1/ Montini ansia per il mondo, di Carlo Cardia 2/ Sui passi di Paolo VI, il Papa riformatore, di Carlo Cardia
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1/ Montini ansia per il mondo, di Carlo Cardia
Riprendiamo da Avvenire del 3/1/2017 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Ogni pontificato ha un proprio carattere e segna la storia della Chiesa nel suo rapporto con la società. Il pontificato di Paolo VI, che verrà ricordato quest’anno per il 50° anniversario della Populorum progressio, è quello che più ha aperto l’orizzonte dell’universalità della Chiesa nell’epoca dei diritti umani e della globalizzazione. Il testo pubblicato per le edizioni Marietti, e curato da Giovanni Maria Vian, Giovanni Battista Montini. Un uomo come voi, presenta testi scritti direttamente da Montini, quasi a sottolineare l’impronta anche personale e psicologica dell’autore.
Essi riflettono la tensione tra l’umanità di Montini e il suo guardare in alto, alla dimensione spirituale, alla Chiesa, alla storia dell’umanità. Anche per questo, proclamandolo beato nel 2014, papa Francesco ha reso grazie per la sua «profetica testimonianza». Scrivendo a 17 anni al compagno di classe Andrea Trebeschi, morto nel campo di Mathausen nel 1945, Giovanni Battista Montini esprime l’ideale che lo sta catturando, perché «la mia vita passerà rivolta in alto», mentre a conclusione del primo conflitto mondiale scrive al fratello Lodovico che è «una conseguenza logica della nostra fede quella di credere nel significato degli eventi». La ricerca di senso della storia lo accompagna sempre: quando muore Benedetto XV, il giovane Montini riflette su quella «umanità che non sa di vivere se non quando muore» e invece è chiamata dalla speranza cristiana a un traguardo nuovo, per il quale non si muore più davvero, si è «destinati a una vita immensamente più intensa» nella paternità di Dio. Quest’orizzonte giovanile si coniuga nel sacerdozio con l’opera di Paolo di Tarso, alla quale dedica sette articoli nel 1931 sulla rivista 'Studium'.
Di san Paolo coglie l’invito a evangelizzare tenendo conto delle condizioni di ciascun popolo, perché la «larghezza del campo da conquistare consente anche una certa larghezza di metodi apostolici», cioè «quel tale adattamento, nel linguaggio e nelle forme di presentare la verità della fede», giungendo a «valorizzare perfino la religiosità pagana per farla sboccare nella religione cristiana». È un’anticipazione d’interculturalità, che chiede di «conservare il tessuto etico-psicologico corrispondente alla morale naturale e alle profonde tendenze religiose dell’ambiente, per inserirvi (con la 'naturalezza' cara a Blondel) il soprannaturale». Di qui la sorprendente conclusione di Montini, che definisce la visione paolina «una visione ottimistica, praticamente larga e liberale del mondo, derivata dal criterio di misericordia che il cristianesimo instaura per guarirlo». L’universalismo è una costante nella vita di Montini, e diviene la base programmatica del suo pontificato. Già nel 1957, prepara la Missione di Milano con una riflessione su coloro che sono lontani.
E formula domande scomode: «Quando si avvicina un lontano, non si può non sentire un certo rimorso. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. Perché non è stato abbastanza curato, istruito, introdotto nella gioia della fede». I lontani, «sono spesso più esigenti che cattivi. Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite. Ebbene, se così è, fratelli lontani perdonateci».
E il primo pensiero di Paolo VI come pontefice, è di attuare un programma che universalizzi l’azione della Chiesa per portarla fino ai confini della terra, seguendo i tre cerchi concentrici di cui parla nell’enciclica Ecclesiam Suam del 1964. Il primo cerchio è proprio quello di chi non riconosce Dio, ed è tanto grande che non se ne vedono i confini perché questi si confondono con l’umanità intera e riguarda anche coloro che non credono, ma che spesso aspirano all’infinito, lo anelano, anche con passione e tensione interiore. Il secondo cerchio, è quello degli uomini innanzitutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo. Il terzo, infine, è quello «del mondo che a Cristo s’intitola», cioè di coloro che si riconoscono nella fede cristiana, anche se professata in Chiese e comunità cristiane separate. Quest’ansia di parlare a tutti porta a gesti nuovi, ad esempio a incontrare gli artisti, ai quali dice: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione».
Perché «il nostro ministero è quello di rendere accessibile comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligenti, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola di colori, di forme , di accessibilità». E aggiunge con sincerità e sensibilità sue proprie: noi «siamo sempre stati amici. Ma come avviene tra parenti, tra amici, ci si è un po’ guastati. Ci permettere una parola franca? Voi ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose, ma non più le nostre».
E per essere ardito, conclude, «riconosciamo che anche noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare (…), vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità»; «vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci!».
Infine, l’universalità della storia, la storia d’Italia e quella dei popoli, suggerisce a Paolo VI parole e gesti bellissimi. Già nel 1962, ancora cardinale, parla in Campidoglio alla vigilia del Concilio Vaticano II, ed evoca la fine del potere temporale e l’unità d’Italia avvolgendoli nei disegni della Provvidenza, perché nel 1870 questa ha disposto diversamente rispetto ai voleri degli uomini, e ha «quasi drammaticamente giocato negli avvenimenti»: «il Papa che usciva glorioso dal Concilio Vaticano per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà spirituali nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma».
Eppure, aggiunge, proprio allora il papato, liberato delle potestà temporali, raggiunse un’altezza nel governo spirituale della Chiesa nell’irradiazione morale nel mondo, come mai era accaduto prima. E nel 1964, parlando al Quirinale con un discorso che non è contenuto nel libro, riassume il rapporto tra papato e storia d’Italia: «Noi vogliamo bene, un bene spirituale, tutto pastorale, oltre che naturale a questo magnifico e travagliato Paese; (e) non dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione universale la sua coscienza romana e i suoi figli migliori».
Quell’educazione a civiltà, gentilezza e virtù, costituisce una sintesi storica inarrivabile, scaturita dalla mente e dal cuore di Paolo VI. Questa capacità di lettura universale porta Paolo VI a dialogare con le religioni, incontrando buddisti e induisti, visitando Gerusalemme e la Palestina, a chiudere la divisione secolare con l’Oriente ortodosso incontrando il patriarca ecumenico Atenagora nel 1964, infine, nel 1965, a presentarsi all’Onu con un discorso che pone l’azione della Chiesa a servizio dell’umanità. Non era facile in quegli anni parlare alle Nazioni Unite, ma le parole sono quelle che aprono un’epoca. «Il nostro messaggio – afferma il Papa – vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione» anche perché essa «rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale». E aggiunge, con sottile analogia: «Voi siete un ponte fra i popoli», e «la vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la nostra Chiesa Cattolica vuol essere nel campo spirituale: unica e universale».
E conclude: «Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’Onu è la grande scuola per questa educazione. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace». Nella ricorrenza della Populorum progressio, quest’anno, si realizzeranno diverse iniziative di analisi, e si avrà modo di riflettere sui tanti risvolti di un pontificato che è stato forse il più grande papato riformatore della modernità, e nel quale la personalità di Paolo VI s’è amalgamata coi grandi obiettivi di un’opera che ha aperto la strada alle realizzazioni e innovazioni dei suoi successori.
2/ Sui passi di Paolo VI, il Papa riformatore, di Carlo Cardia
Riprendiamo da Avvenire dell’1/10/2017 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2017)
Per iniziative editoriali, pubblicazione di inediti da parte dell’Istituto Paolo VI di Brescia, convegni che si soffermano sui momenti salienti del pontificato di Paolo VI, la figura di Giovanni Battista Montini si ripropone sempre più come grande Papa riformatore della modernità, dentro e fuori i confini della Chiesa.
Possiamo ricordare due bienni del secondo Novecento, al centro di svolte cruciali per la Chiesa e i suoi rapporti con l’umanità: quello del 1964-65, e l’altro molto celebrato in questi mesi del 1967-68. Nel primo spazio di tempo la Chiesa si rivolge all’umanità, con l’Enciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam Suam, e con il viaggio del 4-6 gennaio del 1964 in Terra Santa dove riannoda i rapporti con l’ebraismo e incontra a Gerusalemme il patriarca ortodosso Atenagora; di lì a poco, nel 1965, segue l’abolizione delle scomuniche reciproche tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli, definite da allora «Chiese sorelle». Nel 1965 Paolo VI compie il viaggio a New York per parlare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dando all’Onu un’«altissima ratifica morale» da parte della Chiesa che viene in qualche modo paragonata all’Onu stessa per la sua universalità. Da allora, con la conclusione l’8 dicembre 1965 del Concilio Vaticano II, la missione apostolica, e l’azione internazionale, della Santa Sede non conoscono spazi vuoti o soste nell’intrecciare il dialogo con chiunque sia interessato.
Nel biennio tra il 1967 e il 1968 sembra quasi d’essere in un’altra epoca, ma l’opera riformatrice di Paolo VI prosegue con documenti destinati a incidere sulla Chiesa e sui grandi temi che interessano la società. L’emanazione il 26 marzo 1967 della Populorum progressio, forse la sua più importante enciclica che anticipa l’orizzonte della globalizzazione, estende i princípi della dottrina sociale a tutti i popoli della terra; e l’enciclica del 25 luglio 1968 Humanae vitae sul matrimonio e sul rapporto tra procreazione e sessualità. Tra l’altro, questi richiami smentiscono nettamente la tesi, tanto ricorrente quanto infondata, per cui sul crinale del biennio il papato di Montini conoscerebbe un’involuzione, quasi di pessimismo e ripiegamento, come scossa dal tempo della contestazione, che però nelle sue punte più aspre doveva ancora maturare.
In realtà in questi anni Paolo VI non solo intensifica l’opera di attuazione del Vaticano II, ma estende e proietta il suo magistero sulle questioni antropologiche e sociali che segneranno l’epoca successiva, che noi stiamo oggi vivendo appieno. In un commento riassuntivo del suo pontificato nel 1979 (edito su “Notiziario- Istituto Paolo VI” nel 1984) Joseph Comblin si sofferma sui viaggi che il successore di Pietro compie per la prima volta in ogni angolo della terra, e sui diritti dei popoli e delle Nazioni riconosciuti con la Populorum progressio. Quasi cogliendo l’anticipazione del linguaggio di papa Francesco, il teologo ricorda lo stupore del mondo di fronte a Paolo VI che torna a Gerusalemme, e ai viaggi che lo porteranno nelle periferie del mondo. Comblin afferma che «per le Chiese della periferia, il pontificato di Paolo VI ha conciso con un evento unico nel suo genere: il loro ingresso nella Chiesa universale come membra attive, come membra che partecipano alla storia della Chiesa in modo attivo e non puramente passivo come prima. Con Paolo VI, esse hanno cessato di essere semplici “destinatarie” della missione inviata dalle Chiese del centro».
Aggiunge, poi, che «questa apertura a tutti i continenti è probabilmente uno dei più importanti tornanti della storia della Chiesa dal concilio di Gerusalemme del primo secolo, quando l’apostolo Paolo fece riconoscere il diritto di aprire le porte della Chiesa ai pagani. L’inizio orienta la storia seguente per secoli. È questo che dà il suo significato storico al pontificato di Paolo VI». Il biennio 1967-68 conosce altre riforme strategiche, quella realizzata il 15 agosto con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae che adegua la Curia Romana al processo d’internazionalizzazione della Chiesa e la struttura episcopale, e dall’Enciclica Humanae vitae sui grandi temi dell’antropologia.
La riforma della Curia, recepisce tra l’altro, e incardina, gli organismi che hanno aperto al dialogo per l’ecumenismo, ai nuovi rapporti con l’ebraismo, al dialogo interreligioso, con strutture che sono divenute poi essenziali per l’attività della Chiesa nel mondo. Sulla centralità dell’Enciclica Humanae vitae“ Avvenire” ha richiamato l’attenzione nei giorni scorsi per smentire, anche a opera dell’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, ogni ipotesi complottarda sulla sua elaborazione. La riflessione sull’Humanae vitae invece è di grande rilievo se si valuta la lungimiranza della visione di Paolo VI alla luce dell’evoluzione successiva, cioè della deriva nichilista che s’è avuta proprio sui temi della famiglia e della procreazione.
È utile ricordare quanto disse Paolo VI, parlando con Jean Guitton, proprio dell’enciclica del 1968, ricordando che l’etica non può cambiare ogni volta che c’è una scoperta scientifica, assoggettandosi a essa acriticamente: «Per esempio – afferma il Papa – un domani ammetterebbe la procreazione senza paternità; tutto l’edificio della morale verrebbe dissolto» ( J. Guitton, Paolo VI segreto, 2002). Oggi dobbiamo riconoscere che è esattamente ciò che è avvenuto di recente, quando si sono superate barriere inimmaginabili ai tempi di Paolo VI, sui temi della maternità, la filiazione disconosciuta, la maternità surrogata, il diffondersi delle pratiche eterologhe, fino a giungere alla sottrazione di padre o madre – per affidare il bambino a un genitore raddoppiato (due padri, due madri), privandolo della genitorialità complementare – e fino al collasso teorizzato da alcuni per ogni relazione affettiva stabile e matrimoniale.
Aggiungeva il Papa che i princípi etici che attengono alla più intima struttura umana devono avere una stabilità e solidità che salvaguardi la persona da sperimentazioni, da scelte superficiali, da un relativismo che reca danni ai diritti e alla aspirazione più profonde dell’uomo. Anche per questa ragione, la figura di Paolo VI è al centro di una rinnovata attenzione ecclesiale e culturale, di iniziative che si susseguono per ricordare le fasi salienti del suo pontificato, e – in questi mesi – per celebrare e riflettere sul 50° della Populorum progressio, e su grandi altre tappe del suo magistero. Tra queste, si può segnalare il Convegno organizzato, per iniziativa dell’Università di Roma Tre, nel novembre prossimo e che si svolgerà nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, con esponenti della cultura laica ed ecclesiastica, destinato ad approfondire alcuni momenti e temi centrali dell’opera riformatrice che ha segnato il Pontificato di Paolo VI.