Una fede vista a partire da “quelli di fuori” che riesca a ritrovare se stessa. Un’esperienza romana, di Andrea Lonardo

Riprendiamo dalla rivista Presbyteri  51 (2017), n. 5, pp. 376-384 un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/6/2017)

1/ Vedere il Battesimo e la Confermazione con gli occhi dei genitori e dei ragazzi

Perché mai la prima modalità per valutare se la pastorale battesimale sta portando frutti dovrebbe essere il numero di coppie che vengono in parrocchia in occasione del Battesimo di Gesù? E se fosse invece il fatto che, negli anni, chi ha avuto un bambino ne fa nascere un secondo e chi ne ha due, ne accoglie un terzo? Il grande problema della fede in Italia non è che le coppie non rispondano all’invito del parroco di partecipare ad un incontro, bensì il fatto che nascano troppo pochi bambini!

Papa Francesco ci invita a vedere la fede con gli occhi di “quelli di fuori!”, con lo sguardo delle periferie. Ecco un primo esempio di come il nostro sguardo pastorale si dovrebbe modificare. Dobbiamo riscoprire che solo la fede nel Battesimo permette oggi alle coppie di avere il coraggio di accogliere la vita, perché è difficile garantire un futuro ai bambini, se gli adulti non credono che la vita è nelle mani di Dio e che la provvidenza sosterrà chi genera nuova vita. Nascono pochi bambini perché gli italiani hanno troppa poca fede nel Battesimo.

Vale la pena aggiungerne subito un secondo, per illuminare ulteriormente la conversione pastorale che Evangelii Gaudium ci propone.

Perché mai si dovrebbe continuare a ripetere che la celebrazione della Confermazione è la messa dell’addio dei ragazzi? Ciò non è vero - e chi ripete frasi come queste sembrerebbe vivere trent’anni fa - innanzitutto perché i ragazzi vanno via oggi prima di ricevere la Confermazione (nelle grandi diocesi si calcola che circa il 40% dei giovani non riceva più la cresima). Poi perché i ragazzi scompaiono il 1° di giugno del primo anno “della Comunione”: qualsiasi parroco sa che nell’ultima messa di maggio i bambini sono tutti presenti, mentre nella prima di giugno non c’è più nessuno (spesso nemmeno gli oratori estivi si preoccupano della celebrazione domenicale e a nessuno viene in mente che da giugno a settembre la messa domenicale andrebbe spostata alle 19.00, con la partecipazione di animatori, bambini e genitori).

Ma, soprattutto, se si guardano veramente con amore i ragazzi a partire dalla “periferia” della loro vita, ci si accorge subito che il vero problema è la loro “orfananza” – come ha ricordato più volte il papa. Pochissimi si preoccupano oggi di confermarli nel bene. Ed ecco proprio qui, con uno sguardo visto con gli “occhi di quelli di fuori”, il grande senso teologico della Confermazione. Esso non consiste affatto in una presunta “conferma” che il ragazzo dovrebbe dare con il suo “sì” a quello detto dai genitori al momento del Battesimo: se così fosse, il sacramento smetterebbe di essere un dono e diverrebbe un dovere e la Cresima un qualcosa di moralistico, tutta “schiacciata” sull’uomo e le sue responsabilità . Nella Confermazione, invece, è Dio che vuole ridire il suo “sì” ai ragazzi già battezzati, perché sappiano che egli li ama come figli e non si è pentito di averli generati: questa conferma dona forza ai ragazzi. Come avviene quando un padre, a distanza di anni dalla nascita, ridice al suo figlio il suo “sì”, conferma lui che è così insicuro a motivo dell’adolescenza che è fiero di lui, e in questo sguardo forte e amorevole del padre il ragazzo trova forza per immaginare il proprio futuro. Chi guarda con verità i ragazzi si accorge che essi sono oggi deboli, senza coraggio, senza forza perché mai “confermati”: nessuno li conferma che valga la pena sognare di sposarsi un giorno, di diventare padri, di battezzare i propri figli, di costruire un’Italia migliore. La debolezza della odierna pastorale della Confermazione fa sì che manchi proprio ciò di cui i ragazzi hanno più bisogno: l’annuncio di un Dio che li confermi della bontà della loro vita.

Questi due esempi, carichi di conseguenze pastorali, mostrano bene perché anche oggi l’uomo ha bisogno di Dio.

Guardare la fede “dalle periferie” non vuol dire dimenticare il cuore della fede, ma anzi riscoprirlo. Trattare di crisi demografica, di adolescenza, di cultura, scienza, arte, storia, carità, servizio, politica, non vuol dire mettere da parte la fede e immiserirla, bensì al contrario mostrarne la fecondità. La gioia della fede è ciò che permette ai genitori di far nascere bambini e agli adolescenti di trovare “conferma” in Dio della bontà della vita.

Proprio le grandi domande dell’uomo post-moderno aiutano a riscoprire il cuore vivo della fede.

2/ Un nuovo amore alla scienza da riaffermare oggi e da coniugare con la conoscenza tipica della fede

Innanzitutto le questioni, oggi centralissime, della scienza. L’interesse della pastorale deve tornare a riscoprire questi temi – come indica anche la Laudato si’ – altrimenti rischierebbe di non provare più lo stupore che l’uomo sempre prova dinanzi alle meraviglie del cosmo e di confinarsi in un linguaggio diverso da quello utilizzato a scuola dai ragazzi e nelle loro professioni dagli adulti.

Un ruolo decisivo gioca qui la riscoperta di una nuova passione per il libro della Genesi. Gli studi recenti sul primo libro della Bibbia mostrano come i capitoli meravigliosi della creazione siano non un testo mitologico, bensì pre-scientifico, cioè che già prelude alla scienza: in essi l’autore ebraico intende de-mitizzare gli antichi racconti mitologici a partire dalla fede nell’unico Dio. Il sole e la luna, gli astri e gli animali, non appaiono più come divinità, bensì semplicemente creature e si può iniziare ad analizzare il “cielo” con criteri nuovi[1]. La nostra pastorale ha bisogno di tornare ad annunziare che la Chiesa ama la scienza. Che è stato un prete gesuita belga, Georges Édouard Lemaître, ad ipotizzare per primo il Big Bang negli anni ’20 e che il termine di “grande scoppio” fu utilizzato per la prima volta da un altro fisico, Hoyle, che intendeva prenderlo in giro, non accettando la sua ipotesi. Che sulla ISS, la Stazione orbitante Internazionale sulla quale ha vissuto la nostra Samantha Cristoforetti, gli astronauti hanno portato crocifissi e icone della Madonna, come mostrano i video dallo spazio.

Ma, al contempo, dinanzi alla meraviglia del creato, gli uomini hanno bisogno di riscoprire oggi che la scienza non è l’unica forma di conoscenza, perché ogni grande scienziato dovrà utilizzare criteri non scientifici per decidere se sposarsi o meno, se mettere al mondo dei bambini e se credere che Dio esista e quale sia il suo volto. Inoltre, a differenza di quanto sembra affermare un luogo comune molto diffuso, la competenza scientifica non indica automaticamente bontà o desiderio di pace: pochi sanno, ad esempio, che scienziati di altissimo rilievo come Konrad Lorenz, il famoso etologo, o Werner von Braun, l’uomo che ha guidato il progetto che ha portato l’uomo sulla luna con l’Apollo 11, sono stati nazisti e hanno contribuito il primo alla difesa della teoria della razza e il secondo al programma missilistico delle V2 con le quali il Terzo Reich bombardava i civili di Londra. Gli scienziati hanno bisogno della morale, della filosofia, della teologia, perché hanno anch’essi bisogno di capire cosa è bene e cosa è male e se la morte possa essere vinta, sapendo bene che non è con i loro studi scientifici che potranno rispondere a queste domande.

Riflettere su queste cose, allora, mentre al contempo si leggono i sinottici o il vangelo di Giovanni, è veramente importante nella Chiesa. Se, da un lato, si deve proclamare che Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est, come afferma la Dei Verbum citando San Girolamo, d’altro canto non si può limitare la catechesi unicamente ai temi biblici. La grande differenza che gli antropologici hanno individuato come caratterizzante l’uomo a differenza dell’australopiteco è esattamente che quest’ultimo, come ogni animale, non ha mai seppellito i morti, perché non ha mai avuto, né mai potrà avere, il senso dell’infinito: solo l’uomo, anche l’ateo, si relaziona con Dio, nella preghiera come nel rifiuto. La religione non è, dunque, una subcultura – come afferma spesso papa Francesco – bensì appartiene di diritto all’uomo e alla sua ricerca.

Come Ufficio catechistico di Roma stiamo cercando di aiutare le parrocchie e i catechisti ad affrontare questi temi[2], a dialogare con il vissuto scolastico dei ragazzi e dei giovani, ad organizzare visite o incontri su tali questioni, proprio perché la fede deve parlare all’uomo e toccare il suo cuore e le sue domande.

3/ Quali sono i presupposti della via pulchritudinis?

Un altro grande ambito che merita attenzione oggi è quello della bellezza. Anch’essa, come la scienza, indica quella sete di armonia e di verità che abita il cuore dell’uomo.

Quella che viene chiamata oggi via pulchritudinis, la via della bellezza, non è una prospettiva meramente estetizzante, perché altrimenti si risolverebbe in una proposta effimera e, alla fine dei conti, distorcente rispetto al vangelo. Essa implica, invece, la consapevolezza che solo la percezione della bellezza della fede permetta un’adesione reale a Cristo e che la bellezza veramente attragga l’uomo e che anzi egli, senza di essa, non potrebbe vivere. Papa Francesco ha già più volte invitato i più poveri – sia carcerati, sia senza fissa dimora – a visitare la Cappella Sistina, organizzando visite guidate a Musei chiusi esclusivamente per loro e la risposta è stata stupefacente: tali persone non sono uscite dalla Sistina invocando la chiusura di tali luoghi, bensì ringraziando per aver potuto trascorre qualche ora “in Paradiso”, come ha affermato un uomo abituato da anni a vivere per strada[3].

L’Ufficio catechistico di Roma ha maturato negli anni la consapevolezza che su tale prospettiva occorre da un lato conoscere le modalità con le quali l’arte viene utilizzata dal sistema delle guide turistiche e delle istituzioni che formano il mondo dei critici d’arte e, dall’altra, recuperare il rapporto che l’arte stessa ha con la storia e la vita della Chiesa. Gran parte del mondo accademico è oggi incapace di cogliere il rapporto fra un’opera d’arte e il suo utilizzo ecclesiale vivo, con la conseguenza che l’unico interesse si concentra poi su aspetti filologici in chiave di lotta di potere. I turisti, a loro volta, sono abituati a vedere gli edifici ecclesiali quando essi sono vuoti e non nel pieno del loro effettivo utilizzo.

Si genera così, solo per offrire un primo esempio, un contesto favorevole a chi pretende che l’arte barocca sia semplicemente un’espressione di propaganda, mentre senza il colonnato del Bernini non si saprebbe dove celebrare i funerali di un papa o dove accogliere l’annunzio di una nuova elezione. Similmente si fa fatica a comprendere che la basilica di San Pietro è fortunatamente grande perché senza di essa non si sarebbe potuto celebrare il Concilio Vaticano II con i vescovi disposti sui lati della navata centrale, e anzi si mostra troppo piccola in occasioni come le ordinazioni dei preti romani o il Battesimo dei catecumeni a Pasqua, momenti nei quali nella basilica non si trova posto per tutti coloro che desidererebbero partecipare.

Similmente molta critica d’arte cerca, a volte consapevolmente a volte meno, di sganciare dalla Chiesa gli autori più amati dal popolo, in maniera da contrapporli allo spirito della Chiesa del loro tempo. Pochissimi ricordano che van Gogh, ad esempio, è stato un pastore protestante e che si conserva una sua omelia[4] o che Michelangelo trascorse gli ultimi anni della sua vita ad affrescare la Cappella Paolina, cioè la Cappella dell’adorazione eucaristica pontificia, mentre al contempo lavorava al tiburio della Cupola di San Pietro, affermando di non attendersi stipendio per tale lavoro, perché tale costruzione era per la gloria di Dio[5].

Ma si pensi anche a Caravaggio, spesso presentato a torto come un autore ribelle e incompreso. Molti critici d’arte nemmeno si accorgono che nella famosissima Cappella Contarelli la tela con il Martirio di Matteo lo rappresenta mentre ha appena battezzato i primi catecumeni d’Etiopia – si vede infatti la vasca battesimale in basso e i personaggi intorno ad essa che sono ignudi appunto perché appena usciti dalle acque – ed ha terminato di celebrare l’eucarestia cattolica e, quindi, indossa le vesti del sacerdote, mentre sullo sfondo si vede l’altare con le candele ancora accese e, in primo piano, un chierichetto che fugge. Nella stessa Cappella la vulgata superficiale che vuole che il Merisi sia un pittore realista, accecata dall’ideologia, non si accorge che Gesù e Pietro non sono rappresentati in maniera realistica come personaggi del seicento, bensì sono scalzi e con vesti antiche, proprio a significare in maniera scopertamente simbolica che la chiamata di Matteo riguarda anche noi oggi: Gesù risorto è talmente vivo da essere in grado di incontrare gli uomini del tempo di Caravaggio, di modo che realismo e simbolismo sono compresenti nella tela[6].

L’Ufficio catechistico propone per questo da alcuni anni degli itinerari volti ad insegnare a leggere iconograficamente le opere e, al contempo, finalizzati all’intento di far riscoprire il legame che hanno avuto gli artisti con la Chiesa dell’epoca[7], per mostrare, ad esempio, che Caravaggio è stato un pittore tipicamente contro-riformista e che accogliere tale evidenza vuol dire recuperare la capacità dei cristiani del tempo di vivere la fede nella loro epoca come in ogni epoca.

In questa maniera l’arte si libera del suo aspetto estetizzante e la sua lettura viene ricongiunta al modo in cui la Chiesa nelle varie epoche si poneva a servizio del mondo, generava carità e cultura, comprendeva la novità della fede e credeva al Signore Gesù.

4/ Una riscoperta dei contenuti e delle esperienze, per non limitarsi alle “attività”

Dietro indirizzi di lavoro come questi appena indicati, l’impostazione di fondo che ci guida è più ampia e si allarga ad ogni ambito della catechesi. Troppo spesso l’annunzio, sia nei confronti dei bambini che dei giovani e degli adulti, sembra preoccupato dall’elaborazione di “attività”. Si passa dai cruciverba e dai disegni da colorare, così come da fogli da ritagliare o oggetti da costruire, fino a dinamiche di gruppo e attività varie. La scoperta di nuove “attività” da realizzare sembra quasi divenuta un’ossessione, quasi che da esse dipendesse il benessere della comunità cristiana. Ciò che resta molto debole è, invece, l’ambito dei contenuti e quello delle esperienze.

Anzi si potrebbe dire che la catechesi è oggi poverissima di contenuti e alle domande grandi e ai dubbi non offre talvolta che risposte molto superficiali. Tende a infantilizzare e, a volte, a trattare bambini, giovani e adulti quasi fossero veramente delle persone senza maturità, desiderosi non di capire, ma solo di distrarsi. Abbiamo appena pubblicato un Itinerario di Iniziazione cristiana per genitori e figli[8] che parte proprio dalle domande grandi dei bambini, per incoraggiare tutti a rendersi conto che bambini e genitori sono attratti da ciò che è infinito e hanno interrogativi enormi sul nascere, sul morire, sul bene, sul male, sulla fede, sulla verità del cristianesimo, sulla differenza fra le religioni e così via.

Se l’annuncio della fede si dimenticasse di affrontare queste grandi questioni diverrebbe fallimentare, perché impedirebbe di camminare verso una fede adulta.

Ma, d’altro canto, sono talvolta poverissime anche le esperienze che vengono proposte dalla comunità cristiana. Si pensi solo ai campi estivi o agli oratori estivi che sono vere esperienze di fede e non mere attività. Un adolescente ha bisogno di mettersi al servizio dei più piccoli, ad esempio in un oratorio estivo[9], e lì matura la sua fede. Si pensi anche al coinvolgimento dei genitori nel servizio dei più poveri nella Caritas parrocchiale, questa sì esperienza di vero servizio, o ancora all’accoglienza parrocchiale di famiglie di migranti così come alla condivisione del cammino di Iniziazione cristiana di bambini disabili, posti al centro della vita dei gruppi dei coetanei. Tali “esperienze” sono reali e non artificiali e, per questo, generano alla fede, mentre i contenuti permettono di scoprire la dignità della proposta cristiana.

Ovviamente si deve lavorare perché alla proposta concreta della carità si aggiunga quella della vita fraterna con i fratelli nella comunità cristiana a partire, soprattutto, dal luogo nel quale la Chiesa si manifesta più pienamente, l’Eucarestia domenicale, a partire, come si è detto, anche dall’esperienza estiva dell’Oratorio, con una proposta a giugno e a settembre che sia incentrata sull’eucarestia domenicale serale come parte integrante dell’oratorio estivo[10].

Dove i contenuti e le esperienze proposte sono forti e vere le comunità cristiane rifioriscono.

5/ Dove trovare materiale in aggiornamento continuo

In questo servizio alla diocesi, se l’incontro personale e la disponibilità a recarsi nelle diverse parrocchie è certamente l’elemento più significativo, abbiamo imparato che la continua messa a disposizione di materiale gratuito on-line permette di mantenere i contatti e di fornire sempre nuove occasioni di approfondimento così come di offrire strumenti da utilizzare. Importanti si sono rivelati i video del Canale YouTube Catechisti Roma – visualizzati ormai in numero di quasi 500.000 – dove, a fianco dei video realizzati direttamente dall’Ufficio catechistico per la formazione sui grandi temi dei catechisti dell’Iniziazione cristiana, si sono aggiunte diverse playlist con video da inviare a genitori e ragazzi (ad esempio le playlist Genitori e figli, Catechesi e disabilità o Educare all’uso dei social network). Il sito www.gliscritti.it si propone come un piccolo strumento informatico che intende fornire, con un aggiornamento continuo, una proposta di lettura non solo della Scrittura e della catechesi, ma anche dei grandi temi che vengono affrontati nel dibattito italiano, senza però mai cadere in scelte politiche di parte: idealmente è stato pensato come una raccolta di materiali in progress, con testi che si ritiene possano essere utili anche fra qualche decennio e non siano destinati ad essere bruciati in un brevissimo volgere di giorni.

Note al testo

[1] Sull’utilizzo della Genesi in catechesi, cfr. Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo, on-line su www.gliscritti.it.

[2] Si veda su questo i video della playlist Scienza e catechesi sul Canale Youtube Catechisti Roma, così come la sezione Scienza e fede sul sito www.gliscritti.it.

[3] Cfr. su questo l’articolo su www.gliscritti.it “Una piccola carezza”: così Papa Francesco ha definito la visita ai Musei Vaticani, offerta dall’Elemosineria Apostolica a 150 senzatetto che poi ha incontrato nella Cappella Sistina (da Radio Vaticana).

[4] Cfr. su questo Nel 150° anniversario della nascita di Vincent van Gogh (1853-2003). Dal Sermone domenicale sul Salmo 119, 19 al Campo di grano con corvi. Vivere in compagnia della speranza e nella sua assenza, di Andrea Lonardo, on-line su www.gliscritti.it.

[5] Cfr. su questo A. Lonardo, Dove si eleggono i papi. Guida ai Musei Vaticani. Cappella Sistina. Stanze di Raffaello. Museo Pio Cristiano, EDB, Bologna, 2015.

[6] Cfr. su questo Caravaggio: un pittore controriformista? (pp. 73-80), La Cappella Paolina in miniatura per il cardinale Cerasi (pp. 129-136), Nella Madonna dei Pellegrini il classico incontra il moderno (pp. 171-178), A casa di san Filippo (pp. 213-220), Tornare per desiderio nella Roma papale dopo l’esperienza crociata maltese (pp. 263-269), in Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose, A. Rodolfo (a cura di), Edizioni Musei Vaticani, Città del Vaticano, 2014.

[7] Cfr. le relazioni trascritte e i nuovi file audio nella sezione Roma e le sue basiliche del sito www.gliscritti.it.

[8] M. Botta-A. Lonardo, Le domande grandi dei bambini, Itaca, 2016.

[9] Cfr. su questo GREST (gruppi estivi) e Cre (centri ricreativi estivi ): gli adolescenti ed il valore educativo del servizio ai più piccoli. Una ricerca sociologica realizzata nel 2006 in Lombardia, on-line su www.gliscritti.it.

[10] Cfr. su questo le indicazioni proposte in INIZIARE A CELEBRARE: LA MESSA DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA. Sussidio per la formazione ed il coinvolgimento dei genitori a cura dell’Ufficio catechistico diocesano e dell’Ufficio liturgico diocesano.

Redazione de Gliscritti | Lunedì 26 Giugno 2017 - 11:40 am | | Default

1/ La Storia dell’Orto Botanico di Roma, appartenente all’Università di Roma – La Sapienza fin dal 1660, per volere di papa Alessandro VII, requisito alla Chiesa alla nascita dell’Unità d’Italia, ma conservatosi come in origine in qualità di istituzione universitaria 2/ L’Orto Botanico di Roma, più di un giardino, più di un’istituzione scientifica, vero museo di piante vive. Un’intervista di Gabriella Belisario e Maurizio Calò al prof. Giancarlo Avena

1/ La Storia dell’Orto Botanico di Roma, appartenente all’Università di Roma – La Sapienza fin dal 1660, per volere di papa Alessandro VII, requisito dopo l’Unità d’Italia, ma preservatosi come istituzione universitaria, come era nella Roma papale

Riprendiamo dal sito dell’Orto botanico di Roma un breve scritto sulla sua storia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

Nota di Andrea Lonardo Per un’analisi critica delle notizie relative agli antecendeti dell’Orto Botanico voluto da Alessandro VII, cfr. lo studio Andrea Ubrizsy Savoia, 500 anni fa iniziava l’insegnamento della Botanica s.l. all’Università ‘La Sapienza’ di Roma

Nella Serra Corsini

Le origini dell´Orto Botanico di Roma si possono far risalire al papato di Nicolò III (1277-1280) con l´istituzione di un pomerium o verziere, capostipite della lunga serie dei giardini vaticani all´interno dei quali si sviluppò l'Orto Botanico.

Nel 1660 papa Alessandro VII si prodigò affinchè l´Università avesse il suo Orto Botanico, svincolato da quello del Vaticano e la sede fu stabilita in un´area alle spalle della Fontana Paolina al Gianicolo.

Successivamente, nel 1820, la sede dell´Orto Botanico fu spostata nel giardino di Palazzo Salviati alla Lungara, perchè aveva strutture idonee per la coltivazione delle piante e, nel 1873, dopo l´Unità d´Italia, nel giardino dell´ex convento di San Lorenzo in via Panisperna, al fine di riunire tutti gli Istituti scientifici nella zona del Viminale.

La sua sistemazione definitiva nell´attuale sede del giardino di Palazzo Corsini risale al 1883, quando la proprietà passò allo Stato, con l´impegno di realizzare la sede dell´Accademia dei Lincei nel palazzo e quella dell´Orto Botanico nel giardino.

L´Orto Botanico, che si sviluppa nell´area archeologica delle Terme di Settimio Severo e di suo figlio Geta, ospita collezioni di specie vegetali, coltivate in serra e all´aperto, di elevata valenza (specie rare o a rischio di estinzione) e alberi monumentali.

2/ L’Orto Botanico di Roma, più di un giardino, più di un’istituzione scientifica, vero museo di piante vive. Un’intervista di Gabriella Belisario e Maurizio Calò al prof. Giancarlo Avena

Riprendiamo da "La rivista dei Curatori Fallimentari" (gennaio/dicembre 1998) alcuni brani di un’intervista di Gabriella Belisario e Maurizio Calò al prof. Giancarlo Avena. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017) 

Prima di tutto, professor Avena [all’epoca direttore dell’Orto Botanico], ci spieghi che cosa è un Orto Botanico moderno. Quali sono le sue funzioni e che tipo di rapporto ha la città di Roma con questo riservato angolo verde che si nasconde dietro il poetico Largo Cristina di Svezia?

“È difficile spiegare ai visitatori, più di centomila ogni anno, che, varcati questi cancelli, l’aspetto esteriore del giardino contiene, in realtà, una istituzione universitaria, un luogo di ricerca e di studio. Questo perché nella nostra epoca il giardino ha perso le sue connotazioni filosofiche e teoriche, sulle quali sarebbe lungo dissertare in questa sede, per acquisire quelle più popolari di parco pubblico dove passeggiare e sostare al fresco. Nel tipico parco le piante e gli alberi sono quinte più o meno evocative di luoghi ameni e fanno parte del paesaggio. Invece, in un orto botanico, sono loro le protagoniste e noi gli intrusi.

La concezione del giardino quale riflesso ordinato del caos naturale, quale intervento qualificato dell’uomo faber, ha una storia che, in Italia, parte dai romani che lo consideravano contemporaneamente fattore estetico e di raccordo tra la villa, la campagna, gli orti e il paesaggio, per arrivare all’estremo opposto durante il medioevo, con l’hortus conclusus e cioè uno spazio chiuso realizzato presso conventi in cui venivano coltivate piante medicinali utili, orticole e alberi da frutto. A questo si contrapponeva l’hortus deliciarum, il vero giardino immaginario invitante ai piaceri della poesia e dell’amore, paradiso di frutta e fiori in una eterna primavera.

È il rinascimento che riesce a concepire una programmazione vasta e articolata degli spazi verdi. La natura si deve piegare al disegno dell’uomo, ampie geometrie di bossi disegnano i paesaggi lineari così come le potature innaturali degli alberi sono progettate in singolari misure e volumi.

A questo punto della sua evoluzione la botanica si scinde dalla medicina assurgendo al rango di disciplina autonoma. Si cominciano così a concepire i primi orti botanici là dove le aiuole, dopo aver perduto il loro senso estetico, ne acquisiscono uno più profondo di studio. Gli orti botanici insomma, nascono all’ombra dei giardini all’Italiana, anche se, in un certo senso, poi ne prescindono.

Ma per capire fino in fondo certi bizzarri andamenti (anche per le piante esistono le mode) bisogna considerare l’impulso che conferì all’arte del giardino la conoscenza dei nuovi territori, dal Nuovo Mondo all’Asia. Alla fine del 1600 molte varietà di piante furono portate in Europa da una serie di avventurosi scienziati-esploratori, cacciatori-dilettanti, che durante i loro viaggi, si misero a raccogliere fiori, piante ed alberi diversi e sconosciuti.

A volte queste nuove piante potevano avere un reale valore economico e interessare addirittura i governi, come accadde per il tè, altre volte erano specie rare e introvabili ad esercitare un fascino irresistibile sui loro possessori, come avvenne per il tulipano.

Era il momento del meraviglioso, dello strano, dell’esotico. La terra fu battuta palmo a palmo e, attualmente, tutti i nostri giardini, dal più piccolo balcone al più grande parco, sono figli di quelle spedizioni ardite”.

Dunque gli orti botanici nascono dai giardini, ma se ne separano quando vengono associati alle strutture universitarie. È successo così anche a Roma?

“L’Orto Botanico di Roma sia per la sua storia complessa, sia per la sua ubicazione nel cuore del tessuto urbano della città, sia per le croniche difficoltà dell’amministrazione statale e universitaria, si pone in una posizione del tutto eccentrica rispetto alle analoghe istituzioni europee ed agli orti botanici delle grandi capitali del mondo.

Per definire i contorni di questa problematica cominciamo a vederlo da vicino. L’Orto Botanico di Roma si estende per circa 12 ettari tra il lungotevere della Lungara e il Colle Gianicolense (quello che gli antichi romani chiamavano Monte d’Oro, famoso per i giardini di Geta); ospita attualmente una popolazione che oscilla tra le 3000 e le 3500 specie di piante, a volte assemblate in aiuole, a volte ricoverate in serre.

Ma oltre ad un patrimonio vivo di piante, l’Orto Botanico possiede anche un suo notevole patrimonio artistico. Vi è la Fontana dei Tritoni del Padda, recentemente restaurata suscitando grande interesse anche perché è contemporanea di quelle del Bernini a P.zza Navona e del Tritone, nonché del Maini a P.zza di Trevi. Vi è lo scalone monumentale con la fontana degli 11 zampilli, residuo dell’abitazione della Regina Cristina di Svezia che si trovava in alto, in una casa oggi demolita per far posto alla statua di Garibaldi. Vi è la serra dei Corsini, poi le serre storiche, busti e statue di epoca romana. Infine vi è la famosa “prospettiva”, una balconata ad emiciclo in pietra con funzione di belvedere.

Ecco quindi che l’istituzione dell’Orto Botanico va ad operare all’interno di una complessità e varietà di problematiche (artistiche - urbanistiche - storiche) che esulano dalle competenze meramente scientifiche e didattiche che competono oggi agli orti botanici. D’altra parte Roma, se da una parte rende più complicato l’esplicarsi delle attività specialistiche, dall’altra, proprio le sue peculiarità, le valorizzano”.

I visitatori stranieri percepiscono questa diversità ambientale, questa aura che distingue il nostro dagli altri orti botanici?

"A Roma vengono da tutto il mondo, ma all’Orto Botanico arrivano soprattutto tedeschi, inglesi e americani silenziosi, educati e con le loro guide sotto il braccio. La diversità tra la nostra “cultura delle piante” e la loro è enorme, come enorme è la differenza di mezzi e personale che altrove vengono dispiegati in questo settore.

A Londra e New York gli orti botanici hanno circa 100/120 ettari di estensione, con circa 400 addetti tra laureati e non. Bruxelles si estende in 93 ettari; Vienna in 80 ettari; Berlino in 42 ettari; Parigi in 20 ettari e, per ultima, viene Roma con i suoi 12 ettari e circa 20 addetti.

Dunque una grande variabilità per grandezza ed organizzazione. C’è da dire che, però, dal punto di vista giuridico e amministrativo, quasi tutte queste istituzioni dipendono dallo Stato, due, Berlino e New York, sono municipali e quello di Filadelfia, il più grande, è privato e sembra sia in attivo.

Certo c’è il peso della storia: l’orto Botanico di Roma è uno dei più antichi mentre tutti gli orti europei, ad eccezione di Parigi, non hanno più di 100 anni”.

Quali sono le funzioni di un orto botanico moderno?

“La prima è quella di essere un museo vivo, museo scientifico di piante vive. Ma questa funzione è in continuo divenire.

Gli orti botanici, fin dal loro primo apparire, hanno sempre aggiunto nuove finalità e si sono evoluti: dalla primitiva raccolta delle “semplici” piante officinali ad uso dei medici e dei cerusici, alla collezione di piante rare e preziose che hanno arricchito la nostra flora. Le nuove piante introdotte a seguito delle grandi esplorazioni, avevano bisogno di essere acclimatate per potersi riprodurre ed essere classificate; sono state così riscoperte (perché già usate dagli antichi romani) le serre riscaldate e umidificate, e gli esperimenti per selezionare le varietà più resistenti e più belle.

Infine, per molto tempo, negli orti si sono studiati gli aspetti sistematici evolutivi e gli studenti hanno potuto agevolmente esercitarsi tra le aiuole. Non bisogna poi dimenticare, oltre all’aspetto didattico, quello della ricerca.

Ultimamente negli orti botanici sta avvenendo quello che avviene negli zoo. Diventano zone selettive di ripopolamento. Si è scoperto infatti che l’azione dell’uomo tende a massificare, ad uniformare tutto, a far sparire razze più difficili da coltivare. La monocoltura fa il resto: si scelgono poche cose e sempre quelle. Ne deriva che gli orti botanici diventano una sorta di sacrario, un campo di ricerca per la conservazione della specie e della biodiversità.

Così quando, dopo attenti studi, si sceglie di ripopolare delle aeree con le specie che erano endemiche e ora sono localmente estinte, si ricorre al serbatoio degli orti botanici, alle loro banche di semi, per recuperare e mantenere la diversità originaria. Ormai la ricerca sugli ecosistemi, le simulazioni per individuare quelli fragili o instabili, l’ampliamento della scelta delle specie tra di loro biocompatibili, ci porta ad affermare che l’orto botanico è un luogo insostituibile di ricerca e un vasto ed enorme laboratorio all’aperto, offerto alla sperimentazione del nuovo ed alla conservazione dell’antico. A questo va aggiunto il senso più ampliato della didattica che è quello dello scambio con i cittadini attraverso la promozione della cultura del verde, anche a tutti i livelli scolastici.

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Qual è la stagione migliore per visitare l’orto botanico?

Sempre quando esplodono i colori. Quelli dell’autunno, quando gli aceri assumono le loro variegate sfumature dal giallo all’arancio al rosso; oppure in occasione delle fioriture tardive di fine estate, con lo scintillio intenso del giardino dei rododendri. A maggio si può ammirare il roseto, una collezione con circa 60 specie di rose, dalle tradizionali alle ultime creazioni, che dimostrano l’evoluzione del genere Rosa negli ultimi 2000 anni. E poi la serra delle orchidee con circa 400 specie, dalla comune Cattleya fino alle orchidee “falena” o alla stranissima “vanda”, orchidea del sud-est asiatico, dal fusto lunghissimo.

Comunque passeggiate naturali, piene di spunti e di suggestioni si possono compiere in ogni epoca dell’anno.

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Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Giugno 2017 - 10:30 pm | | Default

1/ Progressismo, l'uomo nella società dell'apparire, di Fabrice Hadjadj 2/ Se la pax del mercato non è che mercimonio privato, di Fabrice Hadjadj 3/ Quella ricerca di sensazioni che ci toglie il quotidiano, di Fabrice Hadjadj 4/ Il senso “economico” del Giubileo dall'etica dei campi alle voraci città, di Fabrice Hadjadj 5/ Il cibo dell'uomo? In vitro non sarà né carne né pesce, di Fabrice Hadjadj

1/ Progressismo, l'uomo nella società dell'apparire, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 13/5/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

Cento anni dopo le apparizioni della Madonna a Fatima, il mondo ha conosciuto sconvolgimenti tali che il fenomeno delle apparizioni assume un significato diverso. Dal 1917, con lo sviluppo della radio, della televisione, di Skype e degli ologrammi, sembra che non ci sia niente di più comune dell'“apparire”; l'avvenimento raro e quasi miracoloso è diventato l'essere fisicamente presenti, in una prossimità ordinaria.

Ho sottolineato spesso che questa inversione della scoperta è uno degli aspetti più piacevoli di un mondo assoggettato al progressismo: laddove l'innovazione diventa banalità destinata all'obsolescenza, l'antico si rivela nella sua novità. Camminare su una strada di campagna è un'attività inaudita per chi ha l'abitudine di viaggiare su un'astronave. L'incontro con un albero o un lombrico è un avvenimento fantastico per chi di solito ha a che fare con dei robot. E uno che frequenta soprattutto immagini sintetiche, avatar e proiezioni bi- o tridimensionali, è completamente stupito da qualcuno che bussa alla sua porta dopo aver salito le scale a piedi

Insomma, a furia di conquistare Marte finiremo per scoprire la Terra. Nella saturazione degli artifici, la naturalezza diventa quasi soprannaturale, al punto che la meraviglia potrebbe essere non il vedere la Madonna in un angolo sperduto del Portogallo ma avere il proprio marito a casa, a tavola, che parla con i bambini senza trafficare con il cellulare.

Tuttavia, è possibile che le due cose siano intimamente legate. L'apparizione tecnologica cerca probabilmente di avvicinarsi all'apparizione mariana o all'ubiquità divina. Si tratta di poter essere presenti dappertutto, come un nume tutelare; questo implica necessariamente, nella nostra condizione non ancora del tutto celestiale, l'assentarsi dal luogo dove si sta e il trascurare quelli che sono molto concretamente il nostro prossimo. Del resto, in queste condizioni non esiste più né il vicino né il lontano, ma ciò che Heidegger chiama il «senza-distanza»: la star che appare sul teleschermo non è più lontana, giacché l'abbiamo davanti agli occhi, nel nostro salone, ma non per questo ci sta veramente vicino, se non nelle nostre fantasie.

Günther Anders insiste sul fatto che, nella cornice telematica, la questione della presenza o dell'assenza diventa senza oggetto «perché la situazione creata dalla teletrasmissione è caratterizzata dalla sua ambiguità ontologica: gli avvenimenti trasmessi sono allo stesso tempo presenti e assenti, allo stesso tempo reali ed apparenti, allo stesso tempo qui e altrove».

È specialmente il caso del Live, dove ciò che è “vivo” è in verità ricostituito dall'elettronica, o della “diretta”, dove la pretesa immediatezza passa da una mediazione estremamente pesante ma nascosta. Sotto quest'aspetto, è abbastanza evidente che le apparizioni promosse dall'apparato tecnologico-finanziario sono più oscurantiste di quelle riconosciute dalla Chiesa (solamente 17 su più di 21.000 conosciute).

C'è oscurantismo solo dove la conoscenza possibile è sistematicamente ostacolata. Capita così con i nostri apparecchi. Sono piccole scatole che si presentano con lo slogan «unbox your life» in pubblicità dove gli utenti passeggiano in mezzo alla natura o attraverso città radiose: niente sulle miniere del Kivu, il carbone degli Appalachi, le fabbriche di Shenzen, i sinistri data centers e le centrali nucleari che permettono il funzionamento di questi oggetti così cool.

L'apparizione della Madonna è molto più semplice e limpida. Non nasconde nessuno sfruttamento profittevole ai giganti dell'industria digitale. Il suo miracolo non dipende da alcuna meccanismo vergognoso o insidioso. Lungi dal mettere in azione, come l'ologramma, tutto il dispositivo tecnologico-finanziario, la Madonna lo aggira e lo sconcerta, così che il suo modo di manifestarsi può essere considerato come il modello di ogni alternativa.

Ella arriva perfino a eludere la gerarchia romana, preferendo apparire ai pastori piuttosto che ai cardinali. Le piace di più il bee delle pecore del buzz dei media. Di fatto, mentre l'apparizione tecnologica vanta la sofisticazione e ci invischia sempre di più nella grande tela virtuale, l'apparizione mariana canta la vita semplice. È la madre che si china sui suoi figli. Che dice loro di non dimenticare di dire la preghiera. Che mostra loro i fiori o una sorgente d'acqua.

Ecco perché, per quanto soprannaturale possa essere, questo tipo di apparizione, ha più a che fare col marito che viene alla tavola familiare senza smartphone che con le ultime prodezze della videografia. Certo, l'apparizione mariana si distingue, anche per una certa “ambiguità ontologica”: fuggitiva, non si sa da dove venga, né dove vada; la sua presenza è indubitabile, ma non è quella delle cose quotidiane e sta sempre nell'imminenza di una scomparsa definitiva. Ma non finisce nel «senza-distanza» dell'apparizione tecnologica.

Tende piuttosto a restaurare il senso delle distanze reali, non solo perché è ordinata all'amore del prossimo, ma anche perché Maria, prima di scomparire, domanda generalmente che si costruisca una Chiesa in quel luogo. Il suo nome è legato a un luogo ormai benedetto nella sua stessa materialità. Le donne di Canterbury lo ricordano alla fine di Assassinio nella Cattedrale di T. S. Eliot : «Dove un santo ha abitato, dove un martire ha dato il suo sangue per il sangue di Cristo, là il suolo è santo e la sua santità non si potrà estirpare neppure se gli eserciti lo calpesteranno, neppure se arriveranno a visitarlo i turisti con le guide in mano…».

Così, si dice di san Francesco d'Assisi o di santa Teresa di Lisieux. Così si parla della Madonna di Guadalupe, di Lourdes o di Fatima. Tutta un'economia si svilupperà su questo suolo segnato, col rischio del turismo spirituale e degli ignobili negozi di souvenir, ma si tratta malgrado tutto di un'economia locale, che manifesta il carattere storico e insostituibile di un luogo. L'apparizione mariana opera al contrario dell'apparizione tecnologica dunque: non è virtualizzazione sulla rete planetaria, ma radicamento su una terra, santuarizzazione di uno spazio dove le persone di ogni parte della Terra vanno in pellegrinaggio, molto fisicamente.

2/ Se la pax del mercato non è che mercimonio privato, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 18/6/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

Lo spazio pubblico occidentale è caratterizzato da un vuoto stupefacente: la questione del senso è assente (sostituita da quella della crescita economica). Ogni sapienza, ogni questione religiosa è esclusa da quello spazio e rinviata alla "sfera privata".

Certamente, però, anche i nostri politici, quando si sbarbano al mattino o nella solitudine della stanza da bagno, sono d'improvviso raggiunti dal loro bisogno di felicità e dall'angoscia della morte. Per questa ragione consultano i loro smartphone pure dentro al cesso. Il ronzio delle news gli è necessario per non sentire il cuore...

Per gli antichi, la politica doveva essere il coronamento della vita umana con la celebrazione degli dei della città; adesso è ridotta a sottomissione allo sviluppo materiale, con l'aggiunta di qualche serata di vittoria elettorale animata da un "d.j. techno". Quando si parla oggi di «moralizzare la vita politica» si tratta solamente di deontologia negli affari, perché questa vita politica si trova mani e piedi al di fuori di ogni elevazione morale, con la sua esigenza di giustizia, per fermarsi al livello di soluzione tecnica con i suoi meccanismi di aggiustamento.

Come è avvenuto il ripiegamento sulle speculazioni finanziarie di uno spazio che tradizionalmente si apriva ai misteri della storia? Tale ribaltamento risale probabilmente alle guerre di religione. A partire dalla riforma protestante non è stato più possibile riconoscersi in un re cattolico. Lo Stato, in questa nuova situazione di pluralismo religioso e per evitare ciò che sembra il peggio, la guerra civile, non può manifestare più nessun credo, ma solo la sua neutralità rispetto a ogni concezione trascendente del bene.

Ma come fanno a discutere tra loro, in uno stesso spazio pubblico, persone che non vogliono più affrontare temi decisivi? Riducendo tutte le loro conversazioni a questioni di commercio. Mettendo al posto della chiesa la piazza del mercato. Dove non c'è più comunione, resta il commercio. Esso solo permette di evitare la guerra aperta.

Ritornano qui alla mente le pagine di Montesquieu, riprese poi da Kant e da tutti gli artefici di "progetti di pace perpetua": «Il commercio guarisce dai pregiudizi distruttori, ed è quasi una massima generale che ovunque vi sono costumi miti, v'è commercio; e che ovunque v'è commercio, vi sono costumi miti. […] L'effetto naturale del commercio è di portare alla pace. Due nazioni che commerciano insieme si rendono reciprocamente dipendenti: se una ha interesse di acquistare, l'altra ha interesse di vendere; e tutte le unioni sono fondate su bisogni scambievoli».

Gli eurocrati che si vantano di aver creato un mercato di 500 milioni di consumatori potrebbero sembrare cinici, ma, nella loro prospettiva, chi promuove il liberismo è un costruttore di pace. I cittadini tedeschi e francesi starebbero ancora a farsi la guerra; i consumatori europei non la fanno più perché il francese ha bisogno dell'automobile tedesca e il tedesco del bicchiere di bordeaux.

Questa logica estesa alla mondializzazione conduce a una meraviglia: un capo di Stato europeo, difensore dei valori repubblicani, non avrà difficoltà a stringere la mano di un emiro wahabita, fautore della sharia. La dipendenza reciproca creata attorno al petrolio ci porta a questa dolcezza inattesa: un bacio di Giuda che è allo stesso tempo un bacio di pace. E visto che Gesù è scomparso, sono due Giuda che si baciano e consegnano l'uno all'altro il comfort, le armi e il carburante che le fa funzionare, e guadagnano molti più denari del povero Iscariota che ignorava i business models.

Montesquieu tuttavia relativizza la sua prima osservazione: «Se lo spirito del commercio unisce le nazioni, non unisce al pari i privati. Vediamo che nei Paesi dove si vive solo preoccupandosi del commercio, si fa traffico di tutte le azioni umane, e di tutte le virtù morali: le più piccole cose, quelle che l'umanità esige, vi si fanno e vi si danno per denaro». Il rovescio della medaglia della pacificazione internazionale corrisponde dunque a una prostituzione generalizzata. La sicurezza è acquisita mediante la riduzione di ogni bene a valori monetizzabili.

Montesquieu dirà nel seguito che il commercio non preserva dal «brigantaggio» impedendoci l'accesso alla virtù. E in precedenza aveva affermato tale ambivalenza: «Le leggi del commercio perfezionano i costumi, per la ragione che queste stesse leggi rovinano i costumi. Il commercio corrompe i costumi puri. Era il motivo delle lagnanze di Platone: esso dirozza e mitiga i costumi barbari, come vediamo tutti i giorni».

In altre parole, la pace che si stabilisce attraverso il commercio non può essere altro che una pace tra barbari. La violenza è soltanto spostata, tanto più che il rapporto più favorevole tra le merci esige il rapporto più concorrenziale tra i loro produttori: «È la concorrenza che dà un prezzo giusto alle merci e stabilisce i veri rapporti tra esse».

Ma la violenza più radicale non è quella della guerra economica e dei suoi danni collaterali, è quella che respinge il nostro slancio naturale verso la verità lontano dallo spazio pubblico e lo svuota di ogni profondità.

Ci sono almeno tre sostituzioni principali che derivano della pacificazione commerciale.

Primo: il paradigma del commercio si sostituisce a quello della religione per evitare la guerra civile, come se ogni dibattito sull'essenziale implicasse necessariamente la violenza. Perciò lo spazio pubblico dove la questione religiosa appare il meno possibile è in realtà costituito dalla questione religiosa stessa come da quella cosa che è necessario escludere in quanto minaccia al comfort delle società plurali.

Secondo: come dice Jean-Claude Michéa, la sola guerra che il liberalismo può tollerare è la guerra contro la natura: dato che è impossibile pensare a un progresso morale o spirituale comune, il diversivo sostituisce la conversione e non resta altro che mettersi in marcia insieme verso il progresso tecnologico: «L'ideale moderno del progresso si radica molto di più nel desiderio di sfuggire a ogni costo all'inferno della guerra civile ideologica che in un'attrattiva verso un qualsiasi paradiso terrestre».

Terzo: dato che il commercio ci rende miti solamente eccitando l'interesse individuale, l'ultima sostituzione è la più radicale. Essa opera un capovolgimento antropologico e persino ontologico: la finalità dell'esistenza non è più dare la vita ma conservarsi e "realizzarsi". Michéa ancora sottolinea: «La modernità occidentale appare come la prima civiltà della storia che abbia intrapreso di fare della conservazione di sé [e non del sacrificio eroico] la prima o addirittura l'unica preoccupazione dell'individuo, l'ideale fondatore della società che egli deve formare coi suoi simili».

Ma la preoccupazione della conservazione non può dispiegare il senso di una vita. Ecco che questa ontologia borghese provoca come reazione un'ontologia terroristica, non meno falsa, ma abbastanza comprensibile: l'immolazione viva invece di una conservazione vana. Ed è così che il mite commercio favorisce l'attentato-suicida.

3/ Quella ricerca di sensazioni che ci toglie il quotidiano, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 30/4/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

Estasi o interiorità? Colpo di fulmine o pentola sul fuoco? Quando parliamo di felicità, l'idea che ne abbiamo si associa a due tipi di immagini che corrispondono a due modi opposti di rapportarsi al tempo. Il primo tipo, è quello della vita intensa: all'improvviso eccoci sorpresi, folgorati, a bocca aperta.

Il secondo, è quello della vita serena: siamo al riparo, nella calma, in un bagno di dolcezza. Là, è lo strappo; qui, la maturazione. Là, l'istante; qui, la durata. Questa separazione delle nostre visioni felici tra il fulmine e il cielo blu, l'avvenimento e l'armonia, il sublime e il piacevole, divide anche il nostro approccio alla bellezza.

Gli uni lo provano come un'effrazione: l'apparizione di una passante dal corpo splendido che passeggia sul nostro cuore. Gli altri lo percepiscono come una salita lenta ma irresistibile: la superficie del mare in Grecia, calma e scintillante, ma la cui immensità luminosa e tremante vince a poco a poco la nostra anima. Così è anche per la verità: è visione o cammino, velo che d'un tratto si solleva o dialogo che si protrae? Per il lavoro: è rapido successo o lavoro attento, efficacia immediata o paziente ricominciare? Per la conversione: è Paolo o Pietro, brusca caduta da cavallo o seguire per anni sempre inciampando?

Certo è che la nostra epoca sta piuttosto dalla parte della folgorazione. Essa confonde facilmente il veloce e il vivace, forse a causa dell'accelerazione tecnologica, della banda larga e della connessione quasi istantanea che fa spuntare tutto un vellicamento virtuale sullo schermo che un attimo prima era grigio. Voluttà del treno ad alta velocità, ma che impedisce la contemplazione del paesaggio. Ecco perché facciamo tanta fatica ad afferrare il pensiero degli Antichi che cantavano la pace.

Ai nostri occhi abbagliati, la pace sembra un sonno; la sua armonia un'inerzia; la sua lunghezza una scipitezza. Quando sant'Agostino la definisce come la «tranquillità dell'ordine», pensiamo quasi alla morte, certamente non alla felicità.

Il problema con la ricerca dell'intenso è che rovina la sensibilità. Le sensazioni non sono mai abbastanza forti. Si comincia con il parapendio per passare al salto con l'elastico, la caduta libera col paracadute, il volo in wingsuit e alla fine la caduta libera senza paracadute. Il suicidio sarà sempre di intensità estrema e senza ritorno. Non faccio esempi di tipo carnale, ma, evidentemente, bisognerebbe in questo caso dirigersi verso lo stupro e l'omicidio.

Purtroppo, anche l'assassino seriale finisce per annoiarsi: tagliare una donna in pezzi, dai e ridai, lo eccita quanto pelare una patata. Si accorge che ha sbagliato qualcosa. Che si sarebbe potuto fermare alle patate, se fosse stato più sensibile, più capace di stupore. Ecco perché il gusto dell'intensità rovescia facilmente la sua logica per giocare meglio sui contrasti. Si mette al ritmo della lumaca per essere sconvolto dalla velocità della tartaruga. Si resta giorni chiusi nell'oscurità per aprire di colpo le ante e percepire un giorno di grigiore come una formidabile illuminazione. Si digiuna tre giorni e, subito dopo, niente è più intenso, più saporito, niente da più piacere di un pezzo di pane duro.

L'ascetismo è il solo metodo per vivere un edonismo che non diventa aceto. Mantenendo per molto tempo un'intensità di vita molto bassa, nella solitudine, anche il mezzo-sorriso di una vecchia signora può apparirci come un'esperienza di una potenza straordinaria. Si comprende perché la questione dell'intensità non è l'unica.

La fede sarebbe solamente un colpo di bacchetta magica se tutto si decidesse così, in una caduta da cavallo. L'amore sarebbe solamente illusione e disillusione se si riducesse all'orgasmo. La loro vocazione e la loro prova sono precisamente di passare dall'estasi all'interiore, dal colpo di fulmine alla pentola sul fuoco. I romantici volubili non mancheranno di considerare questo passaggio come un imborghesimento. È perché non riescono a entrare nella profonda poesia del quotidiano.

4/ Il senso “economico” del Giubileo dall'etica dei campi alle voraci città, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 7/5/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

La grande istituzione economica di Israele è il Giubileo, sabato dei sabati e perdono dei perdoni, dato che capita una volta ogni sette volte sette anni, allo Yom Kippur. Allora si fa suonare una tromba fatta con il corno di un montone, jobel in ebraico (laddove la “tragedia” è il “canto del capro” sacrificato nel culto dionisiaco, il giubileo è la “voce dell'ariete” che prende il posto di Isacco nel sacrificio di Abramo).

Leggendo il Levitico, il cattolico romantico trattiene solamente il versetto 18 del capitolo 19, quello che contiene la frase «amerai il prossimo tuo come te stesso». L'amore sempre, ma che, così isolato, staccato dalle radici e dalle ramificazioni degli altri versetti, galleggia in assenza di gravità. Giubilare si riduce a un'emozione individuale, un orgasmo permesso anche alle vergini, senza nessun rapporto con l'economia – che idea bizzarra! Eppure basta leggere il testo che conclude il libro dei Leviti per accorgersi che invano la tromba suonerebbe la gioia se non rompesse le catene della schiavitù e non impedisse, soprattutto, ai bambini di Israele di diventare dei nuovi Faraoni: «Al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba dell'acclamazione; nel giorno dell'espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest'anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo. Quando vendete qualche cosa al vostro prossimo o quando acquistate qualche cosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello». (Lv 25, 9-14).

Di cosa parla esattamente questo passaggio? Durante quarantanove anni, sono stati portati a termine numerosi scambi, a seconda dei casi del tempo e delle scelte delle persone. Uno ha fatto cattivo raccolto quando l'altro ha mietuto in abbondanza. Uno ha dilapidato la sua eredità quando l'altro l'ha risparmiata o fatta fruttare. Il ricco ha dovuto estinguere il debito del povero, e questo, non potendo onorare le scadenze del suo credito è stato assoldato come lavoratore a giornata. «Ora egli sia presso di te come un bracciante, come un inquilino. Ti servirà fino all'anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (Lv 25 40). Al cinquantesimo anno, i contatori sono rimessi a zero, ogni famiglia rientra nella sua proprietà, ritrova il suo oikos. Questa prospettiva pone un limite a tutte le transazioni operate negli anni precedenti. Il businessman sa che le sue acquisizioni eccedentarie, anche se compiute in modo legittimo e meritato, come ricompensa di un acuto senso degli affari, non potranno superare una durata determinata, circa una generazione e mezzo, che corrisponde grosso modo alla sua speranza di vita e delimita dunque il surplus al suo merito individuale: «Ciascuno in Israele ritornerà alla sua eredità ed alla sua famiglia, se ne è stato alienato personalmente. Questa legge abbraccia il tempo, perché non soltanto la mannaia cade ogni cinquant' anni, ma si calcolano le vendite a partire dall'ultimo Giubileo, e questo vuol dire che l'ombra (agli occhi dell'avaro) o piuttosto la luce del Giubileo, data vivente e vibrante, dura per i quarantanove anni a venire».

Ne La contro-epopea del deserto, saggio sull'Esodo, il Levitico ed il Deuteronomio, l'eccellente esegeta Jacques Cazeaux presenta questa reintegrazione giubilare come una vera «rivoluzione sociale e politica», dove la parola “rivoluzione”, per una volta, assume pienamente il suo doppio senso di avvenimento e di ritorno: «La soppressione dei latifondi o, più semplicemente, l'impossibilità di far perdurare le grandi proprietà, sabota alla radice le velleità di un clan o di una Tribù, e a maggior ragione di un re».

Questa soppressione è tuttavia benefica per lo stesso grande proprietario: «Che cosa si può fare con un milione di acri? - si chiede un personaggio di Furore. - Si va in giro in un'automobile blindata. Si diventa un tipo grasso e molle, con piccoli occhi cattivi e una bocca simile al buco di un culo. E si ha paura di morire […] Se uno ha bisogno di un milione di acri per sentirsi ricco, deve essere perché si sente terribilmente povero dentro…». Una proprietà troppo grande, che supera la scala della nostra cura attenta, la possediamo meno di quanto essa non ci possieda: la sua realtà lascia il posto agli innumerevoli calcoli che invadono la nostra testa.

Il Giubileo ci alleggerisce di questo peso. Delimita un campo alla nostra misura, a quello della nostra famiglia, dove possiamo agire realmente come "signori". Di questa legge, insopportabile per l'egemonia del mercato liberale, bisogna fornire una spiegazione e notare un'eccezione. La spiegazione è che ogni acquisizione si fonda su un dono originario, sia della cosa acquistata che dell'acquirente stesso, l'una e l'altro essendo creati dall'Eterno: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini». (Lv 25 23).

Paradossalmente, sta veramente a casa propria solo chi riconosce che è solamente un ospite sulla terra che Dio gli dà. In questa riconoscenza, egli accoglie la sua eredità come una provvidenza e si ricorda che senza la mano forte e il braccio teso del Signore sarebbe ancora nel paese della schiavitù, a sgobbare per le città-deposito di Pitom e Ramses. Così , sapendo che deve la sua situazione ad una grazia, uno non cerca di arrogarsi ciò che appartiene all'altra famiglia e il cui accaparramento sarebbe anche la sua propria alienazione.

Al contrario, avendo ricevuto senza merito, egli restituisce senza ritorno, si libera del surplus, lascia agli spigolatori le stoppie della sua mietitura e i bordi del suo campo: «Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino al margine del campo e non raccoglierai ciò che resta da spigolare del tuo raccolto; lo lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, il vostro Dio». (Lv 23 22).

L'eccezione riguarda le città. Le case urbane – perlomeno quelle che in origine non appartengono ai Leviti – sfuggono alla legge del Giubileo. Il primo proprietario dispone di un diritto di riscatto, ma, se non ne ha i mezzi, non recupera automaticamente il suo bene. La città è il luogo proprio del commercio, mentre la campagna è quello dell'agricoltura. Ora, ciò che si tratta di garantire non è innanzitutto l'appartamento, né il palazzo e neppure il World Trade Center, che hanno il loro valore secondario e relativo, ma l'oikos, la casa con il suo pezzo di terreno che permette di assicurare la sussistenza della famiglia. Ma chi, oggi, conserva ancora questo senso economico del Giubileo? Gli economisti non sanno che l'economia ha un rapporto con tutto questo. E i cristiani evaporano in un giubileo astratto. 

5/ Il cibo dell'uomo? In vitro non sarà né carne né pesce, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 4/6/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

Il futuro è la bistecca stampata. Non parlo di immagini, ma proprio di bistecche commestibili che compaiono sul nostro piatto prima di scomparire nella nostra bocca. Grazie a questo procedimento, la carne diventerà cool e sarà accettabile perfino per gli adepti del Vegan. Potrà essere fatta a forma di cuore, di un fiore, di uno smartphone, per la gioia di grandi e piccini – qualsiasi cosa che la collochi meglio tra gli oggetti di design e che faccia dimenticare la sua origine insanguinata.

Del resto, non sarà più versato il sangue per ottenerla. Si aboliranno i macelli industriali, non per tornare al vecchio senso del sacrificio e alla necessità di un abbattimento raro, comunitario e rituale, ma perché l'ingegneria sarà riuscita a far crescere la carne come una qualsiasi verdura Toshiba. La Pentecoste avrà infine il suo sfogo sulla costata sintetica.

La sociologa Jocelyne Porcher mette in evidenza un accordo di fondo tra i due grandi nemici: gli industriali della carne e i difensori dei diritti degli animali. I primi sono specialisti di “zootecnia”: vedono nell'animale una macchina per generare bistecche. I secondi sono paladini della “liberazione animale”: la bestia è per essi un individuo sensibile come noi, e perfino migliore di noi, perché non ha mai causato una Guerra Mondiale (e possiamo sperare che la tigre e lo squalo un giorno si arrenderanno agli argomenti dei vegetariani).

Impossibile immaginare due campi più avversi. E tuttavia gli industriali della carne e i difensori degli animali partono da un punto comune: si oppongono all'allevatore tradizionale. Possono dunque trovare un accordo finale: la fabbricazione di carne in vitro. L'associazione americana Peta, People for the Ethical Treatment of Animals, si è così avvicinata all'In Vitro Meat Consortium. Ha promesso un milione di dollari all'équipe di ricercatori che riuscirà a produrre, senza allevare neanche un galletto, carne di pollo «il cui gusto e la cui struttura non siano distinguibili da quelli di un vero pollo sia per i vegetariani che per i consumatori di carne».

Basta con le carneficine! Basta con le fattorie industriali! Basta pure con le stalle! La Sacra Famiglia potrà deporre il bambinello in un cassetto sterile. New Harvest, che vuol dire “Nuovo Raccolto” è un'associazione senza scopo di lucro che si è data il compito di promuovere “tecnologie innovative” che garantiscano la “sicurezza alimentare” in una cornice attenta “all'etica e all'ambiente naturale”. La sua homepage si adorna di tre fotografie in cui alcuni scienziati presentano con mani inguantate di plastica il “latte senza mucca” fabbricato dalla ditta Perfect Day, l'“albume senza uovo” fabbricato dalla ditta Clara Foods e il “manzo senza manzo” brevettato da Mark Post dell'università di Maastricht.

Il tutto consiste nel prelevare alcune cellule da un animale, e pronti, via! le si mette in un'incubatrice riempita di un siero ricco di sostrati energetici, amminoacidi e sali minerali, e dopo qualche giorno si forma un sottile strato di tessuto muscolare che non è meno saporito della carnazza già insipida e contraffatta dell'agrobusiness.

Il dottor Amit Gefen, del dipartimento di ingegneria biomedica dell'università di Tel-Aviv, si è specializzato nel petto di pollo artificiale. Quasi, crede di aver trovato qualcosa capace di far impallidire il miracolo della manna e delle quaglie nel deserto: «Nell'ipotesi che si riesca un giorno a creare grandi linee di produzione di carne di pollo per mezzo del tissue engineering, semplicemente coltivando cellule in vitro e lasciandole dividersi e moltiplicarsi, questo equivarrà a produrre un alimento a partire dal nulla. La biologia ci fornirà allora una sorgente alimentare quasi inesauribile».

Produrre a partire dal nulla, non è forse diventare simili a Dio creatore? Ma un creatore, ammettiamolo che ha un grande bisogno di nuggets. Al momento però occorre ancora ben più di un po' di tessuto animale. Le installazioni biotecnologiche inghiottono molto denaro. Il 5 agosto 2013 Mark Post ha presentato alla stampa il suo primo hamburger prodotto interamente in provetta: è costato in tutto circa 290.000 euro. La degustazione è stata trasmessa in diretta dalla televisione inglese, e i tre critici e-gastronomici sono stati abbastanza lenti nel masticare, ogni boccone equivaleva a 30 anni dello stipendio medio di un lavoratore del Panama.

Tuttavia, se questa industria si sviluppa rapidamente quanto l'informatica, niente impedisce di immaginare che il prezzo potrebbe raggiungere presto quello del McDonald's. Soluzione d'avvenire, affermano alcuni che vedono nella carne in vitro un mezzo per rispondere alla crescita demografica, diminuire la consumazione di energia legata agli allevamenti, lottare contro la deforestazione e aumentare la superficie delle colture alimentari per l'uomo, poiché il 70% di questa è al momento accaparrata dall'alimentazione del bestiame.

Già negli anni Cinquanta, Georges Bataille notava ne L'erotismo: «Noi mangiamo ormai soltanto carni preparate, inanimate, astratte dal brulichio organico col quale sono apparse dapprincipio. Il sacrificio legava il fatto di mangiare alla verità della vita rivelata nella morte». La tecnologia ci promette di superare la morte e, di fatto, sta già trionfando sulla vita. Pretendendo di portarci al di là della carne e del sangue, ci trascina invece molto al di qua, verso la provetta di vetro e i circuiti integrati. Perciò l'uomo che mangerà carne artificiale dovrà essere abbastanza artefatto lui stesso. Ed è questo che ci permette di credere che non succederà mai. Un tale uomo non avrà già più bisogno di carne: gli basterà attaccare la spina.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Giugno 2017 - 10:29 pm | | Default
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«Forse tu non lo sai, non te l'hanno detto mai, che le cose trasparenti sono le più resistenti». L’uomo sa bene che non è vero solo ciò che si vede. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo.

Il centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

Gli storici russi, dopo la caduta del marxismo - che si “vedeva”, eppure non era vero, bensì ingannevole -, negano oggi che Gagarin, dopo il primo volo in orbita intorno alla terra, abbia affermato di essere andato in cielo eppure di non aver visto Dio.

Nonostante questo si trova ancora chi usi come argomento dozzinale che, come nessuno ha mai visto l’asino volante poiché esso non esiste, allo stesso modo si dovrebbe senza alcun dubbio negare l’esistenza di Dio, poiché Dio non lo si vede “svolazzare” in cielo.

Ovviamente non si intende con questa nota dirimere la questione in quattro e quattr’otto – fra l’altro se essa fosse così facilmente risolvibile in senso ateistico o fideistico non ne avrebbero parlato lungamente persone del calibro di Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Galilei, Locke, Kant, Darwin, Mendel e compagnia bella, tutti propensi a credere che la domanda su Dio non sia facilmente risolvibile, così come non si parlerebbe, da un punto di vista cristiano, di “rivelazione” di un Dio fattosi visibile nell’incarnazione.

Non essendo il caso di aprire in questa breve nota l’intera questione, quello che si intende, invece, è fornire un piccolo esempio – suggerito da padre Maurizio – di come l’uomo sappia bene che non è vero solo ciò che si vede.

In una canzoncina scout sulla pace si invita, infatti, a non confidare nella costruzione di difese visibili per scongiurare le guerre, bensì a costruire nei cuori qualcosa che non si può vedere, che è “trasparente”, ma che è molto più “resistente”, molto più vero e reale delle “mura” e delle “armi” che si vedono.

Forse tu non lo sai

RIT: Forse tu non lo sai, non te l'hanno detto mai

che le cose trasparenti sono le più resistenti.

Se per caso un bel mattino tu vedrai il tuo vicino

ripararsi dietro a un muro per sentirsi più sicuro,

fare un buco nella terra per paura della guerra

non volerlo imitare, prova a metterti a cantare.

RIT: Forse tu non lo sai...

Se per caso un bel mattino tu vedrai il tuo vicino

buttar soldi dalla spesa nel bilancio della difesa

non cadere nel tranello, non buttarti nel duello

non volerlo imitare, prova a metterti a cantare

RIT: Forse tu non lo sai...

Se al posto di una piazza preferisci una corazza

non pensare che un'armatura sia la cosa più sicura

dentro non ci puoi nuotare, finirai per affogare

non lasciarti corazzare, prova a metterti a cantare.

RIT: Forse tu non lo sai...

N.B. Il testo è tratto dal sito TUTTOSCOUT.ORG. Il sito in questione dichiara che il Copyright di ogni testo appartiene ai rispettivi autori.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Giugno 2017 - 10:28 pm | | Default

L’epilogo. Ciò che resta di Mosul. Macerie e battaglie nella città del Daesh, di Camille Eid

Riprendiamo da Avvenire del 23/6/2017 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione La crisi dell'Islam odierno e la rivoluzione culturale invocata.

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2017)

In pochi chilometri quadrati è racchiusa la culla della cristianità di Ninive. I jihadisti hanno sfigurato il volto della metropoli: 100mila civili in trappola. L’obiettivo è completare la liberazione entro domenica, la fine del Ramadan

La città di Mosul sarà indubbiamente irriconoscibile dopo la liberazione. I feroci combattimenti che si sono spostati, da ottobre a oggi, da un quartiere a un altro della seconda metropoli irachena hanno lasciato tante ferite indelebili. Le truppe irachene stanno moltiplicando da giorni gli sforzi per dichiarare la città totalmente libera entro domenica, che segna la fine del Ramadan e l’inizio delle grandi festività di Eid al-Fitr. I combattimenti vanno avanti feroci e, negli scontri, secondo l’Onu, risultano intrappolati ancora 100mila civili. Se l’impresa dovesse risultare impossibile, la scadenza slitterà di qualche giorno, al 29 giugno che marca il terzo anniversario della proclamazione del Califfato, oppure al 4 luglio, data in cui Abu Bakr al-Baghdadi ha pronunciato, tre anni fa, il suo famoso discorso presso la Grande moschea al-Nouri, che i jihadisti avrebbero distrutto mercoledì nel corso dei combattimenti.

E se il premier iracheno Haider al-Abadi ha promesso ieri che l’annuncio della liberazione totale sarà dato «nel giro di pochi giorni», il vice ministro degli Esteri russo ha invece affermato che le informazioni relative alla conferma della morte di Baghdadi in un raid russo contro Raqqa a fine maggio sono in corso di verifica attraverso «vari canali» e che la morte del leader del Daesh è «altamente probabile». La deliberata distruzione di un importante monumento storico musulmano quale è la Grande moschea al-Nouri, nonché della torre pendente diventata un’icona di Mosul, non promette nulla di buono riguardo le tante storiche chiese racchiuse all’interno della Città Vecchia ancora occupata dal Daesh. L’ultima mappa diffusa dal Nineveh Media Center, che segue passo passo gli sviluppi dell’offensiva “Arriviamo, Ninive”, mostra l’avanzamento delle truppe governative su due pricipali direttrici.

Il famoso minareto pendente distrutto dal Daesh

La prima, dal quartiere di Bab Sinjar verso sud, vede i soldati inoltrarsi nella via al-Faruq verso la moschea al-Nouri; la seconda, da ovest verso est, attraverso lo sfondamento di via Ninive con l’obiettivo di raggiungere il Tigri. Le due direttrici si incrociano dove sorge (o bisogna dire sorgeva) la chiesa latina una volta celebre per il campanile dell’orologio, as-Sa’a in arabo, che dà il nome al rione. Si tratta di un dono fatto nel 1881 ai domenicani dall’imperatrice Eugenia di Francia, la moglie di Napoleone III. L’imperatore aveva stabilito con i cristiani d’Oriente un rapporto speciale. Sua, infatti, la decisione di inviare nel 1860 in Oriente un corpo di spedizione per fermare i massacri contro i cristiani del Libano e di Damasco.

L’Europa di oggi ha, invece, assistito impotente alla cacciata di migliaia di cristiani e altre comunità etniche e religiose ad opera del Daesh negli ultimi tre anni. Come ha assistito impotente alla distruzione, nell’aprile dell’anno scorso alla devastazione della chiesa latina di Mosul. Giunti nel 1750 a Mosul, i domenicani avevano fondato nel 1878 il seminario di san Giovanni apostolo che ha dato alla Chiesa, fino alla sua chiusura nel 1985, centinaia di futuri sacerdoti, vescovi e martiri caldei esiro-cattolici. Senza dimenticare le centinaia di libri che la sua tipografia (aperta nel 1857, la prima di Mosul) ha stampato in arabo, caldeo, siriaco, latino, italiano e turco. A pochi passi, nel quartiere popolare di Mayyasa, sorgevano il convento delle suore caldee, una casa per le Piccole sorelle di Maria e due tra le chiese più antiche di Mosul. La prima è dedicata a Mar Shimun al-Safa, ossia a san Simone Cefa, che risale forse al IX secolo, alla quale era annessa una rinomata scuola che ha dato al Mosul migliaia di eruditi.

L’altra è la cattedrale di santa Meskinta, una martire di epoca persiana diventata la santa patrona della città. Fondata nel XII secolo, la chiesa è stata per tanti anni sede patriarcale caldea (poi trasferita a Baghdad) poi la sede vescovile di Mosul. Più a ovest, nel quartiere Julagh, sorgono le chiese di Mar Toma (San Tommaso, dei siro- ortodossi) e di Mar Girgis (San Giorgio) costruite sui resti di antichissimi luoghi di culto cristiani. Altre rinomate chiese si trovano nella parte della Città vecchia che dà sul Tigri, per ora risparmiate dall’offensiva. Ma non ci sono molte speranze di vederle intatte.Tra esse, la storica chiesa di sant’Isaia, nel rione di Ras al-Kur, e quella dell’Immacolata ( Tahira, in arabo) dei siro-cattolici, una volta meta per fedeli cristiani e musulmani. Nella stessa zona, sulla vicina via Nabi Girgis (il profeta Giorgio) sorgeva l’omonima moschea eretta nel 1300 e dedicata a questa figura venerata anche dai fedeli musulmani.Nel gennaio del 2016 immagini satellitari hanno mostrato al suo posto una spianata di cemento utilizzata come parcheggioper le auto.

Redazione de Gliscritti | Domenica 25 Giugno 2017 - 10:10 pm | | Default

1/ «Don Milani capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole». Papa Francesco alla tomba di don Milani 2/ «I parroci sono la forza della Chiesa in Italia. Il pastore deve essere capace di mettersi davanti al popolo per indicare la strada, in mezzo come segno di vicinanza o dietro per incoraggiare chi è rimasto dietro. E don Primo scriveva: "Dove vedo che il popolo slitta verso discese pericolose, mi metto dietro; dove occorre salire, m’attacco davanti. Molti non capiscono che è la stessa carità che mi muove nell’uno e nell’altro caso e che nessuno la può far meglio di un prete"». Papa Francesco su don Mazzolari

1/ «Don Milani capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole». Papa Francesco alla tomba di don Milani a Barbiana

Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco nella visita a Barbiana, nel Giardino adiacente la Chiesa di Sant'Andrea a Barbiana (Firenze),il  20 giugno 2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione, scuola e cultura.

Il Centro culturale Gli scritti (21/6/2017)

Nella foto, olre alla chiesa di Barbiana, si vede dietro 
il papa anche la piscina che don Milani aveva voluto
per i suoi ragazzi perché ne scoprissero la bellezza   

Cari fratelli e sorelle, sono venuto a Barbiana per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve, perché sia difesa e promossa la loro dignità di persone, con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato, fino alla croce.

1. Mi rallegro di incontrare qui coloro che furono a suo tempo allievi di don Lorenzo Milani, alcuni nella scuola popolare di San Donato a Calenzano, altri qui nella scuola di Barbiana. Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato. E siete testimoni della sua passione educativa, del suo intento di risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino.

Di qui il suo dedicarsi completamente alla scuola, con una scelta che qui a Barbiana egli attuerà in maniera ancora più radicale. La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. E quando la decisione del Vescovo lo condusse da Calenzano a qui, tra i ragazzi di Barbiana, capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella piena umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità.

2. Sono qui anche alcuni ragazzi e giovani, che rappresentano per noi i tanti ragazzi e giovani che oggi hanno bisogno di chi li accompagni nel cammino della loro crescita. So che voi, come tanti altri nel mondo, vivete in situazioni di marginalità, e che qualcuno vi sta accanto per non lasciarvi soli e indicarvi una strada di possibile riscatto, un futuro che si apra su orizzonti più positivi. Vorrei da qui ringraziare tutti gli educatori, quanti si pongono al servizio della crescita delle nuove generazioni, in particolare di coloro che si trovano in situazioni di disagio. La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. Una missione di amore, perché non si può insegnare senza amare e senza la consapevolezza che ciò che si dona è solo un diritto che si riconosce, quello di imparare. E da insegnare ci sono tante cose, ma quella essenziale è la crescita di una coscienza libera, capace di confrontarsi con la realtà e di orientarsi in essa guidata dall’amore, dalla voglia di compromettersi con gli altri, di farsi carico delle loro fatiche e ferite, di rifuggire da ogni egoismo per servire il bene comune. Troviamo scritto in Lettera a una professoressa: «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi.

3. Infine, ma non da ultimo, mi rivolgo a voi sacerdoti che ho voluto accanto a me qui a Barbiana. Vedo tra voi preti anziani, che avete condiviso con don Lorenzo Milani gli anni del seminario o il ministero in luoghi qui vicini; e anche preti giovani, che rappresentano il futuro del clero fiorentino e italiano. Alcuni di voi siete dunque testimoni dell’avventura umana e sacerdotale di don Lorenzo, altri ne siete eredi. A tutti voglio ricordare che la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: «Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire» (Nazzareno Fabbretti, “Intervista a Mons. Raffaele Bensi”, Domenica del Corriere, 27 giugno 1971). Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: «Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale». Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli. Cari preti, con la grazia di Dio, cerchiamo di essere uomini di fede, una fede schietta, non annacquata; e uomini di carità, carità pastorale verso tutti coloro che il Signore ci affida come fratelli e figli. Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni. Amiamo la Chiesa, cari confratelli, e facciamola amare, mostrandola come madre premurosa di tutti, soprattutto dei più poveri e fragili, sia nella vita sociale sia in quella personale e religiosa. La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità.

4. Prima di concludere, non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato…». Dal Card. Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: «Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità» (Nazareno Fabbretti, “Incontro con la madre del parroco di Barbiana a tre anni dalla sua morte”, Il Resto del Carlino, Bologna, 8 luglio 1970. Il prete «trasparente e duro come un diamante» continua a trasmettere la luce di Dio sul cammino della Chiesa. Prendete la fiaccola e portatela avanti! Grazie.

[Ave Maria]

[Benedizione]

Grazie tante di nuovo! Pregate per me, non dimenticatevi. Che anche io prenda l’esempio di questo bravo prete! Grazie della vostra presenza. Che il Signore vi benedica. E voi sacerdoti, tutti - perché non c’è pensione nel sacerdozio! -, tutti, avanti e con coraggio! Grazie.

Barbiana, immagine in mosaico del Santo Scolaro 
che don Milani realizzò per la chiesa parrocchiale
dove era la scuola dei suoi ragazzi 

2/ «Ho detto più volte che i parroci sono la forza della Chiesa in Italia, e lo ripeto. Tante volte ho detto che il pastore deve essere capace di mettersi davanti al popolo per indicare la strada, in mezzo come segno di vicinanza o dietro per incoraggiare chi è rimasto dietro. E don Primo scriveva: «Dove vedo che il popolo slitta verso discese pericolose, mi metto dietro; dove occorre salire, m’attacco davanti. Molti non capiscono che è la stessa carità che mi muove nell’uno e nell’altro caso e che nessuno la può far meglio di un prete»». Papa Francesco su don Mazzolari

Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco nella visita a Bozzolo, Chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo - Bozzolo (Cremona), il  20 giugno 2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (21/6/2017)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Mi hanno consigliato di accorciare un po’ questo discorso, perché è un po’ lunghetto. Ho cercato di farlo, ma non ci sono riuscito. Tante cose venivano, di qua e di qua e di qua… Ma voi avete pazienza! Perché non vorrei tralasciare di dire tutto quello che vorrei dire, su don Primo Mazzolari.

Sono pellegrino qui a Bozzolo e poi a Barbiana, sulle orme di due parroci che hanno lasciato una traccia luminosa, per quanto “scomoda”, nel loro servizio al Signore e al popolo di Dio. Ho detto più volte che i parroci sono la forza della Chiesa in Italia, e lo ripeto. Quando sono i volti di un clero non clericale, come era quest’uomo, essi danno vita ad un vero e proprio “magistero dei parroci”, che fa tanto bene a tutti. Don Primo Mazzolari è stato definito “il parroco d’Italia”; e San Giovanni XXIII lo ha salutato come «la tromba dello Spirito Santo nella Bassa padana». Credo che la personalità sacerdotale di don Primo sia non una singolare eccezione, ma uno splendido frutto delle vostre comunità, sebbene non sia stato sempre compreso e apprezzato. Come disse il Beato Paolo VI: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tener dietro! E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti» (Saluto ai pellegrini di Bozzolo e Cicognara, 1 maggio 1970). La sua formazione è figlia della ricca tradizione cristiana di questa terra padana, lombarda, cremonese. Negli anni della giovinezza fu colpito dalla figura del grande vescovo Geremia Bonomelli, protagonista del cattolicesimo sociale, pioniere della pastorale degli emigranti.

Non spetta a me raccontarvi o analizzare l’opera di don Primo. Ringrazio chi negli anni si è dedicato a questo. Preferisco meditare con voi – soprattutto con i miei fratelli sacerdoti che sono qui e anche con quelli di tutta l’Italia: questo era il “parroco d’Italia” – meditare l’attualità del suo messaggio, che pongo simbolicamente sullo sfondo di tre scenari che ogni giorno riempivano i suoi occhi e il suo cuore: il fiume, la cascina e la pianura.

1) Il fiume è una splendida immagine, che appartiene alla mia esperienza, e anche alla vostra. Don Primo ha svolto il suo ministero lungo i fiumi, simboli del primato e della potenza della grazia di Dio che scorre incessantemente verso il mondo. La sua parola, predicata o scritta, attingeva chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli uomini, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito. Don Mazzolari, parroco a Cicognara e a Bozzolo, non si è tenuto al riparo dal fiume della vita, dalla sofferenza della sua gente, che lo ha plasmato come pastore schietto ed esigente, anzitutto con sé stesso. Lungo il fiume imparava a ricevere ogni giorno il dono della verità e dell’amore, per farsene portatore forte e generoso. Predicando ai seminaristi di Cremona, ricordava: «L’essere un “ripetitore” è la nostra forza. […] Però, tra un ripetitore morto, un altoparlante, e un ripetitore vivo c’è una bella differenza! Il sacerdote è un ripetitore, però questo suo ripetere non deve essere senz’anima, passivo, senza cordialità. Accanto alla verità che ripeto, ci deve essere, ci devo mettere qualcosa di mio, per far vedere che credo a ciò che dico; deve essere fatto in modo che il fratello senta un invito a ricevere la verità»[1]. La sua profezia si realizzava nell’amare il proprio tempo, nel legarsi alla vita delle persone che incontrava, nel cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio. Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata. Nel suo scritto “La parrocchia”, egli propone un esame di coscienza sui metodi dell’apostolato, convinto che le mancanze della parrocchia del suo tempo fossero dovute a un difetto di incarnazione. Ci sono tre strade che non conducono nella direzione evangelica.

- La strada del “lasciar fare”. È quella di chi sta alla finestra a guardare senza sporcarsi le mani - quel “balconear” la vita -. Ci si accontenta di criticare, di «descrivere con compiacimento amaro e altezzoso gli errori»[2] del mondo intorno. Questo atteggiamento mette la coscienza a posto, ma non ha nulla di cristiano perché porta a tirarsi fuori, con spirito di giudizio, talvolta aspro. Manca una capacità propositiva, un approccio costruttivo alla soluzione dei problemi.

- Il secondo metodo sbagliato è quello dell’“attivismo separatista”. Ci si impegna a creare istituzioni cattoliche (banche, cooperative, circoli, sindacati, scuole...). Così la fede si fa più operosa, ma – avvertiva Mazzolari – può generare una comunità cristiana elitaria. Si favoriscono interessi e clientele con un’etichetta cattolica. E, senza volerlo, si costruiscono barriere che rischiano di diventare insormontabili all’emergere della domanda di fede. Si tende ad affermare ciò che divide rispetto a quello che unisce. È un metodo che non facilita l’evangelizzazione, chiude porte e genera diffidenza.

- Il terzo errore è il “soprannaturalismo disumanizzante”. Ci si rifugia nel religioso per aggirare le difficoltà e le delusioni che si incontrano. Ci si estranea dal mondo, vero campo dell’apostolato, per preferire devozioni. È la tentazione dello spiritualismo. Ne deriva un apostolato fiacco, senza amore. «I lontani non si possono interessare con una preghiera che non diviene carità, con una processione che non aiuta a portare le croci dell’ora»[3]. Il dramma si consuma in questa distanza tra la fede e la vita, tra la contemplazione e l’azione.

2) La cascina. Al tempo di don Primo, era una “famiglia di famiglie”, che vivevano insieme in queste fertili campagne, anche soffrendo miserie e ingiustizie, in attesa di un cambiamento, che è poi sfociato nell’esodo verso le città. La cascina, la casa, ci dicono l’idea di Chiesa che guidava don Mazzolari. Anche lui pensava a una Chiesa in uscita, quando meditava per i sacerdoti con queste parole: «Per camminare bisogna uscire di casa e di Chiesa, se il popolo di Dio non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che, pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono anche salvare. Il cristiano si è staccato dall’uomo, e il nostro parlare non può essere capito se prima non lo introduciamo per questa via, che pare la più lontana ed è la più sicura. [...] Per fare molto, bisogna amare molto»[4]. Così diceva il vostro parroco. La parrocchia è il luogo dove ogni uomo si sente atteso, un «focolare che non conosce assenze». Don Mazzolari è stato un parroco convinto che «i destini del mondo si maturano in periferia», e ha fatto della propria umanità uno strumento della misericordia di Dio, alla maniera del padre della parabola evangelica, così ben descritta nel libro “La più bella avventura”. Egli è stato giustamente definito il “parroco dei lontani”, perché li ha sempre amati e cercati, si è preoccupato non di definire a tavolino un metodo di apostolato valido per tutti e per sempre, ma di proporre il discernimento come via per interpretare l’animo di ogni uomo. Questo sguardo misericordioso ed evangelico sull’umanità lo ha portato a dare valore anche alla necessaria gradualità: il prete non è uno che esige la perfezione, ma che aiuta ciascuno a dare il meglio. «Accontentiamoci di ciò che possono dare le nostre popolazioni. Abbiamo del buon senso! Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente»[5]. Io vorrei ripetere questo, e ripeterlo a tutti i preti dell’Italia e anche del mondo: Abbiamo del buon senso! Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente. E se, per queste aperture, veniva richiamato all’obbedienza, la viveva in piedi, da adulto, da uomo, e contemporaneamente in ginocchio, baciando la mano del suo Vescovo, che non smetteva di amare.

3) Il terzo scenario – il primo era il fiume, il secondo la cascina – il terzo scenario è quello della vostra grande pianura. Chi ha accolto il “Discorso della montagna” non teme di inoltrarsi, come viandante e testimone, nella pianura che si apre, senza rassicuranti confini. Gesù prepara a questo i suoi discepoli, conducendoli tra la folla, in mezzo ai poveri, rivelando che la vetta si raggiunge nella pianura, dove si incarna la misericordia di Dio (cfr Omelia per il Concistoro, 19 novembre 2016). Alla carità pastorale di don Primo si aprivano diversi orizzonti, nelle complesse situazioni che ha dovuto affrontare: le guerre, i totalitarismi, gli scontri fratricidi, la fatica della democrazia in gestazione, la miseria della sua gente. Vi incoraggio, fratelli sacerdoti, ad ascoltare il mondo, chi vive e opera in esso, per farvi carico di ogni domanda di senso e di speranza, senza temere di attraversare deserti e zone d’ombra. Così possiamo diventare Chiesa povera per e con i poveri, la Chiesa di Gesù. Quella dei poveri è definita da don Primo un’“esistenza scomodante”, e la Chiesa ha bisogno di convertirsi al riconoscimento della loro vita per amarli così come sono: «I poveri vanno amati come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del regno dei cieli, molto meno dei proseliti»[6]Lui non faceva proselitismo, perché questo non è cristiano. Papa Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa, il cristianesimo, non cresce per proselitismo, ma per attrazione, cioè per testimonianza. È quello che don Primo Mazzolari ha fatto: testimonianza. Il Servo di Dio ha vissuto da prete povero, non da povero prete. Nel suo testamento spirituale scriveva: «Intorno al mio Altare come intorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai “suon di denaro”. Il poco che è passato nelle mie mani […] è andato dove doveva andare. Se potessi avere un rammarico su questo punto, riguarderebbe i miei poveri e le opere della parrocchia che avrei potuto aiutare largamente». Aveva meditato a fondo sulla diversità di stile tra Dio e l’uomo: «Lo stile dell’uomo: con molto fa poco. Lo stile di Dio: con niente fa tutto»[7]. Per questo la credibilità dell’annuncio passa attraverso la semplicità e la povertà della Chiesa: «Se vogliamo riportare la povera gente nella loro Casa, bisogna che il povero vi trovi l’aria del Povero», cioè di Gesù Cristo. Nel suo scritto La via crucis del povero, don Primo ricorda che la carità è questione di spiritualità e di sguardo. «Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno»[8]. E aggiunge: «Chi conosce il povero, conosce il fratello: chi vede il fratello vede Cristo, chi vede Cristo vede la vita e la sua vera poesia, perché la carità è la poesia del cielo portata sulla terra»[9].

Cari amici, vi ringrazio di avermi accolto oggi, nella parrocchia di don Primo. A voi e ai Vescovi dico: siate orgogliosi di aver generato “preti così”, e non stancatevi di diventare anche voi “preti e cristiani così”, anche se ciò chiede di lottare con sé stessi, chiamando per nome le tentazioni che ci insidiano, lasciandoci guarire dalla tenerezza di Dio. Se doveste riconoscere di non aver raccolto la lezione di don Mazzolari, vi invito oggi a farne tesoro. Il Signore, che ha sempre suscitato nella santa madre Chiesa pastori e profeti secondo il suo cuore, ci aiuti oggi a non ignorarli ancora. Perché essi hanno visto lontano, e seguirli ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni. Tante volte ho detto che il pastore deve essere capace di mettersi davanti al popolo per indicare la strada, in mezzo come segno di vicinanza o dietro per incoraggiare chi è rimasto dietro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 31). E don Primo scriveva: «Dove vedo che il popolo slitta verso discese pericolose, mi metto dietro; dove occorre salire, m’attacco davanti. Molti non capiscono che è la stessa carità che mi muove nell’uno e nell’altro caso e che nessuno la può far meglio di un prete»[10].

Con questo spirito di comunione fraterna, con voi e con tutti i preti della Chiesa in Italia - con quei bravi parroci - vorrei concludere con una preghiera di don Primo, parroco innamorato di Gesù e del suo desiderio che tutti gli uomini abbiano la salvezza. Così pregava don Primo:

«Sei venuto per tutti: per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere. Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli, lavorano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio. O Cristo, sei nato “fuori della casa” e sei morto “fuori della città”, per essere in modo ancor più visibile il crocevia e il punto d’incontro. Nessuno è fuori della salvezza, o Signore, perché nessuno è fuori del tuo amore, che non si sgomenta né si raccorcia per le nostre opposizioni o i nostri rifiuti».

Adesso, vi darò la benedizione. Preghiamo la Madonna, prima, che è nostra Madre: senza Madre non possiamo andare avanti.

Ave o Maria, …

[Benedizione]

Note al testo

[1] P. Mazzolari, Preti così, 125-126.

[2] Id., Lettera sulla parrocchia, 51.

[3]  Ibid., 54.

[4] P. Mazzolari, Coscienza sociale del clero, ICAS, Milano, 1947, 32.

[5] Id., Preti così, 118-119.

[6] Id., La via crucis del povero, 63.

[7] Id., La parrocchia, 84.

[8] Id., La via crucis del povero, 32.

[9] Ibid. 33.

[10] Id., Scritti politici, 195.

Redazione de Gliscritti | Mercoledì 21 Giugno 2017 - 10:04 am | | Default

«Sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti. Noi vediamo in tante parrocchie, che hanno questa capacità di “prendere” gli adolescenti…: “Questi tre giorni di vacanza, andiamo in montagna, facciamo qualcosa…; o andiamo a imbiancare quella scuola di un quartiere povero che ha bisogno…”. Farli protagonisti». Papa Francesco per il Convegno sui genitori degli adolescenti

Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco per l’apertura del Convegno della diocesi di Roma 2017, “Non lasciamoli soli. Accompagnare i genitori nell’educazione dei figli adolescenti”,il  19 giugno 2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (21/6/2017)

Come diceva quel prete: “Prima di parlare, dirò due parole”.

Voglio ringraziare il cardinale Vallini per le sue parole e vorrei dire una cosa che lui non poteva dire, perché è sotto segreto, ma il Papa può dirlo. Quando, dopo l’elezione, mi hanno detto che dovevo andare prima alla Cappella Paolina e poi sul balcone a salutare la gente, subito mi è venuto in mente il nome del cardinale Vicario: “Io sono vescovo, c’è un vicario generale…”. Subito. L’ho sentito anche con simpatia. E l’ho chiamato. E dall’altra parte il cardinale Hummes, che era accanto a me durante gli scrutini e mi diceva cose che mi hanno aiutato. Questi due mi hanno accompagnato, e da quel momento ho detto: “Sul balcone con il mio vicario”. Lì, al balcone. Da quel momento mi ha accompagnato, e lo voglio ringraziare. Lui ha tante virtù e anche un senso dell’oggettività che mi ha aiutato tante volte, perché a volte io “volo” e lui mi faceva “atterrare” con tanta carità… La ringrazio, Eminenza, per la compagnia. Ma il cardinale Vallini non va in pensione, perché appartiene a sei Congregazioni e continuerà a lavorare, ed è meglio così, perché un napoletano senza lavoro sarebbe una calamità, in diocesi… [ride, ridono, applausi] Voglio ringraziare in pubblico per il suo aiuto. Grazie!

E a voi, buonasera!

Ringrazio per l’opportunità di poter dare inizio a questo Convegno diocesano, nel quale tratterete un tema importante per la vita delle nostre famiglie: accompagnare i genitori nell’educazione dei figli adolescenti.

In queste giornate rifletterete su alcuni argomenti-chiave che corrispondono in qualche modo ai luoghi in cui si gioca il nostro essere famiglia: la casa, la scuola, le reti sociali, la relazione intergenerazionale, la precarietà della vita e l’isolamento familiare. Ci sono i laboratori su questi temi.

Mi piacerebbe condividere con voi alcuni “presupposti” che ci possono aiutare in questa riflessione. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma lo spirito con cui riflettiamo è altrettanto importante dei contenuti (un bravo sportivo sa che il riscaldamento conta tanto quanto la prestazione successiva). Perciò, questa conversazione vuole aiutarci in tal senso: un “riscaldamento”, e poi starà a voi “giocare tutto sul campo”. L’esposizione la farò in piccoli capitoli.

1. In romanesco!

La prima delle chiavi per entrare in questo tema ho voluto chiamarla “in romanesco”: il dialetto proprio dei romani. Non di rado cadiamo nella tentazione di pensare o riflettere sulle cose “in genere”, “in astratto”. Pensare ai problemi, alle situazioni, agli adolescenti… E così, senza accorgercene, cadiamo in pieno nel nominalismo. Vorremmo abbracciare tutto ma non arriviamo a nulla. Oggi su questo tema vi invito a pensare “in dialetto”. E per questo bisogna fare uno sforzo notevole, perché ci è chiesto di pensare alle nostre famiglie nel contesto di una grande città come Roma. Con tutta la sua ricchezza, le opportunità, la varietà, e nello stesso tempo con tutte le sue sfide. Non per rinchiudersi e ignorare il resto (siamo sempre italiani), ma per affrontare la riflessione, e persino i momenti di preghiera, con un sano e stimolante realismo. Niente astrazione, niente generalizzazione, niente nominalismo.

La vita delle famiglie e l’educazione degli adolescenti in una grande metropoli come questa esige alla base un’attenzione particolare e non possiamo prenderla alla leggera. Perché non è la stessa cosa educare o essere famiglia in un piccolo paese e in una metropoli. Non dico che sia meglio o peggio, è semplicemente diverso. La complessità della capitale non ammette sintesi riduttive, piuttosto ci stimola a un modo di pensare poliedrico, per cui ogni quartiere e zona trova eco nella diocesi e così la diocesi può farsi visibile, palpabile in ogni comunità ecclesiale, con il suo proprio modo di essere. L’uniformità è un grande nemico.

Voi vivete le tensioni di questa grande città. In molte delle visite pastorali che ho compiuto mi hanno presentato alcune delle vostre esperienze quotidiane, concrete: le distanze tra casa e lavoro (in alcuni casi fino a 2 ore per arrivare); la mancanza di legami familiari vicini, a causa del fatto di essersi dovuti spostare per trovare lavoro o per poter pagare un affitto; il vivere sempre “al centesimo” per arrivare alla fine del mese, perché il ritmo di vita è di per sé più costoso (nel paese ci si arrangia meglio); il tempo tante volte insufficiente per conoscere i vicini là dove viviamo; il dover lasciare in moltissimi casi i figli soli… E così potremmo andare avanti elencando una grande quantità di situazioni che toccano la vita delle nostre famiglie. Perciò la riflessione, la preghiera, fatela “in romanesco”, in concreto, con tutte queste cose concrete, con volti di famiglie ben concreti e pensando come aiutarvi tra voi a formare i vostri figli all’interno di questa realtà. Lo Spirito Santo è il grande iniziatore e generatore di processi nelle nostre società e situazioni. E’ la grande guida delle dinamiche trasformatrici e salvatrici. Con Lui non abbiate paura di “camminare” per i vostri quartieri, e pensare a come dare impulso a un accompagnamento per i genitori e gli adolescenti. Cioè, in concreto.

2. Connessi

Insieme al precedente, mi soffermo su un altro aspetto importante. La situazione attuale a poco a poco sta facendo crescere nella vita di tutti noi, e specialmente nelle nostre famiglie, l’esperienza di sentirci “sradicati”. Si parla di “società liquida” – ed è così – ma oggi mi piacerebbe, in questo contesto, presentarvi il fenomeno crescente della società sradicata. Vale a dire persone, famiglie che a poco a poco vanno perdendo i loro legami, quel tessuto vitale così importante per sentirci parte gli uni degli altri, partecipi con gli altri di un progetto comune. E’ l’esperienza di sapere che “apparteniamo” ad altri (nel senso più nobile del termine). E’ importante tenere conto di questo clima di sradicamento, perché a poco a poco passa nei nostri sguardi e specialmente nella vita dei nostri figli. Una cultura sradicata, una famiglia sradicata è una famiglia senza storia, senza memoria, senza radici, appunto. E quando non ci sono radici, qualsiasi vento finisce per trascinarti. Per questo una delle prime cose a cui dobbiamo pensare come genitori, come famiglie, come pastori sono gli scenari dove radicarci, dove generare legami, trovare radici, dove far crescere quella rete vitale che ci permetta di sentirci “casa”. Oggi le reti sociali sembrerebbero offrirci questo spazio di “rete”, di connessione con altri, e anche i nostri figli li fanno sentire parte di un gruppo. Ma il problema che comportano, per la loro stessa virtualità, è che ci lasciano come “per aria” – ho detto “società liquida”; possiamo dire “società gassosa” – e perciò molto “volatili”: “società volatile”. Non c’è peggior alienazione per una persona di sentire che non ha radici, che non appartiene a nessuno. Questo principio è molto importante per accompagnare gli adolescenti.

Tante volte esigiamo dai nostri figli un’eccessiva formazione in alcuni campi che consideriamo importanti per il loro futuro. Li facciamo studiare una quantità di cose perché diano il “massimo”. Ma non diamo altrettanta importanza al fatto che conoscano la loro terra, le loro radici. Li priviamo della conoscenza dei geni e dei santi che ci hanno generato. So che avete un laboratorio dedicato al dialogo intergenerazionale, allo spazio dei nonni. So che può risultare ripetitivo ma lo sento come qualcosa che lo Spirito Santo preme nel mio cuore: affinché i nostri giovani abbiano visioni, siano “sognatori”, possano affrontare con audacia e coraggio i tempi futuri, è necessario che ascoltino i sogni profetici dei loro padri (cfr Gl 3,2). Se vogliamo che i nostri figli siano formati e preparati per il domani, non è solo imparando lingue (per fare un esempio) che ci riusciranno. E’ necessario che si connettano, che conoscano le loro radici. Solo così potranno volare alto, altrimenti saranno presi dalle “visioni” di altri. E torno su questo; sono ossessionato, forse, ma… I genitori devono fare spazio ai figli per parlare con i nonni. Tante volte il nonno o la nonna è nella casa di riposo e non vanno a trovarli… Devono parlare. Anche scavalcare i genitori, ma prendere le radici dei nonni. I nonni hanno questa qualità della trasmissione della storia, della fede, dell’appartenenza. E lo fanno con saggezza di chi è sulla soglia, pronto ad andarsene. Torno, l’ho detto, qualche volta, sul passo di Gioele 3,2: “I vostri anziani sogneranno e i vostri figli profetizzeranno”. E voi siete il ponte. Oggi i nonni non li lasciamo sognare, li scartiamo. Questa cultura scarta i nonni perché i nonni non producono: questo è “cultura dello scarto”. Ma i nonni possono sognare solo quando si incontrano con la vita nuova, allora sognano, parlano… Ma pensate a Simeone, pensate a quella santa chiacchierona di Anna che andava da una parte all’altra dicendo: “E’ quello! E’ quello!”. E questo è bello, questo è bello. Sono i nonni che sognano e danno ai bambini una appartenenza della quale hanno bisogno. Mi piacerebbe che in questo laboratorio intergenerazionale facciate un esame di coscienza su questo. Trovare la storia concreta nei nonni. E non lasciarli da parte. Non so se questo l’ho detto una volta, ma a me viene alla memoria una storia che da bambino mi aveva insegnato una delle mie due nonne. C’era una volta in una famiglia il nonno vedovo: abitava in una famiglia, ma era invecchiato e quando mangiavano un po’ gli cadeva la zuppa o la bava e si sporcava un po’. E il papà ha deciso di farlo mangiare da solo in cucina, “così possiamo invitare amici…”. Così è stato. Alcuni giorni dopo, torna dal lavoro e trova il bambino che giocava con un martello, i chiodi, i legni… “Ma cosa stai facendo?” – “Un tavolo” – “Un tavolo, perché?” – “Un tavolo per mangiare” – “Ma perché?” – “Perché quando tu invecchi, possa mangiare da solo, lì”. Questo bambino aveva capito con intuizione dove c’erano le radici.

3. In movimento

Educare gli adolescenti in movimento. L’adolescenza è una fase di passaggio nella vita non solo dei vostri figli, ma di tutta la famiglia – è tutta la famiglia che è in fase di passaggio –,voi lo sapete bene e lo vivete; e come tale, nella sua globalità, dobbiamo affrontarla. E’ una fase-ponte, e per questo motivo gli adolescenti non sono né di qua né di là, sono in cammino, in transito. Non sono bambini (e non vogliono essere trattati come tali) e non sono adulti (ma vogliono essere trattati come tali, specialmente a livello di privilegi). Vivono proprio questa tensione, prima di tutto in sé stessi e poi con chi li circonda[1]. Cercano sempre il confronto, domandano, discutono tutto, cercano risposte; e a volte non ascoltano le risposte e fanno un’altra domanda prima che i genitori dicano la rispostaPassano attraverso vari stati d’animo, e le famiglie con loro. Però, permettetemi di dirvi che è un tempo prezioso nella vita dei vostri figli. Un tempo difficile, sì. Un tempo di cambiamenti e di instabilità, sì. Una fase che presenta grandi rischi, senza dubbio. Ma, soprattutto, è un tempo di crescita per loro e per tutta la famiglia. L’adolescenza non è una patologia e non possiamo affrontarla come se lo fosse. Un figlio che vive la sua adolescenza (per quanto possa essere difficile per i genitori) è un figlio con futuro e speranza. Mi preoccupa tante volte la tendenza attuale a “medicalizzare” precocemente i nostri ragazzi. Sembra che tutto si risolva medicalizzando, o controllando tutto con lo slogan “sfruttare al massimo il tempo”, e così risulta che l’agenda dei ragazzi è peggio di quella di un alto dirigente.

Pertanto insisto: l’adolescenza non è una patologia che dobbiamo combattere. Fa parte della crescita normale, naturale della vita dei nostri ragazzi. Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia e desolazione. Inquadriamo bene i nostri discernimenti all’interno di processi vitali prevedibili. Esistono margini che è necessario conoscere per non allarmarsi, per non essere nemmeno negligenti, ma per saper accompagnare e aiutare a crescere. Non è tutto indifferente, ma nemmeno tutto ha la stessa importanza. Perciò bisogna discernere quali battaglie sono da fare e quali no. In questo serve molto ascoltare coppie con esperienza, che se pure non ci daranno mai una ricetta, ci aiuteranno con la loro testimonianza a conoscere questo o quel margine o gamma di comportamenti.

I nostri ragazzi e le nostre ragazze cercano di essere e vogliono sentirsi – logicamente – protagonisti. Non amano per niente sentirsi comandati o rispondere a “ordini” che vengano dal mondo adulto (seguono le regole di gioco dei loro “complici”). Cercano quell’autonomia complice che li fa sentire di “comandarsi da soli”. E qui dobbiamo stare attenti agli zii, soprattutto a quegli zii che non hanno figli o che non sono sposati… Le prime parolacce, io le ho imparate da uno zio “zitello” [ridono]. Gli zii, per guadagnare la simpatia dei nipoti, tante volte non fanno bene. C’era lo zio che ci dava di nascosto le sigarette, a noi… Cose di quei tempi. E adesso… Non dico che siano cattivi, ma bisogna stare attenti. In questa ricerca di autonomia che vogliono avere i ragazzi e le ragazze troviamo una buona opportunità, specialmente per le scuole, le parrocchie e i movimenti ecclesiali. Stimolare attività che li mettano alla prova, che li facciano sentire protagonisti. Hanno bisogno di questo, aiutiamoli! Loro cercano in molti modi la “vertigine” che li faccia sentire vivi. Dunque, diamogliela! Stimoliamo tutto quello che li aiuta a trasformare i loro sogni in progetti, e che possano scoprire che tutto il potenziale che hanno è un ponte, un passaggio verso una vocazione (nel senso più ampio e bello della parola). Proponiamo loro mete ampie, grandi sfide e aiutiamoli a realizzarle, a raggiungere le loro mete. Non lasciamoli soli. Perciò, sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti. Noi vediamo in tante parrocchie, che hanno questa capacità di “prendere” gli adolescenti…: “Questi tre giorni di vacanza, andiamo in montagna, facciamo qualcosa…; o andiamo a imbiancare quella scuola di un quartiere povero che ha bisogno…”. Farli protagonisti di qualcosa.

Questo richiede di trovare educatori capaci di impegnarsi nella crescita dei ragazzi. Richiede educatori spinti dall’amore e dalla passione di far crescere in loro la vita dello Spirito di Gesù, di far vedere che essere cristiani esige coraggio ed è una cosa bella. Per educare gli adolescenti di oggi non possiamo continuare a utilizzare un modello di istruzione meramente scolastico, solo di idee. No. Bisogna seguire il ritmo della loro crescita. E’ importante aiutarli ad acquisire autostima, a credere che realmente possono riuscire in ciò che si propongono. In movimento, sempre.

4. Una educazione integrata

Questo processo esige di sviluppare in maniera simultanea e integrata i diversi linguaggi che ci costituiscono come persone. Vale a dire insegnare ai nostri ragazzi a integrare tutto ciò che sono e che fanno. Potremmo chiamarla una alfabetizzazione socio-integrata, cioè un’educazione basata sull’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’agire (le mani). Questo offrirà ai nostri ragazzi la possibilità di una crescita armonica a livello non solo personale, ma al tempo stesso sociale. Urge creare luoghi dove la frammentazione sociale non sia lo schema dominante. A tale scopo occorre insegnare a pensare ciò che si sente e si fa, a sentire ciò che si pensa e si fa, a fare ciò che si pensa e si sente. Cioè, integrare i tre linguaggi. Un dinamismo di capacità posto al servizio della persona e della società. Questo aiuterà a far sì che i nostri ragazzi si sentano attivi e protagonisti nei loro processi di crescita e li porterà anche a sentirsi chiamati a partecipare alla costruzione della comunità.

Vogliono essere protagonisti: diamo loro spazio perché siano protagonisti, orientandoli – ovviamente – e dando loro gli strumenti per sviluppare tutta questa crescita. Per questo ritengo che l’integrazione armonica dei diversi saperi – della mente, del cuore e delle mani – li aiuterà a costruire la loro personalità. Spesso pensiamo che l’educazione sia impartire conoscenze e lungo il cammino lasciamo degli analfabeti emotivi e ragazzi con tanti progetti incompiuti perché non hanno trovato chi insegnasse loro a “fare”. Abbiamo concentrato l’educazione nel cervello trascurando il cuore e le mani. E questa è anche una forma di frammentazione sociale.

In Vaticano, quando le guardie si congedano, io li ricevo, uno a uno, quelli che si congedano. L’altro ieri ne ho ricevuti sei. Uno a uno. “Cosa fai, cosa farete…”. Ringrazio per il servizio. E uno mi ha detto così: “Io andrò a fare il carpentiere. Vorrei fare il falegname, ma farò il carpentiere. Perché mio papà mi ha insegnato tante cose di questo, e mio  nonno anche”. Il desiderio di “fare”: questo ragazzo è stato bene educato con il linguaggio del fare; e anche il cuore è buono, perché pensava al papà e al nonno: un cuore affettivo buono. Imparare “come si fa”… Questo mi ha colpito.

5. Sì all’adolescenza, no alla competizione

Come ultimo elemento, è importante che riflettiamo su una dinamica ambientale che ci interpella tutti. E’ interessante osservare come i ragazzi e le ragazze vogliono essere “grandi” e i “grandi” vogliono essere o sono diventati adolescenti.

Non possiamo ignorare questa cultura, dal momento che è un'aria che tutti respiriamo. Oggi c’è una specie di competizione tra genitori e figli; diversa da quella di altre epoche in cui normalmente si verificava il confronto tra gli uni e gli altri. Oggi siamo passati dal confronto alla competizione, che sono due cose diverse. Sono due dinamiche diverse dello spirito. I nostri ragazzi oggi trovano molta competizione e poche persone con cui confrontarsi. Il mondo adulto ha accolto come paradigma e modello di successo l’“eterna giovinezza”. Sembra che crescere, invecchiare, “stagionarsi” sia un male. E’ sinonimo di vita frustrata o esaurita. Oggi sembra che tutto vada mascherato e dissimulato. Come se il fatto stesso di vivere non avesse senso. L’apparenza, non invecchiare, truccarsi… A me fa pena quando vedo quelli che si tingono i capelli.

Com’è triste che qualcuno voglia fare il “lifting” al cuore! E oggi si usa più la parola “lifting” che la parola “cuore”! Com’è doloroso che qualcuno voglia cancellare le “rughe” di tanti incontri, di tante gioie e tristezze! Mi viene in mente quando alla grande Anna Magnani hanno consigliato di fare il lifting, ha detto: “No, queste rughe mi sono costate tutta la vita: sono preziose!”.

In un certo senso questa è una delle minacce “inconsapevoli” più pericolose nell’educazione dei nostri adolescenti: escluderli dai loro processi di crescita perché gli adulti occupano il loro posto. E troviamo tanti genitori adolescenti, tanti. Adulti che non vogliono essere adulti e vogliono giocare a essere adolescenti per sempre. Questa “emarginazione” può aumentare una tendenza naturale che hanno i ragazzi a isolarsi o a frenare i loro processi di crescita per mancanza di confronto. C’è la competizione, ma non il confronto.

6. La “golosità” spirituale

Non vorrei concludere senza questo aspetto che può essere un argomento-chiave che attraversa tutti i laboratori che farete: è trasversale. E’ il tema dell’austerità. Viviamo in un contesto di consumismo molto forte… E facendo un collegamento tra il consumismo e quello che ho appena detto: dopo il cibo, le medicine e i vestiti, che sono essenziali per la vita, le spese più forti sono i prodotti di bellezza, i cosmetici. Questo è statistica! I cosmetici. E’ brutto dire questo. E la cosmetica, che era una cosa più delle donne, adesso è uguale in entrambi i sessi. Dopo le spese di base, la prima è la cosmetica; e poi, le mascotte [gli animali da compagnia]: alimentazione, veterinario… Queste sono statistiche. Ma questo è un altro argomento, quello delle mascotte, che non toccherò adesso: penseremo più avanti a questo. Ma torniamo al tema dell’austerità. Viviamo, ho detto, in un contesto di consumismo molto forte;sembra che siamo spinti a consumare consumo, nel senso che l’importante è consumare sempre. Un tempo, alle persone che avevano questo problema si diceva che avevano una dipendenza dalla spesa. Oggi non si dice più: tutti siamo in questo ritmo di consumismo.Perciò, è urgente recuperare quel principio spirituale così importante e svalutato: l’austerità. Siamo entrati in una voragine di consumo e siamo indotti a credere che valiamo per quanto siamo capaci di produrre e di consumare, per quanto siamo capaci di avere. Educare all’austerità è una ricchezza incomparabile. Risveglia l’ingegno e la creatività, genera possibilità per l’immaginazione e specialmente apre al lavoro in équipe, in solidarietà. Apre agli altri. Esiste una specie di “golosità spirituale”. Quell’atteggiamento dei golosi che, invece di mangiare, divorano tutto ciò che li circonda (sembrano ingozzarsi mangiando).

Credo che ci faccia bene educarci meglio, come famiglia, in questa “golosità” e dare spazio all’austerità come via per incontrarsi, gettare ponti, aprire spazi, crescere con gli altri e per gli altri. Questo lo può fare solo chi sa essere austero; altrimenti è un semplice “goloso”.

In Amoris laetitia vi dicevo: «La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione.

Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa» (n. 232). Mi sembra importante vivere l’educazione dei figli a partire da questa prospettiva, come una chiamata che il Signore ci fa, come famiglia, a fare di questo passaggio un passaggio di crescita, per imparare ad assaporare meglio la vita che Lui ci regala.

Questo è quello che mi è sembrato di dirvi su questo tema.

(Parole di ringraziamento del cardinale Vallini)

[Benedizione]

Grazie tante! Lavorate bene. Vi auguro il meglio. E avanti!

Note al testo

[1]  «Per i giovani l’avvenire è lungo e il passato breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto. Essi sono facili a lasciarsi ingannare, per il motivo che dicemmo, cioè perché sperano facilmente. E sono più coraggiosi; poiché sono impetuosi e facili a sperare e di queste due qualità la prima impedisce loro di aver paura, la seconda li rende fiduciosi; infatti nessuno teme quando è adirato, e lo sperare qualche bene dona fiducia. E sono indignabili» (Aristotele, La retorica, II, 12, 2).

Redazione de Gliscritti | Mercoledì 21 Giugno 2017 - 10:03 am | | Default

1/ L’oratorio estivo è Iniziazione cristiana. L’anno catechistico non è finito: prosegue con gli oratori e i campi estivi, se la catechesi non è “scolastica”. Una nuova collaborazione fra l’Ufficio catechistico e il Centro Oratori Romani. Breve nota di Andrea Lonardo 2/ L’anello di Prisco: un sussidio che si ambienta a Roma. Brevi note di Andrea Lonardo 3/ Le catechesi per le 4 settimane de L’anello di Prisco, di suor Pina Ester De Prisco 4/ STRUTTURA della PREGHIERA per l'ORES 2017

1/ L’oratorio estivo è Iniziazione cristiana. L’anno catechistico non è finito: prosegue con gli oratori e i campi estivi, se la catechesi non è “scolastica”. Una nuova collaborazione fra l’Ufficio catechistico e il Centro Oratori Romani. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti sull'Iniziazione cristiana e sull'oratorio, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)

L’oratorio estivo è Iniziazione cristiana. L’oratorio estivo (si chiami esso ORES, oratorio estivo, gruppo estivo, GREST, campo estivo, centro estivo, poco importa) è la prosecuzione dell’Iniziazione cristiana da giugno a settembre. Ovviamente l’oratorio estivo non è solo questo, perché ad esso partecipano anche bambini più piccoli o più grandi. Ma l’oratorio estivo è anche Iniziazione cristiana. Lo è per i bambini, che in massima parte sono gli stessi che si preparano alla celebrazione dei Sacramenti, lo è per i ragazzi animatori e aiuto-animatori che spesso sono i ragazzi dei gruppi della Cresima o appena cresimati che scoprono il servizio, che si mettono a disposizione gratuitamente per amore dei più piccoli.

Dove invece l’oratorio estivo fosse sganciato dalla catechesi di Iniziazione cristiana la comunità perderebbe una grande occasione formativa. Non si accorgerebbe, infatti, che le persone che partecipano durante l’anno al cammino della catechesi sono le stesse che durante l’estate vivono nell’oratorio estivo. Serve, invece, che qualcuno li aiuti a comprendere che sono due modalità diverse di uno stesso cammino di fede.

Dall’anno pastorale 2016/2017 l’Ufficio catechistico di Roma e il Centro Oratori Romani (COR) collaborano per preparare unitariamente un sussidio per gli oratori estivi che risponda alle esigenze sia dell’Iniziazione cristiana che degli oratori stessi. È una novità che l’oratorio estivo sia progettato congiuntamente dai responsabili di oratori e dall’Ufficio catechistico, perché è abituale che l’oratorio sia invece maggiormente collegato con la pastorale giovanile.

L’elaborazione comune del sussidio ha portato ad aprire una feconda discussione su cosa comporti per i catechisti dell’Iniziazione cristiana comprendere che l’oratorio estivo ne è parte integrante. Si è posta così la questione della messa domenicale a giugno e settembre: la comunità non può non proporre un orario specifico per la messa domenicale sia per gli animatori che sono i ragazzi delle Cresime, sia per i bambini dell’oratorio estivo che sono quelli della tappa delle Comunioni. Il suggerimento è stato quello di porre la messa dell’oratorio estivo alla domenica sera e che essa sia celebrata dallo stesso sacerdote che abitualmente celebra la messa della domenica mattina con gli stessi bambini e ragazzi che ora verranno invitati alla messa serale per tutta l’estate, con le loro famiglie. In questo modo la messa domenicale viene posta al centro dell’oratorio estivo perché la proposta estiva continui la linea della catechesi annuale, che insiste sul fatto che la messa domenicale è più importante delle riunioni stesse.

Anche la preghiera del mattino e della sera degli oratori estivi diviene parte integrante del cammino di Iniziazione cristiana. Si è fatta la scelta che l’oratorio sia una introduzione alla preghiera della Chiesa, per quanto semplice, e che prosegua l’iniziazione alla preghiera del cammino delle Comunioni e delle Cresime. In particolare si è proposto nel sussidio che i bambini imparino a pregare con un salmo delle Lodi mattutine del giorno recitato a due cori, maschi e femmine, che ogni mattina si preghi il Benedictus e ogni sera il Magnificat e che ogni giorno si preghi con un’invocazione allo Spirto Santo e un’antifone mariana, ripetendo nei diversi giorni le più belle e grandi preghiere della tradizione cristiana. I bambini conosceranno così a memoria, dopo due settimane di oratorio, sia il Benedictus che il Magnificat, come il Vieni Spirito Creatore, il Vieni Santo Spirito e, oltre all’Ave Maria, anche l’Ave stella del mare, il Regina coeli la Salve Regina e così via.

Ma anche la storia, i giochi, le attività mostreranno loro che la catechesi di Iniziazione cristiana è esperienza e non solo riunione.

I catechisti, dal canto loro, parteciperanno come animatori all’oratorio estivo o, se ciò sarà impossibile, verranno a salutare i bambini, parteciperanno alla preghiera di inizio o fine oratorio, li incontreranno nella messa della sera della domenica, o parteciperanno alle uscite dell’oratorio. Guai se i catechisti e le catechiste salutassero i bambini a maggio per poi rivederli solo ad ottobre. L’oratorio estivo permetterà loro che l’Iniziazione cristiana non si interrompa con l’estate: la comunità cristiana con i suoi catechisti, continua ad accompagnare i bambini dell’Iniziazione cristiana ed i loro genitori anche nel periodo dell’estate.

2/ L’anello di Prisco: un sussidio che si ambienta a Roma. Brevi note di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti su Roma, vedi la sezione Roma e le sue basiliche; sull'Iniziazione cristiana e sull'oratorio, invece, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)

Un’ulteriore novità del sussidio per gli oratori estivi dell’estate 2017 è l’ambientazione in Roma. Tale scelta è nata dal desiderio di far riscoprire agli animatori e ai bambini la bellezza della storia locale di Roma, che è allo stesso tempo storia universale. L’oratorio diviene così un’occasione per conoscere le prorie radici e per correggere visioni distorte di quella stessa storia stessa con le quali i ragazzi sono già venuti a contatto.    

Qui le schede che presentano i 4 luoghi di Roma nei quali è ambientato L’anello di Prisco.

L’Altare al Dio ignoto sul Palatino

I pagani dell’età ellenistica non sapevano più se credere alle divinità pagane. Il politeismo non li convinceva più, la violenza del paganesimo li allontanava, così come sentivano che il culto agli imperatori non era vero e sano. Ne è prova un altare al Dio ignoto, simile a quello di cui parla san Paolo negli Atti degli Apostoli quando giunge ad Atene, conservato nel Museo Palatino.

L’iscrizione dell’altare dice: "Sei deo sei deivae sacrum”, cioè  “Sia a un dio, sia a una dea consacrato”.

L’uomo che lo consacrò non poteva dire nemmeno se la divinità protettrice cui offriva sacrifici animali su quell’altare fosse maschio o femmina, fosse un dio o una dea. Le regole rituali richiedevano che si conoscesse esattamente il nome della divinità cui ci si rivolgeva perché il sacrificio avesse effetto, ma si aveva anche paura che eventuali avversari conoscessero quel nome e lo si occultava perché non potessero pronunciarlo. Di fatto l’iscrizione denuncia l’incapacità umana di sapere quale sia il vero volto di Dio, quale sia il suo nome: per evitare di non essere ascoltati, si preferisce una formula generica in modo che – si spera – gli dei ascoltino comunque. “Ascoltami, sia che tu sia un dio sia che tu sia una dea, dato che sei sostanzialmente ignoto”.

Da questo punto di vista l’ellenismo è un punto alto e non basso nella storia del pensiero e della religiosità dell’uomo. In quel tempo l’uomo prese coscienza di non poter conoscere Dio con le sole proprie forze. Nessun uomo può fare a meno di Dio: senza Dio tutto è perduto ed ogni vera speranza è morta. Ma d’altro canto Dio lo si può solo invocare, si può solo chiedere che Egli venga, perché noi non siamo in grado di trovarlo. Gli uomini che hanno offerto sacrifici su questo altare avevano il senso di Dio, avevano un senso religioso, ma lo stesso non sapevano bene in cosa credere.

Ogni seria riflessione su Dio non può che partire dall’impossibilità da parte dell’uomo di conoscerLo. Dio è talmente più grande dell’uomo da non poter l’uomo “bucare le nubi” e salire fino a Lui. C’è solo una possibilità: che Dio si riveli. Che Dio colmi quell’abisso che lo divide dall’uomo, “aprendo i cieli”. Solo la “rivelazione” e ancor più l’incarnazione possono far sì che l’uomo conosca Dio e con Lui conosca la verità e l’amore.

Il Carcere Mamertino

Il carcere Mamertino è l’antica prigione di massima sicurezza riservata ai nemici di stato di Roma che attendevano di essere giustiziati. Sulle scale che erano situate al suo fianco venivano esposti al piccolo ludibrio i cadaveri di coloro che venivano strangolati nel carcere o gettati dalla Rupe Tarpea. Venivano insomma esposti i corpi dei nemici di Roma per dare spettacolo e anche come deterrente. La pena di morte, tragicamente, per tantissimo tempo ha fatto parte della giustizia ordinaria nel mondo intero.

L’ubicazione non è casuale. Le fonti attestano che i cortei trionfali degli imperatori, prima di salire a venerare gli dei della triade capitolina in Campidoglio, abbandonassero nel Carcere Mamertino i prigionieri che dovevano essere uccisi, perché fossero rinchiusi, in attesa dell’esecuzione. Questa fu la sorte di Giugurta, il re della Numidia, nel 104 a.C., di Vercingetorige, re dei Galli, decapitato nel 49 a.C., di Seiano, ministro di Tiberio, decapitato nel 31 d.C., dei capi della rivolta giudaica repressa da Vespasiano e Tito.

Il carcere Mamertino prende il nome probabilmente da Mamers (dio sabino corrispondente al latino Marte; doveva esserci un tempio dedicato al dio Marte nelle vicinanze). Venne restaurato negli anni fra il 12 e il 40 d.C., cioè venti anni prima dell’arrivo di Pietro e Paolo a Roma. La datazione risulta dai nomi dei consoli che sono ancora chiaramente leggibili sulla trabeazione, C.Vibio Rufino e M. Cocceio Nerva.

L’edificio si compone oggi di tre livelli. Al livello della strada c’è il carcere Mamertino vero e proprio. Sotto di esso c’è il Tullianum, la parte più terribile, dove si scendeva solo calati attraverso una botola. Di fatto chi veniva fatto discendere nel Tullianum era ormai irrimediabilmente condannato a morte. Tullianum viene o da tullus (polla d’acqua) o da Servio Tullio, il re etrusco che potrebbe averlo fatto. Sopra al carcere Mamertino è stata poi costruita la chiesa di San Giuseppe falegname. Ora l’edificio, dunque, si presenta a tre livelli.

Secondo la tradizione Pietro e Paolo furono imprigionati qui. Scendendo dal carcere al Tullianum, si vede una piccola grata che custodisce il luogo dove avrebbe sbattuto la testa San Pietro, pressato dai soldati. Nel Tullianum si trova una colonna dove, sempre secondo la tradizione, sarebbe stato legato san Pietro e sarebbe sgorgata una sorgente miracolosa con l’acqua della quale poté battezzare i suoi carcerieri Processo e Martiniano, insieme ai loro compagni.

Sia che questa storia sia vera, sia che abbia tratti leggendari, la cosa importante è riaffermare che la testimonianza del martirio fa nascere nuovi cristiani, come dice Tertulliano: Sanguis Martyrum, semen Christianorum (“il sangue dei martiri è il seme da cui nascono i nuovi cristiani”).

Il Colosseo

La costruzione dell’Anfiteatro Flavio iniziò nel 72 d.C. ma l’inaugurazione ufficiale, avvenne nell’anno 80 e durò 100 giorni, durante i quali, secondo la narrazione di Dione Cassio, morirono 2.000 gladiatori e circa 9.000 animali. Il Circo venne completato solamente sotto Domiziano. Tutti e tre gli imperatori appartenevano alla dinastia dei Flavi, da cui il nome. Il nome Colosseo compare per la prima volta intorno all’anno 1000 e si riferisce all’enorme statua raffigurante Nerone (alta circa 36 metri) e poi trasformata con la sostituzione della testa nel Dio Sole, ispirata al Colosso di Rodi.

I Flavi costruirono il Colosseo con il bottino catturato quando distrussero Gerusalemme, sconfiggendo i rivoltosi ebrei nel corso della I guerra giudaica: utilizzarono il luogo che Nerone aveva requisito per la propria casa privata, la Domus Aurea, che aveva nel luogo dove oggi sorge l’Anfiteatro un lago al centro del palazzo.

Il Colosseo è un luogo demoniaco. Dobbiamo inorridire quando lo vediamo esaltare come simbolo di Roma. Del Colosseo i romani si debbono vergognare come di uno dei punti più bassi che siano mai stati raggiunti nella storia della città. Non dobbiamo avere paura di dire che il Colosseo è un luogo che ci deve fare schifo. Ne parliamo per dirne tutto il male possibile, per comprendere l’abisso di orrore che vi si è consumato.

I giochi giunsero a Roma alla metà del II secolo a.C. con origini tuttora discusse – forse etrusche o campane. Ma è a Roma che ebbero il massimo sviluppo. Divenne famosa l’espressione panem et circenses. Il potere politico, per tenere sotto controllo la popolazione, offriva gratuitamente il pane – a Roma i cittadini avevano diritto alla distribuzione gratuita del grano – e i giochi circensi. Bastava offrire, oltre al grano, lo svago del circo per essere sicuri che la popolazione non si sarebbe ribellata, presa come era dai suoi “divertimenti”. Agostino, nei suoi scritti, si pone la domanda serissima: perché i giochi erano più amati di Cristo? Perché i gladiatori interessavano più del Vangelo? Si noti che tale domanda serissima era aggravata dal fatto che allora tali “divertimenti” comprendevano la morte fisica e cruenta di tante persone, ma una domanda simile deve essere posta anche dinanzi ai moderni divertimenti che prolungano il Circo. Si pensi alla corrida spagnola – ultimo resto dei giochi gladiatori, dove l’uomo non lotta con altri uomini e bestie, ma solo con una bestia particolare, il toro – ma anche al calcio, dove uomini lottano fra di loro, senza doversi più uccidere per vincere. Perché il popolo ama più il calcio del Vangelo? Perché osanna più i calciatori di Cristo?

Certo è che gli imperatori sapevano bene che il pane non era sufficiente per tenere quieta la popolazione: alla popolazione non basta il pane, anche i pagani sapevano che “non di solo pane vive l’uomo”. Ciò che essi offrivano oltre al pane era il “divertimento”, il tifo nella lotta per la sopravvivenza del gladiatore amato.

Ebbene non ci fu una vera opposizione ai giochi gladiatori fino all’avvento del cristianesimo che per primo li criticò. Si trova qualche voce critica, ma mai in maniera radicale.

I cristiani, invece, furono contrari fin dall’inizio ai giochi gladiatori, soprattutto per l’assurdità di accettare l’uccisione di essere umani, spettacolarizzandola. Non fu solo il ricordo dei martiri cristiani a determinare l’opposizione più netta, ma una critica radicale tout court. Ma certamente la testimonianza dei martiri fu decisiva nel processo che portò al rigetto dei Giochi Gladiatori. Fra i tanti che vennero uccisi nell’arena, infatti, colpì l’immaginazione degli spettatori proprio la morte di persone totalmente innocenti che offrivano la loro vita pregando per i loro assassini. Fra questi una delle figure certamente più importanti è sant’Ignazio di Antiochia, un vescovo della Siria-Palestina di allora – vescovo di Antiochia di Siria, appunto, oggi in Turchia – che scrisse lettere alle comunità di diverse città, mentre veniva condotto prigioniero a Roma per il martirio. Il suo viaggio a Roma ed il suo martirio vengono datati intorno all’anno 110/111. Fra gli altri, si rivolse ai Romani. In questa lettera egli chiede ai cristiani di Roma – alcuni di essi erano già probabilmente vicini alla casa imperiale -, di non difenderlo, di non salvarlo dalla condanna a morte, di lasciarlo morire perché possa dare l’estrema testimonianza a Cristo:

«Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla» (IV,1-3).

Ignazio - è evidente - si aspetta di morire sbranato dalle belve, probabilmente al Colosseo.

Il Tevere

L’isola Tiberina è il motivo del sorgere di Roma. Nell’ansa che il Tevere realizza in quel luogo, l’acqua del fiume rallenta la sua corsa e ha permesso nei secoli l’emergere dell’isola stessa. Quel luogo è quindi divenuto in antico il passaggio per guadare il fiume. Pian piano i romani hanno poi costruito i diversi ponti. Sui ponti vicino all’isola Tiberina possiamo immaginare il passaggio di san Pietro e di san Paolo, come dei primi cristiani. Infatti, la zona di Trastevere (“al di là del Tevere” rispetto al centro della città) era quella maggiormente abituata dai mercanti che venivano dal vicino oriente e si può immaginare che lì abbiano risieduto anche i due apostoli in qualche momento della loro permanenza a Roma o comunque vi si siano recati per visitare le comunità cristiane della città. 

Certamente i primi cristiani sono stati battezzati nel fiume. Bisogna ricordare che i muraglioni del fiume vennero realizzati solo dopo l’Unità d’Italia, quindi dopo il 1870, mentre in età romana si scendeva facilmente dalle vie della città alla riva sabbiosa del fiume. I cristiani scendevano allora al fiume, che allora doveva essere molto pulito, e vi battezzavano chi chiedeva di diventare cristiano.

Il Tevere fu il luogo abituale del Battesimo a Roma fino alla costruzione dei primi battisteri. La tradizione cristiana esige che si battezzi in acqua corrente e non in acqua stagnante, per dire la vita divina che raggiunge chi riceve il Battesimo. 

Tertulliano, uno scrittore cristiano di origine africana, così scrive del Battesimo nel Tevere:

«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!» (De baptismo 2,3).

3/ Le catechesi per le 4 settimane de L’anello di Prisco, di suor Pina Ester De Prisco

Riprendiamo sul nostro sito le catechesi scritte da suor Pina Ester De Prisco per l’ORES 2017. Vedi anche la sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)

I/ L’altare al dio ignoto: la ricerca della verità (Atti 17,16-31)

L’annuncio del vangelo di Paolo continua in modo più impegnativo, mentre siamo nel suo secondo viaggio missionario.

Arriva ad Atene, città tendenzialmente aperta alle differenze, al confronto - culturalmente elevato - curiosa e abituata alla novità, e rimane sconcertato dai tanti idoli presenti. Atene è una città simbolo della predicazione di Paolo ai pagani ed è un caso simbolico di come si facesse ricorso alla sapienza profana per combattere il paganesimo. Paolo, arrivando in città, freme dentro di sé alla vista di tanti idoli: immagini, oggetti qualsiasi, elevati a divinità e adorati come tali. Dinanzi a tale vista non si chiude al diverso, ma entra in contatto, attraverso il dialogo e la conoscenza. In primis parla con i giudei e i pagani convertiti al cristianesimo nella sinagoga, ma non si ferma a quelli della sua cerchia, a coloro che condividono il suo stesso credo, in un luogo familiare per lui quale poteva essere la sinagoga, ma arriva alla piazza, all’agorà - luogo di incontro per eccellenza.

Paolo parla con tutti, senza escludere né attaccare nessuno, vuole capire le differenze, e coglierne la ricchezza e per farlo dialoga con coloro che incontra: filosofi epicurei e stoici - le due principali scuole filosofiche di allora; decide di discutere, cercare e conoscere, senza impaurirsi davanti al nuovo e al diverso. Per la prima volta ad Atene si pone il problema del rapporto tra cristianesimo e cultura, o meglio l’evangelizzazione in un contesto culturale diverso da quello delle origini, ossia della Giudea.

L’atteggiamento di Paolo sulla piazza di Atene è quello di un ascolto sincero, non dettato dal relativismo, né dall’accettazione passiva, ma consapevole che il suo viaggio ha uno scopo preciso: annunciare la Parola!

Tutti discutono con lui - anche filosofi di diversa formazione - e la presenza di Paolo crea come un coinvolgimento tra tutti - seppure con nette differenze.

Alcuni cominciano a osservare Paolo e pensano che sia un impostore, perché annunzia Gesù e la resurrezione dai morti, ma al tempo stesso sono incuriositi da tale annuncio e lo conducono all’Areopago per interrogarlo sulla dottrina da lui insegnata.

L’Areopago è il nome di una collina posta a sud dell’agorà e indica anche il supremo tribunale di Atene, dove in passato si tenevano le sedute. Il testo può significare due cose: che Paolo sia condotto sulla collina perché gli ateniesi possano ascoltarlo con più comodità, oppure che sia condotto dinanzi alla corte. In entrambe le possibilità, Paolo pieno di coraggio sceglie di annunciare il Dio di Gesù Cristo. Ma prima di annunciare, di parlare di Gesù, Paolo ha ascoltato, si è fatto prossimo, è restato in silenzio, ha osservato, ha guardato negli occhi coloro che incontrava. Per annunciare, Paolo sceglie di partire da ciò che ha osservato entrando in città, da ciò in cui credono gli ateniesi, dal loro timore per gli dèi e dalla costruzione di templi come il Partenone e monumenti adibiti al culto e finanche da un altare dedicato al dio ignoto - un dio di cui non si sa nulla. Paolo insiste sul fatto che adorano un dio senza conoscerlo, e invece il Dio che Paolo annuncia si è fatto conoscere in Gesù Cristo. Ecco, Paolo evangelizza gli ateniesi a partire dalle loro categorie, non annuncia in astratto, ma dal contesto prossimo. Ha capito che gli idoli da loro costruiti sono il tentativo di cercare qualcosa, senza però averlo trovato.

Paolo in opposizione a quanto osservato in città, annuncia Dio creatore del cielo e della terra che non può essere imprigionato in templi o oggetti o statue, perché è un Dio che vuole servire l’uomo, e non essere servito! Dio ha creato l’uomo, dandogli uno spazio e un tempo in cui muoversi, perché l’uomo possa mettersi in ricerca di Dio, ma evidenzia anche la difficoltà di trovarLo.

La ricerca di Dio è un dono, e Paolo ne ha fatto esperienza, sulla via di Damasco. In quell’incontro non c’era nessun merito da parte di Paolo, nessun elemento a favore di tale Incontro. Ma Paolo ha sperimentato l’appartenenza a Dio e sa che in qualche modo Egli verrà a cercarci, seppure nella confusione di ciò che viviamo, tra i nostri idoli, tra il nostro nulla, tra le cose ignote della nostra vita. Solo cercati da Dio troveremo un senso alla nostra ricerca.

Paolo continua il suo annuncio affermando che la prova che Gesù era il Messia e il Figlio di Dio è stata certificata nella sua resurrezione dai morti. Sul tema della resurrezione l’ascolto si interrompe bruscamente e Paolo abbandona la riunione. Due di loro, però, aderiscono al suo insegnamento: Dionigi e Dàmaris. In un contesto di totale fallimento, la Parola avanza con verità e coraggio e trova accoglienza nel cuore di qualcuno la verità di Gesù il Nazareno.

II/ “Desideriamo qualcuno da ascoltare e con cui conversare…”. L’Elogio all’Amore di Paolo (1Cor 13,1-13)

L’inno alla carità - così conosciuto - è uno degli inni più utilizzati, anche dal mondo laico. Un elogio all’amore forte e realistico.

L’inno è inserito nel discorso che Paolo rivolge ai Corinti sulla diversità e unità dei carismi; è certo che ci fossero delle difficoltà e divisioni all’interno della comunità e per rimettere ogni cosa al suo posto, Paolo, nella sua esortazione, utilizza la metafora del corpo e delle sue parti, per significare l’importanza di ciascun membro al suo interno.

Un’immagine semplice per mostrare che, spesso però, anche ciò che è chiaro, viene messo in discussione e sottovalutato nelle crisi relazionali. Sì, perché il problema che Paolo deve affrontare è quello della relazione e il corpo è il modo più immediato per dirne la varietà e l’unità: difatti un corpo pur composto da varie membra sussiste grazie alla sua integrità. Il problema relazionale si esprime nell’invidia e nella gelosia per i servizi che vengono svolti e dunque il senso ultimo è che non tutti siamo chiamati a svolgere le stesse opere, ma tutti siamo chiamati ad amare.

Ce lo insegna meravigliosamente santa Teresa del Gesù Bambino, la quale desiderava andare in missione ad gentes, per essere annunciatrice del vangelo fino ai confini della terra, ma la sua salute precaria e la scelta di monaca carmelitana le impedirono di partire. Ma non impedirono al suo cuore di essere missionario e infatti Teresa capì che aldilà dei servizi, dei ministeri, dei carismi che il Signore ci dona, aldilà di tutto, in primis, c’è l’Amore! Celebre è la sua espressione: “Nella Chiesa, mia madre, io sarò l’amore!” E nell’amore si può vivere ogni realtà desiderata, anche quella più lontana, perché l’amore accorcia le distanze e ci permette di “abitare il mondo”. Una monaca carmelitana ha sentito che il suo cuore poteva battere per il mondo intero: pregare per i missionari, offrire le sue giornate per la salvezza del mondo, e contribuire all’annuncio del vangelo dal suo monastero e con la sofferenza della sua malattia.

Torniamo a Paolo, il quale dopo aver elencato i vari carismi presenti nella Chiesa - gli apostoli, i profeti, i maestri, coloro che fanno i miracoli e operano guarigioni, chi ha il dono delle lingue e del governo -, addita un carisma più grande, migliore di tutto: la via dell’amore.

Ed è vero che per tutta la vita l’uomo cercherà sempre le tracce dell’amore: nella ricerca di essere amati e nella scelta di amare. L’amore, infatti, non si esaurisce in pochi atti, ma dura tutta la vita.

Per celebrare la centralità dell’amore, Paolo mette da parte la sapienza, la scienza, la profezia, la pienezza della fede, la povertà, il martirio, tutto è considerato relativo rispetto al dono dell’amore, del quale ne elenca le qualità.

Come il corpo non può vivere senza le sue parti, così l’integrità dell’amore è data dalla sua unitarietà.

Noi tutti desideriamo essere amati e quando delle persone ci piacciono, lo desideriamo ancora di più. Voler essere amati significa: desiderare di essere guardati, essere al centro, essere ascoltati, essere capiti, avere qualcuno che si sacrifica per noi. Ma l’amore non può essere unilaterale. E lo esprime bene un filosofo tedesco, affermando: «L’amore ci fa desiderare di essere in due, di avere “qualcuno dotato di una bocca cosicché lo si possa ascoltare, qualcuno con cui conversare cosicché possa accadere qualcosa» (Franz Rosenzweig). Sì, l’amore ha bisogno di una persona concreta che ci stia di fronte, che ci faccia da specchio, da pungolo, che ci faccia sperimentare la fatica di amare, perché le caratteristiche che Paolo descrive dell’amore sono quelle di un amore che si costruisce giorno per giorno in una relazione faticosa, ma bella. Noi tutti sperimentiamo il desiderio della relazione e il suo sforzo in tanti contesti relazionali, dalla famiglia di origine alle amicizie, dai compagni di viaggio ai fidanzati. Tutto il campo relazionale è segnato dalla gioia di non essere soli al mondo e quindi dalla condivisione dei nostri vissuti, ma anche dalla fatica del camminare insieme.

Ricordo che una volta mi capitò di osservare un gruppo parrocchiale composto da giovanissimi che con il loro parroco facevano un’escursione in montagna e con loro c’era una ragazza con evidente sovrappeso che faceva molta fatica ad affrontare la ripida salita e il suo respiro era ormai diventato corto. Due sue compagne si sono fermate con lei per farle riprendere fiato e una delle compagne le ha proposto di fermarsi lì e aspettare che il gruppo riscendesse, che anche da lì avrebbero potuto godere il magnifico spettacolo della valle sotto i loro occhi. Ma dopo una pausa abbastanza lunga la ragazzina che più faticava a salire, propose di continuare la salita e un po' alla volta arrivarono in cima, raggiungendo gli altri. Appena arrivate, furono accolte con applausi e abbracci; un caldo e affettuoso benvenuto per chi, nonostante le difficoltà legate al peso e alla fatica della salita, aveva cercato di dare il meglio per condividere con tutto il gruppo la gioia di avercela fatta, ma anche per chi ha deciso di aspettare con lei e magari rinunciare ad arrivare alla meta, pur di non lasciarla sola. Ed è proprio vero che l’amore genera altro amore, altro calore. Ci fa guardare con occhi diversi la realtà e anche se a volte costa fatica - sempre e comunque - riscalda i cuori.

III/ «Che cos’è la verità?». L’incontro di Pilato con Gesù alle porte del pretorio (Gv 18,28-19,11)

Il processo di Gesù continua: dal sinedrio (luogo in cui si è svolto il processo religioso dinanzi ad Anna e Caifa) al pretorio (tribunale del procuratore romano).

Coloro che accompagnano Gesù nei luoghi dei processi decidono di non entrare nel pretorio per non contaminarsi, perché la Pasqua è ormai vicina. Pilato, conoscendo le usanze religiose, esce verso di loro per chiedere quale sia l’accusa contro Gesù. La risposta è: “Te l’abbiamo portato perché è un malfattore”; un giudizio netto, prima di qualsiasi sentenza. Pilato non vuole accettare tale processo e chiede che siano loro a prendersi carico della condanna, secondo la loro legge. Ma i rappresentanti del sinedrio, che hanno condotto lì Gesù, avanzano nella loro richiesta, affermando che la loro legge non può dare la morte a nessuno e quindi sono lì per appellarsi alla legge romana. Il governatore romano non può tirarsi indietro e deve entrare in causa, dato che i romani avevano tolto al sinedrio il diritto di vita e di morte, quindi senza il suo intervento, Gesù non avrebbe potuto ucciso. Sembra dunque che le idee sul destino di Gesù siano già ben chiare: Gesù deve morire. Inizia l’interrogatorio di Pilato, la sua prima domanda è di ordine politico, dato che Pilato non poteva immischiarsi in argomenti di natura religiosa. La regalità a cui fa riferimento Pilato nella domanda che rivolge a Gesù è l’unica accusa per la quale sarebbe stato possibile condannarLo, da parte di Pilato, se si fosse trattato di un’insidia per il potere romano. Gesù sa di essere diventato una pedina tra giudei e romani e che per la sua condanna bastano solo parole sospettose, senza alcuna prova.

Ma anche Pilato è una pedina nelle mani di coloro che vogliono condannare Gesù, e il suo è un contesto tormentato e difficile: l’occupazione del governo romano in Giudea. Pilato cerca di difendersi dinanzi alle accuse infondate rivolte a Gesù, affermando la sua superiore romanità a dispetto della Giudea. Gesù nella sua risposta gioca con la categoria del regno: “il mio regno non appartiene a questo mondo”, la regalità che Gesù personifica è la verità, ne è testimone, e Pilato ne viene a contatto, ricercandola, nella domanda che rivolge a Gesù: «Che cos’è la verità?».

Pilato dopo la sua domanda esce dal pretorio incontro alle persone radunate dal sinedrio e afferma di non aver trovato in lui nessuna colpa. Essi, però, sono ben determinati a volere l’uccisione di Gesù e quindi Pilato pone dinanzi a loro una scelta - come all’inizio – e vuole che siano loro stessi a decidere la sorte di Gesù, perché ha compreso che la condanna è ingiusta e cerca di tirarsi fuori.

Nella scelta, essi chiedono la liberazione di Barabba, un ladro. A tale decisione, fa seguito la flagellazione di Gesù, l’umiliazione degli schiaffi e la derisione come re. Alla fine della dura violenza, Pilato decide di riportarlo fuori dal pretorio per mostrare ai presenti la punizione subita e quindi affermare che Gesù non può essere condannato a morte.

Alla vista di Gesù maltrattato e torturato, Pilato esclama: “Ecco l’uomo”, non più “Ecco il re dei giudei”, ma ecco l’Uomo. Pilato riconosce in Gesù un’umanità alta. Ma tutti continuano a volere la sua morte e Pilato, ancora una volta, esorta loro stessi a caricarsi della condanna, ma essi si appellano alla legge, secondo cui solo il governatore romano poteva dare la morte. Pilato allora viene preso dalla paura e, rientrato nel pretorio, interroga di nuovo Gesù. Ma Gesù non risponde e Pilato incalza dicendogli che lui avrebbe il potere di liberarlo o condannarlo, ma Gesù rimanda Pilato a un potere più alto, quello che viene dal suo regno. Non è questione di poteri umani, ma è una battaglia tra regni: il male e il Bene. Pilato ha ormai capito che, sotto l’apparente storia di un uomo condannato a morte, si svela una storia singolare. I giudei, invece, hanno capito che Pilato è titubante e vuole prendere tempo, ma essi pressano Pilato, affermando che se libera Gesù non è amico di Cesare, ossia del potere romano e quindi si mette contro quel potere che l’ha posto in tale incarico. Chi si fa re, si mette contro Cesare; se dunque libera Gesù sarà traditore di Cesare e accusato come inadempiente della legge. Ma Pilato sapeva bene che nessun pericolo poteva venire a lui e al suo potere da quel Gesù e dai suoi discepoli. Ma deve rassegnarsi e consegnare Gesù nelle loro mani. Il sinedrio, accusandolo in modo ineludibile di contravvenire con il suo insegnamento alla Legge di Mosè, non può accettare che Gesù si ponga sullo stesso piano di Dio. Pilato sa che Gesù non è politicamente pericoloso. È invece il sinedrio che Pilato deve temere: se non avesse acconsentito alla condanna a morte - già data -, i suoi rappresentati avrebbero sobillato il popolo e ci sarebbe stata una rivolta a Gerusalemme.

Un'immagine forte ci lascia l’episodio del processo dinanzi a Pilato. Due uomini, uno di fronte all'altro. Uno rappresentante del potere, l'altro legato ed in balia degli eventi. Eppure, tra i due è Pilato a non essere davvero libero, perché vincolato dalla necessità di tenere in piedi troppi equilibri politici. Gesù, pur essendo legato da una condanna è capace di assumere fino in fondo la sua libertà, scegliendo il “potere” del Bene e della Verità, quel “potere” che ci fa davvero “Uomo”.

IV/ «Che cosa mi impedisce di essere battezzato…?». L’incontro tra Filippo e l’eunuco (At 8,26-40)

Dopo la lapidazione di Stefano - a cui era presente anche Saulo - alcune persone lo seppellirono.

In seguito all’uccisione di Stefano scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nella regione della Giudea e della Samaria. Coloro che furono dispersi, comunque, continuarono ad annunciare la Parola di Dio.

Filippo compare per la prima volta in At 6, perché gli ellenisti (i cristiani di lingua greca) mormorano contro i cristiani di origine ebraica, che dimorano nella terra di Israele e parlano aramaico. C’è un problema di tipo pratico perché, secondo gli ellenisti, le vedove erano trascurate nell’assistenza quotidiana caritativa; viene dunque deciso di individuare sette uomini che possano occuparsi della cura dei poveri, tra cui le vedove.

Gli apostoli, invece, continueranno ad occuparsi della preghiera e della predicazione della Parola. Filippo viene nominato tra i sette, subito dopo Stefano, il primo a subire il martirio. All’interno del libro degli Atti, Filippo è protagonista in due episodi. Il primo si svolge in Samaria, a nord di Gerusalemme (At 8,5-8), il secondo a Gaza, a sud di Gerusalemme (At 8,26-40). Filippo si accosta a situazioni molto periferiche, sia in ordine religioso che culturale; infatti i samaritani e l’etiope eunuco sono entrambi una realtà di confine.

La struttura del brano è molto lineare, segue la costruzione di un racconto. C’è un’introduzione e la presentazione dei personaggi, un incontro provocato dallo Spirito Santo, un dialogo sulla lettura di un brano del profeta Isaia (Is 53,7-8), il battesimo dell’eunuco e la separazione improvvisa dei personaggi.

Il brano si apre con un dialogo tra l’angelo e Filippo, che condurrà quest’ultimo all’incontro con l’eunuco sulla strada che da Gerusalemme scende a Gaza. L’angelo parla a Filippo, mentre egli si trova con Pietro e Giovanni. Filippo obbedisce alla parola ricevuta dall’angelo e si mette in cammino. Quando ecco, sulla strada, avviene l’incontro con l’eunuco etiope.

L’eunuco è uno tra i personaggi più misteriosi della Scrittura, proveniente dall’Etiopia (paese di Kûsh) che corrisponde all’odierna regione della Nubia (parte settentrionale del Sudan): si tratta, dunque, di un africano. Un’antica tradizione vuole che in Etiopia ci fosse una comunità ebraica dai tempi della regina di Saba, moglie di Salomone. La parola “eunuco” compare quattro volte nel brano e può fare riferimento sia a un uomo evirato, sia a un alto funzionario, un uomo di fiducia del re. Comunque nel caso in cui la parola “eunuco” sia usata nel senso strettamene fisico, si realizzerebbe la Parola del profeta Isaia, che annuncia la riammissione degli eunuchi al culto perché essi, non potendo portare nella carne il segno della circoncisione, erano considerati fuori dall’appartenenza religiosa ebraica. Ma qui è molto più probabile che si tratti del responsabile amministrativo e finanziario dello stato, di un cancelliere. E Candace non sia un nome proprio, ma un titolo, come per esempio “faraone”.

In ogni caso l’eunuco compendia in sé due categorie di emarginazione e umiliazione: lo straniero e il leso fisicamente. 

La Scrittura dice che l’eunuco era salito a Gerusalemme per il culto: era dunque di ritorno dal pellegrinaggio alla città santa.

Il dialogo tra i due viene descritto con domande e risposte, con al centro la citazione isaiana, uno dei testi del “servo sofferente”, che erano particolarmente rilevanti nelle catechesi della Chiesa primitiva. L’evento Gesù interpellava drammaticamente il mondo giudaico sull’interpretazione delle Scritture. Chi era quel “servo” annunziato da Isaia, che avrebbe preso su di sé il peccato della moltitudine? L’eunuco non sapeva rispondere e nessuno era stato in grado di farlo fino alla venuta di Cristo. Solo la morte di Gesù corrispondeva a quell’antico annuncio. Da qui si dipana la catechesi di Filippo su Gesù di Nazaret. È probabile che si tratti di un modello di catechesi pre-battesimale della Chiesa primitiva.

Mentre procedono nel cammino, lungo la strada, incontrano una sorgente d’acqua, e l’eunuco - dopo aver ascoltato Filippo, avverte il desiderio di “appartenere a Gesù” e chiede se c’è possibilità di essere battezzato. Chi è ai margini - come l’eunuco - crede sempre di avere qualcosa che gli impedisce di essere pienamente ciò che desidera, impedimenti alla pienezza e chiede a Filippo: “Cosa mi impedisce di essere battezzato?”. Ma Dio ha tolto ogni impedimento alla salvezza. Chi è alle periferie non è più escluso o ai margini, ma viene fatto partecipe del disegno della salvezza.

L’eunuco riceve il battesimo, non c’è bisogno che esprima il suo credo, o che Filippo gli faccia domande sulla sua fede. L’eunuco ha letto le Scritture da solo, si è interrogato, ha ascoltato l’annuncio di Gesù Cristo da parte di Filippo e ha capito che desiderava diventare cristiano. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Il testo è scarno perché la manifestazione di Dio è senza orpelli, senza chiacchiere inutili. Subito dopo il battesimo Filippo viene rapito dallo Spirito Santo e portato in un altro luogo, mentre l’eunuco prosegue il suo cammino nella gioia. Si è realizzato l’essenziale: il desiderio di un uomo di essere battezzato e scegliere il Bene. Ora prosegue sulla sua strada, ma essa è diventata la Via: Cristo Gesù.

4/ STRUTTURA della PREGHIERA per l'ORES 2017

Riprendiamo sul nostro sito alcune note redatte dal COR sulla proposta di preghiera per l’ORES 2017.

Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)

Il percorso di preghiera proposto per quest'anno parte dalla preghiera della Chiesa, la liturgia delle ore, proposta in modo semplificato in modo da adattarsi anche ai più piccoli.

Si ipotizza l'inizio dell'ores il 12 di giugno e la preghiera segue le quattro settimane del salterio, perciò in caso di utilizzo del sussidio in altri periodi, si renderà necessario un adattamento.

La struttura prevede tre momenti di preghiera nell'arco della giornata, uno dedicato agli animatori, l'altro con tutti i bambini ei ragazzi:

PER GLI ANIMATORI:

breve momento di preghiera con l'inno delle Lodi del giorno, la lettura breve seguita da un breve riflessione del sacerdote e da un momento di silenzio, quindi una preghiera di invocazione allo Spirito Santo.

PER TUTTI:

INIZIO GIORNATA: dalle lodi del giorno un salmo, la lettura biblica, il Benedictus (anche cantato), un momento di silenzio, le invocazioni e il Padre Nostro.

Il lunedì verrà letto il brano biblico settimanale, il venerdì il Vangelo della domenica successiva, su cui i gruppi lavoreranno nel pomeriggio, nelle altre giornate (martedì, mercoledì e giovedì) il Vangelo del giorno.

FINE GIORNATA: il Magnificat seguito da un momento di silenzio, una antifona mariana dalla compieta ed una preghiera mariana.

Affinché la messa domenicale non vada in vacanza con la chiusura delle scuole, e per riscoprirne insieme il carattere festoso e comunitario, si suggerisce che la domenica sera, orientativamente alle 19:00, sia celebrata la messa domenicale dell'Ores, con tutti gli animatori, i bambini e i loro genitori. Si può prevedere anche una celebrazione all'aperto, se gli spazi lo consentono. Dopo la celebrazione, sempre se possibile, può seguire un breve momento di animazione, con i canti e i ban dell'Ores. Suggeriamo di proseguire offrendo a tutti un aperitivo o la stessa cena. I papà possono essere invitati a giocare a calcetto e le mamme a pallavolo, oppure si può pensare ad un gioco per genitori e figli, di modo che la sera della domenica sia festa per tutti.

La celebrazione della domenica potrebbe essere preparata a turno dai vari gruppi, nel pomeriggio del venerdì (i Canti, l'offertorio, le Preghiere dei Fedeli...)

Redazione de Gliscritti | Lunedì 19 Giugno 2017 - 1:17 pm | | Default

L’Islam moderato non fiorirà mai in un Medio Oriente senza Storia. I negrieri islamici, arabi e berberi, praticarono la schiavitù per sei secoli in più rispetto a europei e americani, di Ernesto Galli della Loggia

Riprendiamo dal Corriere della sera del 10/6/2017 un articolo di Ernesto Galli della Loggia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia e filosofia, Islam e Diritti umani.

Il Centro culturale Gli scritti (18/6/2017)

Dietro il terrorismo islamista è facile scorgere un vasto retroterra di opinione pubblica musulmana – presente anche in Europa – che certamente condanna le imprese dei terroristi ma che oscuramente ne subisce una certa fascinazione perché, magari inconsapevolmente, ne condivide alla fine un sentimento di fondo: cioè una radicata avversione antioccidentale. La quale si alimenta a propria volta di un sentimento diffusissimo in tutto il mondo islamico: il vittimismo. L’idea che mentre quel mondo sarebbe stato oggetto da sempre di gravi soprusi da parte dell’Occidente, il suo passato, invece, sarebbe totalmente privo di macchie. L’atmosfera culturale dominante in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni, intrisa di un desiderio di espiazione per i nostri, veri o presunti, peccati storici, ha indubbiamente favorito la diffusione di tale sentimento pronto a volgersi in risentimento.

Ma tutto questo ha ben poco a che fare con la storia, con la storia reale che si sforza di accertare e di raccontare i fatti per quello che sono effettivamente stati. Quella storia che però, disgraziatamente, sembra essere ancora oggi la grande assente nell’opinione pubblica islamica. Con il risultato che la non conoscenza del passato favorisce ogni mitizzazione, accredita una visione del mondo in bianco e nero, e contribuisce non poco a distorcere gravemente il significato di quanto accade attualmente, producendo per l’appunto vittimismo e pericolosi desideri di rivalsa.

A fare giustizia di molte leggende storiche su due aspetti centrali del passato islamico sono utilissimi due libri (oltre agli smartphone per fortuna esistono ancora i libri). Il primo, recentissimo, è di Georges Bensoussan, «Les juifs du monde arabe» (Odile Jacob, 2017) dedicato, come dice il titolo, alla vita delle comunità ebraiche nell’islam arabo. Il mito di cui qui si tratta è quello — prediletto in special modo da tutta l’opinione progressista occidentale ma costruito paradossalmente dal sionismo tedesco dell’Ottocento — della presunta felice convivenza che avrebbe caratterizzato in generale l’esistenza degli ebrei in tutto il mondo arabo. Fintanto che — così vuole il mito — a spezzare l’incantesimo e a rendere invivibili per gli ebrei i Paesi islamici sarebbe intervenuta la nascita abusiva dello Stato di Israele. Senza la cui presenza, perciò, l’eden avrebbe potuto tranquillamente continuare a esistere.

Si dà invece il caso che la realtà, tranne in casi rarissimi, sia stata sempre ben diversa. Le pagine del libro forniscono a questo proposito una vasta documentazione circa il miserabile stato di inferiorità, di forzata ignoranza, in cui per secoli nel mondo islamico gli ebrei furono costretti, in virtù di un pregiudizio religioso antigiudaico ben più vasto e pervasivo di quello diffuso nel mondo cristiano. Per essere tollerati gli ebrei erano costretti, oltre che a pagare una tassa speciale, ad accettare una condizione di paria, ad esempio subendo quotidianamente da parte di chiunque (anche di un bambino islamico incontrato per strada) una serie di angherie, di violenze e di oltraggi mortificanti senza potersi permettere, pena la vita, il minimo gesto di reazione. Si è trattato per secoli dell’applicazione di una vera e propria tecnica di degradazione sociale tendente, suggerisce l’autore, a una sorta di animalizzazione deumanizzante della figura dell’ebreo.

Le cose mutarono solo con le conquiste coloniali europee e con la presenza mandataria anglo-francese nell’ex impero ottomano dopo il 1918. Gli ebrei allora — grazie anche ai loro legami con i correligionari in Europa — furono pronti a cogliere l’occasione e a iniziare un percorso di emancipazione culturale ed economica nei vari Paesi arabi, che gli attirò tuttavia una ancor più aggressiva ostilità da parte delle élite e delle popolazioni islamiche. Sicché dalla fine dell’Ottocento al 1945 in tutto il Maghreb e il Medio Oriente aggressioni, disordini, autentici pogrom, non si contarono, a stento contenute dalle potenze coloniali, e con l’ovvia appendice di derive filofasciste e filonaziste. Assai spesso, alla sua origine il moderno nazionalismo arabo-islamico si è nutrito profondamente proprio di questo antisemitismo militante mischiato con l’antioccidentalismo. Quando lo Stato d’Israele, si noti bene, era ancora al di là da venire.

Sempre circa l’immagine idilliaca della civiltà islamica che dalle nostre parti ancora piace a molti costruirsi — con conseguente autoflagellazione della civiltà occidentale — bisognerebbe poi che i nostri manuali scolastici si decidessero per esempio a dire qualcosa a proposito della tratta degli schiavi che i negrieri islamici, arabi e berberi, praticarono dall’ottavo al sedicesimo secolo (dunque per almeno cinque, sei secoli in più rispetto ai negrieri europei e americani — di questi ultimi non pochi armatori ebrei di Charleston e di Newport — delle cui imprese, invece, quei manuali parlano a ragione molto diffusamente). Nell’attesa si può ricorrere alle trecento e passa pagine di uno storico della Sorbona, Jacques Heers («Les négriers en terre d’islam»).

Coadiuvati anch’essi — come più tardi i trafficanti euro-americani — dall’indispensabile collaborazione dei capi neri degli Stati dell’Africa sub sahariana — sovente veri e propri Stati predatori dei propri stessi abitanti —, i negrieri islamici della penisola arabica e della riva sud del Mediterraneo si diedero per un lunghissimo tempo al commercio quando non all’organizzazione in prima persona di razzie sistematiche, ogni volta di migliaia e migliaia di schiavi, dal Sudan al Senegal, al Mali, al Niger: non mancando d’invocare in molte occasioni il pretesto della conversione e della guerra santa.

Fin dall’inizio dell’islam Gedda, Medina, la Mecca, e in seguito Algeri e Tunisi, furono grandi mercati di esseri umani catturati non solo in Africa ma anche per esempio tra i Bulgari e in tutti i Balcani. Alla metà del ‘500 i «bagni» di Algeri erano affollati pressoché esclusivamente di schiavi cristiani, bambini compresi, cui era spesso riservato il triste destino della castrazione. Mercanti islamici arrivarono a trafficare schiavi neri fino in Cina e in India.

Come si vede, è abbastanza evidente che se oggi volessimo davvero impegnarci in una battaglia culturale per favorire la nascita di un Islam «moderato», è da qui, da una ricognizione del passato, e quindi da libri di storia come quelli che ho citato, che si dovrebbe cominciare. Dal momento che è solo grazie alla conoscenza dei fatti che si può evitare di credere alle menzogne e di farne lo strumento autoconsolatorio di una propria immaginaria innocenza a confronto della malvagità altrui.

© Corriere della Sera RIPRODUZIONE RISERVATA

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Giugno 2017 - 10:04 pm | | Default

1/ Mannaggia, non c’è una sola cosa che sia avvenuta come la raccontano i nostri libri di storia ideologicamente scritti, neanche la storia di Jesse Owens. L’apartheid che negli USA circondò l’eroe di Berlino. Breve nota di Andrea Lonardo 2/ Atletica, Owens: da Roosevelt la ferita più grande, di Massimo Lopes Pegna

1/ Mannaggia, non c’è una sola cosa che sia avvenuta come la raccontano i nostri libri di storia ideologicamente scritti, neanche la storia di Jesse Owens. L’apartheid che negli USA circondò l’eroe di Berlino. Breve nota di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo, che ha come fonte l’articolo redazionale Jesse Owens e Berlino 1936. La storia del grande atleta che divenne famoso per un incidente con Hitler che in realtà non avvenne mai, pubblicato su Il post del 12/9/2013. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia e filosofia e Sport.

Il Centro culturale Gli scritti (18/6/2017)

Owens si allena sulla nave nel salto in lungo, 
in viaggio verso Berlino

Jesse Owens, dopo aver vinto i 4 ori alle Olimpiadi di Berlino, dovette tornare negli USA alla segregazione razziale ancora in vigore (lo sarebbe stato per altri trent’anni). Il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt non lo invitò alla Casa Bianca e non gli fece nemmeno una telefonata di congratulazioni.

In Germania Owens aveva dormito negli alberghi insieme agli altri atleti e alle altre celebrità. Quando negli Stati Uniti partecipò a una manifestazione all’albergo Waldorf Astoria, fu costretto a entrare dall’ingresso posteriore e a utilizzare l’ascensore di servizio invece di quello riservato agli ospiti bianchi dell’albergo. Raccontò in un’intervista: «Dopo tutte queste storie su Hitler e il suo affronto, quando sono tornato nel mio paese non potevo ancora sedermi nella parte anteriore degli autobus ed ero costretto a salire dalla parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. Allora qual è la differenza?».

Hitler dal canto suo non fu così infastidito dalle vittorie degli afroamericani. Albert Speer, che all’epoca era l’architetto più famoso della Germania ed era molto vicino al partito nazista (sarebbe diventato ministro degli Armamenti durante la Seconda guerra mondiale), scrisse nelle sue memorie che Hitler liquidò la questione sostenendo che essendo gli afroamericani un popolo primitivo, avevano una costituzione fisica più robusta e più adatta alla corsa. Probabilmente salutò direttamente Owens come altri atleti afroamericani, ma, appunto, conservando il suo disprezzo razziale.

Owens vinse la quarta medaglia, quella della 4 x 100 alla quale non era iscritto, perché gli USA decisero di non far gareggiare nella staffetta 2 altri atleti che erano ebrei statunitensi.

2/ Atletica, Owens: da Roosevelt la ferita più grande, di Massimo Lopes Pegna  

Riprendiamo sul nostro sito un articolo da La Gazzetta dello Sport del 25/2/2016. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradito a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (18/6/2017)

Le belle parole di Gloria, Marlene e Beverly, le tre figlie ormai anziane di Jesse Owens, pesano come macigni al termine della proiezione di "Race", il film sulla vita del loro famosissimo padre, uscito venerdì scorso in tutte le sale americane. Una benedizione che di fatto assegna alle due ore e un quarto di pellicola del regista Stephen Hopkins una matrice di verità ineccepibile. "Ogni volta che lo rivedo mi metto a piangere: non ci posso fare nulla", dice Gloria Owens Hemphill, l'unica delle sorelle già nata (1932) ai tempi dell'Olimpiade di Berlino. Chiarisce Marlene Owens Rankin: "Quando ci hanno mostrato il copione eravamo un po' scettiche. Ma dopo averlo letto ci è piaciuto. Soprattutto ci hanno permesso di modificare i punti che non ci convincevano".

EPISODIO — Per chi conosce la storia com'è descritta nelle enciclopedie e nella stessa autobiografia di Owens, alcuni degli avvenimenti narrati in "Race" si possono considerare in parte inediti. Il film trova forse la soluzione più realistica, anche se non necessariamente quella reale, sul controverso episodio in cui Hitler si rifiutò di stringergli la mano dopo l'oro nel lungo. Owens viene accompagnato in tribuna dal presidente del comitato olimpico Usa del tempo, Avery Brundage (magistralmente interpretato da Jeremy Irons), il vero cattivo della vicenda, per le congratulazioni del Fuhrer, ma il dittatore non si fa vedere. C'è invece il ministro della propaganda nazista, Joseph Goebbels, che rivolto al dirigente Usa sibila con spregio: "E lei davvero pensava che Hitler avrebbe stretto la mano a quello lì?".

VETRINE — Race ha il merito di mettere a fuoco il periodo storico. Hitler salito al potere in Germania, la caccia agli ebrei: alcune scene sono eloquenti, come i primi rastrellamenti delle Camicie Brune o le scritte sulle vetrine dei negozi di Berlino ("Vietato l'ingresso ai cani e agli ebrei"). E poi c'è uno sguardo sull'America, dove i negroes (gli afro-americani) sono segregati e gli stessi ebrei sono discriminati e non hanno accesso a molti ristoranti, hotel o club privati. Nonostante questo scenario, gli Usa vanno molto vicini al boicottaggio dei Giochi di Berlino, proprio per la smaccata politica anti-ebraica del nazismo. Dopo un acceso dibattito vincerà di misura il partito "interventista" di Brundage per 58-56. Owens (l'attore canadese Stephan James, anche nel cast di "Selma: la strada per la libertà") è un ragazzo di Cleveland di origini umili che sceglie Ohio State "perché c'è l'allenatore più bravo del mondo" e vorrebbe soltanto correre veloce e vincere. Ad Ann Arbor nel '35 lo fa: in meno di un'ora conquista tre record del mondo (lungo, 220 yards in rettilineo e 220 yards ostacoli in rettilineo) e ne eguaglia un quarto (100 yards) e la sua fama arriva fino in Europa. La sensazione è che l'obiettivo di "Race" sia non tanto accanirsi sul Nazismo, di cui si conoscono perfettamente le nefandezze, ma piuttosto evidenziare la spiccata discriminazione di certe minoranze negli Stati Uniti, sulla quale spesso si è sorvolato. Marty Glickman e Sam Stollen, gli unici ebrei della spedizione Usa in Germania, verranno esclusi dalla finale della staffetta 4x100 senza una spiegazione convincente. Il film ne fornisce una: Goebbels convoca Brundage, che aveva collaborato con il regime come costruttore negli anni precedenti, e lo ricatta: "Non vogliamo quegli ebrei in squadra, altrimenti renderemo pubblica la sua connivenza con noi".

INFAMITÀ — Owens torna in patria con quattro ori al collo: gli organizzano una parata per le strade di Manhattan e una festa in suo onore dentro al Waldorf Astoria. Ma uno dei portieri del celebre hotel lo costringerà a usare l'ingresso di servizio: "Mi spiace signore, ma questa è la regola". Quella regola, l'infamità della segregazione, verrà abolita solo nel 1964. È l'ultima scena del film, ma la storia prosegue nei titoli di coda. Il Presidente Franklin D. Roosevelt non lo inviterà alla Casa Bianca per congratularsi e successivamente gli verrà tolto lo status di dilettante. Brundage sarà eletto presidente del Cio nel 1952 e regnerà fino al 1972, coincidenza l'altra Olimpiade tedesca. "A mio padre non è mai importato di essere stato snobbato da Hitler, il dispiacere più grande fu di non essere stato chiamato da Roosevelt", rivela Marlene Owens Rankin. Perché non c'è ferita più dolorosa che il disprezzo del proprio Paese.

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Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Giugno 2017 - 10:03 pm | | Default

Amr Adeeb, giornalista musulmano della TV egiziana ON Ent, afferma che i copti, che perdonano chi ha ucciso i loro cari, sono fatti di un’altra sostanza (due video notevoli)

Riprendiamo sul nostro sito due video di cui è protagonista il giornalista egiziano musulmano Amr Adeeb. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Islam e Chiese ortodosse.

Il Centro culturale Gli scritti (18/6/2017)

Alessandria d'Egitto: il funerale dei martiri

Nel primo video Adeeb commenta le parole di una donna che racconta del martirio del marito, custode della cattedrale di Alessandria d’Egitto, ucciso dagli islamisti il 9 aprile 2017, mentre si celebrava la Domenica delle Palme. Amr Adeeb è giornalista della TV egiziana ON Ent.

Adeeb è uno dei giornalisti musulmani noti anche perché chiedono un'ammissione di colpa da parte dei leader religiosi del paese. Egli non identifica mai l'Islam in sé con la violenza, ma invita a domandarsi per quale errata interpretazione delle fonti islamiche e per quale responsabilità degli imam siano così tanti i giovani musulmani che usano della violenza contro civili.

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Giugno 2017 - 10:02 pm | | Default
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Wenders: "In ogni sguardo che incroci c'è Dio" (da AgenSIR)

Riprendiamo da AgenSIR una breve intervista pubblicata il 18/5/2017. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Cinema.

Il Centro culturale Gli scritti (18/6/2017)

"Rivolgersi al lavoro, al mondo e, in particolare, agli 'altri' è diverso quando credi di essere guardato da un Dio che ti ama; quando quel Dio manifesta se stesso (o se stessa) in ogni volto umano, in ogni sguardo che incroci". 

Wim Wenders, regista tedesco, tra i più noti al mondo intervistato durante il Festival di Cannes, racconta il suo approccio personale e artistico alla spiritualita'. 

Spiega di aver compreso "il fatto che la fede potesse influenzarti come artista" quando, nel 1987, "ho aderito al progetto di un film poetico, totalmente improvvisato, quale 'Il cielo sopra Berlino'. È la storia di due angeli custodi che tengono d'occhio i propri protege's nella città di Berlino. Quando mi sono accorto che il compito piu' importante del film era cercare di rendere, di declinare, 'the Angel's gaze at people', lo sguardo degli angeli sulle persone, ma anche di mostrare come gli angeli ci vedono, questo mi ha fatto comprendere che tale opera ha avuto un altro effetto in me, mai sperimentato prima". 

Aggiunge Wenders: "Il cinema in verità e' capace di farci guardare il mondo in maniera differente, di rivelarci realmente che uno sguardo di tenerezza è di fatto possibile". In particolar modo 'Il cielo sopra Berlino' "non solo ha schiuso dinanzi a noi il mondo visibile, ma ci ha permesso di cogliere dei frammenti di quello invisibile, di quello celeste. Col senno di poi, dunque, è sembrato come se gli angeli che ho ricercato ed evocato nel film mi avessero concesso una grande lezione sull'atto del vedere".

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Giugno 2017 - 10:01 pm | | Default
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Chi uccide crede in una precisa dottrina, di Wael Farouq

Riprendiamo da Avvenire del 4/6/2017 un articolo di Wael Farouq. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (18/6/2017)

Chi uccide se stesso e gli altri crede in una precisa dottrina. E le stragi continuano a sommarsi alle stragi, dal cuore d’Europa ai tanti cuori feriti d’Asia e d’Africa. Perciò, se si vuole arrestare il fiume di sangue, questa dottrina deve purificarsi dalle interpretazioni che conducono persone di fede musulmana ad abbracciare il terrorismo.

Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che persino il mufti saudita wahhabita condanna il terrorismo. Vero, ma quel mufti rifiuta il pluralismo e i diritti umani, e questa è una contraddizione insanabile.

Qualcuno potrebbe replicare che al-Azhar, però, difende il pluralismo, offrendo un fondamento islamico ai diritti umani. Vero anche questo, ma al-Azhar patisce la strumentalizzazione della politica.

Qualcun altro potrebbe ribattere che il presidente egiziano, tuttavia, invoca una riforma rivoluzionaria del discorso religioso. Vero, ma quella che minaccia di realizzarsi è una riforma al servizio del potere, utile a cancellare la democrazia. Altrimenti perché lo Stato egiziano consentirebbe – in aperta violazione della costituzione – l’esistenza del partito religioso salafita al-Nour che invita a non fare gli auguri ai cristiani e a non rivolgere loro neanche il saluto?

Ci potrebbe poi essere chi dice che i governi occidentali fanno di tutto per impedire la violenza, senza violare i diritti dei cittadini musulmani. Dopotutto, ciò che li distingue dai barbari terroristi è la loro fede nei diritti umani.

Vero, però questi governi combattono solo i sintomi della malattia, lasciando che la malattia stessa si aggravi. Quanti di questi governi hanno accolto terroristi in fuga dai Paesi a maggioranza islamica? Quanti ospitano organizzazioni dell’islam politico, prima fra tutte la Fratellanza Musulmana, che sono la fonte di questa ideologia violenta? Quanti si astengono dal condannare i regimi wahhabiti, anzi stringono con loro rapporti d’amicizia e vendono loro armi che poi – come hanno riconosciuto gli stessi governi – finiscono nelle mani dei terroristi? Davvero non sarebbe possibile isolare i regimi che adottano questa interpretazione malata dell’islam, come si è fatto con il governo sudafricano dell’apartheid? C’è forse razzismo più grande del versare il sangue del "diverso" e non tenere in nessun conto la sua vita?

Il pluralismo delle società occidentali, oggi, è un pluralismo che esclude, lavorando contro il fine per il quale è stato concepito. Non favorisce la persona, bensì gli stereotipi e le ideologie. In Gran Bretagna, per esempio, "integrazione" significa il riconoscimento dei tribunali sharaitici che violano i diritti della donna, significa l’affluire di milioni di sterline e di euro dagli estremisti del Golfo nelle casse delle organizzazioni islamiche d’impronta ideologica, senza controlli né restrizioni.

L’Occidente si è consacrato al pluralismo e ai diritti umani, perché non si ripetessero le dolorose esperienze di nazismo e fascismo, ma c’è da chiedersi: nazismo e fascismo non rappresentavano forse la supremazia dello stereotipo sulla persona? Non credevano forse in qualcosa di superiore alla persona umana, per il quale era giustificato morire e uccidere? E oggi, non c’è forse il rischio che anche il "multiculturalismo" si trasformi in uno stereotipo più importante della persona e dei suoi autentici diritti fondamentali?

Redazione de Gliscritti | Domenica 18 Giugno 2017 - 10:00 pm | | Default

La Biblia Pauperum di Sant’Angelo in Formis, di Antonio Pitta

Riprendiamo da A. Ianniello (a cura di), Biblia picta. Le icone di Sant’Angelo in Formis come iniziazione al mistero cristiano, Napoli, Luciano Editore, 2005, pp. 47-54, un articolo di Antonio Pitta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

Soltanto in alcuni film di Walt Disney o di fantascienza è possibile assistere a surreali inserimenti di persone umane in libri giganteschi, attraverso una vera e propria full immersion. Eppure tale percezione doveva produrre in quanti, durante il Medioevo, cominciavano a frequentare la Basilica Benedettina di Sant'Angelo in Formis: un enorme libro dal quale essere rapiti e nel quale essere immersi per contemplare la storia della salvezza ivi raffigurata[1].

La Biblia Pauperum aveva la funzione fondamentale di catechizzare i credenti non tanto attraverso la lettura delle pagine bibliche tramandateci per iscritto, quanto attraverso la visione delle raffigurazioni pittoriche che istoriavano le cattedrali medievali, a causa dell'analfabetismo diffuso nei ceti popolari della società del tempo[2]. In tal senso nessuna raffigurazione è posta a caso, ma segue una logica interna di decisiva rilevanza, altrimenti si rischia di smarrirsi in un dedalo, senza alcuna via d'uscita.

Qual è l'ordito pittorico di Sant'Angelo in Formis? Quale la logica che ha guidato i maestri medievali che si sono succeduti nel suo completamento[3]? E quale il messaggio fondamentale che tale ciclo pittorico intende veicolare ai visitatori di ogni dimensione spazio-temporale[4]? Cercheremo di rispondere a tali questioni, pur nel limite relativo ai pannelli che ci sono pervenuti, così da seguire un ideale "filo di Arianna" che nella Basilica segue un percorso originale ma complesso, nello stesso tempo, dall'inizio alla fine.

1. Le coordinate spazio-temporali

Non si può negare che in tutta la Basilica, la S. Scrittura occupa non solo la parte principale ma quella dominante e quasi esclusiva: soltanto alcune raffigurazioni o ritratti di alcuni personaggi richiamano il contesto storico medievale durante il quale questa Biblia Pauperum è stata rappresentata. Per il resto, è la Parola di Dio che si va snodando in questa splendida Basilica, attraverso l'intreccio storico dell'Antico e del Nuovo Testamento.

1.1. Da dove partire?

La prima questione che è invitato a porsi chi visita la Basilica è: da dove partire? Altrimenti sarebbe come entrare in una sala cinematografica a film iniziato, lasciando nello smarrimento e nella ricerca della naturale domanda su dove ci troviamo: il primo o il secondo tempo? Il ciclo pittorico di Sant'Angelo segnala, con sufficiente evidenza, quale debba rappresentare l'inizio dell'itinerario da compiere: l'abside con la figura gigantesca del Gesù Cristo Signore in trono. Per questo, il visitatore non deve cedere allo smarrimento, girovagando attraverso le navate interne ed esterne della Basilica, ma è chiamato a puntare subito il proprio sguardo sull'abside centrale occupata, in gran parte, da Gesù Cristo. Di fatto è lui la "chiave" che permette di entrare nel labirinto di Sant'Angelo ed è, nello stesso tempo, il motivo di svolta che invita a contemplare tutte le raffigurazioni riportate nella Basilica.

Dal versante dello scritto, si può rilevare che sono scarse le iscrizioni poste a didascalia delle raffigurazioni: pur tuttavia, quelle presenti risultano di fondamentale importanza. Fra queste è significativa l'iscrizione posta nel libro aperto che il Signore sorregge con la mano sinistra: «Ego sum alfa et o(mega) prim(us) et novissimus».

L'iscrizione riprende alla lettera la citazione biblica di Ap 22,13 che così recita nella versione latina della Vulgata,il testo biblico utilizzato in epoca medievale: «Ego sum A et W [omega], primus et novissimus...». Il Signore, seduto sul trono della gloria, è riconosciuto non soltanto come il primo e l'ultimo, come recita l'inizio di Apocalisse 1,8 («principium et finis»), bensì come il "primo e il nuovissimo" che, con la propria signoria, inaugura "cieli nuovi e terra nuova".

L'iscrizione ha la funzione non soltanto di attestare una professio fidei dei credenti, in epoca medievale, ma anche di segnalare la prospettiva principale dalla quale bisogna contemplare la Bibbia raffigurata a Sant'Angelo: quella apocalittica ed escatologica, ossia la presenza di Cristo nella storia, a partire dall'Antico Testamento sino alla sua presenza nella comunità dei credenti (prospettiva apocalittica), per proiettarsi verso i "novissimi", vale a dire verso il giudizio finale della storia e della vicenda umana (prospettiva escatologica).

Tuttavia, a riguardo è bene precisare che questi due orizzonti della storia della salvezza non sono scissi o separati ma posti, come vedremo, in continua tensione, per cui da una parte, l'orizzonte apocalittico della signoria di Cristo è teso verso quello escatologico o finale; e quest'ultimo è anticipato nella storia attuale dei credenti.

Intorno al Signore che troneggia, al centro dell'abside, sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti: secondo l'ordine che procede da sinistra verso destra e dal basso verso l'alto, sono rappresentati il bue alato (Matteo) e il leone alato (Marco), l'angelo alato (Luca) l'aquila (Giovanni); l'impostazione corrisponde all'ordine canonico dei vangeli, come sono riportati nel Nuovo Testamento. Tale disposizione pone in evidenza che per conoscere e contemplare Gesù Cristo è necessario leggere e fare proprio il messaggio dei vangeli, perché è di Lui che essi parlano ed è a lui che conducono.

Nel piano inferiore dell'abside sono rappresentati i tre arcangeli Raffaele, Michele e Gabriele (sempre da sinistra verso destra). Anche in questo caso la disposizione pittorica non è casuale: l'arcangelo Michele occupa la posizione centrale giacché la basilica è dedicata proprio a lui. D'altro canto, il culto di S. Michele è particolarmente diffuso in epoca medievale, ad opera dei Longobardi: si pensi alla Basilica di S. Michele Arcangelo sul Gargano, mèta obbligata dei pellegrini che partivano alla volta dell'Oriente.

I tre arcangeli sono collocati per esprimere il trisagion (tre volte santo) che i credenti sono invitati ad attribuire a Gesù Cristo, il Signore della storia: il motivo risale sino alla visione di Is 6,3: «Santo, santo, santo...». Così l'autore del ciclo pittorico introduce uno dei motivi principali raffigurati nella Basilica: l'angelologia o la visione degli angeli che occupa tanto spazio nella pietà medievale[5].

Prima di voltarsi verso l'interno della Basilica, a partire dall'abside, è importante non dimenticare il simbolo collocato al vertice dell'intronizzazione: la colomba che richiama lo Spirito Santo. Il particolare non è irrilevante giacché è lo Spirito che permette, da una parte, la trasformazione della S. Scrittura in Parola di Dio e, dall'altra, è colui che guida i credenti alla comprensione della "Verità tutta intera" che è Gesù Cristo. Dunque ci troviamo di fronte ad una prospettiva cristologica e pneumatologica dalla quale è opportuno intraprendere l'ideale viaggio catechetico che offre la Basilica di Sant'Angelo.

1.2. Dove arrivare?

L'inizio e la fine di un film o di un racconto sono, com'è noto, le parti più importanti che un regista e un narratore sono chiamati a curare con particolare diligenza: un epilogo trascurato, rispetto ad un ottimo intreccio, produce comunque delusione nei presenti o nei lettori. Per questo, senza voler svelare il tutto sin dall'inizio poiché, come abbiamo segnalato, l'ordito di Sant'Angelo è quanto mai complesso, dobbiamo cercare l'epilogo o la mèta del ciclo pittorico. Dopo aver contemplato il maestoso abside e una volta giunto all'abside, il visitatore è costretto, di fatto, a voltarsi; e senza lasciarsi accattivare dalle raffigurazioni riportate nelle navate, deve fissare lo sguardo verso l'ingresso della Basilica. Se non si è lasciato cogliere dalla tentazione di entrare nella Basilica, senza voltarsi indietro né a destra o a sinistra, si troverà improvvisamente di fronte alla parete d'ingresso, occupata dal giudizio finale della storia che, nella mandorla centrale, presenta nuovamente l'intronizzazionedi Gesù Cristo il Signore.

Anche in questa raffigurazione sono importanti le iscrizioni riportate nei cartigli degli angeli: «Venite benedicti Patris mei», «Ite maledicti in ignem aeternum». Le citazioni bibliche sono mutuate dalla narrazione del giudizio finale, riportata nel vangelo di Mt 25,31-16 e, in particolare, dal v. 34 e dal v. 41: sono le sentenze giudiziarie pronunciate per le "pecore" e i "capri" che hanno riconosciuto o ignorato Gesù Cristo nei poveri, nei carcerati e negli affamati. Per questo, nella parte inferiore della parete, l'umanità è distinta in beati e dannati o, secondo il linguaggio apocalittico, in salvati e persi[6].

Fra i limiti pittorici che abbiamo evidenziato, si snoda tutta la vicenda umana, ossia tra la Signoria apocalittica o attuale, dalla morte e risurrezione di Cristo sino ad oggi, e quella escatologica o finale di Cristo. Il confronto tra l'abside e la parete d'ingresso intende, pertanto, veicolare un messaggio dalle grandi istanze etiche: come entrare a far parte di quanti sono benedetti e non di coloro che sono maledetti? Se attualmente, attraverso il discernimento interiore si comprende di non operare secondo la legge dell'amore ma per forme diverse di egoismo, che cosa bisogna compiere?

Così il visitatore di Sant'Angelo non è invitato soltanto a contemplare le raffigurazioni interposte fra l'abside e la parete d'ingresso, bensì ad entrare in se stesso e a valutare le proprie opzioni fondamentali e categoriali a partire dalla Parola di Dio che non soltanto ascolta durante la celebrazione eucaristica ma che ha la fortuna di vedere con i propri occhi affinché s'imprima nella propria memoria e lo induca alla conversione profonda del cuore. In tal senso, la Basilica di Sant'Angelo anticipa la portata performativa della Parola di Dio che non si limita ad educare alla fede bensì a cambiare il cuore umano.

2. Quale prospettiva ermeneutica?

Il XX secolo è stato quello dell'ermeneutica filosofica e letteraria; ma la preoccupazione ermeneutica, ossia della ricerca del senso è molto più antica di quanto si pensi. In questa complessa scienza occupa un posto privilegiato l'ermeneutica biblica; e già in epoca patristica si tendeva a semplificare tale processo di relazione con l'oggetto da valutare attraverso la tipologia o l'allegoria[7].

Nel primo caso, si assiste ad una corrispondenza tra un typus ed un antitypus,vale a dire tra un personaggio, un evento, un tema dell'Antico ed uno del Nuovo Testamento, o secondo il linguaggio patristico, tra l'ombra e la realtà. Nel secondo caso, lo stesso personaggio o evento storico dell'Antico Testamento cresce di significati e perviene alla sua massima espressione o rivelazione nel Nuovo Testamento.

Così recita l'assioma medievale dei quattro sensi della Scrittura:

«Littera gesta docet, quid eredas allegoria,
moralis quid agas, quo tendas anagogia»
[8].

Già nel Nuovo Testamento sono diffusi esempi di tipologia, come il confronto tra Adamo e Gesù Cristo, delineato da Paolo nella Lettera ai Romani (cf Rm 6,1-14); e non mancano esempi di allegoria, come quello della Gerusalemme terrena che, progressivamente, cede il posto a quella celeste e futura, ripreso nella Lettera ai Galati (cf GaI 4,21-24) e nell'Apocalisse di Giovanni (cf Ap 21,1-27). Questi due modi d'interpretare la S. Scrittura erano diffusi in epoca medievale e caratterizzavano non soltanto la predicazione dei pastori ma anche la lettura dei credenti e, di conseguenza, i cicli pittorici delle Chiese.

Nella Basilica di Sant'Angelo risalta subito il processo tipologico o di corrispondenza tra l'Antico e il Nuovo Testamento, contro forme di marcionismo tese a deprezzare il Primo Testamento a favore del Nuovo Testamento. Così il motivo tipologico principale che attraversa gran parte delle raffigurazioni, scelte dagli autori, è quello del sacrificio.

Dall'Antico Testamento sono rappresentati il sacrificio di Caino e Abele (cf Gen 4,3-4)[9]; quello di Noè, dopo il diluvio (cf Gen 8,20)[10], quello di Gedeone (cf Gdc 6,18-24)[11] e soprattutto quello di Isacco narrato in Gen 22,1-19[12]. Nella pietà medievale si assiste ad una particolare rilettura tipologica tra il sacrificio d'Isacco e quello di Cristo; così recita la bellissima e diffusa preghiera di S. Tommaso d'Aquino per il Corpus Domini: «...In Isacco dato a morte».

Il motivo sacrificale corrispondente del Nuovo Testamento che catalizza tutta l'attenzione è quello della croce di Cristo, al quale è dedicato un ampio spazio nella navata centrale della Basilica, parete sinistra. La scena della crocifissione è rappresentata con grande solennità: ai piedi della croce si trovano la madre di Gesù e il discepolo che Gesù amava; ai lati da una parte, a sinistra, si trova la folla delle donne piangenti e dall'altra, a destra, la schiera dei giudei, preceduta dai soldati che tirano a sorte la tunica del crocifisso. Si può notare come la famosa iscrizione "I.N.R.I." è assente nella crocifissione di Sant'Angelo, mentre è sostituita dal cartiglio sottostante in cui è scritto: «Morti vita datur, sed mors mori ente necatur».

La nuova iscrizione permette di cogliere l'inscindibile relazione tra la morte e risurrezione di Cristo: egli è crocifisso ma porta i segni della risurrezione. Per questo manca nella nostra crocifissione la corona di spine, sostituita dall'aureola; e dato ancora più rilevante, non c'è alcun segno di spargimento di sangue, come invece in altre raffigurazioni. Per inverso, in alto, accanto ai simboli della luna e del sole, sono raffigurati due angeli: sono gli angeli della risurrezione che attestano l'inscindibile mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Pertanto la scena, anche se può essere ricondotta a tutti gli evangelisti che raccontano la morte di Gesù in croce, richiama in modo particolare la narrazione del vangelo di Giovanni che catalizza l'attenzione sull'ultima volontà testamentaria di Gesù, durante la quale egli affida la madre al discepolo e viceversa (cf Gv 19,17-27). Potremmo sostenere che la scena non è soltanto di rilevanza cristologica ma anche ecclesiologica: la Chiesa nella sua unità minimale e basilare della madre e del discepolo, e raffigurata, in forma simbolica, dalla tunica indivisa, sulla quale si può soltanto tirare a sorte.

Tuttavia inquieta il dato che in una Biblia pauperum in cui il motivo dominante è quello del sacrificio, proprio nella scena sacrificale per eccellenza, appunto quella della croce, venga a mancare il segno più visibile dello spargimento di sangue: perché tale silenzio?

La motivazione si trova nelle scene che fronteggiano, sulla parete destra, quella della croce: sono tutte scene eucaristiche. Di fatto, in corrispondenza con la croce, si trova l'episodio dell'ultima cena, presentata in due fasi: quella di Gesù a tavola e quella della lavanda dei piedi. Anche in questo caso se, da una parte, i vangeli sinottici raccontano le parole dell'istituzione eucaristica (cf Mc 14,22-25 e paralleli), dall'altra, soltanto Giovanni sostituisce tale istituzione con il gesto simbolico della lavanda dei piedi (cf Gv 13,1-20).

Pertanto, tale corrispondenza sembra evidenziare che il valore sacrificale della morte di croce di Cristo trova comprensione soltanto nell'eucaristia, dove il sacrificio della croce è inteso a nostro favore o vantaggio. Dunque non soltanto la crocifissione di Cristo è praticamente incruenta, a Sant'Angelo, giacché porta i segni della risurrezione, tratto tipico della pietà bizantina, ma riscontra il suo senso più profondo nell'eucaristia e nel gesto della lavanda dei piedi: un gesto di comunione e di servizio per l'umanità.

L'importanza dell'eucaristia è confermata dal pannello, purtroppo in gran parte perduto, relativo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, che si trova ancora nella parte destra della navata centrale. D'altro canto la stessa istituzione eucaristica è anticipata, ancora in forma tipologica, dal pannello dedicato a Melchisedek, il sacerdote di Salem che offre non sacrifici di animali e cruenti, bensì pane e vino[13]. Il riferimento biblico è a Gen 14,17-20, con la narrazione dell'incontro tra Abramo e Melchisedek, ripreso in particolare dall'autore della Lettera agli Ebrei, per stabilire una relazione tipologica con il sacerdozio nuovo di Gesù Cristo: «Egli (Melchisedek) è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno» (Eb 7,2-3).

Sino ad ora abbiamo evidenziato alcuni motivi tipologici che relazionano le scene dell'Antico a quelle del Nuovo Testamento. Tuttavia, proprio il motivo del sacrificio, costituisce nello stesso tempo la tematica allegorica principale che attraversa l'Antico Testamento per giungere al suo pieno significato nella cena del Signore. Si procede così dal sacrificio di Caino e Abele (cf Gen 4,1-4) a quello di Gedeone (cf Gdc 6,11-24)[14], dal sacrificio di Noè (cf Gen 9,1-17) a quello di Abramo (cf Gen 15,1-21)[15], dalla moltiplicazione dei pani (cf Gv 6,1-15 e paralleli)[16] all'ultima cena di Gesù che illumina il valore sacrificale della crocifissione[17] e che, a loro volta, rappresentano il livello più alto della visione sacrificale nella Bibbia.

L'ordito delle raffigurazioni sacrificali sembrano comunicare ai visitatori che, nel sacrificio di Cristo si adempiono, in pienezza, tutti i sacrifici dell'Antico Testamento. Forse è bene ricordare che ci troviamo in un periodo, lìquello Medievale, in cui si assiste ai grandi dibattiti teologici sul valore reale e sacrificale dell'eucaristia.

3. Quando e come visitare Sant'Angelo?

Nella scelta dei pannelli è possibile stabilire, a nostro avviso, anche il periodo privilegiato durante il quale visitare la nostra Basilica; per cogliere tale dimensione è necessario aver presente il ciclo liturgico della Parola di Dio.

Di fatto, non è un caso che occupino un posto di rilievo, nella navata centrale parete sinistra, il battesimo di Gesù (cf Mc 1,9-11), le tre raffigurazioni delle tentazioni di Gesù (cf Lc 4,1-13), la trasfigurazione (cf Lc 9,28-36), gli episodi pasquali dei discepoli di Emmaus (cf Lc 24,13-35) e l'apparizione del Cristo al lago (cf Gv 21,1-23), mentre nella parete destra della stessa navata siano rappresentate la samaritana (cf Gv 4,1-42), il cieco nato (cf Gv 9,1-41) e la risurrezione di Lazzaro (cf Gv 11,1-44). Durante le domeniche di Quaresima, corrispondenti al periodo privilegiato per l'iniziazione cristiana al battesimo, alla cresima e all'eucaristia, e di Pasqua, durante le quali occupano un posto privilegiato le catechesi mistagogiche o di approfondimento sul mistero cristiano, questi eventi non sono soltanto ascoltati ma diventano visibili per coloro che li celebrano.

Oggi siamo abituati a visitare Sant'Angelo quando siamo liberi da impegni: dovremmo visitarla soprattutto durante le domeniche di Quaresima, sino al Triduo pasquale, e in quelle del tempo di Pasqua, perché è soprattutto per questo periodo centrale dell'anno liturgico che è stata istoriata per educare alla fede e all'iniziazione cristiana i credenti.

Per questo, se non si può negare che gli episodi ritratti si riferiscano a tutti i vangeli, tenendo fede alla loro rappresentazione simbolica nell'abside della navata centrale, la magna pars di Sant'Angelo è occupata dal vangelo di Giovanni: quello più simbolico che educa i credenti a non leggere i bruta facta bensì a cogliere, in e per mezzo di essi, l'interpellante vicenda della storia della salvezza.

Di fatto, soltanto il quarto vangelo racconta gli episodi delle nozze di Cana, della samaritana al pozzo, del cieco nato, della risurrezione di Lazzaro, della lavanda dei piedi dei discepoli durante l'ultima cena, e della pesca miracolosa dopo la Pasqua. D'altro canto, abbiamo già evidenziato le connessioni tra la crocifissione di Sant'Angelo e la narrazione della morte di Gesù soprattutto in base alla narrazione del vangelo di Giovanni.

Un altro motivo dominante che attraversa e accomuna tutte le raffigurazioni di Sant'Angelo è quello degli “occhi”: si può notare come gli occhi di tutti i personaggi risultino sproporzionati rispetto alle altre parti del corpo. Sono occhi sereni, come quelli del crocifisso, ed occhi piangenti, come quelli delle pie donne, durante la passione; occhi interroganti, come quelli della samaritana ed occhi che riacquistano la vista, come quelli del cieco di Gerico; occhi socchiusi, come quelli dei discepoli nell'orto degli Ulivi, e spalancati come quelli di quanti partecipano alla risurrezione di Lazzaro.

L'insistenza sul motivo degli occhi segnala lo stupore o la meraviglia con cui si dovrebbe partecipare all'itinerario biblico di Sant'Angelo: è con gli occhi della fede che il filo conduttore del sacrificio eucaristico dovrebbe essere contemplato, altrimenti non diventa comprensibile alcuna transustanziazione o trasformazione del pane nel corpo di Gesù Cristo.

4. Conclusione

Una teologia simbolica è quella che l'ordito pittorico di Sant'Angelo propone ai visitatori: dove il simbolismo non astrae dalle vicende umane ma si va delineando attraverso la storia della salvezza. La teologia simbolica riscontra il suo centro focale nell'eucaristia, intesa come offerta di Cristo per noi, che illumina il valore sacrificale della morte di Gesù in croce.

D'altra parte, la stessa eucaristia, contemplata e vissuta attraverso la carità per gli altri, rappresenta il viatico o il pane del cammino di cui ci si dovrebbe nutrire, durante l'esistenza terrena per non essere collocati tra i malvagi bensì fra i giusti del giudizio finale della storia. Qui, troviamo la chiave di volta del ciclo pittorico di Sant'Angelo: la Parola contemplata, diventa pane spezzato per noi ed esige che, a nostra volta, diventiamo pane spezzato nel servizio per il prossimo.

L'intenzione ultima del ciclo consiste nell'educare alla fede, soprattutto attraverso l'ingresso strabiliante degli occhi, nel mistero: un mistero che ci unisce non alla divinità, sino a confonderci con essa, come nei culti misterici di Mitra o del mondo antico, bensì che ci unisce al corpo di Cristo e alla sua morte e risurrezione. La storia della salvezza, nella sua fondamentale unità dei due Testamenti, Antico e Nuovo, svolge il ruolo principale rispetto all'immersione dei credenti nei divini misteri.

Una catechesi in atto o visibile è quella di Sant'Angelo: e una catechesi per l'iniziazione e la mistagogia cristiana che riscontrano nell'eucaristia e nel battesimo i loro cardini principali. In tale istanza cogliamo la grande attualità del ciclo pittorico: i principali e recenti documenti della Chiesa italiana insistono, in particolar modo sulla "nuova evangelizzazione", attraverso l'iniziazione cristiana o la mistagogia. Forse si pretende troppo se si dà appuntamento a Sant'Angelo durante il periodo quaresimale e pasquale: non abbiamo molto tempo! Tuttavia, quando ci è dato di visitarla, non dimentichiamo che è per noi ed a noi, alla nostra fede e al senso dell'esistenza umana che la Basilica intende comunicare i misteri divini e, in particolare, il valore sacrificale e reale della morte e risurrezione di Gesù Cristo per noi.

Note al testo

[1] Per le questioni storiche e architettoniche della Basilica di Sant'Angelo in Formis sono molto utili gli Atti della I giornata di Studi 2001, raccolti da A. Ianniello (a cura di), Misteri e presenze. La civiltà di Sant'Angelo in Formis, Luciano, Napoli 2002. Per un'introduzione generale cf il bel volume con diverse riproduzioni pittoriche ad opera di G.M. Jacobitti-S. Abita, La Basilica benedettina di Sant'Angelo in Formis,ESI, Napoli 1992.

[2] Cf G. De Jerphanion, Le cycle iconographique de Sant'Angelo in Formis,in Le voix des Monuments,Paris 1930, 261-280.

[3] Cf V. Bindi, Sant'Angelo in Formis presso Capua e i suoi illustratori,in «Rassegna dell'arte» 17 (1917),12-24.

[4] Sull'ordito pittorico di Sant'Angelo in Formis resta valido e istruttivo il bel contributo di J. Wettstein, Sant'Angelo in Formis et la peinture médiévale en Campanie,Droz, Genéve 1960.

[5] Sull'angelologia di Sant'Angelo cf il contributo di F. Duonnolo, S. Angelo in Formis. Il tempio...la basilica...gli angeli. La Bibbia che parla attraverso le immagini,Lavieri, Aversa 2004.

[6] Cf C. Matarazzo, Il problema degli angeli e dei demoni nell'orizzonte filosofico-teologico del Medioevo. A margine del ciclo pittorico di Sant'Angelo in Formis,in A. Ianniello (a cura di), Misteri e presenze,cit., 69-104.

[7] Per un'introduzione all'ermeneutica biblica resta sempre valido il contributo di L. Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione,Paideia, Brescia 1970; cf anche H. De Lubac, La Sacra Scrittura nella Tradizione,Morcelliana, Brescia 1969.

[8] Riportato in Alonso Schökel, Il dinamismo della tradizione, cit., 23, insieme all'altro assioma sui quattro sensi: «Historia est fundamentum, allegoria aedificat fidem, tropologia aedificat mores, anagogia aedificat spem».

[9] Parete di fondo lato destro.

[10] Navata laterale: parete sinistra.

[11] Parete di fondo, lato destro.

[12] Navata laterale, parete sinistra.

[13] Navata laterale, parete sinistra.

[14] Parete di fondo della navata laterale, lato destro.

[15] Navata laterale, parete sinistra.

[16] Navata centrale, parete sinistra.

[17] Navata centrale parete destra.

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:11 pm | | Default

Perché Gesù non ha scritto, di Nello Vian

Riprendiamo da  N. Vian, Il cardinale che sapeva leggere. Storie di libri e scritture, Genova, Marietti, 2017, pp. 11-12, un articolo di Nello Vian. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni e in particolare Gesù non ha scritto niente, perché è Lui la pienezza della rivelazione, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

Pur predicando, operando, disseminando i miracoli, Gesù avrebbe potuto affidare al papiro i punti essenziali della sua dottrina, lasciare una raccolta scritta dei suoi pensieri. Scrivere non è altro che una forma d’azione. Gesù non l’ha fatto: non ha scritto che una volta sola, ma sulla sabbia (e il senso del gesto, qualunque ne sia l’interpretazione, rimane chiaramente simbolico nel contesto del fatto: la traduzione davanti a lui della donna adultera). Si sarebbe quasi tentati di dire che il carattere della sua missione gl’interdiceva l’attività d’autore, perché egli fosse esclusivamente un’autorità.

Cristo non ha voluto che gli uomini fossero conquistati più dalla sua opera scritta che dalla sua persona, come avviene per l’eredità letteraria lasciata da uno scrittore. L’opera di Platone importa più che Platone, ma di Socrate che non ha scritto attira unicamente la sua persona. Gesù non ha voluto che tra lui e i discepoli si ponesse lo schermo, anche trasparente, dell’opera scritta.

Fedele al metodo dell’insegnamento orale tradizionale del suo popolo, e del quale anche Platone nel capitolo 61 del Fedro notava la superiorità, egli ha gettato il seme della sua dottrina non sulla carta, ma in spiriti e cuori vivi, dove il suo amore lo avrebbe fatto germogliare e fruttificare.

Questa prima ragione non è la sola che possa fare intendere perché Gesù non ha scritto. Egli non era un filosofo che dopo anni di riflessione proponga una bella teoria: era la giustizia, la verità, la potenza viventi, «via, verità e vita». Era il profeta, potente non solo in parole, ma anche, e più ancora, in opere: sulla materia e lo spirito, sui corpi che guariva e le anime che convertiva. Non si limitava a insegnare, poiché alle grandi lezioni univa gli atti portentosi. La sua vita era il dogma in atto. Ogni suo comportamento, il minimo dei suoi gesti era un segno, un simbolo del divino. Spettava ai discepoli testimoniare la gloria del Maestro, narrare le sue grandi opere, e a un tempo esprimere l’impressione che essi per primi ne avevano ricevuta. In altri termini, erano i discepoli che dovevano scrivere, consegnare alla carta questa storia.

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:10 pm | | Default
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L’Islam non va criticato per la violenza. Il suo vero problema è non avere esperienza di inter-cultura. La sua crisi evidente dipende dalla paura, che invece potrebbe essere vinta, di confrontarsi con la libera ricerca storico-teologica e con una nuova visione della donna e della sessualità, di Giovanni Amico

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Per approfondimenti, cfr. le sezione Islam e Dialogo fra le religioni e laicità.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

La crisi dell’Islam mondiale, crisi non limitata ad un solo paese, bensì diffusa su tutto il globo, dipende dalla cultura. Hanno ragione quelli che dicono che il primo problema dell’Islam non è la violenza. Hanno ragione quelli che dicono che noi non sappiamo ancora oggi come potrebbe essere un Islam che rinunciasse a voler controllare con metodi “impositivi” la società.

Perché il vero problema è quello culturale, risolto il quale sarebbe risolto automaticamente anche quello della volenza.

Anzi si deve dire che il problema dell’Islam odierno, in tutta la terra, è quello dell’inter-cultura[1]. Mentre altre religioni, come il cristianesimo, hanno una grande tradizione di inter-cultura, come la laicità ha una sua tradizione di inter-cultura (ovviamente cristianesimo e laicità sono gli ambiti in cui è maturata  la prospettiva interculturale fin qui sconosciuta ad altri mondi e, quindi, per essi l’inter-cultura è una questione reciproca!) l’Islam ha esperienze molto limitate di inter-cultura, cioè di incontro fra culture parimenti libere e in dialogo vivo e pubblico. Le massime aperture in merito si sono avuta nella Turchia laica nata con la fine dell'impero ottomano e l'abolizione del califfato, come, in maniera diversa, in alcuni paesi del nord-Africa come il Marocco, l'Algeria e la Tunisia (ma ovviamente anche nell'Iran pre-rivoluzionario), ma sempre a partire da spinte laiche e, soprattutto, senza una riflessione ad hoc degli imam che riconoscessero la presenza di un pensiero ateo o di altra religione come paritariamente legittimo e, quindi, libero di esprimersi nel pubblico dibattito con la possibiltà pubblica di cambiare area culturale di riferimento in merito).

L’Islam conosce certo la multi-cultura, cioè ha esperienza di stati a maggioranza musulmana dove alle minoranze viene concesso di sopravvivere in quartieri o edifici di culto o laici riservati, all’interno dei quali possono vigere regole diverse di vita e comportamenti altri, purché essi non divengano pubblici e purché nessun musulmano si adegui alle culture di minoranza, ad esempio divenendo pubblicamente ateo o cristiano[2].

Da quando è minoranza in uno stato laico l’Islam ha una certa esperienza nel creare quartieri “di musulmani” all’interno dei quali vigono le regole dell’Islam tradizionale, mentre al di fuori di quei luoghi si osservano i modi di vivere dei paesi stessi.

Ma oggi questo è insufficiente ed è qui l’origine della crisi. Appare, infatti, oggi subito evidente che il nuovo problema dell’Islam è il rapporto con la laicità e più ancora con il laicismo. Il problema è se sia ammessa una visione della libertà della donna diversa da quella tradizionale, se esista una libertà dinanzi all’emergere pubblico dell’omosessualità, se sia legittimo uno studio critico ed un conseguente dibattito pubblico sulla religione, affrontando la critica moderna che pretende che alcuni fatti asseriti dai testi sacri siano leggendari e non storicamente avvenuti. Vivere in una società inter-culturale vuol dire accettare che i propri figli convivano con ragazzi che criticano fortemente la religione stessa o più ancora irridono la fede e si dichiarano atei.

A questo l’Islam non è preparato. In un mondo non globalizzato, l’inter-cultura non era una necessità popolare e quotidiana. Nei paesi a maggioranza islamica si viveva con determinati valori e nessuna famiglia musulmana che aveva contatti abituali con famiglie che avessero modalità di vivere diverse - atee o cristiane - correva il rischio che i propri figli venissero attratti pubblicamente in tali diverse visioni di vita al punto da poter divenire pubblicamente atei o cristiani: ognuno tornava, infatti, poi a casa sua e nella casa vigevano i modi pubblici abituali di vedere la vita e la cultura. Ma oggi, con la globalizzazione, l'inter-cultura porta le persone a voler assumere pubblicamente posizioni diverse da quelle di partenza e la multi-cultura non basta più.

Una famiglia musulmana praticante, ad esempio, non è oggi preparata dai suoi maestri religiosi ad acconsentire a che una propria figlia parli da sola con un professore ateo e ci divenga amica. Non è invitata dai suoi insegnamenti religiosi a discutere in pubblico di sessualità, contestando alcune tradizioni antiche. Si noti bene: non si sta affermando che questo non avvenga in taluni casi, ma si intende invece evidenziare che questo avviene in sordina, senza un incoraggiamento pubblico religioso a dibattere in chiave inter-culturale, maschi e femmine insieme.

Il problema è che nel mondo globalizzato non è più possibile evitare l’inter-cultura. Poiché la cultura ufficiale delle moschee non invita ad una inter-cultura fra pari, dove le diverse tesi si misurino liberamente e senza tabù, si è creata un’“ipocrisia” di fondo nel mondo musulmano – non si prenda il termine in senso moralistico, bensì in senso sociologico – per cui l’Islam sa che una hostess di una compagnia della penisola arabica cambia modo di vestire non appena giunge in una capitale non islamica, o che i propri figli si abituano a vedere e ascoltare su YouTube musica o sesso, ma questo non viene dichiarato in pubblico ed è come se non esistesse: l’inter-cultura è, insomma, un dato di fatto per molti musulmani, ma non una possibilità pubblica di dialogo incoraggiata a partire dalla tradizione religiosa propria, come conforme alla fede.

Si potrebbe forse dire che le più difficili questioni attuali che l’Islam sta affrontando – e che si nascondono dietro la violenza dei terroristi – sono quella del sesso e quella della donna: perché il sesso è cultura ed è linguaggio.

La questione inter-culturale, anzi, è diventata in un mondo globalizzato non più una questione che riguarda innanzitutto i migranti che vengono ad abitare in culture atee e laiche con minoranze cristiane, bensì una questione interna agli stessi paesi a maggioranza musulmana, interna al rapporto fra sunniti e sciiti, interna al rapporto che musulmani più fedeli alle regole tradizionali si trovano ad avere con vicini di casa musulmani più "laici" che non hanno problemi a che i propri figli vivano una vita più liberta, almeno nell'uso di Internet e nell'interno delle case. Da qui la tentazione dell'uso della violenza da parte di coloro che non sono disposti a vedere trasformarsi le regole tradizionali di vita che si ritiene siano tutt'uno con la fede stessa - non si dimentichi mai, infatti, che la violenza degli islamisti non si dirige innanzitutto contro i paesi occidentali, bensì primariamente contro altri musulmani più "laici". 

Qual è allora il problema? L’islam sta scoprendo  che per vivere l’inter-cultura deve permettere un libero dialogo ed un libero incontro con chi ha visioni diverse da quella islamica della religione, della sessualità, della donna, della musica, della cultura in genere.

Quella che è la non piccola fetta fondamentalista dell’Islam – forse il 30% dei musulmani, con divisioni interne enormi fra gruppo e gruppo  – rifiuta a priori la possibilità stessa di un'inter-cultura. Ritiene demoniaca la laicità. Questo 30% di musulmani avversi all’inter-cultura sono il serbatoio dal quale provengono i terroristi (che sono ovviamente meno di quel 30%).

Una gran parte dei musulmani, invece – forse il 40%? –, vive in privato una piena inter-cultura, ma non avrebbe mai, ad oggi, il coraggio di dichiararlo apertamente, perché la pressione sociale è fortissima e non è maturata ancora l’abitudine che si dichiari in pubblico che le regole passate dell’Islam non valgano più nel mondo di oggi. Tali regole non si osservano più, ma è proibito dire che lo si fa. Ma fra questi iniziano, invece, manifestazioni pubbliche in favore di una piena libertà di espressione in materia religiosa, di una piena libertà di divenire atei o anche di battezzarsi - si noti bene che mai si deve confondere la libertà con l'approvazione piena di un comportamento, poiché è evidente che per un credente non sarà una gioia l'eventuale ateismo del figlio ma egli, per amore, accetterà che il figlio dichiari pubblicamente il suo pensiero. Il video pubblicitario della compagnia telefonica Zain del Bahrain rappresenta un tentativo nella direzione di coniugare insieme fede islamica e maturazione nella libertà e nella cultura, anche se non si accenna a questioni inter-culturali. 

Un altro 30% (anche qui il condizionale è d'obbligo) non si pone assolutamente il problema e, pur non correndo il rischio di commettere violenza contro terzi, rifiuterebbe a priori che la propria figlia musulmana sposi un ateo o non circoncida i suoi figli maschi o inizi a frequentare un prete con l’idea remota di battezzarsi o si specializzi in uno studio scientifico-critico delle fonti coraniche alla maniera europea.

Proprio il rischio del passaggio a forme di vita atee è il grande problema e la grande paura. I musulmani avvertono chiaramente che se accettassero pienamente l’inter-cultura e, quindi, il dialogo dei loro figli con i figli di famiglie "laiche" non musulmane, molti ragazzi potrebbero chiedere di abbandonare l’islam o almeno alcuni aspetti fin qui decisivi di viverlo, soprattutto in ambito di sessualità e di libera discussione della verità religiosa (c’è chi afferma, ad esempio, che in Egitto il 20% almeno della popolazione sia atea senza possibilità di dichiararlo in pubblico).

Per questo la difficoltà da parte islamica di aprirsi all’inter-cultura è reale, perché molti capi religiosi si rendono conto che una volta concessa una libertà di “cambiare” alle giovani generazioni non sarebbe più sicuro dove esse potrebbero giungere.

La violenza dei fondamentalisti è il segno di questa crisi dell’Islam in ogni angolo della terra, indipendentemente quindi da questioni economiche, storiche o geo-politiche: è la più grande crisi che l’Islam abbia mai attraversato nella sua storia ed è generata dal confronto con la laicità. Dinanzi a tale crisi palpabile, piuttosto che affrontare il problema portandolo alla luce e aprendo una discussione su di esso, si preferisce da parte dei terroristi uccidere e, con il terrore, distogliere lo sguardo dalla crisi in atto, che potrebbe invece essere un’opportunità di crescita per l’Islam.

Ogni persona che voglia, dall’interno dell’Islam come dall’esterno, contribuire ad una maturazione dell’Islam stesso perché si integri pienamente con la modernità deve invece continuamente riportare il discorso sul piano culturale e inter-culturale.

Le grandi questioni che possono portare l’Islam a divenire oggi una religione di pace (non importa qui disquisire del passato, ma delle possibilità del presente) sono queste: come permettere in un mondo globalizzato a chi è musulmano di vivere la propria fede, chiedendo al contempo a lui di lasciare liberi i suoi figli e le sue figlie di maturare in un discorso interculturale che comprenda una diversa visione della donna, una nuova possibilità di critica a partire da studi storici sulle fonti, un nuovo impulso verso studi filosofici e teologici che siano liberi verso le affermazioni religiose del passato? Come è possibile vivere questo non nei grandi convegni teologici, ma negli incontri quotidiani e nell’educazione dei figli?

Ad esempio, se io fossi un papà musulmano e mia figlia diciottenne volesse andare a ripassare la lezione di filosofia su Marx, Freud e Nietzsche da sola e senza velo a casa di un compagno di classe maschio che per di più legge abitualmente Charlie Hebdo con le sue vignette anti-religiose, questo sarebbe possibile al punto che lo potrei dichiarare tranquillamente in una riunione in moschea, condividendo i miei sentimenti di padre? E se mia figlia si innamorasse a 18 anni di un ragazzo cristiano e cominciasse ad andare con lui in parrocchia o si innamorasse di un ragazzo ateo ed iniziasse a partecipare a manifestazioni politiche femministe, potrei io, padre musulmano, parlarne tranquillamente in moschea, confrontandomi serenamente con altri padri musulmani?  

Ma questi esempio sono ancora troppo "occidentali". Ci si deve rendere conto che esistono ormai questioni che sono interne ai paesi musulmani stessi. Se una famiglia iraniana sciita non volesse vivere il Ramadan le sarebbe concesso di non farlo in patria? Se una colf filippina o colombiana lavoratrice in Arabia Saudita volesse pregare in arabo il rosario o leggere il Vangelo e parlarne con amiche musulmane potrebbe farlo? Se un professore universitario pakistano volesse organizzare un cineforum in cui vedere insieme il Gesù di Nazaret di Zeffirelli per dibatterne potrebbe farlo? Se un gruppo di giovani del Kuwait o del Qatar volesse costituire un gruppo di musica rock potrebbero farlo? Tutto questo potrebbe avvenire pubblicamente, come avviene già nel silenzio delle case?     

Si tratta insomma di capire se è possibile pensare ad una riforma popolare dell’Islam, riforma che è ineludibile nei fatti. Non ha alcun senso oggi discettare teoricamente se l’islam sia violento in sé – così come è altrettanto assurdo difenderlo come pacifico di per sé. Quello che si tratta di verificare è se è possibile oggi, in questo contesto, un’evoluzione dell’Islam tradizionale e in quali direzioni, individuando vie percorribili per l’oggi. La grande questione è se oggi i musulmani intendono scegliere la via della cultura e dell’inter-cultura nei paesi di origine, lasciando così ai loro figli una reale possibilità di “cambiare” e di rinnovare l’Islam dall’interno.

I laici ed i cristiani d’Europa, dal canto loro, hanno un compito prezioso perché sono chiamati a mostrare che una visione diversa della cultura e dell’inter-cultura, della sessualità e della donna, di una libera ricerca critica sulle fonti della religione di per sé non implica la fine della fede, bensì una sua purificazione.

I “laici” possono aiutare l’evoluzione dell’Islam mostrando  che essi non hanno mai inteso distruggere il cristianesimo e nemmeno le altre fedi e che non ritengono i monoteismi di per sé più volenti di visioni laiche della vita. Se riusciranno a mostrare che essi hanno stima delle religioni ed intendono, da “laici”, semplicemente accompagnare con stima anche i credenti musulmani, come hanno già accompagnato con stima i cristiani, nell’incontrarsi in una visione inter-culturale.

I cristiani, dal canto loro, sono chiamati a testimoniare come il rapporto con la modernità non abbia dissolto la possibilità di vivere  e di pensare da credenti, ma anzi abbia purificato la fede da tanti atteggiamenti che sembravano indispensabili ed erano invece storicamente datati.   

Note al testo

[1] Per la differenza importantissima fra multi-cultura e inter-cultura, rimando a Per una prospettiva “inter-culturale”, di Andrea Lonardo.

[2] Nonostante le false affermazioni circolanti, ad esempi, sull’Andalusia storica, è evidente che lì le culture di minoranza, come quella ebraica e cristiana non avevano pari diritti dei musulmani, si pensi solo al fatto che le famose moschee di Toledo e Cordoba vennero costruite solo dopo la Reconquista cattolica; cfr. su questo Andalusia: dal mito alla storia. Appunti per un accostamento realistico a al-Andalus, di Andrea Lonardo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:09 pm | | Default

In nome del Papa Re e la vera storia della morte di Monti e Tognetti pentiti dell’eccidio commesso (dalla relazione dei fatti pubblicata da La Civiltà Cattolica)

Riprendiamo da La Civiltà Cattolica, Serie VII, vol. IV, fasc. 450, 1868, pp. 723-741 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

N.B. de Gli scritti

Pubblichiamo questo resoconto scritto dai gesuiti de La Civiltà cattolica degli ultimi giorni di vita di Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti, gli ultimi due condannati a morte nello Stato Pontificio perché ognuno possa confrontare questa versione con la diversa visione dei fatti presentata dal film di Luigi Magni, In nome del Papa Re, prodotto nel 1977, che si basò, invece, su di un romanzo di taglio anti-clericale scritto da Gaetano Sanvittore nel 1869. Anche il testo de La Civiltà cattolica rispecchia chiaramente una ben determinata visione storica, ma, nonostante questa prospettiva, è facile individuare in esso numerosi dati storici che sono chiaramente contraffatti dal film di Luigi Magni.

Relazione degli ultimi giorni di Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti giustiziati in Roma il dì 24 novembre 1868

1. È di publica e universale notorietà, che nella sera del 22 Ottobre 1867 in Roma fu minata e distrutta gran parte di una caserma detta di Serristori, alloggio di un corpo di Zuavi pontificii. La mina ebbe per effetto la morte di venticinque di quei militari, e di due borghesi; e fu da benedire la divina Provvidenza, la quale dispose, che la casuale sortita d'una compagnia salvasse la massima parte di quel fiore di gioventù destinato all'eccidio da uomini malvagi. Di questo e di altri simili misfatti era motore e anima Francesco Cucchi, deputato al Parlamento di Firenze, insieme con più altri che, dopo lunga dimora in Roma, colla fuga scamparono al rigore delle leggi: ma Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, che tra i colpevoli erano dei più operosi ed accaniti, caddero in potere della giustizia, e furono giudicati, siccome agenti principali, a quella pena, che ne’ tribunali romani dicesi morte di esemplarità, ed è la decollazione con pubblica infamia, onde si atterriscano i popoli dal delitto.

Giuseppe Monti era in età di anni 33, ammogliato, di professione sovrastante muratore. Fu convinto da prima, e poi da sè diedesi reo confesso, di avere di sua mano messo fuoco ai barili di polvere collocati in una stanza terrena al di sotto della caserma. Gaetano Tognetti, in età di 25 anni (così affermò nel testamento, essendosi prima detto di anni 23), celibe, garzone muratore, fu compagno indivisibile del precedente, e complice fin all'ultimo. Di questo consta pei processi formati e messi a stampa, e dalla sentenza renduta dal tribunale supremo della sagra Consulta, nella causa Romana di lesa maestà in primo grado, renduta il giorno 16 di Ottobre 1868, ed eseguita il 24 Novembre susseguente.

Non fu uomo alcuno, che animo e costume umano serbasse, il quale non inorridisse di sì atroce assassinamento. Nel popolo poi di Roma, più vivamente oltraggiato nell'onore e nella vita di tanti suoi figli, e nella desolazione di tante famiglie, regnava impazienza somma di vedere balenare la giusta vendetta delle leggi; e come avviene nelle moltitudini, che male intendono le lunghe e gravi solennità dovute ai giudizii capitali, già ne andava attorno scandalo e mormorazione. Fu scritto per contrario, che si facessero pratiche da uomini di Stato presso la Santa Sede, affine di ottenere la clemenza del Principe in favore degli accusati.

Ma il vero si fu, che né pendente il giudizio, né dopo la sentenza, niun diplomatico si contaminò in causa sì obbrobriosa: niuno chiese la grazia del Monti e del Tognetti, più che non si chiedesse pei falsi patriotti feniani alla Regina d'Inghilterra, o pei falsi patriotti Orsini e compagni all'Imperatore dei Francesi. Lo stesso Governo di Firenze, che alcuni dissero, avere accolto in sua tutela i condannati, o non volle o non potè trovare alcun uomo pubblico, il quale togliesse sopra di sé di avvocare presso il Sovrano di Roma in pro degli assassini, o di scusarne o attenuarne le reità. È falso, anzi ridicolo a pensare, che il Reggimento dei Zuavi formasse istanza contro alla vita degli assassini dei loro camerati: gran parte dei loro ufficiali sono cavalieri, e molti ancora dei sottoufficiali e comuni. Nello stesso modo è falso ancora che i Zuavi si concertassero tra loro, e porgessero una supplica al Santo Padre per sottrarli alla morte.

Ma se la civile società fu costretta a rigettare e recidere colla spada della legge due de' suoi membri; la Religione, la cui carità si informa della divina e infinita, li raccolse tra le braccia; e porgendosi essi di buon grado alla sua materna pietà, ne furono per guisa rinobilitati, che di proscritti ed esecrati dalla città umana, diventarono degni cittadini, per quanto lice sperare, della patria celeste. Da lungo tempo Roma non avea veduto due giustiziati lasciare dopo di sè tali e tante prove di sincero ravvedimento, e così preclari esempii di virtù cristiana. Ne furono testimonii, o oculari o auricolari, quanti v’ha abitanti di questa grande metropoli, e più specialmente i soprastanti e i custodi delle Carceri Nuove, i varii sacerdoti che visitavano i condannati a fine di aiutarli dell'anima, i gentiluomini dell'Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato, i militari intervenuti all'esecuzione, e il popolo spettatore, che questa volta fu oltre il solito numeroso, e in singolare guisa commosso e compunto.

2. Comunicatasi la sentenza capitale agli inquisiti, Monti e Tognetti, loro non rimase quaggiù altra speranza, fuorchè quella di venire graziati della vita per clemenza sovrana. Ma l'autorità ecclesiastica provvide incontanente per ogni evento, quanto era da sè, alla salute eterna di quegli sventurati: e il provvedimento fu incaricare due religiosi, di zelo sperimentato, di prendere specialissima cura, ciascuno di uno dei due. Iscelti furono un P. Passionista e un P. Gesuita. Il giorno 27 Ottobre il P. Passionista cominciò le sue visite ad ambedue i condannati, nelle Carceri Nuove; e fece ai segretanti, tanto delle segrete inferiori, ov'era Gaetano Tognetti, quanto alle superiori, ov'era Giuseppe Monti, un discorso sulla Bontà di Dio nell’accogliere fra le braccia della sua misericordia i poveri peccatori pentiti. Nei giorni seguenti prese a dare gli esercizii spirituali per tutti coloro che erano nelle segrete. L’esito fu che molti si giovarono della grazia offerta; e l'ultimo giorno tra i partecipanti alla sacra mensa vi furono pure i due condannati a morte, che già sapevano la loro condanna. Era nel Tognetti (a detta di quanti lo trattarono durante questo tempo) un buon fondo di religione, e nella estremità in cui vedevasi, ricorreva alle pratiche di pietà, ed era tutto in divozione alla Vergine Maria, rifugio degl’infelici. Ogni sera recitava il rosario, e invitava a recitarlo con sè anche gli altri cinque compagni di sventura dannati a varie pene, che dimoravano nella stessa segreta. Quasi tutta la giornata spendeva sul libro delle Massime eterne, e in altre letture pie: nello spazio di venticinque giorni lesse tutta la vita di S. Paolo della Croce.

Il sacerdote cercava di disporlo alla rassegnazione per ogni caso, parlandogli molto dell'abbandono nelle braccia di Gesù Cristo, e recandogli esempii e sentenze per indurlo a fare il sacrifizio dell'onore e della vita.

Pure poco guadagnava, e il condannato lusingavasi sempre di poter essere graziato. Però il sacerdote, il giorno 20 di Novembre, non vedendo apparir novità favorevole, gli confessò che veramente credeva oggimai restare poco lume di speranza. Il Tognetti allora dètte nelle smanie e proruppe un tratto in aspre parole: ma fu uno sfogo passeggero; e subito riconoscendo il suo torto, rientrò in migliori sentimenti, chiese scusa del suo eccesso, e pregò il Padre di volerlo compatire, dicendo che la passione era quella che così l'aveva fatta straparlare.

3. Appressandosi l'esecuzione, il sacerdote n’ebbe secreto avviso, affinché, senza darne mostra, disponesse il condannato al vicino trapasso. E questo un delicato temperamento e veramente cristiano, usato, affinché né l'uomo agonizzi soverchiamente nella espettazione del supplizio inevitabile, né il cristiano sia mandato al tribunale di Dio senza maturo e riposato apparecchio. Quella empia filantropia, che oggidì prevale incerti paesi, dove un condannato vien preso improvviso e rapito al supplizio, come bestia all’ammazzatoio, in Roma solleverebbe universale e giusta esecrazione.

Per tanto presentatosi al Tognetti, a mezza mattina, il buon religioso, non poté tanto dissimulare che quegli non gli leggesse in volto una disusata turbazione.

- Eh, P. Giuliano, gli disse, che notizia mi porta?

- Ti porto, Gaetano mio, i saluti e le benedizioni de’ tuoi poveri genitori, i quali ieri sera sono venuti a trovarmi al Ritiro dei santi Giovanni e Paolo.         

- Come stanno?

- Eh! lo lascio considerare a te: afflitti e sconsolati, all’ultimo segno.

- Ma dunque non v' è speranza affatto?

- Figlio mio, non so che cosa dirti. Solo ti dico, che preghi assai, e che ti cerchi rifugio nelle Piaghe di Gesù Crocifisso... io presto ritornerò e ti recherò qualche notizia certa.

Così disse il ministro di Dio, e uscì, in grande apprensione, non forse il povero giovane, in vedersi poi alla sera tardi, cioè otto ore prima della morte, tradurre in conforteria, non avesse a rompere in escandescenze. Ma non fu vero. Venuti i carcerieri ad ammanettarlo, dormiva profondamente, e si destò in quella che gli mettevano le manette ai polsi.

Diede un grido e disse: «Non mi fate male; che non mi muovo. Già lo so, sognavo che ero moribondo, e che il padre Giuliano mi raccomandava l'anima, e mi dava l'assoluzione... Sia fatta la santissima volontà di Dio!... Andiamo.»

Lettagli la sentenza, e inteso della esecuzione per la mattina seguente, si dolse, senza amarezza, che mentre i caporioni della rivoluzione erano campati, toccasse a lui solo pagarne la pena: ma subito si rassegnò. Fu rimesso alle mani della Compagnia della Misericordia.

Avevano i Confratelli disposta ogni cosa nella conforteria delle Carceri Nuove. Il Tognetti colà condotto, dopo la mezza notte bramò riconfessarsi, e si trattenne lungamente col confessore. Dopo il sacramento di perdono dimorandosi tuttavia a ragionare col sacerdote, uscì in queste precise parole:

- P. Giuliano, io mi sento nel cuore qualche cosa che non so che cosa sia.

- Di pure, Tognetti mio, che cosa senti di nuovo.

- Mi sento nel cuore una quiete, una pace, una contentezza, che solo un'altra volta mi pare averla provata così: e fu agli esercizii che feci a Ponte Rotto. (Luogo pio, ove moltissimi Romani, specialmente del popolo, si ritirano in dati tempi a fare gli esercizii spirituali, e massime i giovanetti, per apparecchiarsi alla prima Comunione.) È una contentezza tale, che non la so spiegare ... e pure devo andare alla morte: ma che sarà questa cosa?

- Gaetano mio, rispose il religioso, questa non è forza né virtù nostra, ma è la grazia di Gesù Cristo; che vuole trionfare sopra di te e della natura: è il Signore, che quando con una mano mortifica, sa con l'altra vivificare e consolare. Ringrazia di cuore il Signore, che si mostra così buono con te.

Fu condotto poscia nella prossima sala per fare quelle disposizioni testamentarie che volesse. Il poveretto non aveva altro di cui testare, che alcuni cenci, i quali lasciò pei poveri; e 22 soldi, che si trovava in tasca, e consegnò al Provveditore della Confraternita, per una Messa in suffragio delle Anime del purgatorio. Con questa occasione si dichiarò altamente pentito del male fatto, in presenza dei Fratelli testimonii, e insieme manifestò i più belli e cristiani sentimenti, che udir si possano in bocca ad un cristiano, verso i suoi genitori, parenti ed amici.

Ci piace recarne qui alcuni tratti, che leviamo dall'originale, disteso per mano del fratello Provveditore, D. Giovanni de' principi Chigi , faciente le veci di notaio.

«...Disse, si facesse preghiera ai medesimi (parenti) che non si dimentichino di lui e lo benedicano, ed esso non si dimenticherà di loro ... Disse di avere qualche debito, che per la sua miseria non può soddisfare, ma che in compenso di questi si ricorderà di raccomandare i suoi creditori al Signore. Professa di morire da buon cristiano, rassegnato alla volontà di Dio, perdonando al «al suo prossimo qualunque offesa possa egli aver ricevuto, come spera «che il Signore perdoni a lui i suoi peccati. Questo intende che sia il «suo ultimo testamento, che di propria mano firma. (segnato) Gaetano Tognetti.»

Di un altro suo atto, similmente firmato, diremo più sotto.

Volle poi vedere il Capitano delle carceri, signor Alessandro Rosalbi, e tutti i custodi delle segrete e delle comuni, e specialmente i fratelli Angelo e Vincenzo Vinci e Luigi Bergami, i quali con molta umanità avevanlo sempre custodito; e chiese a tutti perdono dei mali esempii dati, e ringrazolli dei buoni trattamenti avuti, e quelli il baciarono.

Gli occhi di ciascuno erano pieni di lagrime di tenerezza. Mandò cercare di Pietro Costa, custode dei cancelli, e di Costantino De Magistri custode del carcere aggiunto: a quest'ultimo fece particolari ringraziamenti dei buoni avvisi datigli, durante la prigionia, e poi alla sua volta gli disse: «Costantino mio, ecco giunta l'ora della mia redenzione: senti, amico, tu hai famiglia, bada alla famiglia tua, a te stesso, abbi il santo timor di Dio, e non ti far confondere dai compagni. Vedi tu, come mi trovo io per essermi fatto confondere? Dillo a tutti, sai, affinchè il mio esempio serva a tanti poveri giovani.» Queste ed altre parole soggiunse, mostrando vivo desiderio, che la propria sventura e il ravvedimento avessero grande pubblicità a bene altrui. Di che sono concordi le testimonianze de' gentiluomini presenti, in ufficio di confratelli, e di quanti altri intervennero.

4. Dopo di che il Tognetti fu condotto alla cappella, ove già trovavasi il Monti. Questi aveva richiesto di vederlo e di abbracciarlo. Ma il Tognetti, memore delle rivelazioni fatte da colui, che a sé erano tornate assai nocive, non seppe trattenersi dal dire a chi l'invitava, che egli avea perdonato di cuore, ma che temeva, la vista di Monti non lo rimescolasse troppo. Rincorollo il confessore, facendogli notare che né Dio né gli uomini l'obbligavano di vedere il Monti: ma che se egli volontariamente lo vedesse e si perdonassero a vicenda, sarebbe prezioso merito aggiunto alla corona del paradiso, e ne avrebbe gusto grande Gesù Cristo.

- Credete proprio, Padre, che darei gusto a Gesù Cristo? ripigliò il Tognetti.

- Non ne dubito: sarebbe un bell'atto di virtù.

- E bene, andiamo. Ditemi tutto quello che ho da fare.

Al suo entrare il Monti levossi in piedi dal seggiolone ove sedeva e gli andò incontro: allora il Tognetti disse queste parole: «Peppe, ecco giunta l'ora della nostra redenzione, e di raccogliere il frutto del Sangue di Gesù Cristo (espressione divenutagli familiare sull'ultimo): tra poco speriamo pei meriti di Gesù Cristo, di trovarci insieme in paradiso.» E ciò detto si abbracciarono e si diedero il bacio del perdono. Se questi sono modi e parole di settario impenitente, noi preghiamo a noi stessi, e a tutti i buoni cristiani di poter parlare in simil guisa, al punto di comparire al tribunale di Dio.

Quindi si posero in ginocchio alla balaustrata, col Crocifisso in mano, che ciascuno aveva ricevuto dal proprio confessore, ed erano tutti e due grandi e divoti. Non si saziavano di stringerli al petto, tanto il Tognetti quanto il Monti, e li coprivano di baci, ricercandone le cinque Piaghe: che era una tenerezza per gli astanti. Ascoltarono così la prima Messa, che fu celebrata per loro; poi una seconda del Cappellano della Confraternita, monsig. Raimondo Pigliacelli, canonico di S. Maria Maggiore, il quale anche disse un acconcio fervorino, per disporli alla santa Comunione, che fu loro amministrata come viatico dell'eternità; e dopo questa assistettero ad una terza ancora, e ad una quarta, in ringraziamento.

In tutto questo tempo il Tognetti altro non fece che pregare. Aveva per sua divozione quel libretto tanto comune in Roma, detto Massime eterne, e ripeteva fervorosamente le belle preghiere che quivi si contengono, e tra le altre le sette offerte del Sangue preziosissimo di N. S. Gesù Cristo, l'Orazione al SS. Crocifisso, l’Orazione alla SS. Vergine Maria, composta dal Ven. Bartolomeo da Saluzzo. Dimandò eziandio la corona, per recitarla ad onore della Madonna, notando egli stesso, che opportunamente correvano quel dì i Misteri dolorosi. Due volte replicò la Via Crucis, sebbene stando al suo posto. A questo modo gli trascorsero le ore, insino al punto che, dovendo oggimai muoversi il tristo convoglio, il sacerdote religioso, suo assistente, gli disse, che lo precedeva, e l’aspetterebbe nella conforteria presso S. Maria in Cosmedin.

Giunto il paziente a questo luogo, vicinissimo alla piazza de’ Cerchi ove si aveva ad eseguire la sentenza, si trattenne in, continue preghiere e giaculatorie, e diceva a mente molte orazioni che sapeva, tramezzandole con un Pater, Ave, Gloria e con una Salve Regina. E il faceva in voce sensibile, il che riempiva di consolazione i sacerdoti circostanti, e quei nobili signori della Confraternita. Avendo fatto pregare il colonnello dei Zuavi di venire a lui, e questi avendolo appagato, il poveroTognetti chiese perdono del suo delitto a lui colonnello dei Zuavi, e in sua persona a tutto il Reggimento. Il che fece con tale modestia e sincerità di espressione, che quel generoso cavaliere ne fu commosso profondamente, e per segno dell'accordato perdono gli rispose dandogli il bramato amplesso di pace, e promettendogli che niuno più teneagli rancore, e che anzi i Zuavi penserebbero a soccorrere la sua povera madre.

Del resto non fu solo il tenente colonnello dei Zuavi che si lasciasse intenerire: l'attitudine del paziente, la sua rassegnazione, il pieno ravvedimento avevano per siffatto modo scancellato in lui il marchio del malfattore micidiale, che ciascuno lo riguardava come un'anima benedetta, nella quale già raggiava l'amicizia di Dio e la speranza della gloria, celestiale: era un commovimento universale. I buoni Confratelli si raccomandavano ognuno in particolare alle sue orazioni, per quell'istante in cui fosse giunto al cospetto di Dio. Lo stesso fece l'egregio religioso che l'assisteva. Egli a tutti rispondeva con voce tranquilla, che sperava di andar salvo pei meriti del Sangue di Gesù Cristo, e che appena giunto in paradiso, si sarebbe ricordato di loro. A questa scena pietosa era presente, per suo dovere, tra i molti altri un Uffiziale superiore dei Gendarmi, e anch'egli si sentì vinto da tale commozione, che si scoperse il capo, e disse al paziente: «Eh Tognetti mio, ricordati pure di me e della mia famiglia» e ciò dicendo lo abbracciò e baciò, e tosto uscì dalla presenza cogli occhi pieni di lagrime.

5. Ma la più tenera scena fu quella che precedette immediatamente il supplizio. Il sacerdote gli fece recitare la professione di fede, e formare altri atti cristiani, convenienti al bisogno, lo assolvette sacramentalmente, e gli applicò la indulgenza papale in articulo mortis, come usasi coi moribondi, gli fece venerare il santo Legno della Croce, e, con esso formò sopra di lui la benedizione: finalmente lo avvertì, che, si armasse più che mai di coraggio e prendesse fiducia nei meriti di Gesù Cristo, e nel patrocinio di Maria santissima.

- Che, è ora? dimandò il paziente.

- Pochi minuti ancora... Adesso viene il ministro di giustizia: posso lasciarlo entrare?

- Sì sì, rispose fermo il Tognetti, venga pure.

Entrò quegli, e nel legarlo diceva: - Non temere, Tognetti, chè non ti stringo: fo lento lento.

- Stringi, pure: non potrai mai stringer tanto, quanto fu stretto Gesù Cristo. Oh! Ha patito tanto Gesù Cristo pei miei peccati: e non potrò patire un poco io, che merito l'inferno? Che è questo in paragone di quello che ha sofferto Gesù Cristo? Fa, fa pure.

In dire questo fu legato. Il Crocifisso gli fu posto in mano, e l'abitino del Carmine, Volle andar bendato, per non distrarsi, diceva esso. Nè altrimenti sarebbe convenuto, essendo già il palco insanguinato dal suo compagno, che fu primo a morire. Pregò, con ammirabile presenza di spirito; il sacerdote, che l'accompagnasse nel tragitto dalla conforteria al patibolo, e che prima di cader la mannaia gli desse anche una volta la sacramentale assoluzione de' suoi peccati. Si avviò al supplizio, stampando di baci il Crocifisso, e tutto da sè ripetendo le più tenere e infocate preghiere, tanto che non era d'uopo nulla suggerire.

Appiè del palco, rendette il Crocifisso al sacerdote, non senza averne novellamente baciate le Piaghe: e mentre il ministro di salute eterna lo esortava a pensare al divin Redentore e alla Madre di Misericordia, che l’accoglierebbero in paradiso, i ministri della umana giustizia l'acconciarono alla ferale esecuzione.

Tutto intorno, con un popolo sterminato, regnava un religioso silenzio; per guisa che, quando il paziente a voce alta e distinta invocava i nomi santissimi di Gesù e Maria, sariasi potuto ancor da lungi noverare ogni sillaba; e parimenti allorché il sacerdote proferì l’estrema formola di assoluzione. All'Amen il Tognetti appena poté soggiungere: Gesù… e in questo il ferro gli troncò la voce e la vita, «Cadde recisa la testa (così conchiude il sacerdote la sua narrazione), e l'anima si trovò nel seno di Dio, come ho tutto il fondamento di credere.» Noi possiamo aggiungere che tale fu pure la persuasione di quanti o per carità o per ufficio o per curiosità si trovarono presenti a quegli ultimi e edificantissimi tratti di Gaetano Tognetti.

6. Non meno interessante la storia, né meno pietosa fu la morte di Giuseppe Monti, che di pochi istanti il precedette sul patibolo. Questi era di più apertura di mente, di più spiriti, e nell'arte sua eccellente: nel ragionare poi accorto in modo singolare, e nell'esprimere i suoi sensi facondo e acconcio più assai che non sembravano comportare le sue poche lettere. Non senza perché, nelle trame dell'Ottobre 1867, fu scelto alle imprese più arrischiate.

Fu avvertito il religioso, che di costui doveva incaricarsi, il dì 27 Ottobre, dal suo proprio superiore, che gli disse: «Giuseppe Monti, di Fermo, già condannato a morte, ragionando fece menzione di lei: vegga dunque di fargli una visita, alle Carceri Nuove.» Rispose che vi andrebbe quanto prima. Il giorno appresso interessò varii monisteri di sacre vergini a pregare molto per la piena conversione del povero condannato. Intanto una pia dama, tutto da sé, eraglisi offerta a collettare, per soccorrere il Monti e la desolata famiglia di lui. Il dì 29 si condusse il detto Padre alle Carceri Nuove, ma con molta trepidazione di animo, conoscendo per esperienza, che con gente impigliata in trame politiche poco o nulla si ottiene: e procurava di darsi. animo sperando nell'aiuto divino e nella mediazione di Maria santissima e di S. Giuseppe, del quale quell'infelice portava il nome. Del resto anche il De Felice, giustiziato l'11 Luglio 1855, tuttochè settario, si ravvide, e in presenza di molti testimonii, a voce alta si ritrattò, dicendo: «Abborro tutte le sètte a cui sono stato ascritto, e mi hanno rovinato.» L'atto è firmato, nei registri della Confraternita di S. Giovanni Decollato, dal Provveditore marchese Sacchetti.

Il religioso si vide venire incontro un uomo di trentatré anni, di mezzana statura, piuttosto di bella persona, il quale gli si accostò con modi molto rispettosi. Si posero a sedere in un angolo del corridoio fuori della segreta, e il sacerdote aperse il discorso: - So che mi avete nominato con una persona, e che avete mostrato desiderio di vedermi: in che vi posso servire?

Ed egli: - Ma lei non mi conosce? Io da fanciullo venivo alle scuole, quand'ella era rettore del collegio di Fermo. Se ne ricorda della famiglia Monti? stavamo in quella casa di fronte al collegio. Non le sovviene che quando ella venne a Roma, io venni a ritrovarla?

Il religioso non ricordava nulla di tutto cotesto, ma procurò di giovarsene a bene, e gli disse che, se già lo conosceva, era anche meglio, e doveva perciò essere persuaso che il solo desiderio di aiutare lui conducevalo in quel luogo; però aprisse liberamente l'animo suo, ed egli, in cosa che fosse possibile, volentieri l’aiuterebbe. Allora quegli, tutto acceso cominciò a discorrere della sua condanna, a dolersi che gli fosse fatto torto da un non so quale ufficiale subalterno del tribunale, attenuare il suo delitto, e interessare il sacerdote ad impetrargli la grazia, della quale, si vedeva chiaramente, nutriva forte lusinga. Ma questi essendo mandato dalla potestà ecclesiastica, con ufficio di disporlo a ben morire, non volle entrare nella quistone, e venne dirittamente al punto, dicendogli: - Sarà tutto quello che dite: ma credete voi di essere colpevole di avere incendiata la mina, e di aver fatto morire ventiquattro persone, e alcune forse in disgrazia di Dio?

Il Monti rispose con franchezza senza pari: -- Padre, non sono ventiquattro ma ventissette che ho sacrifìcato, questo lo confesso.

- Orbene, mio caro, sapete pure che chi di coltel ferisce, di coltel perisce. Vorrei potervi dare migliore speranza, ma io temo forte, che la grazia, nella quale confidate, possa essere un sogno. Non v'illudete colla grazia temporale, provvedete alla eterna. Forse Iddio vuole che acquistiate la beatitudine del paradiso con questa condanna, che è un mezzo il più doloroso, il più umiliante: ma questo è ancora meglio, che avere la grazia ora, e poi cadere in altri peccati, e dannarvi.

Ci credete voi a queste verità?

- Ci credo. Non ho perduta mai la fede: ho sempre, ogni giorno che fui al mondo, recitato una preghiera alla Madonna del Pianto, e spero mi salverà. Allora il religioso, prendendo animo, gli ragionò a lungo, sopra tutto dipingendogli al vivo la storia di un famoso malfattore, carico di delitti, che, stando in prigione e come lui condannato a morte, fu indotto a fare i santi esercizii, e si confessò generalmente e con tale compunzione, che cominciò a desiderare il supplizio, in espiazione dei suoi peccati; e tanto ardentemente si risolvette di salire al cielo per questa via dolorosa, che essendogli poi offerta la grazia, la ricusò, e pregò Iddio di farlo morire almeno in carcere, di che fu esaudito, e morì lasciando opinione di un santo penitente. Il Monti ascoltava con viva attenzione, e questo esempio gli entrava visibilmente nel cuore.

Sul fine più non potendo resistere alla grazia, ruppe in pianto dirotto, e disse: - Ancora noi abbiamo gli esercizii, e li dà il P. Giuliano Passionista. Anch'io voglio farmi uno confessione generale, e voglio deporre il pensiero della grazia, voglio espiare il mio delitto colla morte, e voglio fare tutto quello che lei mi dirà.

7. Venuto il giorno prefisso, il Monti si trattenne lungamente col confessore e con evidenti segni di perfetta conversione. Prima di ricevere l'assoluzione ebbe pensiero di chiamare due custodi, Luigi Monti e Colombo Pozzi, coi quali aveva preso confidenza, a cagione dei modi umani onde il trattavano, e alla loro presenza volle, per quanto poteva, emendare lo scandalo dato col suo delitto, dichiarando che lo detestava e pregandoli che essi pubblicassero il suo ravvedimento. Supplicò in grazia il confessore, che non l’abbandonasse; e non pago delle ripetute conferenze anteriori, desiderava essere con lui ogni giorno. Al 5 Novembre, cadea la chiusa dei santi esercizii dati dal religioso passionista; ed egli avrebbe voluto accostarsi alla sacra mensa cogli altri condannati. Ma non gli fu concesso dai soprastanti. Adunque, per appagarlo, fu celebrata una Messa dal suo confessore, per lui solo, nella cappella detta del Braccio nuovo. Il penitente se ne valse per abbandonarsi viepiù liberamente alla sua divozione. Si riconciliò di bel nuovo, e durante il santo Sacrificio orava con grande fervore, e a certi tratti, colle braccia levate in croce. Giunto l'istante della Comunione, recitò ad alta voce il Credo, poi si rivolse ad un ufficiale e a tre custodi, e novellamente domandò perdono degli scandali suoi, infine si tolse le scarpe e a piedi ignudi, in segno di penitenza, si accostò all'altare. E i presenti piangevano di tenerezza. In quel giorno, mercè di qualche soccorso mandatogli da pie persone, poté fare più lauta refezione: i soprastanti gli concessero da indi in poi alcun che più di libertà, ed egli diceva candidamente, che era stato questo il più bel giorno della sua vita. Tutti erano maravigliati della profonda mutazione, che traspariva in ogni suo atto, in ogni sua parola. Sopra ogni altra cosa era di stupore, che avendo fino a pochi giorni prima sempre avuto in bocca la grazia sovrana, da indi in poi non ne fece più parola: tanto sinceramente fin da principio aveva rivolto l'animo a morire cristianamente, in penitenza dei suoi falli!

La sentenza, sebbene fosse stata proferita in tribunale il dì 16 Ottobre; com'è scritto nella sentenza stessa, e potesse eseguirsi dopo pochi giorni; pure non fu compilato l'atto, nè presentato al Sovrano se non forse quindici giorni dopo. Ora è stile della giustizia romana, che quando la sentenza è dimorata alquanti giorni sullo scrittoio del Sovrano, e questi non è intervenuto a far grazia (giacché il Sovrano di Roma, nei giudizii capitali, non interviene in alcun modo, fuorché, se vi è ragione, per accordare il perdono), e l'ha renduta senza osservazioni, sia mandata quanto prima ad effetto. Corse anche voce che dovesse eseguirsi il dì 22 Ottobre, anniversario del delitto, e dirimpetto alle ruine tuttavia non ristorate della caserma Serristori: ma questa non fu che una giustificazione della severità, onde il popolo romano aspettava di veder punito un delitto, che lo avea così profondamente commosso. Ad ogni modo il povero Monti riguardò la dilazione come una provvidenza, e ne rendeva continue grazie a Dio come di singolare beneficio: atteso che a questo modo aveva potuto assistere agli esercizii spirituali, predicati dal p. Passionista, del quale mostrava grande stima ed affetto. Volentieri trattenevasi con questo venerabile religioso, col suo confessore e con altri sacerdoti visitatori amorevoli dei carcerati e non era mai sazio di conferire con essi. Né mai era visitato dal suo peculiare assistente, ch'egli non volesse rinnovarsi la grazia della sacramentale confessione. Non contento di discorrere di ciò che allora gli cadesse in mente, appuntavasi in iscritto le cose sulle quali voleva consiglio. Meditava la Passione del divino Redentore, e ne traeva conforto inestimabile pel suo bisogno, e fervore a tollerare i suoi patimenti, dei quali non solo non lamentavasi, ma desiderava accrescerli.

La sua conversione era stata generosa, piena e perfetta: e quindi riusciva consolante a vedere, come tutti i sentimenti di buono sposo; di buon figliuolo, di buon cittadino, di buon cristiano fossero rinnovati in lui e rifioriti per guisa; che anche in qualsiasi altra persona sarebbero paruti più che ordinarii.

8. Pensava molto alla sua povera moglie, che lasciava senza provvedimento di sorta alcuna, giovane e con un bambino di venti mesi. Quante volte vedeva il suo confessore, altrettante parlava di lei e del figlio.

La raccomandava, affinché questi prendessene cura, e soprattutto la indirizzasse al bene dell’anima. Laderelitta Lucia (così chiamasi) si presentava spesso al religioso, col suo bambino in braccio, ed era diventata come stupida, pel caso fatale del marito. Campava con otto baiocchi al giorno, che guadagnava con porgere servizio in una casa, e coi soccorsi della carità cristiana, i quali non le vennero meno. Desiderò il Monti vederla dopo la sua comunione, ma non gli fu permesso dal regolamento; ed egli disse: «Sia fatta la volontà di Dio!» L'ultima volta che il sacerdote andò a visitarlo nella segreta, gli disse: «Che vuol essere, che mia moglie non mi portò i panni? che stesse poco bene? che la creatura stia male? Vegga un poco. Le raccomando il mio Ciro (nome del bambino): quando sarà grande, s'impegni lei per farlo mettere in S. Michele e non altrove.» Preferiva S. Michele, ad ogni altro ospizio di Roma, e questo suo desiderio espresse molte volte. Ora sappiamo che la carità pubblica e privata già ha provveduto e tuttavia provvede. Il S. Padre manifestò il suo animo benefico di dare alla donna e al bambino un convenevole ricovero.

Ancora pesavagli grandemente il pensiero de’ suoi debiti, sia perché non poteva soddisfarli, sia pel timore che i creditori non dessero molestia alla sua vedova. Per mettervi qualche rimedio, scrisse diligentemente la nota de' suoi creditori e dell’avere di ciascheduno (nell’autografo che noi vedemmo, somma il debito totale a scudi 77 e bai 30); affinché si potesse raccomandare il pagamento alla carità dei benefattori, e ne avesse riposo l'anima sua, e quiete la moglie. Il povero Monti dalla setta malvagia, che l'aveva adoperato come strumento di assassinio, e affidatigli tra gli altri i due orrendi misfatti, uno eseguito a Serristori, l’altro simile, attentato alla caserma di Cimarra, era stato ripagato con estrema miseria; tanto che dal 5 Ottobre, giorno in cui si levò dal lavoro, per mettersi interamente al soldo del Cucchi, non potè avanzare un centesimo, e in prigione andava lacero dei panni, come l’ultimo dei pezzenti.

Non avendo altro a lasciare alla vedova: le lasciò una fotografia (l’abbiamo veduta), che una pia dama aveva inviato a lui nel carcere. Rappresenta un Gesù Nazareno e la Madonna del Buon Consiglio; ed egli vi scrisse sul rovescio queste parole di sua mano: «Lucia! quest' immagine è l'eredità che ti lascio. Ricordati di tenerla a caro più della vita mia. Ogni volta che l'avrai in mano, ricordati di pregarla che ti salvi l'anima e che salvi e aiuti il nostro piccolo figlio, e ricordati di me e di chi mi donò la suddetta. Quando Ciro sarà grande, gliela darai. Addio. Sii buona. Tuo Peppe, 10 Novembre 1868.»

9. Il nome del suo piccolo Ciro era continuamente sulle sue labbra, e anche a lui volle lasciare quel solo che poteva, un libretto di Massime eterne; inculcando caldamente al sacerdote che lo visitava, di farglielo pervenire, come quegli fosse giunto all'uso di ragione. Ed ecco le belle parole che il povero padre vi scrisse sopra di suo pugno, e che noi vi leggemmo: «Amato figlio, ti prego tenere questo libretto in memoria dell'infelice padre tuo, ed ogni volta che leggerai questi sentimenti, ricordati di recitare una terza parte di rosario in suffragio dell’anima di tuo padre. Figlio mio!questo libretto è l'unica eredità che ti lascio.

Sappi che ti frutterà il mille per certo. Questo, è stato l'ultimo amico mio più fedele. Figlio mio, fuggi i compagni cattivi, e rifletti che i compagni cattivi mi hanno condotto su di un patibolo. Ama e rispetta dopo Dio e la B. Vergine, la tua cara madre, così sarai felice. Confessati spesso, almeno una volta al mese, e la vendetta che devi fare di tuo padre, sarà di non abbandonare mai questo libretto, e non parlare mai con chicchessia della mia fine, e quando ti faranno questi parlare, ti prego, anzi ti scongiuro, tu voltare via senza rispondere. Figlio mio, quest'è stato l'ultimo mio desiderio, e spero che lo eseguirai. Studiae vivi da vero cristiano, chè Iddio ti aiuterà. Prendi la divozione alla Madonna, e non fare passar giorno che non preghi Maria Santissima che ti faccia eseguire l'ultimo mio desiderio. Rispetta i miei parenti; se ti troverai con essi. Se tua madre tornerà a maritarsi, tu vattene a Fermo, e quando avrai 21 anni ritorna con tua madre, ma non devi mai dimenticarla. Io voglio questo, acciò tu, o amato Ciro, non stii sotto la tutela di un padregno che tu rispetteresti più di tua madre. Ti prego di un'altra cosa, ed è che questo libretto non lo consegni mai a nessuno. È la memoria del padre tuo, che tu non hai potuto conoscere, perché i compagni te ne hanno privato. Figlio mio! se il Signore mi concede la salvezza dell'anima, io pregherò per te, e tu esaudisci ciò che ti ho detto, e spero che non vorrai trasgredire gli ultimi sentimenti del tuo padre. Addio! vivi in pace, e dandoti la S. Benedizione e mille bagi ogni volta che leggerai il suddetto libretto. Addio sono tuo padre Giuseppe Monti.»

10. Travagliavasi di molto dell'acerbissimo dolore, che i suoi vecchi genitori prenderebbero della sua fine infame, e del disonore che ne ricadrebbe sopra tutta la famiglia buona e cristiana. A riparazione di che scrisse, la vigilia della comunione, una lettera, che diede aperta al solito sacerdote, affinché per vie private la facesse pervenire alla destinazione, come fu fatto: ed ecco il tenore della lettera, la quale, attesa la espressa volontà dello scrivente, si può pubblicare:

«Amati miei genitori. Padremio!questa è l'ultima lettera che l'infelice figlio vostro vi scrive. Questa sarà la memoria della infelice mia fine. Tutto ho saputo, quanto avete camminato per la mia salvezza. Padre mio, io ve ne ringrazio, e vi prego di consolarvi e di consolare l'addolorata madre mia mentre sappiate che moltissimi sono stati gl'impegni che gli uomini hanno avuto per me, ma Iddio non vuole che resti impunito un così grave delitto, e perciò vuole che io muoia e salvarmi. Io muoio rassegnatissimo: ho richiesto il mio confessore il p. Blosi che voi conoscete, al quale ho fatto già la confessione generale, e domani Giovedì 5 Novembre mi accosto indegnamente alla mensa eucaristica. Consolate i miei fratelli e la mia sorella. Vi domando in ginocchio perdono di tutti i dispiaceri e disubbidienze che, vi ho fatto, e spero che non vorrete negarmi tanta grazia. Così domando perdono all’amato mio fratello Filippo, ed io perdono di ciò che per nulla ci fece irare fra noi. Domando perdono a tutti e tre o amati fratelli e sorella, di tutti gli scandali che vi ho dato. Spero che non vorrete negarmi il perdono che di vero cuore io reciprocamente vi mando. Vi prego di non abbandonare i nostri amati genitori e consolarli in questo gran dispiacere, e aiutarli nella loro vecchiaia. O madre mia! qual contentezza sarebbe stata per me, abbracciarvi per l'ultima volta. Mi consolo però che ci abbracceremo in paradiso. Consolatevi e pregate Dio, che salvi l'anima dell’infelice vostro figlio, e bacio almeno col desiderio le vostre mani, o miei genitori, e vi chiedo la S. Benedizione. Vi raccomando il mio figlio Ciro, l'infelice Lucia mia consorte. Addio, Addio. Non posso più scrivere. Vostro figlio Giuseppe Monti.»                

11. Che se il Monti si risovvenne del debito di buon figliuolo verso i parenti per sangue, molto più ebbe a cuore il dover suo verso il Padre universale dei fedeli. Non aveva messo mano ai delitti per istudio di parte, e molto meno per odio al suo Sovrano: ma solo trascinatevi dalla catena di setta, e per quella crudele necessità, che nasce da un primo passo messo in sul pendio del precipizio; ed è incredibile a dirsi, quanto si aflliggesse della fellonia contro il Santo Padre. Pertanto nelle ore dopo la comunione, il giorno 5 Novembre, senza che niuno ve lo esortasse, pensò di chiedere scusa anche a lui. Disse poi di avere ciò fatto, anche per rallegrare il cuore del Santo Padre, dandogli a conoscere la propria conversione. Mostrò in questo un sincero e delicatissimo sentimento: poiché temendo non forse paresse, che con quell'atto egli dimandasse la grazia, della quale aveva smesso al tutto ogni pensiero, nel consegnare la lettera al sacerdote suo confidente, gli fece promettere che la lettera non sarebbe presentata al Pontefice prima della morte sua.

Noi già ne pubblicammo il testo, sull'autografo stesso del Monti, nel quaderno antecedente, a pag 617. Basterebbe questa lettera anche sola a smentire i suoi calunniatori, che tentarono far credere, il Monti essere andato a morire impenitente, e con in bocca discorsi di settario ostinato. Di siffatte cose mostrava anzi un orrore sommo, conoscendo a prova, che senza la perversità delle sette, non sarebbe dirovinato nel baratro di sventure ove gemeva. E non solo parlavane così col suo confessore, ma eziandio con altri, che ce ne diedero testimonianza. Di spacciare lettere politiche, neppure un’ombra di pensiero caddegli in mente: e gli scritti suoi, dopo la sentenza di morte, sono tutti pieni di spirituale ravvedimento. Quanto alla lettera o piuttosto supplica e ammenda indirizzata al Santo Padre, questa era scritta in foglio aperto. Il Sacerdote ritennela nel portafogli fino all’ultimo giorno: e il Monti, poche ore prima di muoversi dalle carceri per andare al patibolo, gli dimandò con viva istanza, se avrebbe poi consegnata la lettera. Allora questi la trasse fuori, alla presenza degli astanti, confratelli ed altri, e gliela mostrò, dicendogli: «Questa mattina, quando tu sarai in cielo, questa lettera sarà deposta ai piedi del Santo Padre.» Di che il Monti si mostrò molto soddisfatto.

La carta fu tosto consegnata a Monsig. Samminiatelli, Cameriere secreto di Sua Santità, che anch’esso essendo confratello della Misericordia, e concorso cogli altri gentiluomini al pietoso ufficio di confortatore, trovavasi presente e colle divise della Confraternita. Questi promise di eseguire la volontà del Monti entro poche ore: e così fece. Il Santo Padre poi, facendo ragione al manifestato desiderio del penitente, permise che si pubblicasse, per comune edificazione.

Alcuni osarono gittar dubbio sull'autenticità di questa scrittura: ma noi crederemmo fallire al decoro, se anche solo tentassimo di addurre ragioni o altri testimonii, mentre abbiamo cogli occhi nostri veduto l'autografo: autografo rimesso ad un prelato illustre da un venerando uomo, in presenza di persone qualificate, autografo concorde con gli altri atti pubblici dello scrivente, e sportoci con degnazione sovrana da una mano, di cui non vi è più augusta e veneranda sulla terra. Non iscriviamo qui per discutere, molto meno per convincere gli uomini di mala fede: sì solo per edificare i fedeli.         

12. E certo riuscì in tutta Roma di singolare esempio: perciocchè anche volendo chiedere perdono al Santo Padre, non era necessario che il Monti si accusasse pubblicamente per Carbonaro. In questo si vide la generosità del suo animo veramente ravveduto. E ancora si scorge nello scritto il desiderio grande che eragli surto nell'animo, di riparare come che si fosse allo scandalo dato, richiamando altrui dal cattivo sentiero. La carità del prossimo brillava in tutte le sue azioni coglieva a volo le occasioni tutte di operar qualche bene, e si angustiava di non poter rimeritare quelli che facevano del bene a lui.

Spesso, anche nell’ultimo e col pensiero della morte già imminente, diceva: «Non so come ringraziare i custodi dai quali ricevo tanti piaceri: non mi negano cosa alcuna che mi abbisogni, e ci rimettono della borsa poveretti!».

Or ecco perché costoro mostravansi così cortesi. Parrà incredibile, e pure è certo, che tale era l’edificazione ch’egli dava colla sua condotta, che nelle Carceri Nuove, soprastanti e custodi gli avevano sul fine posto come una specie di venerazione, e non si peritavano di dire: «Pover'uomo! non si conosce più: ora sembra un angelo.» E questo il sappiamo da chi lo intese più volte dalla loro bocca.

Alcuni mesi addietro era stato all'infermeria delle carceri, e un camerata condannato a più anni di detenzione lo aveva servito da infermiere con molto affetto. Il Monti si appenava di non poterlo ricompensare. Perciò non cessava di raccomandarlo al confessore, affinché questi si interessasse per colui. Venuti i signori della Confraternita per confortarlo all'estremo della vita, non si scordò, in sì ferale distretta, del suo infermiere; e conoscendo che essi principi e prelati, potrebbero di molto giovargli colle loro intercessioni, li pregò affinché, porgendosi l’occasione propizia, pagassero essi il suo debito di riconoscenza, impetrando al povero condannato una diminuzione di pena; ne si quietò finché non gli fu promesso, che sarebbe fatto secondo il suo desiderio.

Gli era stato aggiunto per compagno di segreta un giovane inquisito di furto. Costui era rozzo e ignorante assai. Il Monti prese a insegnargli la Dottrina cristiana, che esso sapeva benissimo; gli veniva suggerendo buoni consigli; ed esortavalo a confessarsi e confessarsi bene. Ottenne pienamente il suo intento. Il che gli riuscì d'incomparabile consolazione: perciocchè gli sembrava conquesto di soddisfare alla divina giustizia, per coloro ch’egli aveva così scelleratamente (com'egli stesso diceva) messo a morte, privandoli perfino dei sacramenti; della quale ultima circostanza manifestava profondo sentimento e dolore. Spesse volte altresì ripeteva: «Povera Rosina! che male avevi tu fatto?» e voleva compiangere una bambina di sei anni, così chiamata, rimasa oppressa sotto le ruine della caserma Serristori.

13. Ma egli anelava a giovare anche più vastamente, massime alla gioventù, e però si pose in cuore di recitare sul palco del supplizio una arringa. La scrisse tutto da sé, e tenevala studiosamente apparecchiata, per leggerla in quest'estremo momento. Di poi riflettendo che forse ciò non sarebbegli facilmente riuscito, si risolvette di leggerla alla presenza di molti assistenti prima della sua Comunione per Viatico, e a questo fine recavalasi in petto, quando fu tradotto alla prima conforteria. Gli fu fatto osservare, che non praticandosi altrettanto dal suo compagno di sciagura, questi potrebbe averne non so quale dispiacere. Si rendette, ma non dismise interamente il pensiero: solo il cambiò affidando la carta al suo confessore, e incaricandolo di dare la maggiore pubblicità possibile allo scritto; che egli intitolava; Testamento spirituale. Eccolo fedelmente ricopiato.

- «Io Giuseppe Monti da Fermo, d'anni 33, nell'atto di salire sul palco di morte, dove dovrò tra poco espiare il mio delitto e comparire tosto al tribunale dell'Altissimo, rivolgo a tutti gli uomini della terra queste ultime parole, che desidero siano tradotte in tutte le lingue, affinché la mia morte tragga molti e molti dalla via della iniquità.      

Condotto dal mio delitto a morire per mano del carnefice, prima di esalare l’ultimo spirito, a voi tutti a cui è arrivato all'orecchio la notizia del mio delitto a Serristori, rivolgo spontaneamente queste mie parole, mestamente nel carcere, dove più volte, anche in presenza di testimonii, ho esecrato la mia condotta.

Se io avessi seguito la mia coscienza, le voci della religione, le prime massime avute nella mia infanzia dai miei buoni vecchi genitori che lascio immersi nel più acerbo cordoglio, se avessi fuggito i cattivi compagni, non mi sarei condotto a questo passo.

Lo conosco, ma troppo tardi, quindi mi rivolgo a voi che avete preso scandalo dal mio operato e vi domando perdono. Deh, siete amanti della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, fuori della quale non vi è salute.

Ah, quali consolazioni ha avuto l'anima mia da più giorni, in cui mi sono accostato ai santi Sacramenti istituiti da nostro Signor Gesù Cristo! La sola religione cattolica apre le porte del cielo ai suoi credenti: tutte le sètte non hanno che inganno, assassinio e morte.

Io ho già scritto al sommo Pontefice mio Sovrano, chiedendogli perdono della fellonia e assassinio da me commessi, e pregandolo che facesse pubblici i miei sentimenti.

Dunque voi tutti che mi avete imitato nella colpa, imitatemi nella penitenza, praticate la religione cattolica, locchè si ottiene colla frequenza ai Sacramenti, coll’intervenire alla dottrina cristiana, alla spiegazione del Vangelo, coll’astenersi dalla maledetta bestemmia, coll’onorare i superiori, col fuggire le compagnie cattive e coll’essere devoti della Madonna del Pianto (Titolo di Santuario divotissimo in Fermo, e altrove). Una piccola divozione, fatta ogni giorno alla Madonna, mi ha salvato.

Leggete libri buoni. La lettura dei buoni libri, fatta nell'anno dellamia detenzione, mi ha illuminato l'intelletto e mi ha mutato il cuore.

Confortato dai Sacramenti desidero espiare colla morte il mio delitto.

Spero pei meriti di Gesù Cristo, di Maria Santissima, di S. Giuseppe, di cui porto indegnamente il nome, di andar in paradiso. Ma se Dio benedetto volesse che penassi qualche tempo in purgatorio, santi sacerdoti, buoni cristiani, mi raccomando alle vostre orazioni.

Ringrazio i custodi che mi hanno usato tanta carità: ringrazio tutti quelli che mi hanno prestato assistenza. Perdono a tutti quelli che mi (hanno) fatto del male, come desidero che loroperdonino a me i miei mancamenti, e che sopra ogni cosa Dio perdoni a me, povero peccatore. Così spero udirmi nel cuore quelle parole che Gesù Cristo (disse) al buon Ladro: Oggi sarai meco in paradiso. Giuseppe Monti

Dal contesto medesimo di questo scritto, si scorge ch'egli avevalo con grande studio apparecchiato, per gli estremi momenti. Ma anche senza tale recitazione, riuscirono questi, oltre ogni dire, edificanti.

14. Ha differenza del Tognetti, il Monti seppe sicuramente la decretata esecuzione fin dalla mattina del giorno precedente. Fu provvidenza di Dio. Il suo confessore, avvertito dell'imminente supplizio, si recò da lui il giorno di domenica, 22 Novembre, e il dispose quanto poté, e lasciògli ancora un buon soccorso in danaro e un regalo di sigari; ma tacque al tutto la fatale notizia.

Il giorno seguente non fu possibile celarla più oltre. Ed ecco in qual modo egli venne a capo di risapere quello che bramava e temeva al tempo istesso. Quel venerabile sacerdote, che sopra dicemmo essere stato incaricato di disporre il Tognetti prossimamente alla morte, dopo dette alcune parole a costui, opportune al bisogno, senza svelare chiaramente il segreto; passò a visitare il Monti.

Trovollo tuttavia seduto sul letto, e di questa novità chiesegli la cagione.

- Padre rispose quegli, già da più ore sono sveglio, ma sono stato così per dirmi tutte le mie orazioni e preghiere con più raccoglimento. - Poi chiamando più presso a sè il ministro di Dio, gli dimandò confidentemente: - C'è nulla di nuovo?

- Che vuoi che ti dica, figlio mio? per ora non ti posso dir nulla.

Ed il Monti, che accorto era e pronto: - Padre Giuliano, a me sta in capo che domani mattina si eseguirà la sentenza. E vero? C’indovino?

Il religioso si strinse nelle spalle, nè seppe altro rispondere. Allora quegli ripigliò: - Via, me lo dica pure, chè a me non fa nulla: anzi, se me lo dice, mi fa una carità, perché così non mi farà tanto senso quando verranno i custodi ad ammanettarmi, ed anche perché così oggi me ne sto più raccolto, e passero la notte in orazione e più unito con Dio.

Il buon sacerdote vedendo sì straordinarie disposizioni, credette prudentemente poter passarsi delle regole ordinarie, però soggiunse:

- E bene, Monti mio caro stattene, pure raccolto in Dio e in orazione perché dimani, come spero nella misericordia del Signore, sarai unito con lui nella beata eternità.

Non fece segno di sbigottimento alcuno il povero condannato: ma prese la mano del sacerdote, la strinse fortemente, alzando gli occhi al cielo; e poi baciando replicatamente la mano: - Padre, disse, io la ringrazio tanto, tanto ... Mi raccomandi al Signore.

Interrogato dipoi la mattina della sua morte, se quel terribile annunzio l'avesse messo in agitazione: - No, rispose egli, anzi mi è servito per prepararmi. Non sono andato a dormire ier sera, ho fatto orazione tutta la notte. - Fece anche meglio: perciocchè dopo la fatale rivelazione avendo veduto il custode Luigi Monti, gli disse, che egli presentiva la intìma da farsegli nella prossima notte, e lo pregava di volerlo ammanettare ad un’ora di notte; e condurlo nella cappella, affine di aspettare il Capitano dinanzi all’altare, e quivi ascoltare la lettura della sentenza. Il custode restò ammirato di tale proposta, ma non ardì esaudirla di suo arbitrio: e il Monti ne ebbe solo il merito dinanzi a Dio. Allorchè giunta la Confraternita della Misericordia, e aperta la conforteria, si presentarono i custodi per ammanettare il Monti e condurlo ad ascoltare la fatale lettura, il trovarono che già li attendeva in preghiera. Lasciò egli a costoro compiere il loro dovere, poscia udita la sentenza, disse: «Signore, ti ringrazio: io merito anche peggio... Sia fatta la tua santa volontà!»

15. Allora fu rimesso nelle mani dei confortatori, e condotto alla conforteria, per passare poi alla cappella, e farvi le sue divozioni, come si disse di sopra parlando del Tognetti. La prima cosa, entrando in conforteria, fu domandare a voce alta e con somma ansietà al confratello Provveditore, che gli facesse venire, al più tosto possibile, il suo confessore. Del resto era tranquillo e rassegnato alla sua sorte. Solo rammaricavasi pensando alla moglie ed al tenero figliuolo: e per sollevarlo da questa angoscia, il confessore promisegli che ne prenderebbe sollecitudine egli medesimo, e attesa la carità romana, non mancherebbe ospizio per l'una e per l'altro.

Desiderò riconciliarsi novellamente in confessione: il che fu fatto in pochi istanti, avendo già, nei giorni precedenti, soddisfatto a sè stesso. Dopo di che il confessore, che aveva notata la divozione singolare del penitente verso la Madonna del Pianto, veneratissima in Fermo, patria di lui, trasse fuori un quadretto in cui posta aveva la immagine appunto della Madonna del Pianto. Fu come un’apparizione celeste: il povero condannato la prese in mano, se la strinse al petto, la stampava di caldi baci, e cominciò a voce alta un colloquio tenerissimo, come se dalla patria fosse venuta la Vergine benedetta a consolare le sue agonie. «Cara Madre, sclamava egli pur continuando a baciare la immagine, quanti anni sono che non ti ho veduto!... Ah, ti sei ricordata di me, nel mio grande bisogno... Ah, quanto ti ringrazio... Sei proprio venuta per aiutarmi?... Che sii benedetta, cara Madre del Pianto.» Con queste e simili parole, ch'egli proferiva con animo infocato; si trattenne a suo bell'agio, e finalmente si pose l'immagine in seno, e quando levossi per assistere ginocchioni alla S. Messa, la collocò a suo fianco sulla balaustrata, nè più volle dividerla da sè, sino all'ultimo istante della vita.

Allora pure ebbe il colloquio col Tognetti, di cui sopra parlammo, e si interessò perchè fosse ricapitata dopo la sua morte, la lettera di scusa al S. Padre, e divulgato, com'esso esprimevasi, per tutto il mondo il suo Testamento spirituale. «Vorrei diceva egli con grande spirito, vorrei che i cattivi cessassero di pervertire i poveri figli di madre (modo romanesco, per significare la gioventù, in generale). Sarebbe tempo di farla finita.» E più volte ancora ripetè: «Oh potessi convertire tutto il mondo!»

I Confratelli il condussero in una stanza vicina, dov’era, giusta il consueto, il Provveditore, il quale suol fare da notaio, e altri della confraternita, che servono come testimonii, affine di ricevere legalmente le sue ultime volontà. Ed ecco alcuni brani dell'atto, di cui abbiamo veduto l'originale, ed è tutto di pugno del confratello Provveditore, D. Giovanni de' principi Chigi, e che sarà trascritto ne' registri della Confraternita. «Disse, essere suo desiderio, dopo la morte sua, di voler far sapere di esser morto da buon cristiano; e domanda loro (ai parenti) perdono di tutto in che abbia potuto offenderli... Disse non dover dar nulla ad alcuno (aveva già provveduto, come sopra fu detto). Protestò morire da buon cristiano, rassegnato alla volontà di Dio, domandando a tutti perdono. Raccomanda alla Confraternita la povera sua infelice consorte Lucia, e il suo figlio Ciro, di 20 mesi, onde per quello che dalla Confraternita si potrà fare, non manchino di soccorso.»

Questo primo atto è sottoscritto dal paziente, con mano sicura e per nulla tremante, col solo nome Giuseppe Monti. Ma poco di poi fu preso da un novello pensiero, e si dovette stendere una giunta in questi termini: «Il paziente Giuseppe Monti, prima di ricevere la S. Comunione, rinnova a tutti il suo animo di perdonare a chiunque gli avesse recato qualunque offesa: ed accetta con cristiana rassegnazione anche la morte; e prega che questo suo atto, se fosse possibile, fosse noto a tutto il mondo, onde potesse servire di lume a quanti l’avessero imitato o volessero imitarlo ne’ suoi falli. Di più, dichiara essere state somme le grazie con le quali il Signore l'ha aiutato in tutto il tempo che è stato nella carcere; e specialmente in questi momenti, che per esso sono gli estremi.» Qui il Monti sottoscrisse con mano egualmente ferma: «Giuseppe Monti, mano propria confermo quando (sic)sopra.» Il quale atto conosciutosi dal Tognetti, che ivi presso era, volle anch'egli formarne uno somigliante: e fu incontanente copiato quello del Monti a piè del testamento del Tognetti, e da costui sottoscritto.

Dopo atti sì nobili e cristiani, alle ore due e mezzo, secondo il privilegio dell’Arciconfraternita, cominciò la celebrazione delle Messe per la santa Comunione.

16. Prima di muovere per l'ultima conforteria fu offerto ai pazienti un convenevole ristoro. Inoltre avvenne un piccolo incidente, che alcuni malamente travisarono, e noi, non iscrivendo qui per contrastare, ci contenteremo di ridurlo alla pura verità. Avevano i Confratelli con somma carità disposto, che l'ultimo a morire non fosse amareggiato dalla vista del precedente supplizio del compagno, e neanche il vedesse andare al palco. Perciò eressero due conforterie sul luogo, situate così, che una non vedesse l'altra; e i pazienti ci andarono in due distinte carrozze. In quella che vi dovean salire i pazienti, due Gendarmi si presentarono per prender posto al loro fianco. Vi si oppose il signor Garinei aiuto del Provveditore della Confraternita, adducendo il contrario uso della Confraternita, la quale dal punto dell’intimata sentenza in poi, sola si accosta al condannato, e giudica da sè, quando convenga richiedere la presenza della forza armata, e quando sia superflua. Fu riferita la differenza al Provveditore. È da notare che l'autorità del Provveditore in questi casi è somma. Si vede più volte colla sua parola fermare eziandio l'esecuzione della giustizia, e sospenderla per più ore, quando egli lo reputa necessario alla salute eterna del paziente. Cotale arbitrio gli viene ordinariamente commesso dal Pontefice. Il. Provveditore adunque giudicò non essere necessaria la presenza dei Gendarmi nelle carrozze, attese le disposizioni cristiane dei pazienti. Dall'altra parte non potevano cedere i Gendarmi, avendo la consegna di accompagnare i pazienti. Onde fu d'uopo ricorrere al superiore loro, il quale, appena accennato del contrario uso della Confraternita, con somma cortesia, desistette.

Molto meno ci tratterremo a smentire la pretesa barbarie, commessa contro i pazienti, nell'annunzio della loro vicina morte, dato con ipocrite parole sulle cantonate. In Roma tutti conoscono le così elette Tavolozze, che non si composero a bello studio per Monti e Tognetti, ma sono tavole di legno, che si conservano nelle Confraternite, sempre le medesime, se non in quanto loro si aggiunge un biglietto, manoscritto o stampato, col nome del paziente e il delitto per cui va a morire. In esse s’invita il popolo a pregare per la buona morte de’ pazienti. Ed è uso pietosissimo, degno di essere imitato dovunque si crede che l'uomo, anche reo di qualsiasi misfatto, ha tuttavia un’anima redenta col Sangue di Gesù Cristo. Le potestà politiche, giudiziarie, civili, in Roma non hanno che vedere colle Tavolozze; queste sono invece tutto opera della pietà cristiana, la quale s'interessa alla salute eterna di coloro, cui la legge ha già giudicato a perdere la vita temporale. E il buon popolo romano in fatti accorre alle chiese per cotesto: e chi non può, prega in famiglia. E quando poi ode dire, che i pazienti hanno dato segno di ravvedimento, ciascuno respira e si consola: laddove se ciò non accade, raddoppia le orazioni con somma ansietà, e si attrista, se non ottiene (caso rarissimo) il suo intento.

17. Appena giunto il Monti alla conforteria presso il patibolo, non avendo veduto quale milizia fosse venuta per assistere, ne dimandò ai confratelli assistenti; e ripostogli che i Zuavi erano presenti: - Tanto meglio, soggiunse egli; bramerei parlare col loro Capo. - È da notare che ve n’erano due battaglioni, incaricati di formare il quadrato, e non più, com’altri scrisse; delle altre armi poi un distaccamento per ciascheduna, secondo l'ordinario. Il confratello marchese D. Giovanni Patrizi si mosse adunque per contentare il povero paziente. Comandava i Zuavi il tenente colonello di Charette, il quale aveva fatto il possibile per non intervenire neppure al supplizio, e non vi si era condotto altrimenti che forzato dal regolamento, e per non iscaricare sopr’altri quel penoso ufficio: pure appena udito il desiderio dell’infelice moribondo, consentì ad appagarlo.

Entrò in conforteria in quella che il Monti, avendo già fatta la professione di fede, e altri atti preparatorii alla morte cristiana, recitava a voce alta, e con incredibile affetto di umiltà e di compunzione il famoso Atto di contrizione del Vener. Paolo Segneri: i circostanti erano tutti lacrimosi, un religioso della Madre di Dio, confratello della Misericordia anch’esso, piangeva come un fanciullo: e il di Charette fu commosso profondamente. E molto più, allorchè il Monti si rivolse a lui supplicandolo del perdono, e pregandolo replicatamente di far noto il suo pentimento al Reggimento dei Zuavi. Ma nulla tanto l'intenerì, quanto il raccomandare che il Monti fece alla pietà dei Zuavi la moglie sua poveretta e il figlio, e chiedere al colonnello, di dargli un segno del suo perdono. Fu allora che il colonnello dei Zuavi lo abbracciò e gli diede il bacio del perdono, dicendogli: «Noi tutti vi abbiam perdonato, siatene certo, e ai vostri cari già i Zuavi hanno pensato.» E uscì sclamando: «Povero disgraziato!» E fece tosto distendere un breve rapporto, ch'egli gentilmente volle comunicare anche a noi, accompagnato di una lettera autografa: la colletta per via di sottoscrizione era già cominciata.

A noi sembra che questo atto del Monti, il quale, condotto presso al palco ferale, non vuole comparire al tribunale di Dio senza il perdono degli Zuavi, e l'atto del Colonnello di questi che gliel’accorda con tali circostanze, sieno una storia sublime, e degna di pennello quanto ogni altra. Sarebbe atta a rivelare i frutti e la bellezza della giustizia civile, cristianamente confortata dalla misericordia religiosa; e nel tempo stesso a commendare la memoria del povero Monti, più assai che non tutti i gridori di mal cauti complici, per istrappargli di fronte l'aureola della penitenza, suo unico onore.

18. Venuto il Ministro di giustizia per approntare il Monti all'estrema comparsa, questi porse il capo ad essere tosato, e disse: «Unisco questa umiliazione alla Coronazione di spine.» E mentre il legavano: «Unisco questa umiliazione alle funi onde fu legato Gesù Cristo.» Chiese di salire il palco a piedi scalzi, e da sé stesso levossi le scarpe. Dimandò ancora se fosse più mortificazione andare a morire bendato, o libero. Risposegli il Cappellano della Confraternita, che certo sarebbe più acerbità vedersi la morte ad occhi aperti: il Monti rifiutò subito le bende. A questo modo, con passo fermo, ma senza baldanza, si avviò. Gli occhi teneva raccolti sul Crocifisso e sulla Madonna del Pianto, che gli portavano dinanzi al volto i due sacerdoti che l'accompagnavano, ed erano il confessore e il predetto cappellano, Monsignor Pigliacelli. Spesso ancora volgevasi cogli occhi al cielo; e allorchè fu mostra la sua testa al popolo, teneva tuttavia le pupille aperte.

Il Cappellano, disse dal palco alcune poche parole, e non altro che in commendazione dei due defunti: e i pietosi Confratelli levarono i corpi per le esequie e per la sepoltura. Ci disse uno degli assistenti: «Ho dovuto assistere a molte morti di malfattori: non ho mai visto sì esemplari disposizioni nei pazienti, né mai altrettanto commovimento religioso nei circostanti: fu un vero trionfo della misericordia di Dio, più che della giustizia degli uomini. Il popolo guardava con ansietà i ministri di Dio nel ritorno, e con una specie di soddisfazione pareva dire: Vi ringraziamo del bene fatto a quegli sventurati.» Noi non li chiameremo più sventurati: la fede c’insegna che il perdono di Dio, non pure ricopre d'un velo la colpa, ma la scancella e l’annienta; e il più colpevole degli uomini, dopo quel perdono onnipotente, non è più altro che un amico di Dio, e, nell’altra Vita, un'anima gloriosa in sempiterno.

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:07 pm | | Default

L'inumano strappo. Utero in affitto e diritti fondamentali, di Carlo Cardia

Riprendiamo da Avvenire del 3/6/2017 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Carlo Cardia, cliccare sul tag Carlo Cardia. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Laicità e diritti umani e Famiglia, sessualità e gender.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

La femminista svedese Kajsa Ekman

Accade a volte che si parli in modo separato, come fossero eventi autonomi, della maternità surrogata e del diritto dei bambini di avere una mamma e un papà. Anche recenti polemiche sui provvedimenti disciplinari ipotizzati nei confronti di psicologi che sostengono la centralità delle figure materna e paterna per l’infanzia avvalorano indirettamente l’idea che si possa discutere di questo tema tacendone la bipolarità: a ogni bambino privato della figura materna corrisponde il fatto che la madre è nascosta dall’ordinamento, privata dei suoi diritti, magari dopo il commercio che s’è fatto del corpo e della psiche attraverso la surroga di maternità. Le stesse dichiarazioni di Emmanuel Macron, nuovo presidente francese, che ha distinto i due eventi sembrano ignorare che a ogni donna che accetti la surroga di maternità fa riscontro, oltre al commercio umano, un bambino che crescerà senza gioire del rapporto che l’unisce a chi gli ha dato la vita.

La maternità surrogata e il bambino cui è stata tolta la mamma sono due facce della stessa medaglia, sono conseguenze e frutti di uno strappo inumano che ha violato ogni legge, divina e umana. Lo psicanalista Fabio Castriota ricorda che il rapporto madre-bambino è già scambio attivo in gravidanza, e si spera che nessuno contesti un’esperienza comune all’umanità intera, e aggiunge che «ogni volta che c’è un parto nasce anche una madre», e strappare il bambino alla madre «determina un trauma di separazione che lascia in entrambi traccia indelebile». Unire i due fatti permette di vedere più nitidamente, le conseguenze che ne derivano anche se i due soggetti vivono a grande distanza l’uno dall’altra. La prima conseguenza è quella di togliere la genealogia al bambino, e la filiazione alla madre, senza che nessuno dei due possa ricordare davvero chi è sua mamma o chi è e dove si trova suo figlio, e impedisce per sempre di poter parlare rispettivamente della madre o del figlio: sono stati come rapiti, secondo la filosofa umanista Sylviane Agacinskji, da un «mercato crudelissimo», dimezzati della propria umanità, il bambino delle proprie origini, la donna dal proprio futuro di madre. Fatti e pensieri ben noti ai lettori di "Avvenire", soprattutto nei lunghi (e non ancora conclusi) anni in cui quasi solo su queste pagine hanno avuto spazio e giusta risonanza.

Un altro esito è quello di far vivere ai figli una esperienza lontana dalla sua naturalità: sono destinati a non sperimentare mai l’unicità del rapporto con il corpo femminile, con quel grumo di tenerezza e sentimenti che tutti conosciamo, espressi ed esaltati dalla letteratura e la poesia d’ogni tempo, e possono cercare la femminilità più tardi, fuori della famiglia. Ancora una conseguenza riguarda i due eventuali "genitori" maschi caricati di compiti di supplenza del ruolo materno per il quale non sono attrezzati geneticamente. In parte, questi esiti sono riferibili a situazioni nelle quali a mancare è il padre, mentre la figura materna raddoppiata crea altri scompensi e limitazioni. Susanna Tamaro non poteva meglio sintetizzare: «Cento anni di psicanalisi, milioni di studi sul Dna e la scoperta dell’epigenetica cancellati con un colpo di spugna. Il bambino su ordinazione viene proposto come una tabula rasa da plasmare a piacimento».

Un’altra dimensione dello strappo tra madre e figlio, con la scomparsa della prima, è quella della commercializzazione di ciascuno di essi. Una dimensione che grida contro ogni cultura solidarista che ha fondato la modernità, e di cui è permeato lo Stato sociale. Sono culture che hanno lottato per la dignità della persona: quella marxiana per porre fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quelle religiose per umanizzare i rapporti sociali e l’economia, quelle giuridiche-umaniste perché mai la persona sia oggetto di compravendita, di sfruttamento, di alienazione, con il divieto previsto in tutti i codici civile di atti dispositivi anche parziali del proprio corpo. Molto si vuol riscrivere della filosofia, dell’etica, del diritto, ma queste conquiste dello spirito dell’uomo verrebbero spogliate del contenuto umanista che le ha permeate in un lungo processo di affinamento. La diffusione internazionale della maternità surrogata, con la compravendita del figlio, ripropone pratiche pre-moderne, patriarcali e paleo-capitalistiche: per Kajsa Ekman «nel patriarcato le donne esistono in funzione degli uomini e nel capitalismo i poveri in funzione dei ricchi».

Tutto ciò farà del nascituro un ordinario oggetto di mercato con una contrattualistica che non avrebbe potuto pensare neanche il Dottor Stranamore della biogenetica, con clausole compromissorie e rescissorie, con assicurazioni per i danni recati: al figlio, ai genitori 'sociali' che acquistano i figli, alle madri che fanno nascere i bambini per poi consegnarli. E permetterà forme di pubblicità on-line che apriranno nuovi orizzonti: se posso vendere il mio corpo, e comprare e vendere il figlio che produco, non c’è più limite alla compravendita di diritti anche personalissimi che oggi sono garantiti universalmente.

Qualcuno intravede la prospettiva di nuove possibilità risarcitorie: quando i bambini cui è stata strappata la madre, o il padre, acquisteranno giorno dopo giorno piena consapevolezza della privazione subita e potranno chiedere i danni, danni enormi come immensa è stata la privazione sofferta. Ma una domanda resterà sempre senza risposta, come si possa risarcire chi è stato privato della sua identità genealogica e psico-fisica. Infatti, l’ottica risarcitoria, per quanto affinata, su questo versante non funziona: non c’è proprio nulla da risarcire, perché il risarcimento non potrà mai compensare il bambino e la madre per ciò che hanno perso e per il male che hanno subito, perché hanno perso parte di sé stessi. Così ampia è la devastazione provocata dalla maternità surrogata in tutti i soggetti coinvolti che è necessario combatterla a ogni livello, compreso quello internazionale, perché venga limitata, condannata, eliminata. Come è stato per la schiavitù, come dovrà essere per la pena di morte. E forse si dovrebbe finalmente cominciare a ragionare di una carta dei valori e dei diritti del nascituro, della madre e del padre, nei loro rapporti e vincoli biologici, etici, cioè nella loro essenza umana intangibile, perché base e fondamento di una vita degna d’essere vissuta.

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:06 pm | | Default

1/ Il tiranno, l'innominato e la modernità di Manzoni, di Romano Luperini 2/ L'inquietudine ne "I promessi sposi" e il personaggio di Don Rodrigo

1/ Il tiranno, l'innominato e la modernità di Manzoni, di Romano Luperini

Riprendiamo dal blog di Roberto Contu http://www.laletteraturaenoi.it/ un articolo di Romano Luperini pubblicato il 7/4/2013, con la breve introduzione che ne segnalava il contesto. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti 11/6/2017)

Presentiamo ai nostri lettori un ciclo di lezioni su I promessi sposi che sostengono la tesi della modernità di Manzoni. Le lezioni proposte utilizzano i materiali multimediali all'interno di una struttura saggistico-argomentativa e potranno essere ripoposte in classe con l'ausilio della LIM o di un videoproiettore.

La concezione del tiranno: la linea giacobina e la linea biblica

In Manzoni la parola e il concetto di “tiranno” sono densi di implicazioni intertestuali che rinviano a due diverse linee: una di derivazione alfieriana poi foscoliana e montiana (con riferimento all’influenza che la Bassvilliana e la Mascheroniana ebbero sul poemetto Del trionfo della libertà e su altri scritti giovanili manzoniani), dunque libertaria, giacobina prima e risorgimentale poi; l’altra di ascendenza religiosa e più precisamente biblica. E’ questa seconda, anzi, che fornisce all’immaginario manzoniano una sorta di codice archetipico della figura del tiranno, dotato di potere assoluto ma anche – come si legge a proposito di Saul nel Primo Libro dei Re (o di Samuele) – tormentato «da uno spirito maligno mandato dal Signore» (I°, Re, 16, 14).

L'innominato e il dualismo apocalittico di Manzoni

Se l’innominato «non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto», è già a tu per tu con la divinità. Il castello stesso sembra non avere storia: i suoi interni sono nudi e bui, senza quella galleria dei quadri degli antenati che fanno parte del topos e che infatti adornano il palazzotto di don Rodrigo. Sembra esprimere la dimensione mitica, e quindi in una certa misura astorica e atemporale, del protagonista, che nel passaggio da Fermo e Lucia ai Promessi sposi ha perso la coloritura cronachistica del Conte del Sagrato.

L’innominato si presenta ora come un personaggio privo di radici familiari, senza passato e senza storia. Fra i protagonisti del romanzo è l’unico la cui vicenda narrativa non trovi una conclusione e la cui fine resti avvolta nel mistero: mentre in Fermo e Lucia il Conte del Sagrato moriva al servizio degli appestati, nei Promessi sposi nulla si sa dei suoi ultimi anni di vita e della sua morte: «né sopravvive alla storia né scompare entro la storia», come ha scritto, con la solita finezza, Giovanni Pozzi (G. Pozzi, I nomi di Dio nei Promessi sposi, Bernasconi, Lugano 1989, p. 23).

Si deve aggiungere inoltre che, in nessun momento della propria crisi, egli incontra la figura della mediazione che pure è centrale nella religione cristiana, la figura fraterna e caritatevole del Cristo, il cui nome d’altronde è quasi del tutto assente nel romanzo. Davanti all’innominato si erge invece un Dio padre e giudice, un Dio biblico, quello che atterra e suscita, che affanna e che consola. Come per Napoleone del Cinque maggio, il confronto avviene direttamente con Dio. Questi due grandi tiranni, Napoleone e l’innominato, tendono a rapporti assoluti, e a sfide radicali. La fantasia di Manzoni sembra abitata da un grandioso dualismo apocalittico.

Sarà solo una figura femminile evocante immagini domestiche di tenerezza familiare e di devozione religiosa a fornire all’innominato una possibilità di accesso alla divinità e di un passaggio dal ferino al civile. L’unica mediazione è rappresentata da Lucia, dunque da un’immagine del femminile. La donna in Manzoni appare portatrice di valori non solo religiosi ma anche civili: la delicatezza, la misura e la dignità di Lucia sembrano anticipare quelle della madre di Cecilia. Come questa introduce nella degradazione della peste e nel regno dei monatti un segno di carità cristiana e, insieme, il gesto fermo della forma, della distinzione e di una elevata tradizione civica, così Lucia riesce a far penetrare in quel paesaggio analogamente infernale e selvaggio, in quel castellaccio minaccioso, un messaggio di pietas cristiana, di gentilezza femminile e di decoro civile.

L'inquietudine dell'innominato: il ritorno del rimosso

Nella redazione definitiva la inquietudine dell’innominato conosce due diversi momenti, entrambi segnati dalla ricorrenza di questo termine. Nel primo il personaggio appare turbato da un doppio timore, quello della morte e quello di un possibile giudizio divino, e il sintagma «nuova inquietudine» marca la loro congiunzione. D’altronde un senso oscuro di inquietudine è presente già nella percezione della vicinanza della morte, espressa con parole di straordinaria modernità:

«Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva respingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava».

Per l’innominato la morte non è un fatto che viene dall’esterno, o un momento che suggella la fine di una vita; è un’idea che ti invade dall’interno, che ti cresce dentro e a poco a poco ti conquista. Più la fuggi, più si avvicina.

La stessa cosa accade con il pensiero di Dio che a poco a poco, e suo malgrado, gli si afferma dentro e che si configura come un terrore segreto a lungo rimosso. L’idea di Dio affiora alla coscienza con l’energia di un automatismo interiore incontrollabile e inconsapevole o, se si preferisce, con quella del ritorno del rimosso: «in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva di sentirlo gridare dentro di sé: Io sono però» (dove si avverte di nuovo una evidente eco biblica, l’«Ego sum qui sum» di Esodo, 3, 14). Dio è l’inconscio; coincide con un grido interiore; è un insieme di pulsioni, di pensieri rimossi, di timori oscuri, di angosce senza nome e senza motivo. L’innominato cerca di negare il ritorno del rimosso, di fare appello alla coscienza, alla sua ideologia d’uomo d’arme senza paura, in modo da «nascondere a se stesso» questa irresistibile emersione, «mascherandola» attraverso il ricorso alla consueta ferocia e alle abituale disciplina. Questa attenzione a moti interiori in bilico fra inconscio e conscio, ai meccanismi dello spostamento, della rimozione e dell’autocensura, sembra render ragione della nota affermazione di Freud che vedeva nei capolavori della letteratura la prima anticipazione delle scoperte che porteranno alla nascita della psicoanalisi.

L'inquietudine dell'innominato: l'incontro col femminile

Il secondo momento, che coincide con la seconda ricorrenza del termine, si riferisce all’attesa di Lucia e ha a che fare con l’incontro con qualcosa che sinora era rimasto estraneo all’animo dell’innominato. Si tratta dell’incontro con il femminile, in questo caso reso più drammatico da una serie di opposizioni inerenti al topos – tipico del romanzo gotico e libertino – della vergine rapita a scopo di libidine: l’opposizione maschio/femmina è raddoppiata da quella oppressore/vittima e vecchio/giovane e infine, sulla scorta del modello sadiano, da quella vizio/virtù. Nei Promessi sposi si dà una congiunzione del topos della vergine rapita con quello della inquietudine del tiranno; anzi, tale unione di per sé costituisce una invenzione originalissima di Manzoni.

Il tema della femminilità minacciata acquista nei Promessi sposi un rilievo assai maggiore che in Fermo e Lucia, in cui manca la decisione dell’innominato di mandare la vecchia incontro alla carrozza di Lucia (nella redazione iniziale ella si trovava già al suo interno). Il fatto che l’innominato decida ora di mandare una donna a consolare la rapita per suscitare in lei il meccanismo di una solidarietà di genere in un mondo militaresco dominato dalla arroganza e dal potere del maschile è di per sé significativo. Ma anche le parole con cui viene impartito il comando mostrano una incertezza, un turbamento, una inquietudine, appunto, suggeriti dai puntini di sospensione che per due volte precedono la parola « giovine»:

«Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c’è … ci deve essere … una giovine. Se c’è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga subito da me. Tu starai nella bussola, con quella… giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera».

Quella morte che veniva dall’interno approssimando il momento del giudizio ora assume le sembianze della carrozza che si avvicina costringendo l’innominato a un resoconto definitivo con la propria vita e i propri rimorsi. È come se quella vettura portasse con sé tutto il suo passato con cui ora egli avverte il bisogno di fare i conti. Nello stesso tempo quei puntini rivelano un imbarazzo che non riguarda solo genericamente il crimine che egli sta compiendo, ma specificamente una violenza collegata al sesso e all’età della vittima.

È il mondo del femminile che, con la carrozza di Lucia, penetra inaspettatamente nella sua vita e confusamente comincia ad apparirgli come depositario di sentimenti opposti a quella violenza. Si tratta di sentimenti di delicatezza, di solidarietà, di compassione e consolazione alternativi a quelli a cui è avvezzo il mondo maschile; e infatti il Nibbio per primo aveva osservato: «è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo». Nei comportamenti di Lucia, che si getta ginocchioni davanti all’innominato esclamando «Son qui: m’ammazzi» secondo un linguaggio gestuale e un modello di atteggiamento mutuato da una tradizione cristiana secolare e da una memoria figurativa che evoca il concetto warburghiano di Pathosformeln, la mitezza, la disposizione al sacrificio, la “civiltà” del femminile possono assumere un potere: quello di far sentire in colpa l’aggressore e di rovesciare così i rapporti di forza.

Si fondono qui una riflessione antropologica sul maschile e sul femminile e la capacità, già riscontrata negli Inni sacri, di trasformare la dottrina e la storia del cristianesimo in forza mitica. Non per nulla il nesso potenza/debolezza è al centro di un capitolo delle Osservazioni sulla morale cattolica, dove si analizza il detto dell’Apostolo «Virtus in infirmitate perficitur» e si afferma che «la potenza divina arriva al suo fine per mezzo della debolezza». E in effetti è attraverso i gesti e le parole di una vittima (si ricordi: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia») che la potenza divina raggiunge il suo effetto.

Manzoni moderno

Nell’inquietudine del tiranno agisce insomma una vera e propria crisi di identità, in cui, come abbiamo visto anche in don Rodrigo, la questione del sesso e del genere assume uno spazio non secondario. Se il Nibbio, di fronte a Lucia, già aveva visto porre in discussione la propria virilità, così è anche per l’innominato nella drammatica angoscia notturna che precede il suo incontro con il cardinal Borromeo. La prima ragione d’ansia è quella dichiarata subito, appena egli è costretto a prendere atto della propria insonnia:

«Che sciocca curiosità da donnicciola, – pensava, – m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?...io non son più uomo, io?»

E poi:

«Io domandar perdono? a una donna? […] A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!»...

Nel momento più acuto della crisi, subito dopo l’impulso al suicidio, «l’umile preghiera» di Lucia, le sue parole di pietà cominciano ad assumere per lui «un suono pieno di autorità», mentre quella ragazza «supplichevole» gli appare ora come dispensatrice di «grazie e consolazioni». Una vera e propria inversione dei rapporti di forza. E se un pensiero può ora concedergli sollievo è ancora quello di un’altra figura femminile, quella sconosciuta della madre di Lucia a cui egli immagina già di ricondurre personalmente la figlia.

Concludendo. L’apporto di Manzoni alla problematica moderna dell’inquietudine mi sembra di assoluto rilievo. Nei Promessi sposi l’inquietudine esce dalla sfera della vaporosità di certa letteratura romantica. Abbandona l’ambito dello “stato d’animo”, delle malinconie indeterminate e dei turbamenti amorosi, per entrare in quello della rappresentazione drammatica dei meccanismi del ritorno del rimosso e della resistenza che esso suscita. L’elemento drammatico è inoltre rafforzato dall’analisi potente e rigorosa dei rapporti di forza fra i personaggi e delle contraddizioni psicologiche di uomini dotati di grande potere e di grande autorità, nel male come nel bene. Partendo da archetipi biblici, filtrati anche dalla lezione di Dante e di Shakespeare, di Alfieri e di Pascal, nonché dei grandi predicatori francesi del Seicento, Manzoni ci offre una grandiosa rappresentazione dell’inquietudine del tiranno. La figura del despota turbato e angosciato, che dopo aver tiranneggiato il prossimo comincia a torturare se stesso, non è certo un’invenzione dei Promessi sposi, ma Manzoni ha indubbiamente contribuito a delinearla in modo più modernamente problematico. Ne è una conferma e quasi ulteriore riprova il fatto che la crisi d’identità dell’innominato sia prodotta non solo dall’incombere della morte e del giudizio di Dio, ma anche dal confronto aperto e drammatico con l’elemento femminile.


2/ L'inquietudine ne "I promessi sposi" e il personaggio di Don Rodrigo

Riprendiamo dal blog di Roberto Contu http://www.laletteraturaenoi.it/ un articolo di Romano Luperini pubblicato l’1/4/2013, con la breve introduzione che ne segnalava il contesto. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

Presentiamo ai nostri lettori un ciclo di lezioni sui Promessi Sposi che sostengono la tesi della modernità di Manzoni. Le lezioni proposte utilizzano i materiali multimediali all'interno di una struttura saggistico-argomentativa e potranno essere ripoposte in classe con l'ausilio della LIM o di un videoproiettore.

L'inquietudine di Manzoni

Per molto tempo l’immagine di un Manzoni serenamente composto e armoniosamente classico ha impedito di coglierne la modernità. Questa interpretazione rassicurante, d’altronde coerente con lo spirito tradizionalista della cultura italiana, è stata abbandonata solo dalla critica più recente; e basti qui ricordare, a scopo esemplare, solo i nomi di Raimondi o di Calvino.

Sta emergendo insomma l’immagine di un Manzoni diverso, assai più problematico, assai più inquieto di quanto un tempo si sospettasse. Personaggi come Gertrude o l’innominato, così complessi e tormentati, affondano radici robuste nella cultura e nella psicologia dell’autore. Non sarà certo un caso se Manzoni, parlando di Pascal nelle Osservazioni sulla morale cattolica, dichiari di ammirare nei suoi Pensieri «lo sguardo turbato e confuso della contemplazione dell’abisso umano». Anche quello di Manzoni è «uno sguardo turbato» volto a contemplare l’«abisso umano» di questi grandi personaggi.

Persino don Rodrigo, troppo spesso dipinto semplicemente come un «briccone dozzinale» o, addirittura, «un bestione» (Russo), conosce turbamenti e sfumature che gli fanno assumere alla fine una dimensione tragica. Nel caso di don Rodrigo e soprattutto dell’innominato, inoltre, gioca un ruolo di spicco non solo l’interesse psicologico e morale per gli abissi del cuore umano, ma anche quello culturale e politico per la figura del tiranno. D’altronde la sfera psicologica ed etica e quella culturale e politica sono sempre strettamente connesse nell’immaginario manzoniano, come mostrano anche le riflessioni sulle grandi personalità e sul problema del potere che costellano la sua opera: da Adelchi, al Conte di Carmagnola al Napoleone del Cinque maggio sino alla figura di Riccardo II nella Lettre à Monsieur Chauvet o al padre di Gertrude nei Promessi Sposi. In tutti questi casi il personaggio dell’uomo dotato di un grande potere o addirittura del despota ha una sua grandiosa cupezza che esclude messaggi semplificatori e unidirezionali.

L'inquietudine di don Rodrigo

Rispetto a figure come queste don Rodrigo rischia senza dubbio di apparire un mediocre, un «tirannello» di paese. Su questo punto Manzoni è esplicito. Alla fine del cap. XIX infatti si legge:

“Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile”.

La contrapposizione rispetto all’innominato, autentico tiranno perché «salvatico», è evidente. D’altronde, nella Lettre à Monsieur Chauvet, Manzoni annota che in un’opera d’arte l’apparizione del male non va associata al sublime ma al mediocre. E tuttavia don Rodrigo non è amorale, cinico e spensierato come il conte Attilio, né organicamente malvagio e coerentemente immorale come Egidio. Pur nella sua rozzezza, è figura più complessa e turbata. Non manca in lui il tarlo di un senso di colpa per quanto sempre rimosso, di un oscuro timore acuito dal confronto con i ritratti degli antenati, dal sentimento di inferiorità o di impotenza, o addirittura di castrazione come farebbe pensare il frequente ricorso alla spada come simbolo di un potere sadico-fallico e di una possibilità di risarcimento a esso connessa. Per questo, subito dopo il colloquio tempestoso non meno che perturbante con fra Cristiforo, l’arma viene da lui cercata e indossata per recarsi al “pubblico ridotto” – una casa da gioco o, più verosimilmente, stante il contesto psicologico, di malaffare – . L’ansia prodotta dal senso di colpa è avvertita da don Rodrigo come frustrazione di un bisogno di virilità e di potenza che dovrebbe escludere pentimenti e debolezze. Si tratta di un procedimento psicologico assai meno sfumato ma nella sostanza non molto diverso da quello dell’innominato nella notte della crisi esistenziale e religiosa quando il rimorso per l’ultimo crimine e la compassione per le lacrime di una donnicciuola vengono da lui inizialmente concepiti come una defaillance della propria virilità. L’incubo spaventoso provocato dalla febbre della peste – certo, uno dei più grandi sogni della letteratura italiana prima di Freud - è la traccia di un lavorìo dell’inconscio che al lettore moderno è impossibile sottovalutare.

Anche don Rodrigo, dunque, è un tiranno inquieto? L’aggettivo non campare nei Promessi sposi, ma in Fermo e Lucia. All’inizio del cap. IX del quarto tomo don Rodrigo, ormai fuori di sé per la febbre, spia nel lazzaretto il ricongiungimento di Fermo, Lucia e fra Cristoforo. Vi si legge:

“Dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire”.

È uno spunto bellissimo, uno dei non molti che fanno rimpiangere la redazione iniziale. È come se qui, nella infermità delirante della malattia giunta alla sua fase terminale, in questo spiare geloso e minaccioso ma anche implorante una solidarietà da cui si sente escluso, si rivelasse finalmente la verità di don Rodrigo, il lato incerto e inquieto del suo carattere, timoroso e aggressivo, egualmente disposto a fuggire e a inseguire, in una crisi di sicurezza e di identità che la stesura definitiva conferma ma in parte anche rimpiccolisce.

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NOTA

Questo testo è stato concepito originariamente come relazione introduttiva al Congresso degli italianisti tedeschi, all'Università di Marburg, in Germania, tenuta il 29 febbraio 2008.

La prima immagine è dell'illustratore Marco Lorenzetti.

La seconda e la terza illustrazione sono tratte da Franzesco Gonin, I promessi sposi, edizione 1940.

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:05 pm | | Default

La patria italiana degli ebrei di Libia, di Francesca Nunberg

Riprendiamo da Il Messaggero del 6/6/2017 un articolo di Francesca Nunberg. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ebraismo.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

L'ANNIVERSARIO
Tra i cinquemila ebrei espulsi dalla Libia cinquant'anni fa, c'era anche David Zard, testa calda già da allora: «Non siamo stati espulsi, siamo fuggiti per non essere uccisi. A 24 anni ero agente pubblicitario alla Fiera di Tripoli, giocavo a dama al bar coi cocchieri arabi, avevano la radio sempre accesa, mi dicevano guarda che Nasser sta vincendo la guerra, è la volta buona che vi buttiamo tutti a mare... Facevo un gestaccio e me ne andavo. Ma quando dissero a mio zio che il primo della lista ero io, ho capito che non potevo restare. Sono arrivato in Italia due giorni prima che scoppiasse la Guerra dei sei giorni e ho aspettato gli altri». Così Zard, che ha portato in Italia Bob Dylan e Madonna, le prime persone che si trovò ad accogliere a Fiumicino furono i suoi correligionari in fuga dalla Libia.

LA PROIEZIONE L'impresario ricorda quei giorni nel docufilm Libia. L'ultimo esodo diretto da Ruggero Gabbai e realizzato con lo psicanalista David Meghnagi, docente e assessore alla Cultura dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, nonché testimone diretto dei fatti. La presentazione stasera alle 20 in anteprima al cinema di Orfeo di Milano e prossimamente a Roma. Fuori del film Zard racconta di come cominciò subito ad amare la nuova patria «mentre gli italiani di Tripoli erano ancora mezzi fascisti».
«Ma in Libia non ho più messo piede. Quando Gheddafi anni dopo venne in Italia e invitò i tripolini a tornare perchè ogni Paese ha bisogno dei suoi ebrei ho pensato che avrei visitato la tomba di mio padre, ma il cimitero era distrutto e le ossa sparpagliate. Mi dissero che avrei riavuto le mie proprietà e gli stessi diritti dei musulmani, così chiesi all'ambasciatore se avrei potuto anche fare il primo ministro. E lui mi rispose: Non esagerare, sempre ebreo sei».

E così gli altri. Quasi nessuno dei cinquemila ebrei costretti a fuggire dalla Libia per il pogrom scoppiato all'indomani della Guerra dei sei giorni (5-10 giugno 67) ha più rivisto quelle strade, il lungomare, i negozi del quartiere popolare della Hara, le sinagoghe. Anche perché quasi tutto è stato distrutto in quei giorni.
Lutto non elaborato, trauma, paura: le parole in questi cinquant'anni si sono sprecate. Nel film si mescolano i destini dei cittadini italiani cresciuti in Libia e le voci degli ebrei. L'aspetto più impressionante è l'ineluttabilità. «Avevamo i bauli pronti - dice Meghnagi - Sono cresciuto con la percezione che la nostra storia lì volgeva al termine, i miei parenti erano già andati in Israele nel 48 e nel 51, degli oltre 35mila ebrei, nel 67 ne rimanevano solo cinquemila. Il pogrom non è stato una sorpresa, le case degli ebrei erano segnate, la radio da giorni annunciava l'imminente distruzione di Israele. Il 5 giugno tutti intorno a noi erano in festa, dicevano che Tel Aviv era in fiamme... Ci siamo chiusi nel nostro palazzo e con noi si sono salvate 52 persone. Due famiglie di amici, i Luzon e i Raccah, sono state trucidate. Dopo un mese abbiamo lasciato la Libia con l'aiuto del governo italiano».

NELLA CAPITALE E poi il caso che non è mai un caso ha voluto che i tremila tripolini sbarcati a Roma siano andati a vivere nel quartiere Africano: viale Libia, via Bengasi, via Tripolitania dove si trova una delle quattro sinagoghe di rito tripolino delle dieci romane. Anche di terza generazione si autodefiniscono tripolini, una comunità nella comunità, «uno status symbol positivo, con uno slittamento semantico dell'identità per non essere omologati - spiega Meghnagi - mentre quando vanno in Israele si definiscono italiani». A piazza Bologna ci sono ristoranti, macellerie kasher, perfino la dolceria con le specialità tripoline, l'orzata, le bocche di dama, la safra con semola miele e uvetta. É stato ricreato un modello di vita: a Roma nulla ci ricordava Tripoli se non noi stessi, dicono. «Ciò che era bello della mia infanzia - aggiunge Meghnagi - l'ho portato con me: i canti, la bellezza del mare, i legami personali. Ho giurato a me stesso che non avrei mai coltivato il rancore».

LA BUROCRAZIA Il ricordo del passato, doveroso, ma anche un urgente richiamo all'oggi: «Sono passati 50 anni - spiega - ma i cittadini italiani ebrei che risiedono in Israele hanno difficoltà a iscriversi all'Aire perché non hanno l'originale del certificato di nascita, così come molti italiani nati in Libia hanno problemi al rinnovo del passaporto. Una circolare del ministero degli Esteri renderebbe più semplice la procedura». «Era urgente fare un film sulla Libia, è una storia molto italiana. Abbiamo raccolto 27 testimonianze tra Italia e Israele, un modo efficace per rileggere la storia e le diverse identità dell'ebraismo del Mediterraneo», spiega Ruggero Gabbai, regista del film prodotto da Forma International e finanziato da un pool di investitori privati. «Ora speriamo lo prenda la Rai», dice Gabbai che spiega le tre dediche: a Giulio Hassan, che rimase quattro anni rinchiuso nelle prigioni di Gheddafi; alla judoka israeliana Yarden Gerbi, medaglia di bronzo a Rio; a Gino Mantin che ebbe il coraggio di tornare in Libia per recuperare cento Sefarim, i rotoli della Legge, dalle sinagoghe distrutte.

© Il Messaggero RIPRODUZIONE RISERVATA

Redazione de Gliscritti | Domenica 11 Giugno 2017 - 10:03 pm | | Default

Dalle attività alle esperienze e ai contenuti, da una catechesi infantilistica alla famiglia. Le novità decisive emerse in catechesi, fondamenta imprescindibili per un rinnovamento vero e non effimero. Appunti su alcune esperienze romane, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

N.B. L'articolo che segue non è una sintesi del lavoro svolto dall'Ufficio catechistico in questi anni (su questo verrà pubblicato a breve un testo riassuntivo), bensì è un tentativo di lettura di ciò che si muove e si sperimenta nelle diverse parrocchie e comunità, così come dei punti critici che vengono percepiti. Ovviamente tale lettura non fotografa - e nemmeno lo potrebbe - l'assoluta varietà delle situazioni e dei progetti che sono stati elaborati in tanti modi diversissimi, bensì cerca di cogliere alcune esigenze che appaiono in forme diverse in maniera più ricorrente e propositiva. 

1/ La catechesi non può essere disgiunta dall’annunzio: essa è innanzitutto annunzio

La prima grande e straordinaria novità tornata a brillare nella catechesi è che essa non è mai solo presentazione della fede, ma è sempre e innanzitutto annunzio. Annunzio che la fede è grande, è bella, è appassionante, è assolutamente nuova, è capace di toccare il cuore e la mente, è capace di trasformare il mondo, è capace di condurre a Dio e alla vita eterna, è vera e credibile, è buona.

Papa Francesco sintetizza in EG 165 questa novità quando afferma che «alcune caratteristiche dell’annuncio […] oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna».

Tale sottolineatura del carattere kerygmatico di ogni vera catechesi è maturata progressivamente, anche se con terminologie diverse, dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI alle prime udienze del breve pontificato di Giovanni Paolo I[1], dalla grande riflessione di Giovanni Paolo II sulla “nuova evangelizzazione” alla ripetuta affermazione di Benedetto XVI che la fede deve essere proposta e non presupposta, fino all’Evangelii gaudium di papa Francesco, testo programmatico del suo pontificato.

In questo modo è saltata quella sequenza che caratterizzava l’analisi catechetica dei decenni passati: prima l’annunzio, poi la catechesi, poi la predicazione. Invece, nella realtà della vita delle persone, sempre più interessante delle idee astratte, tutto questo si presenta insieme. Chi partecipa alla catechesi ha in realtà desiderio e bisogno di scoprire perché valga la pena credere: spesso non partecipa alla catechesi perché già crede. Questa riscoperta è in grado già da sola di rinnovare profondamente la catechesi[2].

In effetti – è questo che è decisivo - l’annunzio è costitutivo della fede cristiana, perché essa non nasce dalla speculazione umana, bensì è un dono che ci raggiunge tramite la rivelazione[3]. A Dio è piaciuto farsi conoscere (cfr. Dei Verbum 2) e la catechesi desidera porsi a servizio del godimento di Dio. Dio desidera che il suo amore sia noto agli uomini e che essi possano vivere in comunione con Lui: egli ci ha creati per questo e senza questa comunione con Lui non c’è felicità vera e sincera possibile.

La riscoperta della centralità dell’annunzio e della gioia da cui esso nasce e che esso provoca – beatitudine prima divina e poi umana - è evidente nella prospettiva assunta dal Concilio Vaticano II. La prospettiva dei Padri conciliari non fu semplicemente quella di riaffermare ciò che era giusto, bensì molto più profondamente di comprendere come la fede di sempre fosse in grado di toccare il cuore dell’uomo contemporaneo.

È la prospettiva della Dei Verbum che intende mostrare come nella storia sia avvenuto l’inimmaginabile e cioè che Dio abbia voluto rivelare se stesso. Ponendo la rivelazione di Dio prima della Bibbia e prima della tradizione della Chiesa, il Concilio ha indicato la via di una catechesi come annunzio che parta dal cuore della fede. La Chiesa annunzia – questo deve essere sempre più l’annunzio limpido della catechesi – che la Parola di Dio non è innanzitutto un libro inviato da Dio agli uomini: la Parola di Dio è Gesù Cristo fattosi carne, venuto in mezzo a noi, morto per i nostri peccati e risorto. «La Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia»[4].

Qui è detta già tutta la novità cristiana che l’uomo contemporaneo ha bisogno di tornare ad udire nell’annunzio della catechesi. In tutte le religioni si esprime il desiderio di Dio: tutti gli uomini di ogni tempo luogo andranno sempre in cerca di Lui come a tentoni. Ma, con il Natale del Signore, è avvenuto l’evento sconvolgentemente nuovo: Dio si è fatto vicino. Non ha solo inviato comandamenti agli uomini, non ha solo mandato profeti o libri da lui ispirati, non ha solo chiesto offerte e sacrifici: è venuto in persona in mezzo a noi.

E invece la catechesi spesso continua ad affermare, contro il Concilio Vaticano II, che la Parola di Dio è la Sacra Scrittura. Se si domanda ad un gruppo dell’Iniziazione cristiana cosa sia per loro la Parola di Dio, la risposta è scontata: «La Bibbia!». Ma la Bibbia non è morta per amore come il Cristo crocifisso!

Analogamente quando all’inizio della catechesi dei bambini si presenta il segno della croce i catechisti spesso non si rendono conto che essi non hanno la minima idea di quanto sia rivoluzionario quel segno. I catechisti si preoccupano allora di cose molto più superficiali, ad esempio di come si debba fare il segno della croce o di cosa significhino la fronte o le spalle su cui passa quel segno, ma non del fatto che esso sintetizza tutto il cristianesimo e che presenta la rivelazione inattesa e totale del volto di Dio. Invece potrebbero annunziare – ecco una catechesi che ricorda di essere “annunzio” – che prima della morte di Cristo mai nessun uomo aveva nemmeno immaginato che Dio fosse “amore” al punto da essere disposto a morire per i nostri peccati.

Negli incontri di formazione dei catechisti proposti a Roma si insiste molto sul fatto che ogni catechesi, come quella sul segno della croce, può e deve annunziare la novità cristiana. I catechisti, nel silenzio della società e dei genitori stessi dei bambini, sono i primi nella loro vita a poter mostrare loro la grandezza della “rivelazione”: sono i primi a poter annunziare che la rivelazione piena del volto di Dio è avvenuta nel mistero della croce. Che nel crocifisso si è manifestato il vero Dio, così diverso dagli idoli: Gesù è l’unico che si fa carico del peccato degli uomini, prendendolo sulle sue spalle come un agnello[5]. Ebbene è questo che permette ai catecumeni e a chi partecipa alla catechesi[6] di scoprire subito che Dio è amore, che Dio è misericordia.

L’annuncio della “rivelazione” deve risplendere nella catechesi. Si deve abbandonare una catechesi che talvolta nemmeno utilizza la parola “rivelazione” o comunque le assegna un ruolo marginale. Solo per rivelazione abbiamo conosciuto ciò che era impossibile all’uomo anche solo immaginare[7].

2/ Il kerygma non è solo l’annunzio di Dio che ha svelato il suo “mistero”, ma anche dello svelamento del “mistero” dell’uomo

Una catechesi che si riannodi all’annunzio della fede non può – è la seconda novità decisiva riaffermata negli ultimi decenni dalla riflessione sulla catechesi in Roma - prescindere dalla presentazione appassionata e appassionante di chi sia l’uomo e di come la rivelazione sia l’unica in grado di illuminare il suo “mistero”.

Si tratta, cioè, di ricostruire un’antropologia che mostri come l’uomo da sempre abbia il desiderio di Dio e come tale desiderio sia vivo anche oggi. Tale presentazione della grandezza dell’animo umano, di un uomo non riducibile ad un animale qualsiasi, è oggi ancor più necessari a per una catechesi che sia vero annunzio, in un contesto che a volte disprezza addirittura la ricerca di Dio, quasi fosse un affare per ignoranti.

La catechesi a Roma sta riscoprendo quanto sia preziosa l’affermazione più volte ripetuta da papa Francesco che la fede non è una “subcultura”[8], bensì nasca da una visione profonda del cuore dell’uomo. L’uomo si differenzia dagli animali proprio perché è l’unico ad avere il bisogno e, più ancora, il desiderio di Dio.

La domanda su Dio è al vertice della cultura umana. Allo stesso tempo è l’origine della cultura. La differenza fra l’uomo e l’animale emerge nell’evoluzione delle specie esattamente perché solo l’uomo prega per i nuovi nati e seppellisce i suoi morti, interrogandosi sul senso della vita: proprio questa differenza dice la grandezza del suo cuore e della sua mente. Egli è stato fatto da Dio per poter vedere il Suo volto ed entrare in comunione con Lui[9].

Se si giunge fino alle periferie e si guarda il mondo con gli occhi dei poveri, ci si accorge limpidamente che essi cercano Dio più che il denaro: essi sanno che senza Dio non si può vivere e che l’uomo non vive di solo pane. Papa Francesco ha scritto: «Desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (EG 200).

Solo questa visione vera e grande dell’uomo permette di capire perché la catechesi e l’annunzio del Vangelo possano nascere solo dalla carità. È questa visione che permette di penetrare nei “segreti” della Chiesa che insegna da sempre non solo 7 opere di misericordia corporale, ma anche 7 opere di misericordia spirituale, perché sa che l’uomo ha bisogno oltre del pane quotidiano anche della grazia di Dio. Questo illumina poi la vita dei genitori a scoprire che un ragazzo, anche se pieno di beni, ma vuoto di Dio, di carità e di speranza, non potrebbe essere felice. Spesso la pedagogia tace su tale dimensione e tanti genitori si domandano cosa manchi ai loro figli che “hanno tutto”! Invece tutta l’esperienza umana “urla” che all’uomo manca tutto se non ha Dio. Leopardi arrivò a dire che la “noia” è il sentimento più sublime dell’uomo[10] perché mostra che niente di ciò che esiste al mondo potrà mai soddisfarlo, perché ha un cuore fatto per l’infinito. Un’educazione fatta solo di passatempi, di divertimenti, di esperienze effimere, non potrà mai bastare ad un giovane per amare veramente la vita.

Si può divenire catechisti solo riscoprendo che l’uomo è assetato di Dio, che è affamato di amore e che solo la fede nutre veramente.

Essere catechisti è una vocazione di amore. Può nascere solo in chi abbia una visione realistica dell’uomo: una visione puramente materialistica dell’uomo che lo riducesse a puro animale, disinteressato al senso della vita e all’amore, priverebbe di senso a priori quella grande opera di carità che è la catechesi.

Tale sete di un senso riguarda non solo l’esistenza individuale, ma anche la vita della società e il domani verso cui è diretta. Evangelii gaudium ricorda con grande profondità come annunziare il Vangelo voglia dire anche scoprire come la rivelazione di Dio illumini l’uomo e le sue relazioni, al punto che la dimensione sociale del Vangelo appartiene costitutivamente all’annunzio cristiano e alla catechesi che ne consegue: «“Nessuna definizione parziale e frammentaria può dare ragione della realtà ricca, complessa e dinamica, quale è quella dell’evangelizzazione, senza correre il rischio di impoverirla e perfino di mutilarla” (Evangelii nuntiandi 17). Ora vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice» (EG 176).

La catechesi appare credibile quando l’annunzio della fede illumina non solo il singolo uomo, ma l’insieme della società in cui vive. Parlare di Dio senza illuminare al contempo l’uomo e la società che è chiamato ad abitare e a costruire vorrebbe dire impoverire la catechesi e sfigurare la persona di Cristo.

3/ Il cuore della catechesi non sono le attività. Lo sono invece le esperienze e i contenuti

L’inflazione della dimensione metodologica è stato uno dei grandi limiti della catechesi degli ultimi decenni. A molti è sembrato che il vero problema fosse quello di un adeguamento dei metodi, con la conseguenza di trascurare sia le esperienze che i contenuti della catechesi stessa.

Nelle parrocchie dove si è conservato il materiale utilizzato dalle diverse generazioni dei catechisti è facile rendersi conto di come siano stati utilizzati strumenti via via mutevoli, dalle “filmine”, alle diapositive”, ai DVD, ai “video”, al linguaggio multimediale. Similmente dove sono state conservate le “fotocopie” che hanno contraddistinto il cammino della catechesi, si vede come si sia passati per “attività” e “metodi” diversi, dal collage al cartellone, dal gioco al puzzle, dal cruciverba alle parole da completare, dai disegni da colorare a quelli con punti da unire e così via, da dinamiche di gruppo a bans e canti con gesti annessi. Tutte queste attività - che sembrano caratterizzare anche i recenti sussidi delle diverse case editrici - rendono evidente che questi metodi sono mutevoli e ciò che sembra, in principio, assolutamente nuovo, invecchia nel giro di un brevissimo volgere di anni.

È apparso così evidente che non si può ridurre il cammino formativo ad “attività” di vario tipo. Non che le diverse “attività” siano da scartare, ma lo scorrere del tempo insegna che si può accogliere ogni nuova metodologia e strumento, purché non si ritenga che essi, nella loro transitorietà, siano in grado di garantire la qualità dei percorsi. Anzi, emerge che determinati giochi o forme di pellegrinaggio o canzoni della tradizione reggono meglio la sfida del tempo rispetto a forme di intrattenimento troppo improntate alla moda passeggera del tempo: ad esempio, è evidente per chi lavora a Roma con i ragazzi che una vera passeggiata in alta montagna o una partita di pallone, non caricate di chissà quale valenza simbolica ma vissute per ciò che sono in realtà, sono molto più formative di attività troppo complesse e cerebralmente rivestite di chissà quale significato.

Emerge sempre più con forza che non sono determinati strumenti o metodi ad essere le chiavi per un vero rinnovamento della catechesi. Anzi, i metodi divengono divisivi se si pretende che, in una Chiesa locale, tutti siano tenuti ad uniformare le diverse attività. Le modalità della catechesi non possono che restare diverse, mentre è a un diverso livello che si deve invece coltivare l’unità della proposta catechetica delle Chiese diocesane.

Forse il più grande problema generato dalla focalizzazione sui metodi - e conseguentemente sui sussidi - è stato quello di concentrare l’attenzione degli itinerari di catechesi su di una miriade di attività con l’idea che per attirare i ragazzi e mantenere desta l’attenzione la questione primaria fosse quella di “far fare qualcosa”.

Invece la catechesi ha bisogno di esperienze vive e vere, non costruite ad arte.

Gli anni trascorsi hanno insegnato ai catechisti che è necessario proporre una catechesi che renda possibile una viva esperienza di Dio e non si riduca ad un attivismo superficiale ed effimero.

Solo in un’esperienza viva di Chiesa, infatti, è possibile sperimentare la presenza di Dio. Non basta qualche dinamica di gruppo vissuta con un ristretto numero di persone: solo l’incontro con la Chiesa nella sua pienezza, con la Chiesa guidata dallo Spirito vivo di Dio, permette di comprendere come la provvidenza divina operi nella storia.

È evidente a tutti, ad esempio, il modo con il quale il Signore ha guidato la Chiesa prima con il Concilio Vaticano II, poi con tutti i papi che, con carismi diversissimi, sono stati via via eletti. Essere accompagnati dai pontefici, da Giovanni XXIII a Paolo VI, da Giovanni Paolo I a Giovanni Paolo II, da Benedetto a Francesco, non è stato qualcosa di elaborato in “laboratorio”, bensì un’esperienza viva, vissuta nella storia. «Nessuno diventa cristiano da sé. Non si fanno cristiani in laboratorio. Il cristiano è parte di un popolo che viene da lontano. Il cristiano appartiene a un popolo che si chiama Chiesa e questa Chiesa lo fa cristiano, nel giorno del Battesimo, e poi nel percorso della catechesi»[11].

Diversa da un “laboratorio”, perché non elaborata ad hoc, ma viva ogni domenica, è poi la celebrazione eucaristica festiva: solo essa permette una vera “esperienza” di Dio, poiché nella liturgia, come insegna la Sacrosanctum Concilium, Cristo che la presiede parla al suo popolo, lo raduna o lo nutre con il suo corpo.

Non si tratta tanto di organizzare qualche celebrazione ad hoc una tantum per i ragazzi della “confermazione” in un’occasione “laboratoriale”, quanto piuttosto che essi “vedano” che tanti giovani delle superiori e dell’università animano la messa domenicale, ma anche che la messa - spostata in estate alla domenica sera – è animata con gioia e fedeltà dagli stessi animatori che li accompagnano nei giochi dell’oratorio estivo e l’omelia non solo non è noiosa, ma anzi è la parola che illumina la vita di un quartiere, ed ecco che la messa domenicale diviene il cuore dell’“esperienza” catechetica, coinvolgendo chiunque entri in chiesa. Se invece la messa è debole e povera, ecco che non c’è laboratorio o attività che possa colmare questa carenza esperienziale.

Allo stesso modo i ragazzi ed i loro genitori, come anche i catecumeni adulti, debbono fare un’esperienza viva di fraternità sperimentata nella Chiesa, in una comunità dove i catechisti sono parte di un “corpo” che non solo vive con serenità le sue relazioni, ma nella carità accoglie ogni nuova persona che si avvicina ed anzi si cura dei più piccoli e dei più poveri, invitandoli a dare a loro volta una mano per il servizio di chi ha bisogno. Si potrebbe proseguire riflettendo su quale cambiamento generi nella persona l’esperienza che la comunità cristiana vive in un’attenzione alla cultura, sa leggere i problemi della scuola e quelli sociali con un’acutezza non reperibile altrove, e così via.

Nessuna dinamica di gruppo potrà mai sostituire questa esperienza viva dell’assemblea domenicale, della fraternità con tutti i cristiani, del servizio verso i più poveri, della carità intellettuale che illumina le scelte educative e sociali.

Non è il laboratorio ad essere la “forma” prima dell’esperienza cristiana: esperienze primarie sono invece l’assemblea eucaristica domenicale, l’incontro con i sacerdoti, la scoperta di tutta una comunità parrocchiale che genera i suoi figli.

Si potrebbe dire, in sintesi, che il cammino degli ultimi decenni ha portato la catechesi a riscoprire che un’ecclesiologia basata sull’eucarestia che raduna l’intera comunità è più vera di una ecclesiologia basata su piccoli gruppi o su piccole équipes che si sostituirebbero al popolo di Dio nella sua totalità.

La catechesi “funziona” dove c’è una parrocchia viva e dei preti pieni di passione: a Roma parrocchie diverse utilizzano metodi diversissimi e tutti sembrano funzionare a condizione che ci siano persone che credano veramente nel Signore e con il cuore e l’intelligenza si dedichino con generosità alla trasmissione del Vangelo. A tutti è evidente che sono le persone a fare la differenza. Un’attenzione esagerata ai metodi, per di più se accompagnata dalla pretesa di pretendere da tutti di attenersi ad essi in una città così pluriforme e diversificata, sarebbe mortale e devastante.

4/ I contenuti della catechesi le appartengono intrinsecamente se si desidera la maturazione di una fede adulta

La trasformazione della catechesi in attività ha arrecato grande danno anche alla trasmissione dei contenuti della fede cristiana. Quando la catechesi non aiuta a maturare una visione armonica della fede, la persona resta spiritualmente infantile e incapace di amare profondamente ciò che crede. Diviene anche incapace di rendere ragione della speranza che è in lui: una fede adulta ha invece bisogna di chiarezza su ciò che è essenziale per poter dialogare con chi è lontano da Dio.

Come l’inconsistenza delle esperienze, così anche la debolezza e la fumosità dei contenuti rende la catechesi infruttuosa. Invece la scoperta dei grandi temi della fede sostiene l’adulto nella capacità di rispondere alle obiezioni di tanti e ancor più gli mostra come solo la fede possegga la luce adeguata per illuminare ogni vita.

La catechesi sta riscoprendo che l’abbandono dei temi decisivi della fede impoverisce enormemente la trasmissione della fede. Tanti si allontanano dalla fede proprio perché sentono che la catechesi non risponde alle domande vere che hanno nel cuore e non riesce a mostrare come i principali dogmi della fede siano vivi e straordinariamente profondi.

All’opposto proprio una catechesi che affronti i grandi temi e le grandi questioni si rivela invece straordinariamente viva: tanti si rivolgono ai cristiani con le loro domande in cerca di una risposta.

In particolare, senza un annuncio credibile di Dio e della creazione anche la proposta di Cristo diviene insignificante: infatti, ciò che Gesù annunzia ha senso solo se egli è l’inviato del Padre creatore. L’infantilismo con cui si presentano oggi a bambini e adulti la creazione e i primi capitoli della Genesi è devastante. Di nessun aiuto sono, per converso, analisi troppo esegetiche degli stessi testi, analisi che non rispondono alle domande vere che ognuno porta nel cuore su Dio, sull’origine della materia e dell’uomo, sul male, sulla differenza fra l’uomo e l’animale, sul matrimonio e così via[12].

Tale infantilizzazione - non solo dinanzi al tema della creazione – è largamente presente in tanti sussidi rivolti a bambini, ragazzi e genitori ed è certamente un’altra faccia della tendenza a trasformare la catechesi in attività. In questo senso è anch’essa oggi uno dei limiti più grandi della catechesi, perché non tratta le persone da adulti, ma da bambini. È da considerarsi un paradosso il fatto che più si parli di catechesi degli adulti, di catecumenato, di primo annunzio, di secondo annunzio, di rinnovamento dell’Iniziazione cristiana a partire da un’ispirazione catecumenale, più i sussidi si infantilizzano, quasi che i bambini, e ancor più i ragazzi e massimamente i loro genitori non avessero domande altre sull’opportunità e la credibilità della fede. Sembra, a leggere alcuni di questi testi, che tutta la crisi dell’annunzio della fede potrebbe essere risolta tramite una migliore accoglienza dei genitori che accompagnano i figli, quasi che questi non avessero obiezione alcuna alla fede stessa.

Ma, d’altro canto, è solo in Gesù che Dio si rivela pienamente e nel suo amore salva l’uomo. La centralità del Dio creatore, come della sua rivelazione nell’amore del Figlio, appare oggi decisiva in catechesi, poiché è questo che l’uomo oggi vuole comprendere, mentre non è interessato ad una catechesi moralistica.

Appare fondamentale allora ricucire in catechesi - e prima ancora nel discorso teologico - quello strappo che si è prodotto fra il messaggio biblico e l’annunzio della Chiesa, quasi che essi fossero diversi. Se, infatti, la fede professata nel Credo dalla Chiesa non corrispondesse al messaggio biblico, la catechesi non potrebbe che ridursi a mero commentario biblico, ignorando tutta la ricchezza del Credo della Chiesa. Se invece il Credo è la sintesi della rivelazione biblica, ecco che non si può non commentare Genesi o i Vangeli se non annunciando al contempo che Dio è veramente il creatore del mondo e che il Figlio è stato mandato dal Padre per la salvezza del cosmo uscito dalle sue mani.

La necessità di mostrare l’unità profonda del testo biblico e dell’annunzio della Chiesa rende urgente oggi una ripresa dei grandi temi della fede perché sono quelli che più interessano ad adulti e bambini.

5/ Una nuova esigenza di armonicità e sintesi

Emerge così anche la necessità di saper presentare in catechesi il cuore della fede non al termine di un lungo itinerario, ma fin da subito, proprio perché l’uomo contemporaneo non ha difficoltà solo nei confronti di qualche punto determinato della fede stessa, ma desidera comprendere perché valga la pena credere.

A fianco dell’esigenza di tornare a trasmettere in maniera chiara il cuore limpido e caldo della fede è emersa l’esigenza di un’armonicità nella presentazione della fede in catechesi[13], proprio perché la catechesi è sempre chiamata a passare dall’annunzio ad una organicità che aiuti la persona a strutturare il pensiero e la vita al cospetto di Dio. Negli ultimi decenni la catechesi è stata, invece, estremamente frammentaria, parallelamente a quanto è avvenuto nella scuola e nelle università, dove il sapere si è come “scomposto” in minuscoli micro-frammenti e specializzazioni indipendenti l’uno dall’altro.

Il recupero di una visione sintetica[14] può e deve avvenire poiché la sintesi cristiana non lo è al modo di un sistema astratto – come ad esempio la filosofia di Hegel, dove tutto è razionalisticamente previsto – bensì nel modo dell’incontro con una persona viva che è, proprio per questo, unitaria e armonica. Un sistema non potrebbe che essere antitetico al cristianesimo, ma lo sarebbe al contempo una visione disarmonica di Dio e del mondo.

La struttura trinitaria del Credo, la relazione fra le tre virtù teologali o i settenari[15], così come tutte le espressioni sintetiche della fede maturate nel cammino della Chiesa, sono preziosissime e nessuna catechesi potrà essere profonda e al contempo semplice senza recuperare queste sintesi enormi che la tradizione ci ha consegnato.

La catechesi ha una sua esperienza storica che la Chiesa si è creata nel corso dei secoli e pensare di farne a meno equivarrebbe ad un suicidio intellettuale e spirituale.

6/ L’esigenza di una catechesi che esalti insieme l’esperienza e i contenuti

Se le esperienze e i contenuti sono decisivi per una fede cristiana matura e non infantile, ecco che la catechesi ha bisogno di riunioni che chiariscano i motivi della fede, ma al contempo di esperienze ecclesiali come i campi estivi, i pellegrinaggi, i ritiri, le esperienze di servizio, di penitenza, di condivisione di beni, di direzione spirituale e di preghiera, così come di testimonianze concrete che orientino le scelte nella vita laicale,.

Una catechesi che opponesse contenuti e esperienze si rivelerebbe fallimentare. Senza contenuti, infatti, impedirebbe la maturazione di una fede adulta e il credente resterebbe sempre in balia delle mode passeggere, incapace di reggere all’impatto con le critiche. Senza esperienze, invece, rischierebbe di far permanere le persone in un mondo, forse, intellettualmente abitabile, ma privo di un vero incontro con Dio e con i fratelli.

La debolezza dell’esperienza e dei contenuti, soprattutto, non corrisponderebbe all’originalità cristiana. La fede cristiana, infatti, è vero incontro con il Signore e non speculazione astratta, ma è al contempo intelligenza della fede e non fideismo.

Papa Benedetto XVI e papa Francesco hanno posto l’attenzione su due aspetti complementari della credibilità della fede, invitando a cogliere i tratti del vero Dio, così diverso dagli idoli. Un Dio che rifiutasse la ragione umana, che si sottrasse al logos, che negasse la ricerca umana e la sua esigenza di cercare ragioni e di indagare non potrebbe essere il Dio sapiente e il Logos che si fa carne.

Allo stesso modo un Dio che non fosse misericordia, che incitasse alla guerra santa nel suo nome, che non desiderasse in ogni tempo il perdono e la salvezza del peccatore, che non fosse agape e misericordia, non potrebbe essere il Dio della tenerezza che si fa carne nel Bambino Gesù e muore sulla croce per i peccatori.

La catechesi non può che imparare dall’annunzio cristiano a parlare sia alla mente che al cuore degli uomini.

7/ La catechesi è per tutti, dagli adulti ai bambini: la riscoperta della famiglia come protagonista della catechesi

Proprio perché la fede è necessaria alla vita, la catechesi si rivolge a tutti, senza escludere nessuno. La catechesi ha lo stesso respiro della Chiesa, è cattolica, è universale e per tutti. La catechesi conferisce dignità all’intero popolo di Dio, ai suoi anziani, alle sue famiglie adulte e giovani, ai giovani e agli adolescenti, ai bambini. La catechesi si offre a tutti, tanto più oggi, quando avviene frequentemente che molti battezzati non siano mai stati aiutati a comprendere nemmeno l’abc della fede e si trovano a chiedere un sacramento, senza conoscere nemmeno troppo bene cosa sia la fede.

Se alcuni decenni fa si era ipotizzata una catechesi che si rivolgesse soprattutto a persone più preparate e convinte, quasi escludendo le persone semplici che si basavano su di una fede popolare e tradizionale, grazie alle parole dei pontefici è stata via via riscoperta una catechesi “popolare”, una catechesi cioè “di popolo” che, senza escludere forme di partecipazione molto impegnative e una ricerca intellettuale, non disprezzi, però, la via semplice di chi desidera con semplicità crescere nella fede.

Nella terminologia dei documenti di molte conferenze episcopali si manifesta in proposito un’evoluzione linguistica molto significativa. Se un tempo si utilizzava di preferenza la parola “adulti”, oggi tale termine è sempre più sostituito dal riferimento alla “famiglia”. Perché l’essere adulto non implica semplicemente avere un determinato numero di anni, ma ancor più l’aver rinunciato ad atteggiamenti adolescenziali e giovanilistici, per assumersi la responsabilità di costruire una famiglia e di generare dei figli. Si potrebbe dire che è “adulta” solo una persona che è padre o madre (anche se non solo fisicamente, ma nello spirito).

Per questo i “genitori” sono “adulti”, perché si sono assunti delle responsabilità e, fra queste, quella di trasmettere ai figli la vita ed una visione bella di essa. Contemporaneamente sono “in lotta” per costruire per loro un mondo più giusto e bello.

L’emergere in ambito catechetico del termine “famiglia”- a differenza del termine “adulto” – individua uno spazio relazionale, più che non le azioni di un singolo, di modo che la persona matura si manifesta come qualcuno che ha rinunciato a vivere per se stesso[16], divenendo pronto a dare la vita in situazioni di vita stabili e durature che lo segnano, come il matrimonio e la generazione.

Questa riscoperta decisiva ha portato, nell’ambito specifico della catechesi dell’Iniziazione cristiana, ad una nuova valorizzazione della pastorale battesimale (con il conseguente accompagnamento delle famiglie nei primi anni di vita dei figli), così come ad una crescente valorizzazione delle famiglie nelle tappe della “prima Comunione” e della Confermazione dei ragazzi: tutti i catechisti sanno oggi di essere chiamati a lavorare verso un pieno coinvolgimento delle famiglie nel cammino, perché sia superata ogni forma di “delega”, quasi che i genitori non avessero un compito educativo nativo. La catechesi degli adulti passa così attraverso il coinvolgimento delle giovani famiglie, rivolgendosi ormai all’uomo e alla donna e non più genericamente a presunti singles.

Fra l’altro la pedagogia e la psicologia stanno riscoprendo che l’educazione, anche in altri campi, non deve essere affidata ad esperti, bensì a coloro che sono i genitori dei bambini: i figli hanno una fiducia nei genitori, al di là della loro competenze e amorevolezza, esattamente perché sanno che la loro vita è stata generata esattamente da quella madre e da quel padre – anche l’ombelico è la cicatrice evidente di quel rapporto indimenticabile e originario[17]. La corporeità segna così un elemento decisivo nel rapporto educativo: chi è genitore “fisico” per ciò stesso scopre la responsabilità di trasmettere il motivo per il quale ha generato alla vita, mentre il bambino naturalmente si rivolge agli adulti, padre e madre, chiedendo loro se esista la felicità e se la vita sia una promessa buona o un inganno.

In questa maniera si sta assistendo ad un recupero della bellezza dei Sacramenti, proprio perché chi genera chiede spesso senza piena consapevolezza, ma pure sempre con un’intuizione profonda data dall’amore per i suoi figli e dalla contemplazione del “mistero” della vita, il Battesimo. Lo chiede perché intuisce che Dio non può essere estraneo alla nascita, alla meraviglia della vita di un bambino che si presenta come essere unico e irripetibile nel grembo di una donna. La catechesi degli adulti sta riscoprendo, allora, che l’accompagnamento al Battesimo - e successivamente una compagnia fedele che non abbandoni i genitori nei primi anni di vita del bambino - è una via di vera evangelizzazione e di servizio alla vita.

8/ Il rapporto esistente fra catecumenato e battesimo dei bambini: una falsa opposizione

Questa nuova comprensione permette, a sua volta, di riconsiderare da un nuovo punto di vista la falsa opposizione fra catechesi degli adulti e catechesi dei ragazzi, tra Catecumenato degli adulti e Iniziazione cristiana dei bambini, che ha caratterizzato tanta parte dei decenni trascorsi.

Ogni vero catecumenato degli adulti implica, infatti, una formazione al matrimonio e all’educazione cristiana dei figli. D’altro canto, ogni vera Iniziazione cristiana dei bambini implica una riscoperta delle responsabilità dei genitori.

Negli studi recenti sull’età apostolica e sul periodo patristico appare sempre più evidente come le due forme del Battesimo, quello degli adulti quello dei bambini, siano entrambe originarie. Ogni volta che, nei primi secoli, un adulto si battezzava, battezzava contemporaneamente i suoi figli e si poneva così per la Chiesa la questione della loro educazione alla fede fin da piccoli. Le due forme si davano quindi sempre insieme: chi si battezzava scopriva di non poter privare della grazia i suoi bambini, anche se neonati[18].

La stessa esperienza ritorna nella catechesi anche oggi: quando un adulto si converte alla fede questo implica il suo desiderio che anche i figli divengano figli di Dio nel battesimo. Ma, allo stesso tempo, ci si accorge che molti adulti giungono a chiedere il Battesimo o si riavvicinano alla fede in occasione dei sacramenti dei figli, perché scoprono la grandezza della fede vedendo quanto essa è prezioso per i figli che amano.

Viene così ad essere spontaneamente superata la sterile discussione se si debba dare il primato all’una o all’altra delle due forme del Battesimo: ci si accorge invece che l’una implica l’altra.

Dal canto suo, tutta la pedagogia moderna sta riscoprendo che il bambino è capace di Dio e le sue domande sul senso della vita nascono anche dove i genitori fossero atei. L’esperienza mostra che alcuni bambini sono stati canonizzati come santi, mentre i loro genitori non lo erano affatto. Straordinaria è poi la riflessione che sta maturando nella Chiesa che torna ad accorgersi della grandezza delle domande dei bambini[19]: essi sono annoiati da una catechesi che si riduca a trattare di questioni minime e nozionistiche, mentre il loro interesse si desta sulle grandi domande relative alla creazione, alla possibilità di conoscere il vero volto di Dio, al perché esitano il bene e sul male, alla vita eterna e alla possibilità di vincere la morte.

D’altro canto, è sempre più evidente che il ruolo dei genitori è decisivo e che essi sono i primi catechisti dei ragazzi. Essi non educano in qualche momento determinato della vita, ma in ogni istante: i bambini li osservano sempre e imparano dai loro gesti, dai loro silenzi, dai loro atteggiamenti, oltre che dalle esplicite parole sulla fede che possono dire.

Anzi è la fede stessa che permette a tanti genitori di divenire generosi nel donare la vita. Proprio il numero dei figli è talvolta il segno di un abbandono alla provvidenza che si concretizza in un’accoglienza della vita al di là dei propri calcoli.

Questo sta portando anche ad abbandonare l’espressione “modello catecumenale”, preferendogli quello di “catechesi di ispirazione catecumenale”[20]. Infatti, il catecumenato degli adulti non può essere applicato direttamente alla catechesi dei bambini e dei ragazzi. Se, ad esempio, nel cammino del catecumenato degli adulti la Consegna del Credo precede la Consegna del Padre nostro, perché l’adulto prima scopre la fede e solo dopo giunge a pregare, nella vita del bambino battezzato avviene l’inverso: il rapporto con Dio inizia con le preghiere e solo pian piano si passa ad una catechesi più discorsiva sulla fede.

Applicare al bambino un “modello” che ripetesse le tappe del catecumenato degli adulti si rivelerebbe inadeguato e contrario all’esistenza reale e, conseguentemente, alla pedagogia moderna.

9/ Il catecumenato ricorda alla catechesi la centralità dell’eucarestia

La riflessione sul catecumenato come capace di ispirare anche la catechesi del nostro tempo sta portando, invece, a riscoprire altri punti decisivi per una corretta impostazione del rinnovamento catechistico: tali punti sembrano più decisivi della scansione cronologica in tappe con la quale si identifica a volte a torto l’esperienza del catecumenato.

Innanzitutto il catecumenato ricorda il rapporto vitale che è sempre esistito fra catechesi ed annunzio del vangelo, rapporto di cui si è già parlato. Proprio per un pagano che si accosti alla fede è decisiva non solo una maturazione progressiva, ma prima ancora una scoperta del motivo stesso della fede: si giunge a credere solo perché si scopre che vale la pena credere e che la fede è vera, che è bella, che è buona.

Ma c’è un secondo elemento estremamente importante con il quale il catecumenato provoca la catechesi: il posto dell’eucarestia domenicale nel cammino di fede verso il Battesimo.

Nel catecumenato antico e moderno la partecipazione alla celebrazione domenicale (e, quindi, il vivere al “ritmo” dell’anno liturgico) è il pilastro stesso dell’itinerario. Ovviamente non nel senso che i catecumeni accedano al banchetto eucaristico, cosa che ha inizio solo con la Veglia pasquale: nel senso, invece, che essi partecipano ogni domenica insieme ai fratelli battezzati alla prima parte della messa, alla Liturgia della Parola. Ascoltano così ogni domenica la proclamazione delle Sacre Scritture, l’omelia della celebrazione, imparano i canti, così come vivono i tempi della penitenza e della festa.

La catechesi dei catecumeni avveniva e dovrebbe avvenire anche oggi di domenica, mentre i fedeli celebrano la Liturgia eucaristica, al termine della Liturgia della Parola dopo il concedo di coloro che si preparano al Battesimo. Gli antichi quadriportici delle chiese paleocristiane servivano anche per le riunioni dei catecumeni, mentre all’interno della chiesa proseguiva la celebrazione domenicale. In questo modo i catecumeni facevano già esperienza non solo della comunità cristiana tutta intera, ma anche della stessa presenza di Cristo: egli si manifesta in modo particolare quando il popolo cristiano si raduna per la liturgia, quando viene proclamata la Parola di Dio in essa, così come nel sacerdote che presiede.

La riscoperta che solo la partecipazione all’Eucarestia rende la catechesi una vera “esperienza” di fede ha il potere di liberare la catechesi dall’intellettualismo e dall’attivismo: non qualsiasi attività avvicina il catecumeno a Dio, bensì primariamente l’incontro con la comunità che celebra le feste del suo Signore e da lì attinge forza per vivere le responsabilità familiari e sociali.

Solo se le riunioni formative tipiche della catechesi sono accompagnate dalla partecipazione domenicale alla liturgia il cammino può incidere realmente nella vita delle persone e non mantenersi su di un piano puramente intellettuale.

Evangelii Gaudium sottolinea questa attenzione peculiare necessaria ad un rinnovamento dell’Iniziazione cristiana, interpretando la parola “mistagogia” non in relazione ad un periodo successivo all’Iniziazione cristiana stessa, bensì come dimensione permanente dello stesso cammino: «Un’altra caratteristica della catechesi, che si è sviluppata negli ultimi decenni, è quella dell’iniziazione mistagogica, che significa essenzialmente due cose: la necessaria progressività dell’esperienza formativa in cui interviene tutta la comunità ed una rinnovata valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana» (EG 166). 

10/ Il catecumenato ricorda alla catechesi le quattro dimensioni dell’esistenza cristiana e, quindi, della catechesi

Ma c’è un terzo, importantissimo, aspetto del catecumenato che sta tornando ad ispirare la catechesi: è la riscoperta delle quattro dimensioni della fede cristiana: la fede creduta, la fede celebrata, la fede vissuta e la fede pregata.

Recentemente esse sono state riprese da papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei: «Ho toccato così i quattro elementi che riassumono il tesoro di memoria che la Chiesa trasmette: la Confessione di fede, la celebrazione dei Sacramenti, il cammino del Decalogo, la preghiera. La catechesi della Chiesa si è strutturata tradizionalmente attorno ad essi» (n. 46)[21].

L’elaborazione del Catechismo della Chiesa cattolica è stata decisiva nel riscoprire che questa struttura quadripartita era maturata proprio nell’esperienza antica del catecumenato. Per accompagnare un pagano al Battesimo le comunità cristiane di tutto il mondo antico si erano accorte, per un sensus fidei comune segno del soffio dello Spirito, che era necessario aiutarlo a scoprire la novità della fede cristiana (la fede creduta), ma al contempo era fondamentale che ricevesse la grazia (con i sacramenti e avvicinandosi domenica dopo domenica alla liturgia della Chiesa), che si convertisse (nella scoperta della nuova vita morale dei cristiani, nella fede vissuta) e che imparasse a pregare, a dialogare nel segreto del cuore con Dio Padre (la fede pregata). Al catecumenato antico apparve evidente che ogni cammino di catechesi che avesse trascurato una di queste quattro dimensioni sarebbe stato parziale e avrebbe condotto ad una fede immatura.

L’allora cardinal Ratzinger sottolineò l’origine catecumenale delle quattro dimensioni della catechesi universalmente riconosciute dalla Chiesa antica, indicando che proprio quella ispirazione aveva portato alla quadripartizione del CCC. Tale quadripartizione non indica pertanto solamente i diversi contenuti della fede, ma prima ancora le dimensioni stesse della vita cristiana e conseguentemente di una catechesi di ispirazione catecumenale: «Dovevamo fare qualcosa di più semplice: predisporre gli elementi essenziali che possono essere considerati come le condizioni per l’ammissione al battesimo, alla vita comunionale dei cristiani. [...] Che cosa fa di un uomo un cristiano? Il catecumenato della Chiesa primitiva ha raccolto gli elementi fondamentali a partire dalla Scrittura: sono la fede, i sacramenti, i comandamenti, il Padre Nostro. In modo corrispondente esisteva la redditio symboli – la consegna della professione di fede e la sua “redditio”, la memorizzazione da parte del battezzando -; l’apprendimento del Padre Nostro, l’insegnamento morale e la catechesi mistagogica, vale a dire l’introduzione alla vita sacramentale. Tutto ciò appare forse un po’ superficiale, ma invece conduce alla profondità dell’essenziale: per essere cristiani, si deve credere; si deve apprendere il modo di vivere cristiano, per così dire lo stile di vita cristiano; si deve essere in grado di pregare da cristiani e si deve infine accedere ai misteri e alla liturgia della Chiesa. Tutti e quattro questi elementi appartengono intimamente l’uno all’altro: l’introduzione alla fede non è la trasmissione di una teoria, quasi che la fede fosse una specie di filosofia […] come è stato affermato in modo sprezzante: la professione di fede è nient’altro che il dispiegarsi della formula battesimale. L’introduzione alla fede è essa stessa mistagogia: introduzione al battesimo, al processo di conversione, in cui non agiamo solo da noi stessi, ma lasciamo che Dio agisca in noi»[22].

Ogni itinerario di catechesi di ispirazione catecumenale si strutturerà così
-intorno a momenti di riunioni, per sostenere le persone nell’amare la fede della Chiesa
-intorno alla celebrazione dei Sacramenti e dell’Eucarestia domenicale, perché l’uomo incontri il Signore Gesù e riceva da lui la grazia
-intorno ad esperienze di vita laicale, di matrimonio, di servizio ai poveri, perché ognuno comprenda che la vita cristiana genera una conversione di vita
-incoraggiando e sostenendo la preghiera personale, perché ognuno maturi una vera apertura del cuore alla voce dello Spirito.

Anche da questo punto di vista si vede come la catechesi, mostrando che la fede è un incontro vivo con Cristo, non possa giustapporre esperienze e contenuti, bensì proceda lavorando su entrambi.

11/ La catechesi insegna come leggere la Sacra Scrittura

Un’altra delle grandi questioni catechetiche che è stata illuminata dal Concilio e dalle esperienze sorte a partire da esso è stata quella del peculiare modo cristiano di leggere la Scrittura, attingendo sia agli studi scientifici, sia alla grande tradizione cristiana.

La Dei Verbum ricorda che sono molti i generi letterari della Bibbia e, conseguentemente, è importante che la catechesi renda familiari con ciascuno di essi. Nelle Scritture troviamo numerosissimi linguaggi, da quello narrativo alla confessione di fede, da quello innico a quello poetico, da quello simbolico a quello dogmatico, da quello morale a quello filosofico-teologico. D’altro canto moltissimi sono anche i metodi di lettura del testo a livello scientifico e teologico: da quello storico-critico a quello narrativo, da quello spirituale a quello canonico, da quello retorico a quello simbolico.

In questa pluralità arricchente delle interpretazioni, la catechesi orienta alla lettura della Bibbia suggerendo l’equilibrio della Dei Verbum che chiede sia di essere fedeli alla lettera del testo, ricostruendone l’ambiente e il genere letterario, e contemporaneamente di essere fedeli al principio dell’unità delle Scritture, perché ogni episodio dell’Antico Testamento non ha solo un messaggio valevole per il tempo in cui il testo venne redatto, ma lo ha in quanto prefigurazione della venuta di Cristo.

La liturgia è modello di tale lettura, per il modo con il quale, attraverso i secoli, ha compreso la relazione esistente nel disegno di Dio fra i vari momenti della storia della salvezza. La Veglia pasquale, ad esempio, ricorda l’intimo legame esistente fra il Dio padre e creatore di Genesi, il sacrificio di Isacco che prefigura Cristo vero agnello immolato, la salvezza attraverso l’acqua del mare compiuta da Mosè, tipo di Cristo[23], fino all’annunzio profetico di una nuova alleanza e della definitiva sconfitta del male. L’annunzio veterotestamentario si compie poi non solo nella resurrezione di Cristo, ma anche nella liturgia battesimale e poi eucaristica della Veglia Pasquale stessa, poiché Cristo, presente nei segni sacramentali, opera la salvezza di coloro che ricevono il Battesimo e dell’assemblea che celebra l’Eucarestia.

Allo stesso modo, ogni volta che si legge l’Antico Testamento nella liturgia, esso è illuminato dal Vangelo, in una maniera profondissima: la liturgia manifesta così l’unità del disegno salvifico di Dio, proclamato da Cristo stesso che pretende di compiere le Scritture.

L’esigenza di leggere la storia della salvezza in modo unitario e di annunziare, quindi, che la storia intera del mondo è abbracciata dalla provvidenza divina[24], permette all’uomo di vincere la tentazione del post-moderno che pretenderebbe il rifiuto dell’ipotesi che abbia senso una “grande narrazione”, quasi che fossero ormai possibili solo narrazioni di minuscoli frammenti effimeri di vita.

Il post-moderno ha giustamente dichiarato fallite le “grandi narrazioni” del progresso illuministicamente inteso e del marxismo[25]. La storia delle lotte economiche non conduce all’ottimo, né vi conduce il progresso, perché il male resta sempre presente nella storia – la memoria della sua esplosione in forme gigantesche nel XX secolo come agli inizi del XXI secolo ha infranto le “grandi narrazioni” laiche. Ma non così è della storia della salvezza che dalla creazione, attraverso l’incarnazione, guarda al ritorno di Cristo.

In realtà, se la storia intera non fosse una “grande narrazione” dotata di senso, se la storia non avesse alcun significato, non potrebbe averlo a maggior ragione la singola esistenza umana: d’altro canto non potrebbe avere alcun senso la storia universale se non venisse valorizzata e salvata anche la singola persona umana.

Solo una lettura della Bibbia come unità, nella quale abbiano valore sia i singoli episodi nei quali Dio si rivela progressivamente ai suoi amici, sia l’intero corso del tempo guidato dal Signore, permette all’uomo grazie alla lettura biblica nella catechesi, di respirare in grande, percependo che la storia non avanza verso il nulla, bensì verso il compimento che Dio ha progettato nel suo disegno di salvezza. Allora ogni passaggio della storia sacra si rivela paradigmatico nel cammino dell’uomo.

Particolarmente adatto ad una comprensione del modo peculiare di leggere la Bibbia in catechesi si rivelano, con gli opportuni adattamenti, le parole di Evangelii Gaudium sull’omelia che invitano a comprenderla come il linguaggio di una madre che parla con passione ai suoi figli, sapendo porgere le parole di cui hanno bisogno, evitando gli astrattismo di un discorso puramente accademico, fosse pure esso esegeticamente o teologicamente ineccepibile:

«La Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato. […] La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr 2 Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso. […] Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo. La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori che si dà nell’omelia e che deve avere un carattere quasi sacramentale. […] Nell’omelia, la verità si accompagna alla bellezza e al bene. Non si tratta di verità astratte o di freddi sillogismi, perché si comunica anche la bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene. La memoria del popolo fedele, come quella di Maria, deve rimanere traboccante delle meraviglie di Dio. Il suo cuore, aperto alla speranza di una pratica gioiosa e possibile dell’amore che gli è stato annunciato, sente che ogni parola nella Scrittura è anzitutto dono, prima che esigenza» (EG 139.142).

12/ Una catechesi per tutte le età

Infine è importante sottolineare come la catechesi abbia riscoperto negli ultimi decenni, anche in Roma, che ogni età ha bisogno del Vangelo e ha il diritto di essere nutrita del pane che solo sfama. Illumina questo aspetto la fortissima insistenza di papa Francesco su di una catechesi che sia "popolare" e che si rivolga al popolo, a tutto il popolo (cfr. su questo Un cristianesimo "popolare". La chiara proposta di papa Francesco alla Chiesa italiana, di Andrea Lonardo, come pure Papa Francesco e l'Iniziazione cristiana di bambini e ragazzi: primi appunti, di Andrea Lonardo).

A/ Gli adulti e la laicità

Nella catechesi degli adulti diviene sempre più evidente che la catechesi deve orientarsi su due direzioni. Da un lato sostenere il cammino di fede, mostrando come solo il Vangelo renda la vita umana comprensibile e accettabile fino in fondo. D’altro lato è sempre più evidente che la catechesi deve sostenere le scelte di vita che i laici compiono a motivo della loro peculiare missione nel mondo.

Evangelii Gaudium, con il suo annunzio che la dimensione sociale appartiene intrinsecamente al Vangelo che senza di esso non è pienamente annunziato (cfr. EG 176-177), provoca la catechesi che spesso ha invece dimenticato di annunciare quale nuova visione sociale - dal matrimonio al lavoro, dalla giustizia alla politica, dal servizio ai poveri all’educazione delle nuove generazioni, dall’ecologia alla libertà religiosa, dalla ricerca intellettuale al dialogo fra le religioni – derivi dalla fede cristiana. La catechesi non può non essere una luce che desidera aiutare l’uomo ad orientarsi nel suo impegno nella società e nel suo cammino verso la vita eterna. Una catechesi disincarnata non gioverebbe a formare un laicato cristiano che possa impegnarsi per una società più umana e giusta.

B/ L’esigenza che i bambini hanno di Dio

D’altro canto, come si è detto, essere adulti vuol dire anche essere impegnati a trasmettere la fede non solo ad altri adulti, ma anche alle nuove generazioni che sono state chiamate alla vita. La catechesi ha bisogno di riscoprire l’annunzio che far nascere bambini è un bene: i paesi benestanti debbono guardare al coraggio dei paesi più poveri che sono, però, più felici, perché più ricchi nell’accoglienza della vita che nasce.

L’educazione dei bambini implica a sua volta il coraggio di accompagnare i genitori che hanno battezzato i figli fin dai primi anni dopo il Battesimo. Un bambino battezzato non può attendere la catechesi cosiddetta “della prima Comunione” per conoscere il Signore: l’Iniziazione cristiana, infatti, inizia con il Battesimo stesso e i bambini sono da allora veri figli della Chiesa ed hanno bisogno che la Chiesa li ami e li accompagni, fin da subito, fin da quando iniziano a balbettare le prime preghiere e a partecipare alla liturgia. Qualsiasi azione catechetica che iniziasse all’età di 7 o 8 anni sarebbe gravemente in ritardo perché avrebbe abbandonato senza aiutarli i bambini che invece portano nel cuore di Dio.

La catechesi deve riscoprire che ciò che disse il Signore sui piccoli -«Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli» (Mt 19,14) - vale anche per il tempo presente. Per i genitori cristiani è gravissimo non battezzare i propri figli e non presentare loro la fede fin da piccoli: essi hanno il senso di Dio.

C/ Solo una pastorale giovanile permetterà una prosecuzione del cammino al termine dell’Iniziazione cristiana

Ma tutto questo non deve far dimenticare che solo un’attenzione rivolta direttamente ai giovani permetterà una prosecuzione del cammino di catechesi in età adolescenziale e giovanile. Se nei primi anni di vita la testimonianza dei genitori è quella decisiva, con la preadolescenza e l’adolescenza i ragazzi tendono a distaccarsi dai modelli familiari e cercano in giovani più grandi una conferma della verità del cammino fin lì compiuto.

Il distacco che si compie spesso nella frequentazione della Chiesa in età adolescenziale non dipende tanto dalla qualità di ciò che è stato proposto negli anni della fanciullezza – per quanto tutto questo sia ovviamente importantissimo -, quanto piuttosto dall’esistenza o meno di una specifica proposta per l’età giovanile. I giovani chiedono un distacco dalle modalità vissute da bambini: i ragazzi desiderano dal profondo del cuore di separarsi simbolicamente dall’età precedente. Desiderano invece ancorarsi alle età immediatamente successive, a giovani più grandi di loro. D’altro canto mettono a dura prova l’autenticità delle figure adulte ed hanno bisogno di sacerdoti e di giovani famiglie nei quali vedere una fede pienamente vissuta.

Non si deve poi dimenticare che, nel passaggio alle superiori, i ragazzi sono sempre più stimolati dall’ambiente scolastico e se avvertono che la catechesi non scioglie i nodi posti dalle provocazioni culturali a scuola, si ritroveranno ad avere una fede debolissima, perché incapace di rispondere alle grandi provocazioni – si pensi solo ai temi della scienza, dell’origine dell’uomo, dell’evoluzione, della compresenza delle diverse religioni nel mondo, della critica accesa alla storia della Chiesa e alle fonti del cristianesimo che caratterizza tanti manuali in uso proposti dai docenti.

In questo senso la catechesi deve certamente guardare all’insegnamento della religione cattolica, ma deve ancor più interagire con tutte le altre discipline. Una catechesi che prescinda da ciò che i ragazzi imparano a scuola non potrà che risultare lontana dalla vita e sostanzialmente inutile.

Spesso i catechisti non sono minimamente coscienti del fatto che un ragazzo che frequenti per 4 anni (2 per la Comunione e 2 per la Confermazione) la comunità parrocchiale, se decide di avvalersene per tutto l’iter scolastico, frequenta allo stesso tempo l’ora di religione per ben 16 anni – 3 di materna, 5 di elementari, 3 di medie e 5 delle superiori. Ora questa frequentazione dovrebbe ben fornire alle nuove generazioni una conoscenza appropriata del cristianesimo, anche se non un annunzio e una catechesi, data la differenza degli approcci fra la chiesa e la scuola. La serietà di questa questione viene abitualmente ignorata: in Roma si comincia ad esserne coscienti grazie all’ottimo lavoro dell’Ufficio scuola e grazie al richiamo continuo che viene fatto ai catechisti perché si ricordino di collegarsi a ciò che bambini e ragazzi apprendono a scuola.

Ma, appunto, alla catechesi, per calarsi in un reale rapporto fra la fede e la vita, non basta far riferimento all’Insegnamento della religione, bensì è chiamata a misurarsi con la scuola nel suo insieme, poiché tale ambiente è la vita del ragazzo. Spesso invece si tende a prescindere a priori da ciò che viene insegnato a scuola, in qualche modo costruendo una dissociazione fra fede e vita.

Il tentativo compiuto dall’Ufficio catechistico di Roma di appassionare i catechisti alla storia della città, ai grandi snodi culturali che la Chiesa ha vissuto nei secoli, all’arte e al suo contesto ecclesiale, ai rapporti fra fede e scienza, intende, in questa prospettiva, non intellettualizzare la catechesi, bensì educare alla reale connessione esistente fra la fede e la vita, fra il Vangelo e la società, nei secoli e nel presente.

Anche la proposta di un’attenzione costante all’arte[26] non guarda esclusivamente alla cosiddetta via pulchritudinis[27], quanto più ampiamente alla fede come generatrice di storia, di cultura e di visione della società e del mondo: senza questa attenzione si rischierebbe di generare un estetismo fine a se stesso, concependo l’arte come qualcosa di legato al potere e alla ricchezza e non come espressione della fede viva della Chiesa in ogni epoca della storia.

Note al testo

[1] Così scrisse il cardinal Luciani, poi papa Giovanni Paolo I: «Il catechista deve essere un entusiasta, un convinto. Convinto che la sua missione è una cosa grande, che le cose che insegna sono vere, che i fanciulli miglioreranno. Queste convinzioni daranno anima, ali al suo apostolato; con esse egli diventerà un artista del catechismo, senza di esse resterà manovale del catechismo, incapace di edificare e trascinare. Due alpinisti scalano una roccia: il primo, perché è di moda; il secondo, per passione. Sentiteli al ritorno: “Cosa ho veduto? – dice il primo. – Oh! Nulla di speciale: quattro corde, quattro alberi, dei torrenti, dei prati, un cantoncino di cielo e nient’altro!”. E sbadiglia. Dice il secondo: “Cosa ho veduto? Non lo dimenticherò mai più! Rocce, poi ancora rocce, e prati e torrenti e azzurro e sole e cose meravigliose!”. E mentre parla pare che tali meraviglie gli ridano ancora nello sguardo e nell’anima. Quei due dicono la stessa cosa, ma è il modo di dire, diverso. Il primo non invoglia nessuno a tentare una scalata; il secondo invece con il suo entusiasmo accenderà la passione della montagna in altri e guiderà proseliti a nuove vette. Così il catechista: non basta che dica, ma, dicendo, deve invogliare, appassionare e trascinare» (A. Luciani – Giovanni Paolo I, Catechetica in briciole, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, p. 33).

[2] In Roma sono presenti numerose esperienze che coniugano annunzio e catechesi, in una progressione estremamente interessante, si pensi solo ai Dieci Comandamenti proposti da don Fabio Rosini (con un annunzio che egli definisce didascalico, poiché l’itinerario presenta via via la novità della fede cristiana), ai Cinque passi proposti da padre Maurizio Botta (dove invece l’itinerario si incentra su questione dibattute e su punti problematici dell’esistenza contemporanea per giungere da punti di vista diversi a riscoprire sempre di nuovo la grandezza della fede), agli itinerari proposti da Franco Nembrini in collaborazione con tante realtà romane (dove si tratta dei grandi temi della fede a partire dai classici della letteratura): se questi sono gli itinerari più frequentati di più recente inizio, non si debbono dimenticare i percorsi proposti da movimenti, cammini e associazioni, così come dalle parrocchie più vive, che sempre coniugano un annuncio che si rinnova di anno in anno con una formazione più strutturata della fede.

[3] Fra l’altro la pedagogia contemporanea è tutta in fase di ripensamento, poiché si sta accorgendo che questa prospettiva è vera anche al di là della fede. Un ragazzo non ha domande su Dante, ma esse nascono solo dopo che qualcuno glielo ha presentato con passione. La domanda dello studente non è né l’unica né la prima scaturigine dell’azione educativa, bensì è l’educatore che deve suscitare passione per ciò che andrà insegnando, altrimenti il discorso non potrà nemmeno iniziare.

[4] Papa Francesco nell’udienza ai membri della Pontificia Commissione Biblica, il 12/4/2013.

[5] I termini decisivi scelti dai padri conciliari per parlare di Cristo, “mediatore” e “pienezza” della rivelazione, sono generalmente ancora sconosciuti alla catechesi, perché la recezione del Concilio è ancora agli inizi; cfr. su questo La cristologia della Dei Verbum. Due espressioni bibliche sono decisive per parlare di Gesù secondo il Concilio: Cristo è il mediatore e la pienezza della rivelazione, di Andrea Lonardo.

[6] Per offrire un ulteriore esempio vale la pena fare riferimento a come si insiste a Roma che i primi incontri con i genitori dell’Iniziazione cristiana debbano avere la tonalità di un annunzio gioioso e sereno; cfr. su questo Perché avete fatto bene ad accompagnare i vostri figli in parrocchia? Traccia per un I incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana (a cura di d. Andrea Lonardo per l’Ufficio catechistico della diocesi di Roma).

[7] Papa Francesco ricorda che questo annunzio non è semplicemente il primo, ma è quello che sempre si deve tornare ad udire in forma nuova: «Non si deve pensare che nella catechesi il kerygma venga abbandonato a favore di una formazione che si presupporrebbe essere più “solida”. Non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio. Tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio, che mai smette di illuminare l’impegno catechistico, e che permette di comprendere adeguatamente il significato di qualunque tema che si sviluppa nella catechesi. È l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano» (EG 165). Solo per offrire un’esemplificazione dell’attualità di questo insegnamento, sperimentato nella vita di tante parrocchie romane, è evidente che non basta fare un “annunzio” ai bambini delle elementari, pretendendo poi che i ragazzi delle medie in età della Confermazione non ne abbiano più bisogno. È vero esattamente il contrario: con i ragazzi bisogna riscoprire i fondamenti della grandezza della fede, quasi che tutto ciò che fosse già stato detto e sperimentato fosse già caduto nel dimenticatoio e tale annunzio deve avvenire in maniera radicalmente diversa rispetto agli anni precedenti. Ma questo non basta ancora: con i giovani delle superiori bisogna riscoprire di nuovo perché la fede è nuova e appassionante e lo stesso deve avvenire poi in età delle superiori. Così deve avvenire con i fidanzati, con le giovani famiglie, con i genitori, con i professionisti. La fede è viva e mai la si può dare per presupposta, deve invece essere sempre di nuovo riproposta (cfr. J. Ratzinger, Che cosa crede la Chiesa? Una introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica: proporre l’unità e la perenne novità della fede).

[8] «La libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione» (dal discorso di papa Francesco nell’Incontro per la libertà religiosa presso l’Independence Mall, a Philadelphia il 26/9/2015). E ancora: «L’apertura alla trascendenza fa parte dell’essenza umana. Non è subcultura. Un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza non rispetta la persona umana. Inviare alla sacrestia qualunque atto di trascendenza è una “asepsi” contro la natura umana» (dall’intervista a papa Francesco del settimanale cattolico belga “Tertio”, pubblicata il 7/12/2016).

[9] Chesterton (G.K. Chesterton, Rimpianti rebelasiani, in L'uomo comune, Edizioni Paoline, traduzione di Frida Ballini, 1955) ha scritto in proposito sulla “grandezza” della bestemmia: «Senza dubbio la bestemmia è l’argomento più forte in favore del punto di vista religioso della vita. Un uomo non sa affermare nulla rispetto a questo mondo, in modo di esserne soddisfatto, se da questo mondo non evade... Il modo più naturale di parlare è quello soprannaturale... È possibile imprecare in nome dell’etica? Si può bestemmiare l’evoluzione? Oggi molti sostengono che il nocciolo della religione e la sua sola necessità consistano nella semplice adorazione della morale, o bontà astratta. Conosco molte di tali persone; so che conducono una vita ineccepibile, ed hanno intelletti capaci di ragionare secondo la giustizia. Ma (lo dico rispettosamente, e non senza esitare) le loro imprecazioni non sarebbero un poco incolori? Non intendo con questo che dovrebbero bestemmiare, né che alcun altro dovrebbe farlo; dico solo che nell’ambito delle imprecazioni, una volta che la gara fosse aperta, sarebbe facile vedere quale pratica differenza corre tra la nuova religione finta che parla della santità interiore, ed una vecchia religione concreta che adora una vera santità all’esterno. Si può notare questa differenza nella debolezza delle imprecazioni dal punto di vista letterario. Il membro delle Chiese Cristiane diceva (di quando in quando): “Dio mio”. Il membro delle società etiche dice (probabilmente): “Povero me”».

[10] «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali» (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII).

[11] Dalla catechesi tenuta da papa Francesco nell’udienza generale del 25/6/2014.

[12] A Roma è venuto quasi naturale tornare ad affrontare in tanti itinerari di formazione dei catechisti proprio questi temi, con una riscoperta passione per i primi capitoli di Genesi così trascurati o presentati infantilmente nella catechesi degli ultimi decenni; cfr. su questo, ad esempio, A. Lonardo, Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi.

[13] L’esigenza di una catechesi che aiuti ad avere una visione sintetica della fede è stata espressa già da papa Paolo VI al termine del Sinodo sulla catechesi: «Ci è stato di grande conforto il rilevare come da parte di tutti si sia notata l'estrema necessità di una catechesi sistematica, appunto perché tale approfondimento ordinato del mistero cristiano è ciò che distingue la stessa catechesi da tutte le altre forme di presentazione della Parola di Dio. Questo voi stessi l'avete sottolineato nella convinzione che nessuno può giungere alla verità intera a partire unicamente da una qualche semplice esperienza, e cioè senza una adeguata spiegazione del messaggio di Cristo, che è “Via, Verità e Vita”, alfa e omega, principio e fine di tutte le cose. L'integrale presentazione del messaggio cristiano comprende, ovviamente, anche la spiegazione dei suoi principii morali sia circa i singoli uomini sia circa l'intera società» (discorso di papa Paolo VI del 29 ottobre 1977 al termine del Sinodo dei vescovi). Questa forte provocazione è stata poi ripresa da Giovanni Paolo II, poiché per la morte prima di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo I non era stato possibile giungere ad un’Esortazione post-sinodale che si ebbe solo con la Catechesi tradendae che riprende la parole di Paolo VI: «La specificità della catechesi, distinta dal primo annuncio del vangelo, che ha suscitato la conversione, tende al duplice obiettivo di far maturare la fede iniziale e di educare il vero discepolo di Cristo mediante una conoscenza più approfondita e più sistematica della persona e del messaggio del nostro signore Gesù Cristo» (Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae 19).

[14] Cfr. su questo “libertà dell’uomo” e “Libertà di Dio”. L’importanza della “sintesi” in catechesi. Video di Maurizio Botta e Andrea Lonardo (accompagnato dalla Nota di metodo: la necessità di uno schema sintetico per presentare la fede ai bambini a partire dal cuore della fede cristiana).

[15] Ad esempio, a Roma la proposta che l’Ufficio catechistico ha maturato per il cammino della Confermazione ha puntato proprio sulle virtù teologali e sul rapporto fra vizi, virtù e doni, recuperando l’esperienza di San Filippo Neri, rifiutando schemi fumosi e confusi; cfr. su questo Proposta di un itinerario verso la Cresima, di Andrea Lonardo (in dialogo con padre Maurizio Botta e don Davide Lees)

[16] Cfr. su questo: «Adulto è il participio passato del verbo adolescere, colui che ha finito di crescere. Io oggi conosco molti più adulteri che adulti, adulteri a se stessi, ovviamente». Marco Paolini parla di giovinezza ed età adulta.

[17] Cfr. su questo Il membro della famiglia, di Fabrice Hadjadj e Che cos’è una famiglia?, di Fabrice Hadjadj.

[18] Il Nuovo Testamento ricorda che ci si battezzava “con la propria casa”, cioè insieme ai propri figli (1 Cor 1,16, la “casa” di Stefana; At 16,15, Lidia e la sua “casa”; At 16,33, il guardiano della prigione di Filippi con la sua “casa”; At 18,8, Crispo, capo della sinagoga, con la sua “casa”).
Inoltre i Padri della Chiesa, ben prima di Costantino, attestano che battezzare i piccoli era una tradizione ricevuta dagli apostoli. Espliciti riferimenti si trovano in Ireneo di Lione, in Origene e in Agostino. Origene scrive, ad esempio: «Il Battesimo della Chiesa è amministrato, secondo il costume della Chiesa, anche ai bambini» (Omelia 8 sul Levitico, su Lv 12,2-8). Ed Ireneo afferma: «Gesù è venuto a salvare tutti gli uomini: tutti quelli che per mezzo di lui sono rinati in Dio, neonati, bambini, giovani e persone anziane» (Adversus haereses II,22,4). Alle fonti letterarie si aggiungono quelle epigrafiche, in particolare le iscrizione funerarie dalle quali appare evidente il battesimo dei bambini: ad esempio, una di esse recita: «Zosimo, fedele nato da fedeli, ha vissuto 2 anni 1 mese 25 giorni».
L'impegno ad educare nella fede i propri figli è ancora più evidente della prassi del Battesimo degli infanti. Ovviamente la Chiesa antica la riceveva dall'ebraismo che circoncide i bambini all'ottavo giorno e li educa progressivamente allo studio della TorahNel Nuovo Testamento abbiamo testimonianza di questa passione educativa della prima comunità, ad esempio, nella figura di Timoteo, discepolo prediletto di San Paolo. L'apostolo gli ricorda come abbia ricevuto la fede dalla madre e dalla nonna che gliel’hanno trasmessa - «Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tim 1,5) - e come egli sia stato istruito nelle Scritture fin da piccolo - «Fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù» (2 Tim 3,15).
Ma molti testi neotestamentari fanno riferimento all'importanza dell'educazione dei piccoli, ad esempio Ef 6,4: «Voi, padri, fateli crescere [i vostri figli] nella disciplina e negli insegnamenti del Signore». Se Gesù si rivolge agli adulti per la sua predicazione, non appena i suoi discepoli hanno figli, subito comprendono che il messaggio del Cristo riguarda anche i loro bambini.
È evidente che l’esperienza della paternità e maternità nella prima comunità primitiva le ha fatto rileggere in maniera più profonda le parole di Gesù sui bambini: «Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”. E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro» (Mc 10,13-16).
Non risulta pertanto corretta l'affermazione di alcuni autori che vorrebbero che la prassi del Battesimo dei bambini sia iniziata in età costantiniana. Anzi, se si guarda al IV secolo, ci si accorge che con Costantino divenne prassi esattamente l'opposto: si iniziò cioè ad iscrivere i figli al catecumenato differendo il Battesimo, per paura che essi non fossero in grado di sostenerne le responsabilità. Avvenne così che personalità come Basilio il Grande, Ambrogio e suo fratello Satiro, Giovanni Crisostomo, Girolamo, Rufino, Paolino di Nola, Agostino con l'amico Alipio ed il figlio Adeodato, Gregorio di Nazianzo abbiamo ricevuto il Battesimo solo in età adulta, pur essendo catecumeni fin da bambini. Famosa a Roma è anche l'iscrizione funeraria di Giunio Basso, praefectus urbi, che ricorda il defunto come neofitus, cioè appena battezzato, in quanto doveva aver ricevuto il Battesimo in punto di morte, dopo averlo differito per tutta la vita.
Ma quando questi si battezzarono, iniziarono a scrivere in favore del Battesimo dei bambini perché non si ripetesse l'errore compiuto dai loro genitori. Abbiamo così nella seconda metà del IV secolo Basilio il Grande che scrive il Discorso 13 che è un'Esortazione al Santo Battesimo, Gregorio di Nissa che scrive un Sermone contro coloro che differiscono il Battesimo, Gregorio di Nazianzo che scrive il Discorso 40 sul Santo Battesimo ed Agostino che ritorna più volte ad invitare al Battesimo dei neonati: in tutti questi testi si esorta a conferire il Battesimo ai bambini secondo la prassi primitiva sovvertita dopo Costantino.
L'unico dei padri che avanza riserve sul Battesimo dei bambini è Tertulliano. Egli, che è un rigorista, non vorrebbe conferire il Battesimo se non a chi si è già sposato, perché altrimenti potrebbe incorrere dopo essere divenuto cristiano in peccati gravi di ordine affettivo. La sua opposizione al Battesimo dei bambini attesta comunque che esso era prassi al suo tempo.

[19] Si può fare riferimento in particolare all’esperienza della “catechesi del buon pastore”, curata da Sofia Cavalletti (sulle domande dei bambini che Cavalletti chiama” metafisiche”, cfr. vedi ad esempio S. Cavalletti, Come pesci nell’acqua di Dio: la potenzialità e l'esigenza religiosa del bambino, già pubblicato sulla rivista “Il sicomoro”, n. 7, inverno 1998/1999 e ora disponibile on-line sul sito www.gliscritti.it ): la catecheta afferma nel testo citato: «[Nella catechesi ordinariamente] non si esce dalla mentalità scolastica: insegnamento, apprendimento, verifica. E così ho limitato tutto. Ma il limitato non è attraente, è l'immenso; il mistero che attrae [i bambini]». Si veda ora anche M. Botta – A. Lonardo, Le domande grandi dei bambini, Castel Bolognese, Itaca, 2 voll., 2016-2017 (il secondo volume è in preparazione per la pubblicazione nel prossimo luglio).

[20] Recente è, ad esempio, il caso della Conferenza Episcopale Italiana che nel documento Incontriamo Gesù del 2014 utilizza più volte tale espressione, con una svolta rispetto ai precedenti documenti nei quali si ripeteva invece il sintagma “modello catecumenale”.

[21] È estremamente significativo che nei numeri precedenti di Lumen fidei (nn. 40-45) papa Francesco abbia posto la fede celebrata prima della fede creduta, per mostrare che nella liturgia si fa esperienza del Dio vivente e che tale esperienza spesso precede la riflessione sistematica sulla fede stessa.

[22] Da J. Ratzinger, Il Catechismo della Chiesa cattolica e l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Roma, Città Nuova, 1994, pp. 26-27.

[23] Sulla lettura tipologica della Scrittura, tipica della liturgia e della catechesi, cfr. M. Magrassi, Tipologia biblica e patristica liturgia della Parola, in “Rivista Liturgica” n. 53 (1966), pp. 165-181 e A. Lonardo. Il Dio con noi. Piccola cristologia del buon annunzio, Cinisello Balsamo, San Paolo, pp. 138-144.

[24] Cfr. su questo: Tre articoli di Bruna Costacurta sulla lettura credente della Scrittura 1/ Pensare nella fede: lettura credente della Scrittura e teologia, di Bruna Costacurta 2/ Importanza e significato della lettura credente della Sacra Scrittura per la vita della Chiesa oggi, di Bruna Costacurta 3/ Esegesi e lettura credente della Scrittura, di Bruna Costacurta.

[25] Questa è la tesi che da inizio al pensiero post-moderno in filosofia, a partire dall’intuizione di J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2006 (originale 1979), pp. 5-6; 6-7; 12-13. 

[26] Cfr. ad esempio le Playlist nel canale Youtube Catechisti Roma Gli scritti.

[27] Cfr. su questo A. Lonardo, La bellezza salverà la catechesi? Alcuni presupposti della via pulchritudinis nell'annunzio del Vangelo, in AICa, D. Marin (a cura di), Vie del bello in catechesi. Estetica ed educazione alla fede, Elledici, Torino, 2013, pp. 77-91 Lo stesso contributo in versione ampliata è disponibile on-line La bellezza salverà la catechesi? Alcuni presupposti della via pulchritudinis nell'annunzio del Vangelo, di Andrea Lonardo.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:26 pm | | Default

L'Europa sterile dei leader senza figli, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 28/5/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (30/5/2017)

È interessante fermarsi a riflettere su un tratto comune dell'attuale classe dirigente europea e chiedersi se questo sia un fatto accidentale o caratteristico: Emanuel Macron, presidente della Repubblica francese non ha avuto figli - può succedere purtroppo! - ma neanche la cancelliera tedesca Angela Merkel, il primo ministro britannico Theresa May, il presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni, il premier dei Paesi Bassi Marc Rutte, quello svedese Stefan Löfven, il lussemburghese Xavier Bettel, la presidentessa della Scozia Nicola Sturgeon e infine neppure Doris Leuthard, presidentessa della Confederazione elvetica. In mezzo a tutti questi childfree, probabilmente per non incorrere nel rischio di illegittimità, neppure il presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker ha avuto figli o figlie.

Le circostanze e le motivazioni non sono le stesse da un leader all'altro: May ha raccontato della sua sofferenza di non essere stata madre, Macron scavalca allegramente la sua scelta di non aver figli parlando della sua felicità come nonno acquisito (è che i figli di sua moglie hanno pressappoco la sua stessa età).

Tuttavia, al di là dei desideri degli uni e degli altri, il fenomeno è troppo generale per non essere un segno dei tempi. Con tutti questi casi simili non si tratta più di un'eccezione, ma di una regola, se non espressa o volontaria, per lo meno vissuta: il padre deve cedere il posto all'esperto, e per potersi dedicare interamente alla sua perizia è meglio per quest'esperto di non essere disturbato da un piagnone che non gli ubbidisce come fa il suo tablet.

Anche quando tale sterilità è subita, essa è ancora, almeno in parte, caratteristica della configurazione del mondo industriale e dei suoi stili di vita che favoriscono il consumatore individuale e dei suoi agenti chimici (steroidi, bisfenoli, ftalati, ecc.) che moltiplicano i disturbi endocrini favorendo l'infertilità.

Certo, non si può rimproverare ai nostri dirigenti la loro mancanza di “filosofia”. La maggior parte dei grandi filosofi - Platone, Kant, Nietzsche…- li ha preceduti nel No-kidding… Addirittura i greci antichi talvolta giudicavano che la pederastia predisponeva meglio agli alti impieghi dello stato, non solo perché liberava dalle preoccupazioni del padre di famiglia, ma anche perché si fondava su una certa emulazione virile.

Quanto a Malthus e i suoi successori, essi ci hanno permesso di capire che la coscienza ecologica consiste nell'uccidere la natura in noi e nel non dare la vita: per evitare il suicidio del “pianeta” è meglio la vasectomia.

C'è poi anche la prospettiva che sembra colpire più specialmente l'Italia cattolica - il culto del bambin Gesù solo nel suo presepio conduce all'idea del bambino-re, del bambino a cui bisogna fornire le migliori condizioni di vita e risparmiare al massimo la sofferenza (contrariamente a Cristo, del resto, che chiama “Satana” quelli che avrebbero simili buone intenzioni al suo riguardo): l'ideale del bambino-re conduce alla realtà del figlio unico, con la stessa forza della politica cinese, e perfino, perché no, al figlio inesistente che è il solo figlio senza drammi né sofferenza (il lettore avrà compreso che questo figlio ideale e perfetto può anche corrispondere a un cane o un gatto).

Comunque sia, è completamente normale che una popolazione europea destinata prossimamente all'estinzione dai suoi tassi di natalità scegliesse un leader che è parte di questa sparizione.

E tuttavia Maimonide, probabilmente perché è molto ebreo e non abbastanza filosofo, afferma che non può essere magistrato chi non è padre. Per sedere nel Sinedrio, dice, occorrono saggezza, intelligenza e compassione; ora, per acquistare tali virtù in modo che siano concrete e si iscrivano nell'ordine naturale, bisogna avere figli (potrebbe essere diverso per l'ordine soprannaturale, ci sono una paternità o maternità spirituali che non sono meno reali nella grazia).

L'uscita dall'ideologia e il realismo pratico passano attraverso l'esperienza del maestro che è ammirato dai suoi pari e adulato dai suoi discepoli, ma che non è ascoltato a casa sua; o attraverso quella dell'uomo che ha lavorato per l'interesse comune tutto un giorno, e che deve alzarsi nel cuore della notte per vegliare suo figlio malato (mentre ha voglia di dormire, tanto da dover lottare contro una pulsione infanticida).

Ecco qualcosa che in effetti dà una certa comprensione degli uomini. Péguy è d'accordo col pensatore ebreo. Secondo lui, il padre di famiglia è più politico del politico, perché ha la preoccupazione di un tempo che non sarà più il suo, ma quello della sua discendenza: «È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale decadenza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei figli di cui i padri si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indifferente».

È qui che si pone una domanda molto seria: come possono presiedere sistematicamente al futuro dell'Europa delle persone che non vi sono implicate carnalmente? È tuttavia vero che ciò non pone nessun problema dal momento che questo futuro non è più quello degli uomini, ma dei robot.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:25 pm | | Default
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Napoleone, Totti e la fine della scuola, di Roberto Contu

Riprendiamo dal blog di Roberto Contu http://www.laletteraturaenoi.it/ un suo articolo pubblicato il 29/5/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

Maggio odoroso vs maggio furioso

Venerdì ventisei maggio, entro in classe alle otto nella mia quarta. Le due ore si preannunciano più che problematiche: ho in animo di leggere e commentare tutto Il cinque maggio.

L’esito è più che incerto. Sono rassegnato a pagare dazio al maggio odoroso degli studenti, che me li porterà in classe con la testa ovunque nell’universo fuorché dal Manzanarre al Reno, ma sono anche rassegnato al maggio furioso del docente che, se ha lavorato come Scuola comanda, si ritrova a questo punto dell’anno col cervello completamente in pappa.

«Ma lo devi fare, è importante, lo so che non capiranno, lo so che si annoieranno, ma lo devi fare»: è questo il mantra che mi impongo salendo le scale. Entro in aula, entrano gli studenti, fanno la lista delle merende, faccio quattro clic sul registro elettronico. Iniziamo la lezione. Decido di vendere cara la pelle, provo a giocarmela, tento il bluff (oramai sgamato dai più) «della grande pagina di letteratura che di sicuro voi non capirete, che vi annoierà perché troppo difficile per voi del tecnico, ma se ce la faceste, ah la bellezza!». Stranamente mi accorgo che sono tranquilli. L’aria fresca aiuta, le facce sono sveglie e poi quell’attacco «Ei fu», immediatamente stoppato dal coro dei «oh ma io questa l’ho studiata alle medie». Mi dico «stai a vedere che forse ci arrivo davvero al Tanai».

Come Totti

Al Tanai ci arrivo abbastanza decentemente. Me li perdo per strada giusto due, tre. Certo, quei soggetti sparpagliati random qua e là non aiutano: «la terra, la terra, ma dove sta prof? Ah eccola, ma perché l’ha messa a casaccio quaggiù?». E poi l’encomio, vaglielo a spiegare l’encomio. Orbo però fa ridere, non c’è che dire.

Il brutto viene dopo. Ai posteri l’ardua sentenza: «mai sentita questa espressione prof». «Non ci credo» imbruttisco io. «Mai», confermano. «Tirare avanti» mi dico allora, «tirare avanti, arrivare almeno a Sant’Elena, qualcosa lì accadrà». Passiamo in scivolata sotto le gambe divaricate dell’uom fatale tra i due secoli ed eccoci finalmente (con qualche perso per strada in più) al cospetto di lui, con le braccia al sen conserte, inondato dai ricordi.

«Qui devo dare il meglio, questa parte funziona» mi dico. E giù, tutta una filippica sul senso di una vita inimmaginabile svanita in sei anni, parcheggiata in un’isola fuori dal mondo. Eppure non funziona, non smuove, loro non vibrano.

Tento un «ditemi qualche nome che ha vissuto tanto». Qualche sparuto «Giulio Cesare», subito rintuzzato da sparsi «ma no, quello l’hanno ammazzato quando ancora era al top». «Giusto», rinforzo. Eppure ancora non funziona.

Manca l’esempio giusto. Parto da loro. «Immaginate una vita incredibile, mica solo quella di Napoleone o di Cesare. Quella che volete. Ma la vita di uno che ha fatto quello che nessuno è mai riuscito a fare, o giusto in quattro o cinque nella storia. Poi ad un certo punto tutto finisce. Ma mica perché muori. No, perché la storia ti mette all’angolo. Perché il tuo tempo è finito. Le luci si spengono e tu non ti arrendi. Non ce la fai. È troppo quello che hai fatto. Come continuare a vivere dopo tutto quello che è stato? Come?».

Dal fondo della classe si alza una mano. «Come Totti prof». Lo guardo. Lui insiste. «Come Totti prof. Come il capitano. Nun ce la fa a ritirasse, è stato troppo grande». Qualcuno ride. Qualcuno molla definitivamente la lezione.

«Bravo», dico io. «Come Totti». Mi interrompe il suono della campanella, «prof, dobbiamo andare in palestra per la finale del torneo di calcetto!» urlano. Riesco appena a dire un «finiamo la prossima volta», tutti scattano in piedi, prendono gli zaini alla rinfusa. Sorrido e mi dico che in fondo è giusto che si fiondino fuori in quella selvaggia eruzione. Aspetto che il frastuono delle sedie trascinate finisca e che l’aula si svuoti. Scendo anche io, la circolare parla chiaro: «Torneo di calcio a cinque della Scuola. I docenti in orario si recheranno in palestra e vigileranno sul corretto svolgimento della manifestazione».

Pallonate

Mentre guardo i ragazzi giocare dalla gradinata, isolato dai boati delle pallonate di ogni tiro sbagliato contro il muro, continuo a pensare a Napoleone e a Totti. All’inizio lo faccio per capire come potere dare corso a quella che mi pare una inaspettata strada didattica aperta.

C’è tutto il mondo della letteratura lì dentro: Napoleone e il ritiro di Totti. L’uomo e il tempo che passa. L’uomo e la sua forma. Il divenire. La rappresentazione. La gloria. La caduta. La risalita. Il crepuscolo. Specchi deformi e isole che non ci sono. Di tutto, da farci un anno di scuola.

Poi però un altro pensiero, più forte, si insinua, una tentazione. Napoleone e Totti. Totti che si ritira ma non ce la fa, Totti che ha i miei stessi anni e che ora ha paura di quello che sarà. Totti che ha fatto parte di una generazione come la mia che ha creduto che i sogni più grandi, fossero anche quelli di diventare un Napoleone del calcio o semplicemente un insegnante contento di esserlo, potevano esistere, potevano starci. Bastava lottare per arrivarci, magari innamorarsi a vita di una maglia, di un’utopia, di una guerra felice con la vita.

Ma se guardo i miei ragazzi che rincorrono il pallone in palestra mi sento insidiato dal constatare qualcos’altro. I miei ragazzi sono già con le braccia al sen conserte ma non per una storia finita, ma per una storia per loro quasi impossibile da iniziare. Questi ragazzi con molta più fatica avranno eterne pagine da scrivere, pagine su cui immalinconirsi un giorno, quando le luci staranno per spegnersi.

Per colpa loro? No, sarebbe la bestemmia più infame considerare anche questo. Per colpa del mondo capitatogli in sorte, questo sì invece. «Ti devi impegnare, potrai iscriverti all’università», quante volte l’ho detto. «Ma che la faccio a fare prof l’università, tanto il lavoro non lo trovo lo stesso», quante volte me lo sono sentito rispondere.

Rete

Ma allora maggio furioso ha avuto la meglio? Totti e Napoleone, mi avete rovinato la giornata? Mi ritrovo anche io nei panni nel cantore di sventura da sala insegnanti che ho sempre maledetto? Forse è ora che davvero l’anno finisca. Mi alzo, decido di andare a prendermi un caffè al distributore automatico.

Poi però un boato, qualcuno ha segnato. Mi giro. I ragazzi si abbracciano tutti e io sono lì che li guardo. Che spettacolo che sono i ragazzi, sono belli i ragazzi. Mi dico, in un silenzioso «ma sai che ti dico», che sono più belli di Totti. Più belli di Napoleone. Perché sono loro i veri eroi, i ragazzi.

E che battaglie combatteranno questi ragazzi. Doppieranno Mosca e arriveranno in Siberia, segneranno gol mille volte più belli di quello contro la Samp o del cucchiaio a Milano.

Campagne nel silenzio della storia, nella dignità di un lavoro da quattro soldi che si andranno a prendere, di figli che tra mille ostacoli comunque cresceranno. Reti nascoste di idee meravigliose che saranno progetti che ci stupiranno, strade inedite che comunque e per primi apriranno, lezioni di dignità e di coraggio che, come maggio radioso, per noi brilleranno. Dimentico il caffè, mi risiedo a guardare la partita. Perché la scuola non è mai finita.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:24 pm | | Default

1/ Non si ama per odio, ovvero la complicità nel male... , di Luigi Santopaolo 2/ Non per conoscenza, ma per amore..., di Luigi Santopaolo

1/ Non si ama per odio, ovvero la complicità nel male... , di Luigi Santopaolo

Riprendiamo un post dal profilo FB di Luigi Santopaolo. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

N.B. de Gli scritti L’autore di questi detti è abituato a porre in bocca a maestri di Dio sue riflessioni, immaginando con grande acutezza dialoghi teologici e spirituali. Non si deve pertanto attribuire in chiave scientifica tali detti ai rabbini menzionati.

Un giorno apparve nella scuola di Rabbi Hillel un nuovo discepolo. Il Rabbi gli si avvicinò e gli chiese: "Da dove vieni?". Il ragazzo rispose: "Ero discepolo di Shammai, con il quale ho avuto numerosi scontri, finché non ho deciso di andare via. Poi ho saputo che anche tu non approvi l'insegnamento di Rabbi Shammai ed ho pensato di passare alla tua scuola".

Hillel pianse e soggiunse: "Se accettassi un discepolo in odio ad un mio avversario, avrei fallito come maestro. Non approvo il suo insegnamento, dici bene, ma ritengo non esista in Israele un maestro più grande di Shammai. Va', riconciliati con lui e poi, se vuoi, ritorna da me. Non accetterò il tuo amore in odio ad un altro, perché non si ama per odio. L'amicizia scaturita dal comune odio per qualcuno è figlia del maligno ed una via per la Geenna: nessuna complicità nel male sarà ben vista all'Altissimo".

2/ Non per conoscenza, ma per amore..., di Luigi Santopaolo

Riprendiamo un post dal profilo FB di Luigi Santopaolo. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

N.B. de Gli scritti L’autore di questi detti è abituato a porre in bocca a maestri di Dio sue riflessioni, immaginando con grande acutezza dialoghi teologici e spirituali. Non si deve pertanto attribuire in chiave scientifica tali detti ai rabbini menzionati.

Diceva Rabbi Shammai: "Studia la Torah per amore e non per conoscenza. L'amore ha un nome ed un volto: quando entri nel tabernacolo della Santa Parola, dunque, non farlo da solo, ma porta con te i tuoi amici. Studia per loro, non per te stesso e non essere geloso del tuo sapere, perché condividere significa crescere e ciò che non cresce è morto. Ricorda che la Torah è vita e la vita non è nelle carte, ma nei cuori".

 

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:23 pm | | Default
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Narrar degli uomini, parlar di Dio, di Giovanni Lindo Ferretti

Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione curata da Daniela Forniti dell’incontro tenutosi il 3 maggio 2013: Lorenzo Fazzini intervista Giovanni Lindo Ferretti in un incontro pubblico presso la Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri di Roma. Giovanni Lindo Ferretti, cantautore, scrittore, fondatore e leader dei CCCP- Fedeli alla linea, poi dei CSI e dei PGR, una delle voci e dei volti più importanti del punk italiano, parla del suo “ritorno a casa". Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. A questo link il video integrale della serata qui trascritto: Giovanni Lindo Ferretti, Narrar degl'uomini parlar di Dio.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

[...]

Lorenzo Fazzini

Io ho conosciuto Giovanni perché mi ero messo in testa di fare un libro sui convertiti. Siccome su Avvenire, con Marco direttore, avevo preso, come le barzellette, tre francesi, due inglesi, una tedesca, ma mi mancavano gli italiani.

Allora pensa un po’, cerca, ecc… io avevo sentito parlare di codesto personaggio, mi procuro il telefono, gli telefono molto tremante e gli dico: «Guardi, io non la conosco, ma vorrei fare questo libro di interviste sui convertiti. Ho sentito la sua storia, l’ho letta di qua e di là. Mi ha colpito il suo percorso. Mi domandavo se potevo intervistarla al telefono». Silenzio, ma lungo! «Beh, in effetti sono pensieri un po’ pensati ultimamente questi qua. Che ne dici se vieni su da me una giornata e stai qui con me? Me lo dici per tempo perché c’è la mamma ammalata e allora devo organizzarmi». Apriti Sesamo! Il caso non esiste, esiste la provvidenza. Era il 3 maggio del 2009, non è che è stata pensata apposta [l’incontro si svolge il 3 maggio 2013], di quattro anni fa.

Conclusione, arrivo a casa la sera a mezzanotte e mezza, mia moglie alza la palpebra e mi chiede: «Allora com’è andata?». Gli ho detto - ero stato con lui dalla mattina alle dieci alla sera alle sette e mezza -: «Guarda, le ipotesi sono due: o ci sta prendendo per… tutti, oppure è un grande!».

Giovanni Lindo Ferretti

Devo interromperla subito. Nessuna delle due ipotesi è realistica: non vi sto prendendo per il culo, ma non c’è niente di straordinario nella mia storia!

Lorenzo Fazzini

Questo lo metteremo ai voti alla conclusione!

Allora “narrar degli uomini, parlar di Dio”, con Giovanni da che bandolo lo possiamo prendere? Perché poi abbiamo fatto anche un’intervista per TV2000, anche lì abbiamo passato tutta una giornata e più insieme. Insomma andando e tornando c’è dentro, secondo me, nella sua storia la storia di tante persone e la storia di un pezzo del nostro mondo in cui la parola “uomo” e la parola “Dio” non sono così distanti o antitetici come si può pensare. E forse oggi, visto che siete venuti ad ascoltare lui e non me, lo potremo capire.

Io, Giovanni, vorrei chiederti come primo “la” ciò che a me ha sempre molto colpito, forse perché sono figlio di un alpino: la parola “reduce”, che è il titolo del tuo primo libro. La parola “reduce”, che è una bellissima parola, è una parola vecchia, è una parola che rimanda alla Campagna di Russia, che rimanda a esperienze di sofferenza.

Da cosa sei reduce? Certo, per rispondere a questa roba qua dovremmo stare qui fino a domani mattina alle sei, ma qualcuno tiene famiglia! Da cosa sei reduce e perché ti senti reduce?

Giovanni Lindo Ferretti

Perché nel mondo contemporaneo, nel mondo in cui sono cresciuto, sono cresciuto in mezzo ad una serie di infinite battaglie. Noi siamo una generazione nata alla fine della seconda guerra mondiale, cresciuti nella guerra fredda che qualcuno dice che in realtà è stata una terza guerra mondiale mai dichiarata, ma combattuta come tale anche su altri fronti. Io ho combattuto una serie infinita di battaglie proprie del mio tempo. Mentre le combattevo le immaginavo battaglie, in qualche modo, gloriose del bene contro il male e io ero convinto di stare dalla parte del bene. Poi è cominciata a presentarsi al mio sguardo qualche crepa e ho cominciato una lunga battaglia dentro di me.

Io sono nato in un piccolo borgo dell’Appennino. C’è una frase di Pasolini, una persona che per certi versi non amo e per certi versi amo moltissimo, che dice: «Disegna l’Appennino nel cielo l’ombra di un’esistenza più antica». Io sono nato in un posto in cui l’ombra di un’esistenza più antica era viva, palpabile.

Io esco mal volentieri di casa e scendo molto, molto mal volentieri in città. Ma adesso la considero una grazia di Dio. Ho una percezione fisica del viaggio. Io ieri mattina mi sono alzato presto, ho messo a posto tutte le cose in casa, ho messo a posto gli animali, ho saluto mio zio, ho lasciato pronta la colazione, poi sono salito in macchina, poi ho preso un treno e ho fatto un viaggio di millenni in realtà. Guardavo i passeggeri che facevano tratte di questo viaggio con me e io ero felicissimo perché stavo andando a Roma. Roma è qualche cosa che fa parte della mia…, le mie cellule vibrano perché sto scendendo a Roma. Roma è una grande storia, è una grande cosa.

Io sono nato e cresciuto in una disgrazia, in un mondo povero e con una morte che ha distrutto una piccola economia di una piccola famiglia, perché è morto mio padre e siamo diventati improvvisamente da poveri dignitosi a molto, molto poveri. Mia madre ha dovuto lavorare diciotto ore al giorno per mantenere i suoi figli più la famiglia di mio padre che era una vecchia nonna e un cognato malato in un ospedale a cui bisognava pagare le cure. Per cui, per un po’ di anni, ha lavorato diciotto ore al giorno. Sembra impossibile a dirsi! Lei lavorava sempre e poi arrivava a casa e io ho questi ricordi di questa donna giovane sempre affaticata, ma per me bellissima.

Io vivevo con una vecchia nonna in una vecchia casa cadente, ma a me sembrava il paradiso terrestre: era tutto bellissimo. Ero un bimbo molto amato, quindi mi stupivo che gli altri percepissero questa situazione come una situazione di dolore perché per me era così bello, avevo tutto quello che mi serviva.

Sono cresciuto come un bimbo cattolico come la maggioranza dei bimbi di qualche generazione fa, io ho sessant’anni adesso. Poi la mia famiglia ha deciso che i bimbi dovevano studiare quindi sono stato mandato in collegio. Sono stato cresciuto dai salesiani in un collegio in pianura, vicino a Reggio Emilia che è la città dei comunisti. Sono cresciuto in un ambiente molto, molto sereno e senza nessun problema come crescono i bimbi, con tanti problemi. Ho conosciuto la morte, come capitava ai bimbi di altri tempi, da subito. Però le cose stavano in un ordine naturale in cui io mi sentivo a mio agio.

Poi sono cresciuto. Ero un bimbo promettente in qualche modo perché studiavo e così via, e mi sono innamorato della modernità. In realtà ad un certo punto ho scoperto che c’era tutto un altro mondo intorno a me che sembrava così promettente, cioè prometteva delle cose molto diverse e molto più grandi di quelle che io avevo ed erano la mia gioia. Prometteva delle idee strepitose tipo la costruzione del paradiso sulla terra, per ridurre a semplicità; quindi la giustizia come regno sociale. Allora io pensavo che per esempio per mia madre, che era una povera donna che lavorava come una disperata, la giustizia sociale sarebbe stato qualcosa d’importante e lei questi discorsi non li aveva mai pensati perché in realtà lei, nella sua disgrazia, si rivolgeva a Dio, pregava, reggeva pensando che la vita è complicata. Le cose ti succedono e tu devi avere la forza di reagire, poi pian piano capisci che anche quelle cose così terribili hanno una loro ragione. Forse tu non capisci la loro ragione, comunque la vita è questa: la vita è un dono e va accettata per quello che è; non bisogna porsi problemi che non hanno soluzione possibile, perché le soluzioni sono in realtà un peggiorativo dell’esistente. C’è una saggezza popolare così forte che ad un certo punto io ho abbandonato e ho voluto costruirmi secondo aspettative altre e diverse e ho scoperto la modernità. Era più o meno il 1968, io ero un ragazzino molto giovane e c’era anche una dinamica ormonale, c’è un periodo della vita in cui non ti torna più niente ed è facile rimane preda di sogni, di predicazioni folli. Io guardo gli animali, se voi allevate dei cuccioli c’è un momento in cui tutti i cuccioli passano una fase che io chiamo “delirio dell’onnipotenza” per cui un cane si mette davanti ad un trattore e abbaia spaventosamente con la convinzione di fermarlo. Quindi arriva il padrone, o qualcuno che passa di lì, e con un gesto autoritario lo prende per il colletto, gli dà due sberle e dice: «Non si fa!» e lo butta via. Lui impara e quindi forse si salva o, altrimenti, prima o poi viene schiacciato dal trattore. Non c’è altra soluzione, è così, succede questo.

Ecco, ad un certo momento attorno a me non c’era una famiglia, una tradizione, una comunità che fosse in grado di reggere la mia necessità, la mia smania di protagonismo, non so nemmeno come definirla. Quindi ho fatto tutto il percorso della mia generazione, ma in maniera molto seria: credendo davvero che la risposta fosse possibile ai bisogni degli uomini soltanto confidando sulla forza dell’uomo con la giusta ideologia e la giusta dose di violenza perché ad un contadino è evidente che comunque serve per fare funzionare il mondo anche una giusta dose di violenza. E ho pensato per lungo tempo che questo fosse possibile: che gli uomini possedessero, se lo vogliono, con la giusta ideologia, con la giusta organizzazione, riorganizzare il mondo meglio di quello che è. L’ho creduto fino a che è stato possibile perché, comunque, l’educazione che mi è stata data da bimbo era un’educazione che possedeva una verità che è riaffiorata.

Io sono stato abituato da bimbo a fare l’esame di coscienza. Me lo ha insegnato mia nonna che era una signora... Quando la guardavo pensavo che lei fosse una regina longobarda. Non sono mai stato di quelli che pensano che l’uomo possa discendere da una scimmia, sarebbe così triste, così terribile che per me non è proprio possibile, nemmeno se è vero non è possibile! Deve essere successo qualcosa che non sappiamo, ma non è così, non fosse altro per le persone che mi hanno allevato e che mi hanno avuto bene. Erano esseri umani, uomini e donne con una forza e una capacità di reggere le disgrazie, di trovare la forza necessaria, magari chinando il capo.

Mia nonna mi ha insegnato a fare l’esame di coscienza. Che significava? Che alla sera, quando andavamo a letto, io dormivo nel lettone insieme a mia nonna perché la casa era molto grande, era molto fredda, piena di spifferi e di rumori - poi i bimbi sono sempre stati bene con i nonni, si addormentano; è una questione anche di chimica di pelle: probabilmente la pelle dei bimbi cerca la pelle dei vecchi per trovare una pace fisica –. Mia nonna la sera mi faceva dire le preghiere e poi mi faceva fare l’esame di coscienza - pensando perché lei non voleva sapere, non era un esame di coscienza fatto a voce alta. Lei m’invitava a pensare quello che avevo fatto durante la giornata, dove erano stati i problemi e, nei problemi, a cercare di capire quali erano le mie colpe, perché quello era il mio esame di coscienza. Qualche volta ci capitava di discutere e io dicevo: «Però quello lì è colpa di Luciano!» e mia nonna mi diceva: «No, noi stiamo facendo l’esame di coscienza di Giovanni. Luciano magari lo fa con sua nonna, quello lì è il suo esame di coscienza. Tu non puoi ributtare la colpa sugli altri, tu devi pensare alle colpe che sono riducibili a te». E sono stato abituato così: a non raccontarmi le bugie.

I bimbi vengono educati, l’educazione è un processo connaturato all’umanità: se l’educazione non c’è, non c’è; se l’educazione c’è, anche se tu la perdi, poi riaffiora perché, di fronte a cose importanti che succedono, le cose che ti sono state insegnate hanno lasciato un segno e a volte tu scopri che hai una forza che non pensavi di avere.

La prima forza che ho riscoperto, quando le cose non hanno più cominciato a funzionare come immaginavo, è che io sapevo fare l’esame di coscienza; dovevo ricordarmi quello che mi era stato insegnato. Poi ho ricominciato a dire le preghiere che dicevo con mia nonna. Non era una dimensione molto religiosa, era una dimensione più terapeutica e cioè la scansione del Pater Ave Gloria Requiem perché quando ero bambino noi pregavamo in latino, un latino un po’ maccheronico però molto funzionale. Quindi, tenuto conto che tra le tante mode che hanno imperversato nella mia giovinezza c’è stato un momento in cui anche la spiritualità orientale, ogni cosa strana, ogni cosa esotica per cui avevo amici, a cui volevo anche bene, che dicevano delle preghiere inverosimili e facevano della cose per cui io mi dicevo: «Ma se io devo pregare prego come mi è stato insegnato. Comunque io non prego perché io non credo più a queste cose». Ma ho ricominciato pian piano. Però c’è qualcosa che va al di là della mia volontà: c’è una terra, c’è una storia, c’è un paese, c’è una tradizione, c’è una famiglia. Non così intelligente per poter fare tutto da solo! Quindi, in realtà, credo che le preghiere di mia nonna, le preghiere di madre abbiano in qualche modo fatto un lungo percorso di fianco a me e mi siano arrivate addosso nel momento in cui io avevo bisogno di ritrovare qualcosa. Ad un certo punto ho dovuto dire che tutto quello che io avevo creato con le mie forze, con la mia intelligenza, in realtà era ben misera cosa. Erano una serie di mode che io avevo attraversato; potevo anche immaginarle come delle leggere malattie dell’anima. Niente mi tornava e facendo i conti, vent’anni dopo - io ho abbandonato la chiesa ha 14 anni, subito dopo il Concilio Vaticano II, le ultime funzioni a cui ho assistito erano quelle dove per la prima volta c’erano le chitarre, c’erano delle messe beat, delle cose strane, io pensavo che se dovevo sentire le messe beat andavo a sentire i concerti dei Nomadi che erano appena nati a Reggio Emilia, quindi ho abbandonato le messe e sono andato a vedere i concerti dei Nomadi, dell’Equipe 84 - però non ha funzionato, quello che io cercavo non era quello che io avevo nella mia vita. Avevo molto, le cose che avevo fatto funzionavano: facevo il cantante, avevo un buon pubblico. Ma non mi tornava niente, non mi tornava la realtà. Io sono stato allevato in un altro modo e questo ha fatto la vera differenza. Per cui quando molte persone mi chiedono di raccontare la mia storia, di partecipare ad incontri, io mi sento… dico che ci sono tanti maestri che sanno raccontare e spiegare le cose molto meglio di me. In realtà io semplicemente ho aperto gli occhi e ho pensato che quello che per lungo tempo ho creduto, in realtà non funzionava. Avevo un’altra strada possibile, ne ho provate tante, ma alla fine l’unica strada possibile era provare a tornare a casa.

Reduce significa questo: ho combattuto una serie di guerre durante la mia esistenza. Sono persino stato, durante la rivoluzione portoghese, armato su di una barricata. Non è una cosa che ho raccontato pubblicamente perché ero giovane. C’era la rivoluzione in Portogallo, facevo l’università e ho detto: «Va beh, voglio andarla a vedere!». E’ plausibile, cresciuto nella mitologia delle rivoluzioni ho detto: «Beh, me ne capita una, non voglio perderla!». Era una rivoluzione tristina, non ha prodotto granché, non sono stato molto fortunato! Però era evidente, anche ad un occhio stupido come il mio, che uno si può raccontare le balle fin che vuole, ma nessuna risposta che funzionasse, rispetto alle esigenze di un cuore umano, era nemmeno sfiorata dal mondo e dal modo in cui io vivevo.

Il legame con la Chiesa cattolica, per quanto io per un lungo periodo abbia combattuto coscientemente la Chiesa cattolica come origine di buona parte dei mali sociali. Ci sono delle ideologie che ti sfornano già tutto il modo di parlare; tu prendi un pacchetto, se vuoi il pacchetto anticattolico lo trovi, è facilissimo, tra l’altro ce ne sono tantissimi in giro. Non a prezzi modici. Se tu ne prendi uno ci sarà sicuramente qualcuno che, in base a quello che fai, dirà: «Guarda quello com’è intelligente, guarda com’è profondo, come è moderno, guarda che sguardo nuovo che ha sulla realtà». Io li ho presi quasi tutti questi pacchettini qua. Ho provato a pensare che fosse un problema dell’uomo, che l’uomo bastasse. Per un po’ di tempo ho voluto credere che l’uomo è in grado di bastare a sé e con la giusta dose di violenza, una buona ideologia e una prassi rivoluzionaria si può costruire il paradiso in terra. Ma l’uomo non basta a sé assolutamente e ogni volta che pensa, rispetto a qualsiasi problema, che questo può essere possibile non risolve il problema e peggiora le condizioni di vita degli uomini. Comunque dai 14 ai 35 anni sono stato un militante, adesso dire rivoluzionario mi sembra persino troppo! Sono stato comunque come le persone della mia generazione a cui voglio anche bene, tra l’altro. Quando è cominciata la guerra in Jugoslavia sono cominciati… le cose evidentemente non tornavano più. Poi ho fatto un lungo viaggio nei paesi del socialismo reale e ho cominciato a pensare che i problemi erano molto diversi da come io l’immaginavo, erano molto più profondi, erano addirittura slegati da quella che è la cronaca politica vera e propria.

È stato un lungo viaggio di ritorno. È stato un ritornare da un’esperienza che non è stata un’esperienza di guerra perché quello a cui io ho assistito è stato uno scontro sociale anche molto forte. Gli anni Settanta sono stati anni in cui lo scontro sociale è stato sull’orlo di una guerra civile, però non si è mai trasformata in guerra civile vera e propria. Ma è stata una vera guerra per chi l’ha combattuta, indubbiamente.

Per tornare a casa bisogna averla una casa. Io avevo la fortuna di avere una casa e quindi, ad un certo punto, ho deciso che sarei tornato a casa. Tornare a casa, ho scoperto subito dopo, che voleva dire in realtà tornare a casa mia, rimettere mano perché era una specie di rudere, riavere di nuovo una stalla perché quella era la mia storia. E ritrovare la strada per la casa del Padre. Come battuta una volta ho detto che il viaggio più lungo che ho fatto è stato il viaggio che ho fatto da casa mia al confessionale la prima volta che sono tornato a confessarmi, che è stata una cosa veramente molto, molto difficile. A tutt’oggi, non mi guardate come se fossi un santo: io sono un essere miserevole e molto peccatore in pensieri, parole, opere e omissioni. Faccio fatica ad andarmi a confessare perché è un percorso di umiltà che è assolutamente proporzionale alla gioia e alla pacificazione che ne deriva se questo percorso io riesco a farlo. Se non riesco a farlo aumenta il disagio, ma quando ci riesco ne ho un beneficio reale, posso sottoscrivere un verbale giuridico, c’è un beneficio. Però è faticoso. È un viaggio molto, molto faticoso.

Lorenzo Fazzini

Non te la cavi così in fretta caro mio! Perché questa è una cosa che veramente… Io sono dell’anno dei tre papi, quindi non ho vissuto la tua epoca, come tanti qui in sala non l’hanno vissuta. Qualche tempo fa, due o tre settimane, cercando di far passare la stanchezza sul divano, alla sera, sono capitato su di una trasmissione, mi sembra “La storia siamo noi”. Una puntata molto bella in cui hanno ricostruito la storia di quell’immagine simbolo degli anni di piombo: quel ragazzo che spara a Milano, in mezzo alla strada, durante ad una manifestazione. È stata molto bella perché recuperavano, minuto per minuto, cercando di capire cosa era successo. Ma il cosa non ci spiega il perché. Allora vorrei chiederti, questa è una domanda mia, non so se è anche di altri, però cosa ha portato una generazione a questo? Ricordo che in un’intervista del libro, ad un certo punto, tu dici: «Io ero stufo di andare ai funerali dei miei amici perché metà di loro moriva per terrorismo, metà di droga». Racconti anche che hai lambito quasi la nascita delle Brigate Rosse, no? Reggio Emilia. Allora la mia domanda: come è stato possibile? E ci siamo salvati una volta per sempre, io lo dico qui, dal virus della violenza? Come è stato possibile? Una generazione che secondo me non ha fatto i conti come l’hai fatti tu… Ma non è per incensarti, però tu hai preso su, sei andato a Cerreto Alpi. Vi assicuro che per arrivare a casa sua… Io sono nato come lui in un paese a mille metri di altezza, più o meno, in Lombardia. La strada è una roba… ci arrivano i pullman, ecc… Guarda lui o ci vuoi arrivare o non ci arrivi, da tanto che è in santa malora. Allora, tu hai fatto i conti con te stesso, con la tua storia, con questa sbandata che ci hai motivato, questa ideologia. Però come mai una generazione intera non li ha fatti, secondo me, i conti in questa maniera perché chi era lì vicino a quel ragazzo che sparava oggi è in televisione, a pontificare sui giornali, non voglio fare nomi e cognomi, ma se volete li facciamo. Ma come è stato possibile che sia arrivato?

Giovanni Lindo Ferretti

Noi viviamo in una società che è molto complessa, è molto stratificata ed è difficile considerare fenomeni sociali con facilità e con leggerezza perché sono tante le dinamiche che s’incrociano. Ci sono delle parole che sono categorie politiche, ma non corrispondono alle presenze umane che fanno massa. In queste fotografie ci sono tutte le storie possibili, sulla terra sono presenti in quel momento, in una dimensione: ci sono i poveri cristi disperati, ci sono i rampolli delle buone famiglie che devono semplicemente ricostruirsi una nuova verginità per accedere allo stesso potere di cui godono le loro famiglie in un’altra dimensione. La lettura della società che noi facciamo con delle categorie politiche è plausibile se il discorso è strettamente politico, ma se riguarda l’uomo nella sua totalità non funziona, non funziona proprio. C’è tutta un’altra serie di considerazioni che vanno tenute presenti. Non ultima è il fatto che sulla terra opera anche il male. Non operano soltanto gli umani, e gli umani danno delle chance infinite all’operatività del male. Questa è una categoria che in un discorso politico è difficile fare perché ti fai ridere dietro. Però è lì, è davanti agli occhi, se uno lo vuole vedere. E non m’indurre in tentazione ha tante valenze, però, molto spesso, gli uomini creano situazioni che sono propedeutiche all’irrompere del male in una maniera incredibile. È come i ragazzini che si dilettano in un periodo dell’età. Mi è capitato, avendo sessant’anni, ho già visto varie generazioni di ragazzini dopo di me che per un attimo pensano di essere particolarmente fighi e si dilettano di satanismo. Dio è molto misericordioso: la maggior parte delle volte, basta veramente una scoppola in testa e tutto finisce. A volte invocano, proprio concedono la loro, vita perché il male possa presentarsi tramite loro. Sono parte in causa anche in maniera superficiale, grezza, però è così.

Io non so più parlare un granché con le categorie politiche perché ci ho messo così tanto tempo ad uscirne che tendo un po’ a snobbarle, in qualche modo. Per cui non so più fare tanti pensieri che io ho pensato rispetto alla piccolezza della risposta politica al disagio umano; non so ridirli perché preferisco dire un Pater Ave Gloria che star lì a dire, a fare tutto un giudizio ragionevole, in sostanza. Però è così.

Lorenzo Fazzini

Potrei entrare anche più in specifico di questo “parlar di Dio” perché vedo tanti giovani e anche parlando con Ivan, per preparare questo incontro, si sentiva anche non so come dire, un “retro pensiero”, un desiderio di acquisire quelle che Pietro, nella sua lettera, definisce “le ragioni della fede”. A me ha colpito molto, in questi giorni ho letto una trascrizione di un intervento della vedova Calabresi, la moglie del commissario Calabresi. È stata pubblicata in parte su Avvenire; non ricordo se su Avvenire c’era questa parte di cui vi cito. A me ha sconvolto, confesso non ho letto il libro del figlio “Spingendo la notte più in là”, di Mario Calabresi. A me ha sconvolto leggere di questa donna che dice: «Io ho avuto il dono della fede nell’istante in cui, giovane mamma di venticinque anni, mi hanno detto che mio marito era stato ucciso». A me personalmente, scusatemi, anche qui due ipotesi: o ci sta prendendo in giro o è vero. Non puoi dire che hai avuto il dono della fede nell’istante in cui ti sei accasciata sul divano: o lo dici perché è vero oppure non lo dici, e allora se lo dici vuol dire che è veramente vero.

Tu ci hai parlato di questo ritorno a casa, del viaggio lungo. Ma “parlar di Dio” vuol dire? In una società come oggi, a me viene da guardare con la mente subito a papa Francesco, parli di Dio se lo hai incontrato, se no oggi ti sgamano subito. Allora, l’incontro con Dio non so se per te c’è un momento stile “roveto ardente”, stile “trasfigurazione”, stile la “caduta da cavallo”, o c’è un processo, c’è un cammino per cui ci sei ancora dentro e ci puoi anche aiutare o fare un tratto di cammino oppure anche provare ad altri a fare questo cammino?

Giovanni Lindo Ferretti

Quando ho raccontato la mia storia e sui giornali cattolici, che non avevo mai letto in vita mia perché da bimbo non leggevo e da grande non li leggevo, ho visto la parola “riconversione” sono rimasto un po’ spiazzato, poi ho pensato che “conversione” è un termine che riguarda i cristiani cattolici ogni giorno; ogni giorno in realtà uno si sveglia ed è chiamato a una nuova conversione perché è una nuova giornata e quindi, da questo punto di vista, anch’io ero convertito.

In realtà io ho perso la fede nella mia vita, ma la fede non mi ha mai perso del tutto perché era stata seminata bene. Quindi c’è qualche cosa. Io prego tutti i giorni per i miei morti perché sono sicuro che loro hanno pregato così tanto per me che, in qualche modo, devo assolutamente ripareggiare questo conto perché l’essere umano è molto complesso e al di là c’è l’occhio di Dio che comprende l’uomo, ma gli uomini non comprendono. Per esempio, la cosa che tu dicevi prima della vedova Calabresi, per me è così evidente che nel momento in cui a una giovane donna di 25 anni che ha un bambino dicono: «Tuo marito è morto!» quello è il momento in cui la fede ti cade addosso perché c’è una situazione tale per cui davvero la mano di Dio ti prende, è difficile dirlo, ma credo che sia così.

Io non credo che la fede mi abbia mai abbandonato perché c’è stato un periodo in cui sono stato, per alcuni anni, un bestemmiatore di professione, perché era così nel mondo il cui vivevo, rispetto alle persone, il fatto che io sostenessi con una bestemmia un’idea dava forza a quell’idea e dava valore a me. Poi, improvvisamente, una sera mi sono vergognato di me stesso, ma mi sono vergognato di me stesso perché quando uno bestemmia fuori, poi bestemmia anche in casa, bestemmia anche con le persone, perché diventa come un’abitudine,
quindi è un intercalare, non è più un atto blasfemo. Quindi mi è capitato di vedere, due o tre volte, persone che mi hanno sgridato, persone adulte, responsabili nei miei confronti che mi hanno sgridato senza, come dite voi giovani, menarmela troppo, cioè facendomi notare che certe cose comunque non si fanno e dicendolo con il giusto modo, poche parole ma schiette e serie. Dicendomi anche, cosa che per me era l’insulto più grave: «Magari è solo una moda passeggera, poi quando vorrai liberartene ti costerà una fatica incredibile». Comunque, dopo due anni di questa pratica quotidiana di blasfemia, che dimostrava quanto io fossi veramente anticattolico, una sera mi sono vergognato e mi sono vergognato così profondamente di me stesso che proprio ho giurato a Dio che non avrei mai più bestemmiato. Allora, uno che non crede fa fatica a giurare a Dio che non avrebbe mai più bestemmiato con un peso nel cuore che io non credo di aver mai più bestemmiato, ma neanche “soprapensiero” come si dice dalle mie parti quando uno si dà una martellata su un dito, tira una bestemmia e dice: «Signore non volevo!». Non è considerata una bestemmia, è considerata un’imprecazione.

Raccontavo a Fazzini, una volta, nel periodo che ero un punkettone, un Natale che sono stato nascosto dietro una colonna ad aspettare che uscissero tutti dal duomo di Reggio Emilia perché volevo andare a vedere il presepe, perché avevo assolutamente bisogno di inginocchiarmi davanti ad un presepe.

Oppure, quando a cena mi chiedevi come avevano fatto i CCCP a cantare “Madre” e come ha risposto il pubblico. Ho raccontato a lui, quindi mi è venuto in mente e ve lo racconto anche a voi: l’hanno fatto. Io ho pensato questa canzone in un periodo in cui cominciavo a tornare avanti e indietro dalla montagna perché sentivo la mancanza della montagna. Così canticchiavo un qualcosa che ad un certo punto era una preghiera, mi sono anche stupito, ma mi piaceva! Allora sono tornato da Massimo Zamboni e gli ho detto: «Guarda io ho una canzone così strana, comunque è già cantata. Te la canto. Tu non dirmi niente, perché già mi vergogno a cantartela, voltati di là. Se tu pensi che possa essere una canzone dei CCCP, dopo tu ci fai la musica. Però è così, non si può cambiare niente: prendere o lasciare». Io mi sono attaccato alla chitarra sotto e l’abbiamo cantata. L’Annarella, che era la nostra soubrette, ha pensato che fosse stupenda e la Virgin non voleva che noi incidessimo su disco questa canzone perché non era adatta al nostro pubblico, quindi era un problema di marketing: “I CCCP non si possono permettere una canzone che visibilmente è vera, non è ironica. Quindi, o voi gli date un corollario, cioè gli mettete qualcosa che la incrini in qualche modo, che la faccia diventare ironica, oppure vi massacrano, il vostro pubblico, la critica e tutto quanto vi massacrano”.

È ovvio che uno non può dirmi una cosa così, perché io mi fortifico e dico: «La faccio così e via!». Ma ne è nata una discussione finché Annarella, con quella grazia che solo le donne hanno veramente, è un dono di Dio e solo loro riescono, lei ha detto: «Basta con queste menate, non ne posso più! Dobbiamo tornare a casa! Ve lo dico io cosa succederà: Zamboni attacca la chitarra, Ferretti comincia a cantare Madre di Dio, la gente rimane lì, apre la bocca, gli viene giù una lacrima e tutti salutano con il pugno chiuso!». Io ho guardato Annarella, ho guardato quelli della Virgin e ho detto: «La riunione è chiusa, l’Annarella ha parlato. Lei è la soubrette del popolo, voi siete i volgari mercanti. Chiusa la discussione, sul disco ci va questo». Ma la cosa incredibile e incantevole è che è successo quello che aveva detto Annarella la prima volta che noi l’abbiamo cantata. Quando noi pensiamo gli esseri umani per categorie noi commettiamo un atto che ha qualcosa di blasfemo perché non è così, è una semplificazione. Ci sono meravigliosi esseri umani nei luoghi più putridi della terra e ci sono esseri che sono angeli che passano di lì per caso perché hanno qualcosa da fare, lo fanno e se ne vanno via. Si trovano persone meravigliose dove meno te lo aspetti. A volte si trovano persone un po’ insignificanti dove tu penseresti di trovare chissà cosa, valgono un po’ tutti e due. Tutti coloro che ascoltavano il concerto, ed erano persone di ogni tipo e genere, comunque hanno capito subito che era una canzone vera - usare la parola emozione in un mondo che fa dell’emozione un’idolatria mi vergogno un po’ - comunque era un passaggio vero di una storia da chi la cantava, chi la suonava, a chi… e ognuno reagisce per quello che può. La cosa incantevole è che l’Annarella aveva visto le reazioni perché c’era qualcuno che, per dimostrare che questa cosa l’aveva toccato, non poteva fare altro che alzare il pugno chiuso perché era quello che nella sua vita funzionava.

Lorenzo Fazzini

Prima hai detto una cosa che mi ha colpito molto perché interviste su interviste, incontri su incontri, oramai conosco un po’ la bestia! Però qua hai detto una cosa molto bella, prima, quando dicevi che eri in preda di predicazioni folli e non avevi una comunità intorno a te che potesse reggere la tua smania di protagonismo. Mi ha colpito molto questa sottolineatura della comunità perché sotto certi aspetti mi verrebbe da dire esattamente l’opposto: provo a pensare a te a Reggio Emilia, in giro a manifestar. M’ha fatto impressione, ripeto non ho vissuto quegli anni, vedere questo documentario, questa ricostruzione giornalistica degli anni Settanta che vivevi e capivi che sta gente qua, primo non ho capito come avessero fatto a fare l’università perché tutti i giorni erano in piazza, per cui boh! Però sembra esattamente che ci fosse quella comunità! Eravate lì tra occupare le università o…

Giovanni Lindo Ferretti

La comunità non è un ghetto. Un ghetto è quando le persone vivono tra propri simili; persone che hanno la stessa età, le stesse pulsioni, si vestono allo stesso modo, fanno le stesse cose: quella è la morte della comunità. La comunità presuppone le diversità sia generazionali che di gusti di esperienze.

Da quando sono diventato una “stronzo reazionario”, scusate il termine, tutti i figli dei miei amici mi vogliono un bene esagerato, mentre prima mi snobbavano, perché io mi rapporto a loro come delle persone. Ho scoperto che sono l’unico che si mette a discutere con loro dicendo: «Guarda tu stai sbagliando tutto rispetto a questo, rispetto a questo!» perché hanno attorno una comunità o inesistente o servile. Per cui un ragazzino fa qualsiasi cosa, si trovano tutte le giustificazioni plausibili e non c’è mai qualcuno un po’ più grande che dice: «Ma cosa stai facendo?». E si prende, come dire, la responsabilità di essere odiato, detestato: è un atteggiamento servile quello di chi non fa notare le cose sbagliate. Gli adulti non ci sono.

Abbiamo cominciato noi a vivere. Noi avevamo il mito della giovinezza, che è un mito che continua e persevera. Tra l’altro lo sostengono persino quelli che lo sostenevano quarant’anni fa perché non si rendono conto che nel frattempo la giovinezza passa. È una categoria politica la giovinezza, non è una realtà. La realtà, tra l’altro, è difficilmente giostrabile sugli uomini perché c’è chi diventa giovane prima, chi non vede l’ora di crescere: è un momento della vita e niente di più. Passerà comunque! Comunque arriva e comunque passa! Se si fa della giovinezza un’ideologia salvifica si distruggono innanzitutto i giovani perché tutti coloro che non sono giovani o cercano disperatamente di sembrare giovani, ed è la cosa più patetica del mondo, o costruiscono un atteggiamento servile nei confronti della giovinezza, per cui i giovani vanno scusati. Io, non fosse altro che per reazione, perché ahimè capita anche di operare per reazione, cerco sempre di non considerare le scuse e di guardare il problema. Però scopro che alla fine i ragazzini, se hanno un problema, ne parlano con me perché sanno che io sono serio, severo. Io dirò esattamente quello che loro non vogliono sentire e il fatto che siano così bisognosi di sentire quello che non vorrebbero sentire ti dice il fatto che la comunità non c’è, non c’è più. Allora non c’era perché allora era una scelta dirompente. In realtà fino agli anni Sessanta la gioventù non esisteva come concetto: esistevano i bambini, gli adolescenti e poi bisognava diventare adulti prima possibile, dimostrare il proprio valore prima possibile. La gioventù è stata inventata allora; la musica ha contribuito in maniera clamorosa a inventare una nuova categoria e a farne il centro della vita. Poi, a dilungarla all’infinito, io ho fatto per cinque anni l’operatore psichiatrico e seguivo un’equipe di adolescenti, avevo persone che avevano 32 anni. Se un’istituzione può pensare che un 32enne, per quanto problematico, possa stare in una struttura che si chiama “Équipe degli adolescenti” vuol dire che anche la società ha perso un po’. Però se a 60 anni sei un giovanotto, non c’è dubbio che a 32 anni sei un adolescente!

Lorenzo Fazzini

Torno alla parola “comunità” perché, non vi conosco, però, qua mi sembra di respirare una qual certa aria di comunità. Allora, non so come dire, dacci un piccolo manuale di istruzione per non fare le “cacchiate”, scusa il termine, che hai fatto tu.

Oggi la gente, anche i giovani sono sempre più soli, internet ai tuoi tempi non c’era, non c’era “mi piace” e “non mi piace”, Facebook, ecc… Tu hai la fortuna di non aver internet, resta senza internet che vivi bene, così compri il giornale, così sostieni la stampa cattolica dove adesso scrivi, ecc… Compra i libri che io pubblico e non gli e-book perché non li faccio, ecc…

Or dunque, a parte gli scherzi, dove trovare delle ancore di salvezza per non perdersi in una società in cui i riferimenti sono saltati, in cui il lavoro diventa una chimera? Si parlava con mia moglie, l’altro giorno, alla mia età facevamo il conto di chi, dei nostri compagni di classe, avesse un contratto a tempo indeterminato e bastava una mano su trenta, trentacinque compagni.

Ma, soprattutto, per la fede, per vivere questo tesoro che magari abbiamo ricevuto, magari stiamo scoprendo, magari stiamo avvicinando.

Dicevi prima che un ragazzo che si affaccia alla gioventù e sente suonare la chitarra forse allora era sbagliato, forse è giusto, forse ci sono delle corde da toccare. A me fa sempre impressione sapere che, non perché sia un fan o un non fan, è un numero, è una cifra. Ogni anno in Italia oggi in maniera assolutamente carbonara - non organizzata, non istituzionalizzata – seicentomila persone vanno a Medjugorje. Seicentomila persone! Il grande Silvano Fausti, che amava [parlare de] il genocidio del cervello… non si è anestetizzato il desiderio di Dio, no?

Però, ripeto, non avevo una comunità intorno a me che reggesse la mia smania di protagonismo. Dove trovarla? Come crearla, magari?

Prima si parlava, con alcuni amici, di Enzo Bianchi che ha compiuto settant’anni, se uno va indietro ci pensa, ma anche frère Roger di Taizé sono persone che a venti, ventidue anni da “soli” si sono messi a pregare e a lavorare la terra. Adesso li acclamano tutti come… Lì, forse, c’è anche un’eccezionalità umana o un intervento del Padreterno.

Ma dove trovare, secondo te, come crearsi le occasioni per cercare questa comunità?

Giovanni Lindo Ferretti

Io non so proprio rispondere a questa domanda. Noi viviamo davvero la prima grande crisi antropologica e proprio, oltre che la realtà quotidiana, l’idea stessa che noi abbiamo di uomo che non è più applicabile. Stanno succedendo delle cose che non permettono che la vita sia come è sempre stata ed è difficile… Voglio dire una cosa: quando papa Benedetto ha rinunciato al soglio pontificio io sono rimasto malissimo, ero davanti alla televisione, ho sentito questa cosa e per un giorno ho pensato solo pensieri brutti perché non lo so, non mi sembrava una notizia pensabile. Era una realtà. Poi ho provato a pensare a tante cose belle. Poi mi sono rifiutato di scrivere per i giornali che me lo hanno chiesto perché ho pensato che ci sono dei momenti in cui cosa vuoi scrivere? Qualsiasi cosa tu scriva sarà una banalità: o sei un esegeta, un’intelligenza acuta, quindi puoi fare qualche riferimento, ma qui siamo in un campo che non è che di gran riferimenti se ne possano fare, oppure sarebbe anche una bella occasione per stare zitti una volta tutti quanti e magari pregare, perché tutti dicono sempre dell’importanza della preghiera, allora ci sarebbero dei momenti in cui varrebbe la pena che almeno chi dice di essere credente e cattolico dica: «È un momento di quelli che non c’è niente da dire. Stiamo zitti e preghiamo». Io ho imparato a pregare “Vieni Santo Spirito”, che è una preghiera che non recitavo da bimbo, non recitavo normalmente, è bellissima. Si comincia a recitarla durante la giornata e ho pensato che era l’unica cosa che io potevo fare.

Poi i signori cardinali hanno eletto un nuovo papa ed è stata una sorpresa non indifferente. Io penso che sia un regalo incredibile che Benedetto ha fatto alla Chiesa, perché comunque è un suo regalo. È stata la sua rinuncia che ha permesso la comparsa di Francesco.

Quindi le preghiere qualcosa producono, o comunque accompagnano qualche cosa che succede, ci sono quindi momenti in cui è inutile voler fare gli intelligenti: non c’è intelligenza plausibile e bisogna vivere quello che c’è. Se uno pensa che la preghiera sia un’arma potente, ha un’arma potente da usare ed è quella. Io di altre armi non ne conosco.

La società. Come vi ho detto all’inizio, io percepisco profondamente come carne il senso della storia, le generazioni su generazioni. Posso dire che il senso della storia, secondo me, significa possedere anche il senso della geografia perché in realtà la storia si sviluppa in un contesto, in un paesaggio.

Questa storia che noi possediamo, che è la storia della cristianità, è una storia che si sta sgretolando e non è facile ipotizzare una risposta allo sgretolamento. Non è nemmeno facile porre degli argini. Però è quello che ci tocca, è quello per cui comunque saremmo giudicati, ma non ci sono delle risposte.

Il cristianesimo ha costruito una cristianità che è qualcosa di diverso, di collegato che comunque è una società, un modo di pensare l’uomo, di raccontare l’uomo, di tramandare un percorso educativo, di organizzare le comunità in senso spirituale, ma anche in senso materiale perché ci sono le disgrazie, ci sono le calamità. Quindi organizzare una società significa avere quelle risorse che permettono di fare fronte alle disgrazie, alle calamità naturali, alle pestilenze, alle guerre. La cristianità è riuscita a pensarsi come società, a costruirsi.

La cristianità è, dal mio punto di vista, nella sua grande crisi antropologica. Non c’è un protestantesimo, non c’è qualcosa che distrugge con un taglio violento, con una polemica politica e religiosa: è uno sgretolarsi della socialità, è uno sgretolarsi delle famiglie, è uno sgretolarsi delle parrocchie, è uno sgretolarsi delle generazioni. Subentra una specie di umanità aliena. Per uno che vive fuori dal tempo come vivo io, poi salgo in macchina e arrivo in città il primo colpo d’occhio, se sto tre mesi senza scendere in città, sembra un mondo di alienati. Le persone girano con le cuffiette, tutti guardano qualcosa. È successo in un attimo: in un attimo in realtà questa folle idolatria della comunicazione ha spezzettato l’umanità in contesti. Vedi la gente che sta al ristorante attorno ad un tavolo, che è il luogo che l’uomo pensa come luogo della convivialità, e ognuno ha un cancherino di diversa foggia; in treno ognuno sta parlando con qualcun altro. Io credo sia una pestilenza dell’anima.

So che ci sono anche tante condizioni di necessità, di sopravvivenza di un mondo complesso come il nostro, ma è un eccesso. Io ho rifiutato da subito le nuove tecnologie perché ho una storia alle spalle, conosco i miei difetti. Allora, se io voglio stare lontano dalle tentazioni le devo proprio tenere lontane materialmente perché io sono tra quelli che ci cadono se concedo loro spazio. Percepisco che l’apologia si fa sulle utilità, ma l’utilizzo reale è tutto un altro. Sta veramente disgregando la società perché sta portando l’umanità ad un livello tale di solitudine che però si glorifica di essere comunicativa. La follia è questa: gli uomini diventano sempre più solitari nella convinzione di essere sempre più collegati e comunicativi. È una follia! Io non ho una soluzione e ringrazio Dio di essere abbastanza vecchio e abbastanza fuori mano per…

Lorenzo Fazzini

Parecchio fuori mano! Infatti quando abbiamo ragionato su quella rubrica di Avvenire che poi abbiamo messo nome “Dal crinale” perché solo dal crinale…

Giovanni, siamo all’ombra di san Filippo Neri che viene pensato, ingenuamente, come santo dell’allegria, ecc… ma come tutti i grandi santi era innanzitutto un uomo che aveva un rapporto con Cristo da cuore a cuore, da persona a persona.

Io ricordo un’intervista che facevo per TV2000 una tua professione di fede sull’Incarnazione che mi colpì molto e mi ha fatto venire in mente una lettura che abbiamo in comune che è Cormac McCarthy quando in Sunset Limited dice: «La cosa è molto semplice: il cristianesimo è carne e sangue». Carne e sangue vuol dire che è la vita, non è qualcosa sopra la vita o staccata dalla vita. È la tua vita concreta. Io mi ricordo anche in questa intervista (se digitate il suo nome e ci mettete vicino “conversione” la vedete su YouTube) il tuo andare nella chiesa di Cerreto, il tuo paese, e il vederti familiare con quella chiesa, vederti familiare con quel tabernacolo. Allora vorrei chiederti, anche un po’ nell’intimità di un incontro come questo, chi è Cristo per te? Chi è questo Dio che si è fatto uomo che tu hai ritrovato? Cos’è, chi è per te?

Giovanni Lindo Ferretti

Ma è tutta la storia dell’umanità! Tutto quello che io sono e quello che io penso è legato a questo avvenimento. È per me quello che era per mio padre e per mia madre, quello che era per i miei nonni. Io, di fatti, sono felice nel pregare usando le stesse preghiere, le stesse parole, nello stesso luogo. È una condizione, ormai, credo di grande privilegio perché non è una cosa che sia praticabile. Davvero sono un essere molto miserevole nel mio essere cristiano. Voi non dovete pensare delle cose che non fanno parte della realtà. Sono un essere umano, un montanaro; però faccio parte di un mondo che è finito, che è irrimediabilmente finito.

Quando io penso nei miei pensieri, quelli folli che non si dicono, che Dio si è costruito nella storia dell’uomo il proprio popolo: c’erano gli ebrei e poi ci sono i gentili e poi ci sono i barbari. L’incontro di queste tre storie umane hanno prodotto la cristianità. Io faccio parte dei barbari, non pensate che io sia un gentile! Il mio approccio alla divinità è un approccio forte e molto, io vedo nella creazione il Creatore. Io farei fatica a vivere in un mondo artefatto. Hanno costruito per andare a casa mia, che è un viaggio molto facile adesso, ci si mette pochissimo, delle gallerie per cui adesso in un attimo fai un pezzo che prima dovevi serpeggiare nella zona matildica su tornanti infiniti. Adesso ci sono le gallerie che percorro mentre torno a casa la notte, dopo i concerti. Una notte è capitato che una galleria era tutta al buio, aveva una luce lampeggiante e pensavo che in realtà il mondo contemporaneo in cui vivo ha costruito un livello tale di artificialità che non è più cosciente: è come se tutti vivessero all’interno di una galleria e il problema vero è che non scompaia la luce, che la lampadina non sia intermittente, che ci siano le corsie di sicurezza. Ma il Creatore ha creato un mondo molto più bello per gli esseri umani, molto, molto più bello dove è possibile vivere con più gioia e in qualche modo in faccia al Creatore, di fronte a Dio.

Io ho la fortuna di essere barbaro e vivo ancora in un mondo in cui la presenza di Dio è ovunque. Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo. Nel mondo che Dio ha costruito questo è molto percepibile. Nel mondo che gli uomini costruiscono diventa sempre più difficile: le città sono sempre più fatte per entità che non sono gli esseri umani. Chi vive a Roma vive in un contesto che è un’altra storia, vive nell’Urbe, nella Caput Mundi dei gentili. La civiltà greco-romana qua ha prodotto qualcosa. Difatti i barbari da tutto il mondo vengono a Roma perché qua c’è comunque la civiltà dei gentili. Sulla civiltà dei gentili la Chiesa Cattolica ha posto il proprio accento. Ma le città del mondo moderno, le nuove grandi metropoli sono fatte contro l’uomo, non per l’uomo. Ed essendo fatte contro l’uomo hanno eretto barriere incredibili nei confronti della presenza di Dio perché comunque sulla terra il gioco è fra Dio e gli uomini e se tu togli spazio agli uomini togli spazio anche a Dio.

Io guardo con sgomento il mondo in cui noi viviamo e faccio riferimento per quello, per quello che riguarda la mia vita che è la vita di una persona che è anziana. Io sono alla fine della mia vita, poi se Dio mi concede qualche anno ancora ho delle cose da fare. Ho intenzione, nei limiti del possibile, di morire lavorando, facendo le cose che potrò permettermi di fare.

Io faccio affidamento su di una tradizione, ma mi rendo conto che è plausibile per pochissime persone ormai perché quando la tradizione la spezzi è spezzata irrimediabilmente. Non ci sono più le case, non ci sono più le famiglie, non ci sono più le comunità, non c’è più generazione su generazione e quindi ognuno deve fare fronte da solo al disastro.

Io voglio vivere in un posto dove ci sono dei vecchi e dei bambini perché io non sono un bimbo però i bimbi traggono beneficio dalla mia insignificanza. Comunque il fatto che io sia vicino a loro è per loro un arricchimento e posso aiutare i vecchi che non devono andare all’ospedale finché ci sono e quindi mi devo prendere cura di loro. Devo tenere in piedi la casa, tenere in piedi la chiesa e tenere in piedi la stalla. Tutto il mondo è organizzato per fa sì che io distrugga la casa, che abbandoni la stalla, che lasci cadere la chiesa. Quindi è una cosa difficile ed il cambiamento in atto è tanto grande che io non ho risposte. Penso che se una risposta c’è, è la Chiesa che può aiutare gli uomini a trovare una risposta.

Abbiamo un papa che viene da una terra molto, molto lontana. Noi siamo cattolici, quindi abbiamo un’idea dell’umanità piuttosto complicata. Non so, io non ho risposte però posso pregare, vivo la mia vita quotidiana cercando di lasciare il maggior spazio possibile alla presenza di Dio nella vita e cercando di essere dignitoso nei confronti degli uomini con cui mi rapporto, di trattarli con dignità che vuol dire: dire no quando è no. Sarei ancora anche per una sana sberla, se è un giovane un calcio nel culo, perché è un gesto di affetto, è proprio una fisicità che lascia il segno: tu non puoi dare una sberla a qualcuno di cui non te ne frega niente, non di questi tempi! In altri tempi magari sì, ma ora uno rischia la galera perché ti sta a cuore il problema.

Però credo che la Chiesa possa aiutare, se è aiutata da Dio e dallo Spirito Santo, a trovare uno spazio per l’umanità in un tempo che presenta molti pericoli ed è comunque un tempo di transizione. Le cose cambiano, ci sono in Vaticano due papi perché è così. Il papa è Francesco, però uno può pensare: «Il Signore è meraviglioso: ci sono due papi!». Comunque è una grande novità. Tra l’altro nessuno dei due, a quello che risulta al popolo di Dio, abita nell’appartamento pontificio: uno abita in clausura in un posto dove prima stavano le suorine e quell’altro abita nel Convitto di Santa Marta. Beh, è una bella notizia! Qualcuno pensa anche a noi, a darci una mano. Però che i tempi siano tempi molto difficili è indubbio e che ci siano delle risposte piccole: non ce ne sono. Non è la nostra buona volontà, non è la nostra intelligenza, per quanto tutta la buona volontà di tutti serve sempre e serve anche tutta l’intelligenza. Però noi abbiamo creato il disastro e non abbiamo la soluzione per il disastro. Il problema è che non sappiamo nemmeno arginarlo, per cui tutto si sgretola e dilaga una idolatria inverosimile intorno a noi.

Lorenzo Fazzini

Però, non so se perché sei uno “stronzo reazionario”, ma tendi al fosco, forse non so se è il mal tempo, però quando dici “lasciar spazio a Dio” mica dici una cosa così da quattro soldi!

L’ultima domanda, poi c’è il modo di lasciar spazio alle vostre. Di tutto quel periodo in cui abbiamo tratteggiato all’inizio della tua vita, quel periodo di furore in cui, come racconti anche nelle interviste, eri il rappresentante del mondo dell’acciaio dell’Unione Sovietica contro il mondo degli americani che erano sporchi, brutti, cattivi, imperialisti, ecc… Di quel periodo lì, che tu hai cercato di superare e hai superato, c’è qualcosa che salvi? C’è qualcosa che un uomo adulto come te da errori giovanili, da quelli che tu oggi guardi come errori giovanili, salvi nel senso che dici: «Mi resta come lezione o comunque come un lascito»? Insomma, anche i giovani possono avere il diritto di sbagliare o neanche questo hanno?

Giovanni Lindo Ferretti

No, ma io ho un buon rapporto con le cose che ho fatto nella mia vita. Per altro, per me i CCCP sono già parte di una guarigione. Il peggio era prima. Già il fatto che io abbia trovato la forza di trasformare le mie ansie, le mie rabbie in una riflessione da presentare onestamente stando su un palco nella sincerità di uno che era già su una buona strada. Io ero già sulla buona strada quando sono salito sul palco con i CCCP. Era molto peggio prima! Al giudizio di Dio offro le mie canzoni e ce ne sono alcune che non mi piacciono un granché, si poteva sicuramente far di meglio, però la mia vita è quella lì, non è che posso offrirgli qualcos’altro. Se la vita è un dono di Dio, lo è in tante forme e in tanti modi. Se con la mente e il cuore che ho adesso facessi quelle cose sarebbe vergognoso, ma non ci sarebbe nemmeno motivo di farle. Comunque era il canto di un uomo vero quello che io facevo al tempo del CCCP per cui posso permettermi, con il sorriso sulle labbra, di cantarle anche ora perché sono pezzi di carne di una storia umana, non devo vergognarmi, non ho niente di cui vergognarmi!

Andrea Monda

Innanzitutto grazie a Lorenzo e a Giovanni Lindo Ferretti per questa bellissima testimonianza. Adesso voi siete pregati, chi vuole, di scrivere bene le vostre domande e poi ne pescheremo quattro o cinque. Alcune già sono arrivate.

Tra l’altro, mentre parlavi, io stavo qui e ti ascoltavo e vedevo questo quadro alle tue spalle e c’era una parola che mi rimaneva sempre in testa che era la parola, è stata un po’ detta anche, la parola “corpo” perché si è parlato molto di questa dimensione, della fisicità. Tu hai detto del calcio famoso da dare perché il calcio ti lascia un segno. Allora questo aspetto della fisicità mi ha molto colpito. Anche perché io sono insegnante e che, come dice la parola, è uno che lascia il segno dentro, spero. Anche l’altra volta con Costanza parlavamo qui della problematicità oggi di educare, di insegnare in un mondo che si è sgretolato in gran parte, quindi mancano un po’ i punti di riferimento.

Mi ha fatto piacere che Lorenzo ha citato un autore che non sapevo ti piacesse tanto, Cormac McCarthy, che è proprio la carne e il sangue. Ecco, con i miei studenti sto mettendo in scena Sunset Limited; a fine maggio faremo questo spettacolo teatrale perché è un testo straordinario che proprio fa capire che quello che papa Benedetto, ma tutta la Chiesa c’insegna da sempre, che non è una teoria, non è un’idea il cristianesimo, ma è un incontro con una persona. Per esempio a scuola l’altra volta ho usato questa espressione con i miei colleghi, ho detto: «Ma noi siamo il corpo docente!». E quello mi ha guardato un po’ storto perché non era più abituato a questa che però è un’espressione linguistica molto importante. Siamo un corpo, una comunità (altra parola che è stata detta) di docenti oppure altre cose? Questo però ci sfugge. Noi siamo un po’ in una società che ha sgretolato soprattutto l’aspetto della materia, della fisicità. Siamo un po’ smaterializzati. Giustamente Romano Guardini, il grande teologo, diceva: «La religione cristiana è la più materialista di tutte. Se dimentichiamo questo cadiamo nello spiritualismo che è sempre poi la fonte di tutte le peggiori eresie».

Adesso facciamo quattro o cinque, dipende dalla quantità e dalla qualità delle domande. Pesco io.

Domanda

Siamo sicuri che si possa parlare di conversione? Da quando ti seguo, dal 1985, ti ho visto vivere con la stessa religiosità di ora. Cosa diresti a quei giovani che guardano con nostalgia alle guerre che tu hai attraversato? A chi non ha avuto una nonna che ha tramandato preghiere ed esami di coscienza?

Giovanni Lindo Ferretti

In qualche modo alla prima parte ho risposto prima. Io considero dal momento in cui sono salito sul palco dei CCCP già la fase positiva del mio vivere; fa parte del mio ritorno a casa, per quanto ci abbia messo tanto tempo e sia stato un lungo viaggio.

Io non so dare consigli, per cui proprio non so consigliare i giovani. È uno dei motivi per cui sono profondamente in imbarazzo quando mi invitano a parlare e dico sempre di no a tutti. Però, siccome sono le persone che fanno la differenza, io sono qua perché alcuni anni fa, durante una festa di paese a casa mia, c’erano due persone timide e gentili che mi hanno fermato. Io, quando le persone mi fermano, sono un po’ di quelli nervosi, per cui cerco di fare paura in modo che qualcuno vada via prima, mettiamola così. Però sempre per un attimo guardo negli occhi le persone e poi abbasso lo sguardo, perché in realtà bisogna avere anche della giusta dose di pudore nel rapportarsi fra esseri umani. Un’altra cosa che il mondo contemporaneo ha perso: il pudore permette agli uomini di avvicinarsi tra di loro. La mancanza di pudore in realtà diventa una barriera che gli uomini poi non riescono più a scalfire. Comunque io, per un attimo, ho guardato negli occhi queste persone e ho pensato che erano belle persone e ho ascoltato, con il sorriso, quello che loro avevano da dire. Loro mi hanno invitato a venire a Roma a raccontare. «No, non se ne parla neanche! A Roma?». Poi ho detto: «Va beh, certo che voi siete venuti fino a Cerreto a casa mia. Quindi, comunque, è un bell’inizio: siete venuti qua, mi avete incontrato, mi avete chiesto: “Vieni a Roma a casa nostra”. Forse è possibile, quindi è un bell’inizio!».

Poi questa domanda mi è stata fatta da Ivan un’altra volta. Gli ho detto: «Guarda non ce la faccio a parlare. Mi sento così stupido quando parlo. Poi che cosa dovrei raccontare? Non ho consigli da dare a nessuno! Avrete un sacerdote amico, immagino, avrete un padre confessore, avrete qualcuno a cui chiedere quelle cose che chiedete a me e ci sono delle persone che tutta la loro vita è in funzione di questo aiuto e sono lì, sono state chiamate, tra l’altro, hanno un grande valore. E voi lo chiedete ad un cantante stupido?». C’è qualcosa che non va! Però almeno il cantante stupido vi dice: «Però andate dal vostro prete o comunque cercatevi un prete per certe cose perché è lui che può aprirvi uno scrigno. Io posso darvi la voglia di accedere allo scrigno, ma non ho la possibilità di aprirlo. Però c’è una struttura che è molto più antica di noi che ci accompagna da sempre.

Stamattina mi sono alzato e sono andato ai Santi Martiri Coronati, erano un po’ di anni che non ci andavo e pregavo mi avvicinavo: «Spero che non l’abbiano messo a posto!». Perché adesso quando valorizzano e ristrutturano qualcosa tocca andare via. Invece è lì intoccata, bellissima. Sono entrato e mi sono messo a dire le preghiere al mattino, poi si sono accese le luci e sono uscite una serie di suorine e abbiamo recitato il Rosario, perché era l’Ora Sesta. Poi è cominciato un canto assolutamente celestiale. Io, che non ascolto da anni musica riprodotta, proprio non ascolto niente, sono rimasto lì a bocca aperta ad ascoltare queste suorine, non so neanche come chiamarle, che cantavano ed era bellissimo. Ma quando noi recitavamo, alla fine della decina di Ave Marie si dice il Gloria, e dire: «Nei secoli dei secoli» e hai gli occhi per terra, guardi questo pavimento e poi ti giri intorno non è una formula, tutto il mondo ti offre delle formule che valgono una stagione poi bisogna abbandonarle perché sono subito vecchie. Tutto quello che è nuovo diventa impresentabile in una stagione. Noi abbiamo la fortuna di vivere nel cuore dell’istituzione umana più antica della nostra storia ed è la più antica perché non è solo umana, perché ovviamente se fosse umana l’avremmo distrutta e ri-distrutta almeno duecento volte in duemila anni. Quindi non chiedete consiglio a me. È per questo che io faccio fatica ad uscire. Però le persone fanno la differenza perché loro sono venuti, mi hanno incontrato, mi sono stati simpatici, poi mi è arrivata una lettera, una perorazione, perché io potessi venire. Io sono rimasto, ho detto: «Va beh, a questo non posso più dire di no!». Ed era la relatrice della volta scorsa, quella che mi ha scritto questa lettera. Poi anche Fazzini mi ha chiesto, mi ha detto: «Guarda, devi assolutamente andare dai filippini». Ho risposto: «Sì, chiudiamola qua, andiamoci subito!». Questo era l’unico modo che avevo per rispondere ad una serie di domande a cui non so rispondere, non so che cosa dire. Però, nella mia miseria, io ero serio anche quando ero il cantante dei CCCP e anche nei momenti più discutibili di quella storia perché ci sono state, da certi punti di vista, cose che non riuscirei a difendere proprio così. Lo farei, però sapendo che di fronte agli uomini ci sono tante cose. A Dio non si può nascondere niente. Ma Dio ama gli uomini nella loro miseria, non nella loro perfezione. Come dire, abbiamo chances tutti, anche io qualcuna ce l’ho, anche voi!

Domanda

Che rapporto hai con i membri del gruppo e con le vecchie amicizie in comune?

Giovanni Lindo Ferretti

Innanzitutto i gruppi sono stati diversi: i CCCP, i CSI, i PCR. Io non ho rapporti con nessuno perché non uso internet, non uso il telefono, non uso nessun mezzo tecnologico moderno. Quindi i rapporti sono plausibili solo in una dimensione…

Frequento i miei vicini di casa che non sono molto intelligenti, non sono neanche molto simpatici, ma sono i miei vicini di casa e io gli voglio bene anche perché sono quelli lì, non li ho scelti io. Io devo contare su di loro e loro possono contare su di me.

Ho dei buoni rapporti mentali con tutte le persone. Con qualcuno ho litigato e poi ho fatto la pace, ma non ci vediamo e quindi, non vedendoci, in realtà non ci sono più rapporti. È una storia finita, ma se fossero i miei vicini di casa io li frequenterei molto volentieri! Ma il problema è quello che, non abitando vicini, io sono tradizionalista nella realtà, non nelle idee. Li penso con piacere e li penso bene. Sono stati i miei amici, pezzi di vita e non avrei potuto fare le cose che ho fatto senza il loro aiuto, senza la loro amicizia, la loro stima. Quindi non posso che pensarne bene. Però non ci frequentiamo per una impossibilità.

Mi scrivono molte persone, io non riesco più a mantenere rapporti neanche con le persone con cui vorrei mantenerli. Noi abbiamo questa idea che uno sta bene quando si rispettano le nuove tecnologie: più aumenta la quantità delle persone che si rapportano a te e più tu hai dei rapporti sociali. Io ho già detto che non sono né un ebreo né un gentile, ma sono un barbaro. Quindi sono un po’ limitato rispetto alle altre due tipologie umane. Però vale un po’ per tutti: più aumentano le persone che stanno intorno a te e meno tempo tu hai da dedicare a loro. Solo rispetto a Dio aumenta la possibilità di amare le persone che ti stanno intorno, ma nei rapporti tra le persone tu non ti puoi prendere cura di tutti, non puoi seguire tutti quanti. Quindi non è un giudizio perché ogni storia è una storia a sé e giudice della vita umana è solo Dio. Noi ci sottomettiamo alla legge perché è una necessità inderogabile del vivere umano e della società, ma in un rapporto libero con la legge, perché la legge è la legge di Dio ed è Lui l’unico giudice. Ci sono persone che dedicano tutta la loro vita agli altri, ma quelli che lo fanno in una dimensione religiosa rispondono ad una chiamata e sono in un ordine che contempla una serie infinita. Chi lo fa da sé, chi lo fa come una ONG, il papa l’ha già detto un sacco di volte che la Chiesa non è una ONG perché un conto è essere un sacerdote e un conto è dispensare un amore generico che non tiene conto delle persone che ti stanno più vicino. Tu non puoi mettere tua madre malata in un ricovero per andare a sostenere tutte le persone che ti sono lontane con idee teologiche. Il sostegno degli anziani, il sostegno della famiglia è un dovere, è il quarto comandamento dopo i primi tre che riguardano Dio, c’è “onora il padre e la madre”. Poi ognuno verrà giudicato da Dio, però un uomo non può dimenticare questo: ha dei doveri nei confronti dei genitori, della famiglia, dei vicini di casa e poi, pian piano, dei doveri nei confronti di tutti.

La Chiesa è saggia ed è aiutata dallo Spirito. Un conto è essere chiamati e fare una scelta religiosa ed entrare in una dimensione del sacerdozio, della vita consacrata. Ma nella vita quotidiana del popolo di Dio le regole valgono da sempre: i genitori vanno rispettati, vanno accompagnati nella malattia, nel dolore, nella morte e i bambini vanno educati in questo. Non si può fare il bene di tutti e infilare i propri vecchi dentro agli ospizi e dentro ai ricoveri perché questa è ideologia. Invece l’amore cristiano è qualcosa di più, di più complesso e comunque è sempre molto legato alle persone.

Domanda

Quanto c’è nella riscoperta di Dio della nostalgia del mondo scomparso contadino, pastorale, comunitario della bella gente d’Appennino? P.S. grazie per la cacchiata del miglior gruppo punk rock italiano di sempre!

Lorenzo Fazzini

Questo è naturalmente un inciso che, penso, dagli applausi molti hanno sottolineato. Magari, se vuoi rispondere alla prima parte.

Giovanni Lindo Ferretti

Come dicevo, c’è molto perché io percepisco molto il Creatore attraverso la Creazione, ma non è la ricerca di un bel tempo andato, il ritorno al passato, la riscoperta, i vecchi mestieri è una cosa un po’ più profonda, un po’ più grande. Io ho bisogno di vivere nella Creazione.

Dio ha fatto gli esseri umani a propria immagine e somiglianza, ma in questo ci sta una libertà infinita. Non tutti nascono per vivere in città. Dio ha creato l’uomo e poi gli ha dato la possibilità di popolare la terra. La terra è varia e ci sono persone che hanno più bisogno di una vita solitaria, di una vita austera; ci sono persone che sentono più il bisogno di una comunità, di una socialità e c’è posto, secondo me, nella misericordia di Dio per i cittadini e anche per i paesani, per i montanari e per i marinai. C’è un po’ posto per tutti e io sono cosciente della mia storia.

Io faccio parte di quella popolazione, che è un po’ minoritaria, che ha bisogno di vivere in montagna, di vivere la dimensione in cui sono presenti i boschi, gli animali, in cui ci sono le stagioni, in cui c’è il primo rapporto. Io non apro le finestre perché non ho gli scuri, quindi quando apro gli occhi vedo se piove, se c’è bello e ci sono delle giornate che penso che sembra il primo giorno della Creazione: è tutto così nuovo, sembra che Dio abbia appena costruito la terra! Immagino che si possono avere le stesse sensazioni e lo stesso rapporto con Dio aprendo la finestra di una città su di una piazza piena di gente e con tanto traffico. Non c’è una soluzione. Uno apre le finestre sul mare, pensa al mare e dice quanto è bello. Lo so, salvaguardiamo le nostre diversità con piacere, non è necessario obbligarci alle stesse socialità.

Per me la tradizione è una strada maestra rispetto alla mia vita, ma le tradizioni non sono i bei mestieri di una volta. Se avessi la capacità scriverei un’ode per la lavatrice, un’ode per il pick-up, un’ode per la motosega. Ci sono delle cose che sono assolutamente un progresso in senso buono. L’intelligenza umana che rispetta le cose. Io sono nato in un mondo in cui le donne lavavano d’inverno nel canale spaccando il ghiaccio. Esteticamente è bellissimo, ma garantisco che l’invenzione della lavatrice è da benedire!

Domanda

Non vedo un motivo perché la costruzione di un paradiso in terra posso entrare in contraddizione con la tua fede.

Giovanni Lindo Ferretti

Io ho la netta convinzione che ogni volta che l’uomo vuole costruire un paradiso in terra, che pretende troppo dall’uomo, peggiora enormemente la dimensione della vita sulla terra. È l’accettazione di un limite. Non è possibile. Grazie alla ideologia, la legge ha la forza di togliere il male dalla terra. Più aumenta questa pretesa, più il male trova il modo di… Questo è rapportabile anche a degli esempi molto bassi e molto comprensibili.

Io ho un grosso problema con le amministrazioni pubbliche, con le istituzione in cui io vivo: i comuni e il parco. Sono mesi che combatto una battaglia sorda e quotidiana. Però il mio problema qual è? C’è qualche cosa che io voglio salvare, quindi il mio problema è salvare quella cosa, non è trasformare né fare una denuncia, produrre l’indignazione popolare rispetto a un mal governo qualsiasi. Ci sono centomila esempi di cose che non funzionano. Io ne ho uno che mi sta addosso e mi riguarda. La mia scelta è di non parlarne, non far crescere l’indignazione e cercare di risolvere, per quella positività che è plausibile, il problema. Non ho nessuna intenzione di fare una denuncia, uno scandalo, i sigilli e la cosa è finita. No! La cosa deve rimanere in piedi perché comunque è qualche cosa che mi sta a cuore, per cui abbiamo speso dei soldi. Quindi bisogna trovare le possibilità ed è difficilissimo. Accontentarsi della denuncia e dell’indignazione vuol dire che questa cosa sarà finita. Tutti siamo contenti perché possano indignarsi due giorni e poi dopo non ci sarà mai più niente.

Il paradiso sulla terra proprio non è possibile. Quando gli uomini pretendono troppo dagli altri uomini significa che pretendono troppo poco da se stessi ed è un gioco a rimando. Io, vi dicevo, in questa storia è con le amministrazioni esiste una normativa burocratica che peggiora quotidianamente con l’arrivo delle nuove normative europee e adesso c’è di nuovo una cosa che è una nuova normativa contro la corruzione. Che di per sé è la cosa più giusta e più logica che ci sia. Uno dice: «Va beh! Non se ne può più!». Siccome non se ne può più io vi garantisco, nel mio caso, non serve un’ulteriore legge per la corruzione perché se ne arriva un altro solo dei corrotti esagerati riusciranno a sopravvivere perché è tanta e tale la mole di normative burocratiche che una ulteriore aggiunta diventa impossibile praticare il giusto e il bene, è impossibile! Siamo già a un livello tale in cui solo i malfattori riescono a rapportarsi perché solo loro sono in grado, sono abbastanza forti, per rapportarsi ad una normativa contro i malfattori. L’anno scorso ho detto al mio presidente del parco, che è una persona che stimo molto, siamo vecchi amici, è un po’ troppo comunista, ma è simpatico ed è anche intelligente, gli ho detto: «Senti Giovannelli, torniamo al giudizio di Dio sulle piazze: mettiamo una carbonella accesa e facciamo che camminiamo sui carboni. Chi sopravvive ha ragione!». Solo un barbaro in un eccesso di regolamentazione può trovare una soluzione che deve essere sicuramente una soluzione a ridurre, non ad aumentare, una normativa che è veramente a livelli folli. Passano gli anni, si pagano perizie a ogni piè sospinto. Gli ho detto: «Scusa ma non era conveniente pagare le mazzette?». Dobbiamo pagare tutte queste perizie e costruire continuamente dei bandi che sono sempre più complessi, sempre più al ribasso. Soltanto i ricchi possono ribassare più di tanto perché una persona, che si mantiene con il proprio lavoro e lavora bene, al di sotto di un ribasso non può andare. Se tu fai un’asta al ribasso tagli fuori tutti coloro che lavorano bene. Noi viviamo un’amministrazione in cui tutte le aste sono al ribasso. Quindi chi lavora bene e con coscienza è di per sé un malfattore. Chiudiamola lì, torniamo al giudizio di Dio che è qualcosa di imprevedibile, però almeno riduce i tempi e anche i partecipanti, tra l’altro!

Domanda

Qual è il tuo rapporto attuale con la musica e con il pubblico, soprattutto con quel pubblico che, dato il tuo essere cattolico, oggi ti considera un traditore?

Giovanni Lindo Ferretti

Anche questa è una leggenda metropolitana. Che ci siano persone del mio pubblico che non hanno assolutamente apprezzato il nuovo Ferretti sta nell’ordine delle cose ed è anche giusto che sia così perché altrimenti non esisterebbe il piacere di vivere con delle diversità. Io per tanto tempo ho pensato che, prima o poi, mi sarei trovato di fronte una parte di pubblico in contrapposizione. Siccome sono ancora un vecchio punkettone per un po’ di tempo ci ho anche sperato perché la lotta un po’ rinvigorisce gli anni. Se tutti ti dicono “bravo, bravo” ti senti svilito. Se invece qualcuno ti dice qualcosa magari trovi il modo per… non fa male un po’di sano contradditorio. I nemici irrobustiscono. La vita io penso che valga la pena di accettarla per quello che è. Non li ho mai visti, anche perché se uno non ti piace non lo vai a vedere! Paghi un biglietto per andare a sentire uno che disprezzi? Comunque non è mai successo. Sono favole che viaggiano in internet dove uno apre una sottoscrizione “Ridataci Ferretti”e mi dice: «Sai che “Ridateci Ferretti” è arrivata a 10.000, a 12.000?». Sì, ma sono inesistenze. Magari anch’io potrei, trovassi una roba con scritto “Ridateci Ferretti” dico: «Perché no?». Cosa vuol dire? Ci sono centomila buoni motivi simpatici per firmare una sottoscrizione che dice “Ridataci Ferretti”!

Non lo so, ma io cantavo in tempi non sospetti “Non fare di me un idolo o mi brucerò”. Sta nell’ordine delle cose. Le persone che mi hanno voluto bene, a cui in qualche modo ho raccontato qualcosa, non mi sembra che siano così stupiti. Forse si aspettavano che io fossi più simpatico e più intelligente, però io sono quello che è. Questo non è un problema, non è mai stato un problema.

Ci sono i giornali, queste cose funzionerebbero anche senza l’ausilio di internet. Quando ero di sinistra “La Repubblica” mi faceva sempre dei paginoni inverosimili, poi dopo, diventato di destra non posso mica pretendere che continui a farmeli e non ci metta un po’ di sgradevolezza. Signori miei è la vita, è giusto che sia così!

Perché tutti devono parlare bene di te? Io già al tempo dei CCCP ero imbarazzato perché c’era della gente che parlava bene di noi e noi non parlavamo bene di loro!

Lorenzo Fazzini

Allora, l’ora è andata avanti per quanto sia venerdì sera. Io volevo chiudere questa, per me sempre arricchente chiacchierata con Giovanni, con quattro righe di Chesterton, che da queste parti è di casa: «Non appena ebbi chiaro nella mia mente, come qualcosa di tangibile, il carattere unico ed eccezionale della storia divina, quello che mi colpì fu che esattamente lo stesso carattere, singolare e tangibile, avevo riscontrato nella storia umana, in quanto la storia umana aveva le sue radici nel divino».

Ascoltare Giovanni oggi per me è stato, spero per tutti, chi ama di più il Giovanni di prima, chi ama di più il Giovanni di adesso, chi ha conosciuto quello di adesso e riscopre quello di prima che poi è “Giovanni” senza preposizioni, penso che sia stato un narrare degli uomini parlando di Dio e un parlare di Dio narrando degli uomini.

Fuori trovate qualcosa da leggere di Giovanni e io lo ringrazio davvero perché realmente so che c’è una sua fatica fisica, oserei dire, come per me è una fatica fisica andare al mare. Ecco, per lui è una fatica fisica andare in città e confrontarsi con una platea attenta e, permettetemi in senso buono, esigente come la vostra. Quindi mi sento di ringraziare e forse la telefonata e la perorazione in carta bollata che è partita anche prima di Natale e finalmente il 3 maggio ha portato bene, non so che santo è oggi!

Giovanni Lindo Ferretti

Dico un’ultima cosa che fa parte di questa lunga storia: vi canto la “buonanotte”. Una cosa molto vecchia che viene dai secoli dei secoli:

[Canta]

«Per reverentia de la Vergine Maria, la quale è cotale,

cioè al nome di Dio,

et fare si debia con laude et a reverentia del Salvatore

in quella parte e luogo de meglio è più bello fare si potrà, si potrà,

acciò che questa comunità in buono et pacifico stato

si conservi, si conservi.

Per reverentia de la Vergine Maria la quale è cotale

cioè al nome di Dio».

Questa viene dalle terre toscane, è del 1200.

Devo essere onesto fino in fondo: c’è una piccola variazione personale perché in realtà era “Affinché la città di Siena” però, siccome io non ho nessun rapporto con i senesi…

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:22 pm | | Default

1/ Quanto odio nello specchio di Narciso, di Pierangelo Sequeri 2/ Von Balthasar: sì alla scienza, di Pierangelo Sequeri 3/ Sequeri: la friabile teologia di Eugenio Scalfari, di Pierangelo Sequeri

1/ Quanto odio nello specchio di Narciso, di Pierangelo Sequeri

Riprendiamo da Avvenire del 9/2/2017 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, cfr. la sezione Cristianesimo, ecumenismo e dialogo fra le religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

Il primo santo del calendario post moderno non è più Prometeo, come annunciava Marx, proiettando sul soggetto collettivo la potenza dell’auto-realizzazione umana. È Narciso, come aveva enunciato Max Stirner (1806-1856), prefigurando l’unicità individuale di quell’auto realizzazione.

Prometeo annuncia la decostruzione della religione, sfidando 'il dio' dell’antico assoggettamento, in favore degli uomini. La ribellione è ancora in favore dell’umano, almeno, e disposta a pagare il prezzo della trasgressione. Narciso annuncia la decostruzione della società, ma non vuole subirne alcuna conseguenza.

Narciso vive dell’amore dell’altro, ma se ne attribuisce il merito esclusivo: non riconosce e non restituisce nulla. Narciso non lavora e non si sacrifica, non ci pensa neppure. L’Unico di Stirner non vuole avere altro fondamento che se stesso, e non pretende di essere il fondamento per nessuno. Questo tratto potrebbe farlo sembrare politicamente corretto, dato che non vuole essere assoggettato, ma nemmeno pretende di assoggettare. In realtà l’Unico, che vuole essere semplicemente se stesso e determinarsi da sé, è il parassita perfetto. Il perfezionamento della sua anaffettività è pericoloso per noi, e dannoso per lui stesso.

L’Unico, che sembra il trionfo individuale della volontà di potenza, in realtà è il brodo di coltura dell’indebolimento della volontà, destinato a consumare lui stesso. Questo non gli impedirà di essere attraente e fascinoso, nella sua immagine di eterno adolescente che si sottrae a ogni legame e si fa da sé. Per rimanere tale, e vincere la disperazione crescente di una compiutezza che gli sfugge, sarà pronto a tutto: dalla finzione cosmetica alla dipendenza chimica, dal godimento dell’impotenza altrui al gregarismo irresponsabile del branco. Mi domando, a proposito di questa odierna mescolanza del carattere anaffettivo e di quello distruttivo, se non ci sia una correlazione profonda tra l’affermazione pseudosecolare del monoteismo del sé e il fondamentalismo pseudoreligioso dell’annullamento dell’altro. L’elemento comune è l’impressionante regresso della pietas erga hominem, che abita in forme diverse i due mondi, apparentemente in conflitto fra loro. Il tratto anaffettivo, il vuoto del puro non amore, stabilisce un nesso rivelatore.

Non c’è passione, in questo nuovo odio che si vorrebbe religioso; né desiderio, in questa nostra ossessione di sé che si vorrebbe razionale: c’è istupidimento mediatico, e fredda disperazione. […]

La potenza dell’ego chiede di essere verificata nella debolezza dell’io altrui: perciò, quando l’autorealizzazione di sé diventa il tema ossessivo di un’ingiunzione assoluta, anche la derealizzazione dell’altro lo sarà. L’invidia dei divini si insinua nello spirito della competizione fra gli umani, e la sovrana insensibilità della loro apatheia si propone come un modello: la neutralizzazione emotiva della compassione per l’altro diviene un complemento necessario del culto della propria identità. L’autorealizzazione posta come fondamento umanistico e principio etico è il problema, non la soluzione.

La mia convinzione è che, se si inquadra esattamente il nodo, non è poi così difficile cambiare rotta. Perché non si tratta di cancellare la dignità del soggetto libero e consapevole, sacrificandola all’alterità o alla collettività. Non è una questione di democrazia o di ascesi. Si tratta di uscire - mentalmente, anzitutto - dall’incantamento di Narciso, impasticcato e afasico, rompendogli lo specchio e mandandolo a lavorare. Scoprirà di essere migliore, sarà felice. (E anche noi).

2/ Von Balthasar: sì alla scienza, di Pierangelo Sequeri

Riprendiamo da Avvenire del 14/5/2013 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

Torna attuale «Die Gottesfrage»: un’opera del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988) pubblicata nel 1956 e poi trascurata per decenni, riedita con aggiunte nel 2009 e tradotta ora per la prima volta in italiano con il titolo «La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo» (Queriniana, pp. 210; qui sotto riportiamo parte della postfazione di Pierangelo Sequeri). Nel piccolo gioiello dimenticato von Balthasar accetta tra l’altro alla «teoria dei tre stadi», enunciata da Auguste Comte, liberandola dalla sua interpretazione positivistica. l’uomo culturalmente è passato dalla religione alla metafisica, per approdare poi alla scienza come interpretazione risolutiva del mondo.

Scienza e cristianesimo sono le matrici di polarizzazione del confronto culturale odierno, fra le quali la religione fornisce il terreno di confronto e di scontro: elemento mediatore ma anche terzo incomodo. La scienza della natura, in quanto fattore di socializzazione dell’unico sapere razionalmente condivisibile, ormai, non è più soltanto visione del mondo: aspira essenzialmente al ruolo di garante del senso.

La mossa è sottile, rispetto alla rozzezza dello scientismo, in quanto non pretende di sostituire la filosofia e la religione, ma semplicemente di garantire – in ogni ipotesi di senso – l’integrità della ragione. Un teologo che affronti questa configurazione con la passione e la freddezza necessaria all’intelligenza nella quale deve inoltrarsi, a vantaggio della fede, deve esibire, con la massima naturalezza, onestà intellettuale e dominio dei suoi mezzi.

L’elaborazione del tema nel testo di von Balthasar è iscritta in una mossa di stile. Il primo tratto è il riconoscimento del fatto che l’esistenza dell’uomo porta con sé, sin dall’inizio, insieme con la vita dello spirito, la religione e la tecnica: il plesso di queste figure fondamentali dell’esperienza caratterizza sempre il mondo nel quale l’uomo appare come soggetto.

«Da quando l’uomo vive sulla terra è esistito lo spirito, e con esso il sapere e la “scienza”, e con essa la cultura e la tecnica: lo attestano la prima ascia di pietra, il primo fuoco, la prima sepoltura. E quanto più indietro si spinge la tradizione umana (ed è possibile che quanto più indietro essa arriva, tanto più pura emerga), l’uomo è sempre stato un essere religioso, egli sa di essere sotto un potere divino, che deve riconoscere e venerare e dal quale deve attendere la salvezza. Così, attraverso tutti i cambiamenti storici, si dà un tipo costante di esistenza umana, una humanitas perennis».

In tal modo è già subito sbarrata la strada, anche dalla parte del cristianesimo, all’idea che la specificità umana debba essere trovata sul fronte di un’attività dello spirito che non ha niente a che fare con la scienza e con la tecnica. (...) «L’uscita dell’uomo dall’avvolgimento del cosmo – scrive Balthasar – dove egli era custodito come l’uovo nel guscio, può essere vissuta anzitutto soltanto come esperienza che oggi viene chiamata insicurezza. Ma invece di usare questa parola come un rimprovero, pieno o dimidiato – come se l’uomo fosse incappato in questa situazione pericolosa per mancanza di preveggenza e dovesse ritornare a rintanarsi il più in fretta possibile nell’involucro abbandonato – si farebbe meglio a sottolinearne il senso positivo e storicamente necessario».

La lettura stessa del passaggio deve riacquistare il nitore di questa spassionata considerazione dell’ambivalenza. Nella nuova struttura del mondo – prosegue von Balthasar – l’uomo ha perso, del passato, qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. (...) «La scomparsa, o almeno la limitazione, della protezione naturale rende l’uomo finalmente autentico, lo fa essere quello per cui il racconto della creazione lo ha stabilito: signore della creazione, colui che, senza abbassarsi in alcun modo al suo livello, l’amministra nel servizio responsabile di fronte al suo Creatore, e la sviluppa in conformità alle proprie tendenze». E d’altro canto, nella condizione odierna, deve pur apparire ancora di nuovo, e con definitiva chiarezza, che quest’uomo moderno, avendo “conquistato un potere sulla natura” prima del tutto impensabile, «si è al tempo stesso caricato di un’imprevista responsabilità per se stesso e per la natura».

Soltanto in questa tensione, del resto, egli «è veramente uomo». Il nodo che ora ritorna in chiaro riguarda proprio la “religione”: e a questo punto, proprio nel senso per cui essa riguarda la coscienza “attuale” di questa specifica responsabilità dell’uomo per il proprio destino. «Questa responsabilità è così pesante, ma anche così ponderata, che egli non può portarla da solo; ma poiché non può più condividerla con la natura, non gli resta altro che condividerla con il Creatore: nella preghiera, nel dono di sé, nel rapporto con colui che non è un pezzo della natura e non offre all’uomo una ricetta già pronta che lo sottragga alla sua libera e decidente responsabilità».

Di qui deve venire il respiro necessario per introdurre nell’orizzonte della categoria di “religione” – intermedia e insieme cruciale – il senso profondo e critico della svolta umanistica che è infine necessaria nell’epoca della scienza naturale (non contro di essa) e nell’epoca della secolarità politica (non contro di essa).

Lo sfondo della rivelazione cristologica del legame indissolubile e salvifico di Dio con l’uomo, che sempre di nuovo offre una prospettiva alla fatalità della scissione, prende respiro proprio a partire dalla parola rivelata della creazione, che ne ha rischiarato l’orizzonte. La possibilità di «infiammarsi ancora una volta per Dio», in luogo di attestarsi pigramente e pavidamente sul già pensato, una volta per tutte, ne sarà – filosoficamente, non solo teologicamente – il complemento necessario.

Di qui Balthasar volge lo sguardo verso l’altro crinale di questa sua originale introduzione al tema dello “spirito del cristianesimo e del suo destino” nell’epoca ormai inaugurata e in vigore (la sfida è già stata lanciata da tempo, al cristianesimo: essa va raccolta, appunto, non incistata nel risentimento e nella malinconia). «Prima che il cristiano pensi di “cavarsela” con questo solitario di oggi, di portarlo avanti o addirittura di convertirlo, dovrebbe chiedersi con che cosa pensi di andargli incontro». Naturalmente, in un senso sostanziale e immodificabile, il cristiano sa che cosa porta: chi è Colui nel quale ha creduto, e a quale rivelazione rende testimonianza, in obbedienza e amore del suo Signore. Ma di certo, anche il cristianesimo deve ogni volta esaminare se stesso: dato che porta questo tesoro in vasi di creta, e deve ogni volta prendersi cura per il lógos della sua speranza per l’interlocutore che si presenta. (...)

Il saggio si chiude, con elegante figura di inclusione, sul tema di una nuova “visione” della natura creata, che deve restituire respiro e orizzonte per la “solitudine” di un soggetto che è finito nel guscio di un’autocomprensione che – a dispetto delle apparenze – non intercetta più il mondo, né la storia.

In questo solipsismo inapparente, l’individuo è irraggiungibile e isolato anche per la questione seria del cristianesimo. Il corpo-mondo, sottratto all’anestesia di una visione ossessivamente libidica e macchinale della natura e del cosmo, potrebbe ricominciare a parlare e a intrattenere corrispondenze con le cose dello spirito. E persino a mettersi in dialettica con il soprannaturale: accettando la sfida di un’irruzione che resiste al pensiero del caso come a quello della necessità.

«La natura si trascende nell’uomo. Ma l’uomo è spirito soltanto in quanto egli trascende di nuovo verso Dio il mondo che egli è, la cui quintessenza egli rappresenta». La mortificazione della natura impoverisce il mondo e toglie senso al tempo. Alla lunga, ciò deve anche togliere respiro all’uomo.

La parola di Dio non è una grandezza mondana. Eppure, rende più grande il mondo. Il nostro, in effetti, è diventato piccolo e monotono: ormai sta tutto in un iPhone. Invece, è il movimento della creazione divina, in cui siamo coinvolti e del quale siamo responsabili, che restituisce lo spazio e il tempo alla grandezza dell’anima.

La nuova evangelizzazione avrà presto bisogno di mettere in contatto la ritrovata vitalità delle origini della fede con la lingua materna della creazione in cui l’uomo prende il respiro di Dio. Ossia lo spirito. L’affresco di questo piccolo gioiello che è la Gottesfrage di Balthasar è ancor oggi un glossario perfetto per riaffezionarci all’impresa.

3/ Sequeri: la friabile teologia di Eugenio Scalfari, di Pierangelo Sequeri

Riprendiamo da Avvenire del 16/1/2014 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

Nella memoria della mia ormai lunga carriera di insegnante di teologia è rimasto impresso un piccolo caso paradossale, che ricordo sempre con un misto di tenerezza e di imbarazzo. È d’uso, fra i candidati alla consacrazione sacerdotale, preparare per tempo l’immaginetta-ricordo, con una frase biblica o un motto spirituale. Dopo essermi felicitato con uno degli studenti del seminario, che mi aveva consegnato la sua, vi ho letto: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». L’indicazione dell’autore della citazione, però, non era Giovanni (1, 14), era Paolo VI!

L’episodio mi è venuto alla mente quando, leggendo con crescente sgomento l’editoriale di Eugenio Scalfari sull’abolizione "francescana" del peccato, sono arrivato alla frase: «L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco». In quel momento lo sgomento è stato alleggerito da un sorriso.

L’emozione dei colloqui col papa Francesco deve essere stata tale, mi sono detto, che l’uomo di mondo si è lasciato vincere dall’entusiasmo per la persona, indubbiamente eccezionale, fino a sortirne qualche effetto di disorientamento. Il disorientamento ha prodotto qualche enormità di attribuzione, in positivo e in negativo. Eccesso positivo, quando si pongono a fondamento della "rivoluzione" del Papa affermazioni che sono semplicemente pilastri della tradizione biblica e della fede cristiana. Eccesso negativo, quando si parla di un Papa che, per la prima volta nel cristianesimo fa «della predicazione evangelica il solo punto fermo» e perciò, conseguentemente, «abolisce il peccato».

Nel cristianesimo, se parli di legge e di grazia, di amore e di peccato, sempre fai appello alla dignità della coscienza e alla scelta della libertà. Non potresti neppure formulare i concetti, altrimenti. Da Abramo a Paolo, Dio vuole essere amato, e non subìto: è per questo che si parla di fede. E nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo – è parola di Gesù – ci sono tutta la Legge e i Profeti. È vero che si possono sempre riprodurre le derive di una religiosità ossessiva, che impernia tutto sull’oscura vischiosità del peccato, dimenticando la potenza dell’amore di Dio. Così come del resto ci sono giulive rimozioni del dramma della colpa che, facendone una semplice creatura del caos, svuotano la libertà di ogni passione per la giustizia.

Il cristianesimo stesso, ogni volta e per se stesso, anzitutto, deve ristabilire il giusto contrappunto. Ma non c’è proprio nulla da inventare. Per il resto, la novità dell’incarnazione redentrice del Figlio, professata dai cristiani, è certamente una rivelazione inaudita e dirimente della verità di Dio: ma non alternativa e contrapposta a quella di Abramo e di Mosè.

Neppure nei momenti di maggiore tensione, fra cristianesimo nascente e giudaismo, il dogma ecclesiastico ha ceduto all’idea della contrapposizione fra il Dio "cattivo" della Bibbia ebraica e il Dio "buono" del Vangelo cristiano. La tesi, coniata dal vescovo Marcione – siamo nel II secolo! – è combattuta come eresia pura e semplice.

Quanto poi alla breve storia dell’Universo che ricostruisce lo sfondo della presunta "rivoluzione" di Francesco, mi è più difficile non cedere allo sconforto. Non c’è quasi nessuna parola al posto giusto, e spesso le parole giuste non hanno il loro posto. (A parte il fatto che il Dio di Abramo e di Mosè vi risulterebbe irriconoscibile anche per loro stessi, persino Spinoza e Kant sorriderebbero per la boutade della contrapposizione fra legge e diritti che fa capolino). Su tutto il repertorio, insomma, siamo troppo al di sotto delle prove migliori del Nostro, ossia quelle autobiografiche, che abbiamo persino letto con sincero interesse.

Qui la sonata mi sembra troppo a orecchio. Insomma, possiamo ragionare utilmente sull’opinione difforme, non ci scandalizziamo della passione ideologica, e capiamo anche la necessità giornalistica. Ma non abbiamo materia di confronto specifico se l’informazione di merito è così friabile. Riproviamoci. La conclusione di Scalfari è verissima, in effetti: tutto questo ci riguarda. Eccome.

Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:21 pm | | Default
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Boiron, il re dell’omeopatia: «Prendo gli antibiotici e li do anche ai miei figli», di Elvira Serra

Riprendiamo dal Corriere della sera del 28/5/2017 un’intervista di Elvira Serra. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)

Quand’è l’ultima volta che ha preso un antibiotico?
«L’anno scorso
, dopo l’estrazione di un dente del giudizio».

E l’ultima che ha preso un’aspirina?
«Stamattina
. La cardioaspirina la prendo tutti i giorni».

Christian Boiron è direttore generale del Gruppo Boiron, leader mondiale dei farmaci omeopatici, quasi quattromila dipendenti (di cui duecento in Italia) e un fatturato di 610 milioni di euro. Figlio di Jean, che assieme al fratello gemello Henri ha fondato la multinazionale francese, ha cinque figli e sette nipoti.

Ha mai dato loro gli antibiotici?
Ride. «Certo, sono un farmacista. E ho scelto ogni volta la cura migliore per loro, come qualunque papà e nonno. Anche mia madre e mio padre erano farmacisti, da piccolo sono stato curato in modi diversi. Casa nostra era frequentata da medici tradizionali e medici omeopati. La cosa davvero importante è proprio questa: scegliere un buon medico, perché è suo il compito di fare la diagnosi giusta e dare la cura più adatta».

Nel caso di Francesco, il bambino di quasi 7 anni morto nelle Marche per una otite bilaterale, adesso tutti puntano il dito contro l’omeopatia.
«Non so se nel caso specifico la questione sia la diagnosi o il trattamento, se il problema sia il medico o i genitori che non lo hanno portato subito all’ospedale. Certo è che se una persona muore dopo aver preso un farmaco allopatico, nessuno dà la colpa alla cura. E purtroppo nel mondo ogni anno muoiono due milioni di persone per questo, nessuno dice niente».

Il suo parere, però, non è disinteressato. Negli Stati Uniti avete patteggiato cinque milioni di dollari dopo una class action.
«Purtroppo in America si fa causa come si respira. E comunque due ricorsi li abbiamo vinti».

Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri», due anni fa ha curato un libro dal titolo «Acqua fresca», alludendo ai benefici dell’omeopatia.
«L’ho anche sentito, dopo, Garattini. Ha messo insieme tutte le false posizioni in materia per parlarne male, dimenticandosi che l’omeopatia è prima di tutto il frutto della ricerca farmacologica».

Esistono cose per le quali è meglio utilizzare l’omeopatia e altre per le quali è meglio evitarla?
«Esistono anzitutto le persone, che reagiscono tutte in modo diverso. È chiaro che per certe sintomatologie non gravi e frequenti preferisco raccomandare un farmaco omeopatico. Soprattutto con i bambini vedo che si tende a esagerare con gli antibiotici, anche quando non sarebbero necessari. Ma il punto è la sinergia».

Mi faccia un esempio.
«Per cinquant’anni abbiamo prodotto il Cephyl, un farmaco che aveva il principio attivo dell’aspirina più altre componenti omeopatiche. Poi l’Agenzia del farmaco francese ci ha chiesto di fare una scelta netta, o un componente o un altro. E così lo abbiamo ritirato. Ecco, secondo me non dovrebbe esserci una contrapposizione tra i due tipi di farmaco. L’integrazione può essere preziosa, come già avviene nella cura del cancro».

Non vorrà dire che il tumore si può curare con l’omeopatia?
«No, assolutamente. Ma ci sono dei casi in cui il paziente ha problemi di tolleranza rispetto a certe cure, come la radioterapia, e i farmaci omeopatici lo possono aiutare a sopportarle. Sempre più spesso i medici stanno scegliendo di integrare la terapia convenzionale con la terapia omeopatica. L’obiettivo è comune: far guarire il malato e alleviargli le sofferenze».

Quale pensa che sia il limite dell’omeopatia?
«È difficile rispondere. Potrei chiederle quali sono i limiti dell’allopatia».

Beh, le controindicazioni. Il fatto che certi farmaci si smaltiscano con fatica e siano tossici.
«Il problema dell’omeopatia è che da 200 anni non ha smesso di evolversi. Cento anni fa i medici omeopatici pensavano di poter trattare tutto con l’omeopatia. Questo non è possibile, così come non si può curare qualsiasi malattia con gli antibiotici».

Ritorniamo al punto di partenza. Il medico è cruciale.
«Dobbiamo considerare l’omeopatia come una specializzazione che dà strumenti in più per inquadrare e curare le malattie. In sinergia».

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Redazione de Gliscritti | Domenica 04 Giugno 2017 - 11:20 pm | | Default