1/ L’oratorio estivo è Iniziazione cristiana. L’anno catechistico non è finito: prosegue con gli oratori e i campi estivi, se la catechesi non è “scolastica”. Una nuova collaborazione fra l’Ufficio catechistico e il Centro Oratori Romani. Breve nota di Andrea Lonardo 2/ L’anello di Prisco: un sussidio che si ambienta a Roma. Brevi note di Andrea Lonardo 3/ Le catechesi per le 4 settimane de L’anello di Prisco, di suor Pina Ester De Prisco 4/ STRUTTURA della PREGHIERA per l'ORES 2017
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1/ L’oratorio estivo è Iniziazione cristiana. L’anno catechistico non è finito: prosegue con gli oratori e i campi estivi, se la catechesi non è “scolastica”. Una nuova collaborazione fra l’Ufficio catechistico e il Centro Oratori Romani. Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti sull'Iniziazione cristiana e sull'oratorio, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)
L’oratorio estivo è Iniziazione cristiana. L’oratorio estivo (si chiami esso ORES, oratorio estivo, gruppo estivo, GREST, campo estivo, centro estivo, poco importa) è la prosecuzione dell’Iniziazione cristiana da giugno a settembre. Ovviamente l’oratorio estivo non è solo questo, perché ad esso partecipano anche bambini più piccoli o più grandi. Ma l’oratorio estivo è anche Iniziazione cristiana. Lo è per i bambini, che in massima parte sono gli stessi che si preparano alla celebrazione dei Sacramenti, lo è per i ragazzi animatori e aiuto-animatori che spesso sono i ragazzi dei gruppi della Cresima o appena cresimati che scoprono il servizio, che si mettono a disposizione gratuitamente per amore dei più piccoli.
Dove invece l’oratorio estivo fosse sganciato dalla catechesi di Iniziazione cristiana la comunità perderebbe una grande occasione formativa. Non si accorgerebbe, infatti, che le persone che partecipano durante l’anno al cammino della catechesi sono le stesse che durante l’estate vivono nell’oratorio estivo. Serve, invece, che qualcuno li aiuti a comprendere che sono due modalità diverse di uno stesso cammino di fede.
Dall’anno pastorale 2016/2017 l’Ufficio catechistico di Roma e il Centro Oratori Romani (COR) collaborano per preparare unitariamente un sussidio per gli oratori estivi che risponda alle esigenze sia dell’Iniziazione cristiana che degli oratori stessi. È una novità che l’oratorio estivo sia progettato congiuntamente dai responsabili di oratori e dall’Ufficio catechistico, perché è abituale che l’oratorio sia invece maggiormente collegato con la pastorale giovanile.
L’elaborazione comune del sussidio ha portato ad aprire una feconda discussione su cosa comporti per i catechisti dell’Iniziazione cristiana comprendere che l’oratorio estivo ne è parte integrante. Si è posta così la questione della messa domenicale a giugno e settembre: la comunità non può non proporre un orario specifico per la messa domenicale sia per gli animatori che sono i ragazzi delle Cresime, sia per i bambini dell’oratorio estivo che sono quelli della tappa delle Comunioni. Il suggerimento è stato quello di porre la messa dell’oratorio estivo alla domenica sera e che essa sia celebrata dallo stesso sacerdote che abitualmente celebra la messa della domenica mattina con gli stessi bambini e ragazzi che ora verranno invitati alla messa serale per tutta l’estate, con le loro famiglie. In questo modo la messa domenicale viene posta al centro dell’oratorio estivo perché la proposta estiva continui la linea della catechesi annuale, che insiste sul fatto che la messa domenicale è più importante delle riunioni stesse.
Anche la preghiera del mattino e della sera degli oratori estivi diviene parte integrante del cammino di Iniziazione cristiana. Si è fatta la scelta che l’oratorio sia una introduzione alla preghiera della Chiesa, per quanto semplice, e che prosegua l’iniziazione alla preghiera del cammino delle Comunioni e delle Cresime. In particolare si è proposto nel sussidio che i bambini imparino a pregare con un salmo delle Lodi mattutine del giorno recitato a due cori, maschi e femmine, che ogni mattina si preghi il Benedictus e ogni sera il Magnificat e che ogni giorno si preghi con un’invocazione allo Spirto Santo e un’antifone mariana, ripetendo nei diversi giorni le più belle e grandi preghiere della tradizione cristiana. I bambini conosceranno così a memoria, dopo due settimane di oratorio, sia il Benedictus che il Magnificat, come il Vieni Spirito Creatore, il Vieni Santo Spirito e, oltre all’Ave Maria, anche l’Ave stella del mare, il Regina coeli la Salve Regina e così via.
Ma anche la storia, i giochi, le attività mostreranno loro che la catechesi di Iniziazione cristiana è esperienza e non solo riunione.
I catechisti, dal canto loro, parteciperanno come animatori all’oratorio estivo o, se ciò sarà impossibile, verranno a salutare i bambini, parteciperanno alla preghiera di inizio o fine oratorio, li incontreranno nella messa della sera della domenica, o parteciperanno alle uscite dell’oratorio. Guai se i catechisti e le catechiste salutassero i bambini a maggio per poi rivederli solo ad ottobre. L’oratorio estivo permetterà loro che l’Iniziazione cristiana non si interrompa con l’estate: la comunità cristiana con i suoi catechisti, continua ad accompagnare i bambini dell’Iniziazione cristiana ed i loro genitori anche nel periodo dell’estate.
2/ L’anello di Prisco: un sussidio che si ambienta a Roma. Brevi note di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti su Roma, vedi la sezione Roma e le sue basiliche; sull'Iniziazione cristiana e sull'oratorio, invece, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)
Un’ulteriore novità del sussidio per gli oratori estivi dell’estate 2017 è l’ambientazione in Roma. Tale scelta è nata dal desiderio di far riscoprire agli animatori e ai bambini la bellezza della storia locale di Roma, che è allo stesso tempo storia universale. L’oratorio diviene così un’occasione per conoscere le prorie radici e per correggere visioni distorte di quella stessa storia stessa con le quali i ragazzi sono già venuti a contatto.
Qui le schede che presentano i 4 luoghi di Roma nei quali è ambientato L’anello di Prisco.
L’Altare al Dio ignoto sul Palatino
I pagani dell’età ellenistica non sapevano più se credere alle divinità pagane. Il politeismo non li convinceva più, la violenza del paganesimo li allontanava, così come sentivano che il culto agli imperatori non era vero e sano. Ne è prova un altare al Dio ignoto, simile a quello di cui parla san Paolo negli Atti degli Apostoli quando giunge ad Atene, conservato nel Museo Palatino.
L’iscrizione dell’altare dice: "Sei deo sei deivae sacrum”, cioè “Sia a un dio, sia a una dea consacrato”.
L’uomo che lo consacrò non poteva dire nemmeno se la divinità protettrice cui offriva sacrifici animali su quell’altare fosse maschio o femmina, fosse un dio o una dea. Le regole rituali richiedevano che si conoscesse esattamente il nome della divinità cui ci si rivolgeva perché il sacrificio avesse effetto, ma si aveva anche paura che eventuali avversari conoscessero quel nome e lo si occultava perché non potessero pronunciarlo. Di fatto l’iscrizione denuncia l’incapacità umana di sapere quale sia il vero volto di Dio, quale sia il suo nome: per evitare di non essere ascoltati, si preferisce una formula generica in modo che – si spera – gli dei ascoltino comunque. “Ascoltami, sia che tu sia un dio sia che tu sia una dea, dato che sei sostanzialmente ignoto”.
Da questo punto di vista l’ellenismo è un punto alto e non basso nella storia del pensiero e della religiosità dell’uomo. In quel tempo l’uomo prese coscienza di non poter conoscere Dio con le sole proprie forze. Nessun uomo può fare a meno di Dio: senza Dio tutto è perduto ed ogni vera speranza è morta. Ma d’altro canto Dio lo si può solo invocare, si può solo chiedere che Egli venga, perché noi non siamo in grado di trovarlo. Gli uomini che hanno offerto sacrifici su questo altare avevano il senso di Dio, avevano un senso religioso, ma lo stesso non sapevano bene in cosa credere.
Ogni seria riflessione su Dio non può che partire dall’impossibilità da parte dell’uomo di conoscerLo. Dio è talmente più grande dell’uomo da non poter l’uomo “bucare le nubi” e salire fino a Lui. C’è solo una possibilità: che Dio si riveli. Che Dio colmi quell’abisso che lo divide dall’uomo, “aprendo i cieli”. Solo la “rivelazione” e ancor più l’incarnazione possono far sì che l’uomo conosca Dio e con Lui conosca la verità e l’amore.
Il Carcere Mamertino
Il carcere Mamertino è l’antica prigione di massima sicurezza riservata ai nemici di stato di Roma che attendevano di essere giustiziati. Sulle scale che erano situate al suo fianco venivano esposti al piccolo ludibrio i cadaveri di coloro che venivano strangolati nel carcere o gettati dalla Rupe Tarpea. Venivano insomma esposti i corpi dei nemici di Roma per dare spettacolo e anche come deterrente. La pena di morte, tragicamente, per tantissimo tempo ha fatto parte della giustizia ordinaria nel mondo intero.
L’ubicazione non è casuale. Le fonti attestano che i cortei trionfali degli imperatori, prima di salire a venerare gli dei della triade capitolina in Campidoglio, abbandonassero nel Carcere Mamertino i prigionieri che dovevano essere uccisi, perché fossero rinchiusi, in attesa dell’esecuzione. Questa fu la sorte di Giugurta, il re della Numidia, nel 104 a.C., di Vercingetorige, re dei Galli, decapitato nel 49 a.C., di Seiano, ministro di Tiberio, decapitato nel 31 d.C., dei capi della rivolta giudaica repressa da Vespasiano e Tito.
Il carcere Mamertino prende il nome probabilmente da Mamers (dio sabino corrispondente al latino Marte; doveva esserci un tempio dedicato al dio Marte nelle vicinanze). Venne restaurato negli anni fra il 12 e il 40 d.C., cioè venti anni prima dell’arrivo di Pietro e Paolo a Roma. La datazione risulta dai nomi dei consoli che sono ancora chiaramente leggibili sulla trabeazione, C.Vibio Rufino e M. Cocceio Nerva.
L’edificio si compone oggi di tre livelli. Al livello della strada c’è il carcere Mamertino vero e proprio. Sotto di esso c’è il Tullianum, la parte più terribile, dove si scendeva solo calati attraverso una botola. Di fatto chi veniva fatto discendere nel Tullianum era ormai irrimediabilmente condannato a morte. Tullianum viene o da tullus (polla d’acqua) o da Servio Tullio, il re etrusco che potrebbe averlo fatto. Sopra al carcere Mamertino è stata poi costruita la chiesa di San Giuseppe falegname. Ora l’edificio, dunque, si presenta a tre livelli.
Secondo la tradizione Pietro e Paolo furono imprigionati qui. Scendendo dal carcere al Tullianum, si vede una piccola grata che custodisce il luogo dove avrebbe sbattuto la testa San Pietro, pressato dai soldati. Nel Tullianum si trova una colonna dove, sempre secondo la tradizione, sarebbe stato legato san Pietro e sarebbe sgorgata una sorgente miracolosa con l’acqua della quale poté battezzare i suoi carcerieri Processo e Martiniano, insieme ai loro compagni.
Sia che questa storia sia vera, sia che abbia tratti leggendari, la cosa importante è riaffermare che la testimonianza del martirio fa nascere nuovi cristiani, come dice Tertulliano: Sanguis Martyrum, semen Christianorum (“il sangue dei martiri è il seme da cui nascono i nuovi cristiani”).
Il Colosseo
La costruzione dell’Anfiteatro Flavio iniziò nel 72 d.C. ma l’inaugurazione ufficiale, avvenne nell’anno 80 e durò 100 giorni, durante i quali, secondo la narrazione di Dione Cassio, morirono 2.000 gladiatori e circa 9.000 animali. Il Circo venne completato solamente sotto Domiziano. Tutti e tre gli imperatori appartenevano alla dinastia dei Flavi, da cui il nome. Il nome Colosseo compare per la prima volta intorno all’anno 1000 e si riferisce all’enorme statua raffigurante Nerone (alta circa 36 metri) e poi trasformata con la sostituzione della testa nel Dio Sole, ispirata al Colosso di Rodi.
I Flavi costruirono il Colosseo con il bottino catturato quando distrussero Gerusalemme, sconfiggendo i rivoltosi ebrei nel corso della I guerra giudaica: utilizzarono il luogo che Nerone aveva requisito per la propria casa privata, la Domus Aurea, che aveva nel luogo dove oggi sorge l’Anfiteatro un lago al centro del palazzo.
Il Colosseo è un luogo demoniaco. Dobbiamo inorridire quando lo vediamo esaltare come simbolo di Roma. Del Colosseo i romani si debbono vergognare come di uno dei punti più bassi che siano mai stati raggiunti nella storia della città. Non dobbiamo avere paura di dire che il Colosseo è un luogo che ci deve fare schifo. Ne parliamo per dirne tutto il male possibile, per comprendere l’abisso di orrore che vi si è consumato.
I giochi giunsero a Roma alla metà del II secolo a.C. con origini tuttora discusse – forse etrusche o campane. Ma è a Roma che ebbero il massimo sviluppo. Divenne famosa l’espressione panem et circenses. Il potere politico, per tenere sotto controllo la popolazione, offriva gratuitamente il pane – a Roma i cittadini avevano diritto alla distribuzione gratuita del grano – e i giochi circensi. Bastava offrire, oltre al grano, lo svago del circo per essere sicuri che la popolazione non si sarebbe ribellata, presa come era dai suoi “divertimenti”. Agostino, nei suoi scritti, si pone la domanda serissima: perché i giochi erano più amati di Cristo? Perché i gladiatori interessavano più del Vangelo? Si noti che tale domanda serissima era aggravata dal fatto che allora tali “divertimenti” comprendevano la morte fisica e cruenta di tante persone, ma una domanda simile deve essere posta anche dinanzi ai moderni divertimenti che prolungano il Circo. Si pensi alla corrida spagnola – ultimo resto dei giochi gladiatori, dove l’uomo non lotta con altri uomini e bestie, ma solo con una bestia particolare, il toro – ma anche al calcio, dove uomini lottano fra di loro, senza doversi più uccidere per vincere. Perché il popolo ama più il calcio del Vangelo? Perché osanna più i calciatori di Cristo?
Certo è che gli imperatori sapevano bene che il pane non era sufficiente per tenere quieta la popolazione: alla popolazione non basta il pane, anche i pagani sapevano che “non di solo pane vive l’uomo”. Ciò che essi offrivano oltre al pane era il “divertimento”, il tifo nella lotta per la sopravvivenza del gladiatore amato.
Ebbene non ci fu una vera opposizione ai giochi gladiatori fino all’avvento del cristianesimo che per primo li criticò. Si trova qualche voce critica, ma mai in maniera radicale.
I cristiani, invece, furono contrari fin dall’inizio ai giochi gladiatori, soprattutto per l’assurdità di accettare l’uccisione di essere umani, spettacolarizzandola. Non fu solo il ricordo dei martiri cristiani a determinare l’opposizione più netta, ma una critica radicale tout court. Ma certamente la testimonianza dei martiri fu decisiva nel processo che portò al rigetto dei Giochi Gladiatori. Fra i tanti che vennero uccisi nell’arena, infatti, colpì l’immaginazione degli spettatori proprio la morte di persone totalmente innocenti che offrivano la loro vita pregando per i loro assassini. Fra questi una delle figure certamente più importanti è sant’Ignazio di Antiochia, un vescovo della Siria-Palestina di allora – vescovo di Antiochia di Siria, appunto, oggi in Turchia – che scrisse lettere alle comunità di diverse città, mentre veniva condotto prigioniero a Roma per il martirio. Il suo viaggio a Roma ed il suo martirio vengono datati intorno all’anno 110/111. Fra gli altri, si rivolse ai Romani. In questa lettera egli chiede ai cristiani di Roma – alcuni di essi erano già probabilmente vicini alla casa imperiale -, di non difenderlo, di non salvarlo dalla condanna a morte, di lasciarlo morire perché possa dare l’estrema testimonianza a Cristo:
«Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla» (IV,1-3).
Ignazio - è evidente - si aspetta di morire sbranato dalle belve, probabilmente al Colosseo.
Il Tevere
L’isola Tiberina è il motivo del sorgere di Roma. Nell’ansa che il Tevere realizza in quel luogo, l’acqua del fiume rallenta la sua corsa e ha permesso nei secoli l’emergere dell’isola stessa. Quel luogo è quindi divenuto in antico il passaggio per guadare il fiume. Pian piano i romani hanno poi costruito i diversi ponti. Sui ponti vicino all’isola Tiberina possiamo immaginare il passaggio di san Pietro e di san Paolo, come dei primi cristiani. Infatti, la zona di Trastevere (“al di là del Tevere” rispetto al centro della città) era quella maggiormente abituata dai mercanti che venivano dal vicino oriente e si può immaginare che lì abbiano risieduto anche i due apostoli in qualche momento della loro permanenza a Roma o comunque vi si siano recati per visitare le comunità cristiane della città.
Certamente i primi cristiani sono stati battezzati nel fiume. Bisogna ricordare che i muraglioni del fiume vennero realizzati solo dopo l’Unità d’Italia, quindi dopo il 1870, mentre in età romana si scendeva facilmente dalle vie della città alla riva sabbiosa del fiume. I cristiani scendevano allora al fiume, che allora doveva essere molto pulito, e vi battezzavano chi chiedeva di diventare cristiano.
Il Tevere fu il luogo abituale del Battesimo a Roma fino alla costruzione dei primi battisteri. La tradizione cristiana esige che si battezzi in acqua corrente e non in acqua stagnante, per dire la vita divina che raggiunge chi riceve il Battesimo.
Tertulliano, uno scrittore cristiano di origine africana, così scrive del Battesimo nel Tevere:
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!» (De baptismo 2,3).
3/ Le catechesi per le 4 settimane de L’anello di Prisco, di suor Pina Ester De Prisco
Riprendiamo sul nostro sito le catechesi scritte da suor Pina Ester De Prisco per l’ORES 2017. Vedi anche la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)
I/ L’altare al dio ignoto: la ricerca della verità (Atti 17,16-31)
L’annuncio del vangelo di Paolo continua in modo più impegnativo, mentre siamo nel suo secondo viaggio missionario.
Arriva ad Atene, città tendenzialmente aperta alle differenze, al confronto - culturalmente elevato - curiosa e abituata alla novità, e rimane sconcertato dai tanti idoli presenti. Atene è una città simbolo della predicazione di Paolo ai pagani ed è un caso simbolico di come si facesse ricorso alla sapienza profana per combattere il paganesimo. Paolo, arrivando in città, freme dentro di sé alla vista di tanti idoli: immagini, oggetti qualsiasi, elevati a divinità e adorati come tali. Dinanzi a tale vista non si chiude al diverso, ma entra in contatto, attraverso il dialogo e la conoscenza. In primis parla con i giudei e i pagani convertiti al cristianesimo nella sinagoga, ma non si ferma a quelli della sua cerchia, a coloro che condividono il suo stesso credo, in un luogo familiare per lui quale poteva essere la sinagoga, ma arriva alla piazza, all’agorà - luogo di incontro per eccellenza.
Paolo parla con tutti, senza escludere né attaccare nessuno, vuole capire le differenze, e coglierne la ricchezza e per farlo dialoga con coloro che incontra: filosofi epicurei e stoici - le due principali scuole filosofiche di allora; decide di discutere, cercare e conoscere, senza impaurirsi davanti al nuovo e al diverso. Per la prima volta ad Atene si pone il problema del rapporto tra cristianesimo e cultura, o meglio l’evangelizzazione in un contesto culturale diverso da quello delle origini, ossia della Giudea.
L’atteggiamento di Paolo sulla piazza di Atene è quello di un ascolto sincero, non dettato dal relativismo, né dall’accettazione passiva, ma consapevole che il suo viaggio ha uno scopo preciso: annunciare la Parola!
Tutti discutono con lui - anche filosofi di diversa formazione - e la presenza di Paolo crea come un coinvolgimento tra tutti - seppure con nette differenze.
Alcuni cominciano a osservare Paolo e pensano che sia un impostore, perché annunzia Gesù e la resurrezione dai morti, ma al tempo stesso sono incuriositi da tale annuncio e lo conducono all’Areopago per interrogarlo sulla dottrina da lui insegnata.
L’Areopago è il nome di una collina posta a sud dell’agorà e indica anche il supremo tribunale di Atene, dove in passato si tenevano le sedute. Il testo può significare due cose: che Paolo sia condotto sulla collina perché gli ateniesi possano ascoltarlo con più comodità, oppure che sia condotto dinanzi alla corte. In entrambe le possibilità, Paolo pieno di coraggio sceglie di annunciare il Dio di Gesù Cristo. Ma prima di annunciare, di parlare di Gesù, Paolo ha ascoltato, si è fatto prossimo, è restato in silenzio, ha osservato, ha guardato negli occhi coloro che incontrava. Per annunciare, Paolo sceglie di partire da ciò che ha osservato entrando in città, da ciò in cui credono gli ateniesi, dal loro timore per gli dèi e dalla costruzione di templi come il Partenone e monumenti adibiti al culto e finanche da un altare dedicato al dio ignoto - un dio di cui non si sa nulla. Paolo insiste sul fatto che adorano un dio senza conoscerlo, e invece il Dio che Paolo annuncia si è fatto conoscere in Gesù Cristo. Ecco, Paolo evangelizza gli ateniesi a partire dalle loro categorie, non annuncia in astratto, ma dal contesto prossimo. Ha capito che gli idoli da loro costruiti sono il tentativo di cercare qualcosa, senza però averlo trovato.
Paolo in opposizione a quanto osservato in città, annuncia Dio creatore del cielo e della terra che non può essere imprigionato in templi o oggetti o statue, perché è un Dio che vuole servire l’uomo, e non essere servito! Dio ha creato l’uomo, dandogli uno spazio e un tempo in cui muoversi, perché l’uomo possa mettersi in ricerca di Dio, ma evidenzia anche la difficoltà di trovarLo.
La ricerca di Dio è un dono, e Paolo ne ha fatto esperienza, sulla via di Damasco. In quell’incontro non c’era nessun merito da parte di Paolo, nessun elemento a favore di tale Incontro. Ma Paolo ha sperimentato l’appartenenza a Dio e sa che in qualche modo Egli verrà a cercarci, seppure nella confusione di ciò che viviamo, tra i nostri idoli, tra il nostro nulla, tra le cose ignote della nostra vita. Solo cercati da Dio troveremo un senso alla nostra ricerca.
Paolo continua il suo annuncio affermando che la prova che Gesù era il Messia e il Figlio di Dio è stata certificata nella sua resurrezione dai morti. Sul tema della resurrezione l’ascolto si interrompe bruscamente e Paolo abbandona la riunione. Due di loro, però, aderiscono al suo insegnamento: Dionigi e Dàmaris. In un contesto di totale fallimento, la Parola avanza con verità e coraggio e trova accoglienza nel cuore di qualcuno la verità di Gesù il Nazareno.
II/ “Desideriamo qualcuno da ascoltare e con cui conversare…”. L’Elogio all’Amore di Paolo (1Cor 13,1-13)
L’inno alla carità - così conosciuto - è uno degli inni più utilizzati, anche dal mondo laico. Un elogio all’amore forte e realistico.
L’inno è inserito nel discorso che Paolo rivolge ai Corinti sulla diversità e unità dei carismi; è certo che ci fossero delle difficoltà e divisioni all’interno della comunità e per rimettere ogni cosa al suo posto, Paolo, nella sua esortazione, utilizza la metafora del corpo e delle sue parti, per significare l’importanza di ciascun membro al suo interno.
Un’immagine semplice per mostrare che, spesso però, anche ciò che è chiaro, viene messo in discussione e sottovalutato nelle crisi relazionali. Sì, perché il problema che Paolo deve affrontare è quello della relazione e il corpo è il modo più immediato per dirne la varietà e l’unità: difatti un corpo pur composto da varie membra sussiste grazie alla sua integrità. Il problema relazionale si esprime nell’invidia e nella gelosia per i servizi che vengono svolti e dunque il senso ultimo è che non tutti siamo chiamati a svolgere le stesse opere, ma tutti siamo chiamati ad amare.
Ce lo insegna meravigliosamente santa Teresa del Gesù Bambino, la quale desiderava andare in missione ad gentes, per essere annunciatrice del vangelo fino ai confini della terra, ma la sua salute precaria e la scelta di monaca carmelitana le impedirono di partire. Ma non impedirono al suo cuore di essere missionario e infatti Teresa capì che aldilà dei servizi, dei ministeri, dei carismi che il Signore ci dona, aldilà di tutto, in primis, c’è l’Amore! Celebre è la sua espressione: “Nella Chiesa, mia madre, io sarò l’amore!” E nell’amore si può vivere ogni realtà desiderata, anche quella più lontana, perché l’amore accorcia le distanze e ci permette di “abitare il mondo”. Una monaca carmelitana ha sentito che il suo cuore poteva battere per il mondo intero: pregare per i missionari, offrire le sue giornate per la salvezza del mondo, e contribuire all’annuncio del vangelo dal suo monastero e con la sofferenza della sua malattia.
Torniamo a Paolo, il quale dopo aver elencato i vari carismi presenti nella Chiesa - gli apostoli, i profeti, i maestri, coloro che fanno i miracoli e operano guarigioni, chi ha il dono delle lingue e del governo -, addita un carisma più grande, migliore di tutto: la via dell’amore.
Ed è vero che per tutta la vita l’uomo cercherà sempre le tracce dell’amore: nella ricerca di essere amati e nella scelta di amare. L’amore, infatti, non si esaurisce in pochi atti, ma dura tutta la vita.
Per celebrare la centralità dell’amore, Paolo mette da parte la sapienza, la scienza, la profezia, la pienezza della fede, la povertà, il martirio, tutto è considerato relativo rispetto al dono dell’amore, del quale ne elenca le qualità.
Come il corpo non può vivere senza le sue parti, così l’integrità dell’amore è data dalla sua unitarietà.
Noi tutti desideriamo essere amati e quando delle persone ci piacciono, lo desideriamo ancora di più. Voler essere amati significa: desiderare di essere guardati, essere al centro, essere ascoltati, essere capiti, avere qualcuno che si sacrifica per noi. Ma l’amore non può essere unilaterale. E lo esprime bene un filosofo tedesco, affermando: «L’amore ci fa desiderare di essere in due, di avere “qualcuno dotato di una bocca cosicché lo si possa ascoltare, qualcuno con cui conversare cosicché possa accadere qualcosa» (Franz Rosenzweig). Sì, l’amore ha bisogno di una persona concreta che ci stia di fronte, che ci faccia da specchio, da pungolo, che ci faccia sperimentare la fatica di amare, perché le caratteristiche che Paolo descrive dell’amore sono quelle di un amore che si costruisce giorno per giorno in una relazione faticosa, ma bella. Noi tutti sperimentiamo il desiderio della relazione e il suo sforzo in tanti contesti relazionali, dalla famiglia di origine alle amicizie, dai compagni di viaggio ai fidanzati. Tutto il campo relazionale è segnato dalla gioia di non essere soli al mondo e quindi dalla condivisione dei nostri vissuti, ma anche dalla fatica del camminare insieme.
Ricordo che una volta mi capitò di osservare un gruppo parrocchiale composto da giovanissimi che con il loro parroco facevano un’escursione in montagna e con loro c’era una ragazza con evidente sovrappeso che faceva molta fatica ad affrontare la ripida salita e il suo respiro era ormai diventato corto. Due sue compagne si sono fermate con lei per farle riprendere fiato e una delle compagne le ha proposto di fermarsi lì e aspettare che il gruppo riscendesse, che anche da lì avrebbero potuto godere il magnifico spettacolo della valle sotto i loro occhi. Ma dopo una pausa abbastanza lunga la ragazzina che più faticava a salire, propose di continuare la salita e un po' alla volta arrivarono in cima, raggiungendo gli altri. Appena arrivate, furono accolte con applausi e abbracci; un caldo e affettuoso benvenuto per chi, nonostante le difficoltà legate al peso e alla fatica della salita, aveva cercato di dare il meglio per condividere con tutto il gruppo la gioia di avercela fatta, ma anche per chi ha deciso di aspettare con lei e magari rinunciare ad arrivare alla meta, pur di non lasciarla sola. Ed è proprio vero che l’amore genera altro amore, altro calore. Ci fa guardare con occhi diversi la realtà e anche se a volte costa fatica - sempre e comunque - riscalda i cuori.
III/ «Che cos’è la verità?». L’incontro di Pilato con Gesù alle porte del pretorio (Gv 18,28-19,11)
Il processo di Gesù continua: dal sinedrio (luogo in cui si è svolto il processo religioso dinanzi ad Anna e Caifa) al pretorio (tribunale del procuratore romano).
Coloro che accompagnano Gesù nei luoghi dei processi decidono di non entrare nel pretorio per non contaminarsi, perché la Pasqua è ormai vicina. Pilato, conoscendo le usanze religiose, esce verso di loro per chiedere quale sia l’accusa contro Gesù. La risposta è: “Te l’abbiamo portato perché è un malfattore”; un giudizio netto, prima di qualsiasi sentenza. Pilato non vuole accettare tale processo e chiede che siano loro a prendersi carico della condanna, secondo la loro legge. Ma i rappresentanti del sinedrio, che hanno condotto lì Gesù, avanzano nella loro richiesta, affermando che la loro legge non può dare la morte a nessuno e quindi sono lì per appellarsi alla legge romana. Il governatore romano non può tirarsi indietro e deve entrare in causa, dato che i romani avevano tolto al sinedrio il diritto di vita e di morte, quindi senza il suo intervento, Gesù non avrebbe potuto ucciso. Sembra dunque che le idee sul destino di Gesù siano già ben chiare: Gesù deve morire. Inizia l’interrogatorio di Pilato, la sua prima domanda è di ordine politico, dato che Pilato non poteva immischiarsi in argomenti di natura religiosa. La regalità a cui fa riferimento Pilato nella domanda che rivolge a Gesù è l’unica accusa per la quale sarebbe stato possibile condannarLo, da parte di Pilato, se si fosse trattato di un’insidia per il potere romano. Gesù sa di essere diventato una pedina tra giudei e romani e che per la sua condanna bastano solo parole sospettose, senza alcuna prova.
Ma anche Pilato è una pedina nelle mani di coloro che vogliono condannare Gesù, e il suo è un contesto tormentato e difficile: l’occupazione del governo romano in Giudea. Pilato cerca di difendersi dinanzi alle accuse infondate rivolte a Gesù, affermando la sua superiore romanità a dispetto della Giudea. Gesù nella sua risposta gioca con la categoria del regno: “il mio regno non appartiene a questo mondo”, la regalità che Gesù personifica è la verità, ne è testimone, e Pilato ne viene a contatto, ricercandola, nella domanda che rivolge a Gesù: «Che cos’è la verità?».
Pilato dopo la sua domanda esce dal pretorio incontro alle persone radunate dal sinedrio e afferma di non aver trovato in lui nessuna colpa. Essi, però, sono ben determinati a volere l’uccisione di Gesù e quindi Pilato pone dinanzi a loro una scelta - come all’inizio – e vuole che siano loro stessi a decidere la sorte di Gesù, perché ha compreso che la condanna è ingiusta e cerca di tirarsi fuori.
Nella scelta, essi chiedono la liberazione di Barabba, un ladro. A tale decisione, fa seguito la flagellazione di Gesù, l’umiliazione degli schiaffi e la derisione come re. Alla fine della dura violenza, Pilato decide di riportarlo fuori dal pretorio per mostrare ai presenti la punizione subita e quindi affermare che Gesù non può essere condannato a morte.
Alla vista di Gesù maltrattato e torturato, Pilato esclama: “Ecco l’uomo”, non più “Ecco il re dei giudei”, ma ecco l’Uomo. Pilato riconosce in Gesù un’umanità alta. Ma tutti continuano a volere la sua morte e Pilato, ancora una volta, esorta loro stessi a caricarsi della condanna, ma essi si appellano alla legge, secondo cui solo il governatore romano poteva dare la morte. Pilato allora viene preso dalla paura e, rientrato nel pretorio, interroga di nuovo Gesù. Ma Gesù non risponde e Pilato incalza dicendogli che lui avrebbe il potere di liberarlo o condannarlo, ma Gesù rimanda Pilato a un potere più alto, quello che viene dal suo regno. Non è questione di poteri umani, ma è una battaglia tra regni: il male e il Bene. Pilato ha ormai capito che, sotto l’apparente storia di un uomo condannato a morte, si svela una storia singolare. I giudei, invece, hanno capito che Pilato è titubante e vuole prendere tempo, ma essi pressano Pilato, affermando che se libera Gesù non è amico di Cesare, ossia del potere romano e quindi si mette contro quel potere che l’ha posto in tale incarico. Chi si fa re, si mette contro Cesare; se dunque libera Gesù sarà traditore di Cesare e accusato come inadempiente della legge. Ma Pilato sapeva bene che nessun pericolo poteva venire a lui e al suo potere da quel Gesù e dai suoi discepoli. Ma deve rassegnarsi e consegnare Gesù nelle loro mani. Il sinedrio, accusandolo in modo ineludibile di contravvenire con il suo insegnamento alla Legge di Mosè, non può accettare che Gesù si ponga sullo stesso piano di Dio. Pilato sa che Gesù non è politicamente pericoloso. È invece il sinedrio che Pilato deve temere: se non avesse acconsentito alla condanna a morte - già data -, i suoi rappresentati avrebbero sobillato il popolo e ci sarebbe stata una rivolta a Gerusalemme.
Un'immagine forte ci lascia l’episodio del processo dinanzi a Pilato. Due uomini, uno di fronte all'altro. Uno rappresentante del potere, l'altro legato ed in balia degli eventi. Eppure, tra i due è Pilato a non essere davvero libero, perché vincolato dalla necessità di tenere in piedi troppi equilibri politici. Gesù, pur essendo legato da una condanna è capace di assumere fino in fondo la sua libertà, scegliendo il “potere” del Bene e della Verità, quel “potere” che ci fa davvero “Uomo”.
IV/ «Che cosa mi impedisce di essere battezzato…?». L’incontro tra Filippo e l’eunuco (At 8,26-40)
Dopo la lapidazione di Stefano - a cui era presente anche Saulo - alcune persone lo seppellirono.
In seguito all’uccisione di Stefano scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nella regione della Giudea e della Samaria. Coloro che furono dispersi, comunque, continuarono ad annunciare la Parola di Dio.
Filippo compare per la prima volta in At 6, perché gli ellenisti (i cristiani di lingua greca) mormorano contro i cristiani di origine ebraica, che dimorano nella terra di Israele e parlano aramaico. C’è un problema di tipo pratico perché, secondo gli ellenisti, le vedove erano trascurate nell’assistenza quotidiana caritativa; viene dunque deciso di individuare sette uomini che possano occuparsi della cura dei poveri, tra cui le vedove.
Gli apostoli, invece, continueranno ad occuparsi della preghiera e della predicazione della Parola. Filippo viene nominato tra i sette, subito dopo Stefano, il primo a subire il martirio. All’interno del libro degli Atti, Filippo è protagonista in due episodi. Il primo si svolge in Samaria, a nord di Gerusalemme (At 8,5-8), il secondo a Gaza, a sud di Gerusalemme (At 8,26-40). Filippo si accosta a situazioni molto periferiche, sia in ordine religioso che culturale; infatti i samaritani e l’etiope eunuco sono entrambi una realtà di confine.
La struttura del brano è molto lineare, segue la costruzione di un racconto. C’è un’introduzione e la presentazione dei personaggi, un incontro provocato dallo Spirito Santo, un dialogo sulla lettura di un brano del profeta Isaia (Is 53,7-8), il battesimo dell’eunuco e la separazione improvvisa dei personaggi.
Il brano si apre con un dialogo tra l’angelo e Filippo, che condurrà quest’ultimo all’incontro con l’eunuco sulla strada che da Gerusalemme scende a Gaza. L’angelo parla a Filippo, mentre egli si trova con Pietro e Giovanni. Filippo obbedisce alla parola ricevuta dall’angelo e si mette in cammino. Quando ecco, sulla strada, avviene l’incontro con l’eunuco etiope.
L’eunuco è uno tra i personaggi più misteriosi della Scrittura, proveniente dall’Etiopia (paese di Kûsh) che corrisponde all’odierna regione della Nubia (parte settentrionale del Sudan): si tratta, dunque, di un africano. Un’antica tradizione vuole che in Etiopia ci fosse una comunità ebraica dai tempi della regina di Saba, moglie di Salomone. La parola “eunuco” compare quattro volte nel brano e può fare riferimento sia a un uomo evirato, sia a un alto funzionario, un uomo di fiducia del re. Comunque nel caso in cui la parola “eunuco” sia usata nel senso strettamene fisico, si realizzerebbe la Parola del profeta Isaia, che annuncia la riammissione degli eunuchi al culto perché essi, non potendo portare nella carne il segno della circoncisione, erano considerati fuori dall’appartenenza religiosa ebraica. Ma qui è molto più probabile che si tratti del responsabile amministrativo e finanziario dello stato, di un cancelliere. E Candace non sia un nome proprio, ma un titolo, come per esempio “faraone”.
In ogni caso l’eunuco compendia in sé due categorie di emarginazione e umiliazione: lo straniero e il leso fisicamente.
La Scrittura dice che l’eunuco era salito a Gerusalemme per il culto: era dunque di ritorno dal pellegrinaggio alla città santa.
Il dialogo tra i due viene descritto con domande e risposte, con al centro la citazione isaiana, uno dei testi del “servo sofferente”, che erano particolarmente rilevanti nelle catechesi della Chiesa primitiva. L’evento Gesù interpellava drammaticamente il mondo giudaico sull’interpretazione delle Scritture. Chi era quel “servo” annunziato da Isaia, che avrebbe preso su di sé il peccato della moltitudine? L’eunuco non sapeva rispondere e nessuno era stato in grado di farlo fino alla venuta di Cristo. Solo la morte di Gesù corrispondeva a quell’antico annuncio. Da qui si dipana la catechesi di Filippo su Gesù di Nazaret. È probabile che si tratti di un modello di catechesi pre-battesimale della Chiesa primitiva.
Mentre procedono nel cammino, lungo la strada, incontrano una sorgente d’acqua, e l’eunuco - dopo aver ascoltato Filippo, avverte il desiderio di “appartenere a Gesù” e chiede se c’è possibilità di essere battezzato. Chi è ai margini - come l’eunuco - crede sempre di avere qualcosa che gli impedisce di essere pienamente ciò che desidera, impedimenti alla pienezza e chiede a Filippo: “Cosa mi impedisce di essere battezzato?”. Ma Dio ha tolto ogni impedimento alla salvezza. Chi è alle periferie non è più escluso o ai margini, ma viene fatto partecipe del disegno della salvezza.
L’eunuco riceve il battesimo, non c’è bisogno che esprima il suo credo, o che Filippo gli faccia domande sulla sua fede. L’eunuco ha letto le Scritture da solo, si è interrogato, ha ascoltato l’annuncio di Gesù Cristo da parte di Filippo e ha capito che desiderava diventare cristiano. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Il testo è scarno perché la manifestazione di Dio è senza orpelli, senza chiacchiere inutili. Subito dopo il battesimo Filippo viene rapito dallo Spirito Santo e portato in un altro luogo, mentre l’eunuco prosegue il suo cammino nella gioia. Si è realizzato l’essenziale: il desiderio di un uomo di essere battezzato e scegliere il Bene. Ora prosegue sulla sua strada, ma essa è diventata la Via: Cristo Gesù.
4/ STRUTTURA della PREGHIERA per l'ORES 2017
Riprendiamo sul nostro sito alcune note redatte dal COR sulla proposta di preghiera per l’ORES 2017.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2017)
Il percorso di preghiera proposto per quest'anno parte dalla preghiera della Chiesa, la liturgia delle ore, proposta in modo semplificato in modo da adattarsi anche ai più piccoli.
Si ipotizza l'inizio dell'ores il 12 di giugno e la preghiera segue le quattro settimane del salterio, perciò in caso di utilizzo del sussidio in altri periodi, si renderà necessario un adattamento.
La struttura prevede tre momenti di preghiera nell'arco della giornata, uno dedicato agli animatori, l'altro con tutti i bambini ei ragazzi:
PER GLI ANIMATORI:
breve momento di preghiera con l'inno delle Lodi del giorno, la lettura breve seguita da un breve riflessione del sacerdote e da un momento di silenzio, quindi una preghiera di invocazione allo Spirito Santo.
PER TUTTI:
INIZIO GIORNATA: dalle lodi del giorno un salmo, la lettura biblica, il Benedictus (anche cantato), un momento di silenzio, le invocazioni e il Padre Nostro.
Il lunedì verrà letto il brano biblico settimanale, il venerdì il Vangelo della domenica successiva, su cui i gruppi lavoreranno nel pomeriggio, nelle altre giornate (martedì, mercoledì e giovedì) il Vangelo del giorno.
FINE GIORNATA: il Magnificat seguito da un momento di silenzio, una antifona mariana dalla compieta ed una preghiera mariana.
Affinché la messa domenicale non vada in vacanza con la chiusura delle scuole, e per riscoprirne insieme il carattere festoso e comunitario, si suggerisce che la domenica sera, orientativamente alle 19:00, sia celebrata la messa domenicale dell'Ores, con tutti gli animatori, i bambini e i loro genitori. Si può prevedere anche una celebrazione all'aperto, se gli spazi lo consentono. Dopo la celebrazione, sempre se possibile, può seguire un breve momento di animazione, con i canti e i ban dell'Ores. Suggeriamo di proseguire offrendo a tutti un aperitivo o la stessa cena. I papà possono essere invitati a giocare a calcetto e le mamme a pallavolo, oppure si può pensare ad un gioco per genitori e figli, di modo che la sera della domenica sia festa per tutti.
La celebrazione della domenica potrebbe essere preparata a turno dai vari gruppi, nel pomeriggio del venerdì (i Canti, l'offertorio, le Preghiere dei Fedeli...)