In nome del Papa Re e la vera storia della morte di Monti e Tognetti pentiti dell’eccidio commesso (dalla relazione dei fatti pubblicata da La Civiltà Cattolica)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /06 /2017 - 22:07 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da La Civiltà Cattolica, Serie VII, vol. IV, fasc. 450, 1868, pp. 723-741 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

N.B. de Gli scritti

Pubblichiamo questo resoconto scritto dai gesuiti de La Civiltà cattolica degli ultimi giorni di vita di Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti, gli ultimi due condannati a morte nello Stato Pontificio perché ognuno possa confrontare questa versione con la diversa visione dei fatti presentata dal film di Luigi Magni, In nome del Papa Re, prodotto nel 1977, che si basò, invece, su di un romanzo di taglio anti-clericale scritto da Gaetano Sanvittore nel 1869. Anche il testo de La Civiltà cattolica rispecchia chiaramente una ben determinata visione storica, ma, nonostante questa prospettiva, è facile individuare in esso numerosi dati storici che sono chiaramente contraffatti dal film di Luigi Magni.

Relazione degli ultimi giorni di Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti giustiziati in Roma il dì 24 novembre 1868

1. È di publica e universale notorietà, che nella sera del 22 Ottobre 1867 in Roma fu minata e distrutta gran parte di una caserma detta di Serristori, alloggio di un corpo di Zuavi pontificii. La mina ebbe per effetto la morte di venticinque di quei militari, e di due borghesi; e fu da benedire la divina Provvidenza, la quale dispose, che la casuale sortita d'una compagnia salvasse la massima parte di quel fiore di gioventù destinato all'eccidio da uomini malvagi. Di questo e di altri simili misfatti era motore e anima Francesco Cucchi, deputato al Parlamento di Firenze, insieme con più altri che, dopo lunga dimora in Roma, colla fuga scamparono al rigore delle leggi: ma Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, che tra i colpevoli erano dei più operosi ed accaniti, caddero in potere della giustizia, e furono giudicati, siccome agenti principali, a quella pena, che ne’ tribunali romani dicesi morte di esemplarità, ed è la decollazione con pubblica infamia, onde si atterriscano i popoli dal delitto.

Giuseppe Monti era in età di anni 33, ammogliato, di professione sovrastante muratore. Fu convinto da prima, e poi da sè diedesi reo confesso, di avere di sua mano messo fuoco ai barili di polvere collocati in una stanza terrena al di sotto della caserma. Gaetano Tognetti, in età di 25 anni (così affermò nel testamento, essendosi prima detto di anni 23), celibe, garzone muratore, fu compagno indivisibile del precedente, e complice fin all'ultimo. Di questo consta pei processi formati e messi a stampa, e dalla sentenza renduta dal tribunale supremo della sagra Consulta, nella causa Romana di lesa maestà in primo grado, renduta il giorno 16 di Ottobre 1868, ed eseguita il 24 Novembre susseguente.

Non fu uomo alcuno, che animo e costume umano serbasse, il quale non inorridisse di sì atroce assassinamento. Nel popolo poi di Roma, più vivamente oltraggiato nell'onore e nella vita di tanti suoi figli, e nella desolazione di tante famiglie, regnava impazienza somma di vedere balenare la giusta vendetta delle leggi; e come avviene nelle moltitudini, che male intendono le lunghe e gravi solennità dovute ai giudizii capitali, già ne andava attorno scandalo e mormorazione. Fu scritto per contrario, che si facessero pratiche da uomini di Stato presso la Santa Sede, affine di ottenere la clemenza del Principe in favore degli accusati.

Ma il vero si fu, che né pendente il giudizio, né dopo la sentenza, niun diplomatico si contaminò in causa sì obbrobriosa: niuno chiese la grazia del Monti e del Tognetti, più che non si chiedesse pei falsi patriotti feniani alla Regina d'Inghilterra, o pei falsi patriotti Orsini e compagni all'Imperatore dei Francesi. Lo stesso Governo di Firenze, che alcuni dissero, avere accolto in sua tutela i condannati, o non volle o non potè trovare alcun uomo pubblico, il quale togliesse sopra di sé di avvocare presso il Sovrano di Roma in pro degli assassini, o di scusarne o attenuarne le reità. È falso, anzi ridicolo a pensare, che il Reggimento dei Zuavi formasse istanza contro alla vita degli assassini dei loro camerati: gran parte dei loro ufficiali sono cavalieri, e molti ancora dei sottoufficiali e comuni. Nello stesso modo è falso ancora che i Zuavi si concertassero tra loro, e porgessero una supplica al Santo Padre per sottrarli alla morte.

Ma se la civile società fu costretta a rigettare e recidere colla spada della legge due de' suoi membri; la Religione, la cui carità si informa della divina e infinita, li raccolse tra le braccia; e porgendosi essi di buon grado alla sua materna pietà, ne furono per guisa rinobilitati, che di proscritti ed esecrati dalla città umana, diventarono degni cittadini, per quanto lice sperare, della patria celeste. Da lungo tempo Roma non avea veduto due giustiziati lasciare dopo di sè tali e tante prove di sincero ravvedimento, e così preclari esempii di virtù cristiana. Ne furono testimonii, o oculari o auricolari, quanti v’ha abitanti di questa grande metropoli, e più specialmente i soprastanti e i custodi delle Carceri Nuove, i varii sacerdoti che visitavano i condannati a fine di aiutarli dell'anima, i gentiluomini dell'Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato, i militari intervenuti all'esecuzione, e il popolo spettatore, che questa volta fu oltre il solito numeroso, e in singolare guisa commosso e compunto.

2. Comunicatasi la sentenza capitale agli inquisiti, Monti e Tognetti, loro non rimase quaggiù altra speranza, fuorchè quella di venire graziati della vita per clemenza sovrana. Ma l'autorità ecclesiastica provvide incontanente per ogni evento, quanto era da sè, alla salute eterna di quegli sventurati: e il provvedimento fu incaricare due religiosi, di zelo sperimentato, di prendere specialissima cura, ciascuno di uno dei due. Iscelti furono un P. Passionista e un P. Gesuita. Il giorno 27 Ottobre il P. Passionista cominciò le sue visite ad ambedue i condannati, nelle Carceri Nuove; e fece ai segretanti, tanto delle segrete inferiori, ov'era Gaetano Tognetti, quanto alle superiori, ov'era Giuseppe Monti, un discorso sulla Bontà di Dio nell’accogliere fra le braccia della sua misericordia i poveri peccatori pentiti. Nei giorni seguenti prese a dare gli esercizii spirituali per tutti coloro che erano nelle segrete. L’esito fu che molti si giovarono della grazia offerta; e l'ultimo giorno tra i partecipanti alla sacra mensa vi furono pure i due condannati a morte, che già sapevano la loro condanna. Era nel Tognetti (a detta di quanti lo trattarono durante questo tempo) un buon fondo di religione, e nella estremità in cui vedevasi, ricorreva alle pratiche di pietà, ed era tutto in divozione alla Vergine Maria, rifugio degl’infelici. Ogni sera recitava il rosario, e invitava a recitarlo con sè anche gli altri cinque compagni di sventura dannati a varie pene, che dimoravano nella stessa segreta. Quasi tutta la giornata spendeva sul libro delle Massime eterne, e in altre letture pie: nello spazio di venticinque giorni lesse tutta la vita di S. Paolo della Croce.

Il sacerdote cercava di disporlo alla rassegnazione per ogni caso, parlandogli molto dell'abbandono nelle braccia di Gesù Cristo, e recandogli esempii e sentenze per indurlo a fare il sacrifizio dell'onore e della vita.

Pure poco guadagnava, e il condannato lusingavasi sempre di poter essere graziato. Però il sacerdote, il giorno 20 di Novembre, non vedendo apparir novità favorevole, gli confessò che veramente credeva oggimai restare poco lume di speranza. Il Tognetti allora dètte nelle smanie e proruppe un tratto in aspre parole: ma fu uno sfogo passeggero; e subito riconoscendo il suo torto, rientrò in migliori sentimenti, chiese scusa del suo eccesso, e pregò il Padre di volerlo compatire, dicendo che la passione era quella che così l'aveva fatta straparlare.

3. Appressandosi l'esecuzione, il sacerdote n’ebbe secreto avviso, affinché, senza darne mostra, disponesse il condannato al vicino trapasso. E questo un delicato temperamento e veramente cristiano, usato, affinché né l'uomo agonizzi soverchiamente nella espettazione del supplizio inevitabile, né il cristiano sia mandato al tribunale di Dio senza maturo e riposato apparecchio. Quella empia filantropia, che oggidì prevale incerti paesi, dove un condannato vien preso improvviso e rapito al supplizio, come bestia all’ammazzatoio, in Roma solleverebbe universale e giusta esecrazione.

Per tanto presentatosi al Tognetti, a mezza mattina, il buon religioso, non poté tanto dissimulare che quegli non gli leggesse in volto una disusata turbazione.

- Eh, P. Giuliano, gli disse, che notizia mi porta?

- Ti porto, Gaetano mio, i saluti e le benedizioni de’ tuoi poveri genitori, i quali ieri sera sono venuti a trovarmi al Ritiro dei santi Giovanni e Paolo.         

- Come stanno?

- Eh! lo lascio considerare a te: afflitti e sconsolati, all’ultimo segno.

- Ma dunque non v' è speranza affatto?

- Figlio mio, non so che cosa dirti. Solo ti dico, che preghi assai, e che ti cerchi rifugio nelle Piaghe di Gesù Crocifisso... io presto ritornerò e ti recherò qualche notizia certa.

Così disse il ministro di Dio, e uscì, in grande apprensione, non forse il povero giovane, in vedersi poi alla sera tardi, cioè otto ore prima della morte, tradurre in conforteria, non avesse a rompere in escandescenze. Ma non fu vero. Venuti i carcerieri ad ammanettarlo, dormiva profondamente, e si destò in quella che gli mettevano le manette ai polsi.

Diede un grido e disse: «Non mi fate male; che non mi muovo. Già lo so, sognavo che ero moribondo, e che il padre Giuliano mi raccomandava l'anima, e mi dava l'assoluzione... Sia fatta la santissima volontà di Dio!... Andiamo.»

Lettagli la sentenza, e inteso della esecuzione per la mattina seguente, si dolse, senza amarezza, che mentre i caporioni della rivoluzione erano campati, toccasse a lui solo pagarne la pena: ma subito si rassegnò. Fu rimesso alle mani della Compagnia della Misericordia.

Avevano i Confratelli disposta ogni cosa nella conforteria delle Carceri Nuove. Il Tognetti colà condotto, dopo la mezza notte bramò riconfessarsi, e si trattenne lungamente col confessore. Dopo il sacramento di perdono dimorandosi tuttavia a ragionare col sacerdote, uscì in queste precise parole:

- P. Giuliano, io mi sento nel cuore qualche cosa che non so che cosa sia.

- Di pure, Tognetti mio, che cosa senti di nuovo.

- Mi sento nel cuore una quiete, una pace, una contentezza, che solo un'altra volta mi pare averla provata così: e fu agli esercizii che feci a Ponte Rotto. (Luogo pio, ove moltissimi Romani, specialmente del popolo, si ritirano in dati tempi a fare gli esercizii spirituali, e massime i giovanetti, per apparecchiarsi alla prima Comunione.) È una contentezza tale, che non la so spiegare ... e pure devo andare alla morte: ma che sarà questa cosa?

- Gaetano mio, rispose il religioso, questa non è forza né virtù nostra, ma è la grazia di Gesù Cristo; che vuole trionfare sopra di te e della natura: è il Signore, che quando con una mano mortifica, sa con l'altra vivificare e consolare. Ringrazia di cuore il Signore, che si mostra così buono con te.

Fu condotto poscia nella prossima sala per fare quelle disposizioni testamentarie che volesse. Il poveretto non aveva altro di cui testare, che alcuni cenci, i quali lasciò pei poveri; e 22 soldi, che si trovava in tasca, e consegnò al Provveditore della Confraternita, per una Messa in suffragio delle Anime del purgatorio. Con questa occasione si dichiarò altamente pentito del male fatto, in presenza dei Fratelli testimonii, e insieme manifestò i più belli e cristiani sentimenti, che udir si possano in bocca ad un cristiano, verso i suoi genitori, parenti ed amici.

Ci piace recarne qui alcuni tratti, che leviamo dall'originale, disteso per mano del fratello Provveditore, D. Giovanni de' principi Chigi , faciente le veci di notaio.

«...Disse, si facesse preghiera ai medesimi (parenti) che non si dimentichino di lui e lo benedicano, ed esso non si dimenticherà di loro ... Disse di avere qualche debito, che per la sua miseria non può soddisfare, ma che in compenso di questi si ricorderà di raccomandare i suoi creditori al Signore. Professa di morire da buon cristiano, rassegnato alla volontà di Dio, perdonando al «al suo prossimo qualunque offesa possa egli aver ricevuto, come spera «che il Signore perdoni a lui i suoi peccati. Questo intende che sia il «suo ultimo testamento, che di propria mano firma. (segnato) Gaetano Tognetti.»

Di un altro suo atto, similmente firmato, diremo più sotto.

Volle poi vedere il Capitano delle carceri, signor Alessandro Rosalbi, e tutti i custodi delle segrete e delle comuni, e specialmente i fratelli Angelo e Vincenzo Vinci e Luigi Bergami, i quali con molta umanità avevanlo sempre custodito; e chiese a tutti perdono dei mali esempii dati, e ringrazolli dei buoni trattamenti avuti, e quelli il baciarono.

Gli occhi di ciascuno erano pieni di lagrime di tenerezza. Mandò cercare di Pietro Costa, custode dei cancelli, e di Costantino De Magistri custode del carcere aggiunto: a quest'ultimo fece particolari ringraziamenti dei buoni avvisi datigli, durante la prigionia, e poi alla sua volta gli disse: «Costantino mio, ecco giunta l'ora della mia redenzione: senti, amico, tu hai famiglia, bada alla famiglia tua, a te stesso, abbi il santo timor di Dio, e non ti far confondere dai compagni. Vedi tu, come mi trovo io per essermi fatto confondere? Dillo a tutti, sai, affinchè il mio esempio serva a tanti poveri giovani.» Queste ed altre parole soggiunse, mostrando vivo desiderio, che la propria sventura e il ravvedimento avessero grande pubblicità a bene altrui. Di che sono concordi le testimonianze de' gentiluomini presenti, in ufficio di confratelli, e di quanti altri intervennero.

4. Dopo di che il Tognetti fu condotto alla cappella, ove già trovavasi il Monti. Questi aveva richiesto di vederlo e di abbracciarlo. Ma il Tognetti, memore delle rivelazioni fatte da colui, che a sé erano tornate assai nocive, non seppe trattenersi dal dire a chi l'invitava, che egli avea perdonato di cuore, ma che temeva, la vista di Monti non lo rimescolasse troppo. Rincorollo il confessore, facendogli notare che né Dio né gli uomini l'obbligavano di vedere il Monti: ma che se egli volontariamente lo vedesse e si perdonassero a vicenda, sarebbe prezioso merito aggiunto alla corona del paradiso, e ne avrebbe gusto grande Gesù Cristo.

- Credete proprio, Padre, che darei gusto a Gesù Cristo? ripigliò il Tognetti.

- Non ne dubito: sarebbe un bell'atto di virtù.

- E bene, andiamo. Ditemi tutto quello che ho da fare.

Al suo entrare il Monti levossi in piedi dal seggiolone ove sedeva e gli andò incontro: allora il Tognetti disse queste parole: «Peppe, ecco giunta l'ora della nostra redenzione, e di raccogliere il frutto del Sangue di Gesù Cristo (espressione divenutagli familiare sull'ultimo): tra poco speriamo pei meriti di Gesù Cristo, di trovarci insieme in paradiso.» E ciò detto si abbracciarono e si diedero il bacio del perdono. Se questi sono modi e parole di settario impenitente, noi preghiamo a noi stessi, e a tutti i buoni cristiani di poter parlare in simil guisa, al punto di comparire al tribunale di Dio.

Quindi si posero in ginocchio alla balaustrata, col Crocifisso in mano, che ciascuno aveva ricevuto dal proprio confessore, ed erano tutti e due grandi e divoti. Non si saziavano di stringerli al petto, tanto il Tognetti quanto il Monti, e li coprivano di baci, ricercandone le cinque Piaghe: che era una tenerezza per gli astanti. Ascoltarono così la prima Messa, che fu celebrata per loro; poi una seconda del Cappellano della Confraternita, monsig. Raimondo Pigliacelli, canonico di S. Maria Maggiore, il quale anche disse un acconcio fervorino, per disporli alla santa Comunione, che fu loro amministrata come viatico dell'eternità; e dopo questa assistettero ad una terza ancora, e ad una quarta, in ringraziamento.

In tutto questo tempo il Tognetti altro non fece che pregare. Aveva per sua divozione quel libretto tanto comune in Roma, detto Massime eterne, e ripeteva fervorosamente le belle preghiere che quivi si contengono, e tra le altre le sette offerte del Sangue preziosissimo di N. S. Gesù Cristo, l'Orazione al SS. Crocifisso, l’Orazione alla SS. Vergine Maria, composta dal Ven. Bartolomeo da Saluzzo. Dimandò eziandio la corona, per recitarla ad onore della Madonna, notando egli stesso, che opportunamente correvano quel dì i Misteri dolorosi. Due volte replicò la Via Crucis, sebbene stando al suo posto. A questo modo gli trascorsero le ore, insino al punto che, dovendo oggimai muoversi il tristo convoglio, il sacerdote religioso, suo assistente, gli disse, che lo precedeva, e l’aspetterebbe nella conforteria presso S. Maria in Cosmedin.

Giunto il paziente a questo luogo, vicinissimo alla piazza de’ Cerchi ove si aveva ad eseguire la sentenza, si trattenne in, continue preghiere e giaculatorie, e diceva a mente molte orazioni che sapeva, tramezzandole con un Pater, Ave, Gloria e con una Salve Regina. E il faceva in voce sensibile, il che riempiva di consolazione i sacerdoti circostanti, e quei nobili signori della Confraternita. Avendo fatto pregare il colonnello dei Zuavi di venire a lui, e questi avendolo appagato, il poveroTognetti chiese perdono del suo delitto a lui colonnello dei Zuavi, e in sua persona a tutto il Reggimento. Il che fece con tale modestia e sincerità di espressione, che quel generoso cavaliere ne fu commosso profondamente, e per segno dell'accordato perdono gli rispose dandogli il bramato amplesso di pace, e promettendogli che niuno più teneagli rancore, e che anzi i Zuavi penserebbero a soccorrere la sua povera madre.

Del resto non fu solo il tenente colonnello dei Zuavi che si lasciasse intenerire: l'attitudine del paziente, la sua rassegnazione, il pieno ravvedimento avevano per siffatto modo scancellato in lui il marchio del malfattore micidiale, che ciascuno lo riguardava come un'anima benedetta, nella quale già raggiava l'amicizia di Dio e la speranza della gloria, celestiale: era un commovimento universale. I buoni Confratelli si raccomandavano ognuno in particolare alle sue orazioni, per quell'istante in cui fosse giunto al cospetto di Dio. Lo stesso fece l'egregio religioso che l'assisteva. Egli a tutti rispondeva con voce tranquilla, che sperava di andar salvo pei meriti del Sangue di Gesù Cristo, e che appena giunto in paradiso, si sarebbe ricordato di loro. A questa scena pietosa era presente, per suo dovere, tra i molti altri un Uffiziale superiore dei Gendarmi, e anch'egli si sentì vinto da tale commozione, che si scoperse il capo, e disse al paziente: «Eh Tognetti mio, ricordati pure di me e della mia famiglia» e ciò dicendo lo abbracciò e baciò, e tosto uscì dalla presenza cogli occhi pieni di lagrime.

5. Ma la più tenera scena fu quella che precedette immediatamente il supplizio. Il sacerdote gli fece recitare la professione di fede, e formare altri atti cristiani, convenienti al bisogno, lo assolvette sacramentalmente, e gli applicò la indulgenza papale in articulo mortis, come usasi coi moribondi, gli fece venerare il santo Legno della Croce, e, con esso formò sopra di lui la benedizione: finalmente lo avvertì, che, si armasse più che mai di coraggio e prendesse fiducia nei meriti di Gesù Cristo, e nel patrocinio di Maria santissima.

- Che, è ora? dimandò il paziente.

- Pochi minuti ancora... Adesso viene il ministro di giustizia: posso lasciarlo entrare?

- Sì sì, rispose fermo il Tognetti, venga pure.

Entrò quegli, e nel legarlo diceva: - Non temere, Tognetti, chè non ti stringo: fo lento lento.

- Stringi, pure: non potrai mai stringer tanto, quanto fu stretto Gesù Cristo. Oh! Ha patito tanto Gesù Cristo pei miei peccati: e non potrò patire un poco io, che merito l'inferno? Che è questo in paragone di quello che ha sofferto Gesù Cristo? Fa, fa pure.

In dire questo fu legato. Il Crocifisso gli fu posto in mano, e l'abitino del Carmine, Volle andar bendato, per non distrarsi, diceva esso. Nè altrimenti sarebbe convenuto, essendo già il palco insanguinato dal suo compagno, che fu primo a morire. Pregò, con ammirabile presenza di spirito; il sacerdote, che l'accompagnasse nel tragitto dalla conforteria al patibolo, e che prima di cader la mannaia gli desse anche una volta la sacramentale assoluzione de' suoi peccati. Si avviò al supplizio, stampando di baci il Crocifisso, e tutto da sè ripetendo le più tenere e infocate preghiere, tanto che non era d'uopo nulla suggerire.

Appiè del palco, rendette il Crocifisso al sacerdote, non senza averne novellamente baciate le Piaghe: e mentre il ministro di salute eterna lo esortava a pensare al divin Redentore e alla Madre di Misericordia, che l’accoglierebbero in paradiso, i ministri della umana giustizia l'acconciarono alla ferale esecuzione.

Tutto intorno, con un popolo sterminato, regnava un religioso silenzio; per guisa che, quando il paziente a voce alta e distinta invocava i nomi santissimi di Gesù e Maria, sariasi potuto ancor da lungi noverare ogni sillaba; e parimenti allorché il sacerdote proferì l’estrema formola di assoluzione. All'Amen il Tognetti appena poté soggiungere: Gesù… e in questo il ferro gli troncò la voce e la vita, «Cadde recisa la testa (così conchiude il sacerdote la sua narrazione), e l'anima si trovò nel seno di Dio, come ho tutto il fondamento di credere.» Noi possiamo aggiungere che tale fu pure la persuasione di quanti o per carità o per ufficio o per curiosità si trovarono presenti a quegli ultimi e edificantissimi tratti di Gaetano Tognetti.

6. Non meno interessante la storia, né meno pietosa fu la morte di Giuseppe Monti, che di pochi istanti il precedette sul patibolo. Questi era di più apertura di mente, di più spiriti, e nell'arte sua eccellente: nel ragionare poi accorto in modo singolare, e nell'esprimere i suoi sensi facondo e acconcio più assai che non sembravano comportare le sue poche lettere. Non senza perché, nelle trame dell'Ottobre 1867, fu scelto alle imprese più arrischiate.

Fu avvertito il religioso, che di costui doveva incaricarsi, il dì 27 Ottobre, dal suo proprio superiore, che gli disse: «Giuseppe Monti, di Fermo, già condannato a morte, ragionando fece menzione di lei: vegga dunque di fargli una visita, alle Carceri Nuove.» Rispose che vi andrebbe quanto prima. Il giorno appresso interessò varii monisteri di sacre vergini a pregare molto per la piena conversione del povero condannato. Intanto una pia dama, tutto da sé, eraglisi offerta a collettare, per soccorrere il Monti e la desolata famiglia di lui. Il dì 29 si condusse il detto Padre alle Carceri Nuove, ma con molta trepidazione di animo, conoscendo per esperienza, che con gente impigliata in trame politiche poco o nulla si ottiene: e procurava di darsi. animo sperando nell'aiuto divino e nella mediazione di Maria santissima e di S. Giuseppe, del quale quell'infelice portava il nome. Del resto anche il De Felice, giustiziato l'11 Luglio 1855, tuttochè settario, si ravvide, e in presenza di molti testimonii, a voce alta si ritrattò, dicendo: «Abborro tutte le sètte a cui sono stato ascritto, e mi hanno rovinato.» L'atto è firmato, nei registri della Confraternita di S. Giovanni Decollato, dal Provveditore marchese Sacchetti.

Il religioso si vide venire incontro un uomo di trentatré anni, di mezzana statura, piuttosto di bella persona, il quale gli si accostò con modi molto rispettosi. Si posero a sedere in un angolo del corridoio fuori della segreta, e il sacerdote aperse il discorso: - So che mi avete nominato con una persona, e che avete mostrato desiderio di vedermi: in che vi posso servire?

Ed egli: - Ma lei non mi conosce? Io da fanciullo venivo alle scuole, quand'ella era rettore del collegio di Fermo. Se ne ricorda della famiglia Monti? stavamo in quella casa di fronte al collegio. Non le sovviene che quando ella venne a Roma, io venni a ritrovarla?

Il religioso non ricordava nulla di tutto cotesto, ma procurò di giovarsene a bene, e gli disse che, se già lo conosceva, era anche meglio, e doveva perciò essere persuaso che il solo desiderio di aiutare lui conducevalo in quel luogo; però aprisse liberamente l'animo suo, ed egli, in cosa che fosse possibile, volentieri l’aiuterebbe. Allora quegli, tutto acceso cominciò a discorrere della sua condanna, a dolersi che gli fosse fatto torto da un non so quale ufficiale subalterno del tribunale, attenuare il suo delitto, e interessare il sacerdote ad impetrargli la grazia, della quale, si vedeva chiaramente, nutriva forte lusinga. Ma questi essendo mandato dalla potestà ecclesiastica, con ufficio di disporlo a ben morire, non volle entrare nella quistone, e venne dirittamente al punto, dicendogli: - Sarà tutto quello che dite: ma credete voi di essere colpevole di avere incendiata la mina, e di aver fatto morire ventiquattro persone, e alcune forse in disgrazia di Dio?

Il Monti rispose con franchezza senza pari: -- Padre, non sono ventiquattro ma ventissette che ho sacrifìcato, questo lo confesso.

- Orbene, mio caro, sapete pure che chi di coltel ferisce, di coltel perisce. Vorrei potervi dare migliore speranza, ma io temo forte, che la grazia, nella quale confidate, possa essere un sogno. Non v'illudete colla grazia temporale, provvedete alla eterna. Forse Iddio vuole che acquistiate la beatitudine del paradiso con questa condanna, che è un mezzo il più doloroso, il più umiliante: ma questo è ancora meglio, che avere la grazia ora, e poi cadere in altri peccati, e dannarvi.

Ci credete voi a queste verità?

- Ci credo. Non ho perduta mai la fede: ho sempre, ogni giorno che fui al mondo, recitato una preghiera alla Madonna del Pianto, e spero mi salverà. Allora il religioso, prendendo animo, gli ragionò a lungo, sopra tutto dipingendogli al vivo la storia di un famoso malfattore, carico di delitti, che, stando in prigione e come lui condannato a morte, fu indotto a fare i santi esercizii, e si confessò generalmente e con tale compunzione, che cominciò a desiderare il supplizio, in espiazione dei suoi peccati; e tanto ardentemente si risolvette di salire al cielo per questa via dolorosa, che essendogli poi offerta la grazia, la ricusò, e pregò Iddio di farlo morire almeno in carcere, di che fu esaudito, e morì lasciando opinione di un santo penitente. Il Monti ascoltava con viva attenzione, e questo esempio gli entrava visibilmente nel cuore.

Sul fine più non potendo resistere alla grazia, ruppe in pianto dirotto, e disse: - Ancora noi abbiamo gli esercizii, e li dà il P. Giuliano Passionista. Anch'io voglio farmi uno confessione generale, e voglio deporre il pensiero della grazia, voglio espiare il mio delitto colla morte, e voglio fare tutto quello che lei mi dirà.

7. Venuto il giorno prefisso, il Monti si trattenne lungamente col confessore e con evidenti segni di perfetta conversione. Prima di ricevere l'assoluzione ebbe pensiero di chiamare due custodi, Luigi Monti e Colombo Pozzi, coi quali aveva preso confidenza, a cagione dei modi umani onde il trattavano, e alla loro presenza volle, per quanto poteva, emendare lo scandalo dato col suo delitto, dichiarando che lo detestava e pregandoli che essi pubblicassero il suo ravvedimento. Supplicò in grazia il confessore, che non l’abbandonasse; e non pago delle ripetute conferenze anteriori, desiderava essere con lui ogni giorno. Al 5 Novembre, cadea la chiusa dei santi esercizii dati dal religioso passionista; ed egli avrebbe voluto accostarsi alla sacra mensa cogli altri condannati. Ma non gli fu concesso dai soprastanti. Adunque, per appagarlo, fu celebrata una Messa dal suo confessore, per lui solo, nella cappella detta del Braccio nuovo. Il penitente se ne valse per abbandonarsi viepiù liberamente alla sua divozione. Si riconciliò di bel nuovo, e durante il santo Sacrificio orava con grande fervore, e a certi tratti, colle braccia levate in croce. Giunto l'istante della Comunione, recitò ad alta voce il Credo, poi si rivolse ad un ufficiale e a tre custodi, e novellamente domandò perdono degli scandali suoi, infine si tolse le scarpe e a piedi ignudi, in segno di penitenza, si accostò all'altare. E i presenti piangevano di tenerezza. In quel giorno, mercè di qualche soccorso mandatogli da pie persone, poté fare più lauta refezione: i soprastanti gli concessero da indi in poi alcun che più di libertà, ed egli diceva candidamente, che era stato questo il più bel giorno della sua vita. Tutti erano maravigliati della profonda mutazione, che traspariva in ogni suo atto, in ogni sua parola. Sopra ogni altra cosa era di stupore, che avendo fino a pochi giorni prima sempre avuto in bocca la grazia sovrana, da indi in poi non ne fece più parola: tanto sinceramente fin da principio aveva rivolto l'animo a morire cristianamente, in penitenza dei suoi falli!

La sentenza, sebbene fosse stata proferita in tribunale il dì 16 Ottobre; com'è scritto nella sentenza stessa, e potesse eseguirsi dopo pochi giorni; pure non fu compilato l'atto, nè presentato al Sovrano se non forse quindici giorni dopo. Ora è stile della giustizia romana, che quando la sentenza è dimorata alquanti giorni sullo scrittoio del Sovrano, e questi non è intervenuto a far grazia (giacché il Sovrano di Roma, nei giudizii capitali, non interviene in alcun modo, fuorché, se vi è ragione, per accordare il perdono), e l'ha renduta senza osservazioni, sia mandata quanto prima ad effetto. Corse anche voce che dovesse eseguirsi il dì 22 Ottobre, anniversario del delitto, e dirimpetto alle ruine tuttavia non ristorate della caserma Serristori: ma questa non fu che una giustificazione della severità, onde il popolo romano aspettava di veder punito un delitto, che lo avea così profondamente commosso. Ad ogni modo il povero Monti riguardò la dilazione come una provvidenza, e ne rendeva continue grazie a Dio come di singolare beneficio: atteso che a questo modo aveva potuto assistere agli esercizii spirituali, predicati dal p. Passionista, del quale mostrava grande stima ed affetto. Volentieri trattenevasi con questo venerabile religioso, col suo confessore e con altri sacerdoti visitatori amorevoli dei carcerati e non era mai sazio di conferire con essi. Né mai era visitato dal suo peculiare assistente, ch'egli non volesse rinnovarsi la grazia della sacramentale confessione. Non contento di discorrere di ciò che allora gli cadesse in mente, appuntavasi in iscritto le cose sulle quali voleva consiglio. Meditava la Passione del divino Redentore, e ne traeva conforto inestimabile pel suo bisogno, e fervore a tollerare i suoi patimenti, dei quali non solo non lamentavasi, ma desiderava accrescerli.

La sua conversione era stata generosa, piena e perfetta: e quindi riusciva consolante a vedere, come tutti i sentimenti di buono sposo; di buon figliuolo, di buon cittadino, di buon cristiano fossero rinnovati in lui e rifioriti per guisa; che anche in qualsiasi altra persona sarebbero paruti più che ordinarii.

8. Pensava molto alla sua povera moglie, che lasciava senza provvedimento di sorta alcuna, giovane e con un bambino di venti mesi. Quante volte vedeva il suo confessore, altrettante parlava di lei e del figlio.

La raccomandava, affinché questi prendessene cura, e soprattutto la indirizzasse al bene dell’anima. Laderelitta Lucia (così chiamasi) si presentava spesso al religioso, col suo bambino in braccio, ed era diventata come stupida, pel caso fatale del marito. Campava con otto baiocchi al giorno, che guadagnava con porgere servizio in una casa, e coi soccorsi della carità cristiana, i quali non le vennero meno. Desiderò il Monti vederla dopo la sua comunione, ma non gli fu permesso dal regolamento; ed egli disse: «Sia fatta la volontà di Dio!» L'ultima volta che il sacerdote andò a visitarlo nella segreta, gli disse: «Che vuol essere, che mia moglie non mi portò i panni? che stesse poco bene? che la creatura stia male? Vegga un poco. Le raccomando il mio Ciro (nome del bambino): quando sarà grande, s'impegni lei per farlo mettere in S. Michele e non altrove.» Preferiva S. Michele, ad ogni altro ospizio di Roma, e questo suo desiderio espresse molte volte. Ora sappiamo che la carità pubblica e privata già ha provveduto e tuttavia provvede. Il S. Padre manifestò il suo animo benefico di dare alla donna e al bambino un convenevole ricovero.

Ancora pesavagli grandemente il pensiero de’ suoi debiti, sia perché non poteva soddisfarli, sia pel timore che i creditori non dessero molestia alla sua vedova. Per mettervi qualche rimedio, scrisse diligentemente la nota de' suoi creditori e dell’avere di ciascheduno (nell’autografo che noi vedemmo, somma il debito totale a scudi 77 e bai 30); affinché si potesse raccomandare il pagamento alla carità dei benefattori, e ne avesse riposo l'anima sua, e quiete la moglie. Il povero Monti dalla setta malvagia, che l'aveva adoperato come strumento di assassinio, e affidatigli tra gli altri i due orrendi misfatti, uno eseguito a Serristori, l’altro simile, attentato alla caserma di Cimarra, era stato ripagato con estrema miseria; tanto che dal 5 Ottobre, giorno in cui si levò dal lavoro, per mettersi interamente al soldo del Cucchi, non potè avanzare un centesimo, e in prigione andava lacero dei panni, come l’ultimo dei pezzenti.

Non avendo altro a lasciare alla vedova: le lasciò una fotografia (l’abbiamo veduta), che una pia dama aveva inviato a lui nel carcere. Rappresenta un Gesù Nazareno e la Madonna del Buon Consiglio; ed egli vi scrisse sul rovescio queste parole di sua mano: «Lucia! quest' immagine è l'eredità che ti lascio. Ricordati di tenerla a caro più della vita mia. Ogni volta che l'avrai in mano, ricordati di pregarla che ti salvi l'anima e che salvi e aiuti il nostro piccolo figlio, e ricordati di me e di chi mi donò la suddetta. Quando Ciro sarà grande, gliela darai. Addio. Sii buona. Tuo Peppe, 10 Novembre 1868.»

9. Il nome del suo piccolo Ciro era continuamente sulle sue labbra, e anche a lui volle lasciare quel solo che poteva, un libretto di Massime eterne; inculcando caldamente al sacerdote che lo visitava, di farglielo pervenire, come quegli fosse giunto all'uso di ragione. Ed ecco le belle parole che il povero padre vi scrisse sopra di suo pugno, e che noi vi leggemmo: «Amato figlio, ti prego tenere questo libretto in memoria dell'infelice padre tuo, ed ogni volta che leggerai questi sentimenti, ricordati di recitare una terza parte di rosario in suffragio dell’anima di tuo padre. Figlio mio!questo libretto è l'unica eredità che ti lascio.

Sappi che ti frutterà il mille per certo. Questo, è stato l'ultimo amico mio più fedele. Figlio mio, fuggi i compagni cattivi, e rifletti che i compagni cattivi mi hanno condotto su di un patibolo. Ama e rispetta dopo Dio e la B. Vergine, la tua cara madre, così sarai felice. Confessati spesso, almeno una volta al mese, e la vendetta che devi fare di tuo padre, sarà di non abbandonare mai questo libretto, e non parlare mai con chicchessia della mia fine, e quando ti faranno questi parlare, ti prego, anzi ti scongiuro, tu voltare via senza rispondere. Figlio mio, quest'è stato l'ultimo mio desiderio, e spero che lo eseguirai. Studiae vivi da vero cristiano, chè Iddio ti aiuterà. Prendi la divozione alla Madonna, e non fare passar giorno che non preghi Maria Santissima che ti faccia eseguire l'ultimo mio desiderio. Rispetta i miei parenti; se ti troverai con essi. Se tua madre tornerà a maritarsi, tu vattene a Fermo, e quando avrai 21 anni ritorna con tua madre, ma non devi mai dimenticarla. Io voglio questo, acciò tu, o amato Ciro, non stii sotto la tutela di un padregno che tu rispetteresti più di tua madre. Ti prego di un'altra cosa, ed è che questo libretto non lo consegni mai a nessuno. È la memoria del padre tuo, che tu non hai potuto conoscere, perché i compagni te ne hanno privato. Figlio mio! se il Signore mi concede la salvezza dell'anima, io pregherò per te, e tu esaudisci ciò che ti ho detto, e spero che non vorrai trasgredire gli ultimi sentimenti del tuo padre. Addio! vivi in pace, e dandoti la S. Benedizione e mille bagi ogni volta che leggerai il suddetto libretto. Addio sono tuo padre Giuseppe Monti.»

10. Travagliavasi di molto dell'acerbissimo dolore, che i suoi vecchi genitori prenderebbero della sua fine infame, e del disonore che ne ricadrebbe sopra tutta la famiglia buona e cristiana. A riparazione di che scrisse, la vigilia della comunione, una lettera, che diede aperta al solito sacerdote, affinché per vie private la facesse pervenire alla destinazione, come fu fatto: ed ecco il tenore della lettera, la quale, attesa la espressa volontà dello scrivente, si può pubblicare:

«Amati miei genitori. Padremio!questa è l'ultima lettera che l'infelice figlio vostro vi scrive. Questa sarà la memoria della infelice mia fine. Tutto ho saputo, quanto avete camminato per la mia salvezza. Padre mio, io ve ne ringrazio, e vi prego di consolarvi e di consolare l'addolorata madre mia mentre sappiate che moltissimi sono stati gl'impegni che gli uomini hanno avuto per me, ma Iddio non vuole che resti impunito un così grave delitto, e perciò vuole che io muoia e salvarmi. Io muoio rassegnatissimo: ho richiesto il mio confessore il p. Blosi che voi conoscete, al quale ho fatto già la confessione generale, e domani Giovedì 5 Novembre mi accosto indegnamente alla mensa eucaristica. Consolate i miei fratelli e la mia sorella. Vi domando in ginocchio perdono di tutti i dispiaceri e disubbidienze che, vi ho fatto, e spero che non vorrete negarmi tanta grazia. Così domando perdono all’amato mio fratello Filippo, ed io perdono di ciò che per nulla ci fece irare fra noi. Domando perdono a tutti e tre o amati fratelli e sorella, di tutti gli scandali che vi ho dato. Spero che non vorrete negarmi il perdono che di vero cuore io reciprocamente vi mando. Vi prego di non abbandonare i nostri amati genitori e consolarli in questo gran dispiacere, e aiutarli nella loro vecchiaia. O madre mia! qual contentezza sarebbe stata per me, abbracciarvi per l'ultima volta. Mi consolo però che ci abbracceremo in paradiso. Consolatevi e pregate Dio, che salvi l'anima dell’infelice vostro figlio, e bacio almeno col desiderio le vostre mani, o miei genitori, e vi chiedo la S. Benedizione. Vi raccomando il mio figlio Ciro, l'infelice Lucia mia consorte. Addio, Addio. Non posso più scrivere. Vostro figlio Giuseppe Monti.»                

11. Che se il Monti si risovvenne del debito di buon figliuolo verso i parenti per sangue, molto più ebbe a cuore il dover suo verso il Padre universale dei fedeli. Non aveva messo mano ai delitti per istudio di parte, e molto meno per odio al suo Sovrano: ma solo trascinatevi dalla catena di setta, e per quella crudele necessità, che nasce da un primo passo messo in sul pendio del precipizio; ed è incredibile a dirsi, quanto si aflliggesse della fellonia contro il Santo Padre. Pertanto nelle ore dopo la comunione, il giorno 5 Novembre, senza che niuno ve lo esortasse, pensò di chiedere scusa anche a lui. Disse poi di avere ciò fatto, anche per rallegrare il cuore del Santo Padre, dandogli a conoscere la propria conversione. Mostrò in questo un sincero e delicatissimo sentimento: poiché temendo non forse paresse, che con quell'atto egli dimandasse la grazia, della quale aveva smesso al tutto ogni pensiero, nel consegnare la lettera al sacerdote suo confidente, gli fece promettere che la lettera non sarebbe presentata al Pontefice prima della morte sua.

Noi già ne pubblicammo il testo, sull'autografo stesso del Monti, nel quaderno antecedente, a pag 617. Basterebbe questa lettera anche sola a smentire i suoi calunniatori, che tentarono far credere, il Monti essere andato a morire impenitente, e con in bocca discorsi di settario ostinato. Di siffatte cose mostrava anzi un orrore sommo, conoscendo a prova, che senza la perversità delle sette, non sarebbe dirovinato nel baratro di sventure ove gemeva. E non solo parlavane così col suo confessore, ma eziandio con altri, che ce ne diedero testimonianza. Di spacciare lettere politiche, neppure un’ombra di pensiero caddegli in mente: e gli scritti suoi, dopo la sentenza di morte, sono tutti pieni di spirituale ravvedimento. Quanto alla lettera o piuttosto supplica e ammenda indirizzata al Santo Padre, questa era scritta in foglio aperto. Il Sacerdote ritennela nel portafogli fino all’ultimo giorno: e il Monti, poche ore prima di muoversi dalle carceri per andare al patibolo, gli dimandò con viva istanza, se avrebbe poi consegnata la lettera. Allora questi la trasse fuori, alla presenza degli astanti, confratelli ed altri, e gliela mostrò, dicendogli: «Questa mattina, quando tu sarai in cielo, questa lettera sarà deposta ai piedi del Santo Padre.» Di che il Monti si mostrò molto soddisfatto.

La carta fu tosto consegnata a Monsig. Samminiatelli, Cameriere secreto di Sua Santità, che anch’esso essendo confratello della Misericordia, e concorso cogli altri gentiluomini al pietoso ufficio di confortatore, trovavasi presente e colle divise della Confraternita. Questi promise di eseguire la volontà del Monti entro poche ore: e così fece. Il Santo Padre poi, facendo ragione al manifestato desiderio del penitente, permise che si pubblicasse, per comune edificazione.

Alcuni osarono gittar dubbio sull'autenticità di questa scrittura: ma noi crederemmo fallire al decoro, se anche solo tentassimo di addurre ragioni o altri testimonii, mentre abbiamo cogli occhi nostri veduto l'autografo: autografo rimesso ad un prelato illustre da un venerando uomo, in presenza di persone qualificate, autografo concorde con gli altri atti pubblici dello scrivente, e sportoci con degnazione sovrana da una mano, di cui non vi è più augusta e veneranda sulla terra. Non iscriviamo qui per discutere, molto meno per convincere gli uomini di mala fede: sì solo per edificare i fedeli.         

12. E certo riuscì in tutta Roma di singolare esempio: perciocchè anche volendo chiedere perdono al Santo Padre, non era necessario che il Monti si accusasse pubblicamente per Carbonaro. In questo si vide la generosità del suo animo veramente ravveduto. E ancora si scorge nello scritto il desiderio grande che eragli surto nell'animo, di riparare come che si fosse allo scandalo dato, richiamando altrui dal cattivo sentiero. La carità del prossimo brillava in tutte le sue azioni coglieva a volo le occasioni tutte di operar qualche bene, e si angustiava di non poter rimeritare quelli che facevano del bene a lui.

Spesso, anche nell’ultimo e col pensiero della morte già imminente, diceva: «Non so come ringraziare i custodi dai quali ricevo tanti piaceri: non mi negano cosa alcuna che mi abbisogni, e ci rimettono della borsa poveretti!».

Or ecco perché costoro mostravansi così cortesi. Parrà incredibile, e pure è certo, che tale era l’edificazione ch’egli dava colla sua condotta, che nelle Carceri Nuove, soprastanti e custodi gli avevano sul fine posto come una specie di venerazione, e non si peritavano di dire: «Pover'uomo! non si conosce più: ora sembra un angelo.» E questo il sappiamo da chi lo intese più volte dalla loro bocca.

Alcuni mesi addietro era stato all'infermeria delle carceri, e un camerata condannato a più anni di detenzione lo aveva servito da infermiere con molto affetto. Il Monti si appenava di non poterlo ricompensare. Perciò non cessava di raccomandarlo al confessore, affinché questi si interessasse per colui. Venuti i signori della Confraternita per confortarlo all'estremo della vita, non si scordò, in sì ferale distretta, del suo infermiere; e conoscendo che essi principi e prelati, potrebbero di molto giovargli colle loro intercessioni, li pregò affinché, porgendosi l’occasione propizia, pagassero essi il suo debito di riconoscenza, impetrando al povero condannato una diminuzione di pena; ne si quietò finché non gli fu promesso, che sarebbe fatto secondo il suo desiderio.

Gli era stato aggiunto per compagno di segreta un giovane inquisito di furto. Costui era rozzo e ignorante assai. Il Monti prese a insegnargli la Dottrina cristiana, che esso sapeva benissimo; gli veniva suggerendo buoni consigli; ed esortavalo a confessarsi e confessarsi bene. Ottenne pienamente il suo intento. Il che gli riuscì d'incomparabile consolazione: perciocchè gli sembrava conquesto di soddisfare alla divina giustizia, per coloro ch’egli aveva così scelleratamente (com'egli stesso diceva) messo a morte, privandoli perfino dei sacramenti; della quale ultima circostanza manifestava profondo sentimento e dolore. Spesse volte altresì ripeteva: «Povera Rosina! che male avevi tu fatto?» e voleva compiangere una bambina di sei anni, così chiamata, rimasa oppressa sotto le ruine della caserma Serristori.

13. Ma egli anelava a giovare anche più vastamente, massime alla gioventù, e però si pose in cuore di recitare sul palco del supplizio una arringa. La scrisse tutto da sé, e tenevala studiosamente apparecchiata, per leggerla in quest'estremo momento. Di poi riflettendo che forse ciò non sarebbegli facilmente riuscito, si risolvette di leggerla alla presenza di molti assistenti prima della sua Comunione per Viatico, e a questo fine recavalasi in petto, quando fu tradotto alla prima conforteria. Gli fu fatto osservare, che non praticandosi altrettanto dal suo compagno di sciagura, questi potrebbe averne non so quale dispiacere. Si rendette, ma non dismise interamente il pensiero: solo il cambiò affidando la carta al suo confessore, e incaricandolo di dare la maggiore pubblicità possibile allo scritto; che egli intitolava; Testamento spirituale. Eccolo fedelmente ricopiato.

- «Io Giuseppe Monti da Fermo, d'anni 33, nell'atto di salire sul palco di morte, dove dovrò tra poco espiare il mio delitto e comparire tosto al tribunale dell'Altissimo, rivolgo a tutti gli uomini della terra queste ultime parole, che desidero siano tradotte in tutte le lingue, affinché la mia morte tragga molti e molti dalla via della iniquità.      

Condotto dal mio delitto a morire per mano del carnefice, prima di esalare l’ultimo spirito, a voi tutti a cui è arrivato all'orecchio la notizia del mio delitto a Serristori, rivolgo spontaneamente queste mie parole, mestamente nel carcere, dove più volte, anche in presenza di testimonii, ho esecrato la mia condotta.

Se io avessi seguito la mia coscienza, le voci della religione, le prime massime avute nella mia infanzia dai miei buoni vecchi genitori che lascio immersi nel più acerbo cordoglio, se avessi fuggito i cattivi compagni, non mi sarei condotto a questo passo.

Lo conosco, ma troppo tardi, quindi mi rivolgo a voi che avete preso scandalo dal mio operato e vi domando perdono. Deh, siete amanti della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, fuori della quale non vi è salute.

Ah, quali consolazioni ha avuto l'anima mia da più giorni, in cui mi sono accostato ai santi Sacramenti istituiti da nostro Signor Gesù Cristo! La sola religione cattolica apre le porte del cielo ai suoi credenti: tutte le sètte non hanno che inganno, assassinio e morte.

Io ho già scritto al sommo Pontefice mio Sovrano, chiedendogli perdono della fellonia e assassinio da me commessi, e pregandolo che facesse pubblici i miei sentimenti.

Dunque voi tutti che mi avete imitato nella colpa, imitatemi nella penitenza, praticate la religione cattolica, locchè si ottiene colla frequenza ai Sacramenti, coll’intervenire alla dottrina cristiana, alla spiegazione del Vangelo, coll’astenersi dalla maledetta bestemmia, coll’onorare i superiori, col fuggire le compagnie cattive e coll’essere devoti della Madonna del Pianto (Titolo di Santuario divotissimo in Fermo, e altrove). Una piccola divozione, fatta ogni giorno alla Madonna, mi ha salvato.

Leggete libri buoni. La lettura dei buoni libri, fatta nell'anno dellamia detenzione, mi ha illuminato l'intelletto e mi ha mutato il cuore.

Confortato dai Sacramenti desidero espiare colla morte il mio delitto.

Spero pei meriti di Gesù Cristo, di Maria Santissima, di S. Giuseppe, di cui porto indegnamente il nome, di andar in paradiso. Ma se Dio benedetto volesse che penassi qualche tempo in purgatorio, santi sacerdoti, buoni cristiani, mi raccomando alle vostre orazioni.

Ringrazio i custodi che mi hanno usato tanta carità: ringrazio tutti quelli che mi hanno prestato assistenza. Perdono a tutti quelli che mi (hanno) fatto del male, come desidero che loroperdonino a me i miei mancamenti, e che sopra ogni cosa Dio perdoni a me, povero peccatore. Così spero udirmi nel cuore quelle parole che Gesù Cristo (disse) al buon Ladro: Oggi sarai meco in paradiso. Giuseppe Monti

Dal contesto medesimo di questo scritto, si scorge ch'egli avevalo con grande studio apparecchiato, per gli estremi momenti. Ma anche senza tale recitazione, riuscirono questi, oltre ogni dire, edificanti.

14. Ha differenza del Tognetti, il Monti seppe sicuramente la decretata esecuzione fin dalla mattina del giorno precedente. Fu provvidenza di Dio. Il suo confessore, avvertito dell'imminente supplizio, si recò da lui il giorno di domenica, 22 Novembre, e il dispose quanto poté, e lasciògli ancora un buon soccorso in danaro e un regalo di sigari; ma tacque al tutto la fatale notizia.

Il giorno seguente non fu possibile celarla più oltre. Ed ecco in qual modo egli venne a capo di risapere quello che bramava e temeva al tempo istesso. Quel venerabile sacerdote, che sopra dicemmo essere stato incaricato di disporre il Tognetti prossimamente alla morte, dopo dette alcune parole a costui, opportune al bisogno, senza svelare chiaramente il segreto; passò a visitare il Monti.

Trovollo tuttavia seduto sul letto, e di questa novità chiesegli la cagione.

- Padre rispose quegli, già da più ore sono sveglio, ma sono stato così per dirmi tutte le mie orazioni e preghiere con più raccoglimento. - Poi chiamando più presso a sè il ministro di Dio, gli dimandò confidentemente: - C'è nulla di nuovo?

- Che vuoi che ti dica, figlio mio? per ora non ti posso dir nulla.

Ed il Monti, che accorto era e pronto: - Padre Giuliano, a me sta in capo che domani mattina si eseguirà la sentenza. E vero? C’indovino?

Il religioso si strinse nelle spalle, nè seppe altro rispondere. Allora quegli ripigliò: - Via, me lo dica pure, chè a me non fa nulla: anzi, se me lo dice, mi fa una carità, perché così non mi farà tanto senso quando verranno i custodi ad ammanettarmi, ed anche perché così oggi me ne sto più raccolto, e passero la notte in orazione e più unito con Dio.

Il buon sacerdote vedendo sì straordinarie disposizioni, credette prudentemente poter passarsi delle regole ordinarie, però soggiunse:

- E bene, Monti mio caro stattene, pure raccolto in Dio e in orazione perché dimani, come spero nella misericordia del Signore, sarai unito con lui nella beata eternità.

Non fece segno di sbigottimento alcuno il povero condannato: ma prese la mano del sacerdote, la strinse fortemente, alzando gli occhi al cielo; e poi baciando replicatamente la mano: - Padre, disse, io la ringrazio tanto, tanto ... Mi raccomandi al Signore.

Interrogato dipoi la mattina della sua morte, se quel terribile annunzio l'avesse messo in agitazione: - No, rispose egli, anzi mi è servito per prepararmi. Non sono andato a dormire ier sera, ho fatto orazione tutta la notte. - Fece anche meglio: perciocchè dopo la fatale rivelazione avendo veduto il custode Luigi Monti, gli disse, che egli presentiva la intìma da farsegli nella prossima notte, e lo pregava di volerlo ammanettare ad un’ora di notte; e condurlo nella cappella, affine di aspettare il Capitano dinanzi all’altare, e quivi ascoltare la lettura della sentenza. Il custode restò ammirato di tale proposta, ma non ardì esaudirla di suo arbitrio: e il Monti ne ebbe solo il merito dinanzi a Dio. Allorchè giunta la Confraternita della Misericordia, e aperta la conforteria, si presentarono i custodi per ammanettare il Monti e condurlo ad ascoltare la fatale lettura, il trovarono che già li attendeva in preghiera. Lasciò egli a costoro compiere il loro dovere, poscia udita la sentenza, disse: «Signore, ti ringrazio: io merito anche peggio... Sia fatta la tua santa volontà!»

15. Allora fu rimesso nelle mani dei confortatori, e condotto alla conforteria, per passare poi alla cappella, e farvi le sue divozioni, come si disse di sopra parlando del Tognetti. La prima cosa, entrando in conforteria, fu domandare a voce alta e con somma ansietà al confratello Provveditore, che gli facesse venire, al più tosto possibile, il suo confessore. Del resto era tranquillo e rassegnato alla sua sorte. Solo rammaricavasi pensando alla moglie ed al tenero figliuolo: e per sollevarlo da questa angoscia, il confessore promisegli che ne prenderebbe sollecitudine egli medesimo, e attesa la carità romana, non mancherebbe ospizio per l'una e per l'altro.

Desiderò riconciliarsi novellamente in confessione: il che fu fatto in pochi istanti, avendo già, nei giorni precedenti, soddisfatto a sè stesso. Dopo di che il confessore, che aveva notata la divozione singolare del penitente verso la Madonna del Pianto, veneratissima in Fermo, patria di lui, trasse fuori un quadretto in cui posta aveva la immagine appunto della Madonna del Pianto. Fu come un’apparizione celeste: il povero condannato la prese in mano, se la strinse al petto, la stampava di caldi baci, e cominciò a voce alta un colloquio tenerissimo, come se dalla patria fosse venuta la Vergine benedetta a consolare le sue agonie. «Cara Madre, sclamava egli pur continuando a baciare la immagine, quanti anni sono che non ti ho veduto!... Ah, ti sei ricordata di me, nel mio grande bisogno... Ah, quanto ti ringrazio... Sei proprio venuta per aiutarmi?... Che sii benedetta, cara Madre del Pianto.» Con queste e simili parole, ch'egli proferiva con animo infocato; si trattenne a suo bell'agio, e finalmente si pose l'immagine in seno, e quando levossi per assistere ginocchioni alla S. Messa, la collocò a suo fianco sulla balaustrata, nè più volle dividerla da sè, sino all'ultimo istante della vita.

Allora pure ebbe il colloquio col Tognetti, di cui sopra parlammo, e si interessò perchè fosse ricapitata dopo la sua morte, la lettera di scusa al S. Padre, e divulgato, com'esso esprimevasi, per tutto il mondo il suo Testamento spirituale. «Vorrei diceva egli con grande spirito, vorrei che i cattivi cessassero di pervertire i poveri figli di madre (modo romanesco, per significare la gioventù, in generale). Sarebbe tempo di farla finita.» E più volte ancora ripetè: «Oh potessi convertire tutto il mondo!»

I Confratelli il condussero in una stanza vicina, dov’era, giusta il consueto, il Provveditore, il quale suol fare da notaio, e altri della confraternita, che servono come testimonii, affine di ricevere legalmente le sue ultime volontà. Ed ecco alcuni brani dell'atto, di cui abbiamo veduto l'originale, ed è tutto di pugno del confratello Provveditore, D. Giovanni de' principi Chigi, e che sarà trascritto ne' registri della Confraternita. «Disse, essere suo desiderio, dopo la morte sua, di voler far sapere di esser morto da buon cristiano; e domanda loro (ai parenti) perdono di tutto in che abbia potuto offenderli... Disse non dover dar nulla ad alcuno (aveva già provveduto, come sopra fu detto). Protestò morire da buon cristiano, rassegnato alla volontà di Dio, domandando a tutti perdono. Raccomanda alla Confraternita la povera sua infelice consorte Lucia, e il suo figlio Ciro, di 20 mesi, onde per quello che dalla Confraternita si potrà fare, non manchino di soccorso.»

Questo primo atto è sottoscritto dal paziente, con mano sicura e per nulla tremante, col solo nome Giuseppe Monti. Ma poco di poi fu preso da un novello pensiero, e si dovette stendere una giunta in questi termini: «Il paziente Giuseppe Monti, prima di ricevere la S. Comunione, rinnova a tutti il suo animo di perdonare a chiunque gli avesse recato qualunque offesa: ed accetta con cristiana rassegnazione anche la morte; e prega che questo suo atto, se fosse possibile, fosse noto a tutto il mondo, onde potesse servire di lume a quanti l’avessero imitato o volessero imitarlo ne’ suoi falli. Di più, dichiara essere state somme le grazie con le quali il Signore l'ha aiutato in tutto il tempo che è stato nella carcere; e specialmente in questi momenti, che per esso sono gli estremi.» Qui il Monti sottoscrisse con mano egualmente ferma: «Giuseppe Monti, mano propria confermo quando (sic)sopra.» Il quale atto conosciutosi dal Tognetti, che ivi presso era, volle anch'egli formarne uno somigliante: e fu incontanente copiato quello del Monti a piè del testamento del Tognetti, e da costui sottoscritto.

Dopo atti sì nobili e cristiani, alle ore due e mezzo, secondo il privilegio dell’Arciconfraternita, cominciò la celebrazione delle Messe per la santa Comunione.

16. Prima di muovere per l'ultima conforteria fu offerto ai pazienti un convenevole ristoro. Inoltre avvenne un piccolo incidente, che alcuni malamente travisarono, e noi, non iscrivendo qui per contrastare, ci contenteremo di ridurlo alla pura verità. Avevano i Confratelli con somma carità disposto, che l'ultimo a morire non fosse amareggiato dalla vista del precedente supplizio del compagno, e neanche il vedesse andare al palco. Perciò eressero due conforterie sul luogo, situate così, che una non vedesse l'altra; e i pazienti ci andarono in due distinte carrozze. In quella che vi dovean salire i pazienti, due Gendarmi si presentarono per prender posto al loro fianco. Vi si oppose il signor Garinei aiuto del Provveditore della Confraternita, adducendo il contrario uso della Confraternita, la quale dal punto dell’intimata sentenza in poi, sola si accosta al condannato, e giudica da sè, quando convenga richiedere la presenza della forza armata, e quando sia superflua. Fu riferita la differenza al Provveditore. È da notare che l'autorità del Provveditore in questi casi è somma. Si vede più volte colla sua parola fermare eziandio l'esecuzione della giustizia, e sospenderla per più ore, quando egli lo reputa necessario alla salute eterna del paziente. Cotale arbitrio gli viene ordinariamente commesso dal Pontefice. Il. Provveditore adunque giudicò non essere necessaria la presenza dei Gendarmi nelle carrozze, attese le disposizioni cristiane dei pazienti. Dall'altra parte non potevano cedere i Gendarmi, avendo la consegna di accompagnare i pazienti. Onde fu d'uopo ricorrere al superiore loro, il quale, appena accennato del contrario uso della Confraternita, con somma cortesia, desistette.

Molto meno ci tratterremo a smentire la pretesa barbarie, commessa contro i pazienti, nell'annunzio della loro vicina morte, dato con ipocrite parole sulle cantonate. In Roma tutti conoscono le così elette Tavolozze, che non si composero a bello studio per Monti e Tognetti, ma sono tavole di legno, che si conservano nelle Confraternite, sempre le medesime, se non in quanto loro si aggiunge un biglietto, manoscritto o stampato, col nome del paziente e il delitto per cui va a morire. In esse s’invita il popolo a pregare per la buona morte de’ pazienti. Ed è uso pietosissimo, degno di essere imitato dovunque si crede che l'uomo, anche reo di qualsiasi misfatto, ha tuttavia un’anima redenta col Sangue di Gesù Cristo. Le potestà politiche, giudiziarie, civili, in Roma non hanno che vedere colle Tavolozze; queste sono invece tutto opera della pietà cristiana, la quale s'interessa alla salute eterna di coloro, cui la legge ha già giudicato a perdere la vita temporale. E il buon popolo romano in fatti accorre alle chiese per cotesto: e chi non può, prega in famiglia. E quando poi ode dire, che i pazienti hanno dato segno di ravvedimento, ciascuno respira e si consola: laddove se ciò non accade, raddoppia le orazioni con somma ansietà, e si attrista, se non ottiene (caso rarissimo) il suo intento.

17. Appena giunto il Monti alla conforteria presso il patibolo, non avendo veduto quale milizia fosse venuta per assistere, ne dimandò ai confratelli assistenti; e ripostogli che i Zuavi erano presenti: - Tanto meglio, soggiunse egli; bramerei parlare col loro Capo. - È da notare che ve n’erano due battaglioni, incaricati di formare il quadrato, e non più, com’altri scrisse; delle altre armi poi un distaccamento per ciascheduna, secondo l'ordinario. Il confratello marchese D. Giovanni Patrizi si mosse adunque per contentare il povero paziente. Comandava i Zuavi il tenente colonello di Charette, il quale aveva fatto il possibile per non intervenire neppure al supplizio, e non vi si era condotto altrimenti che forzato dal regolamento, e per non iscaricare sopr’altri quel penoso ufficio: pure appena udito il desiderio dell’infelice moribondo, consentì ad appagarlo.

Entrò in conforteria in quella che il Monti, avendo già fatta la professione di fede, e altri atti preparatorii alla morte cristiana, recitava a voce alta, e con incredibile affetto di umiltà e di compunzione il famoso Atto di contrizione del Vener. Paolo Segneri: i circostanti erano tutti lacrimosi, un religioso della Madre di Dio, confratello della Misericordia anch’esso, piangeva come un fanciullo: e il di Charette fu commosso profondamente. E molto più, allorchè il Monti si rivolse a lui supplicandolo del perdono, e pregandolo replicatamente di far noto il suo pentimento al Reggimento dei Zuavi. Ma nulla tanto l'intenerì, quanto il raccomandare che il Monti fece alla pietà dei Zuavi la moglie sua poveretta e il figlio, e chiedere al colonnello, di dargli un segno del suo perdono. Fu allora che il colonnello dei Zuavi lo abbracciò e gli diede il bacio del perdono, dicendogli: «Noi tutti vi abbiam perdonato, siatene certo, e ai vostri cari già i Zuavi hanno pensato.» E uscì sclamando: «Povero disgraziato!» E fece tosto distendere un breve rapporto, ch'egli gentilmente volle comunicare anche a noi, accompagnato di una lettera autografa: la colletta per via di sottoscrizione era già cominciata.

A noi sembra che questo atto del Monti, il quale, condotto presso al palco ferale, non vuole comparire al tribunale di Dio senza il perdono degli Zuavi, e l'atto del Colonnello di questi che gliel’accorda con tali circostanze, sieno una storia sublime, e degna di pennello quanto ogni altra. Sarebbe atta a rivelare i frutti e la bellezza della giustizia civile, cristianamente confortata dalla misericordia religiosa; e nel tempo stesso a commendare la memoria del povero Monti, più assai che non tutti i gridori di mal cauti complici, per istrappargli di fronte l'aureola della penitenza, suo unico onore.

18. Venuto il Ministro di giustizia per approntare il Monti all'estrema comparsa, questi porse il capo ad essere tosato, e disse: «Unisco questa umiliazione alla Coronazione di spine.» E mentre il legavano: «Unisco questa umiliazione alle funi onde fu legato Gesù Cristo.» Chiese di salire il palco a piedi scalzi, e da sé stesso levossi le scarpe. Dimandò ancora se fosse più mortificazione andare a morire bendato, o libero. Risposegli il Cappellano della Confraternita, che certo sarebbe più acerbità vedersi la morte ad occhi aperti: il Monti rifiutò subito le bende. A questo modo, con passo fermo, ma senza baldanza, si avviò. Gli occhi teneva raccolti sul Crocifisso e sulla Madonna del Pianto, che gli portavano dinanzi al volto i due sacerdoti che l'accompagnavano, ed erano il confessore e il predetto cappellano, Monsignor Pigliacelli. Spesso ancora volgevasi cogli occhi al cielo; e allorchè fu mostra la sua testa al popolo, teneva tuttavia le pupille aperte.

Il Cappellano, disse dal palco alcune poche parole, e non altro che in commendazione dei due defunti: e i pietosi Confratelli levarono i corpi per le esequie e per la sepoltura. Ci disse uno degli assistenti: «Ho dovuto assistere a molte morti di malfattori: non ho mai visto sì esemplari disposizioni nei pazienti, né mai altrettanto commovimento religioso nei circostanti: fu un vero trionfo della misericordia di Dio, più che della giustizia degli uomini. Il popolo guardava con ansietà i ministri di Dio nel ritorno, e con una specie di soddisfazione pareva dire: Vi ringraziamo del bene fatto a quegli sventurati.» Noi non li chiameremo più sventurati: la fede c’insegna che il perdono di Dio, non pure ricopre d'un velo la colpa, ma la scancella e l’annienta; e il più colpevole degli uomini, dopo quel perdono onnipotente, non è più altro che un amico di Dio, e, nell’altra Vita, un'anima gloriosa in sempiterno.