1/ Se sei nero in Algeria, di Kamel Daoud 2/ La tratta arabo-islamica e l’odio per gli africani neri, di Antonella Sinopoli
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1/ Se sei nero in Algeria, di Kamel Daoud
Riprendiamo dal sito Gli stati generali (http://www.glistatigenerali.com/nord-africa/se-sei-nero-in-algeria/) la traduzione di un articolo di Kamel Daoud pubblicato il 20/5/2016, tratto dalla versione francese del New York Times. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Immigrazione e intercultura.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
Da qualche anno si possono vedere agli incroci delle strade delle grandi città del nord dell’Algeria delle famiglie di migranti originarie del sud del Sahara. Vengono a mendicare, acconciati con abbigliamenti variopinti: veli smisurati per le donne, anche le ragazzine; djellaba di tela per gli uomini; rosari mostrati in maniera ostentata. Hanno l’«Allah» troppo facile e incespicano facilmente sui versetti del Corano.
Numerosi migranti neri, anche quelli che non sono musulmani, fanno ricorso ai simboli dell’Islam per fare appello alla carità degli algerini. Perché? Perché la miseria permette di decodificare la cultura meglio della riflessione, e i migranti, senza tetto né pane, hanno presto compreso che qui, spesso, non esiste empatia tra gli uomini, ma solo tra correligionari.
Altro esempio. Nell’ottobre scorso, una migrante camerunense è stata vittima di uno stupro collettivo sotto la minaccia di un cane. La donna è andata a sporgere denuncia alla polizia, ma è stata respinta con due pretesti ritenuti giuridicamente più probanti: non aveva documenti e non era musulmana.
L’affaire Marie-Simone è diventato celebre e la vittima, appoggiata dagli algerini, ha finito per ottenere giustizia. Ma è un’eccezione.
Le cose non stanno messe così. La visione del nero in Algeria, segnata da una discreta distanza nel corso degli anni, s’è trasformata in un rigetto violento negli ultimi tempi. Non esistono statistiche ufficiali affidabili, ma spesso i migranti vengono dal Mali, dal Niger e dalla Libia. Ed è chiaro che il numero dei subsahariani qui è aumentato da qualche anno, in parte a causa dell’instabilità dei paesi vicini, soprattutto la Libia, vecchia piattaforma girevole dell’immigrazione dall’Africa all’Europa.
E se in Europa un migrante può tentare di giocare sul registro dell’umanitario e della colpevolizzazione, in Algeria, da qualche anno, l’Altro non è visibile che attraverso il prisma della confessione della religione. In occidente, il razzismo vede la pelle; in terre d’Arabia vede la religione.
Tuttavia questi due razzismi sono connessi. L’occidentale nega l’arabo ( o lo incrimina), e a sua volta l’arabo nega il nero (o lo incrimina). Connessioni casuali? La negazione con effetto domino? Forse. Per adesso, la rassomiglianza, una sorta di mimetismo, colpisce.
Ma poco importa questa complessità: la si ignora facilmente. Ci sono, certamente, degli Algerini musulmani che non sono né settari né razzisti, ma contano poco nell’élite e nel discorso pubblico. Gli integralisti l’hanno vinta sul punto di vista più moderato.
A causa di ciò, in Algeria, come in altri paesi arabi, i discorsi mediatici e intellettuali sono schizoidi. Da una parte, si possono leggere degli articoli violenti contro il razzismo in Europa, che descrivono la «Giungla» di Calais come una specie di campo di concentramento e presentati con tagli menzogneri: «Niente lavoro in Francia se siete arabi o africani» titolava un giornale islamista nel febbraio scorso. D’altra parte, si trovano delle analisi degne del Ku Klux Klan sulla minaccia posta dai neri, con il loro incivismo, e i crimini e malattie che si dice vengono a portarci.
Questo doppio discorso è curioso, ma soprattutto è comodo e devastante. Nello scorso marzo a Ouargla, uno dei più grossi borghi del Sahara algerino, degli scontri hanno avuto luogo tra i locali e i subsahariani in seguito all’assassinio di un algerino, ma soprattutto per mano di un nigeriano. Il fatto di cronaca s’è presto trasformato in una vendetta popolare – con una caccia al migrante nelle strade che ha determinato decine di feriti e un attacco al campo dei rifugiati.
Le autorità hanno disposto il trasferimento massivo dei migranti verso un centro di accoglienza di una città più a sud, preludio consueto a una espulsione dal paese. Fatti simili sono accaduti a Béchar, a ovest.
Questa ondata di xenofobia, di una violenza senza precedenti, ha devastato il Sahara algerino senza sollevare obiezioni diffuse: la denuncia del razzismo è generalmente riservata ai crimini dell’Occidente. Abusi presso gli altri, necessità a casa nostra.
Ma com’è successo che si fa noi ciò che si denuncia altrove, e soprattutto senza sentirsi colpevoli? Com’è che la vittima del razzismo si costruisce a sua volta una coscienza razzista?
In Algeria, le élite laiche e di sinistra si sono rese miopi coltivando il trauma coloniale come sola visione del mondo. I neri, percepiti come decolonizzati o decolonizzatori, sono sia ostracizzati che idealizzati. Non sono una cosa a sé, ma una rappresentazione delle nostre preoccupazioni.
Nei loro discorsi contro l’Occidente, i benpensanti algerini immaginano di proteggere i neri denunciando il razzismo circostante. Ma neanche a parlarne di andare a visitare i tristi campi dei rifugiati, e ancor meno di vivere con i neri, di dare le loro figlie in matrimonio o di stringere loro la mano nella stagione calda. Gli Algerini laici designano i subsahariani con la parola «africani», come se il Maghreb non facesse parte del loro stesso continente.
Gli integralisti religiosi non sono meno razzisti. In occasione di un incontro di calcio tra l’Algeria e il Mali nel novembre 2014, il giornale islamista “Echourouk” pubblicò una foto dei tifosi neri sotto il titolo «Né Buongiorno né Benvenuto. L’AIDS dietro di voi, l’Ebola davanti a voi». Ma i pregiudizi dei religiosi li spingono a un’altra equazione, semplice e mostruosa: l’Altro o è musulmano o non è.
I conservatori religiosi, come le élite laiche, vedono i neri come le vittime delle ingiustizie dei bianchi colonizzatori, ma ai loro occhi la riparazione non è possibile se non con l’aiuto di Allah. La loro propaganda ricorda spesso quell’esempio della mitologia dei primi anni dell’islam: Bilal, la schiava abissina nera liberata in seguito alla sua conversione religiosa.
Solo che per una Bilal vi sono milioni di altri neri, compresi i convertiti, che sono rimasti reclusi in cattività per generazioni. Lo schiavismo arabo è d’altra parte oggi un argomento tabù o schermato dai giudizi indirizzati contro lo schiavismo dell’occidente.
Resta che per il nero aderire all’Islam non è garanzia di sicurezza. Basta il crimine di uno solo che centinaia di altri esperiscano l’espulsione. Le spedizioni punitive a Béchar sono scattare un venerdì, giorno della grande preghiera settimanale, dopo le prediche che incitavano alla purificazione dai costumi dei migranti percepiti come leggeri. Per i conservatori religiosi, la cultura svia i subsahariani dalla stretta ortodossia – e dunque anche i neri musulmani non sono veramente musulmani.
2/ La tratta arabo-islamica e l’odio per gli africani neri, di Antonella Sinopoli
Riprendiamo dal sito Voci globali un articolo di Antonella Sinopoli pubblicato il 28/10/2016 (https://vociglobali.it/2016/10/28/la-tratta-arabo-islamica-e-lodio-per-gli-africani-neri/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Immigrazione e intercultura e, in particolare sulla tratta schiavistica islamica arabo e turca La tratta araba e turca degli schiavi, dal Nord Africa all'Andalusia, dall'Africa nera alle coste europee 1/ Schiavitù nell'Islam: cenni storici (da Cathopedia) 2/ Tratta araba degli schiavi (da Wikipedia; voce parzialmente tradotta dalla lingua inglese) 3/ Tratta barbaresca degli schiavi (da Wikipedia).
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2017)
Il termine inglese rende bene, uncomfortable truth. E di verità sgradevoli, scomode ce ne sono a bizzeffe. Soprattutto le verità storiche. Una di queste riguarda la schiavitù, la tratta degli schiavi.
C’è però una sottile e immensa questione, perché della tratta europea non si fa fatica a parlare mentre molto meno accade per quella perpetrata dal mondo arabo/islamico? Sembra – almeno nella memoria di molti – che addirittura non sia mai esistita. Molti ne ignorano l’entità, le motivazioni, i luoghi. E spesso, appunto, che sia mai avvenuta.
Qualcuno dice che c’entri la religione, appunto, passi del libro sacro dell’Islam – che toccherebbe così disconoscere – ma anche la scarsità di gruppi di opinione e di lobby per la sua condanna e, soprattutto, il fatto che ancora venga perpetrata…
Tempo fa John Azumah – religioso e studioso di origini ghanesi, da anni residente e docente negli States – ha pubblicato un libro dal titolo che non lascia spazio a dubbi, The legacy of Arab-Islam in Africa, colmando di fatto un vuoto esistente in materia.
Se centinaia, migliaia di testi sono stati pubblicati e discussi riguardo alla tratta atlantica, molto meno esiste invece sull'”esercizio” della schiavitù a cui il mondo arabo si è dedicato a partire dall’epoca dell’Impero romano e fino al Ventesimo secolo. Quattordici secoli – non 400 anni quanto più o meno durò la schiavizzazione da parte degli europei – e che avrebbe prodotto secondo gli studiosi tra i 20 e i 30 milioni di schiavi. A partire dal Nord Africa, poi verso Occidente e, infine, verso Est, nel momento in cui i mercanti europei presero il controllo delle coste a ovest del continente.
Una storia fatta di abusi, violenze inenarrabili, conversioni forzate. Ovviamente sotto l’egida della fede – e come fanno notare gli studiosi – del libro sacro dell’Islam, che riconosce la presenza degli schiavi e il loro possesso. Del resto accadeva lo stesso per l’altra parte – l’Europa cattolicissima o protestante – che a furia di bolle papali e di diritti presunti di superiorità sui neri primitivi si arrogava le loro vite. Basta andare in uno qualunque dei forti lungo le coste dell’Africa occidentale – ultima tappa per gli schiavi che sarebbero poi stati imbarcati – per vedere le belle e curate chiesette o cappelle all’interno di ognuno di essi. Qui si pregava, forse per il buon esito delle trattative sulla pelle nera.
Del resto la religione ha finito per essere motivo, arma e anche scusa e giustificazione per i crimini più efferati, compreso – appunto – quello di ridurre in schiavitù altri esseri umani e farne oggetti privati. Nonostante le “dimenticanze” di chi preferisce non sapere, i documenti a portata di mano sono infiniti – garantiti, da una certa epoca in poi, anche dalle nuove tecniche di registrazione degli eventi, come macchine fotografiche e cineprese. Su YouTube ne circolano non pochi di docufilm che hanno un grande valore testimoniale.
Una delle domande che gli storici si sono posti è come mai le discendenze degli schiavi sono assai visibili negli USA, in Brasile e – ovviamente – nella Repubblica Dominicana e Haiti – ma lo stesso non è accaduto nei Paesi del Medio Oriente, Iraq, Iran, Arabia Saudita, ect. Nonostante la tratta da parte degli arabi sia durata molti secoli e aveva preceduto di 700 anni quella europea.
Mentre ai “neri d’America” e alle loro donne era consentita in un certo qual modo una vita “privata”, le donne nei regni arabi e orientali venivano utilizzate come concubine per accrescere gli harem – dunque solo a fini sessuali o di servizio – e per gli uomini era largamente praticata l’evirazione. Uno su cinque rimaneva in vita. Quelli che sopravvivevano non avrebbero potuto “nuocere” al loro padrone. Molti poi venivano usati negli eserciti e anche lì la loro vita non durava certo a lungo. Solo una minima parte aveva funzione di forza lavoro in piantagioni.
Il Maafa, l’olocausto africano è durato un tempo infinito e per alcuni – a dire il vero – non è mai veramente terminato. Non è finito perchè generato non da motivi economico-commerciali (che nel caso della tratta da parte degli arabi era un elemento secondario) ma dall’odio, dal disprezzo, dalla convinzione profonda dell’inferiorità degli africani neri.
Basta riflettere sul modo in cui vengono trattati non solo nei Paesi arabi, ma anche in Cina e in India, per esempio. Mentre nulla di nuovo sotto il sole avviene nel Nord Africa – in Libia ad esempio – dove gli africani costretti oggi a transitarci per cercare lavoro o per tentare il passaggio del Mediterraneo, finiscono per diventare vittime di soprusi, stupri, rinchiusi a marcire nelle carceri e trattati come delinquenti. E non si tratta di politiche per frenare l’immigrazione, no, si tratta di odio e disprezzo che continua ad alimentarsi. I neri rimangono Adb, schiavi, inferiori. Nessuna umanità concessa o riconosciuta.
Quindi, non è storia passata, purtroppo. È oggi, adesso, continua. La tratta di esseri umani – dei neri – è ancora in atto, praticata sotto gli occhi di tutti. Ma nel denunciare – nel raccontare la storia – non basta e non serve accusare. John Azumah non ha scritto solo la storia della schiavitù perpetrata tra gli arabi per secoli sul suo continente, ha scritto libri sul dialogo, la conciliazione, l’incontro tra le due religioni.
Salire su un pulpito e proporre la Storia in modo manicheo distoglie dal centro e il centro è questo: chi ha fatto e fa queste cose sono gli uomini, non le loro religioni.
Sono i fatti che contano. Sentirli raccontare da Marcus Gravey è una grande lezione di Storia, elaborata con ironia e ancora ricorrendo alle fonti cartacee, i libri. È una lunga conferenza questa di Garvey, un documento prezioso fatto di competenza, misura e orgoglio. L’odio sarebbe stato di troppo e pare non appartenere a questa “razza inferiore” che sono i neri.