La catechesi è educazione alla carità. Una riflessione in preparazione alla I giornata mondiale dei poveri, 19 novembre 2017, con proposte ed esperienze da condividere, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Carità e giustizia e Educare alla carità.
Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2017)
La I giornata mondiale dei poveri proposta da papa Francesco provoca anche la catechesi ad allargare ulteriormente il cuore di bambini, ragazzi e genitori, così come dei catecumeni, alla carità[1].
A partire dalla mia esperienza di parroco voglio suggerire qualche passo concreto per le comunità che ne avessero bisogno.
1/ I catechisti, la Caritas parrocchiale e il gruppo missionario parrocchiale
Innanzitutto, ho imparato che è bene che i catechisti e i collaboratori[2] della Caritas parrocchiali, ma anche quelli del gruppo missionario, si trovino insieme per proporre un cammino condiviso. Compito della Caritas parrocchiale, così come dei gruppi missionari presenti nelle diverse parrocchie, è proprio quello di animare l’intera parrocchia a crescere nella carità. Solo da un incontro dei diversi responsabili può nascere quel clima fecondo che genera esperienze di carità condivise da tutti. Se, invece, i collaboratori della Caritas e i catechisti non lavorano di comune accordo, tutto diviene più difficile.
In vista della Giornata mondiale dei poveri, allora, il primo suggerimento è che i diversi responsabili dell’animazione della carità si incontrino in parrocchia con i catechisti per costruire progetti comuni di servizio.
Certo è possibile fare dei servizi anche in grandi realtà e associazioni, ma essi rischierebbero di essere, per le famiglie della catechesi, delle esperienze occasionali, mentre proposte elaborate nel proprio quartiere permettono di rendere tali esperienze abituali e non sporadiche.
I gruppi della catechesi hanno bisogno di scoprire che è la comunità parrocchiale a porsi al servizio dei più deboli. Sperimenteranno così che è possibile servire chi è nel bisogno - non dobbiamo dimenticare che tanti diffidano della possibilità di incontrarsi realmente con i più poveri e temono tale incontro. Proprio la parrocchia è il luogo dove tutto questo può avvenire, perché ambiente vicino e fraterno.
2/ Differenziare il Centro d’ascolto dalla distribuzione di cibo e pacchi
In parrocchia è importantissimo differenziare il Centro d’ascolto dal Centro di distribuzione di aiuti, entrambi animati dalla Caritas parrocchiale, di modo che ogni persona in difficoltà possa essere conosciuta e ascoltata, prima di offrirle un aiuto.
Quando ero parroco, capii subito che senza questo passaggio non ci sarebbe mai stato un vero incontro con i poveri e tutto si sarebbe ridotto a dare loro pacchi e vestiti.
Riuscimmo dopo qualche anno di cammino a fare questa distinzione decisiva, stabilendo orari diversi per il Centro d’ascolto e il Centro di distribuzione: si accedeva alla distribuzione di pacchi, solo dopo essere stati prima ascoltati e conosciuti. Le persone in difficoltà si comunicavano via via la notizia di questo modo di procedere e divenne abituale anche per loro tutto questo. Fu un passaggio importante perché permise di incontrare realmente le persone e di non trattarle solo come numeri.
Quando le si conosceva nel primo momento dell’ascolto, gli animatori della Caritas proponevano loro di visitarle a casa, verificando così anche l’indirizzo che fornivano, e si mostrava loro che la comunità era pronta a fornire un aiuto medico, giuridico, psicologico, lavorativo, oltre che economico, a chi ne aveva realmente bisogno.
Chi invece era abituato a passare di parrocchia in parrocchia per chiedere solo qualche euro, senza voler essere veramente aiutato, capiva che la parrocchia preferiva dedicare le sue forze umane ed economiche a chi aveva più bisogno e desiderava provare ad uscire dalla situazione di disagio in cui si trovava e non permanervi a tempo indefinito.
Nessuno aveva accesso alla distribuzione di cibo o vestiti se prima non veniva ascoltato, in maniera da poter comprendere prima la sua situazione. In questa maniera l’aiuto diveniva addirittura maggiore anche economicamente e più significativo e ci si impegnava anche molto, senza dare solo elemosine, in un rapporto che diveniva via via stabile, ma a condizione che iniziasse un vero rapporto.
I laici, animatori della Caritas, capirono ben presto che chi chiedeva un aiuto immediato, senza voler essere minimamente conosciuto, scongiurando di dover partire entro un ora per la Svizzera o di avere la macchina ferma ad un chilometro di distanza per mancanza di benzina o di dover pagare una bolletta entro due ore, non intendeva in realtà essere aiutato ad uscire dalla sua situazione, ma voleva solo denaro e girava di parrocchia in parrocchia raccontando storie sempre diverse (o sempre uguali). Chi invece si avvicinava realmente per essere aiutato in profondità, era disponibile anche ad intessere un vero dialogo.
Dopo aver ascoltato le persone, gli animatori della Caritas, insieme ai sacerdoti, elaboravano una proposta di aiuto di lungo periodo.
3/ Il coinvolgimento dei genitori della catechesi quando si elabora un progetto di aiuto: chiedere ai professionisti il dono delle loro competenze e far loro incontrare i poveri
L’ascolto portava, ad esempio, a comprendere che la persona, a seconda dei casi, non aveva un dentista che gli curasse la bocca o un avvocato che lo aiutasse nell’ottenere la cittadinanza o la pensione, o un ufficiale del Municipio cui rivolgersi per avere un aiuto per i genitori ormai anziani (e così via).
Ci si rivolgeva allora ai genitori della catechesi o agli adulti della parrocchia chiedendo ad un dentista o ad un avvocato o ad un ufficiale dell’amministrazione di mettere a disposizione gratuitamente qualche ora per incontrare la persona in difficoltà e aiutarla a risolvere il caso.
Ecco qui un ulteriore suggerimento nel rapporto fra animatori della carità e catechisti. Mons. Di Liegro ripeteva spesso: “Io chiedo a un professionista non tanto di diventare catechista, quanto di regalare qualche ora di prestazione professionale per aiutare gratuitamente una persona che non si può permettere di pagare uno specialista”. A partire da questa intuizione i genitori delle Comunioni o delle Cresime che avevano quella specifica competenza potevano così aiutare una determinata persona suggerita dal Centro d’ascolto Caritas: si mettevano a servizio proprio con la loro capacità professionale.
Contemporaneamente gli animatori della Caritas offrivano alle persone che avevano conosciuto e ascoltato di poter ricevere cibo o altri aiuti concreti con un ritmo adeguato alle loro esigenze, venendo in parrocchia con una tessera preparata ad hoc, ad un’ora concordata - ad esempio una volta a settimana.
La distribuzione così non era caotica, ma ognuno veniva all’ora fissata, se necessario anche in segreto se era necessario per tutelare la dignità delle singole persone. Nei primi anni, invece, quando il Centro di distribuzione si chiamava ancora con il falso nome di Centro d’ascolto, non essendoci un vero ascolto previo, e le persone venivano direttamente solo per chiedere pacchi, si erano avuti anche liti fra persone bisognose che ritenevano che altri poveri avessero avuto di più di loro, quando si accalcavano tutte insieme.
Anche riguardo al mettere a disposizione cibo e altre cose necessarie avveniva un coinvolgimento di tutta la comunità parrocchiale ed anche delle famiglie della catechesi. Bambini e genitori della catechesi raccoglievano periodicamente il cibo, sapendo che sarebbe stato condiviso con persone realmente bisognose e, in più, si attivavano ogni volta che la Commissione Caritas parrocchiale esprimeva una specifica esigenza per i più poveri. In particolare tutte le famiglie partecipavano alle raccolte dinanzi ai supermercati in occasione delle giornate indicate o portavano confezioni di cibo nella messa serale dell’Epifania e durante la Quaresima; cfr. su questo Iniziazione cristiana e carità: 2 proposte per le famiglie ed i ragazzi per la Quaresima 1) La Raccolta alimentare, una proposta di servizio per genitori e figli 2) Digiunare con un pugno di riso: un segno diocesano per vivere la carità in Quaresima ma anche Iniziare a celebrare: la Messa dell'Iniziazione cristiana. Sussidio a cura dell’Ufficio catechistico e dell’Ufficio liturgico di Roma (III parte, n. 10, sull’Epifania e i doni portati dai bambini).
4/ Le diverse comunità etniche presenti sul territorio e l’incontro con esse
Importantissimo è poi, nella mia esperienza, il coinvolgimento delle comunità etniche presenti nel territorio della parrocchia con i loro cappellani. Spesso, nei diversi quartieri, sono presenti determinate etnie, perché i migranti sono abituati a vivere gli uni vicini agli altri. La parrocchia, quando ero parroco, aveva creato un rapporto stabile con il cappellano dell’etnia presente in parrocchia (molti aiutavano gli anziani o lavoravano nelle case) e insieme al cappellano e ai suoi collaboratori si organizzava una festa nel quale la parrocchia e quell’etnia si ritrovavano insieme per una celebrazione, per uno scambio di esperienze e per una cena comune nella quale venivano cucinati cibi dell’una e dell’altra cultura.
Questo permetteva un incontro reale, ci si rendeva conto dei problemi del migranti che risiedevano nel territorio, li si aiutava ad incontrarsi con il loro cappellano e si proponeva anche un cammino comune per i bambini nell’oratorio estivo.
L’incontro era così ancora una volta fraterno e personale e le famiglie si conoscevano le une con le altre, condividendo ciò che cucinavano con semplicità. La stessa catechesi dell’Iniziazione cristiana vedeva insieme bambini italiani e bambini figli di migranti di culture diverse: come è evidente a tutti, i bambini, nella loro semplicità, aiutano anche gli adulti a dialogare e a condividere le stesse esperienze.
La presenza di tanti preti e suore di altre nazioni, in particolare dell’Africa, è uno strumento preziosissimo per in una chiesa che sappia integrare, a partire dal Vangelo. Ogni riflessione e ogni azione sui migranti che non tenga conto dei preti o delle suore africani o medio-orientali si rivela povera, perché bypassa proprio le persone che meglio conoscono quei migranti in difficoltà e possono fare da mediatori con le parrocchie, aiutandole a capire i veri problemi di quella cultura e le ragioni della migrazione, oltre che aiutare nelle difficoltà linguistiche.
Dove poi le parrocchie hanno aperto le porte per accogliere i profughi, ecco che ancor più esiste la possibilità di coinvolgere i ragazzi della catechesi e le loro famiglie in tale accoglienza.
Le testimonianze che stiamo raccogliendo mostrano che questo è possibile, ma che non è automatico, perché talvolta non si pensa a quanto sarebbe educativo per le giovani generazioni sperimentare l’accoglienza della comunità parrocchiale verso chi è costretto a fuggire dalla propria terra (cfr. su questo:
1/ L’accoglienza dei profughi nelle parrocchie romane: L’avete fatto a me!, di Marco Vitale Di Maio
5/ I gruppi missionari, le adozioni “ecclesiali” a distanza e l’incontro con i missionari
Fondamentale è anche la valorizzazione dei gruppi missionari presenti in parrocchia (o la creazione di un tale gruppo, nei casi in cui mancasse. Guai a dimenticare che la carità è animata non solo dalla Caritas parrocchiale ma anche dai gruppi missionari. Nella parrocchia nella quale ero parroco erano sorti spontaneamente legami con ben quattro nazioni (due africane e due dell’America latina), grazie ad alcuni laici e alle suore che offrivano il loro servizio in parrocchia.
Anche qui proprio la presenza personale di queste famiglie, così come delle suore, facevano sì che ad ogni viaggio nelle missioni quell’esperienza venisse poi condivisa, raccontando anche ai bambini e alle famiglie della catechesi quanto era avvenuto.
Io stesso mi recai in quei luoghi e con me diversi laici scoprivano via via il desiderio di visitare quelle missioni per conoscere, condividere e aiutare.
Riflettendo insieme alle comunità di quei luoghi e alle famiglie che facevano da tramite, giungemmo alla decisione di non proporre più adozioni singole di bambini a singole famiglie della parrocchia, bensì di proporre quelle che chiamammo “adozioni ecclesiali”, in una sorta di “gemellaggio” tra due comunità. Un gruppo di famiglie - ad esempio un gruppo dell’Iniziazione cristiana - adottava un’intera classe scolastica di uno dei paesi aiutati, di modo che anche le comunicazioni che ci si scambiava non andavano da singoli a singoli, ma da una comunità all’altra. Si superava così anche il problema che era sorto in precedenza di bambini che chiedessero sempre più cose solo per sé o di famiglie che scoprivano il fallimento del loro aiuto perché il bambino da loro “adottato a distanza” interrompeva senza spiegazioni il cammino scolastico. Era, invece, una comunità che aiutava un’altra comunità e si metteva in conto che ci sarebbero stati fallimenti e succesi e che tutto andava condiviso insieme.
Questa forma delle “adozioni ecclesiali” e non “personali” venne suggerita dagli stessi missionari con cui eravamo in contatto da anni. La loro esperienza, infatti, li aveva portati alla conclusione che, quando si tratta di bambini, è meglio far sentire loro che una intera comunità di famiglie sostiene un intero gruppo di un villaggio. Questo aiutava le persone ad essere più solidali nel cammino e a non cercare aiuti solo per qualcuno a discapito di altri, ma per tutti insieme.
Inoltre le “adozioni ecclesiali” permettevano l’elaborazione di un progetto, in modo che l'aiuto non fosse solamente un’elemosina, ma avesse come corrispettivo la richiesta di impegnarsi per una maturazione, nello studio. Erano, infatti, i responsabili del gruppo aiutato che mandavano i risultati complessivi dell'intera classe, facendo sentire ai bambini che avevano a cuore tutto questo.
Inoltre, sempre più, dalle missioni, ci arrivò la richiesta di un aiuto non solo di prima alfabetizzazione, ma soprattutto, per l'istruzione superiore. Prendemmo così coscienza che, se un medico o una giovane suora potevano studiare con gli aiuti dati, l'aiuto si moltiplicava enormemente di frutti che ricadevano poi su tutte le persone di quel luogo, permettendo loro di aspirare sempre più ad un’autonomia da aiuti esterni.
Soprattutto le vocazioni religiose del luogo - preti e suore - erano decisive per un aiuto che fosse efficace: non era il donare continuamente elemosine che aiutava veramente quel luogo, ma piuttosto l’aiutare persone a formarsi perché proprio quelle persone si facessero carico della loro comunità. Lo stesso avveniva se si aiutavano dei giovani medici o degli infermieri del posto a formarsi per offrire un servizio qualificato.
L’aiuto che la parrocchia dava comunitariamente faceva sì che ci sentissimo anche noi più comunità e più Chiesa. Faceva crescere maggiormente in noi non solo il desiderio di dare, ma anche di conoscere la reale situazione dell'uomo e della Chiesa in quei continenti e di appassionarci alla loro storia, ricevendo noi il dono della loro testimonianza e della loro ricchezza di umanità e di fede, espressa in una cultura differente.
Importante era poi che tutti i partecipanti ai progetti di adozione incontrassero i missionari, quando venivano in Italia, per permettere loro di raccontare a tutti la loro esperienza.
6/ L’eucarestia domenicale, il “luogo” dell’accoglienza
Desidero infine sottolineare come proprio l’eucarestia domenicale sia il luogo dell’accoglienza e della piena integrazione. Voglio anche qui fare riferimento alla mia esperienza di parroco e vice-parroco, a partire dall’incontro con persone con disabilità, ma l’esempio permette di comprendere come tale discorso si possa e si debba allargare all’accoglienza più in generale.
La celebrazione domenicale è, infatti, quel momento importantissimo nel quale la chiesa madre accompagna le famiglie che hanno figli con disabilità. Quell’appuntamento domenicale fa incontrare tutti i genitori insieme - ognuno con la propria fatica e la bellezza della propria vocazione - e fa sì che essi si conoscano e che imparino a condividere la crescita dei figli.
La bellezza del rito, il canto, i gesti, aiutano tutti, anche i bambini con disabilità, a scoprire quanto la vita di ognuno sia preziosa non solo agli occhi di Dio, ma anche per i fratelli.
L’assemblea liturgica della Messa dell’Iniziazione cristiana non solo si abituerà a qualche parola o gesto talvolta imprevisti, ma ancor più ad apprezzare proprio quella presenza che ci chiede ancor più di essere comunità che cammina insieme.
Mi colpì una volta una amica che mi disse: “Don, io avevo paura di accostarmi alle persone con disabilità, non sapevo cosa dire, che gesti compiere. Stando con loro abitualmente nella celebrazione domenicale, ho imparato a relazionarmi con loro, ho compreso la loro gioia e l’importanza della loro presenza”.
Mi sono trovato più volte a discutere con alcuni movimenti che celebravano la messa con i ragazzi solo in occasione dei loro raduni. Non si rendevano conto che i ragazzi avrebbero avuto il desiderio di essere a messa tutte le domeniche, perché si sentivano accolti con affetto da tutti. Ma, poiché i loro amici non erano interessati alla messa, privavano i ragazzi della gioia dell’incontro domenicale al di fuori dei raduni particolari che la contemplavano.
Quando poi una persona con disabilità diviene adulta, se si è radicata in una comunità ed è conosciuta da tutti, ecco che ogni domenica potrà gioire dell’incontro con il Signore e con i fratelli. Se, invece, non viene aiutato a scoprire che la messa domenicale è la sua casa, ecco che correrà il rischio, una volta che i suoi amici si saranno dovuti trasferire per lavoro in altre città, di non avere più una “casa” domenicale dove essere accolta e dove incontrare il Signore e la sua chiesa, quella comunità che è più grande del ristretto gruppo di amici che hanno camminato con lei finché era bambina o giovane.
Quanto questo cammino sia ancora lungo da percorrere, lo si vede facilmente: basta constatare, purtroppo, quante poche carrozzelle si vedano nelle nostre eucarestie domenicali o quanto pochi bambini con la sindrome dello spettro autistico ci siano. Ma, all’opposto, è facile accorgersi del fatto che coloro che si affezionano alla domenica, trovino sempre, poi, il cuore aperto di chi con loro celebra la messa.
7/ La Giornata mondiale dei poveri e le proposte condivise in questo testo
Con queste brevi notazioni abbiamo inteso semplicemente aiutare i catechisti a riflettere su alcune possibilità concrete che ogni comunità parrocchiale può valorizzare perché l’Iniziazione cristiana sia ancor più educazione alla carità, alla fede e alla speranza.
La Giornata mondiale dei poveri, istituita da papa Francesco per essere celebrata per la prima volta il 19 novembre 2017 e poi ogni domenica precedente la domenica di Cristo re, è un’occasione per approfondire in ogni parrocchia la collaborazione fra i catechisti e i collaboratori della Caritas parrocchiale, dei gruppi missionari, del servizio ai migranti e dell’integrazione di ogni “piccolo” amato dal Signore e per poter servire tutti insieme chi è più debole, povero e solo.
Note al testo
[1] Già nel primo scritto del Nuovo Testamento, la I lettera ai Tessalonicesi, è evidente che fede, speranza e carità sono indissolubili l’una dall’altra: chi le vive è cristiano. Paolo scrive: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro» (1 Tes 1,2-3).Le 3 virtù si ritrovano insieme in tanti testi, il più famoso dei quali è: «Ora rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (1 Cor 13,13).
[2] Sui termini “animatore”, “operatore” e “collaboratore” (solo l’ultimo è teologicamente corretto, mentre gli altri vanno utiizzati cum grano salis), cfr. Collaboratori pastorali, meglio di ministeri, operatori o animatori (di Andrea Lonardo).