La patria italiana degli ebrei di Libia, di Francesca Nunberg
Riprendiamo da Il Messaggero del 6/6/2017 un articolo di Francesca Nunberg. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ebraismo.
Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)
L'ANNIVERSARIO
Tra i cinquemila ebrei espulsi dalla Libia cinquant'anni fa, c'era anche David Zard, testa calda già da allora: «Non siamo stati espulsi, siamo fuggiti per non essere uccisi. A 24 anni ero agente pubblicitario alla Fiera di Tripoli, giocavo a dama al bar coi cocchieri arabi, avevano la radio sempre accesa, mi dicevano guarda che Nasser sta vincendo la guerra, è la volta buona che vi buttiamo tutti a mare... Facevo un gestaccio e me ne andavo. Ma quando dissero a mio zio che il primo della lista ero io, ho capito che non potevo restare. Sono arrivato in Italia due giorni prima che scoppiasse la Guerra dei sei giorni e ho aspettato gli altri». Così Zard, che ha portato in Italia Bob Dylan e Madonna, le prime persone che si trovò ad accogliere a Fiumicino furono i suoi correligionari in fuga dalla Libia.
LA PROIEZIONE L'impresario ricorda quei giorni nel docufilm Libia. L'ultimo esodo diretto da Ruggero Gabbai e realizzato con lo psicanalista David Meghnagi, docente e assessore alla Cultura dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, nonché testimone diretto dei fatti. La presentazione stasera alle 20 in anteprima al cinema di Orfeo di Milano e prossimamente a Roma. Fuori del film Zard racconta di come cominciò subito ad amare la nuova patria «mentre gli italiani di Tripoli erano ancora mezzi fascisti».
«Ma in Libia non ho più messo piede. Quando Gheddafi anni dopo venne in Italia e invitò i tripolini a tornare perchè ogni Paese ha bisogno dei suoi ebrei ho pensato che avrei visitato la tomba di mio padre, ma il cimitero era distrutto e le ossa sparpagliate. Mi dissero che avrei riavuto le mie proprietà e gli stessi diritti dei musulmani, così chiesi all'ambasciatore se avrei potuto anche fare il primo ministro. E lui mi rispose: Non esagerare, sempre ebreo sei».
E così gli altri. Quasi nessuno dei cinquemila ebrei costretti a fuggire dalla Libia per il pogrom scoppiato all'indomani della Guerra dei sei giorni (5-10 giugno 67) ha più rivisto quelle strade, il lungomare, i negozi del quartiere popolare della Hara, le sinagoghe. Anche perché quasi tutto è stato distrutto in quei giorni.
Lutto non elaborato, trauma, paura: le parole in questi cinquant'anni si sono sprecate. Nel film si mescolano i destini dei cittadini italiani cresciuti in Libia e le voci degli ebrei. L'aspetto più impressionante è l'ineluttabilità. «Avevamo i bauli pronti - dice Meghnagi - Sono cresciuto con la percezione che la nostra storia lì volgeva al termine, i miei parenti erano già andati in Israele nel 48 e nel 51, degli oltre 35mila ebrei, nel 67 ne rimanevano solo cinquemila. Il pogrom non è stato una sorpresa, le case degli ebrei erano segnate, la radio da giorni annunciava l'imminente distruzione di Israele. Il 5 giugno tutti intorno a noi erano in festa, dicevano che Tel Aviv era in fiamme... Ci siamo chiusi nel nostro palazzo e con noi si sono salvate 52 persone. Due famiglie di amici, i Luzon e i Raccah, sono state trucidate. Dopo un mese abbiamo lasciato la Libia con l'aiuto del governo italiano».
NELLA CAPITALE E poi il caso che non è mai un caso ha voluto che i tremila tripolini sbarcati a Roma siano andati a vivere nel quartiere Africano: viale Libia, via Bengasi, via Tripolitania dove si trova una delle quattro sinagoghe di rito tripolino delle dieci romane. Anche di terza generazione si autodefiniscono tripolini, una comunità nella comunità, «uno status symbol positivo, con uno slittamento semantico dell'identità per non essere omologati - spiega Meghnagi - mentre quando vanno in Israele si definiscono italiani». A piazza Bologna ci sono ristoranti, macellerie kasher, perfino la dolceria con le specialità tripoline, l'orzata, le bocche di dama, la safra con semola miele e uvetta. É stato ricreato un modello di vita: a Roma nulla ci ricordava Tripoli se non noi stessi, dicono. «Ciò che era bello della mia infanzia - aggiunge Meghnagi - l'ho portato con me: i canti, la bellezza del mare, i legami personali. Ho giurato a me stesso che non avrei mai coltivato il rancore».
LA BUROCRAZIA Il ricordo del passato, doveroso, ma anche un urgente richiamo all'oggi: «Sono passati 50 anni - spiega - ma i cittadini italiani ebrei che risiedono in Israele hanno difficoltà a iscriversi all'Aire perché non hanno l'originale del certificato di nascita, così come molti italiani nati in Libia hanno problemi al rinnovo del passaporto. Una circolare del ministero degli Esteri renderebbe più semplice la procedura». «Era urgente fare un film sulla Libia, è una storia molto italiana. Abbiamo raccolto 27 testimonianze tra Italia e Israele, un modo efficace per rileggere la storia e le diverse identità dell'ebraismo del Mediterraneo», spiega Ruggero Gabbai, regista del film prodotto da Forma International e finanziato da un pool di investitori privati. «Ora speriamo lo prenda la Rai», dice Gabbai che spiega le tre dediche: a Giulio Hassan, che rimase quattro anni rinchiuso nelle prigioni di Gheddafi; alla judoka israeliana Yarden Gerbi, medaglia di bronzo a Rio; a Gino Mantin che ebbe il coraggio di tornare in Libia per recuperare cento Sefarim, i rotoli della Legge, dalle sinagoghe distrutte.
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