubblicato il testo integrale della lettera aperta.
Lo shock contagia virale società e mondo politico. Il primo ministro socialdemocratico svedese, Stefan Löfvén, ha condannato gli abusi contro le 456 vittime. “Sono scioccato, sono testimonianze di comportamenti orribili, e terrorizza la quantità delle denunce, la quantità degli abusi e delle violenze”, ha dichiarato. La ministra della Cultura, Alice Bah Kuhnke, ha convocato per lunedí prossimo per un vertice d’emergenza i responsabili dei maggiori teatri nazionali, dal Teatro drammatico di cui Bergman fu direttore al Teatro nazionale all’Opera reale. L’istituto svedese del cinema ha deciso di creare una "green card", una patente di correttezza, che impegni produttori e attori ad astenersi da ogni molestia, con sanzioni penali per chi viola la norma. Il gravissino scandalo è tanto piú traumatico per la Svezia, paese all’avanguardia nel mondo per le pari opportunità, il rispetto verso le donne e il loro ruolo pubblico, e per la lotta a ogni abuso sessuale.
Riprendiamo dal sito della Fraternità San Carlo Borromeo un articolo di Vincent Nagle pubblicato nel maggio 2017 (http://sancarlo.org/preferire-la-realta/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
La ragazza di tredici anni mi descrive il viaggio a Roma della sua scuola. “Mi piacevano le notti in albergo” dice. “Perché?”. “Perché ci avevano tolto i telefonini e perciò parlavamo. Era molto bello”. Rimango senza parole: non sono preparato alla totale scomparsa della conversazione nelle abitudini della generazione cui appartiene la ragazzina.
Una mamma mi racconta come, nel tentativo disperato di staccare il figlio dai videogiochi, si fosse seduta vicino a lui e gli avesse chiesto di insegnarle a giocare. Dopo un’ora, il figlio le aveva detto: “Vedi, mamma, devi imparare a fare questi giochi perché, una volta che cominci, non ti senti più sola”. Solo davanti a queste parole, lei aveva capito quanto fosse profondo l’attaccamento affettivo del figlio al mondo virtuale.
È evidente a tutti come la rivoluzione digitale nei mezzi di comunicazione stia cambiando profondamente il rapporto di tante persone con la realtà, ma soprattutto stia trasformando lo sguardo dei giovani sul mondo. Quanti genitori mi confessano il dolore per un figlio di 25, 30 anni, che vive in un suo mondo virtuale! Magari lavora, magari no, ma non desidera uscire dal guscio e reagisce male, se provocato su questo fronte.
Che cosa possiamo dire? Come giudicare, rispondere, reagire? La prima cosa che dobbiamo prendere in considerazione è la coscienza di non avere capito molto del significato e delle conseguenze di questi nuovi mezzi di comunicazione. Siamo solo agli inizi: credo che stiano arrivando prove ancora più impegnative.
Per capire quello che accade, mi è d’aiuto il paragone tra i cambiamenti che i mezzi di comunicazione stanno subendo oggi con la rivoluzione che l’invenzione della stampa introdusse nella cultura occidentale. Prima di Gutenberg, chiunque volesse approfondire la conoscenza del pensiero degli antichi era costretto ad entrare in una comunità che conservava i preziosi testi del passato. Prima del cristianesimo, c’erano le scuole filosofiche i cui addetti vestivano un abito particolare come segno della loro appartenenza a un gruppo dedicato alla crescita della conoscenza e della sapienza. Con il cristianesimo, nacquero i monasteri: anche in questo caso, l’abito della comunità era un segno di appartenenza, diceva della loro dedizione alla crescita nella santità, nella conoscenza e nella sapienza. Per il popolo cristiano, era naturale associare la crescita in sapienza e santità con l’appartenere ad una comunità e ad una vita di obbedienza.
Con la stampa, il costo delle pagine scritte diminuì drasticamente. In tanti potevano possedere e leggere un libro. Il primo successo di stampa fu la Bibbia di Gutenberg. Un secolo dopo, Martin Lutero poté utilizzare questo strumento per diffondere la sua fatale intuizione: per crescere in santità e conoscenza, era sufficiente alla persona il libro e lo Spirito Santo o, come scrisse,“sola scriptura”. Non era più necessaria l’appartenenza ad altri. Fu una rivoluzione che spaccò la cristianità e le certezze su cui era stata edificata la civiltà. Arrivarono pensatori che, come Cartesio, cercarono di dare nuovi fondamenti alle certezze e ideologie che si diffusero attraverso i libri, come quella di Karl Marx.
È facile oggi dire che le conseguenze dell’invenzione della stampa furono imprevedibili e profonde. Basta guardare alla storia moderna, al passato. Allo stesso tempo, chi mai direbbe che il libro è un male per la società? Nessuno, neanche io! Ma ci sono voluti almeno trecento anni per comprendere la portata di questi fatti. Adesso siamo in una fase analoga. E dobbiamo aiutarci a giudicare insieme questi grandi cambiamenti. Quando nacque mia nonna, non c’erano la radio né l’aereo. E adesso noi portiamo in tasca uno strumento che può mostrarci qualunque libro sia mai stato scritto, qualunque immagine sia stata creata, qualunque informazione raccolta. Non solo, può metterci in contatto immediato con quasi qualunque persona, o gruppo di persone, sulla faccia della terra.
Forse per crescere non abbiamo più tanto bisogno di un rapporto diretto con le persone; forse non ci serve poi così tanto un rapporto diretto con la stessa realtà. Dopo tutto, ciò che possiamo conoscere direttamente è limitato e parziale, può farci del male. Davanti ai cambiamenti epocali cui assistiamo, una sfida ci attende come persone e come educatori: perché preferire la realtà al nostro guscio? Perché scegliere ancora una volta il contatto diretto con persone che magari sono capaci di contraddirci nei nostri pensieri, sentimenti, idee e piaceri?
Una volta ho posto questa domanda a un gruppo di trecento studenti di scuola media, parlando loro del “Turing Test”, una prova suggerita dal genio matematico inglese, padre dell’intelligenza artificiale, Alan Turing. Si invitava qualcuno a interagire con uno schermo che aveva dietro una persona oppure un computer. Secondo Turing, si comincia a parlare di intelligenza artificiale quando una persona adulta non riesce a cogliere alcuna differenza. Qualche anno fa, questo accadde. “Allora, ragazzi” ho detto agli studenti, “se non si può distinguere fra persone e macchine, non sarebbe meglio avere in casa un robot invece della mamma?”. Uno di loro mi ha risposto: “No, perché la mamma mi vuole bene”. “Ma se anche la macchina ci volesse bene” ho continuato, “e oltre a questo facesse tutto perfettamente, senza stancarsi, senza essere ingiusta, senza lamentarsi mai, se sapesse la risposta a tutte le tue domande e avesse sempre tempo per te? Perché preferire la mamma alla macchina?”. “Perché la mamma mi corregge, mi riprende e mi fa crescere” ha risposto una ragazzina. Giusto! La mamma non ama il tuo conforto, ma la tua vita. Ti farà anche soffrire per farti vivere di più.
Ecco perché preferire la realtà, sempre. Solo dalla realtà viene la vita, e anche la sofferenza, spesso ingiusta, che della realtà fa parte. Chi vuole vivere vuole crescere, e chi vuole crescere accetta di soffrire, anche ingiustamente. La nostra risposta alle nuove tecnologie sta qui: questa preferenza per la realtà nasce dalla nostra preferenza per la vita.
Riprendiamo da la Gazzetta di Parma dell’1/11/2017 un articolo di Patrizia Ginepri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Bambini.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
La nostra vita non si basa più sul ritmo dettato dalla natura e dalle tradizioni. Viviamo una sorta di eterna stagione senza nome, che ingloba in sé tutto l’anno. Dico questo perché mi sono chiesta che significato abbia celebrare feste, come Halloween, che non hanno un senso temporale.
Le tradizioni, anche agli inizi di novembre, si stanno perdendo, sostituite da usanze svuotate di contenuti: feste e serate carnevalesche in modalità horror, cioccolatini con su l’effigie della zucca, identici a quelli smerciati a San Valentino e poi alla festa della mamma, del papà, della donna e di chicchessia.
Una volta era il «ponte» dei morti. Da molti anni a questa parte è Halloween. Una volta c'erano i giocattoli per i più piccoli, che la tradizione voleva lasciati in dono dai cari defunti, oggi siamo passati a «dolcetto o scherzetto», zucche intagliate e travestimenti mostruosi.
Evoluzione della specie e delle commemorazioni, che nel corso dei decenni hanno subito influenze anche lontane come, in questo caso, di origine celtica.
Un tempo ai bambini si insegnava il rispetto dei cari estinti. Le giornate dell'1 e 2 novembre rappresentavano un'occasione per educare alla memoria e al senso dell’identità familiare. Il rito della visita al camposanto assumeva un valore simbolico che permetteva di rompere anche la soglia della paura dell'aldilà.
Anticamente, addirittura, si mangiava sulla tomba o nella cappella di famiglia, tradizione in seguito proibita da un editto papale, ma tuttora viva in alcuni paesi della Calabria e della Sicilia centrale. Nei piccoli paesi, l'aria era pervasa dai profumi provenienti dalle bancarelle colme di dolci tipici, a cominciare dalle ossa dei morti, i biscotti di pasta frolla e glassa. Cosa è rimasto oggi di queste tradizioni legate a un momento preciso della vita di ogni anno?
Ricordo queste festività quando ero ragazzina. Il 2 novembre non si andava a scuola. Infilavo cappotto, cuffia e guanti e con i miei genitori mi recavo al cimitero. Si sceglievano con cura i fiori da deporre sulle tombe dei nostri cari, si lucidavano pomelli e marmi, si pregava. Ricordo la nebbia, che cancellava i contorni di tetti e alberi, il freddo pungente, le nuvole di fiato, l'incontro con i parenti. Riti pagani, sepolcri come mercati, direte voi. Meglio un sabba di streghe e magari qualche simpatico zombie.
Ieri ho visto alcuni bambini giocare all’interno di un cortile, tutti mascherati, con cappelli da strega ali di pipistrello, volti truccati a simulare un pallore cadaverico, denti da vampiro in bella vista. L'idea che in questi giorni si rende omaggio ai defunti non era all'ordine del giorno, mi è parso di capire. E probabilmente nessuno ha mai raccontato loro che il peregrinare da un camposanto all'altro è un modo per ricordare affetti importanti, in un giorno speciale, alla ricerca di una sensazione di pace, di compiuto, di effimero conforto.
Reminiscenze lontane, completamente sconosciute alle giovani generazioni. Che dire, perfino la temperatura non è più quella di una volta: bastano un blazer, un paio di occhiali da sole, una granita e la festa può cominciare.
Riprendiamo da Avvenire del 3/1/2017 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Ogni pontificato ha un proprio carattere e segna la storia della Chiesa nel suo rapporto con la società. Il pontificato di Paolo VI, che verrà ricordato quest’anno per il 50° anniversario della Populorum progressio, è quello che più ha aperto l’orizzonte dell’universalità della Chiesa nell’epoca dei diritti umani e della globalizzazione. Il testo pubblicato per le edizioni Marietti, e curato da Giovanni Maria Vian, Giovanni Battista Montini. Un uomo come voi, presenta testi scritti direttamente da Montini, quasi a sottolineare l’impronta anche personale e psicologica dell’autore.
Essi riflettono la tensione tra l’umanità di Montini e il suo guardare in alto, alla dimensione spirituale, alla Chiesa, alla storia dell’umanità. Anche per questo, proclamandolo beato nel 2014, papa Francesco ha reso grazie per la sua «profetica testimonianza». Scrivendo a 17 anni al compagno di classe Andrea Trebeschi, morto nel campo di Mathausen nel 1945, Giovanni Battista Montini esprime l’ideale che lo sta catturando, perché «la mia vita passerà rivolta in alto», mentre a conclusione del primo conflitto mondiale scrive al fratello Lodovico che è «una conseguenza logica della nostra fede quella di credere nel significato degli eventi». La ricerca di senso della storia lo accompagna sempre: quando muore Benedetto XV, il giovane Montini riflette su quella «umanità che non sa di vivere se non quando muore» e invece è chiamata dalla speranza cristiana a un traguardo nuovo, per il quale non si muore più davvero, si è «destinati a una vita immensamente più intensa» nella paternità di Dio. Quest’orizzonte giovanile si coniuga nel sacerdozio con l’opera di Paolo di Tarso, alla quale dedica sette articoli nel 1931 sulla rivista 'Studium'.
Di san Paolo coglie l’invito a evangelizzare tenendo conto delle condizioni di ciascun popolo, perché la «larghezza del campo da conquistare consente anche una certa larghezza di metodi apostolici», cioè «quel tale adattamento, nel linguaggio e nelle forme di presentare la verità della fede», giungendo a «valorizzare perfino la religiosità pagana per farla sboccare nella religione cristiana». È un’anticipazione d’interculturalità, che chiede di «conservare il tessuto etico-psicologico corrispondente alla morale naturale e alle profonde tendenze religiose dell’ambiente, per inserirvi (con la 'naturalezza' cara a Blondel) il soprannaturale». Di qui la sorprendente conclusione di Montini, che definisce la visione paolina «una visione ottimistica, praticamente larga e liberale del mondo, derivata dal criterio di misericordia che il cristianesimo instaura per guarirlo». L’universalismo è una costante nella vita di Montini, e diviene la base programmatica del suo pontificato. Già nel 1957, prepara la Missione di Milano con una riflessione su coloro che sono lontani.
E formula domande scomode: «Quando si avvicina un lontano, non si può non sentire un certo rimorso. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. Perché non è stato abbastanza curato, istruito, introdotto nella gioia della fede». I lontani, «sono spesso più esigenti che cattivi. Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite. Ebbene, se così è, fratelli lontani perdonateci».
E il primo pensiero di Paolo VI come pontefice, è di attuare un programma che universalizzi l’azione della Chiesa per portarla fino ai confini della terra, seguendo i tre cerchi concentrici di cui parla nell’enciclica Ecclesiam Suam del 1964. Il primo cerchio è proprio quello di chi non riconosce Dio, ed è tanto grande che non se ne vedono i confini perché questi si confondono con l’umanità intera e riguarda anche coloro che non credono, ma che spesso aspirano all’infinito, lo anelano, anche con passione e tensione interiore. Il secondo cerchio, è quello degli uomini innanzitutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo. Il terzo, infine, è quello «del mondo che a Cristo s’intitola», cioè di coloro che si riconoscono nella fede cristiana, anche se professata in Chiese e comunità cristiane separate. Quest’ansia di parlare a tutti porta a gesti nuovi, ad esempio a incontrare gli artisti, ai quali dice: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione».
Perché «il nostro ministero è quello di rendere accessibile comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligenti, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola di colori, di forme , di accessibilità». E aggiunge con sincerità e sensibilità sue proprie: noi «siamo sempre stati amici. Ma come avviene tra parenti, tra amici, ci si è un po’ guastati. Ci permettere una parola franca? Voi ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose, ma non più le nostre».
E per essere ardito, conclude, «riconosciamo che anche noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare (…), vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità»; «vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci!».
Infine, l’universalità della storia, la storia d’Italia e quella dei popoli, suggerisce a Paolo VI parole e gesti bellissimi. Già nel 1962, ancora cardinale, parla in Campidoglio alla vigilia del Concilio Vaticano II, ed evoca la fine del potere temporale e l’unità d’Italia avvolgendoli nei disegni della Provvidenza, perché nel 1870 questa ha disposto diversamente rispetto ai voleri degli uomini, e ha «quasi drammaticamente giocato negli avvenimenti»: «il Papa che usciva glorioso dal Concilio Vaticano per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà spirituali nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma».
Eppure, aggiunge, proprio allora il papato, liberato delle potestà temporali, raggiunse un’altezza nel governo spirituale della Chiesa nell’irradiazione morale nel mondo, come mai era accaduto prima. E nel 1964, parlando al Quirinale con un discorso che non è contenuto nel libro, riassume il rapporto tra papato e storia d’Italia: «Noi vogliamo bene, un bene spirituale, tutto pastorale, oltre che naturale a questo magnifico e travagliato Paese; (e) non dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione universale la sua coscienza romana e i suoi figli migliori».
Quell’educazione a civiltà, gentilezza e virtù, costituisce una sintesi storica inarrivabile, scaturita dalla mente e dal cuore di Paolo VI. Questa capacità di lettura universale porta Paolo VI a dialogare con le religioni, incontrando buddisti e induisti, visitando Gerusalemme e la Palestina, a chiudere la divisione secolare con l’Oriente ortodosso incontrando il patriarca ecumenico Atenagora nel 1964, infine, nel 1965, a presentarsi all’Onu con un discorso che pone l’azione della Chiesa a servizio dell’umanità. Non era facile in quegli anni parlare alle Nazioni Unite, ma le parole sono quelle che aprono un’epoca. «Il nostro messaggio – afferma il Papa – vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione» anche perché essa «rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale». E aggiunge, con sottile analogia: «Voi siete un ponte fra i popoli», e «la vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la nostra Chiesa Cattolica vuol essere nel campo spirituale: unica e universale».
E conclude: «Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’Onu è la grande scuola per questa educazione. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace». Nella ricorrenza della Populorum progressio, quest’anno, si realizzeranno diverse iniziative di analisi, e si avrà modo di riflettere sui tanti risvolti di un pontificato che è stato forse il più grande papato riformatore della modernità, e nel quale la personalità di Paolo VI s’è amalgamata coi grandi obiettivi di un’opera che ha aperto la strada alle realizzazioni e innovazioni dei suoi successori.
2/ Sui passi di Paolo VI, il Papa riformatore, di Carlo Cardia
Riprendiamo da Avvenire dell’1/10/2017 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Per iniziative editoriali, pubblicazione di inediti da parte dell’Istituto Paolo VI di Brescia, convegni che si soffermano sui momenti salienti del pontificato di Paolo VI, la figura di Giovanni Battista Montini si ripropone sempre più come grande Papa riformatore della modernità, dentro e fuori i confini della Chiesa.
Possiamo ricordare due bienni del secondo Novecento, al centro di svolte cruciali per la Chiesa e i suoi rapporti con l’umanità: quello del 1964-65, e l’altro molto celebrato in questi mesi del 1967-68. Nel primo spazio di tempo la Chiesa si rivolge all’umanità, con l’Enciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam Suam, e con il viaggio del 4-6 gennaio del 1964 in Terra Santa dove riannoda i rapporti con l’ebraismo e incontra a Gerusalemme il patriarca ortodosso Atenagora; di lì a poco, nel 1965, segue l’abolizione delle scomuniche reciproche tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli, definite da allora «Chiese sorelle». Nel 1965 Paolo VI compie il viaggio a New York per parlare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dando all’Onu un’«altissima ratifica morale» da parte della Chiesa che viene in qualche modo paragonata all’Onu stessa per la sua universalità. Da allora, con la conclusione l’8 dicembre 1965 del Concilio Vaticano II, la missione apostolica, e l’azione internazionale, della Santa Sede non conoscono spazi vuoti o soste nell’intrecciare il dialogo con chiunque sia interessato.
Nel biennio tra il 1967 e il 1968 sembra quasi d’essere in un’altra epoca, ma l’opera riformatrice di Paolo VI prosegue con documenti destinati a incidere sulla Chiesa e sui grandi temi che interessano la società. L’emanazione il 26 marzo 1967 della Populorum progressio, forse la sua più importante enciclica che anticipa l’orizzonte della globalizzazione, estende i princípi della dottrina sociale a tutti i popoli della terra; e l’enciclica del 25 luglio 1968 Humanae vitae sul matrimonio e sul rapporto tra procreazione e sessualità. Tra l’altro, questi richiami smentiscono nettamente la tesi, tanto ricorrente quanto infondata, per cui sul crinale del biennio il papato di Montini conoscerebbe un’involuzione, quasi di pessimismo e ripiegamento, come scossa dal tempo della contestazione, che però nelle sue punte più aspre doveva ancora maturare.
In realtà in questi anni Paolo VI non solo intensifica l’opera di attuazione del Vaticano II, ma estende e proietta il suo magistero sulle questioni antropologiche e sociali che segneranno l’epoca successiva, che noi stiamo oggi vivendo appieno. In un commento riassuntivo del suo pontificato nel 1979 (edito su “Notiziario- Istituto Paolo VI” nel 1984) Joseph Comblin si sofferma sui viaggi che il successore di Pietro compie per la prima volta in ogni angolo della terra, e sui diritti dei popoli e delle Nazioni riconosciuti con la Populorum progressio. Quasi cogliendo l’anticipazione del linguaggio di papa Francesco, il teologo ricorda lo stupore del mondo di fronte a Paolo VI che torna a Gerusalemme, e ai viaggi che lo porteranno nelle periferie del mondo. Comblin afferma che «per le Chiese della periferia, il pontificato di Paolo VI ha conciso con un evento unico nel suo genere: il loro ingresso nellaChiesa universale come membra attive, come membra che partecipano alla storia della Chiesa in modo attivo e non puramente passivo come prima. Con Paolo VI, esse hanno cessato di essere semplici “destinatarie” della missione inviata dalle Chiese del centro».
Aggiunge, poi, che «questa apertura a tutti i continenti è probabilmente uno dei più importanti tornanti della storia della Chiesa dal concilio di Gerusalemme del primo secolo, quando l’apostolo Paolo fece riconoscere il diritto di aprire le porte della Chiesa ai pagani. L’inizio orienta la storia seguente per secoli. È questo che dà il suo significato storico al pontificato di Paolo VI». Il biennio 1967-68 conosce altre riforme strategiche, quella realizzata il 15 agosto con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae che adegua la Curia Romana al processo d’internazionalizzazione della Chiesa e la struttura episcopale, e dall’Enciclica Humanae vitae sui grandi temi dell’antropologia.
La riforma della Curia, recepisce tra l’altro, e incardina, gli organismi che hanno aperto al dialogo per l’ecumenismo, ai nuovi rapporti con l’ebraismo, al dialogo interreligioso, con strutture che sono divenute poi essenziali per l’attività della Chiesa nel mondo. Sulla centralità dell’Enciclica Humanae vitae“ Avvenire” ha richiamato l’attenzione nei giorni scorsi per smentire, anche a opera dell’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, ogni ipotesi complottarda sulla sua elaborazione. La riflessione sull’Humanae vitae invece è di grande rilievo se si valuta la lungimiranza della visione di Paolo VI alla luce dell’evoluzione successiva, cioè della deriva nichilista che s’è avuta proprio sui temi della famiglia e della procreazione.
È utile ricordare quanto disse Paolo VI, parlando con Jean Guitton, proprio dell’enciclica del 1968, ricordando che l’etica non può cambiare ogni volta che c’è una scoperta scientifica, assoggettandosi a essa acriticamente: «Per esempio – afferma il Papa – un domani ammetterebbe la procreazione senza paternità; tutto l’edificio della morale verrebbe dissolto» ( J. Guitton, Paolo VI segreto, 2002). Oggi dobbiamo riconoscere che è esattamente ciò che è avvenuto di recente, quando si sono superate barriere inimmaginabili ai tempi di Paolo VI, sui temi della maternità, la filiazione disconosciuta, la maternità surrogata, il diffondersi delle pratiche eterologhe, fino a giungere alla sottrazione di padre o madre – per affidare il bambino a un genitore raddoppiato (due padri, due madri), privandolo della genitorialità complementare – e fino al collasso teorizzato da alcuni per ogni relazione affettiva stabile e matrimoniale.
Aggiungeva il Papa che i princípi etici che attengono alla più intima struttura umana devono avere una stabilità e solidità che salvaguardi la persona da sperimentazioni, da scelte superficiali, da un relativismo che reca danni ai diritti e alla aspirazione più profonde dell’uomo. Anche per questa ragione, la figura di Paolo VI è al centro di una rinnovata attenzione ecclesiale e culturale, di iniziative che si susseguono per ricordare le fasi salienti del suo pontificato, e – in questi mesi – per celebrare e riflettere sul 50° della Populorum progressio, e su grandi altre tappe del suo magistero. Tra queste, si può segnalare il Convegno organizzato, per iniziativa dell’Università di Roma Tre, nel novembre prossimo e che si svolgerà nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, con esponenti della cultura laica ed ecclesiastica, destinato ad approfondire alcuni momenti e temi centrali dell’opera riformatrice che ha segnato il Pontificato di Paolo VI.
1/ I battisti e la rivoluzione russa. Dopo le iniziali aperture in chiave anti ortodossa, con Stalin iniziarono i grandi problemi, di Claudio Geymonat
Riprendiamo dal sito riforma.it un articolo di Claudio Geymonat pubblicato il 7/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Il novecento: il comunismo, Protestantesimo e Ortodossia.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Il primo battista di Russia è stato Nikita Voronin, battezzato a Tbilisi, capitale dell’attuale Georgia, nel 1867 a seguito dell’arrivo di piccole comunità provenienti dalla Germania. Le persecuzioni da parte dello stato zarista, su input della Chiesa ortodossa, spaventata da questi lettori della Bibbia, pellegrini e evangelizzatori, iniziano da subito.
I primi venti della rivoluzione di ottobre portano idee di libertà: viene sancita la separazione fra Stato e chiesa, nell’immediato pare crescere la libertà religiosa, e la costituzione nascente consente libertà di coscienza e di “propaganda” per le religioni stesse. Il vero obiettivo dei Soviet è in questo periodo la Chiesa ortodossa, simbolo di privilegi e di accordi a filo doppio con lo zar.
Le chiese battiste continuano quindi a crescere rapidamente. La leadership battista non guarda con cattivo occhio al nuovo corso, e supporta l’emancipazione del popolo. I battisti diventano alcuni milioni su suolo sovietico, e nel 1927 a Mosca viene inaugurato un college dedicato alla formazione dei futuri pastori, un’ottantina circa per ogni sessione. La direzione è affidata a Miroslav Ivanoff-Klishnikoff, segretario dell’allora Unione battista russa. I pastori battisti sono liberi di muoversi dentro e fuori i confini nazionali, tanto che fino al 1928 circa 20 fra loro partecipano alla Conferenza dell’Alleanza battista mondiale a Toronto, in Canada.
A patire le persecuzioni in questi primi anni è la Chiesa ortodossa, simbolo degli antichi regimi. Fra il 1927 e il 1940 le chiese ortodosse passano da 29.584 a meno di 500 come ha raccontato nel suo articolo Luigi Sandri.
Le festività del Natale e della Pasqua vengono abolite, così come raduni e processioni. La propaganda martella da ogni possibile canale.
La svolta è datata 1928. Stalin è al potere da due anni, ha vinto il braccio di ferro con Trockij. La nazione vira decisa verso la burocratizzazione e un autoritarismo sempre più paranoide. L’insegnamento e il credo battista avevano nel mentre fatto breccia fra moltissimi operai e lavoratori, sfidando in qualche modo, magari inconsapevolmente, la supremazia dei soviet. Ora anche la chiesa battista aveva raggiunto numeri capaci di spaventare gli organismi centrali. È l’inizio di una campagna denigratoria prima, persecutoria poi.
Ecco che le società battiste di cucito vengono ora additate come “strumento per lo sfruttamento del lavoro femminile”, le riunioni di fedeli diventano assemblee per irretire i non credenti, l’insegnamento diventa una frode per soggiogare le masse. Ultimo ma non meno importante, i legami internazionali diventano il chiaro segnale delle trame messe in atto per minare le fondamenta dello Stato. La strada della deriva è segnata, gli ideali di uguaglianza e libertà dei rivoluzionari del 1917 sono un ricordo.
Pastori e amministratori battisti iniziano ad esser arrestati. L’8 aprile 1929 la Costituzione viene modificata, la libertà di coscienza diventa libertà di culto soggetta a “regolamenti specifici”. Il culto può ora avvenire solo in luoghi definiti, registrati dalla polizia. Tutte le attività economiche e culturali connesse sono bandite. La lettura del testo biblico è concessa, ma non in gruppo, al fine di evitare ogni possibile proselitismo.
Le Scuole domenicali per i bambini vengono chiuse. I culti sono concessi, ma i partecipanti iniziano a patire discriminazioni di ogni sorta. I pastori non possono più recarsi nelle unioni sindacali dei lavoratori e perdono la razione quotidiana di pane, accordata ad ogni cittadino dell’immensa nazione. Studenti battisti vengono espulsi dalle scuole, la stampa e l’importazione della Bibbia vengono proibiti. Si susseguono anni di arresto, di confino in Siberia, per i trasgressori. La pressione si fa insopportabile, i luoghi di culto vengono requisiti per attività di partito.
Per la religione, l’oppio dei popoli, non c’è più spazio. Oltre mille luoghi di culto vengono chiusi nel corso del 1929. Le cose peggiorano, con l’apice delle tremende purghe fra il 1936 e il ‘38, fino al 1941 quando la guerra mondiale suggerisce di appoggiarsi ancora una volta ai pastori per tentare di dare sollievo ad una popolazione stremata da carestie e combattimenti eterni. Popolazione che non ha mai smesso di riunirsi e pregare, davanti alle tragedie del tremendo conflitto in corso e delle carestie.
Con la fine della guerra seguiranno di nuovo anni di grande difficoltà, fra arresti, deportazioni, ateismo di Stato.
Le informazioni sono tratte per la maggior parte da un testo di Geoffrey Shakespeare “I Battisti di Russia” del 1931, figlio del segretario dell’Unione battista della Gran Bretagna e membro del parlamento britannico
2/ La Rivoluzione russa e il cristianesimo, di Luigi Sandri
Riprendiamo dal sito riforma.it un articolo di Luigi Sandri pubblicato il 6/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Un anno fatale per l’Ortodossia
Nel 1917 ci furono in Russia due rivoluzioni: quella del febbraio-marzo, e quella dell’ottobre. La prima, infine costrinse di fatto lo zar Nicola II ad abdicare: terminava così la dinastia dei Romanov, al potere dal 1613.
In Russia, Stato (Regno) e Chiesa (ortodossa), da sempre erano stati strettamente legati, come l’edera all’albero: non era possibile immaginare l’uno senza l’altra. Tuttavia, la loro “sinfonia” fu spesso stridente. Quando morì il patriarca Adriano, Pietro il Grande impedì la nomina del successore: così, a partire dal 1721, e fino al 1917 (dato che i successori di Pietro mantennero la sua decisione), la Chiesa russa rimase senza patriarca: il potere supremo fu messo nelle mani di un Santo Sinodo all’interno del quale decisivo era il procuratore – funzionario laico scelto dal sovrano.
Quando Nicola II uscì di scena, la Chiesa russa ne approfittò e, nell’estate di quell’anno, il Concilio di Mosca elesse un nuovo patriarca, Tikhon. Il quale, poche settimane dopo, dovette confrontarsi con i bolscevichi ormai al potere e, poi, con una Russia che, unita ad altre repubbliche, nel 1922 creò l’Unione sovietica. Per le religioni, e soprattutto per la Chiesa ortodossa, iniziò un periodo difficilissimo: decine e decine di vescovi e pope, e migliaia e migliaia di credenti ortodossi furono eliminati fisicamente. Tikhon, morì nel 1925, in circostanze non chiare; Stalin non permise la nomina del successore. Ma, dopo che nel 1941 le armate hitleriane invasero l’Urss, e il paese fu in pericolo, egli domandò ai pochi metropoliti superstiti di spronare gli ortodossi a porsi accanto all’Armata rossa per respingere i tedeschi. Essi lo fecero e lui, per ringraziarli, nel 1943 acconsentì all’elezione del nuovo patriarca, Sergio: e, da allora fino ad oggi, vi è stata normale successione.
“Protestanty” e “Sektanty”
La Chiesa ortodossa russa si è sempre considerata – e così si considera anche oggi – come “l’anima” del popolo russo; ma anche l’opinione pubblica, all’interno e all’esterno della Russia, spesso ha ritenuto, e ritiene, russo=ortodosso. Questa equivalenza, però, è del tutto fuorviante. Vi è, infatti, in Russia, una fortissima presenza di minoranze religiose, grandi e piccole: musulmane, buddhiste, ebraiche, cattoliche e poi luterane, riformate, battiste e altre. Insieme, circa quaranta milioni di fedeli. E vi sono molti atei.
Limitandoci alla Riforma, va ricordato che Mosca ebbe con essa, quasi da subito, contatti; alcuni studiosi ortodossi guardarono con simpatia ai “protestanti”; principesse tedesche nate luterane salirono sul trono degli zar. Si formarono – soprattutto nella zona confinante con Paesi nord-europei – comunità evangeliche che diverranno vigorose quando la Russia incorporerà, o dominerà, i Baltici e la Finlandia. In certi periodi ebbero vita relativamente facile, in altri subirono soprusi.
Piena libertà l’ottennero solo nel 1905. Lo Stato e l’Ortodossia ritennero fosse opportuno etichettare e spartire questo mondo variegato in due tronconi: protestanty, le Chiese storiche; sektanty (sette) le altre. Va poi precisato che, nei primi anni dopo la Rivoluzione di ottobre, le Chiese battiste ebbero una relativa libertà, perché molti loro leader condivisero le idee socialiste; poi, però, anch’esse subirono un’aspra repressione.
Alla vigilia del crollo dell’Urss, tutte queste Chiese, nell’insieme, avevano circa 2,5 milioni di fedeli praticanti, più altri sei di persone in qualche modo legate ad essi. La “nuova” Russia, nata nel 1991 con il collasso dell’Urss, si proclamò Stato “laico”, garantendo la libertà religiosa: questa, però, è concreta per le religioni considerate “tradizionali” (Ortodossia, Ebraismo, Buddhismo e Islam), mentre è in vario modo limitata per tutte le altre, “non tradizionali”, e quindi per la Chiesa cattolica e per quelle della Riforma. Tali comunità religiose, per essere riconosciute dallo Stato, debbono registrarsi; è proibito loro comportarsi da “missionarie” e fare proselitismo.
In quanto ai Testimoni di Geova, nel luglio scorso, malgrado le proteste internazionali, la Corte suprema russa ha bandito le loro attività. Malviste, poi, sono le iniziative dei gruppi “evangelical” di origine statunitense e, soprattutto, sud-coreana, accusati di carpire con metodi spregiudicati la buona fede dei fedeli ortodossi.
Predominante è la Chiesa ortodossa che – secondo le varie fonti – rappresenta dal 42 al 70% dei centoquarantacinque milioni di russi; segue poi la comunità musulmana (venticinque milioni di fedeli). I cristiani sarebbero tra i cinque e sette milioni: in maggioranza legati alla Riforma.
Sebbene, ufficialmente, la Russia sia laica, oggi Putin – protestano le minoranze – favorisce soprattutto l’Ortodossia, considerandola un alleato essenziale per reggere il paese e custodire le radici del passato. Ed ebrei e musulmani, in Russia da secoli? Da parte loro, le Chiese evangeliche, hanno scarso appeal per il Cremlino; però, qualche esponente dell’intellighentzia, e gruppi di origine baltica o tedesca, le considerano il loro punto di riferimento spirituale.
1/ Kurdistan iracheno a rischio caos. Chiese in allarme (da Romasette)
Riprendiamo dal sito di Romasette un articolo redazionale pubblicato il 30/10/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Il patriarcato siro ortodosso e il patriarcato caldeo hanno espresso all’unisono la propria preoccupazione per i recenti avvenimenti registrati nella Piana di Ninive, l’area di tradizionale radicamento delle comunità cristiane divenuta oggetto di contese territoriali e anche di confronto militare tra il governo centrale di Baghdad e la regione autonoma del Kurdistan iracheno. Recenti scontri tra esercito governativo e truppe curde Peshmerga, che rispondono al Governo regionale del Kurdistan – riferisce il Patriarcato siro-ortodosso in un documento diffuso ieri domenica 29 ottobre – hanno provocato la fuga di centinaia di famiglie cristiane che avevano da poco fatto ritorno alle loro case nelle cittadine di Telkaif e Baqofa, sottratte da pochi mesi alle milizia jihadiste dell’auto-proclamato Stato Islamico (Daesh).
«La vittoria contro il Daesh – rimarca il Patriarcato siro ortodosso – era stata resa possibile proprio dal coordinamento tra esercito iracheno e Peshmerga curdi, e al sacrificio condiviso da curdi e arabi. E adesso i governi di Baghdad e di Erbil devono incontrarsi sulla base di quello stesso spirito di collaborazione, per sciogliere attraverso il dialogo i punti di contrasto e lavorare a vantaggio delle popolazioni dell’intera regione».
Analoghe raccomandazioni sono state espresse dal Patriarcato caldeo in in un documento diffuso domenica 29 ottobre per esprimere la propria visione in merito al futuro delle città cristiane della Piana di Ninive. Nel documento, il Patriarcato caldeo prende atto che «la giurisdizione sulla pianura di Ninive, unificata, stabile e protetta fino al 2003, viene oggi contesa tra il governo iracheno e le forze curde». Ricorda i recenti scontri che hanno contrapposto l’esercito iracheno e i gruppi di mobilitazione militare popolare – in prevalenza sciiti – ai peshmerga curdi. Il Patriarcato caldeo invita a porre fine alla contesa giurisdizionale in atto sulla Piana di Ninive, ritornando alla situazione pre-2003, quando il governo centrale aveva recuperato il controllo su tutta la regione, e raccomanda di inquadrare tutte le milizie e i gruppi armati locali – spesso organizzati su base etnico-religiosa – nell’esercito nazionale e nelle forze di sicurezza federali.
Nella giornata di domenica 29 ottobre anche il presidente della Regione autonoma del Kurdistan, Masud Barzani, ha diffuso una lettera per confermare la sua intenzione di lasciare la carica presidenziale il prossimo primo novembre, alla fine del suo corrente mandato, rifiutando di prendere in considerazione eventuali estensioni del suo incarico, come suggerito da alcuni suoi sostenitori. In serata, durante un’apparizione televisiva, Barzani ha accusato anche gli Stati Uniti di non aver sostenuto con determinazione la prospettiva della piena indipendenza del Kurdistan, affermata dai risultati plebiscitari del referendum pro-indipendenza svoltosi lo scorso 25 settembre.
2/ Iraq: tensioni tra curdi e iracheni nella Piana di Ninive. Padre Kajo (caldeo) a Sir, “cristiani di nuovo in fuga”
Riprendiamo dall’agenzia di stampa Agensir un articolo redazionale pubblicato il 26/10/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
padre Salar Kajo (Foto Sir/Rocchi)
“Ci sono stati scontri lo scorso 24 ottobre tra le truppe curde Peshmerga e l’esercito iracheno, nel quale sono comprese anche le ‘Brigate Babilonia’ (milizie di protezione popolare che conta nelle proprie fila anche cristiani, ndr). Durante lo scambio a fuoco alcuni razzi hanno colpito diverse abitazioni e la chiesa. A causa di ciò oltre 850 famiglie hanno lasciato Tellusqof per trovare riparo e rifugio in quelli vicini, come Alqosh e Batnaya. Sono rimasto io con alcuni giovani del villaggio per mantenere la sicurezza ed evitare che le abitazioni dei cristiani vengano prese di nuovo dagli arabi”.
Così il sacerdote caldeo, padre Salar Kajo, racconta al Sir le tensioni nella Piana di Ninive rinfocolate dopo l’esito del referendum del 25 settembre scorso sull’indipendenza del Kurdistan da Baghdad. “Tellusqof è di nuovo deserto. Le famiglie vorrebbero rientrare – spiega il sacerdote la cui presenza nel villaggio è nota sia ai militari curdi che a quelli iracheni – però la situazione non è ancora chiara, non sappiamo come intendono risolverla. Si era parlato di un accordo tra curdi e iracheni per assumere il controllo della zona senza combattere. Ma di questo accordo non abbiamo ancora visto nulla di concreto. Per adesso non è cambiato niente”.
Chiaro il riferimento di padre Kajo ad un comunicato in cui la Regione autonoma del Kurdistan iracheno auspicava un “immediato cessate-il-fuoco” e ribadiva la disponibilità a “congelare” l’esito del voto così da aprire un canale di dialogo con il governo centrale di Baghdad. Una vera e propria beffa per gli abitanti cristiani soprattutto adesso che la maggior parte delle case danneggiate durante l’occupazione dell’Isis erano state ripristinate e che oltre il 70% delle famiglie espulse dalle milizie nere del Califfo avevano fatto ritorno in città.
È andata peggio ad un altro villaggio cristiano della Piana di Ninive, Telkeif: “Prima dell’Isis era interamente cristiano oggi, invece, totalmente abitato da musulmani, tra loro anche famiglie dell’Isis che sono state alloggiate lì. Le case dei cristiani sono state occupate dai musulmani. Difficile prevedere un ritorno delle famiglie cristiane se non cambierà la situazione sul terreno”. A tale riguardo i vescovi iracheni, al termine della loro assemblea svoltasi il 24 e 25 ottobre a Baghdad, hanno diffuso un comunicato in cui esprimono preoccupazione per le tensioni e sottolineato i rischi di un nuovo conflitto che troverebbe nella Piana di Ninive, tradizionalmente abitata dai cristiani, l’ipotetico campo di battaglia. Da qui l’appello ai leader politici “a impegnarsi per la pace attraverso il dialogo”, evitando così la spartizione della Piana tra Iraq e Kurdistan.
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30/1/2010 un articolo di Manlio Simonetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ebraismo e Giudaismo e cristianesimo delle origini.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Paolo Mieli ha pubblicato sul "Corriere della sera" un'ampia e più che lusinghiera presentazione della recente traduzione italiana della monografia di Martin Goodman intitolata Rome and Jerusalem e pubblicata a Londra nel 2007 (Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche. Traduzione di Michele Sampaolo, Roma-Bari, Editori Laterza, 2009). La valutazione favorevole appare ben meritata in considerazione dell'ampiezza inusitata del libro, che fornisce gran copia di notizie riguardanti i più vari aspetti della vita, non soltanto comunitaria ma anche privata, di romani e giudei nel mondo antico, per cui questa monografia viene a collocarsi in posizione di spicco nell'ambito di una bibliografia tutt'altro che scarsa riguardante l'antigiudaismo nell'antichità.
All'inizio del libro Goodman spiega che il primitivo obiettivo della sua ricerca, analizzare le differenze tra la civiltà giudaica e quella romana, si è rivelato inadeguato a fronte della constatazione di non poter prescindere dalla dimensione storica del contrasto tra le due civiltà, culminato nella catastrofe dell'anno 70. Quanto a questa, l'autore, considerando che la fonte di gran lunga più importante di questi fatti, Flavio Giuseppe, era troppo coinvolta nei fatti che narrava per poterne fornire una presentazione distaccata e serena, si è chiesto se non convenisse ripensare tutta la vicenda, utilizzando il materiale fornito dall'antico storico ma interpretandolo in modo autonomo. Di qui una presentazione del rapporto tra giudei e romani largamente originale, sulla quale intendo ora soffermarmi, sia pure in breve.
Ma preliminarmente non posso esimermi dall'osservare che il serrato e documentato confronto tra i vari aspetti delle civiltà rispettivamente giudaica e romana presenta un evidente squilibrio in quanto mette a confronto, perciò su un medesimo livello, le due entità quasi fossero politicamente paritarie, mentre da una parte abbiamo la città imperiale e dall'altra una delle tante città dell'impero, centro ancestrale di un popolo che era soltanto uno dei tanti sui quali si estendeva il dominio romano. Non poco ci sarebbe da rilevare circa questa evidente forzatura, ma qui preferisco concentrarmi sull'interpretazione che l'autore propone del rapporto conflittuale tra romani e giudei.
Goodman afferma che i giudei della diaspora avevano trovato un accomodamento coi loro vicini, per cui, se non benvoluti, erano per lo meno tollerati dai pagani in mezzo ai quali vivevano, così come erano tollerati, fuori dell'impero, dal governo dei parti. Al tempo di Gesù i giudei non si sentivano oppressi dai romani, che non li consideravano pericolosi e ostili, e Gerusalemme era una città gloriosa e ricca. La rivolta dell'anno 66 fu determinata non dal rifiuto giudaico del dominio romano ma dalla reazione alle malversazioni di un governatore disonesto, che faceva seguito ad altri pessimi governatori. L'incapacità del magistrato di reprimere subito la rivolta e la perdita di un'intera legione imposero ai romani una risposta adeguata, che portò all'assedio e alla distruzione di Gerusalemme.
A causare questo crescendo di violenza non fu tanto la resistenza dei giudei quanto la particolare situazione nella quale si venne a trovare Vespasiano, prima comandante dell'esercito romano incaricato di reprimere la rivolta ma nel 69 acclamato imperatore dalle legioni d'oriente in opposizione a Vitellio: "La totale sconfitta dei giudei gli era necessaria per costruirsi l'aura di generale vittorioso che potesse giustificare la sua ascesa al potere" (p. 660). Di qui la spietata violenza con cui fu assalita, conquistata e distrutta Gerusalemme, senza che si tenesse conto che la città, ormai ridotta agli estremi, di lì a poco si sarebbe dovuta arrendere per fame.
"Una volta che i Flavi avevano stabilito il loro potere sulle spalle della sconfitta dei giudei, non fu nell'interesse della maggior parte degli imperatori successivi manomettere l'immagine così accuratamente costruita e tanto meno sfidarla direttamente permettendo ai giudei di ricostruire il loro Tempio" (pp. 660-661). All'antigiudaismo romano fece seguito quello cristiano, con una graduale crescendo di ostilità destinato a prolungarsi e intensificarsi nel mondo medievale e in quello moderno.
Il presupposto sul quale fonda questa interpretazione di Goodman, cioè che i giudei avrebbero trovato un accettabile modus vivendi con i pagani in mezzo ai quali vivevano, mi sembra ben poco solido. Infatti egli qui si distacca completamente da Flavio Giuseppe, fonte pressoché unica, il quale afferma a chiare lettere che i giudei erano del tutto malvisti in oriente, e soltanto la protezione dell'autorità romana li metteva a riparo dalle violenze alle quali le popolazione pagane li avrebbero volentieri assoggettati.
Lo storico riporta nelle Antichità giudaiche più di trenta decreti emanati dalle autorità romane per tutelare i giudei dalle vessazioni e dalle angherie di cui i pagani, appena se ne presentasse l'occasione, li facevano oggetto. E che questa condizione di vita precaria dei giudei non fosse ristretta all'impero romano ce lo dice ancora lo storico giudeo, il quale racconta che nel 40/41 dell'era cristiana a Seleucia, nel regno dei parti, cinquantamila ebrei furono massacrati in una sola notte dai siriani e dai greci (18, 376). Anche se la cifra potrebbe essere esagerata e non di poco, il fatto è significativo del malvolere che circondava i giudei anche fuori dell'impero romano.
Non è qui il caso d'indagare le cause di questo malvolere, tanto più che molto se n'è scritto, e che esso va fatto risalire già al tempo della rivolta dei cosiddetti Maccabei, e comunque ben prima della comparsa dei romani nella regione. Mi limito perciò a osservare che, a mio avviso, Goodman ha anche sottovalutato la conflittualità che s'instaurò in Palestina dopo la morte di Erode, per sfociare infine nella ribellione del 66. Non definirei semplici operazioni di polizia episodi come la cosiddetta guerra di Varo alla fine della quale il comandante romano fece crocifiggere ben duemila persone (17, 295). Quanto poi Goodman osserva circa la sopravvalutazione dell'importanza della guerra giudaica da parte degl'imperatori Flavii per motivazione politica, è pura ipotesi: quella giudaica fu una guerra vera e propria e come tale fu combattuta, perciò senza mezze misure e tanto meno preoccupazioni umanitarie.
Sta il fatto che i giudei, pur accuratamente tutelati dall'autorità romana e autorizzati a praticare usanze che li isolavano dalle popolazioni entro le quali vivevano, rappresentarono per i romani un problema sempre aperto fino alla grande repressione del 135, stante proprio - soprattutto in Palestina dove i giudei erano largamente maggioritari e dove c'era il Tempio - la difficoltà di convivenza con i romani e con gli stranieri in genere, proprio a causa di quelle peculiari usanze e, conseguentemente, l'insofferenza per la dominazione romana.
Sono d'accordo con Goodman nel ritenere che in grande maggioranza i giudei di Palestina fossero ben lungi dal sentirsi spinti da questa insofferenza fino alla rivolta armata, ma fu sufficiente che lo fossero alcune minoranze di fanatici, perché la storia c'insegna che troppe volte sono state proprio queste minoranze di estremisti a trascinare, più spesso alla rovina che al successo, le maggioranze incapaci di far valere la loro moderazione.
Goodman si meraviglia e s'indigna perché, dopo la distruzione del Tempio nel 70, le autorità romane non ne permisero più la ricostruzione, manifestando un'intolleranza che contrastava con la tolleranza praticata nei confronti di altre popolazioni dell'impero. Ma il divieto di ricostruire il Tempio può essere valutato da un punto di vista perfettamente opposto: vale a dire, ci si può chiedere perché i romani, tanto tolleranti nei confronti delle altre etnie, non lo siano stati su questo punto con i giudei. Evidentemente c'era una ragione.
In effetti per i romani i giudei erano qualcosa di diverso da quelle altre popolazioni e, a differenza di quelle, rappresentavano un problema di difficile soluzione: perciò, risolto a modo loro, con i massacri del 70 e del 135, il problema, era naturale che essi volessero evitare ogni gesto che in qualche modo potesse riproporlo, e la ricostruzione del Tempio poteva essere valutata in questa ottica. A proposito della durezza con la quale i romani trattarono i giudei dopo i fatti del 66-70 e di cui farebbe fede l'imposizione del fiscus Iudaicus, Goodman avrebbe dovuto rilevare più significativamente di quanto non abbia fatto che anche dopo i gravissimi eventi del 66-70, del 115 e del 135, i romani continuarono a mantenere in vigore i provvedimenti che autorizzavano i giudei a vivere a modo loro nell'ambito dell'impero, ivi compresa l'esenzione di fare atto di ossequio all'imperatore in quanto dio.
Concludo perciò che l'interpretazione dei fatti che Goodman propone non mi sembra convincente là dove diverge da Flavio Giuseppe, e preferisco attenermi alla ricostruzione tradizionale del rapporto conflittuale tra romani e giudei, fondato sul dato di fatto che i giudei erano molto malvisti dai pagani, soprattutto in oriente, e che soltanto la protezione dei romani assicurava la loro incolumità, protezione che non venne meno neppure dopo le grandi ribellioni del I e II secolo. È fuor di dubbio che i tragici fatti di un passato ancora troppo prossimo invitino a riesaminare criticamente anche i fatti di un passato molto più remoto, ma non a punto tale da alterarne il significato al di là della verità storica.
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 15/4/2008 un articolo di Manlio Simonetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Il periodo patristico e Maestri dello Spirito: Sant'Agostino di Ippona.
Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2017)
La recente scoperta, da parte di Dorothea Weber e di Clemens Weidmann, di alcuni sermoni di Agostino finora non conosciuti, aggiungendosi a quella di alcuni anni fa da parte di Dolbeau, ha attirato l’attenzione, non solo degli studiosi, sull’attività di Agostino predicatore, a noi documentata da un lascito di centinaia di prediche, molte riunite in raccolte organiche, altre a sé stanti, in prevalenza di argomento esegetico, ma anche in onore di santi e per la celebrazione di importanti festività e ancora di altri argomenti.
Talvolta Agostino ha manifestato un certo fastidio per l’obbligo di predicare inerente al suo ufficio episcopale, e qualche studioso ha preso sul serio queste dichiarazioni, nient’altro che civetterie di un retore scaltrito quant’altri mai.
In realtà Agostino, che per non pochi anni fu retore di professione, una volta convertitosi all’impegno ecclesiale predicò sempre con entusiasmo, non solo a Ippona, sua sede episcopale, ma anche a Cartagine e occasionalmente anche altrove. I suoi sermoni, improvvisati, come usava allora, sulla base di qualche previo abbozzo orale, abitualmente venivano stenografati e poi messi in bella copia a opera dei monaci del suo monastero, per essere diffusi in raccolte più o meno organiche.
La revisione alla quale l’indaffaratissimo Agostino sottoponeva i suoi parti oratori era quanto mai superficiale e talvolta mancava addirittura, e i non rari anacoluti che si avvertono nel suo dettato, e che qualche inavveduto editore pretende di correggere, sono segno evidente di un eloquio colloquiale, il che per altro non sta affatto a significare disinteresse per la forma espressiva.
In effetti è stato merito di Christine Mohrmann aver dimostrato, in uno studio di ormai parecchi anni fa, che Agostino ha messo in opera, nei sermoni, un tipo particolare di eloquenza, caratterizzato da periodi in prevalenza brevi e comunque costruiti con prevalenza della paratassi sull’ipotassi, con largo impiego di figure retoriche semplici e, insieme, molto espressive, tali da sottolineare, senza oscurarlo, il senso del discorso: espressioni simmetriche, ripetizioni, assonanze, giochi di parole, sì da facilitarne comprensione e apprendimento da parte di un uditorio in larga parte di bassa condizione e cultura.
In effetti Agostino è stato il primo, a nostra conoscenza, che nella cristianità di lingua latina si sia posto con chiarezza il problema della comunicazione a livello comunitario, arrivando a proporre, nel De catechizandis rudibus, diversi modi di espressione, più o meno elaborati, a secondo del diverso livello culturale dell’uditorio al quale veniva rivolta la predica, e affrontando di petto, nel quarto libro del De doctrina christiana, il problema del rapporto tra religione cristiana e retorica.
Si abbia presente, a questo proposito, che nel mondo cristiano da sempre c’era stata, e c’era anche allora, molta diffidenza nei confronti della retorica, considerata artificio tale da far prevalere il discorso falso su quello vero, quanto mai lontano dalla semplicità del dettato evangelico.
Tale diffuso sentimento non aveva affatto distolto dal largo impiego della strumentazione retorica i principali rappresentanti delle lettere cristiane, soprattutto in occidente, convinti che solo una forma adeguata fosse in grado di imporre i loro scritti a lettori acculturati: si pensi a Tertulliano, Cipriano e Ambrogio; nessuno per altro si era posto, a livello di teoria, il problema della compatibilità della retorica col messaggio cristiano.
Proprio questo ha fatto Agostino, dimostrando che, alla pari della dialettica, arte del ragionare, anche la retorica, arte del dire, è strumento in sé neutro, capace di servire a finalità buona e meno buona, capace di rendere accettabile e godibile un contenuto sia buono sia cattivo: sarebbe perciò grave errore - osserva Agostino - lasciare ai nostri avversari pagani il monopolio di uno strumento di cui l’oratore cristiano deve imparare a servirsi per rendere di ascolto gradevole la sua predica, in modo da interessare e avvincere l’ascoltatore, evidentemente distratto e distolto da un contenuto comunicatogli in forma che, per voler aderire alla semplicità evangelica, di fatto non fosse altro che sciatta e dimessa.
Agostino è tanto convinto dell’esigenza che il sermone predicato al popolo, per poter risultare efficace, debba essere presentato in forma adeguata, che arriva a consigliare al predicatore di per sé poco eloquente di imparare a memoria e recitare una predica composta da altri, come più di un secolo dopo avrebbe consigliato in Gallia Cesario di Arles.
Dal canto suo, l’amore giovanile per il teatro, di cui è testimonianza nelle Confessioni, travasato nella predicazione, gli ha ispirato una performance oratoria di effetto spettacolare per l’interazione della parola e del gesto, capace di scuotere profondamente gli ascoltatori, fino a spingerli dal riso al pianto.
Non a caso ho detto "spettacolare", perché Agostino ha concepito l’omelia come vero e proprio spettacolo, in un’alternanza di toni coloriti musicali arguti pungenti patetici, tali da avvincere gli ascoltatori e distoglierli addirittura dai prediletti giochi del circo e dell’anfiteatro (Pontet).
Sono sue parole: "Se non fosse per uno spettacolo, sareste voi convenuti qui oggi? Ecco, ciò che abbiamo detto voi l’avete visto e avete applaudito con entusiasmo; non avreste applaudito se non aveste veduto" (Tractatus in Iohannem, 7, 6).
E il suo biografo Possidio descrive così il successo di questa predicazione: "I suoi discorsi, che scaturivano e derivavano da mirabile grazia divina ed erano sorretti sia da abbondanza di argomenti razionali sia dall’autorità delle Scritture, gli stessi eretici correvano ad ascoltarli insieme con i cattolici, spinti da intenso ardore: chi voleva e ne aveva la possibilità, si valeva di stenografi i quali trascrivevano ciò che veniva detto" (7, 3).
Il quarto libro del De doctrina christiana conclude quello che di fatto si presenta come un vero e proprio manuale di ermeneutica biblica, che Agostino ha composto a uso prevalente, anche se non esclusivo, dei predicatori. In effetti, anche se a volte si predicava in onore dei martiri e occasionalmente su argomenti di carattere morale, di gran lunga prevalente era il sermone d’argomento esegetico, cioè mirato alla spiegazione di un testo della Scrittura. L’occasione principale era offerta dalla liturgia domenicale, durante la quale il celebrante predicava un’omelia che spiegava uno dei testi scritturistici che erano stati letti durante la prima parte della Messa, in prevalenza, non sistematicamente, la pericope evangelica.
Ma al tempo di Agostino si era diffusa anche nelle comunità cristiane d’occidente la predica seriale, da tempo in uso nelle chiese d’oriente, che consentiva di predicare in tempi stretti, a volte anche giorno dopo giorno, serie continue di omelie, tali da permettere di interpretare interi libri della Scrittura o parti organiche di essi.
Nel Tractatus in Iohannem Agostino ha interpretato per intero il vangelo giovanneo e ha dedicato una serie di omelie anche all’illustrazione della prima epistola di Giovanni. Più complessa è la struttura delle Enarrationes in Psalmos, ma in massima parte l’interpretazione dei salmi è in forma di omelia, ed è chiaro che queste omelie sono state predicate non soltanto nel contesto della liturgia domenicale.
Accanto a queste grandi raccolte organiche ci sono giunte centinaia di omelie singole, di vario argomento, come abbiamo sopra accennato, ma che per lo più sono di argomento esegetico e che certamente in gran parte furono predicate durante la liturgia domenicale.
Al tempo in cui fu attivo Agostino, in ambito esegetico imperversava ancora il contrasto tra la tendenza all’interpretazione letterale della Scrittura, di marca antiochena, e la preferenza per l’interpretazione allegorica, di marca alessandrina, in occidente senz’altro prevalente. Girolamo aveva messo a punto un tipo d’esegesi che in certo modo contemperava ambedue le esigenze: Agostino ha seguito una via sua, preferendo per l’esegesi di tipo letterario (Genesi, Giobbe) l’interpretazione letterale, mentre per la predicazione ha optato per un tipo d’interpretazione scritturistica largamente aperto all’allegorizzazione, a volte anche molto spinta, del testo sacro.
Del resto, è stato proprio lui ad affermare, anche se non ne sa spiegare il motivo, che i suoi fedeli apprezzavano di più un concetto che venisse loro proposto mediante un’allegoria piuttosto che in modo semplice e diretto (De doctrina christiana, 2, 6, 7).
Proprio questo modo d’interpretazione, definita spirituale, ha permesso ad Agostino di interpretare i Salmi, il libro della Scrittura da lui prediletto, in modo da riferirli sistematicamente a Cristo, inteso per altro in senso lato: Cristo insieme col corpo di cui egli è capo, cioè la Chiesa, un modo d’interpretare che era stato già di Origene, di Ilario e del suo prediletto Ticonio.
Per proporre un solo esempio di come potesse essere complessa l’esegesi agostiniana anche nella predicazione, il salmo 3, riferito, nella rubrica che correda il salmo, a Davide perseguitato dal figlio Assalonne, viene inteso prima in riferimento a Cristo che abbandona Giuda il traditore, poi alla Chiesa perseguitata, infine, con interpretazione attualizzante, a ognuno di noi quando siamo trascinati al peccato dalla moltitudine dei vizi (Enarratio sul salmo 3).
La propensione di Agostino per l’esegesi spirituale spiega la sua preferenza, in ambito neotestamentario, per il vangelo di Giovanni, che invita a ricercare il significato nascosto sotto la lettera del testo: "I fatti del Signore non sono solo fatti ma anche segni", ed egli non ha esitato a proporre un’interpretazione spinta all’apertura di argomento dottrinale e che lui stesso riconosce di non agevole accesso.
Per un minimo di esemplificazione, la donna samaritana incontrata da Gesù presso il pozzo di Giacobbe è simbolo della Chiesa, e la brocca da lei abbandonata presso il pozzo sta a significare la cupiditas che viene gettata via all’annuncio della verità.
Anche la veste di Cristo, divisa in quattro parti dai suoi crocifissori, raffigura la Chiesa distribuita nelle quattro parti del mondo, mentre la tunica, lasciata intera, indica l’unità delle varie parti grazie al vincolo dell’amore (Tractatus in Iohannem, 15 e 118).
Per proporre la sua interpretazione del testo sacro in modo chiaro ed efficace a un uditorio che abbiamo detto di mediamente modesto livello culturale, Agostino ha messo a punto una struttura omiletica che gli è peculiare. Precede abitualmente una vasta parte iniziale, nella quale egli fissa e sviluppa un tema di carattere generale, ricavato dalle letture bibliche previamente lette e scelto in modo da incidere fortemente sulla sensibilità degli ascoltatori. Segue una seconda parte nella quale Agostino riporta, lemma per lemma, il testo di uno dei passi biblici letti in precedenza, corredandolo di una spiegazione per lo più sommaria ma senza che la brevità nuoccia alla chiarezza. La ripetizione insistita e martellante di ogni singolo lemma nel corso della relativa spiegazione e il ritorno di alcuni di essi per tutto il corso dell’omelia rilevano la compattezza del discorso, richiamando l’attenzione degli ascoltatori sul tema di fondo e agevolandone l’apprendimento mnemonico. Il tutto è perfettamente calibrato, al fine di contemperare le due esigenze primarie dell’omelia, insegnare ed esortare gli ascoltatori a tradurre l’insegnamento in termini di vita cristianamente vissuta.
Di norma non c’è coda, perché Agostino ama chiudere quasi ex abrupto, con un’espressione breve, a volte brevissima, ma perfettamente rilevata per produrre una forte impressione finale. Il successo che riscuoteva l’eloquenza di Agostino non fu ristretto all’uditorio che ne ascoltava le vive parole, ma si è prolungato nei secoli, grazie alla trascrizione e pubblicazione di gran parte delle sue innumerevoli omelie. Ne fu profondamente influenzata non soltanto la produzione omiletica delle chiese africane, ma anche quella delle chiese continentali per lunghi secoli a seguire.
Anche noi oggi siamo in grado di apprezzare quell’eloquenza, ma soltanto parzialmente, perché ci sfugge completamente, o quasi, la gestualità (actio) che, accompagnando e sottolineando la pronuncia delle parole, costituiva parte integrante della predicazione.
Cinquecento anni fa, il 31 ottobre 1517, iniziava la Riforma protestante. Secondo la storiografia tradizionale, a quella data, vigilia della festa di Ognissanti, Martin Lutero, giovane professore agostiniano del convento di Wittenberg, avrebbe affisso alla porta della chiesa del castello le 95 Tesi sulle indulgenze[1]. Il fatto è attestato da un solo documento, redatto da Melantone nel 1546, qualche mese dopo la morte del riformatore: «Lutero scrisse le Tesi sulle indulgenze e le affisse pubblicamente alla chiesa che è accanto al castello di Wittenberg, la vigilia della festa di Ognissanti, nell'anno 1517»[2].
La testimonianza di un personaggio quale Melantone, così vicino a Lutero e alle origini della Riforma, ha certamente un notevole valore. Occorre tuttavia tener presente che nel 1517 Melantone non era a Wittenberg, e quindi non poteva essere un testimone oculare. A questa data ha 17 anni ed è un giovane studente a Tubinga; è giunto nella Sassonia nel 1518, e quindi non ha una conoscenza diretta dei fatti precedentemente accaduti. Per di più egli scrive alcune inesattezze circa la predicazione delle indulgenze: per esempio, afferma che le indulgenze venivano predicate nella Sassonia Elettorale, quando invece è noto che il principe elettore, Federico il Saggio, le aveva proibite per impedire che il denaro contante uscisse fuori dai confini della Sassonia Elettorale e per di più andasse ai suoi avversari.
È lecito dunque domandarsi se l'affissione delle 95 Tesi sia un fatto storico oppure una leggenda. Una tale domanda non è secondaria, ma determinante per comprendere l'animo e lo spirito di Lutero; fa anche capire come il monaco di Wittenberg sia divenuto il «riformatore». Le Tesi non sono una protesta o una sfida all'autorità ecclesiastica, ma rivelano un problema di coscienza, posto da un docente di teologia, che chiede al proprio vescovo una chiarificazione, innanzitutto per se stesso e poi per il bene della Chiesa.
Affiggerle in pubblico avrebbe messo in dubbio la sincerità di una persona che si pone onestamente e con responsabilità un problema pastorale importante e cerca aiuto per risolverlo.
Che valore ha allora la testimonianza di Melantone? Lo storico Heinrich Boehmer ha scritto: «La celebrata prefazione [di Melantone] è proprio solo una prefazione, cioè uno scritto steso velocemente sulla carta, senza alcun ausilio, che non possiede valore documentario e merita fede solo in quanto le sue affermazioni sono confermate da altri contemporanei»[3].
Il valore dell'affermazione di Melantone è stato messo in dubbio dallo storico Erwin Iserloh[4]. Egli ha fatto notare che si trattava di una testimonianza tardiva, posteriore di circa trent'anni al fatto e non confortata da nessun accenno precedente; ma, più ancora, che non proveniva da un testimone oculare. Lo storico anzi pone in evidenza le ragioni per cui l'affissione delle Tesi non poteva essere accaduta, almeno in quei termini. Il punto è che Lutero, esattamente a quella data, il 31 ottobre 1517, si era rivolto ai propri superiori ecclesiastici, comunicando loro le sue preoccupazioni pastorali circa lo scandalo delle indulgenze[5].
Che cosa è accaduto il 31 ottobre 1517?
Il 31 ottobre 1517, vigilia della solennità di Ognissanti, non è accaduto nulla. O meglio, nulla di visibile e di clamoroso. Lutero prende carta e penna, e scrive due lettere: la prima al suo vescovo, l'altra all'arcivescovo di Magonza. Il primo, Hieronymus Schulze, era l'ordinario di Lutero, perché Wittenberg si trovava nella sua giurisdizione; egli tuttavia non aveva alcuna diretta responsabilità per ciò che concerneva lo scandalo delle indulgenze. La lettera è andata perduta, anche se Lutero la menziona più volte. Il secondo, Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza, di Magdeburgo, e amministratore di Halberstadt, era il responsabile della predicazione delle indulgenze in Germania e aveva incaricato alcuni predicatori domenicani di annunciare le lettere penitenziali. Quest'ultima corrispondenza ci è stata conservata dalla storia[6].
Nel 1545 Lutero ne custodiva ancora una copia con sé, quando, scrivendo la prefazione per il volume primo delle sue opere in latino, la fa stampare tra i documenti raccolti[7]. È un chiaro segno dell'importanza che quella lettera aveva per la comprensione del suo pensiero e della sua vita, e di quanto egli vi fosse affezionato per averla conservata presso di sé per quasi trent'anni.
Vale la pena di esaminarla per cogliere il senso di quanto Lutero sta per fare e le sue vere intenzioni: egli parla con franchezza, esprime la sua preoccupazione per ciò che sta accadendo nei dintorni di Wittenberg, descrive la foga delle persone che si precipitano fuori dei confini dell'elettorato per acquistare l'indulgenza per se stessi e per i propri cari. E soprattutto per cogliere il problema che più lo preoccupa: è falso ciò che i domenicani annunciano nella loro predicazione, ed essi ingannano le coscienze dei deboli.
Lutero dichiara francamente, ma senza toni di rottura, di non poter tacere di fronte a fatti così gravi. Lo addolorano profondamente il modo irresponsabile con cui vengono presentate al popolo le indulgenze e, soprattutto - ecco il nodo che avrà sviluppi imprevisti -, la falsa sicurezza che i predicatori intendono inculcare nelle coscienze dei fedeli in ordine alla salvezza. Si racconta alla gente, e lo si ribadisce come nota essenziale dell'indulgenza stessa, che quando ci si è procurata la lettera penitenziale, senza un ulteriore moto di conversione, si ottiene il perdono dei peccati, anche di quelli più gravi, e si è certi della propria salvezza. Si aggiunge pure che le anime dei defunti, a vantaggio delle quali si è cercata l'indulgenza, sono liberate subito dal purgatorio.
In una parola, l'indulgenza cancellerebbe qualsiasi colpa o pena divina. Con discrezione e con rispetto, Lutero fa osservare che al popolo cristiano si devono predicare il Vangelo, le opere di pietà e di carità, piuttosto che le indulgenze[8]; e che quel dovere così urgente, «prima e unica missione di ogni vescovo», viene invece trascurato per dar posto al «baccano delle indulgenze»[9]. Egli prega perciò l'arcivescovo di revocare l'Istruzione per i predicatori, che è stata redatta con il nome di lui, ma - nota Lutero - sicuramente a sua insaputa[10].
Le 95 Tesi sull'indulgenza
Al termine della lettera c'è una sorpresa: affiorano inaspettatamente le Tesi sull'indulgenza. Lutero infatti suggerisce che, qualora non si cerchi rapidamente un rimedio, potrebbe accadere che qualcuno confuti pubblicamente i predicatori dell'indulgenza e dimostri l'infondatezza dell'Istruzione, che porta appunto il nome dell'arcivescovo. Perciò allega alla lettera un campionario di tali obiezioni, perché l'arcivescovo rifletta sui dubbi che in un teologo avvertito possono emergere dalla predicazione. Tale raccolta è costituita dalle famose Tesi, per le quali non possediamo altra data se non quella della lettera ad Alberto di Brandeburgo: 31 ottobre 1517. Esse si presentano dunque, in questa loro prima stesura, come spunti di riflessioni su cui Lutero si è fermato a lungo, animosamente, ma non come articoli di una professione di fede. Sono rivolte in via riservata all'autorità competente, e non gridate in pubblico con un gesto di protesta; intendono soprattutto proporre un confronto accademico, e non già concludere un dibattito intorno al quale, ancora nel marzo 1518, Lutero dimostra di non aver detto nemmeno a se stesso l'ultima parola.
Le 95 Tesi si collegano alla predicazione del domenicano J. Tetzel e all'Istruzionedata dall'arcivescovo. Alcune Tesi sono ironiche, altre mordaci, e si iscrivono nel contesto locale in cui le indulgenze venivano proclamate.
Le prime e le ultime Tesi riguardano la vita come penitenza:
1. «Il Signore e nostro maestro Gesù Cristo, dicendo "Fate penitenza", ha voluto che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza». 2. «Questa parola non può intendersi della penitenza sacramentale (cioè della confessione e della soddisfazione) che si compie per il ministero dei sacerdoti». 3. «Né d'altra parte intende la sola penitenza interiore, che anzi la penitenza interiore è nulla se non produce esteriormente varie mortificazioni della carne». 4. «Perciò la pena dura finché dura l'odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè fino all'entrata nel regno dei cieli». 40. «La sincerità della contrizione cerca e ama le pene, invece l'abbondanza delle indulgenze ne attenua il desiderio e fa odiare le pene». 94. «Bisogna esortare i cristiani perché si sforzino di seguire il loro capo Cristo attraverso le pene e le mortificazioni». 95. «E così confidino di entrare in cielo piuttosto attraverso molte tribolazioni (At 14,22) che per la sicurezza della pace».
Alcune Tesi vertono sui defunti e sul purgatorio:
8. «I canoni penitenziali sono imposti solo ai vivi, e nulla si deve imporre ai defunti in virtù dei medesimi». 10. «Agiscono male e con ignoranza quei sacerdoti che riservano ai moribondi pene canoniche in purgatorio». 29. «Chissà se tutte le anime del purgatorio vogliono essere liberate, come capita nel racconto dei santi Severino e Pasquale?»[11].
Altre Tesi - piuttosto ironiche - si riferiscono al papa, alle indulgenze e al tesoro della Chiesa:
50. «Se il Papa conoscesse le estorsioni dei predicatori di indulgenze, vorrebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che la si edificasse sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecore». 51. «Il Papa, se fosse necessario, anche a costo di vendere la basilica di San Pietro, vorrebbe dare il proprio denaro a moltissimi di quelli ai quali i predicatori di indulgenze lo estorcono». 58. «[I tesori della Chiesa] non sono costituiti dai meriti di Cristo e dei santi, perché questi, anche senza il Papa, operano sempre la grazia nell'uomo interiore». 62. «Il vero tesoro della Chiesa è il santissimo Vangelo della gloria e della grazia di Dio». 65. «I tesori del Vangelo sono reti con le quali in passato si pescavano gli uomini ricchi...». 66. «I tesori delle indulgenze, invece, sono reti con cui ora si pescano le ricchezze degli uomini». 75. «Ritenere che le indulgenze papali siano tanto potenti da poter assolvere un uomo, anche se questi avesse violato la Madre di Dio, è essere pazzi»[12].
Le Tesi sono legate alla prassi, alla teologia della penitenza e al sacramento della confessione, ma trattano anche del potere del papa e del tesoro dei meriti di Cristo e dei santi; non mancano gli aspetti finanziari legati alle lettere penitenziali. Sono centrate soprattutto sulla falsa sicurezza della salvezza che potrebbe dare una predicazione «strombazzata» delle indulgenze, mediante l'offerta in denaro e i riti esteriori: Dio salva tutti gratuitamente, perciò è insensato che la Chiesa lo faccia a pagamento con le indulgenze. Il cristiano deve piuttosto abbracciare la croce di Cristo, fare penitenza, aprire il cuore alla carità verso i poveri e porre la propria attenzione al «santissimo Vangelo della gloria e della grazia di Cristo» (Tesi 62).
Al termine della lettera, le Tesi forniscono, sì, un'esemplificazione, ma contengono pure una velata minaccia; tuttavia, anche se l'animo di Lutero è vibrante di indignazione, la minaccia si limita a indicare quali inattese reazioni possa suscitare in uno spirito fedele lo scandalo delle indulgenze. È chiaro che quella lettera non è il primo passo di un itinerario calcolato e nemmeno la prima mossa tattica di una rivolta: Lutero chiede solo una riflessione di fede, che si svolga a edificazione reciproca. Egli ne ha bisogno, perché lo scandalo lo ha profondamente ferito; ed è una riflessione necessaria, dato che il problema delle indulgenze deve essere chiarito nell'ambito di un dibattito accademico.
Le Tesi sono destinate alla riflessione accademica
Ecco la ragione per cui le Tesi sono state scritte in latino. Non erano destinate alla diffusione, meno che mai a una diffusione popolare: miravano a suscitare una conversazione, un approfondimento teologico tra persone a diverso titolo responsabili di quanto accadeva. Questo è il motivo per cui le Tesi forse non erano note nemmeno negli ambienti più vicini a Lutero, come tra i suoi interlocutori abituali a Wittenberg. Per Lutero, toccato nell'intimo dalla vergognosa predicazione dell'indulgenza, quelle Tesi rappresentano una possibile alternativa - e una radicale alternativa - su cui sta ancora riflettendo e su cui vuole essere aiutato a riflettere.
Non vi fu alcuna pubblica affissione delle Tesi
Lo chiede alla gerarchia ecclesiastica, con un gesto di comunione tipicamente cattolico, e non solo allo scopo di informare i superiori ecclesiastici delle sue intenzioni. Dice che lo ha pure chiesto ad alcuni interlocutori abituali, quelli che ha accanto a sé sul momento: una scelta un po' casuale, una conversazione a minimo livello, che aiuti il silenzio interiore e non gli si sostituisca; non una cerchia di specialisti con cui cominciare a misurarsi e a confrontarsi. Non solo dunque la mancata risposta dell'autorità, ma anche l'imprevista diffusione delle Tesi hanno mandato in crisi il proposito di raccoglimento e di conversione di un credente che si riconosce Chiesa e che sente su di sé la responsabilità di un peccato della Chiesa.
Bisogna aggiungere tuttavia che la diffusione delle Tesi, se non fu provocata da Lutero, non fu da lui efficacemente contrastata: l'attenzione rivolta alla sua persona fugò via via i suoi propositi di raccoglimento interiore e di ripensamento. Può riuscire interessante il confronto della lettera all'arcivescovo Alberto di Brandeburgo con altre due del medesimo periodo, in cui Lutero rivela liberamente il suo animo.
Nella prima, verso la fine del 1517 indirizzata a Spalatino, segretario del principe elettore Federico il Saggio, egli scrive di non aver inviato le Tesi al principe, e nemmeno agli altri suoi consiglieri, perché era giusto che le ricevessero per primi coloro che vi erano direttamente coinvolti.
Nell'altra, rivolta al principe e datata l'anno seguente (novembre 1518) Lutero è costretto a scusarsi, dato che si era sparsa la voce che le Tesi sarebbero state scritte su richiesta dell'elettore stesso. Egli insiste nel dire che nessuno, nemmeno gli amici intimi, erano stati informati di quelle Tesi, ma solo l'arcivescovo Alberto e il vescovo Hieronymus. «Io - concludeva Lutero - sapevo molto bene di dover portare questa faccenda prima di tutto davanti ai vescovi, e non davanti alle autorità secolari». E Lutero sottolinea pure, con umiltà e riverenza, che lo aveva fatto loro presente per lettera «prima di rendere pubbliche le Tesi della disputa»[13].
Tutto questo vale a confermare che non vi fu alcuna pubblica affissione delle Tesi il 31 ottobre del 1517. Alcuni amici si lamentarono personalmente con Lutero per non essere stati avvisati delle Tesi, ed è significativa la risposta che questi diede a uno di loro nel marzo seguente: «Alla tua meraviglia perché io non abbia divulgato le Tesi a voi, rispondo: non era mia intenzione, né mio desiderio farle circolare, ma solo, in un primo tempo, di metterne discorso insieme con i pochi che abitano qui da me o vicino a me, di modo che, arrivando a un giudizio comune di condanna o di approvazione, si decidesse di non parlarne più o di darle alla luce.
«Ma ora che vengono stampate e diffuse ben al di là della mia speranza, mi pento di questa mia creatura, non già perché non mi interessi che la verità sia conosciuta da tutti (che era anzi la mia unica aspirazione), ma perché una maniera del genere [di Tesi per una disputa] non è adatta per istruire il popolo. Su alcuni punti infatti non sono sicuro io stesso: perciò, se avessi sperato un simile successo, alcune cose le avrei affermate in modo molto diverso e più esatto, o le avrei lasciate cadere»[14].
La lettera all'arcivescovo costituì il primo passo compiuto da Lutero quando prese coscienza che, con il loro fare ciarlatanesco, i predicatori delle indulgenze agivano non a titolo personale, ma in base a una precisaIstruzione, cioè su direttive ufficiali della Chiesa locale. Gli fu allora chiaro che sarebbe uscito dalle sue competenze, se avesse preso l'iniziativa di decidere o fare qualcosa in questo campo; perciò si rivolse direttamente alle autorità responsabili, informandole di quanto accadeva a Wittenberg, dove l'elettore Federico il Saggio aveva proibito una simile predicazione. Le lettere d'indulgenza tuttavia si potevano ugualmente acquistare con un semplice viaggio fuori del ducato, nelle città vicine.
Le vicende della lettera di Lutero all'arcivescovo Alberto di Brandeburgo
La lettera ad Alberto di Brandeburgo venne spedita alla residenza abituale dell'arcivescovo, a Moritzburg, presso Halle, a circa 70 km da Wittenberg. Ma l'arcivescovo in quel momento era assente e si trovava ad Aschaffenburg, vicino a Magonza, senza che Lutero ne avesse sentore. Da una nota della cancelleria sappiamo che la lettera era giunta a Calbe an der Saale, dove i segretari l'aprirono, la registrarono in data 17 novembre e la inoltrarono al destinatario. L'arcivescovo ricevette la lettera entro lo stesso mese di novembre, dal momento che il primo di dicembre richiese il parere dei teologi dell'università di Magonza a proposito delle Tesi di Lutero.
Subito dopo egli scrisse alla propria cancelleria di aver ricevuto la lettera «con le affermazioni di un insolente monaco di Wittenberg, che riguardavano il santo affare delle indulgenze (heylig negocium Indulgenciarum)»[15]. Aggiungeva di aver spedito la documentazione alla Curia Romana con una denuncia. Infine l'arcivescovo suggeriva di aprire un processes inhibitorius, in cui si citava Lutero e gli si intimava, sotto minaccia di pena, di astenersi in futuro da ogni attacco all'indulgenza con prediche, dibattiti e libri.
L'attesa di Lutero
Dopo essersi rivolto ai vescovi, Lutero attese per qualche tempo la risposta. Ma questa non venne, anche per i ritardi epistolari ora menzionati. Uno dei discorsi conviviali (Tischrede) di Lutero, piuttosto tardivo, testimonia che il vescovo Schulze di Brandeburgo, nella cui diocesi è Wittenberg, gli rispose in quella circostanza con l'intimazione di non insistere sulle indulgenze, poiché si toccavano le istituzioni della Chiesa[16]. Certo passò del tempo senza che si avviasse quel tentativo di riflessione comune con le autorità della Chiesa che era alle origini dello scambio epistolare. Allora Lutero cominciò a trattare dell'argomento con gli amici e a trasmettere un esemplare manoscritto delle Tesi a teologi di sua fiducia.
Trent'anni dopo dichiarerà: «Io allora, trattato con alterigia, mi decisi a rendere pubbliche le Tesi»[17]. Di tale comunicazione allargata è prova la lettera all'amico Johannes Lang, priore del convento agostiniano di Erfurt, a cui poco prima del 31 ottobre 1517 Lutero aveva comunicato le Tesi contro la teologia scolastica: Tesi ben diverse da quelle sulle indulgenze, poiché attaccavano frontalmente la teologia e la Chiesa del tempo[18]. Questa lettera, che contiene le 95 Tesi, è datata 11 novembre 1517 una dozzina di giorni dopo quella indirizzata ad Alberto di Brandeburgo: segno dell'impazienza di Lutero, il quale immagina che l'arcivescovo risponderà quasi a stretto giro di posta.
Anche per la lettera a Lang va rilevato il tono della corrispondenza: Lutero vuol sapere da un amico personale, che è anche teologo in una università come Erfurt, che cosa pensi delle Tesi. E chiede soprattutto che gli siano indicati gli errori, se ve ne sono, pregando Lang di interpretare questa sua richiesta come sincera e non come espressione di falsa umiltà (Lutero parla addirittura di «ipocrisia»).
La diffusione delle Tesi
Va anche detto che fino ad oggi non è stato possibile dimostrare l'esistenza di una stampa originale delle Tesi a Wittenberg, e che le tre edizioni a stampa più antiche, apparse a Norimberga, a Lipsia e a Basilea, derivano da esemplari manoscritti diversi. La diffusione delle Tesi avvenne dunque, inizialmente, attraverso corrispondenze epistolari e comunicazioni personali: comunque sempre in fogli manoscritti, copiati più volte e passati di mano in mano, da amico ad amico.
Non sappiamo con precisione quando iniziò la diffusione a stampa delle Tesi: non prima della seconda metà di dicembre di quell'anno, il 1517[19]. È certo però che esse si diffusero rapidamente in Germania, dove nel gennaio del 1518 erano conosciute quasi dappertutto[20]. Si sa pure che furono accolte con favore da alcuni futuri avversari di Lutero, quali il Cochläeus, l'Emser e il duca Giorgio di Sassonia.
Lutero rimase colpito da una diffusione che non aveva previsto, e diede segno di dispiacersene, anche se accettò di buon grado che qualcuno gli avesse forzato la mano. Saremmo così di fronte a un primo esempio documentabile di quella interazione tra le iniziative solitarie di un uomo di punta e i consensi più larghi e meno meditati che esse raccolgono. Protagonista dell'itinerario storico che ne risulta non è propriamente il primo o il secondo dei due termini, bensì il rapporto dialettico tra l'uno e l'altro, nella loro reciproca opposizione o complementarità.
Lutero si affretta dunque a pubblicare due scritti destinati al pubblico, assolutamente diversi, nella stesura, dalle Tesi iniziali. Ora non ha più esitazione di fronte al grande consenso popolare, né su questa o quella Tesi, e può accantonare la lingua latina, ma non la formulazione perentoria, epigrammatica, dei diversi punti, che è propria di un tesario. Per questi due scritti egli ha chiesto e atteso ilplacetdel suo ordinario, il vescovo Hieronymus Schulz.
Il primo è ilSermone sull'indulgenza e sulla grazia,in tedesco, in cui Lutero condensò una catechesi a livello popolare; lo scritto apparve nell'aprile del 1518 e solo in quell'anno vide tredici edizioni[21]. Il secondo, leResolutiones disputationum de indulgentiarum virtute[22], indirizzato a un pubblico più colto, uscì nell'agosto del 1518: vi si formulavano le ragioni teologiche delle Tesi e insieme si spiegavano, con due lettere aggiuntive - una al suo superiore diretto, lo Staupitz, l'altra a papa Leone X -, le motivazioni di quel suo agire e parlare.
Nella lettera di accompagnamento al Papa, Lutero manifesta la propria sorpresa per l'involontaria diffusione delle Tesi e se ne rammarica, poiché quelle Tesi erano state preparate in fretta per pochi privati, e non erano nemmeno appropriate a un tal genere di diffusione. Poiché ora non è più possibile ritirarle dalla circolazione, egli chiede che si accolga questo scritto di chiarificazione: a lui sta a cuore l'autorità della Chiesa. Anzi, Lutero professa di riconoscere nella voce del Papa la voce di Cristo che governa e parla nella Chiesa[23].
La lettera si conclude con una singolare «Protesta», in cui Lutero dichiara le sue intenzioni: «Attesto di non voler dire o affermare nulla se non ciò che è contenuto innanzitutto nella Sacra Scrittura, poi nei Padri della Chiesa [...], nel diritto ecclesiastico e nei decreti del Papa»[24]. E termina: «Spero con questa mia protesta di aver detto abbastanza chiaramente che io posso, sì, sbagliare, ma che non si potrà fare di me un eretico»[25].
Questa presa di posizione non fu soltanto una «magistrale mossa di scacchi», come ha scritto K. A. Meissinger, secondo la consuetudine di attribuire al Lutero cattolico in difficoltà, ma desideroso di comunione con la Chiesa, l'animo con cui egli, negli anni successivi, rinuncerà formalmente a quella comunione[26]. «Con la loro singolare mescolanza di schietta umiltà, di consapevolezza profetica di sé e di ardito animo da "confessore della fede"», le lettere allo Staupitz e al Papa «dimostrano come fosse realmente possibile legare alla Chiesa [...] lo zelante monaco di Wittenberg, e di rendervelo fecondo»[27].
L'inizio della Riforma: 31 ottobre 1517
Le Tesi di Wittenberg quindi non esprimevano la sfida di un teologo alla Chiesa, ma il sincero desiderio di porre rimedio allo scandalo delle indulgenze e di giungere a un chiarimento qualificato su una questione di fede e di vita cristiana; indicavano in sostanza la necessità di una riforma. A quella data - come Joseph Lortz ha più volte rilevato - Lutero non si proponeva affatto una rottura nella Chiesa. La rottura poi avvenne, ma contro le sue intenzioni originarie. Vi concorsero invece l'entusiasmo che le Tesi raccolsero, da parte dei dotti prima e poi del popolo, per il convergere di tensioni ormai antiche; la difficoltà di Lutero a sottrarsi a quell'ondata di consensi; e la mancata risposta delle autorità della Chiesa alla richiesta di una seria riflessione di fede su quel punto controverso e di una profonda volontà di riforma.
Ecco anche la ragione per cui le Tesi di Wittenberg non possono essere state affisse, almeno in quella data, il 31 ottobre 1517. In ogni caso, dagli annali dell'Università, dove sono documentate le principali tesi discusse in quell'anno, non risulta alcuna affissione per le 95 Tesi, che costituivano invece un problema di coscienza e il desiderio sincero di un monaco, docente universitario, che cercava anche una chiarificazione personale. Bisogna aggiungere tuttavia che la diffusione delle Tesi, se non fu provocata da Lutero, non fu neppure da lui efficacemente contrastata: l'attenzione rivolta alla sua persona dissipò i suoi propositi di ricerca interiore e di riflessione accademica.
Tuttavia si può affermare che la Riforma iniziò effettivamente il 31 ottobre 1517. Il giorno natale della Riforma non è determinato tanto dall'affissione delle Tesi di Wittenberg, quanto dalle due lettere di Lutero al proprio vescovo e al responsabile della predicazione delle indulgenze. Con la preghiera di porre fine allo scandalo delle indulgenze, egli chiedeva con forza e con sollecitudine una «riforma» nella Chiesa.
Note al testo
[1] Le indulgenze a favore dei vivi e dei defunti furono concesse da Giulio II nel 1507 e da Leone X nel 1513, per la costruzione della Basilica di San Pietro. Nel Magdeburgo furono proclamate all'inizio del 1517 e si potevano «acquistare» con le lettere penitenziali. Nella Sassonia la predicazione delle indulgenze non era stata concessa, per non scoraggiare il pellegrinaggio alle reliquie della chiesa del castello di Wittenberg.
[2] «Praefatio Melanthonis in "Tomum secundum omnium operum R. D. Martini Lutheri”», in Corpus Reformatorum 6, Halis Saxonum, C. A. Schwetschke, 1839, 161 s. All'origine del dibattito sull'affissione delle Tesi stanno gli studi di H. VOLZ, Martin Luthers Thesenanschlag und dessen Vorgeschichte, Weimar, Böhlau, 1959. Egli cerca di dimostrare che l'affissione delle Tesi è avvenuta non il 31 ottobre 1517, ma il giorno seguente, nella festa di Ognissanti.
[3] H. BOEHMER, Luthers Romfahrt (1510/11), Leipzig, Deichert, 1914, 8.
[4] E. ISERLOH, Lutero tra Riforma cattolica e protestante, Brescia, Queriniana, 1970 (orig.: Luther zwischen Reform und Reformation, 1966); cfr W. UWE, lserloh. Der Thesenanschlag fand nicht statt, ed. B. HALLENSLEBEN, Basel, F. Reinhardt, 2013. Iserloh si pone il problema se Lutero sia divenuto «riformatore» mediante una rottura con la Chiesa oppure per un sincero desiderio di riforma della Chiesa. Lo studioso è per la seconda alternativa, che ha la sua dimostrazione anche nella mancata affissione delle Tesi: non si tratta di un «dettaglio» insignificante, ma di un problema determinante, che scardina la leggenda dell'affissione come gesto di sfida alla Chiesa.
[5] Cfr il testo completo della lettera in E. ISERLOH, Lutero..., cit., 93-97.
[6] La lettera si trova ancora oggi nell'archivio reale di Stoccolma: cfr D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe (Weimarer Ausgabe), Weimar, H. Böhlau, 1883 e ss (= WA), Briefe 1, 108 s.
[8] Cfr E. ISERLOH, Lutero..., cit., 95: «Nessun uomo è sicuro della propria salvezza. [...] Anzi, l'Apostolo ci comanda di operare per la nostra salvezza in timore e tremore (cfr Fil 2,12). [...] Le indulgenze non danno niente di buono alle anime per quanto riguarda la loro salvezza e santificazione. [...] Inoltre le opere di pietà e di carità sono infinitamente migliori delle indulgenze».
[9] «La prima e unica missione di ogni vescovo deve essere che il popolo conosca l'evangelo e l'amore di Cristo. Mai infatti il Cristo comandò di predicare le indulgenze, ma con grande insistenza comandò di predicare l'evangelo. Quanto grande è perciò l'errore e il pericolo per un vescovo se, taciuto l'evangelo, non permette tra il suo popolo se non il baccano delle indulgenze e si cura più di queste che dell'evangelo» (ivi, 95 s).
[11] Di questi santi non si sa molto. La tradizione popolare affermava che erano nel purgatorio ed erano così santi da volerci rimanere il più possibile per acquistare meriti per il paradiso (vi si allude in J. Von PALTZ, Celifodine).
[12] M. LUTERO, Le 95 Tesi, Pordenone, Studio Tesi, 1989, 7-15.
[14] Ivi, 152, 6-15: lettera a Scheurl, del 5 marzo 1518.
[15] Cfr Corpus Catholicorum 41, Münster, Aschendorff, 1988, 305.
[16] WA, Tischrede 2, 479, 6-8. Il discorso conviviale è della primavera del 1532.
[17]Vorrede zum 1. Bande der Gesamtausgabe seiner lat. Schriften, Wittenberg, 1545: WA 54, 180, 12-20. Anche nello scritto Wider Hans Worst del 1541 Lutero richiama la mancata risposta dell'arcivescovo (WA 51, 540, 19-21).
[18] WA, Briefe 1, 103, 6-8: lettera a J. Lang, del 4 settembre 1517.
[19] Così secondo lo studioso K. Honselmann, Urfassung und Drucke der Ablassthesen M. Luthers und ihre Veröffentlichung, Paderborn, Schöningh, 1966, 17-29.
[23] E. ISERLOH, Lutero..., cit., 160. Iserloh rileva anche attraverso le parole di Lutero come egli divenne «riformatore senza volerlo»: Nunc, quid faciam? Revocare non possum et miram mihi invidiam ex ea invulgatione video conflari: invitus venio in publicum periculosissimumque ac varium hominum iudicium, praesertim ego indoctus, stupidus ingenio, vacuus eruditione (Lettera di presentazione delle Resolutiones a Leone X: WA 1, 529, 3-6).
[24]Primum protestor, me prorsus nihil dicere aut tenere velle, nisi quod in et ex Sacris literis primo, deinde Ecclesiasticis patribus ab Ecclesia Romana receptis, hucusque servatis et ex Canonibus ac decretalibus Pontificiis habetur et haberi potest (WA 1, 529, 33-530, 1).
[25]Hac mea protestatione credo satis manifestum fieri, quod errare quidem potero, sed haereticus non ero (WA 1, 530, 10 s).
[26] K. A. MEISSINGER, Der katholische Luther, München, Lehnen, 1952, 162.
[27] E. ISERLOH, «Martin Lutero e gli esordi della Riforma», in H. JEDIN (ed.), Storia della Chiesa. VI, Riforma e Controriforma, Milano, Jaca Book, 1975, 61; ID., Lutero..., cit., 171.
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 7/8/2015 un articolo di Manlio Simonetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Il periodo patristico
Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2017)
Credo che difficilmente si possa trovare un’altra opera letteraria che abbia suscitato tanti problemi e proposto tante difficoltà quanti ne ha proposto e suscitato il De principiis (in greco Perì archòn) di Origene, dall’antichità fino a oggi.
Nell’ambito dell’immensa produzione letteraria di Origene l’opera non solo è una delle pochissime non dedicate ex professo all’interpretazione della Scrittura, ma è anche l’unica, a nostra conoscenza, nella quale Origene abbia avuto intenzione di fissare per scritto, in modo passabilmente organico, i punti principali della sua riflessione dottrinale, in ambito teologico cosmologico escatologico; e la struttura per più versi anomala dell’opera quale oggi noi la leggiamo, non semplicemente riconducibile a dos grandes ciclos de enseñanza (p. 24), come scrive il nuovo editore, ci fa capire che la sua stesura debba essere stata tutt’altro che semplice e lineare.
Sappiamo bene quante traversie ebbe a subire il De principiis già subito dopo la sua diffusione al di fuori dell’ambito ristretto dell’entourage di Origene, tra cui l’accusa presentata addirittura al vescovo di Roma Fabiano, a proposito di quanto vi si leggeva sul destino finale del diavolo, il che costrinse l’autore a una imbarazzata difesa.
L’innovativa proposta dottrinale e culturale di Origene, subito conosciuta al di là dell’ambito alessandrino, provocò, tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, insieme con calorose adesioni, anche e soprattutto violenta opposizione, soprattutto in ambienti orientali ben lontani culturalmente da quello alessandrino.
L’opposizione travalicava dall’ambito dottrinale, investendo, con Eustazio di Antiochia, la ratio interpretandi della Scrittura, fondamento della cultura cristiana, e dato che su questo argomento Origene aveva proposto, nel quarto libro, un vero e proprio trattato di ermeneutica biblica, il primo di cui abbiamo notizia in ambito cristiano, anche sotto questo aspetto l’opera ebbe a trovarsi nell’occhio del ciclone.
Quando poi, verso la fine del IV secolo, la polemica antiorigeniana si stabilizzò, auspice Epifanio di Salamina, in ambito dottrinale, le critiche si concentrarono, con accanimento pari solo alla loro superficialità, su questa opera, e di qui furono tratte le proposizioni che per tempo incorsero nella condanna ufficiale della chiesa.
Un momento fondamentale di questa vicenda, destinata a protrarsi per più secoli, si ebbe quando Rufino di Aquileia, fervente ammiratore di Origene, dopo un soggiorno di molti anni in Palestina, ritenne opportuno ritornare in occidente, e a Roma — siamo alla fine del IV secolo — tradusse in latino l’opera, il che significò la dilatazione della polemica in occidente.
Imprudentemente Rufino vi coinvolse Girolamo, che a sua volta tradusse nuovamente il Perì archòn in latino. In effetti Rufino aveva precisato, nella prefazione preposta alla traduzione, di aver modificato in senso ortodosso alcuni passi dell’opera che potevano apparire poco congruenti con l’ortodossia di fine IV secolo, dichiarando di essersi ispirato, per tale procedimento, al modo con cui Girolamo aveva in precedenza tradotto alcune omelie origeniane.
La violentissima reazione del suscettibile eremita si concretò, tra l’altro, in una nuova traduzione, dichiaratamente fedele all’originale, in modo che ne risaltassero gli errori dottrinali. Il fatto che delle due traduzioni è sopravvissuta quella di Rufino, mentre è scomparsa quella di Girolamo, ci fa capire che la traduzione geronimiana dovette apparire talmente tendenziosa in senso antiorigeniano che le persone le quali allora s’interessarono alla polemica, ovviamente di buon livello culturale e capaci di giudizio autonomo, preferirono privilegiare, delle due traduzioni, quella rufiniana.
Peraltro, una serie di passi, di particolare significato dottrinale, della traduzione di Girolamo è giunta a noi tramite la lettera 124 nella quale questi, rispondendo all’amico Avito che gli aveva chiesto schiarimenti sulla questione, li ha riportati insieme con una notizia di carattere complessivo sull’opera.
Il De principiis, a causa delle ripetute condanne comminate alla memoria di Origene in oriente e culminate in quella del concilio ecumenico costantinopolitano del 553, è scomparso nell’originale greco. Sono sopravvissuti, a nostro beneficio, una serie di passi dottrinalmente significativi fatti estrapolare, ai fini della condanna, dall’imperatore Giustiniano, due lunghi passi, rispettivamente tratti dai libri III e IV, in quanto trascritti nella Philokalìa, antologia di scritti origeniani fatta comporre in ambiente cappadoce nella seconda metà del IV secolo, e qualche altro frustulo di valutazione difficile e controversa.
Ci siamo dovuti dilungare su questi preliminari perché il lettore sia avvertito subito della gravità dei problemi che deve affrontare lo studioso dei nostri giorni che si accinga all’arduo compito di allestire l’edizione critica del testo. Le difficoltà sono di due generi. In primo luogo l’editore ha a che fare con una traduzione latina tramandata da un buon numero di manoscritti, che va integrata con l’apporto di una tradizione indiretta particolarmente ampia, il cui rapporto con la traduzione rufiniana in più casi è molto problematico.
In effetti Girolamo e Giustiniano riportano sia passi il cui senso diverge, a volte di molto, da quello dell’omologa traduzione rufiniana e il rapporto tra le due traduzioni non è sempre chiaro, sia passi che Rufino ha omesso di tradurre e la cui collocazione nel contesto della sua traduzione non è sempre agevole.
Inoltre l’editore, alle prese con una traduzione che, pur non essendolo, si presenta come completa e con una tradizione indiretta ampia e, dove non si tratta della Philokalìa e di Girolamo e Giustiniano, di ancor più difficile valutazione, deve trovare il modo di presentare tutto questo materiale nel modo più completo e chiaro possibile, e in questo lavoro non può sempre esimersi dal prendere posizione riguardo al valore dei testi di cui si occupa. Di per sé non è compito dell’editore , una volta che abbia presentato nel miglior modo possibile tutto il materiale a sua disposizione, valutarlo anche quanto all’attendibilità storica dei contenuti del testo che propone.
Ma nel caso del De principiis, data la complessa vicenda della trasmissione del testo e lo stato disastrato in cui oggi lo conosciamo, l’editore in più casi non può prescindere da tale valutazione, anche se solo implicita quando decide di accogliere nel testo un passo di tradizione indiretta. Per intenderci su questo punto, al centro del contenzioso c’è la valutazione da dare della traduzione di Rufino, che l’autore stesso ha presentato come adattata, perciò non sempre fedele.
Tra la metà dell’Ottocento e gli anni venti del Novecento ha prevalso, nell’ambito degli studiosi interessati, la convinzione negativa che Rufino avesse modificato il testo origeniano fino al punto da svisarlo completamente quando esso trattava delle questioni più delicate e dibattute.
In tale contesto critico ha visto la luce (1913) l’edizione, fondamentale per la collezione di cui fa parte (i «Griechischen christlichen Schriftsteller»), a cura di Paul Koetschau, che ha utilizzato l’amplissimo materiale da lui raccolto nella convinzione che Rufino avesse alterato profondamente il testo originale, e l’ha edito sulla base di questa convinzione.
Di qui è derivata una duplice conseguenza negativa. Da una parte, in caso di divergenza tra Rufino da una parte e Girolamo e Giustiniano dall’altra, Koetschau ha dato pressoché sistematicamente ragione alla tradizione indiretta, che invece, data la sua tendenziosità, va attentamente valutata caso per caso. Convinto altresì che Rufino, tra l’altro, avesse operato numerosi tagli nell’originale, non contento delle integrazioni ricavabili dalla documentazione fornita da Girolamo e Giustiniano, ha fatto ricorso, per sanare le presunte lacune, a testi quanto mai svariati, dagli anatematismi del 553 a scritti di Gregorio di Nissa, al De sectis dello Pseudo-Leonzio e ad altri ancora.
Quando, in anni più recenti, si è imposta l’opinione che Rufino avesse, sì, modificato il testo originale, ma molto meno di quanto Koetschau e altri avessero ipotizzato, di conseguenza si è capito che il criterio che aveva presieduto alla costituzione del testo origeniano proposta da Koetschau fosse da respingere. D’altra parte, la raccolta di materiali sulla quale egli aveva fondato la sua edizione costituisce tutt’ora il punto di partenza da cui ogni editore deve prendere le mosse, anche se la valutazione che ne dà debba essere ben diversa da quella di Koetschau.
Di tutto questo ha tenuto conto il cileno Samuel Fernández, addottorato in teologia patristica presso l’Istituto Augustinianum di Roma, per l’allestimento di una nuova edizione del testo, corredata da traduzione spagnola e adeguata annotazione. L’edizione della traduzione di Rufino è fondata su una nuova collazione integrale dei manoscritti, accresciuti, rispetto a quelli collazionati da Koetschau, da un altro, importante testimone, e la stessa attenta cura è stata dedicata alla tradizione manoscritta dei due ampi frammenti della Philokalìa.
La traduzione, in lingua spagnola, è quanto mai benvenuta, in quanto la recente traduzione, a opera di Josep Rius Camps, è in lingua catalana, destinata perciò a circolazione molto ristretta. Ma il De principiis, dato lo stato miserevole nel quale è giunto a noi, non può essere letto, sia nel testo sia in traduzione, come abitualmente si fa per ogni altro libro, ma il lettore deve continuamente orientarsi nel confronto tra la traduzione latina e la tradizione indiretta, e non lo può fare se non soccorso da un adeguato corredo di note.
In questa nuova edizione tale corredo si presenta come rispondente al meglio a questo difficile compito, nel senso che il novello editore è riuscito a proporre al lettore, tra testo e note, un quadro della situazione testuale insieme completo e chiaro, senza per altro appesantirlo e complicarlo con sovrabbondanza di note. Insisto su questo punto, perché so bene per esperienza quanto sia difficile orientarsi nel continuo confronto tra la traduzione latina e la tradizione indiretta. Senza eccedere in quantità, le note appaiono adeguate alla duplice finalità di chiarire i termini di quel confronto e, mediante anche un’abile scelta di luoghi paralleli, di entrare nel merito di un contenuto sempre di difficile comprensione e talvolta, nello stato in cui è giunti a noi, pressoché incomprensibile. Valendosi anche dell’utilizzazione di caratteri di stampa diversi e di un’accurata disposizione grafica del complesso materiale, Fernández lo presenta al lettore con chiarezza che agevola di molto leggibilità e comprensione.
Nell’introduzione, che con chiarezza e concisione espone tutti gli aspetti della complessa problematica che il De principiis propone a chi lo studia o anche semplicemente lo legge, va segnalata in modo particolare la cura con cui viene indagata la complessa materia relativa ai titoli diversi che, sia nella traduzione latina sia nella tradizione indiretta, corredano le varie sezioni nelle quali è ripartito il testo. Samuel Fernández ha dedicato lunghi anni alla stesura di questa sua edizione, ma alla luce di quanto ora leggiamo li possiamo considerare bene spesi.
Riprendiamo sul nostro sito un contributo preparato da suor Pina Ester De Prisco per il Sussidio del Centro Oratori Romani 2017/2018. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli su Giosuè, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2017)
Il libro di Rut si apre con uno scorcio tematico che richiama una profonda contraddizione: Betlemme - casa del pane - si ritrova priva di pane. Una carestia improvvisa si abbatte sulla città e il popolo deve cercare altrove il cibo. Tra costoro troviamo anche un uomo che, insieme alla sua famiglia, è costretto ad emigrare: Elimèlech con la moglie Noemi, e i loro due figli, Maclon e Chilion. Una famiglia che appartiene ad un piccolo borgo, Efrata di Betlemme, che rievoca una profezia del libro di Michea: «E tu Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele; le sue origini sono dall’antichità dai giorni più remoti» (Mi 5,1).
Il nucleo familiare arriva a Moab e lì Elimèlech muore, lasciando Noemi sola con i suoi figli, i quali sposano due donne moabite: Rut e Orpa; ma dopo dieci anni, all’improvviso, muoiono anche i due giovani, lasciando vedove anche le due donne.
Noemi in poco tempo si ritrova vedova e priva dei due figli, in un paese straniero, con a carico due giovani donne vedove, senza figli! Così decide di ritornare a Betlemme, perché ha saputo che il Signore si è mostrato ancora una volta benevolo con la sua terra d’origine, donando ancora pane.
Si mette in cammino verso Betlemme insieme a Rut e Orpa, ma Noemi a questo punto chiede loro di compiere una scelta diversa dalla sua, ossia di non seguirla più, di tornare dalle loro madri, alla loro terra, e soprattutto cercare un nuovo marito; le bacia ed è decisa ad accomiatarsi da loro, ma esse piangono a voce alta, si disperano, non vogliono lasciarla. Noemi insiste, sa che non può assicurare loro un futuro e soprattutto sente che la mano del Signore si è manifestata contro di lei, sente tutta l’amarezza della sua nuova condizione.
Orpa dopo alcuni tentennamenti decide di tornare alla sua terra. Rut, invece, si mostra irremovibile e prosegue nel viaggio; non vuole lasciare l’anziana Noemi, già così provata. La giovane non solo è decisa a non abbandonarla, ma sancisce con Noemi un patto molto forte, un’alleanza, che ricorda quelle pronunciate da Dio nelle grandi promesse con i suoi servi: «Dove andrai tu andrò anche io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anche io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rt 1,17).
Un giuramento che lega le due donne per tutta la vita, ma è anche la dichiarazione di fedeltà di Rut alla propria storia, alla propria scelta, alla propria condizione. Noemi, vedendola così decisa non contesta più la scelta di seguirla e arrivavano insieme a Betlemme; qui tutta la città si interessa a loro, in particolare di Noemi, la quale chiede di non essere chiamata più con il suo nome, bensì “Mara”, perché il Signore ha reso amara la sua vita, rendendola vedova e priva di figli. È un ritratto amaro, quello che Noemi restituisce alla sua terra d’origine, era partita “piena” e ora si ritrova vuota, perché il Signore si è dichiarato contro di lei. Il primo capitolo del libro, però, si chiude con una gradazione di speranza: a Betlemme è il tempo della mietitura dell’orzo, è tempo di gioia, perché viene raccolto l’orzo, l’orzo che porterà il pane e finalmente la fine della carestia. Nonostante Rut e Noemi siano attraversate da una grande sofferenza, nonostante Noemi senta contro di sé la mano di Dio, nonostante tutto il dolore vissuto… il grano già biondeggia ed è pronto per essere raccolto. La stipulazione della fedeltà di Rut a Noemi coincide con i campi che si colorano di dorato per l’abbondanza del grano.
Rut è decisa a fare la sua parte, vuole guadagnarsi il pane per lei e Noemi, e il racconto anticipa che c’è un parente di Noemi, un certo Boaz, uomo potente e ricco che apparteneva alla famiglia di Elimelech, il quale possedeva un campo.
Rut si reca a spigolare in campagna, dietro ai mietitori e per caso si trova nel campo di Boaz, il quale vedendola, subito, chiede al suo servo incaricato di sorvegliare i mietitori chi sia quella giovane donna. E il servo racconta dell’appartenenza con Noemi, ma soprattutto evidenzia quanto la giovane abbia lavorato tutto il giorno, senza mai fermarsi. Boaz, guardandola e ascoltando il racconto della sua indefettibilità, rimane intenerito, tanto da dirle di non cercare altri campi in cui spigolare, ma la invita a rimanere lì, ove lui assicurerà la sua protezione. Rut è stupita da tanta generosità e chiede cosa abbia suscitato l’abbondanza di benedizione nella sua vita, la risposta di Boaz la rimanda alla sua fedeltà a Noemi, al suo andare presso un popolo e una terra non sua. È proprio la fedeltà di Rut alla sua storia che le consente ora di “usufruire” di questa grazia. Boaz, però, le assicura che è lo stesso Signore a consegnarle il salario per ciò di cui ha bisogno, in quanto sottraendosi alla protezione della sua famiglia d’origine, si è posta sotto le ali del Dio d’Israele, presso il quale è venuta a rifugiarsi. Boaz non solo si impegna a proteggerla, ma cerca anche di agevolarla, chiedendo ai mietitori di lasciarla spigolare anche laddove non è permesso e addirittura esigendo di far cadere le spighe dai loro mantelli, così da fargliene raccogliere in più. Alla fine della giornata Rut fa ritorno in città dalla suocera, la quale chiede il resoconto della sua giornata; a questo punto Noemi che, per due volte, aveva affermato che la mano del Signore era contro di lei, qui benedice Dio, perché le sta usando bontà, aggiungendo che Boaz, in quanto suo parente stretto ha su di loro il diritto di riscatto.
Rut anche qui, per la seconda volta nella storia, decide di radicarsi, non vuole andare in altri campi, in cerca di altri padroni, non vuole tentare oltre la bontà di Dio; ma rimane laddove il Signore l’ha posta. Noemi nella sua sapienza intuisce che Boaz è l’uomo giusto per Rut e le indica cosa fare per conquistarlo; e difatti i due sentono di essere uniti, ma non possono sposarsi senza il permesso del parente più prossimo a Noemi, ed è così che Boaz si reca alla porta della città per contrattare con colui avente il diritto di riscatto.
Il parente prossimo si mostra interessato a comprare il campo di Noemi, ma non a sposare Rut e l’uomo alla presenza di testimoni, si toglie i sandali, per significare il suo cedere il diritto a Boaz. Dopo tale rinuncia Boaz e Rut si uniscono in matrimonio e tutte le donne si complimentano con Noemi, perché il bambino nato da tale unione significherà per lei più di sette figli. Il bambino sarà chiamato Obed e così in un modo originale e misterioso inizia la genealogia di Gesù, di cui la vergine Maria sarà madre. Dal servo Obed al servo Gesù, da Rut a Maria, la storia della salvezza si snoda attraverso storie di fedeltà al Signore.
All’Expo di Milano, di qualche anno fa, nel padiglione dello Stato Vaticano era stato allestito un grande tavolo, all’apparenza vuoto, ma toccandolo con le mani, esso si animava di immagini, che raffiguravano cibo, mani che lavoravano, che giocavano, che si incontravano. Più persone toccavano il tavolo, più esso diventava “vivo”, fino a un’interazione di immagini tra le persone presenti intorno al tavolo.
E quando ci consegniamo al rischio della relazione, tutto diventa dono, anche il pane!
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Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2017)
Il racconto della vocazione di Samuele si apre con un versetto che ci fornisce due elementi importanti per la lettura del testo: Samuele continuava a servire il Signore, sotto la guida di Eli. Due indicazioni importanti per la vita di Samuele che è un servo, ma anche un discepolo di Eli, messo sotto la sua protezione. È il sacerdote Eli a dirigere la vita del santuario, anche se fattivamente è il giovane Samuele a farsene carico, attraverso il lavoro e la dedizione.
Pochi versetti prima l’autore ci informa che Samuele cresceva in statura e bontà davanti al Signore e agli uomini (1 Sam 2,26), parole che saranno riprese dall’evangelista Luca nella descrizione della crescita di Gesù (Lc 2,40).
Il servizio che è chiamato a svolgere Samuele ha una caratteristica importante: è contraddistinto dalla rarità della Parola di Dio e dalla poca frequenza delle visioni, dunque c’è una “penuria del vedere e dell’ascolto”. Per cui la vocazione di Samuele si colloca in un tempo di aridità, non è un tempo favorevole, qualificato di estasi, visioni, annunci, ma è tempo di silenzio e sobrietà.
Eppure Samuele continua a rimanere nel tempio e a stare con Eli, che ormai è un uomo vecchio, non più capace di vedere. Samuele è un giovane solo, perché serve Dio che non parla e non si fa vedere ed è in compagnia di un uomo che, ormai per la sua età avanzata, si ferma a casa e non va più nel tempio.
L’autore ci introduce in un particolare che di primo impatto potrebbe risultare superficiale: «la lampada di Dio non era ancora spenta» – cosa significa tale sottolineatura? Che il giorno non era ancora arrivato, non era ancora mattino, perché il libro del Levitico (Lv 24,1-4) ci riferisce che la lampada ardeva da sera a mattino davanti al Signore. Samuele sta dormendo ed è coricato nel tempio del Signore, accanto all’arca di Dio e il Signore si rivela lì, lo chiama ed egli risponde; corre da Eli perché crede che a chiamarlo sia stato lui, ma quest'ultimo gli dice di tornare a dormire, perché non lo ha chiamato. Samuele obbedisce e torna a dormire. Il Signore lo chiama per la seconda volta e tutto si ripete come la prima volta.
Il testo precisa che fino a quel momento Samuele non aveva conosciuto il Signore, né mai gli era stata rivolta una parola da parte sua, ed è per questo che quando Samuele si sente chiamato, pensa che a farlo sia stato Eli – unica figura autorevole e religiosa conosciuta finora.
Il Signore chiama ancora una terza volta e a questo punto Eli comprende che sta accadendo qualcosa di grande nella vita del ragazzo, ma di rilevante anche per quel momento storico, rappresentato dalla scarsità della Parola di Dio e delle visioni. Eli si desta, prende coscienza che questo è anche il suo momento, quello di fare ciò che compete ad ogni sacerdote: guidare il ragazzo all’incontro vero con il Signore.
A questo punto tutto comincia ad assumere contorni più visibili e chiari nella vocazione di Samuele, e sono interessanti le indicazioni che Eli dà al ragazzo, sono le parole di un uomo saggio.
In primis gli dice di tornare a dormire, ossia alla condizione nella quale si trovava prima di essere chiamato, poi gli dice che se il Signore lo chiamerà ancora, può rispondergli in questo modo: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta». E Samuele obbedisce, è giovane, e sa ascoltare, essere docile, ma soprattutto sa mettersi alla scuola di un uomo più grande e saggio.
In questo caso, però, l’aiuto risulta reciproco, perché la chiamata di Samuele aiuta anche il vecchio Eli - forse rimasto senza speranza - soprattutto la speranza di ascoltare la Parola di Dio e che il Signore scegliesse ancora di mostrarsi all’uomo con delle visioni. In questa notte la luce si sta riaccendendo anche nella sua vita.
Il Signore è intenzionato a incontrare Samuele e difatti arriva di nuovo, gli sta accanto, lo chiama, come le altre volte e si fa riconoscere secondo le indicazioni che Samuele ha ricevuto da Eli. È un dialogo tra Dio e Samuele, eppure la mano di Eli dirige questo nuovo incontro.
Il Signore lo coinvolge subito nei suoi piani, confermando la posizione di Samuele come “suo servo”, gli rivela ciò che ha intenzione di compiere contro la casa di Eli e, in particolare, contro i suoi due figli, i quali hanno peccato contro il Signore, ma che Eli non ha punito, lasciando che le loro scelleratezze non trovassero correzione.
Samuele ascolta e torna a dormire. Non si esalta dinanzi a tale visione e al mattino come sempre apre le porte della casa di Dio; la Parola di Dio non lo sottrae al suo quotidiano. Non osa, però, manifestare ad Eli il contenuto della visione avuta durante la notte. Eli, però, lo chiama e gli chiede quale discorso Dio gli abbia fatto. Eli ha capito che il Signore in quella notte si è davvero manifestato e chiede a Samuele di non nascondergli nulla di quanto il Signore ha espresso. Allora Samuele - ancora obbediente - gli rivela le intenzioni di Dio ed Eli risponde in un modo che per noi è sorprendente: «È il Signore! Faccia ciò che a lui piace». Quest’affermazione possiamo interpretarla in due modi: è il Signore che ha parlato e dunque riconosco la sua visita, Lui ha veramente pronunciato tali parole, ma può anche significare: è il Signore, è Lui il solo a poter decidere, ad avere autorità su tutto e soprattutto ad avere l’ultima parola sulla nostra vita. Eli, allora, si arrende alla Parola di Dio, non oppone resistenza.
Intanto Samuele dopo tale visione acquista autorità presso il popolo, perché il Signore è con lui, e non lascia andare nessuna delle parole che Dio pronuncia per lui, e tutte le parole ricevute da Samuele, sono ratificate da Dio, nel suo dargli compimento. Per tutto Israele si seppe che Samuele era diventato “il profeta del Signore” e le parole continue che Dio gli rivolgeva giungevano a tutto Israele, come Parola di Dio.
Il racconto di Samuele è paradigmatico di molte narrazioni di vocazione presenti nella Scrittura e in particolare nel Nuovo Testamento.
Il vangelo di Marco (Mc 1,14-20) in modo lapidario racconta della chiamata di due coppie di fratelli, tutti e quattro pescatori. I primi due colti nell’atto di gettare le reti, dunque all’inizio del loro lavoro, mentre gli ultimi due nel gesto di riassettare le reti, a conclusione della loro attività.
Gesù passa, li chiama, lo seguono, lasciando ogni cosa, senza remore, senza ripensamenti; come Samuele, come “tutti i chiamati della storia”, quando percepiscono la voce di Dio. Se attenti e connessi alla nostra storia presente, tutti possiamo essere capaci di ascoltare Dio che passa e chiama. E noi affascinati dalla sua voce, dalla sua Parola, non possiamo fare altro che lasciarci coinvolgere e avvolgere nella sua Missione.
Li chiamò: Samuele, Simone, Andrea, Giacomo, Giovanni…
Riprendiamo da L’Occidentale del 15/1/2017 un articolo di Benedetto Delle Site. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione.
Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2017)
Sembra che un pensiero eretico e non conformista serpeggi da alcuni anni nella patria della cultura laica e illuminista europea riscuotendo anche un significativo seguito. La Francia infatti continua a partorire provocazioni sconvolgenti sullo stato della nostra civiltà. Il libro di Michel Onfray “Décadence” in uscita in questi giorni Oltralpe per le edizioni Flammarion è solo l’ultimo esempio di un nuovo genere letterario che interroga, senza fare sconti, sulle grandi questioni eluse dal mainstream politicamente corretto: la crisi della democrazia, l’immigrazione e l’islam, l’eclisse culturale e demografica dell’umanità europea.
Due anni fa era stato Michel Houellebecq con il suo romanzo “Soumission” a immaginare una Francia governata dai Fratelli musulmani, descrivendovi la docile sottomissione delle élites progressiste pronte ad adattarsi al nuovo regime giuridico ispirato ai precetti della legge coranica. Il romanzo uscì proprio in concomitanza con la strage alla sede della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo generando reazioni contrastanti.
Anni prima lo stesso scalpore aveva fatto Éric Zemmour, ebreo di origini algerine e opinionista de Le Figaro pubblicando il suo “Le suicide français”, un atto d’accusa contro il Sessantotto e i suoi prodotti ideologici, i quali avrebbero castrato la Francia privando gli uomini francesi della loro virilità e condannando il paese all’islamizzazione. E la lista di autori potrebbe continuare. Pierre Manent e Alain Finkielkraut, Fabrice Hadjadj e Pascal Bruckner, pensatori differenti ma tutti contrassegnati dallo stesso destino: essere etichettati come “neo-reazionari” e banditi dai salotti della cultura politicamente corretta, quando non accusati di prestare il fianco al Front national.
Ma Onfray, classe 1959, saggista prolifico, è tutt’altro che il “becero codino” che qualcuno si aspetterebbe: attivista del Maggio francese, apologeta dell’ateismo e critico della globalizzazione da alcuni anni con le sue prese di posizione su utero in affitto, teorie gender e islam ha prodotto un cortocircuito nel paradigma della gauche. Primo firmatario in Francia di un appello per l’abolizione universale della maternità surrogata, nel suo precedente saggio “Pensare l’Islam” (non pubblicato in Francia, ma edito in Italia per i tipi Ponte alle Grazie) Onfray ha mosso una critica durissima all’islamismo, scatenando la polizia di pensiero transalpina che già prese di mira i libri di Oriana Fallaci.
Sembrano lontani i tempi quando l’autore francese, teorico di una filosofia edonista e libertaria, sembrava fare di tutta l’erba un fascio, scrivendo che tutte le religioni portano con sé il germe del fanatismo e della intolleranza. Una idea, quella di Onfray, condivisa con altri alfieri della propaganda anticristiana. Sappiamo come funziona la polemica antireligiosa in mezza Europa: il mondo laico sarebbe assediato da visioni arcaiche e antimoderne, ma gli strali degli ateisti, guarda caso, si concentrano sempre e solo sul cristianesimo, mentre un silenzio assordante e una autocensura dilagante rapiscono gli stessi pensatori quando ci si trova a parlare di Islam.
Nel suo ultimo lavoro, invece, che si annuncia già dal titolo assai pessimista sulle sorti della Francia e dell’Europa, Onfray descrive la civiltà occidentale come coinvolta in un declino irreversibile: tolta di mezzo la fede giudaico-cristiana e soppiantata da una amalgama di consumismo, diritti individuali, esplosione tecnologica, la nostra cultura attraversa un inverno demografico che prelude al suo definitivo congedo dalla storia.
E cosa sostituirà l’occidente ormai sterile? Onfray non sembra avere dubbi: il cristianesimo arranca cercando di inseguire la mentalità dei moderni, nessuno è disposto al sacrificio in nome di un iPhone, invece l’islam con la sua forza demografica non ha alcuna intenzione di lasciarsi assimilare. Su questo punto l’ateologo francese sembra ricalcare addirittura la visione di Samuel Huntington, teorico dello scontro fra le civiltà quale nota dominante della politica internazionale dopo il 1989.
Quello di Onfray, non c’è dubbio, è un prodotto che si fa spazio perché ha a disposizione un grande mercato, soprattutto dopo gli attacchi terroristici sul suolo francese. Tuttavia manifesta anche una istanza più profonda: ci libera dai leitmotiv della correttezza politica e ci permette una presa d’atto della crisi della cornucopia multiculturale e poliamorosa che credevamo sarebbe stato il mondo. Ma se la décadence esiste ed è innegabile, ci si chiede se essa non sia dovuta – come disse autorevolmente qualcuno – all’apostasia dell’occidente da sé stesso, un odio di sé e della propria eredità dal quale lo stesso Onfray non sembra riuscire ancora ad emanciparsi.
Riprendiamo dal sito di Romasette un articolo pubblicato il 3/11/2017 a firma Redattore sociale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione.
Il Centro culturale Gli scritti (5/11/2017)
Quale futuro per il Fondo italiano straordinario per l’Africa? In periodo di Legge di Bilancio e di discussioni circa la sua strutturazione è la Focsiv a chiederselo, con una nota in cui si afferma: «A settembre scorso si è potuto sapere, grazie ad una interrogazione parlamentare dell’Onorevole Quartapelle, che risultavano impegnati 140 milioni di euro sui 200 disponibili. Questi finanziamenti sono andati in gran parte a iniziative per la governance dei flussi migratori, lotta al traffico, controllo alle frontiere secondo un approccio più di sicurezza sul flusso delle migrazioni irregolari e poco sulle cause profonde delle migrazioni».
Continua la Focsiv: «Da un’attenta analisi degli investimenti realizzati si evince che solo il 5% dei 140 milioni di euro finora impegnati è andato alla cooperazione allo sviluppo, il 17% alla protezione e altrettanto ai ritorni, ben il 61% al controllo delle frontiere e alla governance delle migrazioni. Il 77% dei finanziamenti si è concentrato su Niger e Libia, laddove è più forte l’interesse a fermare i flussi irregolari. In particolare, secondo un’analisi di Asgi circa 15 milioni sono stati stanziati per spese di carattere militare».
Giova ricordare che la creazione del Fondo italiano straordinario per l’Africa «nasce dalla consapevolezza che la grande sfida e opportunità dei prossimi anni è lo sviluppo di rapporti politici, economici e sociali con questo grande continente, in modo anche da governare meglio le migrazioni – ricorda Focsiv -. Sono stati stanziati per questo fondo 200 milioni di euro da impegnare nel 2017 e il decreto di indirizzo ha stabilito che fossero destinati per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie».
Focsiv ha potuto analizzare, grazie anche alla recente disponibilità di informazioni, l’utilizzo delle risorse in dotazione di questo Fondo in un Policy Brief appena pubblicato, nel quale, dopo una dettagliata analisi, vengono presentate delle raccomandazioni sul futuro del rifinanziamento e orientamento del Fondo collegate, in un più ampio respiro, al futuro della politica italiana con l’Africa e alla politica europea sulla gestione dei flussi migratori.
«Nonostante quanto finora avvenuto auspichiamo che sia previsto un rifinanziamento del Fondo nella prossima Legge di Bilancio, in modo che si possa valorizzare nel quadro dell’impegno europeo e delle Nazioni Unite. È importante riprendere l’ambizione originaria riguardo una politica italiana con l’Africa più strutturale e comprensiva. D’altro canto, l’esperienza del Fondo mostra la rilevanza del peso italiano nelle istituzioni europee e nei suoi strumenti». Carta da giocare per la riforma del regolamento di Dublino e la creazione di un vero sistema comunitario di asilo, ha dichiarato Andrea Stocchiero, responsabile policy Focsiv .
«È necessario rafforzare un impegno che possa contribuire a migliorare il governo dei flussi con lo sviluppo delle comunità locali e, per la sua rilevanza, possa orientare la politica europea. È importante vi sia più trasparenza e possibilità di tracciare la spesa effettiva dei finanziamenti. Sicuramente bisogna passare ad un approccio più strutturale, come richiede il fenomeno migratorio, e investire di più nella protezione e per la cooperazione con le comunità locali e migranti».
E conclude: «È necessaria infine una profonda revisione della politica migratoria e di cooperazione che non sia ridotta al mero controllo delle frontiere, ma che sia attenta al rispetto dei diritti umani ed alle esigenze locali e regionali di mobilità, puntando, piuttosto, su misure di gestione dei flussi che siano realmente alternative all’irregolarità e al traffico degli esseri umani, negoziando canali regolari secondo quanto previsto dal Global Compact su migrazioni e rifugiati delle Nazioni Unite».
La I giornata mondiale dei poveri proposta da papa Francesco provoca anche la catechesi ad allargare ulteriormente il cuore di bambini, ragazzi e genitori, così come dei catecumeni, alla carità[1].
A partire dalla mia esperienza di parroco voglio suggerire qualche passo concreto per le comunità che ne avessero bisogno.
1/ I catechisti, la Caritas parrocchiale e il gruppo missionario parrocchiale
Innanzitutto, ho imparato che è bene che i catechisti e i collaboratori[2] della Caritas parrocchiali, ma anche quelli del gruppo missionario, si trovino insieme per proporre un cammino condiviso. Compito della Caritas parrocchiale, così come dei gruppi missionari presenti nelle diverse parrocchie, è proprio quello di animare l’intera parrocchia a crescere nella carità. Solo da un incontro dei diversi responsabili può nascere quel clima fecondo che genera esperienze di carità condivise da tutti. Se, invece, i collaboratori della Caritas e i catechisti non lavorano di comune accordo, tutto diviene più difficile.
In vista della Giornata mondiale dei poveri, allora, il primo suggerimento è che i diversi responsabili dell’animazione della carità si incontrino in parrocchia con i catechisti per costruire progetti comuni di servizio.
Certo è possibile fare dei servizi anche in grandi realtà e associazioni, ma essi rischierebbero di essere, per le famiglie della catechesi, delle esperienze occasionali, mentre proposte elaborate nel proprio quartiere permettono di rendere tali esperienze abituali e non sporadiche.
I gruppi della catechesi hanno bisogno di scoprire che è la comunità parrocchiale a porsi al servizio dei più deboli. Sperimenteranno così che è possibile servire chi è nel bisogno - non dobbiamo dimenticare che tanti diffidano della possibilità di incontrarsi realmente con i più poveri e temono tale incontro. Proprio la parrocchia è il luogo dove tutto questo può avvenire, perché ambiente vicino e fraterno.
2/ Differenziare il Centro d’ascolto dalla distribuzione di cibo e pacchi
In parrocchia è importantissimo differenziare il Centro d’ascolto dal Centro di distribuzione di aiuti, entrambi animati dalla Caritas parrocchiale, di modo che ogni persona in difficoltà possa essere conosciuta e ascoltata, prima di offrirle un aiuto.
Quando ero parroco, capii subito che senza questo passaggio non ci sarebbe mai stato un vero incontro con i poveri e tutto si sarebbe ridotto a dare loro pacchi e vestiti.
Riuscimmo dopo qualche anno di cammino a fare questa distinzione decisiva, stabilendo orari diversi per il Centro d’ascolto e il Centro di distribuzione: si accedeva alla distribuzione di pacchi, solo dopo essere stati prima ascoltati e conosciuti. Le persone in difficoltà si comunicavano via via la notizia di questo modo di procedere e divenne abituale anche per loro tutto questo. Fu un passaggio importante perché permise di incontrare realmente le persone e di non trattarle solo come numeri.
Quando le si conosceva nel primo momento dell’ascolto, gli animatori della Caritas proponevano loro di visitarle a casa, verificando così anche l’indirizzo che fornivano, e si mostrava loro che la comunità era pronta a fornire un aiuto medico, giuridico, psicologico, lavorativo, oltre che economico, a chi ne aveva realmente bisogno.
Chi invece era abituato a passare di parrocchia in parrocchia per chiedere solo qualche euro, senza voler essere veramente aiutato, capiva che la parrocchia preferiva dedicare le sue forze umane ed economiche a chi aveva più bisogno e desiderava provare ad uscire dalla situazione di disagio in cui si trovava e non permanervi a tempo indefinito.
Nessuno aveva accesso alla distribuzione di cibo o vestiti se prima non veniva ascoltato, in maniera da poter comprendere prima la sua situazione. In questa maniera l’aiuto diveniva addirittura maggiore anche economicamente e più significativo e ci si impegnava anche molto, senza dare solo elemosine, in un rapporto che diveniva via via stabile, ma a condizione che iniziasse un vero rapporto.
I laici, animatori della Caritas, capirono ben presto che chi chiedeva un aiuto immediato, senza voler essere minimamente conosciuto, scongiurando di dover partire entro un ora per la Svizzera o di avere la macchina ferma ad un chilometro di distanza per mancanza di benzina o di dover pagare una bolletta entro due ore, non intendeva in realtà essere aiutato ad uscire dalla sua situazione, ma voleva solo denaro e girava di parrocchia in parrocchia raccontando storie sempre diverse (o sempre uguali). Chi invece si avvicinava realmente per essere aiutato in profondità, era disponibile anche ad intessere un vero dialogo.
Dopo aver ascoltato le persone, gli animatori della Caritas, insieme ai sacerdoti, elaboravano una proposta di aiuto di lungo periodo.
3/ Il coinvolgimento dei genitori della catechesi quando si elabora un progetto di aiuto: chiedere ai professionisti il dono delle loro competenze e far loro incontrare i poveri
L’ascolto portava, ad esempio, a comprendere che la persona, a seconda dei casi, non aveva un dentista che gli curasse la bocca o un avvocato che lo aiutasse nell’ottenere la cittadinanza o la pensione, o un ufficiale del Municipio cui rivolgersi per avere un aiuto per i genitori ormai anziani (e così via).
Ci si rivolgeva allora ai genitori della catechesi o agli adulti della parrocchia chiedendo ad un dentista o ad un avvocato o ad un ufficiale dell’amministrazione di mettere a disposizione gratuitamente qualche ora per incontrare la persona in difficoltà e aiutarla a risolvere il caso.
Ecco qui un ulteriore suggerimento nel rapporto fra animatori della carità e catechisti. Mons. Di Liegro ripeteva spesso: “Io chiedo a un professionista non tanto di diventare catechista, quanto di regalare qualche ora di prestazione professionale per aiutare gratuitamente una persona che non si può permettere di pagare uno specialista”. A partire da questa intuizione i genitori delle Comunioni o delle Cresime che avevano quella specifica competenza potevano così aiutare una determinata persona suggerita dal Centro d’ascolto Caritas: si mettevano a servizio proprio con la loro capacità professionale.
Contemporaneamente gli animatori della Caritas offrivano alle persone che avevano conosciuto e ascoltato di poter ricevere cibo o altri aiuti concreti con un ritmo adeguato alle loro esigenze, venendo in parrocchia con una tessera preparata ad hoc, ad un’ora concordata - ad esempio una volta a settimana.
La distribuzione così non era caotica, ma ognuno veniva all’ora fissata, se necessario anche in segreto se era necessario per tutelare la dignità delle singole persone. Nei primi anni, invece, quando il Centro di distribuzione si chiamava ancora con il falso nome di Centro d’ascolto, non essendoci un vero ascolto previo, e le persone venivano direttamente solo per chiedere pacchi, si erano avuti anche liti fra persone bisognose che ritenevano che altri poveri avessero avuto di più di loro, quando si accalcavano tutte insieme.
4/ Le diverse comunità etniche presenti sul territorio e l’incontro con esse
Importantissimo è poi, nella mia esperienza, il coinvolgimento delle comunità etniche presenti nel territorio della parrocchia con i loro cappellani. Spesso, nei diversi quartieri, sono presenti determinate etnie, perché i migranti sono abituati a vivere gli uni vicini agli altri. La parrocchia, quando ero parroco, aveva creato un rapporto stabile con il cappellano dell’etnia presente in parrocchia (molti aiutavano gli anziani o lavoravano nelle case) e insieme al cappellano e ai suoi collaboratori si organizzava una festa nel quale la parrocchia e quell’etnia si ritrovavano insieme per una celebrazione, per uno scambio di esperienze e per una cena comune nella quale venivano cucinati cibi dell’una e dell’altra cultura.
Questo permetteva un incontro reale, ci si rendeva conto dei problemi del migranti che risiedevano nel territorio, li si aiutava ad incontrarsi con il loro cappellano e si proponeva anche un cammino comune per i bambini nell’oratorio estivo.
L’incontro era così ancora una volta fraterno e personale e le famiglie si conoscevano le une con le altre, condividendo ciò che cucinavano con semplicità. La stessa catechesi dell’Iniziazione cristiana vedeva insieme bambini italiani e bambini figli di migranti di culture diverse: come è evidente a tutti, i bambini, nella loro semplicità, aiutano anche gli adulti a dialogare e a condividere le stesse esperienze.
La presenza di tanti preti e suore di altre nazioni, in particolare dell’Africa, è uno strumento preziosissimo per in una chiesa che sappia integrare, a partire dal Vangelo. Ogni riflessione e ogni azione sui migranti che non tenga conto dei preti o delle suore africani o medio-orientali si rivela povera, perché bypassa proprio le persone che meglio conoscono quei migranti in difficoltà e possono fare da mediatori con le parrocchie, aiutandole a capire i veri problemi di quella cultura e le ragioni della migrazione, oltre che aiutare nelle difficoltà linguistiche.
Dove poi le parrocchie hanno aperto le porte per accogliere i profughi, ecco che ancor più esiste la possibilità di coinvolgere i ragazzi della catechesi e le loro famiglie in tale accoglienza.
Le testimonianze che stiamo raccogliendo mostrano che questo è possibile, ma che non è automatico, perché talvolta non si pensa a quanto sarebbe educativo per le giovani generazioni sperimentare l’accoglienza della comunità parrocchiale verso chi è costretto a fuggire dalla propria terra (cfr. su questo:
5/ I gruppi missionari, le adozioni “ecclesiali” a distanza e l’incontro con i missionari
Fondamentale è anche la valorizzazione dei gruppi missionari presenti in parrocchia (o la creazione di un tale gruppo, nei casi in cui mancasse. Guai a dimenticare che la carità è animata non solo dalla Caritas parrocchiale ma anche dai gruppi missionari. Nella parrocchia nella quale ero parroco erano sorti spontaneamente legami con ben quattro nazioni (due africane e due dell’America latina), grazie ad alcuni laici e alle suore che offrivano il loro servizio in parrocchia.
Anche qui proprio la presenza personale di queste famiglie, così come delle suore, facevano sì che ad ogni viaggio nelle missioni quell’esperienza venisse poi condivisa, raccontando anche ai bambini e alle famiglie della catechesi quanto era avvenuto.
Io stesso mi recai in quei luoghi e con me diversi laici scoprivano via via il desiderio di visitare quelle missioni per conoscere, condividere e aiutare.
Riflettendo insieme alle comunità di quei luoghi e alle famiglie che facevano da tramite, giungemmo alla decisione di non proporre più adozioni singole di bambini a singole famiglie della parrocchia, bensì di proporre quelle che chiamammo “adozioni ecclesiali”, in una sorta di “gemellaggio” tra due comunità. Un gruppo di famiglie - ad esempio un gruppo dell’Iniziazione cristiana - adottava un’intera classe scolastica di uno dei paesi aiutati, di modo che anche le comunicazioni che ci si scambiava non andavano da singoli a singoli, ma da una comunità all’altra. Si superava così anche il problema che era sorto in precedenza di bambini che chiedessero sempre più cose solo per sé o di famiglie che scoprivano il fallimento del loro aiuto perché il bambino da loro “adottato a distanza” interrompeva senza spiegazioni il cammino scolastico. Era, invece, una comunità che aiutava un’altra comunità e si metteva in conto che ci sarebbero stati fallimenti e succesi e che tutto andava condiviso insieme.
Questa forma delle “adozioni ecclesiali” e non “personali” venne suggerita dagli stessi missionari con cui eravamo in contatto da anni. La loro esperienza, infatti, li aveva portati alla conclusione che, quando si tratta di bambini, è meglio far sentire loro che una intera comunità di famiglie sostiene un intero gruppo di un villaggio. Questo aiutava le persone ad essere più solidali nel cammino e a non cercare aiuti solo per qualcuno a discapito di altri, ma per tutti insieme.
Inoltre le “adozioni ecclesiali” permettevano l’elaborazione di un progetto, in modo che l'aiuto non fosse solamente un’elemosina, ma avesse come corrispettivo la richiesta di impegnarsi per una maturazione, nello studio. Erano, infatti, i responsabili del gruppo aiutato che mandavano i risultati complessivi dell'intera classe, facendo sentire ai bambini che avevano a cuore tutto questo.
Inoltre, sempre più, dalle missioni, ci arrivò la richiesta di un aiuto non solo di prima alfabetizzazione, ma soprattutto, per l'istruzione superiore. Prendemmo così coscienza che, se un medico o una giovane suora potevano studiare con gli aiuti dati, l'aiuto si moltiplicava enormemente di frutti che ricadevano poi su tutte le persone di quel luogo, permettendo loro di aspirare sempre più ad un’autonomia da aiuti esterni.
Soprattutto le vocazioni religiose del luogo - preti e suore - erano decisive per un aiuto che fosse efficace: non era il donare continuamente elemosine che aiutava veramente quel luogo, ma piuttosto l’aiutare persone a formarsi perché proprio quelle persone si facessero carico della loro comunità. Lo stesso avveniva se si aiutavano dei giovani medici o degli infermieri del posto a formarsi per offrire un servizio qualificato.
L’aiuto che la parrocchia dava comunitariamente faceva sì che ci sentissimo anche noi più comunità e più Chiesa. Faceva crescere maggiormente in noi non solo il desiderio di dare, ma anche di conoscere la reale situazione dell'uomo e della Chiesa in quei continenti e di appassionarci alla loro storia, ricevendo noi il dono della loro testimonianza e della loro ricchezza di umanità e di fede, espressa in una cultura differente.
Importante era poi che tutti i partecipanti ai progetti di adozione incontrassero i missionari, quando venivano in Italia, per permettere loro di raccontare a tutti la loro esperienza.
6/ L’eucarestia domenicale, il “luogo” dell’accoglienza
Desidero infine sottolineare come proprio l’eucarestia domenicale sia il luogo dell’accoglienza e della piena integrazione. Voglio anche qui fare riferimento alla mia esperienza di parroco e vice-parroco, a partire dall’incontro con persone con disabilità, ma l’esempio permette di comprendere come tale discorso si possa e si debba allargare all’accoglienza più in generale.
La celebrazione domenicale è, infatti, quel momento importantissimo nel quale la chiesa madre accompagna le famiglie che hanno figli con disabilità. Quell’appuntamento domenicale fa incontrare tutti i genitori insieme - ognuno con la propria fatica e la bellezza della propria vocazione - e fa sì che essi si conoscano e che imparino a condividere la crescita dei figli.
La bellezza del rito, il canto, i gesti, aiutano tutti, anche i bambini con disabilità, a scoprire quanto la vita di ognuno sia preziosa non solo agli occhi di Dio, ma anche per i fratelli.
L’assemblea liturgica della Messa dell’Iniziazione cristiana non solo si abituerà a qualche parola o gesto talvolta imprevisti, ma ancor più ad apprezzare proprio quella presenza che ci chiede ancor più di essere comunità che cammina insieme.
Mi colpì una volta una amica che mi disse: “Don, io avevo paura di accostarmi alle persone con disabilità, non sapevo cosa dire, che gesti compiere. Stando con loro abitualmente nella celebrazione domenicale, ho imparato a relazionarmi con loro, ho compreso la loro gioia e l’importanza della loro presenza”.
Mi sono trovato più volte a discutere con alcuni movimenti che celebravano la messa con i ragazzi solo in occasione dei loro raduni. Non si rendevano conto che i ragazzi avrebbero avuto il desiderio di essere a messa tutte le domeniche, perché si sentivano accolti con affetto da tutti. Ma, poiché i loro amici non erano interessati alla messa, privavano i ragazzi della gioia dell’incontro domenicale al di fuori dei raduni particolari che la contemplavano.
Quando poi una persona con disabilità diviene adulta, se si è radicata in una comunità ed è conosciuta da tutti, ecco che ogni domenica potrà gioire dell’incontro con il Signore e con i fratelli. Se, invece, non viene aiutato a scoprire che la messa domenicale è la sua casa, ecco che correrà il rischio, una volta che i suoi amici si saranno dovuti trasferire per lavoro in altre città, di non avere più una “casa” domenicale dove essere accolta e dove incontrare il Signore e la sua chiesa, quella comunità che è più grande del ristretto gruppo di amici che hanno camminato con lei finché era bambina o giovane.
Quanto questo cammino sia ancora lungo da percorrere, lo si vede facilmente: basta constatare, purtroppo, quante poche carrozzelle si vedano nelle nostre eucarestie domenicali o quanto pochi bambini con la sindrome dello spettro autistico ci siano. Ma, all’opposto, è facile accorgersi del fatto che coloro che si affezionano alla domenica, trovino sempre, poi, il cuore aperto di chi con loro celebra la messa.
7/ La Giornata mondiale dei poveri e le proposte condivise in questo testo
Con queste brevi notazioni abbiamo inteso semplicemente aiutare i catechisti a riflettere su alcune possibilità concrete che ogni comunità parrocchiale può valorizzare perché l’Iniziazione cristiana sia ancor più educazione alla carità, alla fede e alla speranza.
La Giornata mondiale dei poveri, istituita da papa Francesco per essere celebrata per la prima volta il 19 novembre 2017 e poi ogni domenica precedente la domenica di Cristo re, è un’occasione per approfondire in ogni parrocchia la collaborazione fra i catechisti e i collaboratori della Caritas parrocchiale, dei gruppi missionari, del servizio ai migranti e dell’integrazione di ogni “piccolo” amato dal Signore e per poter servire tutti insieme chi è più debole, povero e solo.
Note al testo
[1] Già nel primo scritto del Nuovo Testamento, la I lettera ai Tessalonicesi, è evidente che fede, speranza e carità sono indissolubili l’una dall’altra: chi le vive è cristiano. Paolo scrive: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro» (1 Tes 1,2-3).Le 3 virtù si ritrovano insieme in tanti testi, il più famoso dei quali è: «Ora rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (1 Cor 13,13).
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Maestri dello Spirito, in particolare la sotto-sezione Sant'Agostino.
Il Centro culturale Gli scritti (2/11/2017)
Agstino sul letto di morte, Arca di Sant'Agostino, Pavia
Due degli apocrifi che vengono falsamente attribuiti dal web a sant’Agostino sono del canonico anglicano della St Paul’s Cathedral Henry Scott Holland e del gesuita Giacomo Perico.
La preghiera di Henry Scott Holland appartiene ad un sermone che egli pronunciò in St Paul’s Cathedral a Londra il 15 maggio 1910, poco dopo la morte del re Edoardo VII.
Recita:
«La morte non è niente. Non conta. Io me ne sono solo andato nella stanza accanto. Non è successo nulla. Tutto resta esattamente come era. Io sono io e tu sei tu e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme è immutata, intatta. Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora. Chiamami con il vecchio nome familiare. Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, Non assumere un'aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Sorridi, pensa a me e prega per me. Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima. Pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto. È la stessa di prima, C'è una continuità che non si spezza. Cos'è questa morte se non un incidente insignificante? Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo. Va tutto bene; nulla è perduto. Un breve istante e tutto sarà come prima. E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo!»[1].
L’altra preghiera, invece, è del gesuita Giacomo Perico[2]:
«Se mi ami non piangere! Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo, se tu potessi vedere e sentire quello che io vedo e sento in questi orizzonti senza fine, e in questa luce che tutto investe e penetra, tu non piangeresti se mi ami. Qui si è ormai assorbiti dall’incanto di Dio, dalle sue espressioni di infinità bontà e dai riflessi della sua sconfinata bellezza. Le cose di un tempo sono così piccole e fuggevoli al confronto.Mi è rimasto l’affetto per te: una tenerezza che non ho mai conosciuto. Sono felice di averti incontrato nel tempo, anche se tutto era allora così fugace e limitato. Ora l’amore che mi stringe profondamente a te, è gioia pura e senza tramonto. Mentre io vivo nella serena ed esaltante attesa del tuo arrivo tra noi, tu pensami così! Nelle tue battaglie, nei tuoi momenti di sconforto e di solitudine, pensa a questa meravigliosa casa, dove non esiste la morte, dove ci disseteremo insieme, nel trasporto più intenso alla fonte inesauribile dell’amore e della felicità. Non piangere più, se veramente mi ami!».
Per cogliere la differenza fra i due apocrifi e l’autentico Agostino, basta leggere la lettera che egli scrisse a a Sàpida, che aveva perso il fratello diacono. Agostino certamente incoraggia Sàpida alla speranza, ma quanta comprensione c’è per lei, nella consapevolezza che l’uomo è il suo corpo e che alla donna manca «quel corpo con cui ti si presentava, con cui ti rivolgeva la parola e conversava con te». Agostino pertanto sa bene che il pianto è espressione di amore, ma, lo stesso, invita la vergine a non disperarsi come i pagani, poiché Cristo farà risorgere quel corpo dalla terra.
LETTERA 263 (Scritta dopo il 395).
Agostino invia cristiani saluti a Sapida, piissima signora e figliuola consacrata a Dio
Agostino ha indossato la tunica inviatagli.
1. Ho ricevuto ciò che hai lavorato con le tue caste e sante mani e hai voluto ch'io gradissi, perché non ti arrecassi un dolore piùacuto mentre capivo che avrei dovuto piuttosto recarti conforto, soprattutto perché hai creduto che sia per te una gran consolazione proprio se indosserò la tunica che hai confezionato per tuo fratello, fedele ministro di Dio: egli infatti, abbandonata questa terra di morenti, non ha più bisogno d'alcun oggetto corruttibile. Ho fatto perciò quanto desideravi e non ho voluto rifiutare, al tuo amore verso tuo fratello, questo conforto, quale e quanto ne sia il conto che tu ne abbia fatto. Ho ricevuto la tunica da te inviatami; mentre ti scrivo ho già cominciato a indossarla. Sta' di buon animo, ma trova giovamento in conforti molto più preziosi e molto più efficaci, affinché la nube, addensata attorno al tuo cuore dalla debolezza umana, venga dissipata dalla luce della divina rivelazione. Vivi perseverando nel bene sì da meritare di vivere con tuo fratello, poiché egli è morto in modo che ora vive.
I nostri cari non li abbiamo perduti ma ci hanno preceduto.
2.È bensì motivo di lagrime il fatto che non vedi più tuo fratello, che t'amava e ti venerava moltissimo per la tua vita e per la professione della santa verginità; lui ch'era diacono della Chiesa di Cartagine ora non lo vedi più, com'eri solita, entrare e uscire, sempre zelante nell'adempiere i doveri del suo ministero ecclesiastico. Tu inoltre non ascolti più dalla sua bocca le espressioni d'ossequio che egli tributava alla virtù della sua cara sorella, con affabilità ed affetto pio e deferente. Quando il pensiero corre a questi particolari e ricorre la forza prepotente dell'abitudine, si riceve una fitta al cuore e ne sgorga il pianto, quasi fosse sangue. Il tuo cuore però sia in alto e i tuoi occhi saranno asciutti. Se ti addolora la perdita di questi diletti, che sono passati secondo il corso del tempo, non per questo si è spento l'amore che Timoteo nutriva e nutre ancora per Sapida; esso invece rimane custodito nel suo prezioso scrigno e nascosto con Cristo nel Signore. Quelli che amano l'oro, lo perdono forse quando lo serbano riposto? Non sono forse più tranquilli riguardo ad esso, per quanto è possibile, quando lo tengono riposto in forzieri più sicuri lontano dai propri occhi? La cupidigia terrena si crede dunque più al sicuro quando nasconde ciò che ama e la carità celeste si rattrista, come se fosse perduto ciò che ha mandato al sicuro nei granai del cielo? Rifletti, Sapida, al significato del tuo nome e gusta il sapore delle cose dell'alto, ove Cristo è assiso alla destra del Padre; egli si è degnato di morire per noi affinché vivessimo anche dopo morti, e affinché l'uomo non temesse la morte, come se questa fosse destinata a distruggere l'uomo, e affinché non venisse pianto nessuno dei morti come se avessero davvero perduto la vita, dal momento che per essi è morto colui ch'è la vita. Questi e altri simili a questi siano i tuoi divini conforti, in virtù dei quali arrossisca e sparisca l'umana tristezza.
Il compianto cristiano dei parenti defunti.
3.Non deve farci adirare il dolore che provano i mortali per la perdita dei loro cari, è vero, ma il cordoglio dei Cristiani non dev'essere di lunga durata. Se dunque hai provato dolore, ormai deve bastare e non devi rattristarti alla maniera dei pagani che non hanno speranza. Così dicendo, l'Apostolo non ha inteso proibirci di rattristarci ma solo di rattristarci alla maniera dei pagani che non hanno speranza. Anche le pie e fedeli sorelle Marta e Maria piansero il proprio fratello Lazzaro, che pure un giorno sarebbe resuscitato, sebbene non sapessero che allora sarebbe tornato a questa vita; il medesimo Lazzaro lo pianse perfino Gesù che pure era sul punto di risuscitarlo, volendo così evidentemente farci intendere che, se non ce lo comanda con un precetto, ci permette col suo esempio di piangere anche noi i morti, che pure crediamo destinati a risorgere per la vera vita. E non per nulla la S. Scrittura dice nell'Ecclesiastico: Versa lacrime su chi muore e prorompi in lamenti, come se fossi stato colpito da una crudele sciagura; ma poco dopo soggiunge:Poi però consolati della tua tristezza, la tristezza infatti può causare la morte, e la tristezza del cuore abbatte le forze.
La speranza dell'eternità gran conforto per i Cristiani.
4.Tuo fratello, cara figliuola, dorme nel corpo ma vive nello spirito; forse che uno che dorme non si ridesterà mai più? Dio, che ha accolto il suo spirito, gli restituirà il corpo che gli ha tolto non già perché andasse perduto ma perché è rinviato il tempo in cui gli sarà restituito. Non v'è quindi alcuna ragione d'affliggersi a lungo, ma piuttosto di rallegrarsi senza fine, dal momento che non perderai nemmeno la parte mortale di tuo fratello, che ora giace sotterra; quel corpo con cui ti si presentava, con cui ti rivolgeva la parola e conversava con te, con cui egli somministrava la voce tanto nota ai tuoi orecchi, quanto lo era la fisionomia che offriva ai tuoi occhi; sicché ovunque risonasse, solevi riconoscerlo anche senza vederlo. È appunto la privazione di queste cose per i sensi dei viventi la causa per cui ci rattrista l'assenza dei morti. Ma nemmeno i corpi verranno a mancarci per sempre, dato che non andrà perduto neppure un capello della testae i corpi, sepolti per un certo tempo, verranno ripresi in modo che non saranno mai più sepolti, ma saranno trasfigurati e resi immutabili; per questo v'è maggior motivo di rallegrarsi nella speranza dell'inestimabile eternità che di rattristarsi per una perdita di brevissima durata. Questa speranza non l'hanno i pagani che ignorano la S. Scrittura e la potenza di Dio, il quale può rinnovare le cose andate in rovina e far tornare in vita quelle morte, restituire nella loro integrità quelle corrotte, riunire di nuovo quelle disgiunte e conservare senza fine quelle prima corrotte e arrivate alla fine. Questo ha promesso di fare colui il quale ce ne dà la certezza in virtù delle promesse che ha già mantenute. Di queste verità spesso ragioni con te la tua fede, poiché la tua speranza non andrà delusa, anche se adesso la tua carità deve ancora aspettare. Medita queste verità, trova in esse un conforto più abbondante e più genuino. Se il fatto che io indosso la tunica che tu avevi tessuta per tuo fratello (dato ch'egli non ha potuto portarla) ti dà un qualche conforto, quanto maggiore e più sicuro devi trovarlo al pensiero che quegli per il quale allora era stato preparato l'indumento, non avendo più bisogno d'indumenti alterabili, è rivestito d'incorruttibilità e d'immortalità!
Note al testo
[1] Questo l’originale inglese: «Death is nothing at all. It does not count. I have only slipped away into the next room. Nothing has happened. Everything remains exactly as it was. I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged. Whatever we were to each other, that we are still. Call me by the old familiar name. Speak of me in the easy way which you always used. Put no difference into your tone. Wear no forced air of solemnity or sorrow. Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together. Play, smile, think of me, pray for me. Let my name be ever the household word that it always was. Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it. Life means all that it ever meant. It is the same as it ever was. There is absolute and unbroken continuity. What is this death but a negligible accident? Why should I be out of mind because I am out of sight? I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner. All is well. Nothing is hurt; nothing is lost. One brief moment and all will be as it was before. How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again!».
[2] G. Perico, Resta con noi, Signore! Preghiere e meditazioni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001.
Riprendiamo dal sito Vino nuovo un articolo di Gian Carlo Olcuire pubblicato l’1/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede.
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». Mt 5,1-12a
Se, invece di continuare a subire, uno prova a rimettersi in piedi, può farcela per meriti propri, ma, più spesso, ci riesce per una spinta: ciò che in qualche modo fanno i santi, con la loro forza spirituale.
Quest’opera, totalmente laica per concezione e collocazione, non è nata – ovviamente – per dare forma ai santi. Però rende l’idea di stelle che non stanno a guardare gli affanni di un uomo e si danno da fare, dal basso, perché costui abbia la possibilità di elevarsi.
Sono così, i santi: persone normali, somiglianti a tutti e insieme speciali, perché pronte a sollevare, a scuotere, a tirar fuori. Offrendo una prospettiva nuova a chi talvolta non riesce nemmeno a immaginarla. Grazie a loro, infatti, un incatenato (Chained è il titolo originale dell’installazione) non è più tale. E, dopo essersi riappropriato di una pienezza – resa dalla terza dimensione –, riesce a vedere e ad andare al di là del muro.
Realizzata a più mani, l’opera mostra – oltre all’aiutare – l’importanza del saper chiedere aiuto e del lasciarsi aiutare. Dei due autori, Borondo ha dipinto i liberatori, mentre a Tresoldi è toccata la modellazione del liberato… in rete metallica: un materiale trasparente, che, consentendo la visione dello sfondo, lo modifica senza invaderlo. Dando vita a una nuova presenza, lieve e potente al tempo stesso, che entra a far parte sia del paesaggio sia di chi guarda.
È augurabile che il fascino del liberato non faccia dimenticare i liberatori, ai quali non interessa tanto la propria santità individuale quanto il fatto che tutti possano farsi santi.